clinical management issues 2010; 4(suppl. 4) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 33 luca masotti 1 conclusioni la disfunzione endoteliale rappresenta il primum movens di gran parte della patologia vascolare, sia arteriosa sia venosa. l’alterazione del glicocalice, strato più superficiale dell’endotelio, ricco di glicosaminoglicani, potrebbe rivestire il ruolo principale nella disfunzione endoteliale. farmaci che agiscono ripristinando l’omeostasi endoteliale potrebbero contribuire al controllo della progressione della patologia vascolare arteriosclerotica e venosa. sulodexide, farmaco biologico naturale, costituto da una miscela di gags, andando a ripristinare l’alterazione strutturale del glicocalice endoteliale, potrebbe rappresentare la giusta risposta alla disfunzione endoteliale. sebbene l’indicazione terapeutica storica di sulodexide sia rappresentata dal trattamento delle ulcere degli arti inferiori secondarie a insufficienza venosa cronica, negli ultimi anni numerose evidenze della letteratura dimostrano l’efficacia di sulodexide in altre patologie di rilevante impatto medico e sociale quali l’arteriopatia obliterante periferica e la nefropatia diabetica, condizioni nelle quali la disfunzione endoteliale riveste appunto un ruolo fondamentale e sulle quali sulodexide sembra avere importanti effetti di tipo antinfiammatorio e antitrombotico. 1 dirigente medico medicina interna, ospedale di cecina, livorno, professore a contratto, università di siena disclosure il presente supplemento è stato realizzato grazie al contributo di alfa wasserman introduzione fisopatologia endoteliale, glicosoamminoglicani e glicocalice sulodexide. farmacocinetica, farmacodinamica e meccanismo d’azione sulodexide. la risposta in profilassi e terapia alla disfunzione endoteliale conclusioni ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) clinical management issues 3 mauro campanini 1 introduzione a torino il 13 e 14 novembre 2009 si è svolto l’incontro scientifico “i giovani internisti, il futuro della medicina interna in piemonte… incontrano la fadoi”. il professor nino mazzone, presidente nazionale della fadoi (federazione associazione dirigenti ospedalieri italiani), nella sua introduzione al corso ha sottolineato l’importanza che la nostra società scientifica attribuisce ai giovani internisti, alla loro formazione, a un loro coinvolgimento diretto nelle attività culturali. pertanto non solo un ruolo di partecipanti, di uditori, ma un ruolo attivo nel pensare, strutturare e presentare una loro esperienza clinica. in occasione del convegno, infatti, i giovani internisti hanno presentato un caso clinico e il moderatore delle singole sezioni tematiche ha condotto la discussione, estremamente attiva e stimolante, che ha permesso di far emergere numerose criticità in ambito internistico. la riunione scientifica è stata articolata in sei sessioni, tre al venerdì pomeriggio in tema di gastroenterologia, malattie infettive ed ematologia. il sabato mattina, dopo una lettura di tipo metodologico del dottor roberto nardi, sono riprese le sedute ordinarie con l’esposizione di casi clinici e relativa discussione in ambito di tromboembolismo venoso, cardiovascolare e respiratorio. riteniamo che l’incontro scientifico sia stato un momento di estrema importanza per la crescita della nostra società scientifica, la fadoi, ma più in generale per tutta la medina interna. infatti i giovani internisti, supportati da colleghi esperti nei vari settori della medicina interna, sono stati i veri protagonisti dell’evento scientifico, inserendosi pertanto a pieno titolo nella vita culturale della nostra società. uno dei principali ruoli della fadoi è proprio quello di promuovere una partecipazione alla formazione e alla ricerca, degli internisti in generale e dei giovani medici in particolare, proprio perché sono le persone che con il loro entusiasmo e la loro vivacità culturale costituiscono… il futuro della medicina interna, e possono pertanto contribuire a un’ulteriore “crescita” della nostra specialità. un ulteriore elemento di grande importanza è stata la possibilità della pubblicazione, nel presente supplemento alla rivista clinical management issues, dei casi clinici presentati; ciò costituisce, dal punto di vista metodologico, il completamento del percorso formativo e culturale. pertanto va posto, da parte di tutto il consiglio direttivo fadoi regione piemonte, un sentito ringraziamento sia alle industrie farmaceutiche che hanno reso possibile l’incontro scientifico sia alla casa editrice seed per la pubblicazione degli atti. editoriale 1 presidente fadoi regione piemonte corresponding author dott. mauro campanini mauro.campanini@ maggioreosp.novara.it cmi 2015;9(suppl 1)3-5.html l’infezione da c. difficile: dimensione del problema e costi associati laura fascio pecetto 1 1 coordinamento editoriale rivista cmi, seed medical publishers   c. difficile infection: extent of the problem and associated costs cmi 2015; 9(suppl 1): 3-5 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i1s.1161 editoriale corresponding author laura fascio pecetto l.fasciopecetto@edizioniseed.it disclosure il presente supplemento è stato realizzato con il supporto di astellas pharma s.p.a. dimensione del problema il clostridium difficile è la più importante causa infettiva di diarrea nosocomiale nei paesi industrializzati. benché i dati relativi all’incidenza varino molto da paese a paese, appare chiaro che sia aumentata negli ultimi dieci anni. in parallelo è stato registrato anche un incremento della gravità e della prevalenza del ribotipo ipervirulento 027 [1]. il problema è anche più vasto di quanto potrebbe sembrare in quanto l’infezione da clostridium difficile (cdi) è spesso sottodiagnosticata, come ha rivelato lo studio euclid, condotto su larga scala [1]. in questo studio prospettico multicentrico di prevalenza puntuale è stato chiesto a 482 ospedali di 20 paesi europei di inviare al laboratorio nazionale di riferimento tutti i campioni di feci diarroiche raccolti nell’ospedale in due giornate specifiche a distanza di 6 mesi l’una dall’altra. sono stati inoltre raccolti i dati relativi a incidenza di cdi e metodiche diagnostiche utilizzate dall’ospedale. i laboratori nazionali di riferimento hanno effettuato i test per la diagnosi di c. difficile secondo le metodiche raccomandate dalle linee guida escmid del 2009 [2], cioè effettuando sia il test per l’antigene, sia quello per le tossine a e b, ritestando i campioni negativi ed effettuando ulteriori test di conferma nei casi dubbi. in tutto nelle due giornate sono stati testati 7.297 campioni. i test dei laboratori nazionali di riferimento sono stati confrontati con quelli effettuati dagli ospedali partecipanti. i risultati sono stati sorprendenti: il 23% dei campioni risultati positivi nei laboratori di riferimento non era stato testato per c. difficile nell’ospedale partecipante. quasi un quarto delle diagnosi di infezioni da c. difficile, pertanto, non viene effettuata per assenza di sospetto clinico. per avere una stima più accurata delle cdi non diagnosticate, a questa percentuale occorre aggiungere quella relativa ai falsi negativi, che ammonta a 1,5%. i falsi positivi, invece, sono stati il 5,2% e l’adozione di metodiche diagnostiche conformi alle linee guida nel tempo intercorso tra la prima e la seconda giornata di campionamento ha consentito di diminuirne sensibilmente la percentuale (come avvenuto in repubblica ceca). in effetti tra la prima e la seconda giornata di test le percentuali di ospedali partecipanti che adottavano i test ottimali sono salite dal 32% al 48%. il regno unito, che ha la maggior diffusione di metodiche diagnostiche conformi alle linee guida, ha fatto rilevare bassi tassi di falsi positivi e di falsi negativi. variabilità notevoli sono state rilevate nell’incidenza di test per c. difficile effettuati e di diagnosi di cdi. estendendo l’orizzonte temporale di questi risultati relativi a 482 ospedali europei, si arrivano a calcolare 40.000 diagnosi mancate di cdi all’anno. tale dato appare ancora più impressionante alla luce del fatto che gli ospedali partecipanti erano un piccola rappresentanza del totale degli ospedali presenti nella zona considerata, che ammonta a circa 8.000. inoltre i dati di incidenza dichiarati dagli ospedali partecipanti sono inferiori di 2,4-2,9 volte rispetto a quelli rilevati nelle due giornate di campionamento. l’aspetto economico l’incremento dell’incidenza e della gravità della cdi ha avuto anche un notevole impatto economico sui servizi sanitari nazionali e a livello di costi per la società. tuttavia sono pochi gli studi che abbiano calcolato il costo di malattia della cdi, e sono stati effettuati principalmente nel contesto statunitense. magalini e colleghi hanno invece effettuato una valutazione economica dei costi sanitari diretti dell’infezione da c. difficile nella realtà italiana basandosi su un’analisi retrospettiva su 133 pazienti ricoverati nell’arco di 26 mesi al policlinico gemelli di roma a cui è stata diagnosticata la cdi [3]. i costi medi per paziente sono stati di 15.029,21 € e il principale driver di costo è stato quello relativo alla degenza, pari a quasi il 93% del totale. gli esami di laboratorio, i costi addizionali per l’isolamento e quelli per la degenza nel reparto di terapia intensiva hanno avuto un peso decisamente inferiore (di 2,28%, 2% e 1,67% rispettivamente), mentre gli altri elementi considerati, tra cui ad esempio i costi per il trattamento antibiotico (sono stati utilizzati principalmente vancomicina, metronidazolo e meropenem) e per quello chirurgico hanno pesato per meno dell’1% ciascuno. in effetti la durata della degenza dei 133 pazienti che hanno sviluppato cdi è risultata significativamente più lunga rispetto alla degenza media dei pazienti ricoverati nello stesso reparto (40,13 giorni vs 15,49 giorni). gli autori concludono che i costi della cdi cambieranno sicuramente in futuro con l’introduzione di nuovi antibiotici che, benché più costosi, consentiranno probabilmente di ridurre la durata delle degenze, l’incidenza delle ricorrenze e la gravità della malattia. l’uso del più recente antibiotico per la cura di cdi, fidaxomicina, è stato confrontato con vancomicina in un’analisi di costo-efficacia condotta nella realtà scozzese dalla prospettiva del servizio sanitario scozzese [4]. lo studio è stato condotto mediante la progettazione di un modello markoviano con un orizzonte temporale di un anno che ha considerato i costi sanitari diretti per cicli di trattamento di 10 giorni, utilizzando i dati relativi all’efficacia clinica rilevati nei trial di fase iii che hanno confrontato fidaxomicina con vancomicina [5,6]. nel caso di pazienti gravi o alla prima ricorrenza i costi di acquisizione di fidaxomicina sono effettivamente risultati maggiori di quelli per vancomicina di 4,5 volte, ma sono stati compensati dai costi di ospedalizzazione, maggiori invece per vancomicina. i costi totali per i due trattamenti, pertanto, sono risultati simili sia nei pazienti con cdi grave (14.515£ per fidaxomicina vs 14.344£ per vancomicina) sia nei pazienti alla prima ricorrenza di infezione (16.535£ per fidaxomicina vs 16.926£ per vancomicina), ma fidaxomicina ha fatto registrare una quantità leggermente superiore di qaly (unità di misura che considera la durata di vita ponderata per la qualità di vita) in entrambi i setting, al punto che fidaxomicina è risultata costo-efficace rispetto a vancomicina nei soggetti con cdi grave (icer di 16.529£/qaly) e dominante (più efficace e meno costosa) rispetto a vancomicina nei pazienti con ricorrenza di infezione (icer di -21.079£/qaly). negli studi clinici di riferimento la somministrazione di fidaxomicina era stata associata per entrambe le tipologie di pazienti a riduzioni del numero di ricorrenze di infezioni in un anno. la probabilità che fidaxomicina sia costo-efficace considerando una soglia di disponibilità di pagamento di 30.000£/qaly è del 60% per cdi gravi e del 68% per i soggetti alla prima ricorrenza di infezione da c. difficile. l’approccio utilizzato nello studio, tuttavia, è stato probabilmente conservativo, in quanto dati recenti hanno rilevato un effetto maggiore da parte di fidaxomicina nella riduzione delle ricorrenze di infezione (nel modello maggiore era l’effetto di riduzione delle ricorrenze da parte di fidaxomicina, maggiore era la sua costo-efficacia), nonché incidenze maggiori di cdi gravi che richiedono ospedalizzazione. inoltre non sono stati considerati i costi di chiusura e disinfezione dei reparti ed è stata utilizzata l’assunzione che i pazienti vengano trattati per cdi nei reparti, mentre circa il 30% è trattato nell’unità di isolamento del reparto di malattie infettive [4]. conclusioni data la dimensione crescente del problema delle infezioni da c. difficile nei paesi industrializzati, che risulta ancora peraltro parzialmente sommerso e la sua sempre maggiore gravità, appare cruciale lo studio di nuove soluzioni per una cura rapidamente efficace e in grado di prevenire le ricorrenze di infezione. il problema clinico si riflette ampiamente anche sul versante economico, nel quale la malattia sembra avere un peso determinato principalmente dalla durata della degenza dei pazienti. l’uso del farmaco fidaxomicina, di recente approvazione, sembra essere una soluzione almeno costo-efficace rispetto al farmaco tradizionale vancomicina nei soggetti con cdi grave o che presentano la prima ricorrenza di infezione. bibliografia 1. davies ka, longshaw cm, davis gl, et al. underdiagnosis of clostridium difficile across europe: the european, multicentre, prospective, biannual, point-prevalence study of clostridium difficile infection in hospitalised patients with diarrhoea (euclid). lancet infect dis 2014; 14: 1208-19; http://dx.doi.org/10.1016/s1473-3099(14)70991-0 2. crobach mj, dekkers om, wilcox mh, et al. european society of clinical microbiology and infectious diseases (escmid): data review and recommendations for diagnosing clostridium difficile-infection (cdi). clin microbiol infect 2009; 15: 1053-66; http://dx.doi.org/10.1111/j.1469-0691.2009.03098.x 3. magalini s, pepe g, panunzi s, et al. an economic evaluation of clostridium difficile infection management in an italian hospital environment. eur rev med pharmacol sci 2012; 16: 2136-41 4. nathwani d, cornely oa, van engen ak, et al. cost-effectiveness analysis of fidaxomicin versus vancomycin in clostridium difficile infection. j antimicrob chemother 2014; 69: 2901-12; http://dx.doi.org/10.1093/jac/dku257 5. cornely oa, crook dw, esposito r, et al; opt-80-004 clinical study group. fidaxomicin versus vancomycin for infection with clostridium difficile in europe, canada, and the usa: a double-blind, non-inferiority, randomised controlled trial. lancet infect dis 2012 ;12: 281-9; http://dx.doi.org/10.1016/s1473-3099(11)70374-7 6. louie tj, miller ma, mullane km, et al; opt-80-003 clinical study group. fidaxomicin versus vancomycin for clostridium difficile infection. n engl j med 2011; 364: 422-31; http://dx.doi.org/10.1056/nejmoa0910812 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 55 clinical management issues nella norma. la tc encefalo di controllo a 48 ore mostrava una vasta lesione ischemica fronto-parietale sinistra, ma nello stesso giorno compariva dolore toracico, che, unitamente ai risultati dell’elettrocardiogramma suggeriva la diagnosi di sindrome coronarica acuta (sca). veniva sottoposto a nuova coronarografia con evidenza di trombosi intra-stent sottoposta a rivascolarizzazione, con buon esito della procedura. nonostante la doppia ta praticata, il paziente ha manifestato quasi contemporaneamente ben due eventi trombotici in altrettanti distretti vascolari. discussione il caso clinico descritto è lo spunto per analizzare la problematica della resistenza alla ta con particolare riferimento ai pazienti affetti da dm. caso clinico descriviamo il caso di un uomo di 75 anni affetto da ipertensione, diabete mellito (dm) in terapia con ipoglicemizzanti orali, dislipidemia e cardiopatia ischemica postinfarto miocardico acuto (post-ima) già trattata con triplice by-pass aorto-coronarico e successiva angioplastica coronarica percutanea transluminale (ptca) su by-pass. nel mese di aprile del 2010 veniva sottoposto a nuova ptca con posizionamento di stent medicato; dalla dimissione il paziente assumeva doppia terapia antiaggregante (ta) (clopidogrel 75 mg/die + acido acetilsalicilico 100 mg/die), oltre a beta-bloccante, ace inibitore, nitroderivato e insulina. a un mese dalla dimissione veniva nuovamente ricoverato per dolore toracico associato ad afasia ed emiparesi facio-brachio-crurale destra, con la prima tc encefalo basale, e curva dei marcatori cardio-specifici seriata corresponding author dott.ssa laura massarelli medicina interna a ospedale cardinal massaia corso dante 202 14100 asti tel. 0141488301 massarelli@asl.at.it caso clinico abstract in our department arrives a 75-year-old patient with hypertension, diabetes mellitus (dm) treated with hypoglycaemic drugs, dyslipidaemia and ischaemic heart disease post-acute myocardial infarction treated with triple coronary artery bypass surgery and subsequent percutaneous transluminal coronary angioplasty (ptca). after a new ptca and positioning of medical stent he is discharged with a double antiplatelet therapy. but after one month two thrombotic events occur in this patients almost simultaneously. antiplatelet therapy such as clopidogrel and aspirin in combination, is the current gold standard for reducing cardiovascular events in patients with dm, providing a synergistic platelet inhibition through different platelet activation pathways, but platelets of dm patients are characterised by disregulation of several signalling pathways which may play a role not only in the higher risk of developing cardiovascular events and the worse outcome, but also in the larger proportion of dm patients with inadequate response to antiplatelet drugs compared to non dm subjects. keywords: diabetes mellitus, acute coronary syndrome, antiplatelet therapy diabetes mellitus and clopidogrel “resistance” cmi 2011; 5(suppl 2): 55-58 1 dipartimento medico. ospedale cardinal massaia, asti 2 divisione di cardiologia. ospedali riuniti di bergamo laura massarelli 1, giuseppe musumeci 2, carlo bussolino 1, valerio tomaselli 1 diabete mellito e “resistenza” a clopidogrel ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)56 diabete mellito e “resistenza” a clopidogrel [3], ma soprattutto l’ipereattività piastrinica indotta dal dm causa una ridotta efficacia della ta (figura 2). per quanto riguarda la resistenza ad asa, da non confondere con la mancata risposta terapeutica da scarsa compliance e/o inadeguato dosaggio, sono stati individuati dei polimorfismi genici su cox-1. nei pazienti con dm, in aggiunta alla disfunzione piastrinica, un contributo essenziale alla resistenza farmacologica è dato dall’iperglicemia che, attraverso un’esaltata glicosilazione delle piastrine, riduce l’efficacia dell’asa. gli studi sulla mancata risposta a clopidogrel hanno identificato tra i fattori determinanti, oltre alla scarsa compliance e alla variabilità dell’assorbimento del farmaco, anche un disturbo enzimatico sul citocromo cyp2c19, che ossida clopidogrel a metabolita attivo. tale deficit enzimatico può essere acquisito (interazioni farmacologiche) [4], o genetico. il difetto genetico più rilevante consiste in un polimorfismo genico su cyp2c19: la correlazione percentuale tra polimorfismo genico presente nella popolazione generale (30% circa) e resistenza alla ta riscontrata nei pazienti in trattamento con clopidogrel (30% circa) [4] ne ha dimostrato la rilevanza. ma altri meccanismi sono implicati nella resistenza nei soggetti con dm; infatti, oltre all’iper-reattività piastrinica strettamente legata alla patologia, nei soggetti che utilizzano insulina vi è una ridotta risposta alle tienopiridine. questo fenomeno si spiega grazie al fatto che l’insulina interagisce “fisiologicamente” con le piastrine causando una soppressione della normale attività piastrinica, ma nei soggetti la ta è di primaria importanza nella terapia degli eventi cardiovascolari acuti. attualmente si avvale dell’utilizzo di molecole appartenenti a 3 categorie farmacologiche (figura 1): gli inibitori della ciclossigenasi-1 (coxy 1) come l’acido acetilsalicilico (asa); gli antagonisti dei recettori p2y (presenti y sulla membrana delle piastrine) per l’adp (tienopiridine); gli inibitori della glicoproteina iib/iiia y [1], utilizzati solo in acuto. nella letteratura sono numerosi gli studi che riportano recidive trombotiche in pazienti in trattamento cronico con antiaggreganti, al punto che si parla correntemente di “resistenza alla ta”. la presenza di resistenza ha indotto, negli anni passati, la ricerca dei possibili fattori che la causano al fine di poterla prevedere e quindi di intraprendere delle soluzioni terapeutiche adeguate. sono stati individuati i meccanismi che causano resistenza alla ta: fattori cellulari (emivita delle piastrine, y iperespressione di p2y, aumentata sensibilità ad adp, ecc.); genetici (polimorfismi genetici cyp2c19 y e cox-1, ecc.); cofattori (dm, sca, compliance terapeuy tica, dosaggio non adeguato, ecc.); fattori “ambientali” (interazioni farmacoy logiche, tabagismo, ecc.) [2]. il dm è stato dimostrato essere un fattore protrombotico che agisce a vari livelli: alterando l’attivazione piastrinica, sbilanciando i fattori della coagulazione, agendo sulla disfunzione endoteliale e sulla fibrinolisi figura 1 siti d ’azione degli antiaggreganti piastrinici adp = adenosin difosfato; asa = acido acetilsalicilico; camp = adenosin monofosfato ciclico; cox = ciclossigenasi; gp = glicoproteina; txa2 = trombossano a2 ticlopidina hci clopidogrel prasugrel ticagrelor abciximab tirofiban eptifibatide asa collageno trombina txa 2 adp attivazione adp ↑ camp txa 2 cox p2y 12 adp gp iib/iiia ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 57 l. massarelli, g. musumeci, c. bussolino, v. tomaselli p2y, in avanzata fase di sperimentazione quali prasugrel, ticagrelor, cangrelor ed elinogrel. in particolare prasugrel utilizzato in pazienti con sca trattati con ptca ha dimostrato una protezione da nuovi eventi cardiovascolari maggiore rispetto a clopidogrel [10]; i dati dello studio evidenziano come siano specialmente i pazienti diabetici ad avvantaggiarsene. in conclusione per la prevenzione primaria nei pazienti diabetici con età superiore a 40 anni e con fattori di rischio cardiovascolare è indicata solo asa (75-162 mg/die), con possibilità d’uso di clopidogrel nei pazienti ad alto rischio e/o intolleranti ad asa [11]. nella prevenzione secondaria dello stroke asa, clopidogrel, asa + clopidogrel o asa + dipiridamolo sono tutte opzioni valide e raccomandate da adattare alle caratteristiche individuali dei pazienti [12]. nella prevenzione secondaria cardiovascolare viene correntemente utilizzata la doppia antiaggregazione con asa + clopidogrel, soprattutto nei soggetti diabetici, sulla scorta dei risultati di alcuni trial, anche se non vi sono chiare indicazioni [13]. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. affetti da insulino-resistenza (anche piastrinica) causa una up-regulation recettoriale p2y che ne accentua l’iper-reattività [5]. inoltre altri meccanismi quali l’aumentato turnover piastrinico e l’incremento del calcio citosolico contribuiscono alla resistenza a clopidogrel [3]. tutti questi dati confermano che nei pazienti con dm esiste un’aumentata probabilità di resistenza alla ta strettamente legata al dm, che, sommata alle resistenze genetiche e ambientali, espone tali pazienti a un’inadeguata risposta farmacologica alla ta con conseguente aumento degli eventi trombotici e della mortalità. la possibilità di utilizzare una doppia antiaggregazione sembra abbia limitato la resistenza alla ta in senso lato: ma di quali altre opzioni terapeutiche potrebbero beneficiare i pazienti con dm? per quanto riguarda l’asa un aumento del dosaggio a partire da quello correntemente utilizzato di 75-162 mg/die, per arrivare a 325 mg/die non ha dimostrato una migliore risposta [6], ma solo un incremento di eventi avversi, soprattutto i sanguinamenti gastrointestinali [7]. d’altro canto l’elevato turnover piastrinico dei diabetici unito alla breve emivita dell’asa renderebbe ragionevole dividere la dose di asa in due somministrazioni giornaliere allo scopo di inibire un più alto numero di neonate piastrine nell’arco delle 24 ore; tale opzione terapeutica nella prevenzione secondaria dello stroke prevede la doppia ta con asa 25 mg + dipiridamolo 200 mg bis in die [8]. per clopidogrel il raddoppio della dose sembra avere una certa efficacia, ma non vi sono sufficienti dati sul profilo di sicurezza [1]. esiste anche la possibilità di una triplice antiaggregazione in cronico; attualmente un inibitore della fosfodiesterasi iii, cilostazolo, viene utilizzato come antiaggregante nella prevenzione secondaria dello stroke e, aggiunto alla doppia ta, ha mostrato un aumento dell’inibizione piastrinica, ma il suo utilizzo è gravato da un’alta prevalenza di eventi avversi (specialmente cefalea e disturbi gastroenterici) che ne rendono poco praticabile l’uso in cronico [9]. infine vi sono nuove molecole, tutti antagonisti figura 2 modificazioni che inducono uno stato protrombotico nel soggetto diabetico at-iii = antitrombina iii; cd40l = ligando di cd40; et-1 = endotelina 1; fvii = fattore vii della coagulazione; fviii = fattore viii della coagulazione; gp = glicoproteina; nfkb = fattore nucleare kb; no = monossido di azoto; pai-1 = plasminogen activator inhibitor 1; psel = selectina p; t-pa = tissue plasminogen activator; vcam = vascular cell adhesion molecule; vwf = fattore di von willebrand fibrinolisi ↑ pai-1, a-2 antiplasmina ↓ t-pa reattività piastrinica ↑ adesione, aggregazione/attivazione (gp iib/iiia, psel, cd40l) trombosi coagulazione ↑ fibrinogeno ↑ vwf ↑ trombina ↑ fvii, fviii ↓ at-iii ↓ eparina disfunzione endoteliale ↑ molecole di adesione (vcam, ecc) ↑ interazione leucociti-endotelio ↑ stress ossidativo (induzione nfkb) squilibrio vasodilatazione (↑ et-1; ↓ no) ridotta rigenerazione endoteliale ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)58 diabete mellito e “resistenza” a clopidogrel bibliografia angiolillo dj. antiplatelet therapy in diabetes: efficacy and limitations of current treatment 1. strategies and future directions. diabetes care 2009; 32: 531-40 verstuyft c, simon t, kim rb. personalized medicne and antiplatelet therapy: ready for prime 2. time? eur heart j 2009; 30: 1943-63 angiolillo dj. antiplatelet therapy in type 2 diabetes mellitus. 3. curr opin endocrinol diabetes obes 2007; 14: 124-31 steinhubl sr. genotyping, clopidogrel metabolism, and the search for the therapeutic window 4. of thienopyridines. circulation 2010; 121: 512-8 ferreira ia, mocking ai, feijge ma, gorter g, van haeften tw, heemskerk jw et al. platelet 5. inhibition by insulin is absent in type 2 diabetes mellitus. arterioscler thromb vasc biol 2006; 26: 417-22 aavv. collaborative overview of randomised trials of antiplatelet therapy--i: prevention of 6. death, myocardial infarction, and stroke by prolonged antiplatelet therapy in various categories of patients. antiplatelet trialists’ collaboration. bmj 1994; 308: 81-106 patrono c, garcía rodríguez la, landolfi r, baigent c. low-dose aspirin for the prevention 7. of atherothrombosis. n engl j med 2005; 353: 2373-83 adams rj, alberts g, alberts mj, benavente o, furie k, goldstein lb et al; american heart 8. association; american stroke association. update to the aha/asa recommendations for the prevention of stroke in patients with stroke and transient ischemic attack. stroke 2008; 47: 1647-52 angiolillo dj, capranzano p, goto s, aslam m, desai b, charlton rk et al. a randomized 9. study assessing the impact of cilostazol on platelet function profiles in patients with diabetes mellitus and coronary artery disease on dual antiplatelet therapy: results of the optimus-2 study. eur heart j 2009; 29: 2202-11 wiviott sd, braunwald e, mccabe ch, montalescot g, ruzyllo w, gottlieb s et al; triton-10. timi 38 investigators. prasugrel versus clopidogrel in patients with acute coronary syndromes. n engl j med 2007; 357: 2001-15 american diabetes association. aspirin therapy in diabetes (position steatment). 11. diabetes care 2004; 27 (suppl. 1): s72-s73 adams hp. secondary prevention of atherothrombotic events after ischemic stroke. 12. mayo clin proc 2009; 84: 43-51 cola c, brugaletta s, martín yuste v, campos b, angiolillo dj, sabaté m. diabetes mellitus: 13. a prothrombotic state implications for outcomes after coronary revascularization. vasc health risk manag 2009; 5: 101-19 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 3 clinical management issues gianlorenzo imperiale 1 editoriale nei giorni 12 e 13 novembre 2010 si sono svolte le “giornate di medicina interna fadoi – piemonte e valle d’aosta” e questo appuntamento, giunto alla sua seconda edizione, ha il significativo titolo “i giovani internisti. il futuro della medicina interna”. sì, il futuro della nostra disciplina, perché accanto alla consolidata esperienza professionale e al mai sopito entusiasmo di chi è solo un po’ meno giovane e ha la consapevolezza di non saperne mai abbastanza, vi siano quello spirito e quella forza di innovazione che giovani colleghe e giovani colleghi sanno trasmettere. la federazione delle associazioni degli internisti ospedalieri (fadoi), sia a livello nazionale sia nel nostro territorio, crede fermamente in questa grande capacità propulsiva. in quelle due giornate si sono succedute, insieme a letture di particolare rilevanza scientifica affidate a colleghi di chiara fama, presentazioni di casi clinici che hanno sottolineato da un lato la professionalità sempre alta nella gestione delle problematiche e dall’altra hanno posto in luce, con molta semplicità, i dubbi che nella pratica quotidiana possano assalire e i ragionamenti “a voce alta” che portano al superamento di difficoltà, a scelte terapeutiche, ad approcci diagnostici. molto significativa, d’altronde, è stata la scelta di inserire una sessione di casi clinici a gestione infermieristica, proprio a sottolineare il fatto che la stretta interrelazione con questa figura professionale diventa premiante nella gestione globale dei nostri pazienti. a questo bisogna aggiungere che i giovani internisti hanno avuto, quali discussant delle loro presentazioni, internisti di rilevanza nazionale appartenenti a fadoi con cui confrontarsi e dibattere. tutti i casi clinici presentati sono stati particolarmente stimolanti e hanno avuto il pregio di sottolineare gli aspetti concreti di gestione, supportati da una rigorosa disamina della letteratura scientifica. angelo bosio e collaboratori (“malattia cardiovascolare precoce: valutazione e gestione dei fattori di rischio”) partendo dal caso di un maschio cinquantenne, iperteso arterioso, fumatore che viene ricoverato per dolore toracico sinistro non tipico e dispnea da sforzo, analizzano la serie degli elementi anamnestici personali e familiari che permettono l’inquadramento del profilo di rischio e forniscono gli elementi pragmatici per l’identificazione dei soggetti che, precocemente individuati, beneficiano dell’approccio globale allo stile di vita e alla terapia farmacologica per evitare gli eventi e le procedure come nel caso esposto. irene ricca e collaboratori (“un caso di grave diatesi emorragica”) ci introducono nel mondo della coagulazione presentando quanto avvenuto a una paziente anziana complessa in terapia anticoagulante con acenocumarolo che sviluppa un’anemizzazione che richiede il supporto trasfusionale. la peculiarità del caso risiede non solo nel disvelare una patologia rara, quale l’emofilia a acquisita, ma soprattutto nel metodo che gli autori impiegano. in questo caso viene sottolineata da una parte la complessità del soggetto analizzato e dall’altra la necessità di scelte terapeutiche che tengano conto dello sviluppo fisiopatologico degli eventi. 1 direttore, ssd medicina interna, aslto1 – ospedale evangelico valdesei dott. gianlorenzo imperiale segretario fadoi – piemonte e valle d’aosta aslto1 – ospedale evangelico valdese via silvio pellico 19 – 10125 torino gianlorenzo.imperiale@unito.it ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)4 editoriale flavio cerrato e collaboratori (“utilità dell’elettrocardiogramma nella diagnostica differenziale delle dispnee”) con il caso clinico di una paziente ottantottenne ci ricordano non solo quello che l’elettrocardiogramma, esame eseguibile al letto del malato, può darci in alcune condizioni, ma anche la necessità di tener ben presente l’effetto dei farmaci sulla conduzione elettrica cardiaca e il rischio dell’evento avverso potenzialmente grave. gli autori, così, ci fanno presente che è obbligatorio controllare i tempi di conduzione prima dell’uso di taluni farmaci. roberta re (“una polmonite interstiziale bilaterale ad esordio subacuto”) presenta il caso di un paziente affetto da diabete mellito e ipertensione arteriosa che sviluppa astenia e ipo-oressia ingravescenti che lo portano al ricovero ospedaliero tramite pronto soccorso. lo sviluppo dell’indagine clinico-diagnostica porterà alla diagnosi di polmonite interstiziale. la particolarità che emerge dalla lettura di questo caso sta soprattutto nelle domande che l’autrice pone a se stessa e al lettore su specifiche scelte cliniche e terapeutiche in un contesto di complessità patologica. laura perazzolo e collaboratori (“un caso atipico di malattia da graffio di gatto”) discutono di un soggetto di mezza età che sviluppa linfadenopatia dura ingravescente sottomandibolare destra con astenia, calo ponderale e febbricola. l’indagine si dipana sugli elementi di diagnostica differenziale, ma soprattutto sottolinea la pazienza nell’indagine anamnestica e la ricerca degli elementi patogenetici, con la sorpresa di identificare la possibile via di infezione. carlo bussolino e collaboratori (“ipereosinofilia ed epatite c”) segnalano l’intricato caso di un uomo affetto da diabete mellito che dal ricovero per scompenso cardiaco si ritrova a esser indagato per un’eosinofilia che risulterà essere a verosimile doppia genesi. gli autori, nel sottolineare la rarità della condizione, pongono anche in luce il lavoro di ricerca della letteratura affinché il trattamento sia su solide basi di evidenza. erica delsignore e collaboratori (“amiloidosi sistemica e pneumatosi vescicale”) propongono un caso clinico in cui gli elementi dell’esame obiettivo e la prontezza di correlazione fra i vari segni ne hanno permesso la fondata ipotesi diagnostica, pur a fronte di un precedente dato bioptico negativo. a questo contesto si aggiunge il riscontro di un particolare coinvolgimento “enfisematoso” della parete vescicale. gli autori discutono della complessità e delle implicanze della patologia amiloidotica e delle condizioni che possono condurre alla pneumatosi vescicale. laura massarelli e collaboratori (“diabete mellito e “resistenza” a clopidogrel”), nel presentare il caso di un uomo affetto da diabete mellito tipo 2 che è andato incontro a ptca con stenting medicato e successiva trombosi intrastent, affrontano la questione della resistenza agli antiaggreganti piastrinici in una condizione particolare quale è quella del diabete mellito. elisabetta zoppis (“una patologia nascosta: il morbo di crohn”) evidenzia come, talvolta, la diagnosi finale per un caso clinico giunga dopo l’esordio di patologie complicanti che, all’inizio, possono risultare fuorvianti per arrivare a definire il primum movens di un contesto patologico. gianluca valentini (“percorso clinico e assistenza infermieristica al paziente ustionato con infezioni polimicrobiche”) sottolinea con la sua presentazione l’assoluta necessità dell’integrazione delle professionalità medica e infermieristica. l’autore, in maniera molto puntuale e pragmatica, espone i singoli punti che richiedono la gestione assistenziale complessa e giunge, alla fine, al paragrafo particolarmente significativo della gestione della “sindrome da deficit della cura di sé” e alla sua soluzione. rober ta gallo (“la medicina come frontiera: il paziente pluripatologico straniero”) apre, con il caso clinico della paziente sessantaseienne marocchina affetta da cirrosi epatica hbv-correlata in fase di scompenso e diabete mellito scompensato, il grande capitolo dello sviluppo della nostra professione verso le altre culture. la lettura di questo articolo è di particolare stimolo perché, in quanto descritto, ben sottolinea quello che quotidianamente, sempre di più, affrontiamo e questa, sono convinto, sarà la nostra sfida professionale per il futuro: la reciproca comprensione oltre alla barriera linguistica, l’acquisizione dello strumento culturale reciprocamente inteso per trovare il referente comune su cui costruire il rapporto medico-paziente. in questa grande e affascinante sfida molto ci avvantaggeremo dallo stretto rapporto con il personale infer©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 5 g. imperiale mieristico e con i colleghi della medicina generale di base. massimo incagliato e collaboratori (“an unusual case of secondary pure cell aplasia (prca) that occults a squamous carcinoma of the tongue”) ci ricordano, con un paziente settantenne, quanto le sindromi paraneoplastiche possano rappresentare una modalità multiforme di presentazione e che il riconoscimento della causa primaria riesca a offrire possibilità di controllo e regressione della condizione clinica patologica. stefano giordanetti e collaboratori (“le inchieste dell’internista: ‘il feocromocitoma fantasma’”) presentano il loro caso clinico con un’esposizione da indagine poliziesca. i vari elementi sono analizzati, dai fatti preliminari alle evidenze dei test, rivalutati, ripercorsi per giungere alla fine, con molta onestà intellettuale, a riconoscere che non sempre si ottiene subito la diagnosi di certezza ma quella di patologia più verosimile e allora, mi permetto di aggiungere, in un’assoluta necessità di vagliare la proporzionalità della cura, l’indagine riparte. la lettura di questo fascicolo rappresenta un assai utile strumento professionale di aggiornamento e uno stimolo alla riflessione. ciascuna delle colleghe e ciascuno dei colleghi merita il più ampio plauso perché non solo hanno dimostrato ampia e piena professionalità, ma hanno anche sottolineato, consapevolmente, i dubbi e talora i limiti della nostra azione clinica. queste nostre colleghe e questi nostri colleghi sono veramente il futuro della medicina interna. no greater opportunity or obligation can fall the lot of a human being that to be a physician. in the care of the suffering, he needs technical skill, scientific knowledge, and human understanding. he who uses these with courage, humility, and wisdom will provide a unique service for his fellow man and will build an enduring edifice of character within himself. the physician should ask of his destiny no more than this, and he should be content with no less tinsley r. harrison “principles of internal medicine” edito da blakiston nel 1950 (prima edizione) cmi 2015;9(3)65-68.html menopause and nutraceuticals franco vicariotto 1 1 gynecologist, specialist in obstetrics-gynecology, sifiog (società italiana di fitoterapia e integratori in ostetricia e ginecologia – italian society of phytotherapy and supplements in obstetrics and gynecology)   menopausa e nutraceutica cmi 2015; 9(3): 65-68 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i3.1193 editorial corresponding author franco vicariotto ginecologia@vicariotto.com disclosure the author declares no competing financial interests on the topic of this article introduction definitions of nutraceuticals vary depending on the country legislation. in the european community, nutraceuticals are generally at the boundary between drugs and food. they are extracted from food or plants with medicinal properties; in general, they are sold in medicinal forms not associated with food [1]. ims health defines nutraceuticals as oral unregistered otc products [2]. today, instead of being prescribed to healthy subjects, they are generally suggested to reach, maintain, and improve the normal physiological functions in pathological conditions. according to ims health data, far from a crisis, nutraceutical market is growing (now accounting for 2.3 billions/year in italy). along with their specific advantages, nutraceuticals carry also some risks, especially in the absence of clinicians’ suggestions, i.e.: unknown composition; overdosage; uncertain origin (sales channels); presence of doping and toxic substances; side effects; drug interactions; and lack of diet improvement due to a false sense of security deriving from supplements intake. a survey involving users of alfemminile.com (a popular italian forum) showed that women are often the family cornerstone for prevention, healthcare, and supplements purchase [3]. women purchase 40% more supplements and botanical remedies than men [4]. specialists, pharmacists and general practitioners help women most in the choice of the nutraceuticals (accounting for 25%, 23%, and 19%, respectively of the suggestions given to women) [3]. also the web, the suggestions of friends and the advertisements play a role in these choices (15%, 11%, and 7%, respectively) and, together with the fascination with natural products, a false perception of absence of side effects and the possibility of self-medication, are the main determinants of the women’s desire of nutraceuticals [3]. just after pediatricians, gynecologists are the main prescribers of nutraceuticals. gynecology accounts for 125 million/year of nutraceutical market in italy [3]; 14% of gynecologists’ prescriptions concern supplements [5]. in the first three months of 2014, menopause accounted for the 12% of the total gynecology prescriptions (almost half were for pregnancy) [3]. menopause life expectancy of women is greater than that of men, and this gap increased from ’70s to 2010 from 4,8 years to 5,7 years. in the meanwhile, also global life expectancy has increased from 61,2 years in 1970 to 73,3 years in 2010. the main causes of death have generally changed from acute to chronic conditions [6]. therefore, while life expectancy increased, the quality of life decreased, so that a women born in 2010 could expect to live 11 years with chronic conditions or disabilities [6]. among the symptoms affecting women, there are those due to menopause, that may be highly disabling. during menopause, falling levels of estrogen and progesterone may lead to several symptoms, as reported in table i. vasomotor symptoms hot flushes night sweats psychological symptoms depression irritability anxiety mood swings panic attacks genital atrophy vaginal dryness and irritation reduced libido urinary tract infections urinary urgency painful sexual intercourse increased bone loss/osteoporosis lower back pain knee pain weakness increased risk of fractures cognitive disturbance forgetfulness disorientation diminished concentrating cardiovascular risks palpitation hypertension increased risk of coronary artery disease metabolic changes increased ldl and cholesterol other insomnia/sleep disturbance headaches fatigue skin itching dizziness blurred vision tinnitus digestive problems hair loss table i. symptoms/conditions associated with menopause. adapted from [7] to restore the pre-menopause physiology, hormone replacement therapy may be used. it is sometimes necessary and very useful, but a long-term administration is contraindicated due to severe long-term side effects that emerged from large trials [8,9], such as increased risk of thromboembolic accidents, stroke and breast cancer. furthermore, a thorough examination should be preliminarily performed in order to rule out possible pre-existing risk factors contraindicating hormone replacement therapy. therefore, attention focused also on alternative therapies. as reported in figure 1, numerous studies were carried on in last years concerning the use of supplements in menopause. figure 1. studies published from 1973 on the topic “supplements in menopause”. histogram created by gopubmed [10] nutraceuticals during menopause calcium reduction in bone loss plant sterols and stanols reduction in ldland total cholesterol plasma levels vitamin d (in combination with calcium) and vitamin k reduction in the incidence of fractures table ii. supplements with proved effectiveness in some menopausal symptoms. adapted from [7] a review authored by borrelli and ernst [7] analyzed the published literature with the aim of providing an index of reliability on alternative and complementary therapies for menopause. here we just focus on supplements and herbal remedies analyzed. supplements for dhea (dehydroepiandrosterone), fibers, probiotics and prebiotics, and phytoestrogens, there is no evidence of significant effect on menopausal symptoms or inconsistent or controversial results. conversely, calcium, plant sterols and stanols, and vitamins have shown effectiveness in menopause setting (table ii). herbal remedies among eight herbal remedies frequently used to alleviate menopause symptoms, four were judged not to be supported by sufficient evidence from literature. they were dong quai, wild yam, ginseng, and evening primrose. on the contrary hops, black cohosh, st. john’s wort, and ginkgo showed to be effective for all or some symptoms they were supposed to alleviate (table iii). hops reduction in hot flushes, sweating, insomnia, heart palpitation and irritability black cohosh beneficial effect in early climacteric women st. john’s wort improvement in menopause-specific quality of life and sleep problems ginkgo significant effect on the test of mental flexibility table iii. herbal remedies with proven effectiveness in some menopausal symptoms. adapted from [7] conclusions the use of nutraceuticals in menopause setting is supported by literature in some, but not all, cases. they can help where drugs fail or are at high risk of severe adverse events. however, they are to be used with caution and under the supervision of clinicians. in several cases randomized controlled trials are still too few and too incoherent to give a definitive advice. references 1. veling m. regulatory information resources for nutraceuticals and functional foods: resource guide. © 2012 national research council of canada. available at http://nparc.cisti-icist.nrc-cnrc.gc.ca/npsi/ctrl?action=rtdoc&an=19588985&article=0&lang=en&fd=main&ext=. (last accessed july 2015) 2. ufficio stampa ims health italia. ims health italia: nutraceutica italia uno dei mercati europei più maturi. bologna, 17 aprile 2014. available at http://www.imshealth.com/ (last accessed july 2015) 3. ims health italia. nutraceutica forum, 2015. milano, 16 giugno 2015 4. franconi f, montilla s, vella s. farmacologia di genere. torino: seed medical publishers, 2010 5. ufficio stampa ims health italia. ims health italia: farmacia nei primi due mesi del 2015 il mercato commerciale è cresciuto del 3,7%. bologna, 17 aprile 2015. available at http://www.imshealth.com/ (last accessed july 2015) 6. abouzahr c. progress and challenges in women’s health: an analysis of levels and patterns of mortality and morbidity. contraception 2014; 90: s3-s13; http://dx.doi.org/10.1016/j.contraception.2014.03.007 7. borrelli f, ernst e. alternative and complementary therapies for the menopause. maturitas 2010; 66: 333-43; http://dx.doi.org/10.1016/j.maturitas.2010.05.010 8. hulley s, grady d, bush t, et al.; for the heart and estrogen/progestin replacement study (hers) research group. randomized trial of estrogen plus progestin for secondary prevention of coronary heart disease in postmenopausal women. jama 1998; 280: 605-13; http://dx.doi.org/10.1001/jama.280.7.605 9. writing group for the women’s health initiative investigators; rossouw je, anderson gl, prentice rl, et al. risks and benefits of estrogen plus progestin in healthy postmenopausal women: principal results from the women’s health initiative randomized controlled trial. jama 2002; 288: 321-33; http://dx.doi.org/10.1001/jama.288.3.321 10. gopubmed. available at http://www.gopubmed.org/web/gopubmed/ (last accessed july 2015) cmi 2015;9(2)41-44.html clinical management of carbamazepine intoxication during anti-tubercular treatment: a case report massimo calderazzo 1, pierandrea rende 2, paolo gambardella 1, manuela colosimo 3, giovambattista de sarro 2, luca gallelli 2 1 department of infectious disease, asp lamezia terme, catanzaro, italy 2 department of health science, university of catanzaro and operative unit of clinical pharmacology and pharmacovigilance, azienda ospedaliera mater domini, catanzaro, italy 3 department of service, microbiology unit, central lab, fondazione irccs cà granda ospedale maggiore policlinico, university of milan, italy abstract we describe a 67-year-old man with medical history of focal post-stroke seizure and type 2 diabetes mellitus treated with carbamazepine, clobazam, gliclazide, insulin glargine, and omeprazole we visited for the onset in the last 7 days of asthenia, cough with mucus, breathing difficulty, chest pain, and weight loss. after clinical and laboratory tests, pulmonary tuberculosis was diagnosed, and a treatment with isoniazid, ethambutol, pyrazinamide rifampicin, and pyridoxine was started. therapeutic drug monitoring of tuberculosis treatment documented that all drugs were in normal therapeutic range. four days after the beginning of the treatment, we documented the improvement of fever, and three days later the patient showed sleepiness, visual disorder and asthenia. clinical and pharmacological evaluation suggested a carbamazepine toxicity probably related to a drug interaction (drug interaction probability scale score = 6). the impossibility to switch carbamazepine for another antiepileptic drug, due to a resistant form of seizure, induced the discontinuation of tuberculosis treatment, resulting in the normalization of serum carbamazepine levels in one day (10 µg/ml) and in the worsening of fever, requiring a new clinical and pharmacological evaluation. the titration dosage of carbamazepine and its therapeutic drug monitoring allowed to continue the treatment with both antitubercular drugs and carbamazepine, without the development of adverse drug reactions. to date, tuberculosis treatment was stopped and clinical evaluation, radiology and microbiology assays documented the absence of tubercular infection and no seizures appeared (carbamazepine dosage 800 mg/bid; serum levels 9.5 µg/ml). keywords: carbamazepine; isoniazid; rifampicin; drug-drug interactions; therapeutic drug monitoring gestione clinica di una intossicazione da carbamazepina durante un trattamento anti-tubercolare: un caso clinico cmi 2015; 9(2): 41-44 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i2.1175 case report corresponding author luca gallelli department of health science, university of catanzaro, viale europa, 88100 catanzaro operative unit of clinical pharmacology and pharmacovigilance, azienda ospedaliera mater domini, via t campanella 115, catanzaro, italy tel. +390961712322 gallelli@unicz.it disclosure the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article why we describe this case drug-drug interactions are common in patients using multiple drugs. this case report suggests that, when a drug switch is not possible, the therapeutic drug monitoring may help physicians in the management of treatments that usually could not be administered together introduction drug-drug interactions (ddis) represent a common cause of adverse drug reactions (adrs), particularly in patients using multiple drugs [1] inducing an impairment of quality of life and an increase in healthcare costs [2]. therapeutic drug monitoring (tdm) is useful to improve drug safety reducing the development of adrs, particularly during the treatment with drugs that have a narrow therapeutic index. case report a 67-year-old man (weight = 65 kg, height = 1.68 m) was referred for evaluation on january the 20th, 2014 owing to the onset in the last 7 days of asthenia, cough with mucus, breathing difficulty, chest pain, and weight loss (1.8 kg). his medical history reported focal post-stroke seizure unresponsive to several antiepileptic drugs (i.e., oxcarbazepine, topiramate, levetiracetam, lamotrigine, valproic acid) and well-controlled type 2 diabetes mellitus (hba1c < 7%). medications included carbamazepine (800 mg/bid), clobazam (100 mg/daily), gliclazide (30 mg/tid), insulin glargine (100 iu), and omeprazole (20 mg/daily). on physical examination, blood pressure was 108/70 mmhg, heart rate = 83 beats/min, respiratory rate = 20 breaths/min, temperature = 38.1°c, spo2 = 98% on room air; tuberculin skin test was performed. laboratory test revealed high levels of c-reactive protein (crp = 18 mg/l), erythrocyte sedimentation rate (esr = 62 mm/h) and white blood cells (wbc = 17,910 cells/µl). other biochemical tests were in normal range (table i). blood tests january 20th, 2014 normal range glucose (mg/dl) 89 70-100 creatinine clearance (ml/min) 87 85-130 serum creatinine (mg/dl) 0.75 0.7-1.2 potassium (meq/l) 3.9 3.6-5 total cholesterol (mg/dl) 165 < 220 ldl-cholesterol (mg/dl) 95 < 130 hdl-cholesterol (mg/dl) 40 35-39 triglycerides (mg/dl) 72 50-150 aspartate aminotransferase (iu/l) 26 8-48 alanine aminotransferase (iu/l) 22 7-55 c-reactive protein (mg/l) 18 0.5-10 erythrocyte sedimentation rate (mm/h) 62 0-22 white blood cells (cells/µl) 17,910 4,500-11,000 table i. laboratory findings at admission chest x-ray showed multifocal opacities in the right upper lobe with thickening and upward shift of the minor fissure, pleural effusion, and hilar lymphadenopathy. three days later, tuberculin skin test proved positive, as confirmed by interferon-gamma release blood test, while microbiology of sputum documented the presence of mycobacterium tuberculosis. pulmonary tuberculosis was diagnosed and a treatment with a fixed-dose combination of isoniazid 75 mg/day, ethambutol 275 mg/day, pyrazinamide 400 mg/day and rifampicin 150 mg/day (rimstar®) + pyridoxine (50 mg/day) was started. two days later, the tdm of tuberculosis treatment, performed 2 hours after drug administration, documented that all drugs were in normal therapeutic range: isoniazid = 4.6 µg/ml (normal range = 3-6 µg/ml); ethambutol = 4 µg/ml (normal range = 2-6 µg/ml); pyrazinamide = 32.8 µg/ml (normal range = 20-50 µg/ml); rifampicin = 8.5 µg/ml (normal range = 8-24 µg/ml). four days after the beginning of drug treatment, we documented the improvement of fever (36.8°c) but, three days later, the patient showed sleepiness, visual disorders, and asthenia. on physical examination, he was conscious and oriented in both time and space and presented somnolence, ataxia, and nystagmus; blood pressure was 97/68 mmhg with a pulse heart rate = 96 beats/min; electrocardiography revealed a cardiac block. other causes of conscious disorders e.g. trauma, substance abuse, and infections were ruled out. laboratory analysis and abdominal ultrasound examinations were negative; renal, liver, and heart failures were ruled out. carbamazepine intoxication was postulated, and tdm confirmed it (serum carbamazepine levels = 16.60 µg/ml; normal range = 6-12 µg/ml). pharmacological evaluation suggested a possible ddi between tuberculosis treatment and carbamazepine (drug interaction probability scale score = 6). the impossibility to switch from carbamazepine to another antiepileptic drug, due to a resistant form of seizure, induced the discontinuation of tuberculosis treatment, resulting in the normalization of serum carbamazepine levels in one day (10 µg/ml). two days later, we recorded a worsening of fever (37.9°c) that required a new clinical and pharmacological evaluation. considering history, co-morbidity and drug treatment, tuberculosis treatment was re-administered and carbamazepine was titrated in 3 administrations/day (total = 400 mg/day), resulting in a good control of clinical symptoms. tdm of carbamazepine performed one day later was in normal range (10.1 µg/ml). oneand two-month follow-up revealed a good control of tubercular disease, while tdm showed normal levels of both carbamazepine (10.0 µg/ml) and tuberculosis drugs (isoniazid = 4.7 µg/ml; ethambutol = l4.2 µg/ml; pyrazinamide = 34.5 µg/ml; rifampicin = 9.1 µg/ml), without the development of seizure or adrs. tuberculosis treatment was discontinued and switched to a fixed-dose combinations of isoniazide + rifampicin. in october, tuberculosis treatment was stopped and clinical evaluation, as well as radiology and microbiology assays, documented the absence of tubercular infection. no seizure or adrs appeared (carbamazepine dosage = 800 mg/bid; serum levels = 9.5 µg/ml). time course of drug treatment during the study is reported in table ii. time symptoms/laboratory tests treatment admission january 20th, 2014 asthenia, cough with mucus, breathing difficulty, chest pain and weight loss carbamazepine (1,600 mg/day) january 23rd, 2014 diagnosis of tuberculosis start rimstar® + pyridoxine january 25th, 2014 tdm of tuberculosis treatment: normal range january 29th, 2014 improvement of fever february 1st, 2014 sleepiness, visual disorder, and asthenia; blood pressure = 97/68 mmhg, pulse heart rate = 96 beats/min; cardiac block increase in plasma carbamazepine levels stop rimstar® and pyridoxine february 2nd, 2014 normal plasma carbamazepine levels february 4th, 2014 worsening of fever start rimstar® + pyridoxine reduce carbamazepine (total 400 mg/day) february 5th, 2014 normal plasma carbamazepine levels march, 2014 normal plasma carbamazepine levels no seizures no adverse drug reactions april, 2014 normal plasma carbamazepine levels no seizures no adverse drug reactions rimstar® switched to isoniazide + rifampicin october, 2014 no tuberculosis stop isoniazide + rifampicin increase carbamazepine to 1,600 mg/day table ii. time course of drug treatment during the study main questions a doctor should ask him/herself in this situation have i excluded other causes able to induce symptoms? can i change the treatment? can i evaluate the plasma levels of each drug? discussion here we report the case of a 67-year-old man with type 2 diabetes mellitus and resistant epilepsy responsive to carbamazepine and clobazam. due to the development of tuberculosis, the patient was hospitalized and treated with isoniazid, ethambutol, pyrazinamide, and rifampicin, with a good control of tuberculosis. it has been reported that in patients with tuberculosis, diabetes contributes to increase severity [3], reducing the response to tuberculosis treatment [4]. in our patient, clinical evaluation documented an improvement of tuberculosis symptoms, while tdm revealed that tuberculosis drugs were in normal range. however, 7 days after the beginning of tuberculosis treatment, the patient lamented sleepiness, visual disorder, and asthenia. several papers showed that the administration of isoniazid in a patient treated with carbamazepine may induce the development of liver failure [5,6] able to induce conscious disorders. laboratory and clinical evaluation excluded secondary causes of conscious disorders (i.e. alcohol and substance abuse, encephalitis, hepatitis, neuroleptic malignant syndrome, drug toxicity). pharmacological evaluation hypothesized a carbamazepine intoxication related to a drug-drug interaction. in fact, carbamazepine is highly bound to plasma proteins (75-80%), with an half-life of 12-20 hours, and is metabolized in the liver by cytochrome p450 (cyp3a4) [7]; isoniazid and ethambutol are strong and weak cyp3a4 inhibitors, respectively [8,9]. therefore, these drugs probably slowed the elimination of carbamazepine in our patient. in fact, tdm documented high serum carbamazepine levels, and the discontinuation of tuberculosis treatment induced a decrease in serum carbamazepine levels, with a worsening of tuberculosis. in agreement with our previous papers [10,11], using the drug interaction probability scale (dips), we hypothesized an interaction between tuberculosis treatment and carbamazepine. the titration of carbamazepine dosage and its tdm allowed continuation of combined treatment with a good control both of seizure and tuberculosis and without the development of adrs. the summary of product characteristics (spcs) represents the primary source of information about ddis for health care professionals. unfortunately, ddis cannot be listed exhaustively, consequently the information on potential ddis may be insufficiently described, due to the limited space in the spc. in fact, in the present case, spc suggests to evaluate carefully the co-administration of carbamazepine during the treatment with isoniazid, but when it is not possible to change the drugs, tdm is needed to optimize the therapeutic efficacy and safety of carbamazepine. key points drug-drug interactions (ddis) may be common during a multiple therapy ddis must be considered during a differential diagnosis clinical conditions as well as therapeutic drug monitoring may be important during the clinical management references 1. palleria c, di paolo a, giofrè c, et al. pharmacokinetic drug-drug interaction and their implication in clinical management. j res med sci 2013; 18: 601-10 2. fiß t, meinke-franze c, van den berg n, et al. effects of a three 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therapy. she had a prolonged hospitalization of nine months after transplantation with several infectious complications and numerous episodes of severe c. difficile-associated colitis. metronidazole and vancomycin were not completely effective. fidaxomicin showed a sustained clinical cure without other recurrence. keywords: c. difficile; immunocompromised patient; fidaxomicin clostridium difficile colitis in an immunocompromised patient treated with fidaxomicin cmi 2015; 9(suppl 1): 11-15 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i1s.1039 caso clinico corresponding author marcello feasi s.c. malattie infettive e.o. ospedali galliera, mura delle cappuccine 14, 16128 genova tel. 0105634478 marcello.feasi@galliera.it disclosure il presente supplemento è stato realizzato con il supporto di astellas pharma s.p.a perché descriviamo questo caso data la crescente incidenza dell’infezione da clostridium difficile, appare di cruciale importanza considerare la possibile presentazione di forme gravi e ricorrenti, specialmente nei pazienti immunocompromessi e sottoposti a lunghe terapie antibiotiche, e soprattutto analizzare le possibilità terapeutiche attualmente disponibili introduzione l’infezione da clostridium difficile, bacillo gram-positivo anaerobio e sporigeno, rappresenta la causa più frequente di diarrea in ambito nosocomiale o correlata alle cure sanitarie in genere ed è classicamente definita “colite da antibiotici” per la abituale associazione con un precedente utilizzo di antibioticoterapie [1]. negli ultimi anni l’impatto clinico di questa infezione, sia per morbilità sia per mortalità, è risultato in significativo aumento in relazione all’età sempre più avanzata e alle plurime comorbilità dei pazienti ospedalizzati o che accedono frequentemente ai servizi sanitari [2,3]. in effetti gli abituali fattori di rischio per lo sviluppo di questa infezione sono costituiti da: età > 65 anni (maggiormente se > 80 anni); ospedalizzazione, soprattutto se prolungata, o degenza presso strutture assistenziali; precedente assunzione di antibioticoterapie, specialmente se combinate; utilizzo di inibitori di pompa protonica; coesistenza di patologie croniche, neoplasie o terapie immunosoppressive [4,5]. tra i soggetti ospedalizzati, quelli colonizzati da c. difficile risultano, a seconda delle varie casistiche, il 7-25%, e i casi sintomatici (presenza di ceppi di c. difficile produttori di tossina) il 2-8% [2]. l’infezione da c. difficile è poi, di per sé, causa di prolungamento dell’ospedalizzazione o di nuovi ricoveri di pazienti dimessi o residenti presso strutture assistenziali. la significativa incidenza di questa infezione nei pazienti ricoverati pone problematiche relative all’utilizzo delle terapie antibiotiche per le altre patologie e quindi al trattamento dell’infezione da c. difficile stessa soprattutto nei casi di maggiore gravità o ad andamento protratto o recidivante [6]. inoltre, le terapie cosiddette “standard” con metronidazolo o vancomicina in alcuni casi possono andare incontro a fallimento [7]. recentemente una nuova molecola, fidaxomicina, primo antibiotico della classe dei macrociclici, è stata introdotta nella pratica clinica per il trattamento delle infezioni da c. difficile. negli studi clinici fidaxomicina ha mostrato la non-inferiorità nell’efficacia terapeutica rispetto a vancomicina, un’ottima tollerabilità ma soprattutto un tasso di recidive post-trattamento significativamente inferiore [8]. caso clinico una donna di 65 anni affetta da cirrosi epatica a eziologia criptogenetica è giunta per la prima volta alla nostra osservazione nel luglio 2012 per scompenso epatico con ascite. in anamnesi risultavano inoltre le seguenti patologie: fibrillazione atriale parossistica e ipertiroidismo. la paziente, dopo l’iniziale stadiazione biochimica e strumentale epatica (meld score = 18), è stata inviata per la presa in carico presso un centro trapianti d’organo. in considerazione del progressivo peggioramento clinico e dei parametri di funzionalità epatica osservato nei mesi successivi, la paziente è stata ricoverata a novembre 2012 presso la terapia intensiva epatologica del centro trapianti e durante tale degenza ha manifestato un primo episodio di colite da c. difficile, trattata con vancomicina e risolta dopo 10 giorni di terapia. la paziente, quindi, è stata sottoposta a trapianto ortotopico di fegato nel dicembre 2012 (meld score = 34 al trapianto) con inizio della terapia immunosoppressiva con everolimus, micofenolato e prednisone. il decorso post-trapianto è stato caratterizzato da numerose complicanze infettive, quali pleuro-polmonite, infezione urinaria da k. pneumoniae multi-resistente, due episodi di peritonite batterica spontanea, riattivazione dell’infezione da cytomegalovirus, per le quali la paziente è stata trattata con le terapie di volta in volta mirate anche per tempi prolungati. sempre in continuità dello stesso ricovero, nel gennaio e febbraio 2013 si sono verificate recidive dell’infezione da c. difficile, trattate la prima con metronidazolo (risolta dopo 12 giorni di terapia) e la seconda con vancomicina (guarita dopo un trattamento di 10 giorni). inoltre in relazione al quadro clinico di encefalopatia associato a insufficienza respiratoria la paziente è stata trasferita in terapia intensiva, dove ha avuto una pleuro-polmonite da s. maltophilia e insufficienza renale acuta con necessità di emodialisi temporanea. la paziente è stata quindi nuovamente trasferita presso la degenza semi-intensiva, dove ha manifestato una recidiva grave di colite con stato tossiemico e distensione colica trattata per tempo protratto con vancomicina associata a tigeciclina e.v. con lento miglioramento fino a stabilizzazione dopo 20 giorni di terapia. parametro valore rilevato valori normali emoglobina (g/dl) 8,6 12,3-15,3 creatinina (mg/dl) 2 0,5-0,9 clearance creatinina* (ml/min) 25 90-130 albuminemia (g/dl) 2,4 3,5-5,2 proteina c reattiva (mg/dl) 7,6 < 0,5 tabella i. risultati degli esami ematochimici effettuati alla paziente a giugno 2013 * calcolata secondo mdrd dopo la degenza di sette mesi presso il centro trapianti, la paziente è stata trasferita al nostro reparto di malattie infettive nel giugno 2013: le condizioni generali e di trofismo risultavano molto scadenti, con evidente prostrazione in relazione al prolungato decorso clinico con allettamento; gli esami ematochimici evidenziavano anemia con hb = 8,6 g/dl, insufficienza renale con creatinina = 2 mg/dl, clearance della creatinina calcolata sec. mdrd = 25 ml/min, albuminemia = 2,4 g/dl, proteina c reattiva = 7,6 mg/dl (tabella i). nel corso della degenza, inoltre, abbiamo osservato infezioni urinarie da p. aeruginosa e e. faecalis, un nuovo episodio di encefalopatia con stati confusionali e intense parestesie agli arti inferiori, fratture spontanee delle vertebre dorsali trattate con vertebroplastica. inoltre si è verifica una nuova recidiva di colite da c. difficile ad andamento protratto trattata con metronidazolo con modesta risposta clinica. in considerazione di tale decorso di una paziente immunocompromessa e ospedalizzata da lungo tempo, si è deciso di procurare fidaxomicina, un farmaco recentemente approvato per l’utilizzo clinico ma non ancora commercializzato in italia1. la paziente è stata trattata con fidaxomicina alla posologia standard di 200 mg ogni 12 ore per 10 giorni: durante la terapia non si sono evidenziati eventi avversi e si è osservato un significativo miglioramento clinico fino alla risoluzione completa della sintomatologia diarroica a 7 giorni dall’inizio della somministrazione del farmaco. nelle settimane successive, inoltre, non si sono osservate recidive. la paziente, conseguentemente al miglioramento delle condizioni generali e iniziata la riduzione posologica dei farmaci immunosoppressivi, dopo tre mesi di degenza nel nostro reparto, è stata dimessa con rientro al domicilio. nella tabella ii è riportato il decorso clinico della paziente limitatamente alle infezioni da clostridium difficile. al follow-up a 18 mesi la paziente risulta libera da infezione. farmaco usato tempo in terapia risoluzione diarrea prima infezione vancomicina 14 giorni sì, dopo 10 giorni prima recidiva (dopo 2 mesi) metronidazolo 14 giorni sì, dopo 12 giorni seconda recidiva (dopo 1 mese) vancomicina 14 giorni sì, dopo 10 giorni terza recidiva, grave (dopo 2 mesi) vancomicina + tigeciclina 25 giorni sì, dopo 20 giorni quarta recidiva (dopo 2 mesi) metronidazolo 14 giorni no fidaxomicina 10 giorni sì, dopo 7 giorni tabella ii. riassunto schematico delle risposte cliniche della paziente alle terapie somministrate per l’infezione da clostridium difficile nei diversi reparti di degenza discussione l’infezione da c. difficile, conseguentemente all’aumentato impatto epidemiologico e clinico, si è caratterizzata negli ultimi anni per le seguenti criticità: aumento delle infezioni protratte o ricorrenti; evidenza di cluster di ceppi ipervirulenti (es. ribotipi 027 e 244) responsabili di quadri clinici particolarmente gravi (forme fulminanti, ileo paralitico, megacolon tossico) associati a elevata mortalità; problema dei possibili fallimenti terapeutici [9-11]. oltre ai pazienti anziani e lungodegenti, anche quelli immunocompromessi per qualsiasi causa sono a maggior rischio di presentare tali quadri clinici e le relative complicanze. figura 1. fattori che hanno contribuito all’insorgenza e in seguito all’andamento recidivante dell’infezione da clostridium difficile come evidenziato in letteratura [12,13], la condizione di immunocompromissione, come ad esempio quella che si verifica a seguito dei trapianti di cellule staminali, di midollo o d’organo solido in terapia immunosoppressiva o nell’infezione da hiv, costituisce un fattore di rischio indipendente per l’infezione da c. difficile. infatti l’alterazione dell’immunità umorale di questi pazienti aumenta il rischio di colonizzazione da c. difficile e di sviluppo di quadri clinici più gravi e recidivanti. nel caso clinico descritto si è evidenziata la coesistenza di plurimi fattori di rischio per l’infezione da c. difficile: la presenza di comorbilità; la condizione di immunocompromissione in un soggetto sottoposto a trapianto di fegato; le numerose complicanze infettive con le relative terapie antibiotiche ad ampio spettro; la prolungata ospedalizzazione. tutti questi fattori hanno contribuito all’insorgenza di colite da c. difficile caratterizzata da episodi di grave intensità e ad andamento recidivante mantenuto proprio dallo stato di immunosoppressione cronica (figura 1). la paziente è stata trattata con ripetuti cicli di metronidazolo o vancomicina alle posologie e per i tempi convenzionali, ottenendo solo una risposta clinica parziale o temporanea. in effetti vari studi hanno stimato che il tasso di fallimento terapeutico con tali molecole può raggiungere il 15% [7,14], con maggiore frequenza nei pazienti con plurimi fattori di rischio sopra descritti. fidaxomicina è stata introdotta recentemente nella pratica clinica per la terapia della colite da c. difficile [15]. questa molecola si caratterizza per lo stretto spettro antibatterico con un minimo impatto sulla microflora enterica, l’attività battericida e di inibizione della formazione di spore di c. difficile e il raggiungimento di elevate concentrazioni fecali. tali caratteristiche risultano importanti per la possibilità di trattamento delle forme più gravi di questa infezione in pazienti complessi. gli studi clinici di confronto tra fidaxomicina e vancomicina hanno evidenziato la non inferiorità nell’efficacia clinica della prima ma soprattutto un tasso di recidive di infezione significativamente inferiore. inoltre, l’efficacia clinica duratura è risultata maggiore con fidaxomicina [14,16]. l’efficacia e la tollerabilità di fidaxomicina sono state anche confermate in casistiche di pazienti sottoposti a trapianto di cellule staminali o d’organo solido [12]. nel caso descritto il trattamento con fidaxomicina è stato ben tollerato, non ha determinato alterazioni delle concentrazioni della terapia immunosoppressiva ed è risultato prontamente efficace, verosimilmente per una maggiore azione di bonifica intestinale. la paziente nel follow-up anche a lungo termine non ha manifestato ulteriori recidive. conclusioni fidaxomicina rappresenta una nuova opzione terapeutica a disposizione del clinico per l’infezione da c. difficile. le caratteristiche farmacologiche, la tollerabilità e soprattutto l’efficacia clinica associata al minor rischio di recidive, rispetto ai trattamenti convenzionali, sono aspetti favorevoli per un suo utilizzo soprattutto nei quadri clinici più gravi e ricorrenti dei pazienti con comorbilità e immunocompromissione [17,18]. bibliografia 1. ricciardi r, rothenberger da, madoff rd, et al. increasing prevalence and severity of clostridium difficile colitis in hospitalized patients in the united states. arch surg 2007; 142: 624-31; 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migrants in viterbo province after the humanitarian operation “mare nostrum”, we analyzed the local health unit (asl) database to calculate tuberculosis notifications in this area. during the period 2013-2014, viterbo province data were similar to european data. data on age, gender, and nationality are provided and discussed. it is noteworthy the identification of two cases in nigerian patients that triggered a difficult epidemiological investigation due to the high number of people (migrants, social and healthcare workers) with whom they came into contact (174) and the problems in locating migrants moved to other italian regions, thus highlighting the need for a constantly updated record of the migrant-hosting facilities. keywords: tuberculosis; migrants; mare nostrum; epidemiology tuberculosis and migrants in the local health unit of viterbo cmi 2015; 9(1): 27-32 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i1.1166 gestione clinica corresponding author dott.ssa silvia dari silvia.dari@asl.vt.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito agli argomenti trattati nel presente articolo introduzione la tubercolosi è ancora oggi uno dei maggiori problemi di salute pubblica nel mondo. nel 2011 è stata responsabile di 8,7 milioni di nuovi casi in tutto il mondo [1-3]. cardini dei programmi di contrasto alla tbc, con lo scopo di ridurre la trasmissione del mycobacterium tuberculosis nella comunità, sono la sorveglianza con rapida diagnosi e la gestione dei contatti ai fini dell’invio dei pazienti con tbc polmonare bacillifera a una cura efficace [4,5]. nonostante questa strategia abbia portato a una forte riduzione di incidenza, il controllo della malattia è ancora fuori portata, e sono necessari enormi investimenti e risorse [6]. il declino della malattia è stato massimo tra la fine degli anni novanta e la prima decade del nuovo millennio [6] e ha riguardato soprattutto i paesi maggiormente industrializzati. si è assistito, tuttavia, a una brusca frenata negli ultimi 4-5 anni. infatti, in europa, la tendenza alla riduzione dell’incidenza osservata nel corso negli ultimi 20 anni si è stabilizzata. la ragione di questo andamento risiede probabilmente nel rallentamento del declino in diversi stati membri europei e nell’aumento delle notifiche in altri; inoltre, in questi stati si è osservata una particolare tendenza di fondo: una percentuale maggiore di denunce di tbc tra i migranti provenienti da paesi con un alto tasso di incidenza della stessa, contro un’incidenza decrescente nella popolazione autoctona [7,8]. ciò vale anche in italia [1,2] dove, nel decennio 1998-2008, il numero di casi di tubercolosi in persone nate all’estero è più che raddoppiato e rappresenta una percentuale vicina al 50% dei casi totali. in generale, nonostante l’incidenza sia diminuita negli ultimi anni, la popolazione immigrata ha ancora un rischio relativo di contrarre la tubercolosi 10-15 volte superiore rispetto alla popolazione italiana [9-11]. secondo i sistemi di rilevazione nazionali e internazionali, l’attuale situazione epidemiologica della tubercolosi in italia è caratterizzata da una bassa incidenza nella popolazione generale, dalla concentrazione della maggior parte dei casi in alcuni gruppi a rischio [12] e in alcuni classi di età e dall’emergere di ceppi tubercolari multi-resistenti (multi-drug resistant – mdr) [3]. in italia l’ultimo rapporto ufficiale, emanato dal ministero della salute, sull’andamento della tbc risale al 2008, con una incidenza stimata pari a 7,41 su 100.000 abitanti [10]. i dati dell’organizzazione mondiale della sanità (oms) del 2013 collocano l’italia tra i paesi a bassa incidenza, con un tasso stimato di 5,7 casi su 100.000 abitanti, con rapporto maschi:femmine pari a 3:1. i casi di forme mdr sono stimati al 2,6% [13]. secondo il rapporto ecdc (european centre for disease prevention and control) con dati relativi all’anno 2012, l’incidenza in italia corrisponde a 5,2 casi su 100.000 abitanti; il 58% dei casi si riscontra negli stranieri, che hanno un’età media di 35,5 anni, più bassa dei casi italiani, pari a 56,1 anni [14]. la precarietà dell’inserimento sociale, l’irregolarità e la clandestinità, un’estrema mobilità e la scarsità di risorse economiche fanno sì che i normali schemi di controllo e di chemioprofilassi non possano spesso essere adottati [15]. inoltre non è possibile progettare per i migranti, così come per l’intera popolazione, una campagna vaccinale ampia e sistemica, in quanto i dati ad oggi disponibili indicano una bassa efficacia del vaccino vivo attenuato antitubercolare bcg (bacillo di calmette-guérin) nei confronti della tbc polmonare negli adulti [15]. sulla base di quanto evidenziato nei citati dati ufficiali di sorveglianza, si è proceduto ad analizzare le notifiche di tbc pervenute nella asl di viterbo (asl vt) negli anni 2013 e 2014 allo scopo di valutare alcune caratteristiche e l’andamento dei casi, vista la notevole presenza di stranieri originari di paesi ue ad alta incidenza (es. romania) e di migranti provenienti da zone più o meno endemiche per tbc dell’africa, ospitati in centri di accoglienza a seguito dell’operazione umanitaria denominata “mare nostrum”. materiali e metodi di tutte le notifiche pervenute alla asl vt nel biennio 2013-2014 (dati simi, sistema informatizzato malattie infettive) relative ai residenti della provincia di viterbo, sono state prese in considerazione solo le diagnosi accertate con isolamento colturale del bacillo di koch (bk) al fine di produrre dati consolidati. per il calcolo dei tassi di incidenza sono stati presi come riferimento i dati di popolazione istat [16] relativamente ai residenti della provincia di viterbo. a seguito di ogni notifica di tbc con positività per baar (bacilli alcol-acido resistenti) all’esame diretto dei campioni biologici respiratori, è stata attivata immediatamente un’inchiesta epidemiologica nei confronti dei contatti, mirata ad accertare sia gli eventuali casi secondari, sia la presenza di altri casi ancora misconosciuti nelle comunità frequentate. tali soggetti, classificati per livello di esposizione e per appartenenza a categorie di rischio, identificati tra coloro che hanno condiviso lo stesso spazio aereo ristretto con il caso indice, di norma nei tre mesi antecedenti la comparsa di segni e sintomi o del primo reperto di malattia compatibile con tbc, sono stati sottoposti al test tubercolinico (tst) di i livello, tramite il metodo di intradermoreazione secondo mantoux [17,18]. il tst è stato definito positivo (o, più correttamente, significativo) quando, dopo la somministrazione, per via intradermica, di 5 unità internazionali (ui) del derivato standard di proteina purificata (ppd-s), nella regione anteriore del polso, a distanza di 72 ore si è osservato un infiltrato con un diametro medio pari o superiore a 5 mm [17]. test sierologici, come il test igra (interferon-γ release assay), sono stati effettuati come supporto al tst solo nei casi in cui il soggetto, risultato positivo al tst, presentasse documentazione di eseguita vaccinazione per tbc o precedenti test positivi. in caso di significatività del test di mantoux, sono state effettuate come indagini di ii livello rx torace, visita infettivologica e analisi ematochimiche. ai soggetti risultati positivi al test di mantoux e negativi alle altre indagini, è stata proposta la terapia preventiva con isoniazide in base anche ai fattori di rischio individuali [19]. i soggetti risultati negativi al test di mantoux sono stati invitati a ripetere tale test a distanza di 8-10 settimane [17] per valutare un’eventuale cuticonversione. tutti i migranti, entro 48 ore dal loro arrivo nei centri di accoglienza della provincia di viterbo, sono sottoposti a una visita di screening da personale sanitario qualificato, ponendo particolare attenzione ai segni e sintomi ascrivibili alle 13 sindromi oggetto di sorveglianza speciale da parte del ministero della salute, utilizzando anche un questionario per l’individuazione di patologie critiche come la tbc [20,21]. risultati 2013 2014 biennio casi (maschi) 23 (16) 17 (14) 40 (30) residenti (n) al 1° gennaio* 315.623 322.195   incidenza (n/100.000 ab.) 7,3 5,3   mdr/tot 0 5,9% 2,5% stranieri/tot 43,5% 76,5% 57,5% età media stranieri 38 32 35 età media italiani 48 61 51 fasce di età più colpite^  18-29 (17,4%) 18-29 (35,5%) 18-29 (25%) 30-39 (26,1%) 30-39 (23,5%) 30-39 (25%)   40-49 (23,5%) 40-49 (17,5%) tabella i. dati relativi alle diagnosi accertate di tubercolosi nella asl di viterbo negli anni 2013 e 2014 mdr = multi-drug resistant; *da banca dati istat; ^(valori superiori al 15%) come riportato nella tabella i, le notifiche di tbc con diagnosi accertata pervenute nella asl vt negli anni 2013 e 2014 sono state rispettivamente 23 e 17. considerando i dati di popolazione istat relativamente ai residenti della provincia di viterbo, l’incidenza può considerarsi in linea con i dati oms ed ecdc. infatti per il 2014 si ha un numero di casi pari a 5,3 su 100.000 abitanti, molto vicino alla rilevazione ecdc (5,2 su 100.000) [14]. nel 2013 si sono invece verificati più casi di tbc nel territorio di viterbo, con un’incidenza di 7,3 casi su 100.000, prossimo all’ultimo dato ufficiale del ministero della salute, risalente però al 2008 [17]. 2013 2014 italia 13 4 albania 1 0 burundi 1 0 camerun 1 0 cina 0 1 filippine 0 1 gambia 0 1 india 1 1 moldavia 0 1 nigeria 0 2 polonia 1 0 romania 5 6 totale 23 17 tabella ii. casi di tubercolosi rilevati nella asl di viterbo negli anni 2013 e 2014 suddivisi per nazionalità dei pazienti si riscontra inoltre una prevalenza di notifiche dei maschi, che nel 2013 rappresenta quasi il 70%, e nel 2014 l’82%, con un rapporto maschi-femmine biennale pari a 3:1 conformemente ai dati oms ed ecdc (tabella i) [13,14]. le fasce di età più colpite sono state quelle dei giovani adulti, con un’età media più alta negli italiani (tabella i). gli stranieri rappresentano la maggior parte dei casi del 2014 (76%), una percentuale inferiore rispetto al 2013 (43%). il paese di origine più rappresentativo tra i migranti è la romania, che copre circa la metà dei casi in entrambe le annate considerate (tabella ii). il 2014 si è distinto in particolare per un evento che ha richiesto un notevole impegno lavorativo da parte degli operatori che gestiscono le notifiche di tbc. tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre 2014, infatti, sono pervenute 2 notifiche di tubercolosi polmonare bacillifera in due migranti nigeriani ospiti di una stessa struttura di accoglienza in cui entrambi sono arrivati nel mese di giugno 2014. non è nota purtroppo la data di arrivo effettivo di questi soggetti in italia, risalente comunque ai primi mesi del 2014. il primo è stato ricoverato presso l’ospedale l. spallanzani di roma. il secondo (notificato a distanza di 5 giorni dal primo), risultato peraltro hiv+ (probabilmente effettivo caso primario dell’evento), precedentemente ricoverato per altra patologia prima all’ospedale di tarquinia poi in una clinica privata accreditata di viterbo, è stato infine trasferito presso il reparto di malattie infettive dell’ospedale belcolle di viterbo. le notifiche hanno comportato una complessa indagine epidemiologica, con l’individuazione di un notevole numero di contatti: 67 migranti di varia nazionalità, 105 operatori assistenziali socio-sanitari (medici, infermieri, mediatori culturali, volontari, ecc.) e 2 pazienti che hanno condiviso la stanza con il secondo caso. tutti i contatti citati sono stati invitati a sottoporsi al test di i livello. tra i migranti hanno effettuato il tst 43 soggetti: di questi ne sono risultati positivi 31. degli altri 107 contatti, 86 hanno accettato di sottoporsi al test di mantoux: la maggior parte è risultata negativa (tabella iii). operatori migranti positivo 10 31 negativo 76 12 non eseguito 21 26 totale 107 69 tabella iii. operatori e migranti a contatto con i due casi di tbc e relativi risultati del test di mantoux tutti i casi positivi hanno intrapreso le indagini di ii livello. è stato effettuato il test igra a un solo operatore sanitario. nonostante i migranti risultino per il 72% positivi (rispetto a solo il 12% degli operatori), dopo l’esecuzione di tutte le indagini di ii livello, non è emerso nessun altro caso secondario di malattia polmonare bacillifera. a tutti i cutipositivi considerati a rischio di malattia, è stata proposta la terapia preventiva con isoniazide e sono state pianificate le successive visite di controllo (primo controllo dopo 15 giorni e successivamente a cadenza mensile). tutti i migranti che sono stati in contatto con i due pazienti affetti da tbc sono stati trasferiti in altri centri di accoglienza, anche fuori dal territorio asl. tra questi, 26 al momento del trasferimento non avevano ancora completato le indagini di screening necessarie. è stata effettuata idonea segnalazione di quanto avvenuto alle rispettive asl di destinazione, specificando gli iter diagnostico/terapeutici intrapresi o da intraprendere. discussione per quanto la provincia di viterbo risulti nell’ultimo biennio globalmente in linea con i dati epidemiologici più recenti, si evidenzia come all’interno di ogni singolo anno pochi casi possano mutarne notevolmente l’andamento. sarebbe quindi interessante poter avere un report annuale quantomeno regionale con dati sia cumulativi sia più specifici per quei casi che possano essere considerati dei campanelli di allarme dal punto di vista epidemiologico e gestionale. i due migranti nigeriani, pur rappresentando solo il 12% di tutte le inchieste epidemiologiche effettuate, hanno richiesto un lavoro di controllo, di gestione e un impiego di risorse umane molto più importante rispetto agli altri casi. basti pensare al numero di soggetti inseriti nel primo screening (174). questo elevato numero negli operatori è dovuto anche a una oggettiva difficoltà a inserire i singoli nella definizione di “contatto a rischio” sia per la difficoltà nell’estrapolazione dei dati da report amministrativi (es. turni, fogli presenze, ecc.) riguardanti il personale che ha avuto un reale e prolungato contatto con i soggetti infetti, sia perché l’aspetto emotivo ha contribuito indubbiamente a un eccesso di richieste di controlli da parte dei potenziali contatti. la somministrazione del questionario volta all’individuazione precoce dei casi di tbc è risultata poco efficace poiché sono subentrati problemi di comunicazione linguistico-culturale che hanno ostacolato l’instaurarsi di un rapporto fiduciale tra mondi a volte così diversi; ciò si traduce spesso nella difficoltà di applicazione dei protocolli diagnostico-terapeutici prescritti [15]. un altro problema riscontrato è stato quello del trasferimento dei migranti, ancora sotto inchiesta epidemiologica, in altre strutture anche al di fuori della regione lazio. nonostante si sia instaurata un’ottima collaborazione con gli organismi della prefettura di viterbo che individuano i centri di accoglienza, si sono tuttavia verificate alcune criticità nel tempestivo scambio di informazioni e si è resa evidente la necessità di poter disporre di un censimento, costantemente aggiornato, delle strutture deputate a ospitare i migranti. difficoltà maggiori sono sorte nel comunicare i dati relativi ai migranti in contatto con i casi, trasferiti in alloggi fuori regione prima ancora di iniziare gli accertamenti di screening, anche se, dopo onerose ricerche, è stato possibile rintracciare tutti i luoghi di trasferimento e le relative asl di competenza territoriale. le problematiche descritte hanno comportato la perdita di informazioni e la mancanza di dati di ritorno sul proseguimento degli accertamenti per quei soggetti risultati negativi al primo controllo di cui si doveva quindi valutare un’eventuale sieroconversione a distanza di 8-10 settimane, e dei controlli diagnostico-clinici per quelli che avevano iniziato la chemioprofilassi con isoniazide. sarebbero quindi auspicabili sia la realizzazione di una mappa dei centri di accoglienza, che non fosse solo una fotografia istantanea ma un quadro “dinamico” a disposizione di tutti gli attori deputati alla gestione e alla salvaguardia dei diritti di questi soggetti fragili, sia l’individuazione, in queste strutture, di una figura definibile come “responsabile sanitario” a cui attribuire le funzioni di gestione degli aspetti sanitari di prevenzione e cura. punti chiave la tubercolosi è ancora oggi uno dei maggiori problemi di salute pubblica nel mondo nella provincia di viterbo l’incidenza e l’andamento epidemiologico nel biennio 2013-2014 sono in linea con gli ultimi dati di oms, ecdc e ministero della salute quando si verificano casi, anche in comunità chiuse (es. nelle strutture di accoglienza per migranti), la probabilità di contagio è relativamente bassa è necessario migliorare l’organizzazione gestionale e la comunicazione delle informazioni tra gli organi competenti è auspicabile una mappatura dinamica dei centri di accoglienza bibliografia 1. ingrosso l, vescio f, giuliani m, et al. risk factors for tuberculosis in foreign-born people (fbp) in italy: a systematic review and meta-analysis. plos one 2014; 9: e94728; http://dx.doi.org/10.1371/journal.pone.0094728 2. world health organization. global tuberculosis report 2012. disponibile all’indirizzo http://apps.who.int/iris/bitstream/10665/75938/1/9789241564502_eng.pdf (ultimo accesso marzo 2015) 3. world health organization. antimicrobial resistance. global report on surveillance (2014). disponibile all’indirizzo http://apps.who.int/iris/bitstream/10665/112642/1/9789241564748_eng.pdf (ultimo accesso marzo 2015) 4. migliori gb, zellweger jp, abubakar i, et al. european union standards for tuberculosis care. eur respir j 2012; 39: 807-19; http://dx.doi.org/10.1183/09031936.00203811 5. girardi e. epidemiology and control of tuberculosis in italy. g ital med lav ergon 2010; 32: 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extreme interest because in the clinical practice it is frequent the management of elderly patients, in which are common comorbidities and polypharmacotherapies. several studies have been conducted to evaluate the cardiotoxicity intrinsic to tkis, but the results are, however, often discordant between in vitro studies and clinical practice. we present a case report about a male patient with several numerous comorbidities: copd, diabetes mellitus and coronary artery disease. after the failure of imatinib therapy, the patient has switched in second-line to nilotinib therapy, 400 mg twice a day. the therapy was discussed and arranged with the cardiologists, with strict monitoring of cardiac and metabolic parameters. the therapy with nilotinib has allowed to obtain an optimal response according to the eln guidelines and, from the sixth month of treatment, a major molecular response was obtained. from the standpoint of cardiologists, the patient has maintained a good compensation, despite the permanence of anginal symptoms, which required repeated therapeutic adjustments. our case shows that nilotinib may be a well tolerated and effective therapy in a patient suffering from a major heart disease, maintaining a close clinical and cardiologic monitoring. keywords: nilotinib; cardiotoxicity; coronary artery disease efficacy and tolerability of treatment with line ii nilotinib in a patient with coronary artery disease cmi 2013; 7(suppl 1): 9-12 caso clinico corresponding author dott.ssa elisa roncoroni elisa.roncoroni@ospedaleniguarda.it perché descriviamo questo caso la possibile cardiotossicità dei tki è di estremo interesse, con risultati discordanti tra studi in vitro e pratica clinica: il nostro caso evidenzia come nilotinib possa rappresentare una terapia ben tollerata ed efficace anche in un paziente affetto da una importante cardiopatia, purché sottoposto a uno stretto monitoraggio clinico e cardiologico caso clinico nel 2009, un paziente di 75 anni eseguiva degli esami di routine, con riscontro di leucocitosi (wbc 40,3 x 109/l) e piastrinosi (plt 516 x 109/l), con emoglobina nei limiti. nel sospetto di una neoplasia mieloproliferativa cronica venivano prescritti esami di approfondimento, tra cui: uno striscio di sangue periferico, che mostrava la presenza di elementi della serie granulocitaria in vari stadi maturativi; la ricerca su sangue periferico della mutazione v617f del gene jak2, risultata negativa; la ricerca su sangue periferico del riarrangiamento bcr/abl p210, risultata positiva in percentuale pari al 78%. l’esame obiettivo e l’ecografia dell’addome mostravano una milza nei limiti di normalità e la radiografia del torace evidenziava un quadro di bpco. veniva quindi posta diagnosi di leucemia mieloide (lmc) cronica philadelphia-positiva. in anamnesi si segnalavano ipertensione arteriosa controllata farmacologicamente, ipercolesterolemia familiare e dislipidemia, diabete mellito di tipo 2 in terapia con ipoglicemizzanti orali e una pregressa ulcera gastrica. il paziente presentava, inoltre, un’anamnesi positiva per cardiopatia ischemica. al 1986 risaliva, infatti, un episodio di ima non q, senza esiti. nel 1991 il paziente veniva sottoposto a una prima procedura di angioplastica, con confezionamento di 5 by-pass aortocoronarici. nel 2007 veniva ripetuta una seconda procedura di angioplastica, con confezionamento di un by-pass aortocoronarico. nel novembre 2009, infine, veniva eseguita una terza coronarografia, complicata da edema polmonare, con riscontro di coronaropatia trivasale e degenerazione del graft venoso per cd. dopo trattamento farmacologico e posizionamento di contropulsatore aortico, veniva posizionato uno stent a livello del graft venoso. data l’instabilità del quadro cardiologico si rendeva necessario mantenere una doppia terapia antiaggregante, con acido acetilsalicilico e clopidogrel. da allora il paziente è in follow up cardiologico, con riferita sintomatologia anginosa, solo parzialmente controllata dalla terapia cardiologica in atto. una volta confermata la diagnosi di lmc, il paziente veniva sottoposto a terapia citoriduttiva con idrossiurea, con discreto controllo dell’emometria (gb 5 x 109/l, plt 902 x 109/l). da segnalare il riscontro di importante anemizzazione (hb 6,6 g/dl), con concomitante riscontro di carenza marziale, secondaria a sanguinamento gastrico, dovuto alla terapia con acido acetilsalicilico, per cui il paziente veniva sottoposto a trasfusione di globuli rossi filtrati e a supplementazione marziale endovenosa. un mese più tardi si iniziava la terapia con imatinib alla posologia di 400 mg/die. l’idrossiurea veniva nel contempo scalata fino a sospensione. il monitoraggio di malattia è stato fatto mediante fish e rt-qpcr, con cadenza trimestrale (tabella i), da sangue periferico. si è preferito, infatti, non ricorrere a manovre di valutazione midollare, in considerazione della necessità di mantenere una doppia terapia antiaggregante, data l’instabilità del quadro cardiologico. periodo risposta citogenetica risposta molecolare risultato secondo le linee guida eln +3 mesi (mar 2010) risposta citogenetica minima (ph+ 72%) bcr/abl 23% (is) risposta ottimale +6 mesi (giu 2010) risposta citogenetica minore (ph+ 65%) bcr/abl 22,8% (is) risposta subottimale +9 mesi (set 2010) risposta citogenetica minore (ph+ 44%) bcr/abl 17,2% (is) failure +12 mesi (dic 2010) risposta citogenetica minore (ph+ 63%) bcr/abl 36% (is) failure tabella i. monitoraggio del paziente in corso di terapia con imatinib dopo 6 mesi di terapia con imatinib il paziente presentava una risposta subottimale secondo i criteri eln del 2009, attribuibile a possibili interazioni farmacologiche, con conseguente riduzione della biodisponibilità di imatinib; si decideva, pertanto, di procrastinare il cambio di terapia con gli inibitori di tirosin chinasi (tki) di seconda generazione, anche in considerazione delle numerose comorbilità del paziente. sono pertanto stati modificati i farmaci interferenti assunti dal paziente, quali statine e ipoglicemizzanti, e si sostituiva esomeprazolo con rabeprazolo. i controlli di fish e biologia molecolare dopo 9 e 12 mesi, tuttavia, confermavano un quadro di failure; poiché tale quadro non risultava più imputabile a interferenze farmacologiche, si rendeva necessario valutare il passaggio a terapia di ii linea con nilotinib o dasatinib. le numerose comorbilità del paziente (bpco, diabete mellito e soprattutto le problematiche cardiologiche) non incoraggiavano nessuna delle due terapie. dopo un lungo confronto con i cardiologi di riferimento, nel febbraio 2011 si decideva di iniziare la terapia di ii linea con nilotinib 400 mg x 2/die, tenendo sotto stretto monitoraggio il paziente dal punto di vista cardiaco e metabolico. dopo circa un mese dall’inizio di nilotinib, si verificava un episodio di anemia con conseguente angina da discrepanza. nonostante tale evento intercorrente, non attribuibile a nilotinib ma al sanguinamento gastroenterico secondario alla doppia terapia antiaggregante assunta dal paziente, il trattamento con nilotinib è stato ben tollerato e continuato senza sospensioni, senza alcun riscontro né di alterazioni della funzione sistolica del ventricolo sinistro all’ecocardiogramma né di alterazioni elettrocardiografiche (in particolare l’intervallo qt è rimasto costantemente entro i limiti di normalità). il monitoraggio della risposta in corso di nilotinib è stato effettuato tramite le valutazioni da sangue periferico riportate in tabella ii. periodo risposta citogenetica risposta molecolare risultato secondo le linee guida eln +3 mesi (mag 2011) risposta citogenetica completa bcr/abl 1,3% (is) risposta ottimale +6 mesi (ago 2011) risposta citogenetica completa risposta molecolare maggiore bcr/abl 0,047% (is) risposta ottimale +9 mesi (nov 2011) risposta citogenetica completa risposta molecolare completa bcr/abl negativo risposta ottimale +12 mesi (dic 2011) risposta citogenetica completa risposta molecolare completa bcr/abl 0,0031% (is) risposta ottimale +18 mesi (giu 2012) risposta citogenetica completa risposta molecolare completa bcr/abl 0,0066% (is) risposta ottimale tabella ii. monitoraggio del paziente in corso di terapia con nilotinib la terapia con nilotinib ha pertanto consentito l’ottenimento di una risposta ottimale, in accordo alle linee guida eln, a tutti i controlli effettuati. dopo 3 mesi di terapia, infatti, è stata ottenuta una risposta citogenetica completa, poi mantenuta durante tutto il successivo follow up, mentre a partire dal sesto mese di trattamento è stata ottenuta una risposta molecolare maggiore, mai riscontrata precedentemente in corso di trattamento con imatinib. dal punto di vista cardiologico, il paziente ha mantenuto un buon compenso, nonostante la permanenza di una sintomatologia anginosa, che ha richiesto ripetuti aggiustamenti terapeutici. discussione e conclusioni il problema della possibile cardiotossicità dei farmaci inibitori delle tirosin chinasi è di estremo interesse in quanto, nella pratica clinica, è frequente la gestione di pazienti anziani, nei quali sono comuni la presenza di comorbilità e l’impiego di farmaci interferenti, spesso metabolizzati dallo stesso complesso enzimatico (cyp450) impiegato per i tki. in considerazione anche di questa realtà clinica, sono stati condotti numerosi studi volti a valutare la cardiotossicità intrinseca ai tki, con risultati però discordanti tra studi in vitro e pratica clinica. studi in vitro hanno infatti dimostrato un ruolo degli inibitori delle tirosin chinasi nella determinazione di una miopatia tossica: i cardiomiociti in coltura, in corso di esposizione a imatinib o nilotinib, vanno incontro ad attivazione di risposte allo stress da parte del reticolo endoplasmatico, collasso dei potenziali di membrana mitocondriali, rilascio dei citocromi c nel citosol, riduzione del contenuto cellulare di atp e morte cellulare. una ulteriore problematica è rappresentata dal fatto che i tki non colpiscono selettivamente la proteina di fusione bcr/abl, ma anche altri bersagli. sia imatinib sia i tki di seconda generazione, ad esempio, esercitano un’azione inibitoria anche su kit, coinvolto nei processi riparatori dopo eventi ischemici miocardici, e su abl, che svolge un ruolo protettivo dallo stress ossidativo. tuttavia questi dati ottenuti in vitro non sono stati confermati nella comune pratica clinica, in quanto la cardiotossicità in corso di terapia con tki è un evento avverso possibile, ma raro. ad esempio, per quanto riguarda nilotinib, studi che ne prevedevano un impiego sia come prima sia come seconda linea di terapia, con un follow up mediano di 18 mesi, non hanno evidenziato una cardiotossicità significativa. questo caso, in cui il paziente già era affetto da una importante cardiopatia, ne è la conferma: mantenendo infatti uno stretto monitoraggio clinico e cardiologico, nilotinib si è dimostrato un’alternativa ben tollerata e di sicura efficacia. bibliografia atallah e. nilotinib cardiac toxicity: should we still be concerned? leuk res 2011; 35: 577-8. http://dx.doi.org/10.1016/j.leukres.2011.01.021 baccarani m, cortes j, pane f, et al; european leukemianet. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51. http://dx.doi.org/10.1200/jco.2009.25.0779 hochhaus a, o’brien sg, guilhot f, et al; iris investigators. six-year follow up of patient receiving imatinib for the first-line treatment of chronic myeloid leukemia; leukemia 2009; 23: 1054-61. http://dx.doi.org/10.1038/leu.2009.38 jabbour e, deininger m, hochhaus a. management of adverse events associated with tyrosine kinase inhibitors in the treatment of chronic myeloid leukemia. leukemia 2011; 25: 201-10. http://dx.doi.org/10.1038/leu.2010.215 kantarjian hm, hochhaus a, saglio g, et al. nilotinib versus imatinib for the treatment of patientswith newly diagnosed chronic phase, philadelphia chromosome-positive, chronic myeloid leukaemia: 24-month minimum follow-up of the phase 3 randomised enestnd trial; lancet oncol 2011; 12: 841-51. http://dx.doi.org/10.1016/s1470-2045(11)70201-7 kerkelä r, grazette l, yacobi r, et al. cardiotoxicity of the cancer therapeutic agent imatinib mesylate. nat med 2006; 12: 908-16. http://dx.doi.org/10.1038/nm1446 orphanos gs, ioannidis gn. cardiotoxicity induced by tyrosine kinase inhibitors. acta oncologica 2009; 48: 964-70. http://dx.doi.org/10.1080/02841860903229124 perik pj, rikhof b, de jong fa, et al. results of plasma n-terminal prob-type matriuretic peptide and cardiac troponin monitoring in gist patients do not support the existence of imatinib-induced cardiotoxicity. ann oncol 2008; 19: 359-61. http://dx.doi.org/10.1093/annonc/mdm468 ribeiro am, marcolino ms. the use of imatinib mesylate has no adverse effects on the heart function. results of a pilot study in patients with chronic myeloid leukemia. leuk res 2011; 35: 317-22. http://dx.doi.org/10.1016/j.leukres.2010.07.011 thanopoulou e, judson i. the safety profile of imatinib in cml and gist: long-term considerations. arch toxicol 2012; 86: 1-12. http://dx.doi.org/10.1007/s00204-011-0729-7 trent jc, patel ss, zhang j, et al. rare incidence of congestive heart failure in gastrointestinal stromal tumor and other sarcoma patients receiving imatinib mesilate. cancer 2010; 116: 184-92. http://dx.doi.org/10.1002/cncr.24683 verweij j, casali pg, kotasek d, et al. imatinib does not induce cardiac left ventricular failure in gastrointestinal stromal tumours patients: analysis of eortc-isg-agitg study 62005. eur j cancer 2007; 43: 974-8. http://dx.doi.org/10.1016/j.ejca.2007.01.018 wolf a, couttet p. preclinical evaluation of potential nilotinib cardiotoxicity. leuk res 2011; 35: 631-7. http://dx.doi.org/10.1016/j.leukres.2010.11.001 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6) 13 clinical management issues lo studio citogenetico convenzionale presentava la traslocazione t(9;22) (q34;q11) in tutte e 30 le metafasi analizzate. lo studio molecolare eseguito con tecnica rt-pcr evidenziava un trascritto ibrido caso clinico in data 2 settembre 2008 giungeva alla nostra osservazione un giovane uomo di anni 22, inviatoci dal medico curante per sospetta emopatia. il paziente presentava da 20 giorni febbricola, astenia e dimagramento. l’esame emocromocitometrico praticato presso il nostro centro evidenziava leucocitosi, lieve anemia e piastrinosi (tabella i), mentre la formula leucocitaria si configurava come illustrato in tabella ii. l’esame obiettivo evidenziava marcata splenomegalia, con margine inferiore palpabile a 16 cm dall’arcata costale. all’anamnesi familiare il paziente risultava essere figlio unico. l’esame morfologico del midollo osseo evidenziava una spiccata iperplasia della serie granuloblastica in tutte le fasi maturative compatibile con diagnosi di malattia mieloproliferativa cronica. perché descriviamo questo caso perché questo caso ci mostra come un attento monitoraggio nei pazienti con leucemia mieloide cronica, seguendo i criteri eln 2009 (european leukemianet), mette in evidenza alcune categorie di pazienti, come quelli in risposta subottimale dopo 12 mesi di terapia con imatinib, con caratteristiche prognostiche sfavorevoli e outcome simile ai pazienti considerati in fallimento terapeutico, che si possono giovare in maniera efficace di un precoce cambio di inibitore corresponding author dott. fausto palmieri fausto.palmieri@alice.it caso clinico abstract here we describe a case of a young patient with chronic myeloid leukemia, at high-risk according to the sokal index, who started imatinib at standard dose and obtained a sub-optimal response at 12 months. this condition was not automatically an indication to change therapy, but considering the patient as suboptimal, we decided to switch to a second-generation tyrosine kinase inhibitor (tki), nilotinib 800 mg/die, obtaining soon a complete cytogenetic response (ccyr), thereafter a major molecular response (mmolr). delayed achievement of cytogenetic and molecular is associated with increased risk of progression among patients with chronic myeloid leukemia in early chronic phase receiving imatinib therapy. therefore we can hypothesise that this kind of patient could be elegible for an early switch to second-generation tki. keywords: chronic myeloid leukemia, sub-optimal response, nilotinib chronic myeloid leukemia: successful therapy with nilotinib in a young patient with high sokal risk and in sub-optimal response with imatinib cmi 2010; 4(suppl. 6): 13-16 1 ematologia e trapianto emopoietico, aorn s.g. moscati, avellino fausto palmieri 1 leucemia mieloide cronica: un caso di paziente giovane ad alto rischio sokal in risposta non ottimale a imatinib e trattato efficacemente con nilotinib disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6)14 leucemia mieloide cronica: un caso di paziente giovane ad alto rischio sokal in risposta non ottimale a imatinib... pertanto un paziente con risposta sub-ottimale. lo studio molecolare rivelava ancora un trascritto bcr-abl/abl is = 1,41, quindi un warning. il dosaggio plasmatico di imatinib evidenziava un livello di 1.960 ng/ml. visto il mancato ottenimento della risposta citogenetica completa, la giovane età del paziente, l’alto valore del rapporto bclabl/abl (is = 1,41 dopo dodici mesi di trattamento) si decideva di diversificare il trattamento alla luce dei dati pubblicati da alfonso quintás-cardama su blood nel 2009 [4]. dopo una rivalutazione clinica, laboratoristica e cardiologica completa, comprendente ecocardiogramma con frazione di eiezione ed elettrocardiogramma, nel novembre 2009 il paziente iniziava trattamento con nilotinib 400 mg x 2/die. dopo tre mesi di trattamento sempre in risposta ematologica completa il paziente otteneva una risposta citogenetica completa: 46 xy [30], ma una risposta molecolare non ancora maggiore: bcr-abl/abl is = 0,347. dopo sei mesi di trattamento sempre in risposta ematologica e citogenetica completa, il paziente otteneva una risposta molecolare maggiore, con bcr-abl/abl is = 0,1% del valore iniziale. dopo 9 mesi di trattamento, sempre in risposta ematologica e citogenetica completa, il paziente evidenziava un approfondimento della risposta molecolare maggiore, con bcr-abl/abl is = 0,01. il paziente è tuttora in trattamento senza alcuna tossicità né ematologica né extraematologica, tollerante ottimamente la terapia con nilotinib (tabella iii). discussione i pazienti in risposta sub-ottimale secondo le definizioni dell’european leukemianet del 2006 [1] rappresentano una distinta categoria di pazienti con un outcome che è differente (generalmente peggiore), rispetto a quello dei pazienti in risposta ottimale [2-3]. inoltre i pazienti in risposta sub-ottimale costituiscono un gruppo eterogeneo nel quale le implicazioni prognostiche sono differenti, a seconda di quando la risposta sub-ottimale è stata evidenziata (6-9-1218 mesi) [2]. nel caso clinico presentato, la risposta citogenetica parziale a 12 mesi evidenzia un criterio di risposta sub-ottimale (tabella iv ). trattamento il 10 settembre 2008 il paziente iniziava trattamento con imatinib al dosaggio standard di 400 mg/die, ottenendo una risposta ematologica in iv settimana (wbc = 5.600/ ml con normalizzazione della formula leucocitaria). alla v settimana si evidenziavano una risposta ematologica completa con milza non più palpabile. non è stato registrato alcun effetto collaterale durante il trattamento con imatinib. dopo tre mesi di trattamento il paziente era in risposta ottimale con risposta ematologica completa e risposta citogenetica parziale (ph+ nel 15% delle 20 metafasi esaminate). lo studio molecolare eseguito con rt-pcr quantitativo evidenziava una ratio bcr-abl/abl espresso secondo is (international standard) di 19,6 (il valore all’esordio era pari a 78) [1]. dopo sei mesi di trattamento il paziente aveva ottenuto una risposta ematologica completa, una risposta citogenetica parziale (ph+ nel 20% delle 29 metafasi esaminate). il rapporto bcr-abl/abl espresso in is era pari a 4,07. dopo un anno di trattamento con imatinib 400 mg/die il paziente, sempre con risposta ematologica completa, presentava ancora risposta citogenetica parziale (ph+ 5% delle 20 metafasi esaminate), risultando parametro valori rilevati valori normali wbc 315.000/ml 4.000-10.000/ml hb 11,1 g/dl 12-16 g/dl plts 403.000/mm3 150.000-400.000/mm3 neutrofili 44% linfociti 2% eosinofili 4% basofili 13% metamielociti 4% mielociti 10% promielociti 16% mieloblasti 7 % tabella i esame emocromocitometrico del paziente alla sua prima visita tabella ii formula leucocitaria del paziente alla sua prima visita bcr-abl con giunzione di tipo b2a2 codificante per una proteina di tipo p210. pertanto veniva posta diagnosi di leucemia mieloide cronica in fase cronica a rischio sokal alto: 1,78. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6) 15 f. palmieri rischio, presentava una concentrazione plasmatica di imatinib di 1.960 ng/ml (di gran lunga superiore al valore soglia identificato in 1.000 ng/ml), anche se l’assenza di dati prospettici impedisce, ad oggi, di prendere una decisione in merito al possibile tentativo di aumentare il dosaggio di imanitib, anche quando il blood level testing sia maggiore di 1.000 ng/ml, optavamo per una diversificazione del trattamento, passando a nilotinib 800 mg/die, frazionato in 2 somministraun lavoro pubblicato da quintas-cardama su blood nel 2009 [4] dimostra come i pazienti che a 12 mesi non hanno raggiunto una risposta citogenetica completa (ccyr), abbiano un alto rischio di progressione e come tali possono essere candidati per uno switch terapeutico pur essendo considerati sub-ottimali per le linee guida eln. secondo i criteri eln [1], rivisitati nel 2009 [5], i pazienti in risposta sub-ottimale possono ancora trarre beneficio da imatinib, ma l’outcome a lungo termine potrà non essere ottimale, pertanto per essi si aprono almeno due opportunità terapeutiche: a) incremento della dose di imatinib; b) cambio ad un inibitore di tirosin chinasi di seconda generazione. secondo gli scarni dati della letteratura, la dose escalation di imatinib (a 600 o 800 mg/die) sembra essere efficace in alcuni pazienti, nel breve periodo[6], ma la maggior parte sembra perdere nel tempo i benefici acquisiti inizialmente [7-8]. inoltre in un lavoro pubblicato di recente da baccarani su blood [9], che costituisce il più ampio studio randomizzato pubblicato ad oggi, comprendente 216 pazienti ad alto rischio sokal, in prima linea di trattamento, l’impiego delle alte dosi non mostrava differenze significative di risposta: infatti la ccyr risultava del 64% nel braccio alte dosi (imatinib 800 mg/die), verso una ccyr del 58% nel braccio dosi standard (imatinib 400 mg/die). alla luce di tali dati e considerando che il nostro giovane paziente, con sokal ad alto risposta ottimale (non definita precedentemente) risposta sub-ottimale fallimento warnings baseline na na na alto rischio cca/ph+ 3 mesi chr e almeno mcyr (ph+ ≤ 65%) no cyr (ph+ > 95%) < chr na 6 mesi almeno pcyr (ph+ ≤ 35%) < pcyr (ph+ > 35%) no cyr (ph+ > 95%) na 12 mesi ccyr pcyr (ph+ 1 35%) < pcyr (ph+ > 35%) < mmolr 18 mesi mmolr < mmolr < ccyr na qualsiasi momento durante la terapia mmolr stabile o in via di miglioramento perdita di mmolr mutazioni perdita di chr/ccyr mutazioni cca in cellule ph+ un aumento nei livelli di trascritto cca in cellule ph– tabella iii sintesi del percorso clinico e terapeutico del paziente ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; mmolr = risposta molecolare maggiore; pcyr = risposta citogenetica parziale rt-pcr = real time pcr tabella iv raccomandazioni dell ’european leukemianet del 2006 [1], integrate con quelle del 2009 [5]: valutazione complessiva della risposta a imatinib in prima linea nella fase cronica iniziale in grassetto le aggiunte eln 2009 aca = additional chromosome abnormalities; cca = clonal chromosome abnormalities; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; hr = risposta ematologica; mcyr = risposta citogenetica minore; mmolr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile; pcyr = risposta citogenetica parziale mese trattamento risultati settembre 2008 diagnosi y rt-pcr = 78 y milza palpabile ottobre 2008 imatinib 400 mg/die y chr y milza non più palpabile gennaio 2009 imatinib 400 mg/die y chr y pcyr y rt-pcr = 19,6 aprile 2009 imatinib 400 mg/die y chr y pcyr y rt-pcr = 4,07 ottobre 2009 imatinib 400 mg/die y chr y pcyr y rt-pcr = 1,41 novembre 2009 nilotinib 400 mg x 2/die y chr febbraio 2010 nilotinib 400 mg x 2/die y chr y ccyr y rt-pcr = 0,347 maggio 2010 nilotinib 400 mg x 2/die y chr y ccyr y mmolr agosto 2010 nilotinib 400 mg x 2/die y chr y ccyr y mmolr ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6)16 leucemia mieloide cronica: un caso di paziente giovane ad alto rischio sokal in risposta non ottimale a imatinib... in vivo sia in vitro, dotato di una maggiore selettività e affinità di legame con il dominio chinasico di bcr-abl; i legami a idrogeno di imatinib sono sostituiti da interazioni lipofiliche, che rendono questo composto apparentemente meno mutageno [11]. nel caso del nostro paziente con risposta sub-ottimale a 12 mesi nilotinib si è dimostrato efficace, rapido nell’ottenere una risposta ottimale e maneggevole. in base a questa nostra esperienza è pertanto possibile prospettare un impiego precoce di tale inibitore in pazienti con queste caratteristiche. zioni. questa nostra decisione è stata anche incoraggiata dai dati dello studio di kantarjian presentato all’ash 2009 [10], nel quale in 226 pazienti resistenti o intolleranti a imatinib, dopo 24 mesi di trattamento con nilotinib, 800 mg/die, veniva raggiunta una risposta citogenetica completa nel 41% dei pazienti, che saliva al 58% se venivano considerati solo i pazienti che prima di iniziare il trattamento con nilotinib erano già in risposta ematologica completa. nilotinib è un inibitore di seconda generazione, molto più potente di imatinib, sia bibliografia 1. baccarani m, saglio g, goldman j, hochhaus a, simonsson b, appelbaum f et al. evolving concepts in the of chronic myeloid leukemia: recommendations from an expert panel on behalf of the  european leukemianet. blood 2006; 108: 1809-20 2. alvarado y, kantarjian h, o’brien s, faderl s, borthakur g, burger j et al. significance of suboptimal response to imatinib, as defined by the european leukemianet, in the long-term outcome of patients with early chronic myeloid leukemia in chronic phase. cancer 2009; 115: 3709-18 3. marin d, milojkovic d, olavarria e, khorashad js, de lavallade h, reid 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therapy. blood 2009; 113: 2154-60 7. rea d, etienne g, corm s, cony-makhoul p, gardembas m, legros l et al. imatinib dose escalation for chronic phase-chronic myelogenous leukemia patients in primary suboptimal response to imatinib 400mg daily standards therapy. leukemia 2009; 23: 1193-96 8. breccia m, stagno f, vigneri p, latagliata r, cannella l, del fabro v et al. imatinib dose escalation in 74 failure or suboptimal response chronic myeloid leukemia patients at 3-year follow-up. am j hematol 2010; 85: 375-7 9. baccarani m, rosti g, castagnetti f, haznedaroglu i, porkka k, pane f et al. comparison of imatinib 400mg and 800mg daily in front-line treatment of high-risk, philadelphia-positive chronic myeloid leukemia: a european leukemianet study. blood 2009; 113: 4497-4504 10. kantarjian hm, giles fj, bhalla kn, pinilla-ibarz j, larson ra, gattermann n et al. update on imatinib-resistant chronic myeloid leukemia patients inn chronic phase on nilotinib therapy at 24 months: clinical 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1, anna ghiso 1, marco gobbi 1 cmi 2015;9(4)95-100.html effetto della terapia antivirale con tenofovir ed entecavir sull’epatite cronica b: esperienza di un singolo centro fabio tarsetti 1, giuseppe tarantino 2, piergiorgio mosca 1, emidio scarpellini 1, giammarco fava 1 1 sod malattie dell’apparato digerente, endoscopia digestiva e malattie infiammatorie croniche intestinali. azienda ospedaliera universitaria “ospedali riuniti”, ancona 2 sod clinica di gastroenterologia, epatologia ed endoscopia d’urgenza, azienda ospedaliera universitaria, “ospedali riuniti”, ancona abstract background and aim: the current treatment of chronic hepatitis b infection (chbv) has achieved several step-ups thanks to the introduction of the new-generation nucleos(t)ide analogs. entecavir and tenofovir have shown a high genetic resistance barrier and a low rate of side effects. in literature, there are a few studies comparing entecavir and tenofovir in the treatment of chbv. thus, we describe the results of our experience in managing chbv patients with tenofovir vs. entecavir. materials and methods: we have retrospectively evaluated, from 2007 to date, 20 chbv patients treated with entecavir and tenofovir. all the patients underwent basal and periodical clinical follow-up, blood tests, virological tests, fibroscan® test or liver biopsy and also upper abdominal ultrasound examination. study endpoints were: viral replication inhibition, viral antigens seroconversion and transaminases normalization. drug-associated side effects were also registered. results: after 12 weeks of therapy, entecavir and tenofovir lead to hbv-dna negativization in 44% and 62% of patients, respectively. a case of viral seroconversion for hbeag and hbsag was evident in entecavir group, while no cases were registered in tenofovir group. after 12 weeks, 11% of entecavir treated patients and 37% of tenofovir treated patients showed normalization of transaminases. discussion: tenofovir seems to exert a better viral replication inhibition (though not statistically significant) and to show transaminases improvement in comparison with entecavir, which, in turn, results more effective in hbeag/hbsag seroconversion. both drugs have a high safety profile in terms of side effects. keywords: hbv; entecavir; tenofovir; seroconversion tenofovir and entecavir for chronic hepatitis b infection treatment: a single-center experience cmi 2015; 9(4): 95-100 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i4.1202 clinical management corresponding author giammarco fava sod malattie dell’apparato digerente, endoscopia digestiva e malattie infiammatorie croniche intestinali. azienda ospedaliera universitaria “ospedali riuniti” via conca 71 60126, ancona, italy tel: +39 0715963224 fax: + 39 071880619 favag@hotmail.it disclosure il presente articolo è stato realizzato con il supporto incondizionato di gilead sciences srl introduzione l’infezione cronica da virus dell’epatite b colpisce circa 400 milioni di persone nel mondo [1]. la storia naturale di questa infezione, se non trattata, vede lo sviluppo nel tempo di cirrosi epatica e di epatocarcinoma in un fegato anche non cirrotico. questo è possibile data la capacità del virus dell’epatite b di integrare il suo dna in quello degli epatociti [2]. in ambito sanitario i costi correlati all’infezione da hbv, pertanto, sono altissimi se quantificati in termini di screening e, soprattutto, di gestione diagnostico-terapeutica del paziente affetto da epatopatia hbv-correlata. basti pensare alla gestione dell’epatocarcinoma (hcc) insorto su una epatopatia hbv-correlata o alla gestione del soggetto con cirrosi e/o hcc idoneo a effettuare il trapianto di fegato [3]. la soppressione della replicazione virale si è dimostrata efficace nel migliorare lo spettro patologico della chbv [3]. esistono due strategie terapeutiche per i pazienti con epatite hbv-correlata: il trattamento di durata definita con interferone (pegilato), e quello a lungo termine con gli analoghi nucleosidici o nucleotidici. i principali vantaggi della terapia con interferone (pegilato) sono l’assenza di resistenza e la capacità di indurre un controllo immunomediato dell’infezione hbv. l’interferone utilizza un meccanismo sia immunomodulatorio sia antivirale diretto. l’insorgenza di frequenti effetti collaterali rappresenta l’aspetto negativo di questo tipo di trattamento. i primi analoghi nucleos(t)idici utilizzati sono stati lamivudina e successivamente adefovir. tuttavia si è osservato come questi farmaci presentino un alto rischio di indurre resistenze virali in corso di trattamento [3-7]. successivamente sono stati introdotti entecavir e tenofovir, che rappresentano tutt’oggi farmaci di prima linea nel trattamento dell’epatite cronica hbv-correlata [4-7]. questi due nuovi analoghi nucleos(t)idici sono caratterizzati da un’elevata resistenza genetica alla mutazione dell’hbv con pochi o nulli effetti collaterali per i pazienti [4-7]. il meccanismo d’azione degli analoghi nucleos(t)idici consiste nel bloccare direttamente la replicazione virale, ad esempio tramite il blocco della dna polimerasi [5-8]. studi hanno dimostrato come in circa il 29% dei pazienti trattati sia con l’analogo nucleosidico entecavir, sia con l’analogo nucleotidico tenofovir, si sia ottenuta la sieroconversione dell’antigene hbeag [9] dopo 24 settimane di trattamento. percentuali simili tra i due analoghi si sono osservate dopo 48 settimane di terapia [9]. ad oggi, gli studi presenti in letteratura che hanno valutato o comparato l’efficacia di entecavir e tenofovir, da soli o in combinazione, nel trattamento della chbv, mostrano una sostanziale sovrapposizione dell’efficacia dei due farmaci, sebbene tenofovir sembri avere una maggiore barriera genetica allo sviluppo di resistenza [9-12]. alla luce delle evidenze della letteratura, riportiamo la nostra esperienza nel trattamento con entecavir e tenofovir in pazienti con infezione cronica da virus dell’epatite b. in particolare, lo scopo dello studio era quello di valutare l’impatto di tenofovir ed entecavir sulla replicazione virale, la sieroconversione e la normalizzazione delle transaminasi. materiali e metodi pazienti abbiamo valutato retrospettivamente, in un periodo compreso tra gennaio 2007 e giugno 2015, 20 pazienti in trattamento per chbv scelti in maniera random. di questi, 9 sono stati trattati con entecavir (0,5 mg/giorno), 8 con tenofovir (300 mg/giorno) e 3 con entecavir + tenofovir per via orale. valutazione dei pazienti prima e durante il trattamento antivirale all’inizio del trattamento e successivamente a cadenza periodica tutti i pazienti sono stati sottoposti a esame clinico, esami ematochimici (transaminasi, indici di colestasi, emocromo con formula, creatinina, azotemia, clearance della creatinina, dosaggio del calcio e della vitamina d, ecc.), esami virologici (marker hbv, hbv-dna) ed ecografia dell’addome superiore. l’hbv-dna è stato misurato con la tecnica real time pcr (real time polymerase chain reaction): il valore al di sotto del quale è stato considerato negativo è pari a 10 iu/ml. il valore delle transaminasi (alt) è espresso in u/l ed è considerato normale fino a 40 u/l. la funzionalità renale è stata valutata mediante il calcolo della velocità di filtrazione glomerulare (vfg). per il calcolo della vfg abbiamo utilizzato la formula derivata dallo studio mdrd (modification of diet in renal disease). l’entità del danno epatico e lo stadio della fibrosi sono stati valutati prima di iniziare il trattamento antivirale con la biopsia epatica oppure con il fibroscan®, una metodica diagnostica elastografica ormai standardizzata [13]. ll fibroscan® valuta la fibrosi del fegato misurandone la durezza, che viene espressa in kpa. il dispositivo misura la rigidità di una sezione cilindrica di tessuto epatico di 4 cm di lunghezza e di 1 cm di diametro che si trova a una profondità di 2,5 cm al di sotto della superficie cutanea. il valore medio della consistenza del parenchima epatico nel paziente esente da epatopatia è di circa 5,3 kpa. la iqr (che esprime la variabilità delle misurazioni effettuate) deve essere inferiore al 30% rispetto alla mediana e il success rate (numero delle misurazioni utili) di almeno il 60% rispetto al numero totale delle acquisizioni. il fibroscan® può dare valori falsamente elevati in pazienti con un’elevata impedenza acustica del torace come gli obesi e in quelli con spazi intercostali stretti. l’esame è stato pertanto eseguito nei pazienti in studio dopo un periodo di digiuno di circa 6 ore, senza l’assunzione di farmaci antipertensivi che potessero modificare il flusso sanguigno nel fegato [13]. analisi statistiche i pazienti sono stati studiati in maniera retrospettiva. le variabili analizzate nello studio sono state espresse come media ± errore standard. ll test del chi quadro è stato usato per comparare le percentuali delle variabili considerate (negativizzazione dell’hbv-dna, sieroconversione tra gruppi, normalizzazione delle transaminasi); la variazione dei parametri analizzati è stata valutata con l’analisi della varianza. i valori p < 0,05 sono stati considerati statisticamente significativi. risultati l’età media dei pazienti è stata di 60 ± 3 anni (range 24-81 anni) e tra essi vi erano 14 maschi. un paziente in trattamento con entecavir è risultato drop-out per mancata compliance alla terapia. le caratteristiche demografiche e cliniche dei pazienti sono descritte nella tabella i. entecavir (n = 9) tenofovir (n = 8) entecavir + tenofovir (n = 3) p value età (anni ± es) 60,8 ± 17,3 61,6 ± 8,4 56,3 ± 11,5 ns sesso maschile (n, %) 5 (55%) 7 (90%) 2 (67%) ns cirrosi (n, %) 1 (11%) 0 0 ns hcc (n, %) 2 (22%) 2 (25%) 0 ns vfg (mdrd) (ml/min/1,73 m2 ± es) 97 ± 18,2 78,25 ± 12,9 88 ± 36 ns durata trattamento (settimane) 199 ± 138 144,4 ± 61 130 ± 75 ns hbv-dna basale (ui/ml) 41.000 33.000 158.847 °< 0,05 negativizzazione di hbv-dna a 12 settimane (n, %) 4 (44%) 5 (62%) 3 (100%) °< 0,05 tempo di negativizzazione hbv-dna (settimane ± es) 25,3 ± 17,8 14,5 ± 12,8 9,3 ± 4,6 *°< 0,05 sieroconversione hbsag (n, %) 1 (11%) 0 0 < 0,05 sieroconversione hbeag (n, %) 1 (11%) 0 0 < 0,05 normalizzazione delle alt (n, %) 1 (11%) 3 (37%) 3 (100%) *°< 0,05 tabella i. caratteristiche demografiche e clinico-laboratoristiche dei pazienti trattati con entecavir e tenofovir alt = alanina aminotransferasi; es = errore standard; hcc = epatocarcinoma; mdrd = modification of diet in renal disease; vfg = velocità di filtrazione glomerulare *gruppo tenofovir vs gruppo entecavir; °gruppo tenofovir + entecavir vs gli altri 2 gruppi entecavir i pazienti trattati con entecavir (durata media del trattamento di 199 ± 138 settimane) hanno mostrato una negativizzazione dell’hbv-dna nel 44% dei casi a 12 settimane dall’inizio della terapia (figura 1). in un paziente (11% dei casi) trattato con entecavir si è ottenuta una sieroconversione sia di hbeag, sia di hbsag. le transaminasi si sono normalizzate nell’11% dei pazienti trattati con entecavir (figura 1). un paziente trattato con entecavir presentava uno stato di cirrosi; due pazienti erano affetti da hcc (22%), entrambi su fegato non cirrotico (tabella i). tenofovir i pazienti trattati con tenofovir (durata media del trattamento di 144,4 ± 61 settimane) hanno mostrato una negativizzazione dell’hbv-dna nel 62% dei casi dopo 12 settimane dall’inizio della terapia (figura 1). in nessuno dei pazienti trattati si è ottenuta una sieroconversione. le transaminasi si sono normalizzate nel 37,5% dei pazienti trattati (figura 1). in questo gruppo non vi erano pazienti cirrotici (tabella i). due pazienti erano affetti da hcc (25%) (tabella i). figura 1. negativizzazione della replicazione virale, sieroconversione hbsag/hbeag e normalizzazione delle transaminasi nei pazienti trattati con entecavir, tenofovir o con la combinazione dei due farmaci entecavir + tenofovir i pazienti trattati con entecavir in aggiunta a tenofovir (durata media del trattamento di 130 ± 75 settimane) hanno mostrato una negativizzazione dell’hbv-dna nel 100% dei casi dopo 12 settimane dall’inizio della terapia (figura 1). anche se in nessuno dei pazienti trattati si è ottenuta una sieroconversione, le transaminasi si sono normalizzate nel 100% dei casi (figura 1). in questo gruppo non vi erano pazienti cirrotici né pazienti affetti da hcc (tabella i). confronti di efficacia tra trattamenti l’efficacia di entecavir e tenofovir nel negativizzare l’hbv-dna è comparabile (chi quadro, 44% vs 62%, entecavir vs tenofovir, p = ns) (figura 1). entecavir ha mostrato un caso di sieroconversione mentre non ci sono stati casi durante il trattamento con tenofovir (chi quadro, 11% vs 0%, entecavir vs tenofovir, p < 0,05). tenofovir ha mostrato maggiore efficacia di entecavir nel normalizzare le transaminasi (chi quadro, 11% vs 37%, entecavir vs tenofovir, p < 0,05) (figura 1). il gruppo di pazienti trattati con la combinazione dei due farmaci (15% dei 20 pazienti arruolati) ha mostrato una maggiore efficacia sia nell’ottenere l’abbattimento della carica virale sia nel raggiungere una maggiore normalizzazione delle transaminasi rispetto agli altri due gruppi di trattamento (figura 1). effetti collaterali l’unico effetto collaterale registrato è stato un caso di insufficienza renale in un paziente trattato con entrambi i farmaci. la velocità di filtrazione glomerulare (vfg) è espressione della funzionalità renale ed è ottenuta nella tabella tramite il calcolo della mdrd (tabella i). nessun altro effetto collaterale è stato riportato nei tre gruppi di trattamento. discussione in questo studio retrospettivo monocentrico abbiamo dimostrato che i pazienti affetti da chbv trattati con tenofovir presentano una migliore compliance rispetto a quelli trattati con entecavir. tenofovir ed entecavir hanno ottenuto una simile efficacia, dimostrata dalla negativizzazione precoce dell’hbv-dna. inoltre tenofovir ha mostrato una riduzione significativamente maggiore delle transaminasi rispetto a entecavir. tuttavia, abbiamo osservato un caso di sieroconversione, sia dell’hbeag, sia dell’hbsag, in corso di trattamento con entecavir. l’efficacia di entecavir e tenofovir nell’inibire la replicazione virale è confermata da recenti metanalisi che mostrano come entecavir e tenofovir siano capaci di far ottenere tale risultato a 48 settimane dall’inizio della terapia nel 78% circa di pazienti trattati [9]. questo risultato è frutto del meccanismo d’azione di questi farmaci, che hanno un basso rischio di sviluppare resistenze [8]. probabilmente il piccolo campione di pazienti esaminato nel presente studio condiziona la maggiore efficacia di tenofovir nel migliorare il valore delle transaminasi. tuttavia, molti pazienti trattati con tenofovir partivano da valori basali di transaminasi significativamente più bassi rispetto ai pazienti del gruppo trattato con entecavir. in quest’ultimo gruppo, inoltre, un paziente aveva sviluppato un flare epatitico su una cirrosi hbv-correlata misconosciuta dopo trattamento cronico con steroide (prednisone 5 mg al giorno) per alcuni anni per una polimialgia reumatica, e presentava alti valori di transaminasi prima e durante il trattamento. studi in letteratura dimostrano come tenofovir ed entecavir risultino egualmente efficaci nell’ottenere la normalizzazione dei test epatici nel 74% e 81% rispettivamente per tenofovir ed entecavir dopo 24 settimane dall’inizio della terapia [9-12]. nel presente lavoro bisogna anche considerare la eterogenea composizione riguardo al sesso dei tre gruppi di pazienti (tabella i). inoltre nel gruppo in trattamento con entecavir, il 22% era stato trattato precedentemente con interferone pegilato, il 22% era stato successivamente trattato con lamivudina e l’11% con adefovir. possiamo quindi dire che il gruppo di pazienti trattati con entecavir è composto da un’esigua percentuale di casi che aveva fallito il trattamento con interferone pegilato e lamivudina e/o adefovir. la maggior parte dei pazienti aveva iniziato il trattamento con entecavir de novo. il gruppo di pazienti trattati con tenofovir è invece composto da una percentuale significativamente maggiore di soggetti trattati in precedenza con interferone pegilato, lamivudina e adefovir che, a differenza del gruppo entecavir, avevano presentato in una percentuale maggiore una insufficienza renale di vario grado. inoltre molti soggetti trattati con tenofovir erano relapser o non-responder ai precedenti trattamenti. pertanto tenofovir è stato usato, in una percentuale significativa dei casi, come rescue therapy rispetto a entecavir. è interessante notare come i pazienti trattati con la combinazione di entecavir e tenofovir (15% del totale) abbiano mostrato una maggiore efficacia nel negativizzare la replicazione virale rispetto ai farmaci usati in monoterapia. tale dato, probabilmente dovuto al piccolo campione analizzato (3 pazienti sui 20 totali) non è, peraltro, in linea con la letteratura, che non dimostra una maggiore efficacia nell’ottenere o mantenere l’abbattimento della replicazione virale o la normalizzazione delle transaminasi durante il trattamento combinato con i due farmaci [10-12,14]. in questo studio abbiamo confermato la capacità di entecavir di portare, sebbene in un singolo paziente, alla sieroconversione di hbeag e soprattutto di hbsag, con guarigione completa dall’infezione. tale dato, come già citato nella sezione introduttiva, è infatti ormai noto dalle prime metanalisi in letteratura [9-12]. a questo riguardo sono in corso studi per verificare il possibile meccanismo immunomodulatorio di entecavir nei confronti dell’infezione hbv [9]. l’insorgenza o il peggioramento dell’insufficienza renale, osservato sia con entecavir sia con tenofovir, è un effetto collaterale noto degli analoghi nucleos(t)idici [9], anche se notevolmente ridotto rispetto ai primi composti come lamivudina e adefovir [4]. nel presente lavoro, probabilmente per il numero esiguo di pazienti arruolati, non si sono osservati casi di tossicità renale, ad eccezione di un paziente in trattamento con entrambi i farmaci che presentava una mdrd pari a 47 ml/min/1,73 m2. a tale paziente è stato successivamente somministrato tenofovir a giorni alterni con conseguente normalizzazione della funzionalità renale. possiamo quindi concludere che il presente studio retrospettivo monocentrico ha confermato l’efficacia di tenofovir ed entecavir nel trattamento dell’chbv. tenofovir è utilizzato soprattutto come rescue therapy e mostra una riduzione della carica virale (anche se non significativa) e del valore delle transaminasi rispetto a entecavir, mentre entacavir ha fatto registrare una maggiore efficacia nella sieroconversione hbsag/hbeag. entrambi i farmaci mostrano un ottimo profilo di sicurezza in termini di insorgenza di effetti collaterali. punti chiave sono stato valutati retrospettivamente i dati relativi a 20 pazienti affetti da epatite cronica b trattati con entecavir, tenofovir o una combinazione dei due entecavir e tenofovir hanno mostrato pari efficacia nella negativizzazione di hbv-dna entecavir ha mostrato maggior efficacia rispetto agli altri due gruppi nella sieroconversione hbsag/hbeag tenofovir si è rivelato più efficace di entecavir nella normalizzazione delle transaminasi la combinazione dei due farmaci è stata in grado di far rilevare maggior efficacia nella negativizzazione di hbv-dna e nella normalizzazione delle transaminasi bibliografia 1. mcmahon bj. epidemiology and natural history of hepatitis b. semin liver dis 2005; 25: 3-8; http://dx.doi.org/10.1055/s-2005-915644 2. fattovich g, stroffolini t, zagni i, et al. hepatocellular carcinoma in cirrhosis: incidence and risk factors. gastroenterology 2004; 127: 35-50; http://dx.doi.org/10.1053/j.gastro.2004.09.014 3. european association for the study of the liver. easl clinical practice guidelines: management of chronic hepatitis b virus infection. j hepatol 2012; 57: 167-85; 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linea di inibitori è verosimilmente la strategia terapeutica migliore. diverse pubblicazioni hanno identificato, applicando i criteri 2006 dell’eln, categorie di pazienti in risposta sub-ottimale che si gioverebbero di uno switch precoce a inibitore di seconda linea. il gruppo dell’hammersmith ha dimostrato come soprattutto il paziente sub-ottimale a 6 mesi abbia una prognosi sovrapponibile a quella di un paziente in fallimento, mentre il sub-ottimale molecolare (a 18 mesi) non abbia differenze prognostiche rispetto al paziente considerato ottimale [3]. il gruppo dell’mdacc ha applicato tali criteri in un gruppo di pazienti trattati già con alto dosaggio di imatinib: di nuovo il paziente in risposta sub-ottimale a 6 mesi ha una pessima prognosi (transformation free survival del 40%), mentre il paziente in sub-ottimale a 12 mesi non ha sostanziali differenze prognostiche, ma ha solo il 30% di probabilità di raggiungere una risposta molecolare a lungo termine [4]. anche il nostro gruppo ha recentemente identificato retrospettivamente i pazienti con risposta sub-ottimale a prognosi peggiore, su un largo numero di pazienti trattati: a 6 e 12 mesi i pazienti in risposta sub-ottimale che hanno continuato imatinib, senza nessun massimo breccia 1 in questo numero di clinical management issues sono riportati 4 casi clinici, in cui nilotinib è stato utilizzato con efficacia come seconda linea in pazienti con diversi gradi di resistenza a imatinib, secondo le definizioni dell’european leukemianet (eln) del 2009. nilotinib è un inibitore selettivo di bcr-abl1, testato inizialmente sui pazienti resistenti e/o intolleranti a imatinib. lo studio iris ha fornito i risultati a lungo termine della terapia con imatinib: a 8 anni di follow-up la sopravvivenza globale è superiore all’80%, con un continuo incremento delle risposte molecolari e un aumento della profondità di queste [1]. a distanza di 8 anni abbiamo anche una reale stima dell’incidenza di resistenza al farmaco: nel braccio imatinib circa un 16% di pazienti ha sospeso definitivamente il farmaco per inefficacia. lo studio iris ha anche permesso di identificare il momento cruciale della terapia con imatinib: il numero delle progressioni e dello sviluppo di eventi (perdita di risposte ottenute) è, infatti, più alto nei primi 2 anni di terapia. un corretto monitoraggio del paziente in questa prima delicata fase è quindi necessario. le raccomandazioni dell’eln ci forniscono un valido sostegno, definendo dei concetti chiave sul ruolo del monitoraggio e sulle definizioni di risposta, da tenere in considerazione nel trattamento di un paziente con imatinib in prima linea [2]. nel 2009, una riedizione delle raccomandazioni ha stabilito come sia necessario anticipare alcune risposte per la definizione del paziente “subottimale” o in “fallimento” già a 3 mesi: tutto ciò verosimilmente alla luce dei risultati degli nilotinib: inibitore selettivo per i pazienti in ii linea 1 dipartimento di ematologia, azienda policlinico umberto i°, università sapienza, roma editoriale corresponding author dottor massimo breccia breccia@bce.uniroma1.it disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6)4 editoriale altro intervento terapeutico, hanno avuto una prognosi sovrapponibile ai pazienti in fallimento [5]. in questo numero di cmi, stagno e colleghi presentano un interessante caso di un paziente che ha mantenuto lo stato di risposta sub-ottimale fino a 12 mesi di terapia: per la mancata risposta citogenetica completa è stato sottoposto a screening mutazionale che ha identificato ben 3 diverse mutazioni. pur non avendo dimostrazioni in letteratura sul significato clinico di tali mutazioni, ma considerando il paziente a elevata instabilità genomica, è stato eseguito un cambiamento di terapia con nilotinib a dosaggio standard, ottenendo una risposta ottimale in breve tempo. questo caso ci dimostra come un’attenta applicazione delle raccomandazioni dell’eln nel monitoraggio aiuti a identificare precocemente i pazienti che richiedono un cambiamento a un inibitore più selettivo e come i pazienti che non raggiungano mai una risposta citogenetica ottimale, debbano essere candidati a uno screening mutazionale. quest’ultimo punto ci è stato suggerito in letteratura anche dal gruppo dell’hammersmith [6]. il secondo caso, di fausto palmieri, evidenzia di nuovo la potenza selettiva di nilotinib nei pazienti che non raggiungono una risposta ottimale a 12 mesi: anche in questa esperienza un cambiamento precoce ha permesso di prevenire un’eventuale progressione di malattia, più frequente nei pazienti in risposta parziale o non rispondenti. inoltre il caso di palmieri ci dimostra come la tossicità di nilotinib in seconda linea sia maneggevole e permetta di continuare con lo stesso dosaggio. i due rimanenti casi sono altrettanto interessanti perché presentano due casi di pazienti resistenti: il primo, presentato da pezzullo, si può considerare a tutti gli effetti un resistente primario ematologico, situazione non frequente in cui, vista la prognosi e gli scarsi risultati ottenuti con l’aumento del dosaggio di imatinib, è ormai opportuno un cambiamento precoce a un inibitore più selettivo. pierri e colleghi descrivono invece un paziente molto pre-trattato che tenta un approccio con dose escalation per una risposta sub-ottimale molecolare e poi per una successiva resistenza acquisita citogenetica passa a nilotinib con successo. i risultati del trial di fase ii a un follow-up di 2 anni [7] hanno dimostrato come nilotinib sia efficace in pazienti resistenti e/o intolleranti, anche quando questi siano già resistenti a più linee di terapia o recidivati dopo trapianto allogenico. il 44% dei pazienti trattati in questo trial ha ottenuto, nel tempo mediano di 3 mesi, una risposta citogenetica completa. il vantaggio in termini di risposte è significativo per i pazienti che al momento dell’arruolamento avevano una risposta ematologica completa: questo afferma quanto sia importante un corretto monitoraggio citogenetico e molecolare durante la terapia con imatinib, per permettere l’identificazione precoce dei pazienti che possono giovarsi di uno switch precoce a una seconda linea. inoltre, il follow-up a 2 anni evidenzia come la sopravvivenza sia molto alta (87%), malgrado le diverse linee precedenti di trattamento e come le risposte citogenetiche ottenute siano durature (84% delle risposte mantenute a 2 anni). in conclusione, questi casi riportati ribadiscono l’importanza di uno switch precoce in pazienti in risposta sub-ottimale e in pazienti in resistenza, sottolineando quanto sia importante eseguire un corretto monitoraggio durante la terapia con imatinib. bibliografia 1. deininger mw, o’brien s, guilhot f, goldman j, hochhaus a, hughes tp et al. international randomized study of interferon vs sti571 (iris) 8-year follow-up: sustained survival and low risk for 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cancer 2009; 115: 3709-18 5. breccia m, orlandi s, latagliata r, grammatico s, diverio d, mancini m et al. suboptimal response to imatinib according to 2006-2009 european leukemianet criteria: a “grey zone” at 3, 6, 12 months identifies chronic myeloid leukemia patients who need early intervention. br j haematol 2010 [epub ahead of print] 6. khorashad js, de lavallade h, apperley jf, milojkovic d, reid ag, bua m et al. finding of kinase domain mutations in patients with chronic phase chronic myeloid leukemia responding to imatinib may identify those at high risk of disease progression. j clin oncol 2008; 26: 4806-13 7. kantarjian h, giles f, bhalla kn, larson ra, gattermann n, ottmann og, et al.nilotinib in chronic myeloid leukemia patients in chronic phase (cmlcp) with imatinib resistance or intolerance: 2-year follow-up results of a phase 2 study. blood 2008; 112: 3238 nilotinib: inibitore selettivo per pazienti in fallimento o in risposta sub-ottimale ad imatinib massimo breccia 1 terapia con nilotinib in un paziente con risposta sub-ottimale di tipo citogenetico a imatinib fabio stagno 1, alessandra cupri 1, stefania stella 2, michele massimino 2, silvia rita vitale 2, paolo vigneri 2 caso clinico leucemia mieloide cronica: un caso di risposta sub-ottimale a imatinib trattato efficacemente con nilotinib fausto palmieri 1 caso clinico uso di nilotib a seguito di fallimento terapeutico con imatinib luca pezzullo 1 caso clinico efficacia della terapia con nilotinib in paziente con leucemia mieloide cronica esordita in epoca pre-tki e resistente a imatinib ivana pierri 1, m. bergamaschi 1, antonia cagnetta 1, anna ghiso 1, marco gobbi 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2) clinical management issues 3 fabrizio pane 1 la leucemia mieloide cronica dopo 10 anni di terapia con inibitori di tirosin chinasi la leucemia mieloide cronica (lmc) ha da sempre costituito un modello nello studio delle malattie neoplastiche per il profondo impatto che le recenti acquisizioni, prima di patogenesi molecolare e poi di terapia mirata a uno specifico bersaglio molecolare, hanno avuto nello sviluppo della moderna oncologia. sono passati circa 160 anni da quando il termine leucemia fu coniato da john hughes bennet (“case of hypertrophy of the spleen and liver in which death took place from suppuration of the blood”, edinburgh medical journal, 1845) per indicare questa patologia la cui caratteristica fondamentale emergeva come lo spiccato aumento dei globuli bianchi del sangue e la splenomegalia. la storia moderna di questa malattia comincia però più di 100 anni dopo, con la scoperta del cromosoma philadelphia (ph), descritto inizialmente come un piccolo cromosoma 22 da nowel e hungerford, a philadelphia per l’appunto, nel 1960. a quei tempi l’origine genetica dei tumori era per lo più misconosciuta, e la scoperta del cromosoma philadelphia era la prima evidenza della presenza in cellule tumorali umane di una ben caratterizzata anomalia cromosomica. ci vollero poi circa 13 anni per capire che il piccolo cromosoma anomalo, costantemente presente nelle cellule dei pazienti, derivava da una traslocazione, cioè lo scambio reciproco di un pezzo di cromosoma tra i cromosomi 9 e 22, e un’altra decade perché i ricercatori dimostrassero che, per effetto della traslocazione, due geni normalmente posti su cromosomi differenti, il 9 e il 22 per l’appunto, si fondessero sul cromosoma philadelphia dando origine a un gene ibrido, il gene bcr/abl. poco tempo dopo però fu evidenziato il ruolo centrale della tirosin chinasi abl, costitutivamente attivata per effetto della traslocazione cromosomica, come evento patogenetico fondamentale per la trasformazione cellulare sia in vitro sia in modelli murini. nel 1990, infatti, daley e collaboratori generarono un modello di topo transgenico in cui il gene di fusione bcr/ abl si dimostrava necessario e sufficiente a indurre una malattia neoplastica simile alla lmc. questi studi fornirono quindi il razionale per l’uso farmacologico di inibitori della proteina oncogenica bcr/abl nel trattamento della lmc e quindi allo sviluppo clinico da parte di brian druker di imatinib, il primo farmaco a bersaglio molecolare intracellulare a essere utilizzato nella terapia dei tumori umani. imatinib ha radicalmente modificato lo scenario terapeutico della lmc. fino a 10 anni fa c’erano infatti solo poche opzioni terapeutiche: il trapianto allogenico di cellule staminali da donatore consanguineo o, sempre più frequentemente, da donatore compatibile non familiare, costituiva l’unica scelta terapeutica curativa, che tuttavia era applicabile solo ai pazienti più giovani, in buone condizioni cliniche e con un donatore compatibile, e cioè in non più del 30% dei casi, mentre gli altri pazienti venivano prevalentemente trattati con interferone-alfa, nella consapevolezza però che solo una minoranza di loro avrebbero avuto delle risposte complete durature al trattamento e sarebbero diventati dei lungo-sopravviventi. al giorno d’oggi i pazienti con lmc sono trattati in tutti i paesi più sviluppati con imaeditoriale 1 direttore a.f. ematologia, azienda ospedaliera universitaria federico ii di napoli, università di napoli federico ii corresponding author prof. fabrizio pane fabpane@unina.it disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2)4 editoriale tinib, farmaco somministrato per via orale che si è dimostrato in grado di controllare la malattia inducendo la remissione completa ematologica praticamente in tutti i casi dopo poche settimane di trattamento. il trattamento è efficace nel tempo: nei casi in cui la terapia è iniziata in fase cronica precoce, le risposte citogenetiche complete sono più del 70% dopo un anno di trattamento e la percentuale continua ad aumentare nel tempo, tanto che dopo 7 anni di trattamento le risposte citogenetiche complete sono superiori all’85%. è inoltre importante notare che le risposte al farmaco sono durature: il 97% dei pazienti che ottiene la risposta citogenetica completa dopo 12 mesi di trattamento rimane libero da progressione della malattia dopo altri 6 anni di terapia. inoltre quasi il 100% dei pazienti in cui il trattamento riduce la massa leucemica residua di più di tre logaritmi dopo 18 mesi si mantiene in risposta completa e priva di progressione a un followup di 7 anni. il trattamento con imatinib ha dimostrato inoltre elevata efficacia anche nei pazienti che erano in trattamento con altri farmaci, come interferone-alfa o idrossiurea, e iniziavano la terapia in fase cronica tardiva. quasi la metà di questi pazienti ottiene la risposta citogenetica completa dopo un anno di trattamento e la risposta appare, anche in questo caso, duratura nel tempo. il trattamento è inoltre molto ben tollerato, tuttavia l’assunzione del farmaco è da continuare in modo indefinito anche nei pazienti in remissione citogenetica completa e, sebbene disponiamo in questo momento solo dei dati del monitoraggio a medio termine degli effetti della terapia, solo il 10% dei pazienti deve abbandonare la assunzione del farmaco per effetti collaterali gravi. questi dati indicano che è possibile curare, anche se probabilmente non guarire, con una terapia orale basata su un singolo farmaco, imatinib, una elevata percentuale di pazienti affetti da lmc, una malattia che fino al decennio scorso si concludeva inevitabilmente con la trasformazione in crisi blastica. pertanto, la maggior parte dei medici che curano la lmc è passato dall’idea di una malattia la cui gravità giustificava il rischio di un trapianto di cellule staminali allogeniche a quello di una malattia cronica che può essere controllata per lunghi periodi con una terapia orale che provoca in genere effetti collaterali di scarso rilievo rispetto a quelli che ogni ematologo che tratta patologie neoplastiche è abituato a fronteggiare. tuttavia bisogna sottolineare che la gestione del paziente con lmc è in realtà complessa e solo la attenta valutazione e monitoraggio dell’efficacia e degli effetti del trattamento garantisce un risultato ottimale della terapia. una frazione non piccola dei pazienti può mostrare una resistenza primaria o secondaria al trattamento con imatinib, e anche gli effetti collaterali vanno prontamente riconosciuti e affrontati. i dati del monitoraggio a lungo termine dello studio iris indicano infatti che solo il 60% circa dei pazienti con lmc che hanno iniziato il trattamento della malattia con imatinib è in risposta citogenetica completa continuando il trattamento con questo farmaco. alcuni dei meccanismi legati all’insorgenza della resistenza al trattamento sono stati identificati e descritti in dettaglio negli ultimi anni. particolare interesse ha destato la possibilità di identificare mutazioni a livello del sito catalitico dell’oncoproteina bcr/ abl nelle cellule leucemiche dei pazienti resistenti al trattamento. in questi pazienti la presenza della mutazione determina una modificazione sterica del sito catalitico tirosin chinasi che previene la possibilità di legame di imatinib al sito catalitico stesso. in tal modo la terapia perde del tutto o quasi del tutto la sua efficacia. sono state descritte almeno 60 mutazioni differenti di abl che modificano in modo differente la sensibilità della malattia alla terapia con imatinib. in tal senso, la recente introduzione in sperimentazione clinica e poi in commercio di inibitori di tirosin chinasi di seconda generazione, come nilotinib o dasatinib, ha una grande rilevanza clinica. questi inibitori, infatti, sono stati disegnati e sviluppati in modo da potersi adattare al legame con il sito catalitico di abl mutato e sono inoltre dotati di potenza verso il bersaglio biologico molto maggiore di imatinib. anche nel caso dei nuovi inibitori, il disegno razionale della molecola basato sui dati della patogenesi molecolare e sulla conoscenza dei nuovi meccanismi di resistenza descritti per imatinib, si è tradotto in una elevatissima efficacia clinica. nilotinib ha dimostrato, in studi di fase ii, di essere in grado di indurre una risposta citogenetica completa in circa la metà dei pazienti resistenti al trattamento con imatinib, e che la risposta viene mantenuta nel tempo dalla maggior parte dei pazienti. ulteriori studi, ancor più recenti, hanno poi dimostrato che i nuovi inibitori potranno aver un ancor maggiore potenziale terapeutico se utilizzati in prima linea nei pazienti in fase cronica precoce. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2) 5 f. pane parallelamente all’evoluzione del trattamento sono stati progressivamente introdotti nella pratica clinica nuovi sofisticati strumenti di indagine che consentono di valutare in modo estremamente preciso gli effetti del trattamento, come ad esempio tracciare le variazioni quantitative della massa leucemica con grande sensibilità o identificare la presenza delle mutazioni del sito catalitico; pertanto, all’analisi citogenetica, che conserva ancor oggi un indubbio valore come marcatore surrogato di sopravvivenza, si possono associare oggi tecniche che offrono possibili vantaggi aggiuntivi come la fish, la rq-pcr, una tecnica molecolare, basata sulla reazione di pcr, che consente di misurare la riduzione delle cellule leucemiche fino a 4-5 logaritmi, l’analisi delle mutazioni del sito catalitico di abl e anche il dosaggio dei livelli plasmatici dei farmaci ad azione inibitoria delle tirosin chinasi impiegati nel trattamento della lmc. l’appropriato utilizzo di queste tecnologie e la corretta interpretazione della risposta clinica al trattamento sono quindi di importanza cruciale per valutare appieno l’effetto della terapia e riconoscere i pazienti in cui il trattamento non ha un’efficacia ottimale e che sono quindi candidati ad alternative terapeutiche attualmente possibili per la già ricordata possibilità di adottare, in seconda linea terapeutica, farmaci di grande efficacia come gli inibitori della tirosin chinasi di seconda generazione. pertanto, questa raccolta di casi clinici rappresenta uno strumento di approfondimento professionale dedicato a tutti i medici e gli operatori del settore ematologico che si trovano impegnati o si avvicinano al trattamento dei pazienti con lmc. attraverso lo strumento del caso clinico, infatti, ematologi con consolidata esperienza nel trattamento della lmc illustrano e discutono alcune delle problematiche con cui è possibile doversi confrontare nel trattamento di questa malattia e le strategie diagnostiche e terapeutiche più idonee per gestire tali problematiche. cmi 2013;7(suppl 1)19-23.html risposta molecolare profonda e precoce indotta da nilotinib in un paziente con leucemia mieloide cronica (lmc) di nuova diagnosi antonella russo rossi 1 1 u.o. ematologia con trapianto, università degli studi di bari “aldo moro” abstract we report a case of a patient with chronic myeloid leukemia diagnosed in january 2012 and treated with nilotinib 600 mg/die as first line therapy. patient obtained a complete hematologic response (chr) and improvement of splenomegaly in 2 weeks. in three months the patient obtained complete cytogenetic response (ccr) and an important transcript level reduction (less than 1%). according to the international recommendations, molecular analysis was performed every three months in a labnet network laboratory. treatment was never interrupted or reduced due to any adverse event. after 9 months patient achieved a major molecular response (mmr) and during evaluation a mr4 has been documented. keywords: nilotinib; chronic myeloid leukemia; bcr-abl; standardization deep and early molecular response induced by nilotinb in a newly diagnosed patient with chronic myeloid leukemia (cml) cmi 2013; 7(suppl 1): 19-23 caso clinico corresponding author dott.ssa antonella russo rossi antorussorossi@libero.it perché descriviamo questo caso? per confermare l’importanza di ottenere delle risposte precoci e profonde, sottolineando il valore di un monitoraggio molecolare standardizzato e costante che permetta di valutare la risposta al trattamento. utilizzare nilotinib in prima linea ha permesso di avere una riduzione del trascritto brc-abl/abl inferiore all’1% già a 3 mesi raggiungendo una risposta completa e profonda dopo un anno di trattamento con una costante riduzione del trascritto molecolare nel tempo caso clinico figura 1. cariotipo del paziente all’esordio a gennaio 2012 è giunto alla nostra osservazione un paziente di 52 anni a seguito di improvvisa comparsa di dolore all’ipocondrio sinistro. l’ecografia dell’addome ha evidenziato la presenza di splenomegalia (milza diametro longitudinale 17 cm, area di superficie 109,6 cm2). l’anamnesi patologica è risultata silente. l’esame obiettivo ha confermato la presenza di splenomegalia con polo splenico palpabile a circa 5 cm dall’arcata costale. l’esame emocromocitometrico ha evidenziato una spiccata leucocitosi con globuli bianchi pari a 191.000/mm3, lieve anemia con hb 11,1 g/dl e conta piastrinica pari a 341.000/mm3. la valutazione midollare ha mostrato un quadro ipercellulare con incremento degli elementi della serie mieloide e megacariocitaria. la valutazione citogenetica convenzionale ha evidenziato un cariotipo 46 xy, t(9;22)(q34;q11) su 20 metafasi analizzate (figura 1); l’analisi molecolare effettuata su sangue periferico e midollare ha confermato la presenza del trascritto bcr-abl del tipo p210 (b2a2). pertanto è stata effettuata diagnosi di leucemia mieloide cronica ph+ in fase cronica, con rischio sokal intermedio pari a 0,989, rischio euro intermedio pari a 1,322 e rischio eutos basso pari a 0,411. in considerazione dell’età del paziente è stata effettuata tipizzazione hla che ha evidenziato l’assenza di un donatore familiare hla compatibile. percorso terapeutico a febbraio 2012, dopo un’iniziale citoriduzione con idrossiurea, il paziente ha intrapreso terapia con nilotinib al dosaggio di 600 mg/die (300 mg bid). dopo circa due settimane di trattamento, il paziente ha ottenuto una risposta ematologica completa e dopo circa un mese si è osservata una netta riduzione della splenomegalia. figura 2. variazioni del trascritto bcr-abl/abl durante il trattamento a maggio 2012 (3° mese) il paziente ha confermato la risposta ematologica completa (chr) e la rivalutazione midollare ha mostrato il raggiungimento di una risposta citogenetica completa (ccr). il nostro centro possiede un laboratorio di biologia molecolare standardizzato all’interno del network dei laboratori labnet. sin dall’esordio della malattia il monitoraggio molecolare del paziente è stato effettuato ogni 3 mesi fino alla conferma della risposta molecolare maggiore all’interno del network labnet, in accordo alle raccomandazioni eln 2009 prima, ed esmo 2012 successivamente. l’analisi molecolare al 3° mese effettuata su sangue periferico e midollare ha confermato una risposta ottimale al trattamento con un trascritto non solo inferiore al 10% ma anche inferiore all’1%, con un valore di trascritto bcr-abl/abl pari a 0,749 is quantificabile secondo rt-pcr quantitativa. globalmente la terapia è stata ben tollerata, ad eccezione di un transitorio episodio di piastrinopenia di grado 1 comparso dopo un mese di trattamento e successivamente regredito spontaneamente, di un rash cutaneo di grado 1 regredito spontaneamente e di una ri-esacerbazione di crisi emorroidaria regredita con terapia topica e con flavonoidi per via orale. successivamente il paziente ha effettuato periodici controlli clinico-ematologici e monitoraggio biochimico. ad agosto 2012 (6° mese) la rivalutazione midollare ha confermato la risposta citogenetica completa e la valutazione molecolare in rt-pcr quantitativa ha confermato l’ottenimento di una risposta molecolare ottimale con un valore di trascritto bcr-abl/abl pari a 0,21 is (< 10% e soprattutto < 1% del trascritto). a novembre 2012 (9° mese) il paziente ha confermato la risposta ematologia completa (chr) e la risposta citogenetica completa (ccr). dopo 9 mesi di terapia abbiamo assistito ad un’ulteriore riduzione del trascritto molecolare con una valore di bcr-abl/abl pari a 0,044 is con il raggiungimento di una risposta molecolare maggiore (mmr). all’ultimo controllo effettuato a febbraio 2013 (12° mese) l’andamento rimane positivo e la valutazione molecolare in rt-pcr quantitativa non solo ha confermato il trend di riduzione del trascritto ma il paziente ha raggiunto una risposta molecolare profonda con una riduzione del trascritto di 4 log (mr4) con un valore di bcr-abl/abl pari a 0,01 is (figura 2). domande da porsi qual è l’obiettivo terapeutico da porsi in un paziente di nuova diagnosi? è stato corretto nel nostro caso iniziare il trattamento con un tki di seconda generazione? discussione il caso clinico descritto ha mostrato la possibilità di ottenere una risposta precoce e profonda in un paziente affetto da lmc in fase cronica di nuova di diagnosi trattato con nilotinib. benché sia stato documentato che la terapia con imatinib in prima linea determini il raggiungimento della risposta citogenetica completa (ccr) nella maggior parte dei pazienti con lmc [1], i dati di efficacia ottenuti dagli studi in prima linea hanno dimostrato che nilotinib rispetto a imatinib induce risposte molecolari più rapide e profonde. lo studio registrativo enestnd infatti, nel follow up a 36 mesi ha evidenziato un notevole vantaggio in termini risposte molecolari maggiori e profonde nel braccio sperimentale con nilotinib 300 mg bid rispetto ad imatinib: mmr 73% nilotinib vs 53% imatinib; mr4 50% nilotinib vs 26% imatinib; mr4,5 32% vs 15%. il vantaggio del braccio con nilotinib è stato confermato in tutti i rischi sokal. tali evidenze ci hanno quindi supportati nella scelta terapeutica di prima linea indirizzata verso il nilotinib. due importanti gruppi, esaminando le risposte e gli outcome di pazienti trattati con imatinib in prima linea e con dasatinib o nilotinib in caso di fallimento terapeutico, hanno dimostrato il valore prognostico, in termini di sopravvivenza, dell’ottenimento di una risposta molecolare rapida e profonda. in particolare, ottenere a tre mesi di trattamento una riduzione del trascritto molecolare fino al 10% correla positivamente con la sopravvivenza globale, con la sopravvivenza libera da progressione e con la possibilità di ottenere risposte citogenetiche complete [3, 4]. questo importante cut off del 10% a 3 mesi e il suo valore prognostico, indipendentemente dal trattamento d’elezione, è stato valutato anche per i pazienti dello studio registrativo enestnd in occasione dell’aggiornamento sia a 36 sia a 48 mesi. il lavoro ha confermato che ottenere un trascritto inferiore al 10% a 3 mesi e inferiore all’1% a 6 mesi non solo si traduce in un vantaggio in termini di sopravvivenza, ma anche in termini di incidenza cumulativa di risposte molecolari maggiori e profonde a 4.5 log a lungo termine fino a 48 mesi. il dato interessante è che a 3 mesi il 90,7% dei pazienti in trattamento con nilotinib 300 mg bid aveva raggiunto un trascritto molecolare inferiore ad almeno il 10% con una quota importante di pazienti, pari al 56,2%, che aveva ottenuto un trascritto inferiore perfino all’1%. nel braccio di trattamento con imatinib invece il 66,7% dei pazienti aveva raggiunto un trascritto inferiore almeno al 10%, in cui il 16,3% aveva ottenuto un trascritto inferiore all’1% [5]. alla luce di queste importanti evidenze, il monitoraggio e la valutazione della risposta al trattamento è stata rivista nelle nuove linee guida esmo 2012 rispetto alle raccomandazioni eln 2009 in cui si conferma il valore prognostico di una risposta precoce al trattamento e l’importanza di monitorare e ottenere una riduzione del trascritto pari al 10% nei primi 3-6 mesi per documentare una risposta ottimale [6,7]. queste nuove raccomandazioni ci hanno guidato verso un attento monitoraggio molecolare del nostro paziente valutando la riduzione del trascritto ogni 3 mesi a partire dal terzo mese. il monitoraggio molecolare con una rt-pcr quantitativa permette di valutare la risposta al trattamento con il tki scelto [8,9]. vista l’importanza del monitoraggio molecolare nella decisione clinica, è fondamentale non solo avvalersi di un’accurata rt-pcr quantitativa ma anche di un’analisi standardizzata secondo la scala internazionale (is) e riconosciuta dai laboratori indipendentemente dalle tecniche ed i processi che utilizzano [10]. l’analisi molecolare del nostro paziente, a partire dalla diagnosi e durante tutti i time-point considerati, è stata effettuata attraverso il nostro laboratorio standardizzato all’interno del network labnet. il paziente già dopo tre mesi di trattamento con nilotinib, alla valutazione molecolare, ha evidenziato una riduzione del trascritto inferiore non solo al 10% ma addirittura all’1% che ha consentito di ottenere una risposta molecolare maggiore già dopo 9 mesi di trattamento e una risposta molecolare a 4 log dopo un anno di trattamento. a questi dati relativi all’importanza dell’ottenimento di una risposta precoce e profonda se ne aggiunge un altro di non minore rilevanza, ossia la riduzione del rischio di progressioni in fasi avanzate di malattia (fase accelerata e fase blastica). nello studio registrativo enestnd, dopo il primo anno di trattamento non si è verificato più alcun evento di progressione. lo 0,7% dei pazienti nel braccio nilotinib a 300 mg/bid vs il 4,2% dei pazienti nel braccio imatinib progredisce nei primi due anni di terapia in fasi avanzate di malattia e nessuna evoluzione si è osservata fra il secondo e il terzo anno di trattamento [2]. in conclusione il caso clinico del nostro paziente con leucemia mieloide cronica ph+ in fase cronica trattato con nilotinib in prima linea, è indicativo di un eccellente controllo della malattia sia in termini di risposta molecolare precoce e profonda sia sotto il profilo della tollerabilità (assenza di significativi effetti collaterali ematologici e/o non ematologici). la nostra considerazione i dati degli studi e le landmark analysis presentate ad oggi confermano il valore prognostico di risposte precoci e profonde per l’outcome del paziente a lungo termine aprendo la possibilità ad interrompere il trattamento una volta ottenute risposte complete e durature. per tanto la nostra scelta si è indirizzata verso un tki di seconda generazione quale nilotinib che ha evidenziato dati di efficacia in prima linea superiori rispetto a imatinib anche in termini di possibilità di raggiungere risposte molecolari precoci e profonde. adottare questa strategia ci ha permesso di ottenere nei primi tre mesi una risposta rapida e di portare il paziente verso una risposta completa e profonda bibliografia deininger m, o’brien sg, guilhot f, et al. international randomized study of interferon vs sti571 (iris) 8-year follow up: sustained survival and low risk for progression or events in patients with newly diagnosed chronic myeloid leukemia in chronic phase (cml-cp) treated with imatinib. 51st ash annual meeting and exposition, new orleans, la, december 5-8, 2009 (abstr 1126) larson ra, hochhaus a, hughes tp, et al. nilotinib vs imatinib in patients with newly diagnosed philadelphia chromosome-positive chronic myeloid leukemia in chronic phase: enestnd 3-year follow-up. leukemia 2012; 26: 2197-203. http://dx.doi.org/10.1038/leu.2012.134 marin d, ibrahim ar, lucas c, et al. assessment of bcr-abl1 transcript levels at 3 months is the only requirement for predicting outcome for patients with chronic myeloid leukemia treated with tyrosine kinase inhibitors. j clin oncol 2012; 3: 232-8. http://dx.doi.org/10.1200/jco.2011.38.6565 hanfstein b, müller mc, hehlmann r, et al; for the sakk and the german cml study group. early molecular and cytogenetic response is predictive for longterm progression-free and overall survival in chronic myeloid leukemia (cml). leukemia 2012; 26: 2096-102. http://dx.doi.org/10.1038/leu.2012.85 hochhaus a, hughes tp, saglio g, et al; on behalf of the enestnd investigators. outcome of patients with cml-cp based on early molecular response and factors associated with early response: 4-year follow-up data from enestnd. blood (ash annual meeting abstracts) 2012; 120: abstract 167 baccarani m, cortes j, pane f, et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51. http://dx.doi.org/10.1200/jco.2009.25.0779 baccarani m, pileri s, steegmann jl, et al; on behalf of the esmo guidelines working group. chronic myeloid leukemia: esmo clinical practice guidelines for diagnosis, treatment and follow-up. ann onc 2012; 23 (supplement 7): vii72–vii77 hughes tp, hochhaus a, branford s, et al. long-term prognostic significance of early molecular response to imatinib in newly diagnosed chronic myeloid leukemia: an analysis from the international randomized study of interferon and sti571 (iris). blood 2010; 116: 3758-65. http://dx.doi.org/10.1182/blood-2010-03-273979 hehlmann r, lauseker m, jung-munkwitz s, et al. tolerability-adapted imatinib 800 mg/d versus 400 mg/d versus 400 mg/d plus interferon-{alpha} in newly diagnosed chronic myeloid leukemia. j clin oncol 2011; 29: 1634-42. http://dx.doi.org/10.1200/jco.2010.32.0598 branford s, fletcher l, cross nc, et al. desirable performance characteristics for bcr-abl measurement on an international reporting scale to allow consistent interpretation of individual patient response and comparison of response rates between clinical trials. blood 2008; 112: 3330-8. http://dx.doi.org/10.1182/blood-2008-04-150680 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) clinical management issues 37 rapia farmacologica per lo scompenso cardiaco, tra cui beta-bloccante beta1-selettivo. nel corso del follow-up di nove mesi con controlli trimestrali sono riscontrati profilo ormonale costantemente eutiroideo e buon compenso emodinamico; all’ultimo controllo, riscontro di cardioversione spontanea e, all’esame ecocardiografico, miglioramento della frazione di eiezione (fe) da 60% a 65% con risoluzione dei versamenti. discussione fisiopatologia l’ipertiroidismo può comportare differenti manifestazioni patologiche cardiovascolari, tra cui ischemia miocardica (a coronarie indenni oppure da slatentizzazione di coronaropatia preesistente), tachiaritmie (segnatamente fa), scompenso cardiaco “ad alta portata” con possibile evoluzione in scompenso a bassa portata [1]. stefano giordanetti 1 introduzione gli ormoni tiroidei esplicano effetti su numerosi sistemi e apparati dell’organismo; conseguentemente le disfunzioni tiroidee si ripercuotono su molteplici apparati. un caso clinico solo apparentemente banale offre spunto a considerazioni fisiopatologiche e alla revisione della letteratura sul rapporto tra distiroidismi (iper e ipotiroidismo) e cardiopatie (in particolare scompenso cardiaco). caso clinico una donna di 66 anni viene ricoverata per scompenso cardiaco congestizio (con versamento pleurico e pericardico) in fibrillazione atriale (fa) a elevata penetranza ventricolare di nuova diagnosi. vi è familiarità positiva per tireopatia imprecisata e riscontro di ipertiroidismo in morbo di basedow. viene dimessa in trattamento con tireostatici e tedistiroidismi e scompenso cardiaco: dal caso clinico alla fisiopatologia abstract dysthyroidism affects cardiovascular function in many ways and can cause heart failure. the physiopathological mechanisms underlying the development of heart failure involve both direct intranuclear transcriptional effects of thyroid hormones and specific haemodynamic consequences of vascular modifications induced by dysthyroidism. phospholamban regulatory action on diastolic ventricular function appears to play a pivotal role in mediating both direct t3 action and adrenal effects on myocardial contractility, possibly explaining the way dysthyroidism mimics sympathoadrenergic alterations on cardiovascular function. therapeutical approach to cardiovascular disorders in dysthyroidism should focus on both thyroid hormones dysregulation and sympathoadrenergic activity, to attempt a reversal of the associated derangements. keywords: dysthyroidism, heart failure, phospholamban, lusitropism, diastolic dysfunction dysthyroidism and heart failure: from clinical case to pathophysiology cmi 2010; 4(suppl. 3): 37-42 1 soc medicina interna, ospedale degli infermi, biella corresponding author dott. stefano giordanetti specialista in medicina interna dirigente medico soc medicina interna ospedale degli infermi, biella stefano.giordanetti@tele2.it caso clinico ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)38 distiroidismi e scompenso cardiaco: dal caso clinico alla fisiopatologia gli effetti del t3 (triiodotironina) sulla funzionalità cardiaca comprendono: cronotropismo, inotropismo, dromotropismo, batmotropismo positivi, nonché un effetto lusitropo positivo, ossia ottimizzazione della funzione diastolica da accelerato rilasciamento attivo del miocardio [2-4]. gli effetti del t3 derivano dal concorso di azioni dirette sul cuore, trascrizionali e posttrascrizionali e di effetti mediati dalle alterazioni emodinamiche conseguenti all’azione periferica sul sistema vascolare. la triiodotironina diminuisce le resistenze vascolari sistemiche tramite la vasodilatazione delle arteriole della circolazione periferica [1]. questo comporta una diminuzione del volume circolante efficace (vec), stimolando il riassorbimento renale di sodio per effetto dell’attivazione del sistema reninaangiotensina-aldosterone (sraa). ciò determina un aumento della volemia e quindi del pre-carico, cui concorre anche l’espansione del volume globulare circolante per effetto della stimolazione della secrezione di eritropoietina da parte del t3 [1]. l’incremento del pre-carico contribuisce (per la relazione pressione/volume del ventricolo sinistro) all’inotropismo positivo con effetto più rilevante di quello dovuto all’azione diretta del t3 a livello trascrizionale su proteine contrattili e regolatorie e a livello di modulazione post-trascrizionale su canali ionici di membrana. pertanto l’ipertrofia ventricolare sinistra, riscontrata nell’ipertiroidismo, è principalmente conseguente agli effetti funzionali e qualitativi (modificazioni emodinamiche) degli ormoni tiroidei, mentre i loro effetti quantitativi (sintesi proteica) hanno un impatto minore sulla massa ventricolare [5]. il cronotropismo positivo comporta conseguenze sul pre-carico e post-carico e quindi sulla dinamica pressione/volume del ventricolo sinistro opposte a quelle sopra descritte e in parte compensatorie. in condizioni fisiologiche il fosfolambano (pl), esercitando un’azione inibente sulla calcio atpasi del reticolo sarcoplasmatico (sr-ca-atpasi) [6], coinvolta nel modulare il rilasciamento diastolico attivo mediante il reuptake attivo del calcio nel reticolo sarcoplasmatico, fa lavorare il cuore in una situazione basale di repressione funzionale; lo stimolo beta-adrenergico, in risposta ad aumentate richieste funzionali, inibisce l’azione del pl mediante fosforilazione. il t3 inibisce a livello trascrizionale la sintesi di pl, compromettendone l’azione inibente sull’attività di rilasciamento attivo del miocardio, che viene pertanto a trovarsi in una situazione di “derepressione funzionale” già in condizioni basali. l’effetto lusitropo positivo per l’azione trascrizionale sulle proteine regolatorie del sistema fosfolambano/calcio atp-asi del reticolo sarcoplasmatico (pl/sr-caatpasi) [6] risulta emodinamicamente preminente rispetto al contributo diretto all’inotropismo positivo dovuto agli effetti trascrizionali del t3 sulle proteine contrattili (figura 1) [1,2]. il cuore ipertiroideo, privo della modulazione inibitoria del fosfolambano [6], presenta pertanto, in condizioni basali (a riposo), uno stato funzionale iperdinamico interpretabile come compensatorio delle aumentate richieste metaboliche, che appare sovrapponibile a quello di un cuore eutiroideo sotto sforzo (figura 2) [2]. l’incremento della performance cardiaca da modificazioni emodinamiche periferiche è energeticamente più efficiente rispetto a un incremento diretto della contrattilità cardiaca; tuttavia lo stato funzionale iperdinamico del cuore ipertiroideo comporta una condizione di ridotta riserva funzionale, configurando, nel lungo termine, un quadro di “scompenso cardiaco ad alta portata”. tale condizione può evolvere in una forma a bassa portata per effetto della durata e dell’entità dell’ipertiroidismo e per il concorso di tachiaritmie (fa), soprattutto in presenza di un substrato di cardiopatia, preesistente o intercorrente, a sua volta facilitante l’innesco dell’aritmia. figura 1 effetti diretti della triiodotironina (t3) sul miocardiocita t3: effetti diretti intranucleari/trascrizionali proteine contrattili alfa-miosina t3 attiva trascrizione (animali) y beta-miosina t3 inibisce trascrizione (animali) y prevale su alfa-miosina (uomo) y importanza trascurabile su contrattilità miocardica (uomo) proteine regolatorie attività di rilasciamento attivo aumento sr-ca-atpasi (reticolo sarcoplasmatico-sr): regola uptake attivo calcio in y sr (accelera rilasciamento diastolico-fase attiva) aumenta contrattilità sistolica y diminuzione di fosfolambano (pl): modula (inibisce) sr-ca-atpasi y effetti diretti del t3 su funzione sistolica (contrattilità) effetto diretto del t3 su funzione diastolica < ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 39 s. giordanetti lo stato iperdinamico si fonda sull’ottimizzazione della funzione diastolica, che prevale sulla funzione sistolica nel determinare l’efficienza emodinamica: col perdurare dell’ipertiroidismo cresce di importanza il contributo della sistole atriale (con sviluppo di ipertrofia atriale sinistra) e si aggravano le conseguenze emodinamiche della sua compromissione in caso di fa [7]. alla patogenesi della cardiopatia nell’ipertiroidismo concorrono due quadri fisiopatologici: la cardiomiopatia tireotossica propriamente detta e la tachicardiomiopatia [8]. la tachicardiomiopatia è una forma di “miocardio stordito/ibernato” virtualmente associata a qualsiasi forma di tachiaritmia sopraventricolare cronica, più frequentemente fa, reversibile alcune settimane dopo adeguato controllo della frequenza cardiaca (fc) o cardioversione. la miocardiopatia tireotossica è una rara forma di cardiomiopatia dilatativa potenzialmente reversibile (da porsi in diagnosi differenziale con altre forme dilatative), ascrivibile agli effetti diretti del t3 sul miocardiocita: a livello trascrizionale (su geni specifici e non) e a livello modulatorio post-trascrizionale. la reversibilità delle alterazioni “strutturali”, dopo controllo della fc o dopo cardioversione, richiede tempi più lunghi rispetto alle alterazioni “funzionali”, secondarie ai soli fattori emodinamici. nell’ipotiroidismo, le manifestazioni patologiche cardiovascolari più comuni comprendono: aumentato rischio di cardiopatia aterosclerotica, ascrivibile alle modificazioni proaterogene dell’assetto lipidico; scompenso cardiaco; versamento pericardico. figura 2 confronto tra lo stato funzionale cardiaco a riposo e sotto sforzo in eutiroidismo e in ipertiroidismo a. curva pressione/ volume del ventricolo sinistro in soggetto eutiroideo a riposo e sotto sforzo b.curva pressione/ volume del ventricolo sinistro in condizioni basali (a riposo): soggetto eutiroideo e ipertiroideo stato iperadrenergico* ipertiroidismo frequenza cardiaca aumentata aumentata gittata cardiaca aumentata aumentata pressione differenziale variabile incrementata metabolismo basale aumentato notevolmente aumentato resistenze vascolari sistemiche variabili diminuite contrattilità cardiaca aumentata aumentata performance muscolare scheletrica diminuita diminuita turnover del calcio diminuito diminuito labilità emotiva presente presente retrazione palpebrale presente presente tabella i confronto di segni e sintomi dell ’eccessiva stimolazione adrenergica e dell ’ipertiroidismo. modificata da [4] * come riportato in pazienti con feocromocitoma e durante terapia con agonisti beta-adrenergici ba ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)40 distiroidismi e scompenso cardiaco: dal caso clinico alla fisiopatologia le basi fisiopatologiche e le alterazioni emodinamiche che sottendono all’inotropismo, cronotropismo, lusitropismo negativi nell’ipotiroidismo sono speculari a quelle dell’ipertiroidismo. lo scompenso cardiaco consegue a ridotta efficienza diastolica e sistolica del cuore sinistro. lo stato funzionale iperdinamico del cuore ipertiroideo esprime un quadro di iperattività simpato-adrenergica (tabella i), speculare a quanto accade nel cuore ipotiroideo. le evidenze attuali tuttavia mostrano livelli di catecolamine normali o persino ridotti nell’ipertiroidismo e aumentati nell’ipotiroidismo. l’emivita delle catecolamine sembra invariata in entrambe le condizioni. l’alterazione della sensibilità periferica alle catecolamine (numero di recettori e sensibilità recettoriale/post-recettoriale) rimane controversa, come pure la possibilità di un’azione distinta e sinergica degli ormoni tiroidei e delle catecolamine [4]. limitatamente all’ipertiroidismo è stata formulata un’ipotesi overlap, basata su due presupposti: azione agonista di ciascuna classe di ormoni sui recettori dell’altra classe, pur con differente affinità, sulla base di analogie strutturali tra gli ormoni delle due classi; condivisione di vie effettrici post-recettoriali comuni a t3 e catecolamine. l’una o l’altra classe prevarrebbero a seconda dell’organo/ sistema effettore e del parametro funzionale considerato. a livello miocardico, la via effettrice comune sarebbe rappresentata dal sistema pl/sr-ca-atpasi. su questo convergerebbero l’azione trascrizionale intranucleare del t3 e l’azione modulante post-trascrizionale mediante fosforilazione del fosfolambano da parte dello stimolo beta-adrenergico (figura 3). clinica dello scompenso cardiaco nell’ipertiroidismo lo scompenso cardiaco nell’ipertiroideo rappresenta il 3% dei ricoveri per scompenso; prevale nel sesso femminile; si presenta più spesso come scompenso acuto di cuore sinistro, con classe nyha (new york heart association) all’esordio meno grave rispetto agli eutiroidei, funzione sistolica generalmente conservata all’esordio, con possibile evoluzione in forma dilatativa. il 70% dei pazienti presenta una cardiopatia preesistente, “slatentizzata” dall’ipertiroidismo: nel 45% dei casi si tratta di cardiopatia ipertensiva, scompensabile da sovraccarico di volume, aumentata frequenza cardiaca o fa. terapia lo scompenso cardiaco nell’ipertiroidismo è parzialmente refrattario alla terapia convenzionale, se non si provvede al trattamento dell’ipertiroidismo stesso. la terapia delle manifestazioni cardiovascolari dell’ipertiroidismo deve mirare ai due sistemi coinvolti nelle alterazioni fisiopatologiche: sistema ormonale tiroideo e sistema nervoso autonomo [1]. in merito al ripristino dell’eutiroidismo le evidenze depongono per la reversibilità delle alterazioni emodinamiche, dello scompenso cardiaco e della cardiomiopatia (nelle comstimolo beta-adrenergico fosforilazione pl inibitore attivo pl inibitore inattivato sr-ca-atpasi contrattilità/ rilasciamento attivo azione trascrizionale intranucleare del t3figura 3 ipertiroidismo e ipertono adrenergico: l ’ipotesi “overlap”. via effettrice comune rappresentata dal sistema fosfolambano (pl)/sr-ca-atpasi ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 41 s. giordanetti ponenti funzionale e, con tempi più lunghi, anche strutturale). la terapia beta-bloccante è da avviare in attesa del ripristino dell’eutiroidismo; contrasta gli effetti tissutali dell’ipertono adrenergico, con benefici anche sui sintomi non cardiocircolatori. non vi sono prove a favore dei beta-bloccanti non selettivi rispetto ai cardioselettivi, da privilegiare in caso di patologie coesistenti che controindichino i non selettivi [5]. i beta-bloccanti trovano indicazione nella cardiopatia tireotossica anche in fase di scompenso, poiché migliorano l’emodinamica e la funzione diastolica, in particolare in presenza di tachiaritmie sopraventricolari o fa, purché in assenza di cardiopatia intrinseca controindicante. in presenza di instabilità o compromissione emodinamica, va attuata una prudente up-titration, partendo da un dosaggio minimo e può essere necessario il monitoraggio, anche invasivo, dei parameri vitali [4,9]. nello scompenso cardiaco in presenza di ipotiroidismo si riscontra reversibilità delle alterazioni emodinamiche con il ripristino dell’eutiroidismo mediante terapia sostitutiva ormonale; quest’ultima, specie nei pazienti anziani, va iniziata a dosaggio basso, da incrementare con cautela, per il rischio di slatentizzare una ridotta riserva coronarica (preesistente o conseguente al prolungato ipotiroidismo) con il ripristino delle richieste metaboliche periferiche. fibrillazione atriale complicanza frequente dell’ipertiroidismo, correlata a durata e gravità dello stesso; comporta un’importante e grave compromissione dell’equilibrio emodinamico. il rischio cardioembolico è identico alla fa da qualsiasi causa e analoghe sono le indicazioni alla profilassi delle complicanze cardioemboliche. per il controllo della funzione cardiaca sono privilegiati i beta-bloccanti; deve essere istituita da subito terapia tireosoppressiva. la cardioversione avviene spontaneamente nel 60% dei casi entro 10 settimane, al più entro 4 mesi, con frequenza decrescente con l’età del paziente e la durata della fa. pertanto, quando necessaria e se non urgente, la cardioversione terapeutica andrebbe considerata dopo circa 5 mesi di terapia tireosoppressiva. distiroidismi subclinici dal punto di vista fisiopatologico emodinamico si configura un continuum dall’ipo all’ipertiroidismo, passando per le forme subcliniche. mancano criteri diagnostici e cut-off standardizzati per i distiroidismi subclinici [10]. i dati su prevalenza, storia naturale, prognosi (morbilità e mortalità) cardiovascolare e globale restano controversi [11]. le evidenze concordano sull’aumentato rischio di fa nell’ipertiroidismo subclinico, mentre resta controverso un aumento di morbilità e mortalità da incrementata aterogenesi nell’ipotiroidismo subclinico. la consensus statunitense del 2004 raccomanda lo screening solo in gruppi a rischio (gravidanza in atto o programmata, familiarità per tireopatia, presenza di segni o sintomi, gozzo, diabete mellito di tipo 1 o patologia autoimmune) e consiglia il trattamento per il solo ipotiroidismo subclinico, in casi selezionati (gravidanza, donne ultrasessantenni o ad alto rischio di disfunzione tiroidea) [12]. distiroidismi secondari a cardiopatia tralasciando i distiroidismi secondari alla terapia con amiodarone, vi sono casi in cui le cardiopatie comportano alterazioni simulanti effetti o quadri ormonali di distiroidismo. in presenza di scompenso cardiaco avanzato, analogamente a quanto osservato nell’ipertrofia miocardica o nel processo di senescenza, il miocardiocita mostra un’alterata espressione di proteine strutturali o regolatorie analoga a quella secondaria alla modulazione dei geni target del t3, pur in presenza di profilo ormonale eutiroideo. ciò è ritenuto conseguente al riscontrato aumento dei recettori per gli ormoni tiroidei nei miocardiociti in presenza di ipertrofia fisiologica, configurandosi un quadro funzionale di “ipertiroidismo relativo” (aumentata responsività miocardiocitica al t3 circolante). al contrario, nell’ipertrofia patologica, come pure nello scompenso cardiaco, si rileva diminuzione dell’espressione di recettori per gli ormoni tiroidei nei miocardiociti, configurandosi un “ipotiroidismo relativo”, inquadrabile nel pattern di espressione proteica definita fetal program [13]. nei quadri di grave cardiopatia acuta o cronica, analogamente a quanto si verifica in altre gravi condizioni patologiche non tiroidee (segnatamente in casistiche di terapia intensiva), si può verificare la non thyroidal illness syndrome (ntis), che presenta la ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)42 distiroidismi e scompenso cardiaco: dal caso clinico alla fisiopatologia seguente alterazione del profilo ormonale tiroideo: tsh normale, t3 ridotto, reverset3 aumentato, t4 inizialmente normale e, in fase più avanzata, ridotto. controverse sono le interpretazioni e le indicazioni gestionali: secondo alcuni autori tale quadro andrebbe ascritto a interferenze/artefatti di dosaggio ormonale legati al particolare contesto clinico, secondo altri rappresenterebbe un ipotiroidismo secondario prognosticamente controproducente e pertanto da trattare o, al contrario, un “ipotiroidismo periferico” finalisticamente utile al risparmio di risorse energetiche. le prove disponibili sull’utilità del trattamento sono scarse e non conclusive, limitandosi a escluderne possibili effetti controproducenti [14]. disclosure l’autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. bibliografia klein i, ojmaa k. thyroid hormone and the cardiovascular system1. . n engl j med 2001; 344: 501-9 biondi b, palmieri ea, lombardi g, fazio s. effects of thyroid hormone on cardiac function: 2. the relative importance of heart rate, loading conditions, and myocardial contractility in the regulation of cardiac performance in human hyperthyroidism. j clin endocr metab 2002; 87: 968-74 kahaly gj, dillmann wh. thyroid hormone action in the heart. 3. endocrine reviews 2005; 26: 704-28 levey gs, klein i. catecholamine-thyroid hormone interactions and the cardiovascular 4. manifestations of hyperthyroidism. am j med 1990; 88: 642-6 vinzio s, brafin-busch ms, schlienger jl, goichot b. répercussions cardiaques des dysthyroïdies 5. avérées. la presse médicale 2005; 34: 1153-60 kiss e, brittsan ag, edes i, grupp il, grupp g, kranias eg. thyroid hormone-induced 6. alterations in phospholamban-deficient mouse hearts. circ res 1998; 83: 608-13 thomas mr, mcgregor am, jewitt de. left ventricle filling abnormalities prior to and 7. following treatment of thyrotoxicosis – is diastolic dysfunction implicated in thyrotoxic cardiomyopathy? eur heart j 1993; 14: 662-8 vydt t, verhelst j, de keulenaer g. cardiomyopathy and thyrotoxicosis: tachycardiomyopathy 8. or thyrotoxic cardiomiopathy? acta cardiol 2006; 61: 115-7 glass ar. use of beta-blockers in thyrotoxic patients with heart failure. 9. am j med 1991; 90: 136-7 vinzio s, trinh a, schlienger jl, goichot b. répercussions cardiaques des dysthyroidïes frustes. 10. la presse médicale 2005; 34: 1161-4 rodondi n, bauer dc, cappola ar, cornuz j, robbins j, fried lp et al. subclinical thyroid 11. dysfunction, cardiac function, and the risk of heart failure. the cardiovascular health study. j am coll cardiol 2008; 52: 1152-9 surks mi, ortiz e, daniels gh, sawin ct, col nf, cobin rh et al. subclinical thyroid disease. 12. scientific review and guidelines for diagnosis and management. jama 2004; 291: 228-38 kinugawa k, yonekura k, ribeiro rc, eto y, aoyagi t, baxter jd et al. regulation of thyroid 13. hormone receptor isoforms in physiological and pathological cardiac hypertrophy. circ res 2001; 89: 591-8 de groot lj. the non-thyroidal illness syndrome. chapter 5b. disponibile su: http://www.14. thyroidmanager.org/ ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 65 clinical management issues un materasso antidecubito a cessione d’aria. la camera viene dotata di monitor per la rilevazione dei parametri vitali. al momento del ricovero si eseguono l’accoglienza della paziente e del suo nucleo familiare, l’esame obiettivo, l’identificazione dei bisogni assistenziali, la stesura della cartella infermieristica, della scheda di valutazione del rischio di insorgenza di lesioni da pressione con indice di braden e della scheda di valutazione del dolore vas (visual analogue scale). caso clinico esame obiettivo all’ingresso bmi: risulta pari a 24. y stato neurologico: la paziente si presenta y vigile, orientata e collaborante. presenta una sintomatologia dolorosa diffusa (vas = 7). stato psicologico: è affetta da sindrome y depressiva. introduzione in questo articolo si descrive il percorso clinico-assistenziale, con particolare attenzione agli aspetti di gestione infermieristica, di una paziente trasferita presso la nostra unità operativa di medicina interna da un importante centro per pazienti ustionati dopo 90 giorni di degenza. la signora gp di 78 anni è stata curata, presso il reparto di chirurgia plastica del “centro grandi ustionati” di torino, per ustioni da fiamma sul 35-40% della superficie corporea con ripetuti interventi di chirurgia plastica ricostruttiva tramite innesti cutanei autologhi nelle aree ustionate. si individua fin dall’inizio un quadro di alta complessità assistenziale: il reparto viene allertato dell’arrivo della paziente e della sua situazione clinica tramite contatti telefonici tra le due strutture. viene deciso sin da subito il collocamento della paziente presso una camera singola di degenza con procedura di isolamento e materiale dedicato. viene utilizzato un letto elettrico e viene posizionato corresponding author infermiere gianluca valentini gianlucavalentini@live.it caso clinico abstract here we describe the assistential complexity in an internal medicine division via a multidisciplinary approach taking care of a burned woman. she was transferred in our division after 90 days of hospitalisation in an intensive care unit from an important centre for burned people for the treatment of burns on 35-40% of the body surface area. we analyse the therapeutic strategies and nursing management in a case complicated by polymicrobial infections: acinetobacter baumanii and providencia stuartii on burns, escherichia coli on respiratory system and clostridium difficile on enteric apparatus. keywords: burns, polymicrobial infections, nurse management nursing and clinical course on a burned person complicated by polymicrobial infections cmi 2011; 5(suppl 2): 65-70 1 dipartimento area medica (dir. mauro campanini) – reparto di medicina interna ii (dir. mauro campanini; cpse giuseppina ferrotti) – aou “maggiore della carità” di novara gianluca valentini 1 percorso clinico e assistenza infermieristica al paziente ustionato con infezioni polimicrobiche ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)66 percorso clinico e assistenza infermieristica al paziente ustionato con infezioni polimicrobiche funzione di eliminazione: ha una sonda y rettale per incontinenza fecale per diarrea di natura da definire e il catetere vescicale per incontinenza urinaria e allettamento. approccio infermieristico con metodo problem-solving dal punto di vista infermieristico, data la complessità del caso, abbiamo utilizzato un modello di problem-solving indirizzato alla sistematizzazione degli interventi terapeutici e gestionali. abbiamo quindi identificato i seguenti problemi: infezioni polimicrobiche; gestione della cannula tracheostomica e o2-terapia; gestione del dolore; gestione del sondino naso-gastrico e della nutrizione enterale; gestione e medicazione delle lesioni cutanee; anemia; ipertensione arteriosa; sindrome depressiva; gestione della sonda rettale a permanenza; sindrome della cura di sé; sindrome da allettamento prolungato. percorso clinico gestione delle infezioni polimicrobiche al momento del ricovero la paziente viene posizionata in camera singola di degenza con procedura di isolamento preventiva con utilizzo dei dispositivi di protezione individuale o dpi (camici monouso, maschere con filtro fp2, materiale dedicato, smaltimento dei rifiuti infettivi) ed educazione ai parenti sull’importanza dell’utilizzo dei dpi. gli esami colturali effettuati e i relativi risultati sono riassunti nella tabella i. dopo la consulenza infettivologica viene impostata una terapia antibiotica mirata sulla base dell’antibiogramma con colimicina [1,2] e tigaciclina [2] con negativizzazione dei campioni dopo 12 giorni di terapia con importante riduzione delle secrezioni bronchiali e la conseguente sospensione della broncoaspirazione. a livello cutaneo apparato muscolo-scheletrico: presenta ipoy stenia marcata con incapacità di controllo del capo, del tronco e degli arti con condizione di ipotrofia severa muscolare da allettamento prolungato in terapia intensiva. apparato cardiovascolare: sono rilevate y alterazioni all’ecg con presenza di fibrillazione atriale ed extrasistoli frequenti, pressione arteriosa (pa) = 170/95 mmhg, frequenza cardiaca (fc) = 100 bpm; inoltre presenta linee invasive nell’arteria succlavia sinistra con catetere venoso centrale e nell’arteria femorale sinistra con cvc per dialisi. apparato tegumentario: il colorito cuy taneo è roseo; sono presenti ustioni da fiamma in fase di riparazione con fondo deterso, disseminate al dorso e in regione lombo-sacrale con probabile sovrainfezione batterica; ci sono inoltre vaste aree sieriche disepitelizzate al capillizio in sede occipitale, alle braccia e ai fianchi e aree disepitelizzate sulle cosce nella sede di prelievo degli innesti cutanei. apparato respiratorio: ha una cannuy la tracheostomica chirurgica con filtro umidificatore, ed effettua ossigenoterapia a 4 l/minuto. il respiro è diaframmatico con scarso utilizzo dei muscoli accessori; presenta inoltre abbondanti secrezioni mucose, per le quali è necessaria la broncoaspirazione frequente. sistema emopoietico: emoglobina = 10 y mg/dl con trasfusioni presso altra struttura; piastrine = 136.000/mm3; creatinina = 1,49 mg/dl con emodialisi presso altra struttura; albuminemia = 4,3 g/dl con trasfusioni presso altra struttura; gammaglutamiltranspeptidasi (gammagt) = 264 ui/l; fosfatasi alcalina = 1.914 ui/l; proteina c reattiva = 19,23 mg/l. funzione di alimentazione: la nutrizione y è di tipo enterale totale tramite sondino naso-gastrico con dieta iperproteica e ipercalorica. tipo di esame colturale risultato emocolture (2 coppie) negative urinocoltura negativa coprocoltura negativa ricerca di parassiti nelle feci negativa ricerca di clostridium difficile negativa tamponi sulle lesioni cutanee dorsale e nucale positivi per acinetobacter baumanii su escreato positivo per escherichia coli tabella i esami colturali effettuati e relativi risultati ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 67 g. valentini gestione del dolore abbiamo misurato l’intensità del dolore tramite scheda vas, che ci ha permesso di identificare un innalzamento importante della sintomatologia dolorosa durante l’esecuzione delle medicazioni delle lesioni cutanee. si è quindi impostata una terapia con morfina 10 mg per via endovenosa trenta minuti prima dell’esecuzione delle medicazioni. durante le altre ore della giornata è stato mantenuto un buon controllo del dolore tramite la somministrazione di paracetamolo/codeina fosfato (500 mg/30 mg) ogni otto ore. gestione del sondino naso-gastrico e dell’alimentazione date le condizioni cliniche della paziente il nostro obiettivo è stato quello di garantire un buon apporto nutrizionale favorendo una risoluzione delle lesioni cutanee più rapida possibile nonché la riduzione della sintomatologia diarroica. nei primi giorni di ricovero, dati gli esami colturali sulle feci negativi e valutata la tipologia delle scariche diarroiche, si è richiesta una consulenza dietologica grazie alla quale abbiamo potuto variare l’alimentazione totale tramite sondino naso-gastrico (prodotti privi di fibre, iperproteici, ipercalorici) così da ridurre il numero di scariche giornaliere e al tempo stesso favorendo l’assorbimento intestinale. abbiamo ottenuto una remissione della diarrea in 20 giorni. per quanto concerne la gestione del sondino naso-gastrico (sng) [6], si è proceduto alla verifica quotidiana del suo corretto posizionamento: la paziente è stata sistemata in posizione semi-seduta con testiera del letto a 45° durante le somministrazione enterale al fine di limitare il reflusso gastro-esofageo; inoltre abbiamo garantito una pausa di almeno quattro ore tra una somministrazione enterale e la successiva per favorire lo svuotamento gastrico. ci siamo quindi posti un secondo obiettivo, cioè l’interruzione della terapia enterale e la ripresa dell’alimentazione per via naturale. è stata allora eseguita una consulenza logopedica, che ha confermato una deglutizione efficace e ci ha permesso di compilare un diario giornaliero per dieci giorni, durante i quali la paziente è stata alimentata per via naturale e tramite sng come integrazione. alla trentesima giornata è stato rimosso il sng e la paziente è tornata all’alimentazione naturale totale. si osserva una progressiva riduzione della superficie delle lesioni cutanee. dopo 30 giorni di degenza a livello cutaneo avviene la positivizzazione per providencia stuartii [3] con sospensione della precedente terapia antibiotica e avvio della terapia antibiotica mirata con piperacillina/ tazobactam. dopo 35 giorni di ricovero ricompare lo stato diarroico, e si effettua quindi la ricerca per la tossina a/b di clostridium difficile, che risulta positiva, per cui si rende necessaria la somministrazione di antibioticoterapia orale con vancomicina [4] per 10 giorni fino a risoluzione del quadro e negativizzazione su tre campioni. dopo 45 giorni di ricovero avviene la negativizzazione dei tamponi a livello cutaneo con risoluzione cicatriziale delle lesioni e negativizzazione di tutti i colturali. gestione della cannula tracheostomica e ossigenoterapia l’équipe medica e infermieristica si è posta come primo obiettivo la risoluzione del quadro infettivo a livello polmonare e come secondo obiettivo, data la compromissione della comunicazione verbale, la possibilità di rimozione della cannula tracheostomica. nei primi 10 giorni di degenza, a causa delle importanti secrezioni bronchiali, si è reso necessario mantenere la paziente in ossigenoterapia a 4 l/minuto con la necessità di broncoaspirazione frequente. dopo 12 giorni, con la negativizzazione dell’infezione bronchiale, si è sospesa la broncoaspirazione. è quindi stata richiesta una visita otorinolaringoiatrica, che ha stabilito la necessità di proseguimento del trattamento con cannula tracheostomica per la presenza di edema delle vie respiratorie. per i primi 30 giorni gli infermieri hanno gestito la cannula tracheostomica [5] eseguendo medicazioni quotidiane al punto di inserzione con garza metallina, lavaggio quotidiano della controcannula, sostituzione quotidiana del filtro umidificatore, valutazione della quantità e della qualità delle secrezioni, riduzione dell’apporto di ossigeno a 2 l/min ed educazione della paziente a una ripresa della comunicazione verbale. nella trentesima giornata, dopo la rivalutazione otorinolaringoiatrica, si è proceduto alla rimozione della cannula tracheostomica con conseguente ripresa progressiva della comunicazione verbale e prosecuzione dell’ossigenoterapia a 2 l/min con erogatori nasali, quest’ultima sospesa nella quarantesima giornata. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)68 percorso clinico e assistenza infermieristica al paziente ustionato con infezioni polimicrobiche punto di vista psicologico ha alternato fasi di benessere a fasi di depressione importanti, per le quali si è avviata e mantenuta la terapia ansiolitica con alprazolam gocce e antidepressiva con amitriptilina. gestione della sonda rettale per incontinenza fecale la sonda rettale a permanenza in silicone, già posizionata presso la precedente struttura e sostituita nel nostro reparto, è stata sistemata per minimizzare il rischio infettivo [7] delle lesioni sacrali, data la sintomatologia diarroica. i nostri obiettivi sono stati garantire un’efficace eliminazione intestinale, un corretto funzionamento/posizionamento del presidio, la riduzione del rischio di sovrapposizione batterica sulle lesioni cutanee e infine una precoce rimozione del presidio in relazione al miglioramento del quadro clinico. al fine di una corretta gestione del dispositivo sono stati valutati quotidianamente il corretto posizionamento e la pervietà della sonda (garantita da irrigazioni di 300 cc di acqua per quattro volte al giorno). sono stati programmati la rimozione e il riposizionamento della sonda ogni 3 giorni con pause di almeno 3 ore per limitare l’insorgenza di lesioni da pressione in ampolla rettale. durante la degenza siamo riusciti a rimuovere la sonda rettale alla trentesima giornata, ma si è reso necessario il riposizionamento alla trentacinquesima per ricomparsa della diarrea a causa di infezione da clostridium difficile. solamente alla quarantacinquesima giornata abbiamo potuto rimuovere la sonda per feci formate nell’ampolla rettale. sindrome da deficit della cura di sé l’obiettivo che ci siamo prefissati è stato quello di rendere la paziente più autonoma possibile. durante la degenza ci siamo sostituiti nei bisogni assistenziali di base quali l’alimentazione, l’igiene personale, le funzioni di eliminazione e l’attività motoria. siamo riusciti progressivamente a rendere autonomi gli aspetti dell’alimentazione e dell’eliminazione. al momento della dimissione la paziente non era ancora in grado di provvedere alla propria igiene personale a causa di un deficit grave dell’attività motoria. sindrome da allettamento prolungato le condizioni cliniche durante il precedente ricovero non avevano permesso una gestione e medicazione delle lesioni cutanee ci siamo posti come obiettivo la risoluzione del quadro infettivo e la successiva guarigione delle lesioni. innanzitutto ci siamo dovuti organizzare in modo tale da reperire il materiale necessario nelle quantità consone (telini sterili; guanti sterili; garze sterili 10 × 10,10 × 25, 50 × 100 cm; garze grasse; iodopovidone 10%, garze impregnate di iodopovidone 10%; connettivina pomata; idrofibre con 1,2% di argento ionico; eosina in soluzione acquosa 2%; alginato di calcio per i donor site; gentamicina pomata 0,1%; impacchi di permanganato di potassio; pomata di argento solfadiazina micronizzato; cerotto con idrocolloidi); in seguito abbiamo avviato una cooperazione con l’équipe infermieristica dermatologica per facilitare e accelerare le medicazioni quotidiane della durata di un’ora al fine di limitare il disagio da parte della paziente. abbiamo così ottenuto dopo 45 giorni di ricovero la guarigione totale delle sedi donor site e delle lesioni da ustione dorsali, su braccia, fianchi, sacrali e al capo. anemia si è identificato un quadro di anemia con diminuzione progressiva dei valori di emoglobina e di albuminemia. si è proceduto all’impostazione terapeutica con mesalazina per la diagnosi di malattia infiammatoria cronica intestinale e alla compensazione tramite quattro sacche di concentrato eritrocitario e 12 flaconi di albumina, ottenendo una crasi ematica stabile alla dimissione. ipertensione arteriosa si è proceduto al controllo dell’ipertensione arteriosa proseguendo la terapia farmacologica già in atto presso la precedente struttura con clonidina tts-2 un cerotto/settimana e diltiazem 60 mg una compressa per tre volte al giorno. successivamente diltiazem è stato ridotto a due somministrazioni e sono stati inseriti amlodipina 5 mg 1 cpr/die e valsartan 160 mg 1 cpr/die, in modo da ottenere una buona compensazione. sindrome depressiva dal punto di vista neurologico la paziente è sempre stata vigile e orientata, mentre dal ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 69 g. valentini mmhg, la fc = 90 bpm e vi è assenza di linee invasive. apparato tegumentario: il colorito cutay neo è roseo; è avvenuta la cicatrizzazione totale delle sedi donor site e delle lesioni cutanee da ustione su sacro, tronco, capo, arti superiori e inferiori. apparato respiratorio: la ventilazione avy viene per via naturale in aria ambiente in assenza di secrezioni mucose importanti. sistema emopoietico: emoglobina = 10,3 y mg/dl; piastrine = 269.000/mm3; creatinina = 0,70 mg/dl; albuminemia = 4,0 g/dl; gammagt = 100 ui/l; fosfatasi alcalina = 815 ui/l; proteina c reattiva = 10,13 mg/l. funzione di alimentazione: la nutrizione y avviene per via naturale con l’ausilio di integratori iperproteici e ipercalorici. funzione di eliminazione: l’eliminazione y intestinale e urinaria avvengono per via naturale. conclusioni l’approccio al caso è stato difficoltoso e ha impegnato numerose risorse conoscitive, umane e materiali. la difficoltà maggiore è stata riscontrata nel coordinamento di tutte le figure professionali coinvolte nel percorso terapeutico. l’approccio scientifico (evidence based medicine ebm, evidence based nursing ebn, best practices) alle problematiche della paziente ha portato a scelte condivise, coordinate e pianificate al fine del coinvolgimento di tutte le figure professionali. disclosure l’autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. mobilizzazione della paziente, così al momento del trasferimento presso la nostra struttura la donna presentava un’ipotrofia e un’ipostenia muscolare grave diffusa. i nostri obiettivi infermieristici si sono concentrati sull’ottenimento di una mobilizzazione precoce in relazione alla remissione delle lesioni cutanee, sull’esecuzione di una mobilizzazione passiva e attiva, sulla ripresa del controllo del corpo e dei movimenti fini e sulla prevenzione dell’insorgenza di lesioni da pressione. grazie al contributo dell’équipe di fisioterapia, siamo intervenuti eseguendo mobilizzazioni passive a letto per permettere il recupero progressivo del tono muscolare e il controllo del tronco e del capo. una volta ottenuti questi primi risultati in concomitanza con la progressiva guarigione delle lesioni cutanee e grazie l’ausilio del sollevatore, abbiamo potuto mobilizzare la paziente nella sedia a rotelle basculante favorendo ulteriormente il recupero del controllo del capo e del tronco. il quadro di ipotrofia marcata si è ridotto ma si è reso necessario il trasferimento della paziente presso un centro specializzato di riabilitazione e cura. esame obiettivo alla dimissione bmi: risulta pari a 25. y stato neurologico: la paziente è vigile, y orientata e collaborante e presenta un buon controllo della sintomatologia dolorosa. stato psicologico: ha avuto una riduzione y importante della sindrome depressiva. apparato muscolo-scheletrico: presenta y un’ipostenia marcata ma con controllo del capo, del tronco e degli arti superiori. permane la condizione di ipotrofia severa muscolare a carico degli arti inferiori, che non rende possibile il mantenimento della posizione eretta. apparato cardiovascolare: il muscolo cary diaco ha un ritmo sinusale, la pa = 130/70 bibliografia cohen r. colimycin: an old antibiotic which has to be learnt to know. 1. arch pediatr 2010; 17 (suppl 4): s171-s176 reygaert wc. antibiotic optimization in the difficult-to-treat patient with complicated intra-2. abdominal or complicated skin and skin structure infections: focus on tigecycline. ther clin risk manag 2010; 6: 419-30 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)70 percorso clinico e assistenza infermieristica al paziente ustionato con infezioni polimicrobiche mehtar s, drabu yj, blakemore ph. the in-vitro activity of piperacillin/tazobactam, 3. ciprofloxacin, ceftazidime and imipenem against multiple resistant gram-negative bacteria. j antimicrob chemother 1990; 25: 915-9 johnson s. recurrent clostridium difficile infection: causality and therapeutic approaches. 4. int j antimicrob agents 2009; 33 (suppl 1): s33-s36 bestpractice. informazioni della letteratura scientifica per una buona pratica infermieristica. 5. gestione del paziente tracheostomizzato. dossier infad 2007; 24 agosto. milano: editore zadig bestpractice. informazioni della letteratura scientifica per una buona pratica infermieristica. 6. sondino naso gastrico. dossier infad 2007; 26 novembre. milano: editore zadig bordes j, goutorbe p, asencio y, meaudre e, dantzer e. a non-surgical device for faecal 7. diversion in the management of perineal burns. burns 2008; 34: 840-4 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) clinical management issues 11 vitamina b12, acido folico e ferritina), tutti risultati nella norma. all’esame obiettivo la signora maria si presentava lucida e orientata e non era presente flapping; la pressione era pari a 120/60 mmhg e la frequenza cardiaca era di 68 bpm. i toni cardiaci erano validi e ritmici ed era apprezzabile un soffio sistolico 1/6 alla base. nulla di rilevante all’esame polmonare. l’addome era globoso per adipe, trattabile, non dolente; milza e fegato erano mal valutabili. erano inoltre assenti segni sistemici di ritenzione idrica. gli esami già eseguiti durante il ricovero nel reparto di medicina del nostro ospedale non parevano supportare l’ipotesi di cirrosi come causa di iperammoniemia; in particolare erano segnalati: all’eco-addome: steatosi epatica e milza y globosa, ma di dimensioni nei limiti; marker per epatite b e c negativi; y ferritina = 23 ng/ml; y lieve aumento della bilirubina totale (soy prattutto indiretta); francesca molino 1 caso clinico la signora maria, 71 anni, giunse nel nostro ambulatorio di medicina interna nel marzo 2008 dopo un ricovero per iperammoniemia (ammonio = 230 µg/dl) e stato confusionale a cui non era stata data una chiara spiegazione. all’anamnesi risultavano allergia alla penicillina, assenza di potus o fumo attivo e familiarità per leucemia e neoplasia ossea non meglio specificata. venivano inoltre riferiti artrite reumatoide (di cui non era disponibile documentazione clinica), diabete mellito in terapia insulinica dal 1999 con neuropatia agli arti inferiori, pericardite con versamento nel 2005 e gastro-duodenite emorragica da fans nel 2007. dall’inizio del 2008 la paziente era inoltre seguita presso l’ambulatorio di ematologia del nostro ospedale per pancitopenia con anemia macrocitica; nei mesi precedenti erano stati eseguiti numerosi accertamenti (tra cui sono da segnalare anticorpi anti-piastrine, test di coombs, iperammoniemia di origine sconosciuta abstract idiopathic portal hypertension is a benign long-standing non-cirrhotic portal hypertension with no typical laboratory findings and absence of stigmata of chronic liver disease. the disease is diagnosed by the presence of evidence of portal hypertension with preserved liver function and absence of extrahepatic portal vein obstruction. we report the case of a 71-year-old woman who was admitted in hospital with encephalopathy and hyperammonemia. liver biochemical tests excluded cirrhosis but revealed pancytopenia; preliminary abdomen ultrasound was normal. ultrasound doppler and abdomen computed tomography of portal vein revealed patent portal vein with impaired portal intrahepatic perfusion and portal-systemic shunts. keywords: hyperammonemia, portal hypertension, portal-systemic shunts, liver function hyperammonemia of unknown origin cmi 2010; 4(suppl. 3): 11-15 1 sscvd day hospital e day service unificato di medicina. azienda ospedaliero-universitaria san giovanni battista, torino corresponding author dott.ssa francesca molino francesca.molino@email.it caso clinico ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)12 iperammoniemia di origine sconosciuta ipocolesterolemia; y transaminasi ed enzimi di colestasi nella y norma; sintesi epatica ai limiti inferiori: inr ( y international normalized ratio) = 1,30; albumina = 3,8 g/dl, che = 5.216 u/l); velocità di eritrosedimentazione (ves) y = 26; immunoglobuline nella norma; y marker di autoimmunità tutti negativi, y compresi ra test e anticorpi anticitrullina (anti-ccp), contrariamente al dato anamnestico di artrite reumatoide; vitamina b12 e acido folico nella norma. y erano confermate la pancitopenia lievemoderata e l’iperammoniemia, ma non era stata ricercata la presenza di sangue occulto nelle feci. per qualche settimana la paziente fu seguita contemporaneamente dall’ambulatorio di ematologia dove furono effettuati ulteriori accertamenti volti a scoprire la causa della pancitopenia. fu anche eseguita una biopsia midollare che escluse la presenza di plasmacellule monoclonali, di blasti e di segni di mielodisplasia; risultarono ben rappresentati anche i megacariociti. la conclusione degli specialisti ematologici fu: «anemia macrocitica e piastrinopenia di ndd» e la signora maria fu rimandata all’internista per la ricerca di neoplasia occulta. alla luce dei dati a disposizione, il quadro clinico non era assolutamente chiaro e fu pertanto deciso di tentare una rilettura dei dati clinici, qui sintetizzata: pancitopenia y : i dati a nostra disposizione evidenziavano un’anemia macrocitica (emoglobina = 11 g/dl; volume corpuscolare medio = 100 fl) con vitamina b12 e acido folico nella norma, ldh sempre ai limiti superiori, aptoglobina bassa, lieve iperbilirubinemia prevalentemente indiretta, midollo osseo non patologico, reticolociti ed eritropoietina elevati, test di coombs negativo, leuco-piastrinopenia lieve-moderata (globuli bianchi = 3.500/ mm3 con lieve eosinofilia e linfopenia; piastrine = 92.000/mm3). il quadro era suggestivo per un’anemia emolitica e/o ipersplenismo; iperammoniemia y con fegato e milza nella norma sia anatomicamente che funzionalmente. nel tentativo di giungere alla diagnosi, furono in seguito eseguiti nuovi controlli; i principali sono riassunti in tabella i. la consulenza gastroenterologica, richiesta a questo punto per cercare di fare tabella i esiti dei principali esami eseguiti sulla paziente esame esito esami ematochimici e delle feci conferma di lieve pancitopenia con i caratteri già noti, funzionalità epatica ai limiti inferiori della norma e transaminasi nella norma, hb feci positivo rx torace diffuso ispessimento dell’interstizio ecografia dell’addome liquido periepatico nella tasca di morrison meritevole di approfondimento, milza di 15 cm; fegato e tronco portale nella norma tc addome (eseguita senza mezzo di contrasto per rifiuto della paziente) fegato di dimensioni ridotte, vena porta verticalizzata con riduzione di calibro, aree di densità media a livello di rene e surrene sx (ectasie venose?) e milza di 14 cm colonscopia escluse grossolane lesioni stenosanti o vegetanti (toeletta non ottimale); presenza di numerosi diverticoli del sigma ecodoppler portale tronco portale esile con flusso assai lento, epatopeto; rami intraepatici non campionabili, vene sovraepatiche pervie a ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 13 f. molino chiarezza con l’aiuto di uno specialista, si concluse con il sospetto di cirrosi su base dismetabolica ma non diede ulteriori spunti diagnostici. dopo ripetute richieste da parte nostra, la paziente fu finalmente convinta ad accettare la tc addome con mezzo di contrasto (ciò che la spaventava era il rischio di iperglicemia secondaria alla necessaria preparazione anti-allergica con steroidi) che fu eseguita in sicurezza approfittando di un ricovero per rallentamento ideo-motorio e iperammoniemia. gli esiti furono: «il tronco portale ha calibro nettamente ridotto (6 mm) e i suoi rami intraepatici sono assai esili; presenza di grossolani gavoccioli venosi da circolo collaterale porto-sistemico che si realizza a sx in uno shunt spleno-renale e a dx in uno shunt mesenterico gonadico. la milza è ingrandita con aspetto globoso ma conserva parenchima omogeneo. assenza di ascite» (figura 1). finalmente tutto il quadro clinico, compresa la pancitopenia, era spiegato: la splenomegalia, causa di ipersplenismo e pancitopenia, era secondaria all’ipoplasia della vena porta e l’iperammoniemia era dovuta agli importanti shunt porto-sistemici. tutto il quadro clinico pareva a questo punto sotto controllo con la terapia medica, ma la storia non era finita. quando, a dicembre 2008, la paziente cominciò a lamentare tosse stizzosa, essa venne attribuita alla terapia con ace-inibitore che venne sospeso; non furono eseguiti ulteriori approfondimenti, tranne una visita otorinolaringoiatrica che diagnosticò una possibile patologia da reflusso che ci indusse a potenziare la terapia con inibitori di pompa protonica. a gennaio 2009 la signora maria riferì dolore agli arti inferiori, sedi di lesioni cutanee nodulari tipo eritema nodoso, e lieve prurito diffuso. anche la tosse, pur in riduzione, venne a questo punto rivalutata nell’ipotesi di sarcoidosi, e vennero eseguiti nuovi accertamenti da cui risultò un importante incremento degli acidi biliari, dell’ace (enzima di conversione dell’angiotensina) e degli indici di flogosi (ves – velocità di eritrosedimentazione; pcr – proteina c reattiva). la tc ad alta risoluzione (hrct) polmonare risultò nella norma, la spirometria non evidenziò alterazioni e la diffusione polmonare presentò una riduzione di grado moderato. gli esami eseguiti esclusero perciò l’ipotesi di sarcoidosi; il dosaggio dell’ace, dopo aver raggiunto il picco massimo, cominciò a scendere fino alla normalizzazione. vennero escluse inoltre le altre possibili cause di eritema nodoso (tubercolosi, patologia autoimmune, infezione tonsillare, ecc.); le modificazioni dell’ace e la riduzione della diffusione polmonare furono attribuiti dal gastroenterologo a cirrosi subclinica, mentre l’eritema nodoso fu interpretato come manifestazione parainfettiva autolimitantesi in paziente in cui lo shunt porto-sistemico favorisce le infezioni a partenza dal tratto gastroenterico. ad aprile 2009 si manifestò il primo episodio di scompenso ascitico-edemigeno che fu facilmente controllato con terapia diuretica per os. figura 1 tc addome: il tronco portale ha calibro nettamente ridotto (6 mm) e i suoi rami intraepatici sono assai esili; presenza di grossolani gavoccioli venosi da circolo collaterale portosistemico che si realizza a sinistra in uno shunt spleno-renale e a destra in uno shunt mesenterico gonadico. la milza è ingrandita con aspetto globoso ma conserva parenchima omogeneo. assenza di ascite b c ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)14 iperammoniemia di origine sconosciuta nei mesi successivi il quadro clinico fu dominato da un progressivo peggioramento dell’anemia (accompagnata da incremento paucisintomatico dell’ammoniemia), persistenza della positività dell’emoglobina fecale e sideropenia. oltre alla terapia di supporto marziale, si resero necessarie saltuarie emotrasfusioni. gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da ripetuti episodi di sanguinamento gastroenterico, talora secondario a stillicidio gastrico (per gastrite petecchiale dell’antro su cui non è possibile intervenire endoscopicamente), talora dovuto a franca rettorragia, che hanno reso necessarie periodiche emotrasfusioni. il compenso epatico è più che buono, con moderate dosi di diuretici, e l’iperammoniemia è intermittente ma ben tollerata. discussione l’ipertensione portale idiopatica, così chiamata in giappone (dove colpisce in genere donne adulte/anziane), viene definita fibrosi portale non cirrotica in india (dove ha maggiore prevalenza in giovani uomini) e sclerosi epatoportale negli stati uniti. per la diagnosi sono necessarie l’evidenza inequivocabile di ipertensione portale e l’assenza di cirrosi o ostruzione portale extraepatica. devono essere inoltre escluse le altre cause di ipertensione portale [1] (tabella ii). le caratteristiche cliniche salienti sono: importante splenomegalia (95%), circoli collaterali sottocutanei (15%), lieve epatomegalia (50%) [2]. l’ascite si manifesta in fasi avanzate. per quanto riguarda il quadro ematochimico, sono da segnalare frequenti anemie, leucopenia e trombocitopenia da ipersplenismo (aptoglobina bassa, ldh alto, reticolociti aumentati, eritropoietina alta, bilirubina indiretta lievemente aumentata, test di coombs e anticorpi anti-piastrine negativi) ed enzimi epatici nella norma o poco alterati [3-5]. ittero e iperammoniemia solo in genere presenti nelle fasi tardive o dopo un episodio di sanguinamento gastroenterico. la complicanza più frequente è il sanguinamento da varici esofagee. in genere la prognosi è buona e migliore rispetto a quella dei pazienti con ipertensione portale da cirrosi; tuttavia un sottogruppo evolve in cirrosi, talora con necessità di trapianto. coloro che sviluppano importanti circoli collaterali sono a minor rischio di emorragie da varici. non sono segnalate particolari differenze di incidenza per età e sesso, ma la patologia sembra prediligere le classi sociali meno abbienti. la causa non è nota, ma alcune condizioni sembrano influire: ripetuti episodi di sepsi ombelicale, infezioni batteriche e diarrea nell’infanzia (che possono favorire pileflebiti, microtrombosi, danno endoteliale e ostruzione dei piccoli e medi vasi portali negli anni successivi) [6]. le malattie autoimmuni possono predisporre (segnalata associazione significativa con anti-dna nella popolazione giapponese), ma non sembra esistere predisposizione genetica [7,8]. è stata chiamata in causa anche la diatesi trombofilica [9]. sono da escludere nella diagnosi differenziale le altre cause di ipertensione portale già segnalate (tabella ii). la biopsia epatica dà risultati molto variabili, sia a causa della diversità dei reperti legata al differente stadio di malattia in cui il prelievo viene eseguito, sia a causa della incertezza legata alla campionatura. nel 15% dei casi il fegato è nodulare con ispessimento delle vene portali e sclerosi delle pareti; è possibile la presenza di trombosi dei piccoli e medi vasi portali. la biopsia può servire però per escludere la presenza di cirrosi da altra causa con iperplasia nodulare rigenerativa [9-11]. il quadro tipico è quello di una venopatia occlusiva caratterizzata da oblitepre-epatiche trombosi della vena porta y trombosi della vena splenica y fistola artero-venosa splancnica y splenomegalia (linfoma, malattia di gaucher) y intra-epatiche pre-sinusoidali: schistosomiasi, ipertensione idiopatica (iph), sarcoidosi, fibrosi y epatica congenita, colangite sclerosante, fistola epatica, arteriopatia sinusoidali: avvelenamento da arsenico, tossicità da vitamina a o vinile, iperplasia y nodulare rigenerativa post-sinusoidali: malattia veno-occlusiva, sindrome di budd-chiari y post-epatiche ostruzione della vena cava y malattie cardiache: pericardite costrittiva, cardiomiopatia restrittiva y tabella ii cause di ipertensione portale [1] ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 15 f. molino razione dei piccoli vasi e accompagnata da riduzione della perfusione epatica, atrofia parenchimale, sclerosi della parete della vena porta e fibrosi portale [11,12]. la malattia viene classificata in quattro stadi in base a entità dell’epatomegalia, atrofia parenchimale e trombosi portale (nello stadio iv si ha trombosi portale associata a prognosi negativa) [12]. la gestione dei pazienti, come nella cirrosi, è volta soprattutto alla prevenzione dell’emorragia da varici mediante terapia medica, legatura delle varici, tips (transjugular intrahepatic porto-systemic shunt) e trasfusioni. la splenectomia è indicata solo in caso di ipersplenismo grave [5,13,14]. disclosure l’autrice dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. bibliografia okuda k, nakajima t, kameda h, sugiura m, ohnishi k, kobayashi m. idiopathic portal 1. hypertension: a national study. in: brunner h, thaler h (a cura di). hepatology: a festschrift for hans popper. new york: raven, 1985 dhiman rk, chawla y, vasishta rk, kakkar n, dilawari jb, trehan ms et al. non-cirrhotic 2. portal fibrosis (idiopathic portal hypertension): experience with 151 patients and a review of the literature. j gastroenterol hepatol 2002; 17: 6-16 yasuni n, koichi t, makoto o, kazuyoshi k. pathology and pathogenesis of idiopathic portal 3. hypertension with an emphasis on the liver. pathol res pract 2001; 197: 65-76 sarin s4. k, kumar a. noncirrhotic portal hypertension. clin liver dis 2006; 10: 627-51 sarin s5. k, kumar a, chawla yk, baijal ss, dhiman rk, jafri w et al; members of the apasl working party on portal hypertension. non-cirrhotic portal fibrosis/idiopathic portal hypertension: apasl recommendations for diagnosis and treatment. hepatol int 2007; 1: 398-413 sarin sk, aggarwal sr. idiopatic portal hypertension. 6. digestion 1998; 59: 420 saito k, nakanuma y, takegoshi k, ohta g, obata 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in un saggio la cui sensibilità è ≥ a 4 logaritmi (bcrabl/abl ≤ a 0,01% su is) o ≥ a 4,5 log (bcr-abl/abl ≤ a 0,0032% su is) [1]. lo studio iris ha dimostrato che la sopravvivenza globale, in pazienti con risposta citogenetica completa a 8 anni, raggiunge l’83% con tassi di event free survival (efs) pari all’81% e di overall survival (os) pari all’85%. in questo trial il 17% dei pazienti non ha raggiunto la risposta citogenetica completa (ccyr), il 15% l’ha ottenuta ma l’ha successivamente persa, il 5% è risultato intollerante a imatinib. nel 92% dei pazienti nel corso dello studio non è stata osservata progressione in fase accelerata (ap) o blastica (bc): il tasso di progressione in ap/ bc dal 1° al 5° anno è stato, rispettivamente 1,5%, 2,8%, 1,6%, 0,9%, 0,5% per poi essere successivamente irrilevante. lo stesso studio mostrava che il tasso della risposta molecolare migliorava nel tempo. nessun paziente in mmr al 12° mese è successivamente progredito. infatti, nei pazienti in ccyr, l’ottenimento della mmr a 12 mesi conferiva una maggiore durata della sopravvivenza libera da eventi (efs) rispetto ai pazienti che non avevano raggiunto la mmr. a un followup di otto anni, un terzo dei pazienti non ha avuto un buon outcome: circa il 30% ha fallito la terapia con imatinib e una parte (il la storia di imatinib nella cura della leucemia mieloide cronica (lmc) ha qualcosa di miracoloso e sembra essere nata dalla mente di un giovane medico che si ritrova a fantasticare su un farmaco efficace, non tossico, che colpisce solo le cellule neoplastiche che forse potrebbe sconfiggere la malattia. era a questo che pensava, sul finire degli anni ’90, brian druker quando iniziò a studiare gli inibitori delle tirosin-chinasi? ci sono voluti circa 40 anni dalla scoperta del cromosoma philadelphia, con la traslocazione reciproca tra i cromosomi 9 e 22, per mettere in evidenza come il gene ibrido bcr-abl sul cromosoma 22 codificasse per una proteina tirosin-chinasica costituzionalmente attiva e quindi potesse generare meccanismi proliferativi, antiapoptotici, di migrazione e di instabilità genomica che sono la causa della lmc. dal finire degli anni ’90 si comprendono meglio le vie di trasduzione dei segnali attivati dalle tirosin-chinasi e dall’azione del suo primo inibitore, imatinib, e la lmc da cenerentola diventa la “traccia scolastica” per tutte le altre neoplasie. con imatinib, il primo inibitore della proteina tirosin-chinasi brc-abl codificata dal gene di fusione bcr-abl, si apre un nuovo scenario terapeutico per la lmc che comporta l’abbandono della terapia con interferone e la drastica riduzione della indicazione trapiantologica. lo studio iris, il più importante studio clinico nello sviluppo di questo farmaco che ne ha permesso la registrazione, è diventato il fulcro su cui sono state formulate le principali decisioni in merito alla gestione e al trattamento del paziente affetto da lmc. corresponding author dott. bruno martino brunmartin@libero.it caso clinico 1 divisione di ematologia, ao “bianchi melacrino morelli”, reggio calabria bruno martino 1 quesiti terapeutici in corso di leucemia mieloide cronica disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. mailto:brunmartin@libero.it ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3)4 editoriale 19%) ha acquisito meccanismi di resistenza dovuti a mutazioni puntiformi della tasca di bcr-abl. per migliorare i risultati dello studio iris sono stati effettuati ulteriori trial utilizzando alte dosi di imatinib a 800 mg che hanno mostrato una più rapida mmr e ccyr [2,3], anche se gravati da eventi avversi ematologici e non ematologici di grado 3-4. sono stati eseguiti anche studi di combinazione con altri farmaci quali interferone peghilato o citarabina nei quali, pur essendoci tassi maggiori di mmr nel gruppo di associazione con pegifn, non si sono osservate differenze per pfs (progression free survival) e os nel lungo follow-up. sulla scorta dei risultati di imatinib in prima linea e dello studio iris in particolare, sono state formulate le raccomandazioni del gruppo european leukemianet (eln) [4], che definiscono i criteri di risposta ottimale, sub-ottimale e di fallimento alla terapia con imatinib. queste linee guida consentono una ottima gestione dei pazienti, permettendo di identificare categorie che necessitano di decisioni terapeutiche alternative. l’esempio più importante a questo riguardo è dato dalla identificazione dei pazienti sub-ottimali per i quali abbiamo oggi la possibilità di utilizzare un inibitore di seconda generazione come alternativa all’incremento del dosaggio di imatinib. infatti un’ulteriore importante tappa nella storia di questa malattia è rappresentata proprio [5] dallo sviluppo di nuovi agenti ad alta selettività e affinità di legame alla proteina bcr-abl. sono state descritte, in questi anni, più di cento mutazioni che hanno portato alla ricerca di nuove molecole che superassero la resistenza a imatinib. le due molecole più estesamente studiate sono nilotinib e dasatinib. nei pazienti resistenti o intolleranti a imatinib, gli inibitori di seconda generazione hanno quindi rappresentato una nuova ed efficace opzione terapeutica. dasatinib, il primo di questi inibitori ad aver ricevuto l’indicazione per il trattamento dei pazienti affetti da lmc resistenti o intolleranti a imatinib, agisce sulle chinasi src e abl ed è attivo su molte mutazioni di bcr-abl clinicamente rilevanti, tranne t315i. nilotinib, disegnato a partire da imatinib in modo da ottimizzare il legame con la tasca di bcrabl, è una molecola che, per le sue proprietà conformazionali, ha la peculiarità di adattarsi in maniera più specifica al sito di inibizione di bcr-abl, consentendo di superare i meccanismi di resistenza descritti per imatinib (15-20% in tutti gli studi). è dotato inoltre di una bassa dipendenza dai meccanismi di influsso ed efflusso cellulare (mdr oct1), che gli permette di raggiungere concentrazioni terapeutiche adeguate e di superare i meccanismi di mrd. per queste sue caratteristiche nilotinib ha una maggiore potenza d’azione rispetto a imatinib: inibisce infatti bcr-abl 30 volte di più, risparmiando tutti gli altri target tirosin-chinasici (ad eccezione di pdgfr beta e ckit). vengono quindi realizzati diversi studi clinici nei pazienti resistenti o intolleranti a imatinib. lo studio che ha portato alla registrazione di nilotinib in seconda linea ha dimostrato a un follow-up di 24 mesi risposte citogenetiche maggiori nel 59% dei casi, complete nel 44%, con una sopravvivenza pari all’87%. nei pazienti in fase accelerata, sempre a 24 mesi di follow-up, nilotinib ha permesso di ottenere risposte citogenetiche maggiori nel 32% dei casi, complete nel 21% dei casi con una sopravvivenza a 12 mesi che ha raggiunto l’80%, consentendo una possibile alternativa terapeutica, come il trapianto. in questo ampio scenario la scelta del tipo di inibitore da usare in seconda linea può essere guidata dal tipo di mutazione di bcr-abl, dalle comorbidità, dai profili di tossicità dei farmaci e dalla considerazione che essi non sono cross-intolleranti nei pazienti intolleranti a imatinib. l’efficacia degli inibitori di seconda generazione con la loro potenza, selettività, specificità e con la loro buona tollerabilità in seconda linea terapeutica e i limiti identificati negli studi che hanno valutato la dose escalation di imatinib, hanno portato alla realizzazione di studi di confronto di fase ii e iii tra imatinib e gli inibitori di seconda generazione nilotinib e dasatinib. questi studi hanno portato alla registrazione di nilotinib e dasatinib in prima linea. lo studio gimema di fase seconda che esplora l’attività di nilotinib in prima linea al dosaggio di 400 mg due volte al giorno in 73 pazienti in fase cronica rileva una ccyr a 1 anno pari al 96%, con un tasso di mmr pari al 85%. da segnalare risposte rapide (il 78% di ccyr e il 52% di risposte molecolari maggiori a 3 mesi) e ottima tollerabilità (interruzioni del trattamento dovute a effetti tossici non ematologici e mielosoppressione irrilevanti). il recente studio enestnd, importante per il suo follow-up già di 24 mesi, confronta nilotinib al dosaggio di 300 mg 2 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3) 5 b. martino volte al giorno o 400 mg 2 volte al giorno vs imatinib 400 mg al giorno. questo studio dimostra che a 24 mesi il trattamento con nilotinib a 300 mg 2 volte al giorno ha portato all’87% di ccyr vs il 77% con imatinib (p = 0,0018). la mmr è stata ottenuta nel 71% dei pazienti (p < 0,0001) in confronto al 44% dei pazienti che ottengono la risposta con imatinib. inoltre lo studio evidenzia come a 24 mesi il 26% dei pazienti ottiene una risposta molecolare completa con una riduzione del trascritto di 4,5 log (p < 0,0001) rispetto al 10% nei pazienti trattati con imatinib. infine la progressione in fase accelerata o blastica durante il trattamento è stata dello 0,7% nei pazienti in trattamento con nilotinib 300 mg 2 volte al giorno rispetto al 6% dei pazienti trattati con imatinib. nessun paziente in mmr è andato in progressione. i dati di nilotinib in prima linea evidenziano come sia molto importante ottenere una risposta veloce e profonda per proteggere il paziente dalla progressione e ci proiettano verso la possibile guarigione del paziente, spingendoci a poter pensare che una parte dei pazienti possa in futuro forse smettere il trattamento. tale riflessione può essere mutuata dallo studio stim [6] nel quale imatinib è stato interrotto in 69 pazienti che avevano ottenuto un risposta molecolare completa per più di due anni. di essi solo il 59% ha perso la risposta molecolare entro 7 mesi dalla sospensione e, se consideriamo soltanto i pazienti con basso rischio sokal, questa percentuale è minore. lo studio enestnd evidenzia come nilotinib sia più efficace e meglio tollerato di imatinib con un minor rischio di progressione di malattia, con un importante vantaggio dimostrato su tutti i rischi sokal sia in termini di mmr che in termini di cmr. e sappiamo che se si vuole intraprendere il percorso verso la cura della malattia, l’obiettivo terapeutico da ricercare fortemente e prepotentemente è la risposta molecolare completa. anche per dasatinib è in corso uno studio di fase iii (dasision) con un follow-up di 24 mesi che ha portato alla registrazione del farmaco in prima linea in us ed europa. questi risultati suggeriscono che gli inibitori di seconda generazione possano sostituire imatinib come standard di cura nei pazienti in prima linea e aprono interrogativi su come gestire meglio i pazienti già in trattamento con imatinib che non hanno una risposta ottimale alla terapia secondo le ultime linee guida eln. nei pazienti che hanno iniziato imatinib recentemente in prima linea è possibile individuare rispetto alle linee guida correnti uno switch precoce al secondo inibitore per condizioni di risposta sub-ottimale? una prima riflessione scaturisce dai dati presentati recentemente all’eha sui pazienti sub-ottimali dello studio enestnd in trattamento con imatinib per i quali era prevista la possibilità di aumentare il dosaggio del farmaco a 800 mg al giorno. a un follow-up mediano di 14 mesi, il 57% dei pazienti non ha avuto nessun beneficio clinico dopo l’aumento del dosaggio di imatinib, il 17% ha ottenuto una ccyr (senza mmr) mentre il 26% ha ottenuto una mmr. questi dati suggeriscono che, probabilmente, lo switch precoce a un inibitore di seconda generazione sia la scelta migliore per i pazienti sub-ottimali. un altro aspetto che dobbiamo tenere presente riguarda la terapia di prima linea: quale inibitore e per chi? il rischio sokal ci ha guidati in questi anni perfettamente nella gestione della lmc. farmaci come nilotinib che portano i pazienti ad alto sokal ad avere le stesse risposte citogenetiche e molecolari ottenute con imatinib nel basso sokal ci pongono quesiti di non semplice risoluzione nella scelta terapeutica. nello studio stim i pazienti con minor rischio di ricaduta sono quelli che hanno ottenuto una risposta molecolare completa e che avevano un basso sokal. perché allora privarci della risposta molecolare che si ottiene più frequentemente e più profondamente con nilotinib nel basso rischio? potrebbero essere questi pazienti quelli a cui potrebbe essere sospeso il farmaco? bibliografia 1. hughes t, deininger m, hochhaus a, branford s, radich j, kaeda j et al. monitoring cml patients responding to treatment with tyrosine kinase inhibitors: review and recommendations for harmonizing current methodology for detecting bcr-abl transcripts and kinase domain mutations and for expressing results. blood 2006; 108: 28-37 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3)6 editoriale 2. castagnetti f, palandri f, amabile m, testoni n, luatti s, soverini s et al; gimema cml working party. results of high-dose imatinib mesylate in intermediate sokal risk chronic myeloid leukemia patients in early chronic phase: a phase 2 trial of the gimema cml working party. blood 2009; 113: 3428-34 3. kantarjian h, talpaz m, o’brien s, garcia-manero g, verstovsek s, giles f et al. high-dose imatinib mesylate therapy in newly diagnosed philadelphia chromosome-positive chronic phase chronic myeloid leukemia. blood 2004; 103: 2873-8 4. baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, saglio g, apperley j et al; european leukemianet. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clinical oncol 2009; 27: 6041-51 5. gorre me, mohammed m, ellwood k, hsu n, paquette r, rao pn et al. clinical resistance to sti-571 cancer therapy caused by bcr-abl gene mutation or amplification. science 2001; 293: 876-80 6. mahon fx, réa d, guilhot j, guilhot f, huguet f, nicolini f et al; intergroupe français des leucémies myéloïdes chroniques. discontinuation of imatinib in patients with chronic myeloid leukaemia who have maintained complete molecular remission for at least 2 years: the prospective, multicentre stop imatinib (stim) trial. lancet oncol 2010; 11: 1029-35 quesiti terapeutici in corso di leucemia mieloide cronica bruno martino 1 efficacia di nilotinib in un paziente ricaduto dopo 9 anni di terapia con imatinib e in risposta citogenetica completa stabile marzia defina 1 efficacia e sicurezza di nilotinib, dopo risposta sub-ottimale a imatinib, in paziente con leucemia mieloide cronica e tachicardia parossistica sopraventricolare stefana impera 1, ugo consoli 1, giuseppina uccello 1, patrizia guglielmo 1 differente risposta a imatinib e nilotinib in relazione al tempo di somministrazione paolo danise 1 rapida e duratura risposta molecolare con nilotinib in una paziente in risposta sub-ottimale a imatinib mario annunziata 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5) clinical management issues 19 viene posta diagnosi definitiva di leucemia mieloide cronica (lmc) in fase cronica. in relazione alle comorbilità va segnalata la presenza di diabete mellito dall’età di 20 anni, in terapia insulinica già complicato da una retinopatia diabetica proliferante che il paziente ha sviluppato nel corso degli anni. a seguito della diagnosi di lmc, nell’aprile 2006, il paziente inizia la terapia con imatinib 400 mg/die che è costretto a sospendere dopo appena un mese per l’insorgenza di carmen tomaselli 1 caso clinico un uomo di 42 anni si presenta nel gennaio 2007 alla nostra osservazione con la diagnosi di leucemia mieloide cronica in fase cronica, posta nell’aprile 2006 presso altra sede, in seguito al riscontro occasionale di leucocitosi neutrofila all’esame emocromocitometrico. all’esordio l’esame clinico rivela la presenza di splenomegalia, l’esame morfologico dello striscio di sangue periferico è suggestivo di patologia mieloproliferativa cronica così come l’esame morfologico su aspirato midollare. l’esame citogenetico evidenzia la presenza del cromosoma ph+, con cariotipo 46, xy t(9;22) (q38;q11), rilevato in 20/20 metafasi analizzate. la ricerca del riarrangiamento ibrido bcr-abl mediante pcr qualitativa risulta positiva per il trascritto b3a2, mentre il profilo di rischio evolutivo del paziente, valutato impiegando la stratificazione del rischio secondo sokal, indica un rischio basso (0,69). uso di nilotinib nel paziente diabetico abstract a 42-year-old man, diabetic patient, after cml ph+ diagnosis started a treatment with imatinib reaching both chr and ccyr within 6 months. because of two episodes of vitreous haemorrhage the treatment was discontinued for four months with the lost of the ccyr and the maintenance of the chr. the patient begun second line therapy with nilotinib, another tk inhibitor, recovering ccyr after 3 months and mmolr after 12 months, and keeping them up after 18 months of treatment. nilotinib related side effects were transient rash and first degree arthromyalgia that occurred during the first month of therapy. in this case nilotinib therapy has shown to be safe and effective also for diabetic patients with intolerance to imatinib. keywords: nilotinib, chronic myeloid leukemia, diabetes, vitreous haemorrhage use of nilotinib in the diabetic patient cmi 2010; 4(suppl. 5): 19-22 1 uo di ematologia con tmo, arnas civico, palermo corresponding author dott.ssa carmen tomaselli carmen.tomaselli@libero.it caso clinico perché descriviamo questo caso? l’articolo intende presentare i benefici in termini di efficacia e sicurezza di cui un paziente diabetico intollerante a imatinib può beneficiare dall ’utilizzo di nilotinib. tali benefici sono ancor più evidenti se il paziente ha già ottenuto una risposta ematologica completa disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5)20 uso di nilotinib nel paziente diabetico di bcr-abl (la causa della lmc ph+) e così inibire il legame con l’atp. ha inoltre una selettività e una specificità di azione aumentata rispetto al capostipite imatinib. i dati di efficacia ottenuti sui pazienti trattati negli studi di fase 2 in seconda linea (figura 1) confermano che nilotinib rappresenta un’efficace arma terapeutica nei pazienti resistenti e intolleranti a imatinib garantendo elevate probabilità di risposta, basso rischio di progressione, elevato profilo di tollerabilità. dopo 3 mesi di terapia, infatti, il paziente ottiene la ccyr, mantenuta dopo 6 mesi, e confermata dopo un anno cui si aggiunge, inoltre, la risposta molecolare maggiore (mmolr). a dicembre 2009, ovvero dopo 18 mesi di terapia, il paziente mostra chr, ccyr e mmolr. per quanto concerne la tossicità extraematologica si segnalano soltanto la comparsa durante le prime due settimane di trattamento, di rash cutaneo e di artromialgia di grado lieve peraltro risoltisi in breve tempo. infine non si sono verificate alterazioni biochimiche di laboratorio e in particolare non si sono registrate variazioni della glicemia tali da comportare un aggiustamento posologico della terapia insulinica già praticata. discussione imatinib ha rivoluzionato la terapia della lmc cambiando così la storia naturale della malattia e pertanto oggi rappresenta la terapia di prima linea per la cura di tale patologia. nilotinib, inibitore delle tirosin-chinasi (tki) di seconda generazione, ha in comune con imatinib il legame alla sola conformazione chiusa di bcr-abl, oltre che l’attività anche su altre tirosin-chinasi quali c-kit e pdgfr. accanto a queste caratteristiche comuni, imatinib e nilotinib al contempo presentano differenze tali da conferire alla molecola nilotinib una maggiore potenza e selettività d’azione per bcr-abl e una minore selettività per pdgfr e c-kit (in quest’ordine), al contrario di imatinib che invece presenta maggiore affinità per pdgfr, poi per c-kit e infine per bcr-abl (in ordine decrescente) [1,2] (tabella i). la scelta dell’impiego di questo tki di seconda generazione nel nostro caso clinico emerge dalle seguenti considerazioni. l’emorragia intravitreale non è descritta tra gli effetti collaterali in corso di terapia con nilotinib [3] e al contrario è annoverata tra ordine di affinità imatinib pdgfr > c-kit > bcr-abl nilotinib bcr-abl > pdgfr > c-kit tabella i profilo di selettività di imatinib e nilotinib verso le chinasi un’emorragia intravitreale a carico dell’occhio sinistro. viene sottoposto a laserterapia e a completa risoluzione dell’evento riprende la terapia con imatinib alla stessa posologia, ottenendo, dopo 3 mesi, la risposta ematologica completa (chr), e dopo 6 mesi la risposta citogenetica completa (ccyr), entrambe mantenute dopo 9 mesi di trattamento. esattamente un anno dopo la ripresa della terapia, un nuovo episodio di emorragia intravitreale a carico dell’occhio controlaterale porta alla definitiva sospensione della terapia con imatinib. dopo 4 mesi di interruzione della terapia e ulteriore ciclo di laserterapia sull’occhio controlaterale cui fa seguito, al controllo oculistico, un netto miglioramento dell’emovitreo, viene effettuata figura 1 risultati nello studio registrativo 2101 in pazienti resistenti o intolleranti a imatinib e trattati con nilotinib: risposte citogenetiche in pazienti con e senza chr al baseline [5] ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; mcyr = risposta citogenetica maggiore una rivalutazione di malattia. in particolare, mentre la chr è stata mantenuta, la risposta citogenetica completa è stata persa, essendo la t(9;22) presente nel 58,8% delle metafasi analizzate (risposta citogenetica minore). si decide pertanto di passare alla somministrazione dell’inibitore di seconda generazione nilotinib alla dose di 400 mg bid per uso compassionevole, non essendo allora disponibile il farmaco in commercio. nilotinib è stato specificatamente disegnato per ottenere un miglior legame con la tasca ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5) 21 c. tomaselli i dati mostrano infatti che in un follow-up di 24 mesi, percentuali maggiori di pazienti con chr al baseline hanno raggiunto la mcyr e la ccyr (73% vs 52% e 58% vs 36%) rispetto ai pazienti che non presentano una chr baseline (figura 1; tabella ii). inoltre i soggetti con chr all’inizio della terapia, raggiungono la mcyr più rapidamente rispetto ai pazienti che non presentano una chr baseline (1,4 mesi vs 2,8 mesi). i pazienti che nello studio di kantarjian hanno ottenuto la ccyr con nilotinib, hanno in gran parte (83%) mantenuto tale risposta nei 24 mesi successivi (figura 2). in conclusione i risultati ottenuti nel nostro paziente hanno globalmente confermato quanto evidenziato dagli studi di fase ii: il paziente, con una chr al baseline, raggiunge, dopo tre mesi di terapia con nilotinib la ccyr, mantenendola stabile e duratura per tutti i 18 mesi di terapia, e dopo 12 mesi anche la mmolr. infine gli effetti collaterali rilevati, sono stati di grado lieve e di breve durata e si sono presentati solo all’inizio del trattamento, confermando un buon profilo di tollerabilità del farmaco. gli eventi rari in corso di terapia con imatinib [4]. al riguardo la minore affinità e la minore potenza d’azione di nilotinib verso pdgfr rispetto a imatinib potrebbe essere uno dei fattori chiamati in causa per spiegare tale evento avverso. la presenza di malattia diabetica già complicata dalla retinopatia nel nostro paziente ci ha indotto anche a valutare anticipatamente il rischio di innalzamento dei valori glicemici. i dati ottenuti dagli studi di fase ii riportati anche dalla recente letteratura [3,5,6] classificano l’iperglicemia di grado lieve-moderato, come evento “comune”; tuttavia i dati mostrano, che l’incremento del glucosio ematico è transitorio, clinicamente asintomatico e non comporta in nessun caso la sospensione della terapia. inoltre l’iperglicemia sia di grado lieve-moderato che di grado severo non è limitata a una popolazione di pazienti con iperglicemia preesistente, come quella dei diabetici, ma si sviluppa a prescindere da una condizione predisponente e pertanto la presenza del diabete non rappresenta un limite all’utilizzo di nilotinib. per quanto riguarda la risposta alla terapia è da sottolineare il fatto che il paziente all’inizio del trattamento con nilotinib si trova nella condizione di chr precedentemente ottenuta e mantenuta con imatinib frontline. la presenza della chr baseline, così come evidenziato dagli studi di fase ii [5], permette l’ottenimento di una risposta citogenetica sia maggiore che completa in una percentuale maggiore di pazienti e in tempi più rapidi rispetto alla condizione di non chr. tabella ii risultati dello studio registrativo in seconda linea (2101): tempo mediano di risposta citogenetica ripartito sulla base della presenza o assenza di chr al momento dell ’inizio della terapia con nilotinib [5] ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; mcyr = risposta citogenetica maggiore tutti i pazienti chr al baseline assenza di chr al baseline mcyr (n = 190) (n = 83) (n = 107) tempo mediano di risposta, mesi (range) 2,8 (1-28) 1,4 (1-19) 2,8 (1-28) ccyr (n = 141) (n = 66) (n = 75) tempo mediano di risposta, mesi (range) 3,3 (1-27) 3,2 (1-24) 3,3 (1-27) figura 2 durata della ccyr (risposta citogenetica completa) nei soggetti con lmc in fase cronica trattati con nilotinib riportata nello studio registrativo in seconda linea [5] numero di pazienti = 141 numero fallimenti = 18 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5)22 uso di nilotinib nel paziente diabetico bibliografia 1. weisberg e, manley p, mestan j, cowan-jacob s, ray a, griffin jd. a amn107 (nilotinib): a novel and selective inhibitor of bcr-abl. br j cancer 2006; 94: 1765 2. weisberg e, manley pw, breitenstein w, brüggen j, cowan-jacob sw, ray a et al. characterization of amn107, a selective inhibitor of native and mutant bcr-abl. cancer cell 2005; 7: 129-41 3. rcp tasigna® 4. rcp glivec® 5. kantarjian h, giles fg, bhalla knp, pinilla k, larson ra, gattermann n et al. nilotinib in chronic myeloid leukemia patients in chronic phase (cml-cp) with imatinib resistance or intolerance: 24-month follow-up results of a phase 2 study. 14th congress of the european hematology association. berlin, germany, june 4-7 2009. abstract 0627 6. giles fj, o’dwyer m, swords r. class effects of tyrosine kinase inhibitors in the treatment of chronic myeloid leukemia. leukemia 2009; 23: 1698-707 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6) 23 clinical management issues con rescue di cellule staminali da ottobre 1998 a febbraio 1999. a questo trattamento seguì una terapia con alfa-interferone ricombinante 6 milioni di unità/die, sospesa nell’aprile 2000 a causa dell’insorgenza di tossicità cutanea di grado iii. dopo 13 mesi con questa terapia non si era ottenuta alcuna risposta citogenetica (ph+ = 60%). nonostante la successiva terapia citoriduttiva con idrossiurea 2 g/die, il paziente perse anche la risposta ematologica. caso clinico un uomo giungeva alla nostra osservazione nell’agosto 1998, all’età di 32 anni, per leucocitosi persistente asintomatica (primo riscontro: aprile 1998). l’emocromo dimostrava leucocitosi (wbc = 50.000) con presenza di precursori della granulopoiesi nello striscio periferico. la biopsia ossea e lo studio del cariotipo permisero di porre diagnosi di leucemia mieloide cronica ph+ (ph+ = 100%) a basso rischio secondo sokal. si decise allora di intraprendere terapia con idrossiurea 3 g/die, con ottenimento di risposta ematologica completa dopo 2 mesi. in seguito il paziente venne avviato a un programma di terapia ice ad alte dosi (un ciclo idarubicina 9 mg/mq, citarabina 3 g/ mq bid, etoposide 75 mg/mq + busulfano) perché descriviamo questo caso? nonostante le numerose e diversificate linee terapeutiche precedenti, è interessante notare come questo paziente abbia presentato la risposta ottimale solo a seguito del trattamento con nilotinib corresponding authordott.ssa ivana pierri ipierri@unige.it caso clinico abstract here we report a case of a 32-year-old man, who was diagnosed as having chronic myeloid leukaemia in 1998. after cytoreduction with hydroxyurea, the patient was submitted to high dose chemotherapy with haemopoietic stem cells rescue and reinfusion, and then he started therapy with ifnα without achievement of a cytogenetic response. on november 2000 he took imatinib 400 mg/day and he reached a complete cytogenetic response (ccyr) at 14 months, but not the major molecular response: therefore he was considered a sub-optimal responder according to european leukemianet criteria of 2006. for this reason he increased imatinib dose to 800 mg/day, but after one year he lost ccyr. considering the patient as a failure, at this time, he switched to second-generation tyrosine kinase inhibitor, nilotinib at the dose of 800 mg/day. after 3 months he reached complete ccyr and after 6 months the major molecular response, maintained until last molecular evaluation. keywords: chronic myeloid leukemia, imatinib, nilotinib efficacy of nilotinib therapy in patient with cml diagnosed in pre-tki era and resistant to imatinib cmi 2010; 4(suppl. 6): 23-26 1 clinica ematologica, ospedale s. martino, genova ivana pierri 1, micaela bergamaschi 1, antonia cagnetta 1, anna ghiso 1, marco gobbi 1 efficacia della terapia con nilotinib in paziente con leucemia mieloide cronica esordita in epoca pre-tki e resistente a imatinib disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6)24 efficacia della terapia con nilotinib in paziente con leucemia mieloide cronica esordita in epoca pre-tki e resistente a imatinib spetto a quelli in risposta ottimale, per cui si dovrebbe cambiare l’atteggiamento terapeutico [2]. il dosaggio plasmatico di imatinib (valutato con blood level testing – blt) al di sotto della soglia terapeutica, avrebbe potuto supportare ulteriormente la decisione di incrementare il dosaggio del farmaco; tuttavia all’epoca non era disponibile routinariamente la valutazione delle concentrazioni plasmatiche di imatinib, e comunque, era poco verosimile una mancata aderenza alla terapia o un’eventuale interferenza farmacologica dal momento che il paziente non ha mai assunto altre terapie. i pazienti con risposta sub-ottimale possono giovare di trattamento con dosi maggiori di imatinib se non hanno sviluppato resistenze al farmaco. attualmente, in base ai risultati ottenuti con gli inibitori di ii generazione, l’incremento di dosaggio di imatinib a 800 mg/ die non è più indicato e, a tal proposito, secondo un’informazione presentata al recente congresso 2010 dell’european hematology association, le linee guida eln dovrebbero essere aggiornate nei prossimi mesi. il nostro paziente, nonostante questa terapia, ha perso la risposta citogenetica, per cui si è presentato un altro fallimento; si è deciso pertanto di passare a inibitore tirosinchinasico di ii generazione, sempre secondo le linee guida eln. dopo avere valutato la presenza di eventuali mutazioni, si è scelto nilotinib, perché il paziente era già stato sottoposto a diverse linee terapeutiche cardiotossiche, ed erano disponibili i risultati di efficacia e non tossicità cardiaca di questo farmaco sui pazienti resistenti a imatinib, provenienti dallo studio camn2101. secondo questi risultati, infatti, i pazienti trattati in seconda linea con nilotinib hanno una probabilità di mantenere la ccyr a novembre 2000 si iniziò terapia con imatinib mesilato 400 mg/die, ben tollerata con ottenimento di risposta ematologica completa dopo 1 mese e citogenetica completa dopo 14 mesi con nested-pcr sempre positiva per il trascritto bcr-abl p210 (b2a2). ai successivi controlli trimestrali di biologia molecolare, fish e cariotipo, il paziente manteneva la ccyr e riduzione di due logaritmi del trascritto molecolare senza il raggiungimento della risposta molecolare maggiore, per cui a giugno 2007 si incrementò la dose di imatinib fino a 800 mg/ die (p210 = 0,46%). ad aprile 2008 si verificavano il rialzo del trascritto bcr-abl (p210 = 16,8%), la perdita della risposta citogenetica completa (fish = 20% e cariotipo ph+ = 15%) in assenza di mutazioni, per cui si decise la sospensione di imatinib e il passaggio a nilotinib 800 mg/die. dall’inizio di nilotinib: a 3 mesi il paziente otteneva risposta citogenetica completa e riduzione di 2 logaritmi (p210 = 0,178%), a 6 mesi raggiungeva la risposta molecolare maggiore, che mantiene tuttora. la terapia con nilotinib è ben tollerata, il paziente è sottoposto a controlli periodici di ecg ed ecocardiogramma sempre risultati nella norma. discussione si è deciso di aumentare la dose di imatinib in base alle linee guida eln 2006, per cui l’aumento del trascritto molecolare, in qualsiasi momento dall’inizio della terapia, è da considerarsi una risposta sub-ottimale [1]. nel 2008 marin e collaboratori hanno dimostrato che i pazienti in risposta subottimale hanno una prognosi peggiore riterapia dosaggio periodo risultati clinici idrossiurea 3 g/die ago 1998-set 1998 chr ice + busulfano idarubicina 9 mg/mq, citarabina 3 g/mq bid, etoposide 75 mg/mq ott 1998-gen 1999 chr α-interferone ricombinante 6 mu/die feb 1999-mar 2000 ph+ = 60% idrossiurea 2 g/die apr 2000-ott 2000 perdita chr imatinib mesilato 400 mg/die nov 2000-mag 2007 chr / ccyr imatinib mesilato 800 mg/die giu 2007-apr 2008 perdita ccyr innalzamento valori bcrabl nilotinib 800 mg/die mag 2008-ora ccyr / mmolr tabella i evoluzione dei trattamenti terapeutici somministrati al paziente e risultati ottenuti ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; ice = idarubicina, citarabina e etoposide; mmolr = risposta molecolare maggiore; mu = milioni di unità; ph+ = metafasi positive al cromosoma philadelphia ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6) 25 i. pierri, m. bergamaschi, a. cagnetta, a. ghiso, m. gobbi figura 2 secondo lo studio camn2101 nella terapia con nilotinib la sopravvivenza libera da progressione a 24 mesi è del 64%. modificata da [3] figura 3 secondo lo studio camn2101 l ’87% dei pazienti in terapia con nilotinib è vivo a 24 mesi di follow-up. modificata da [3] numero di pazienti = 321 numero di fallimenti = 44 figura 1 secondo lo studio camn2101 nella terapia con nilotinib la ccyr (risposta citogenetica completa) permane a 24 mesi nell ’84% dei casi. modificata da [3] numero di pazienti = 141 numero di fallimenti = 18 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6)26 efficacia della terapia con nilotinib in paziente con leucemia mieloide cronica esordita in epoca pre-tki e resistente a imatinib con nilotinib ci ha permesso di ottenere una risposta ottimale in un paziente sottoposto a diversi regimi terapeutici e risultato resistente a tutti questi (trapianto autologo di cellule staminali, idrossiurea, interferone e imatinib). l’ottenimento di questa risposta rapida e duratura ci fa ritenere che verrà mantenuta nel tempo. a 24 mesi pari a 84% (figura 1), e una progression free survival a 24 mesi del 64% [3] (figura 2) ed è stato calcolato che l’87% dei pazienti è vivo a 24 mesi di follow-up [3] (figura 3). il paziente, all’ultimo controllo di giugno 2010, presenta risposta molecolare maggiore (p210 = 0,002) e fish negativa. la terapia bibliografia 1. baccarani m, saglio g, goldman j, hochhaus a, simonsson b, appelbaum f et al. evolving concepts in the management of chronic myeloid leukemia: recommendations from an expert panel on behalf of the european leukemianet. blood 2006; 108: 1809-20 2. marin d, milojkovic d, olavarria e, khorashad js, de lavallade h, reid ag et al. european leukemianet criteria for failure or suboptimal response reliably identify patients with cml in early chronic phase treated with imatinib whose eventual outcome is poor. blood 2008; 112: 4437-44 3. kantarjian hm, giles f, bhalla kn, larson ra, gattermann n, ottmann og et al. nilotinib in chronic myeloid leukemia patients in chronic phase (cml-cp) with imatinib resistance or intolerance: 2-year follow-up results of a phase 2 study [abstract]. blood 2008; 112: 1112 abstract 3238 nilotinib: inibitore selettivo per pazienti in fallimento o in risposta sub-ottimale ad imatinib massimo breccia 1 terapia con nilotinib in un paziente con risposta sub-ottimale di tipo citogenetico a imatinib fabio stagno 1, alessandra cupri 1, stefania stella 2, michele massimino 2, silvia rita vitale 2, paolo vigneri 2 caso clinico leucemia mieloide cronica: un caso di risposta sub-ottimale a imatinib trattato efficacemente con nilotinib fausto palmieri 1 caso clinico uso di nilotib a seguito di fallimento terapeutico con imatinib luca pezzullo 1 caso clinico efficacia della terapia con nilotinib in paziente con leucemia mieloide cronica esordita in epoca pre-tki e resistente a imatinib ivana pierri 1, m. bergamaschi 1, antonia cagnetta 1, anna ghiso 1, marco gobbi 1 clinical management issues 2010; 4(suppl. 4) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 17 sulodexide. farmacocinetica, farmacodinamica e meccanismo d’azione luca masotti 1 principio attivo sulodexide è un farmaco biologico naturale ad azione antitrombotica estratto dalla mucosa intestinale suina, composto da una miscela definita di glicosaminoglicani (gags) costituita per l’80% da eparansolfato (hs) e per il 20% da dermatan solfato (ds). hs è una sostanza simil-eparinica a medio-basso peso molecolare (7.000 dalton) che contiene lo stesso dimero dell’eparina non frazionata ma un grado inferiore di solfatazione e più corte catene polisaccaridiche. ds ha invece una massa media di 25.000 dalton; è un polisaccaride costituito da molte unità disaccaridiche [harenberg, 1998; lauver, 2005]. farmacocinetica e farmacodinamica sebbene strutturalmente simile all’eparina non frazionata, sulodexide se ne differenzia per la prolungata emivita (18,7 ± 4,1 ore dopo somministrazione di 50 mg per via orale), lo scarso effetto sui parametri emocoagulativi e l’elevata biodisponibilità per via orale [harenberg, 1998]. sulodexide è commercializzato in capsule molli e in soluzione iniettabile; capsule e fiale contengono rispettivamente 250 uls (unità lipasemiche) e 600 uls ognuna. un milligrammo di farmaco equivale a 10 unità lipasemiche. prove farmacologiche eseguite nell’uomo in seguito a somministrazione intramuscolare ed endovenosa di sulodexide hanno dimostrato relazioni lineari dose-effetto e un’elevata prevedibilità per quanto riguarda la dose assorbita dopo somministrazione [harenberg, 1998]. il farmaco ha dimostrato un elevato assorbimento attraverso la barriera gastrointestinale offrendo la possibilità di assunzione per via orale. nell’uomo, in seguito a somministrazione orale, si osserva un primo picco ematico dopo circa 2 ore e un secondo picco tra la quarta e le sesta ora, dopodiché il farmaco non è più riscontrabile nel plasma; esso ricompare verso la dodicesima ora, rimanendo quindi costante fin verso la quarantottesima ora: tale valore costante è abstract sulodexide is a highly purified preparation containing glycosaminoglycans composed from heparin-like and dermatan fractions. it is similar to unfractionated heparin, but it shows a prolonged half-life, a higher bioavability and a reduced effect on bleeding parameters. this article describes the mechanism of action of sulodexide and its pharmacokinetic and pharmacodynamic parameters, listing the most important pharmacologic studies published. keywords: sulodexide, pharmacokinetics, pharmacodynamic, mechanism of action sulodexide. pharmacokinetics, pharmacodynamics, and mechanism of action cmi 2010; 4(suppl. 4): 17-21 1 dirigente medico medicina interna, ospedale di cecina, livorno, professore a contratto, università di siena disclosure il presente supplemento è stato realizzato grazie al contributo di alfa wasserman clinical management issues 2010; 4(suppl. 4) ©seed tutti i diritti riservati 18 sulodexide. farmacocinetica, farmacodinamica e meccanismo d’azione stato imputato al lento rilascio del farmaco da parte degli organi di captazione. sulodexide tende naturalmente a concentrarsi nell’endotelio; inizialmente il farmaco marcato si accumula nelle cellule dell’intestino per poi essere liberato nel circolo sistemico: la sua concentrazione aumenta nel tempo a livello di cervello, rene, cuore, fegato, polmone, testicolo e plasma [harenberg, 1998]. il metabolismo è principalmente epatico e l’escrezione urinaria. meccanismo d’azione grazie alla simultanea presenza di hs e ds, sulodexide svolge la sua azione antitrombotica interagendo a livello del processo coagulativo con gli anticoagulanti naturali antitrombina iii (at) e co-fattore eparinico ii (hcii) accelerando di un migliaio di volte l’azione inibente sulla formazione di fibrina e sul feedback positivo che la trombina svolge su se stessa [harenberg, 1998; lauver, 2006; cosmi, 2003; tollefsen, 2007]. la figura 1 mostra uno schema della cascata coagulativa. l’azione antitrombotica di sulodexide è sostenuta anche dall’inibizione dell’aggregazione piastrinica e dall’attivazione del sistema fibrinolitico: sulodexide stimola infatti il rilascio dell’attivatore tissutale del plasminogeno e impedisce l’azione del suo inibitore (pai-1) [harenberg, 1998]. sulodexide è in grado di migliorare i parametri viscosimetrici che di solito risultano alterati in pazienti con patologie vascolari a rischio trombotico: tale attività si esercita principalmente mediante la riduzione dei livelli plasmatici di fibrinogeno. numerosi studi hanno infatti indagato l’effetto del farmaco sul processo fibrinolitico e sulla viscosità ematica; il farmaco somministrato per via orale alla dose di 100 unità lipasemiche/die induce il rilascio di attivatore tissutale del plasminogeno, riduce l’inibitore dell’attivatore del plasminogeno e riduce la concentrazione di fibrinogeno di circa il 20% [messa, 1995; mannarino, 1992; mauro, 1992; fiore, 1991; ceriello, 1993; crepaldi, 1992; agrati, 1992; romano, 1992]. gli effetti emorragici di sulodexide e delle eparine sono stati confrontati su tre diversi modelli sperimentali. in tutti i casi sulodexide ha dimostrato di causare sanguinamenti in misura minore a eparina non frazionata e in maniera sovrapponibile alle eparine a basso peso molecolare [van ryn-mckenna, 1989; dejana, 1982]. studi farmacologici in uno studio condotto da buchanan e colleghi su modelli sperimentali costituiti figura 1 la cascata coagulativa xii superficie danneggiata (contatto con superficie non endoteliale) via intrinseca (trauma a livello tissutale) via estrinseca ix ixa viia vii trauma fattore tissutale trauma x xiia xi xia x xa viiia viii tpf1 antitrombina protrombina (ii) trombina (iia) va v fibrinogeno (i) fibrina (ia) xiiia xiii depositi di molecole di fibrina legate tra loro via comune proteina c attiva proteina c + trombomodulina proteina s clinical management issues 2010; 4(suppl. 4) ©seed tutti i diritti riservati 19 l. masotti da vena giugulare di coniglio, il trattamento con 5 unità lipasemiche/kg di sulodexide ha dimostrato la stessa efficacia di 10 ui/ kg di eparina non frazionata nell’inibire la crescita di trombi già formati e nel facilitare la trombolisi [buchanan, 1994]. secondo gli autori, il complesso cofattore eparinico ii (hcii)-dermatan solfato sarebbe in grado di inibire l’attività proteolitica anche della trombina che si trova legata alla fibrina o incorporata all’interno dei trombi stessi e ciò spiegherebbe l’equi-efficacia rilevata nonostante le diverse dosi somministrate [buchanan, 1994]. in due studi condotti su modelli sperimentali costituiti da carotide di topo in cui la formazione di trombi era indotta attraverso stimolazione elettrica, sulodexide ha mostrato un’azione antitrombotica sovrapponibile a eparina non frazionata e acido acetilsalicilico; gli stessi studi hanno altresì evidenziato l’azione svolta da sulodexide in termini di prevenzione dell’aggregazione piastrinica in risposta allo stimolo trombinico (non in risposta allo stimolo arachidonico) [barbanti, 1992; andriuoli, 1984]. in uno di questi due studi sulodexide ha dimostrato di ridurre anche la massa dei trombi formati [barbanti, 1992]. in un altro studio condotto su modelli animali di trombosi arteriosa, l’attività antitrombotica di sulodexide è risultata sovrapponibile a quella di eparina non frazionata e di dermatan solfato. il farmaco non ha indotto complicanze di tipo emorragico [iacoviello, 1996]. recentemente sono stati pubblicati i dati di uno studio condotto in vitro su cellule umane normali e cellule cronicamente esposte a iperglicemia al fine di valutare l’efficacia di sulodexide in termini di azione antinfiammatoria. lo studio ha dimostrato che sulodexide riduce la produzione di radicali liberi dell’ossigeno intracellulari, la produzione di proteine chemiotattiche per i monociti e di interleuchina-6 con un effetto dose-risposta. inoltre in colture cellulari esposte a glucosio, sulodexide determina un ripristino della normale omeostasi cellulare alterata dal glucosio stesso. lo studio evidenzia pertanto l’azione antinfiammatoria endoteliale di sulodexide [ciszewicz, 2009]. poiché il meccanismo della riduzione di alcuni gags come l’eparan solfato potrebbe essere determinato da un’up-regulation di un enzima chiamato eparinasi indotta da eccessivi livelli di glucosio, recentemente è stato condotto uno studio in vitro su cellule endoteliali aortiche porcine per valutare se la somministrazione di insulina e/o eparina determina una riduzione dell’up-regulation dell’eparinasi. lo studio ha dimostrato che l’up-regulation di eparinasi è prevenuta dall’aggiunta di insulina ed eparina alle colture cellulari [han, 2007]. sulodexide ha dimostrato di inibire parzialmente l’attivazione piastrinica indotta dalla catepsina g e l’aggregazione indotta dalla trombina [rajtar, 1993]. in questo studio tutti i gags testati, ossia sulodexide, eparina non frazionata, eparine con diversi gradi di desolfatazione e dermatan solfato a basso peso molecolare, hanno dimostrato di inibire l’attività catalitica di catepsina g in misura concentrazione-dipendente; sulodexide ed eparina non desolfatata hanno dimostrato efficacia superiore ai competitors. in uno studio condotto da tiozzo e colleghi è stato confrontato l’effetto di eparina non frazionata, sulodexide ed eparine a basso peso molecolare sulla proliferazione cellulare e la sintesi proteica di tre tipologie di cellule: cellule muscolari lisce di arteria umana, fibroblasti e cellule epiteliali. i tre farmaci si sono dimostrati equipotenti nella riduzione della proliferazione delle cellule muscolari; la loro efficacia è risultata concentrazionedipendente. gli altri due tipi cellulari sono risultati più sensibili nei confronti dei composti testati rispetto alle cellule muscolari [tiozzo, 1989]. kristová et al. hanno condotto uno studio su arterie femorali di coniglio in cui hanno valutato la capacità di sulodexide di evitare parzialmente la comparsa di danno endoteliale indotto da vasocostrizione. noradrenalina è stata somministrata in 5 dosi a intervalli di 5 minuti ognuna; contemporaneamente sulodexide è stato somministrato a flusso continuo. in parallelo è stato condotto lo stesso esperimento senza somministrazione di sulodexide. la quantità di cellule endoteliali fuoriuscita insieme al liquido perfuso, marker dell’estensione del danno, è risultata significativamente inferiore nell’arteria perfusa con sulodexide [kristová, 2000]. lo stesso gruppo di ricercatori ha dimostrato più recentemente che sulodexide riduce il numero di cellule endoteliali circolanti, marker di disfunzione endoteliale, e migliora il tono vasale arteriolare in ratti diabetici, dimostrando un ruolo protettivo endoteliale di questo farmaco [kristová, 2008]. in uno studio condotto da lauver e colleghi su conigli anestetizzati sottoposti a clinical management issues 2010; 4(suppl. 4) ©seed tutti i diritti riservati 20 sulodexide. farmacocinetica, farmacodinamica e meccanismo d’azione occlusione coronarica per 30 minuti, sulodexide, somministrato a intermittenza durante tutta la durata della riperfusione, ha dimostrato di ridurre l’estensione della zona infartuata [lauver, 2005]. il meccanismo supposto dagli autori è riconducibile a un’azione inibente svolta dal farmaco nei confronti della proteina c-reattiva (pcr) che sembra essere un attivatore locale del complemento. è probabile che vi sia una separazione dell’attività anticoagulante da quella anti-complemento, ottenibile attraverso la variazione del dosaggio: infatti utilizzando come parametro di analisi il tempo di tromboplastina parziale attivato (aptt) è emerso che alla dose in grado di svolgere un ruolo citoprotettivo sul cuore riperfuso sulodexide produce scarsissime o inesistenti variazioni nell’emostasi [lauver, 2005]. dopo somministrazione intravenosa, sottocutanea e orale, sulodexide ha dimostrato di indurre un forte rilascio di lipoproteinlipasi. in conigli nutriti con alti tassi di colesterolo il farmaco ha significativamente ridotto la concentrazione di colesterolo plasmatico e il suo accumulo a livello aortico [radhakrishnamurthy, 1978]. sulodexide ha dimostrato di aumentare la carica negativa della parete vascolare, di inibire la proliferazione cellulare e di rallentare la progressione verso l’uremia in topi parzialmente nefrectomizzati, modello che richiama alcune delle caratteristiche tipiche della nefropatia diabetica. sulla base di queste considerazioni, gambaro e colleghi hanno somministrato glicosaminoglicano costituito da eparine a basso peso molecolare e da dermatan solfato a topi diabetici dimostrando che la somministrazione di questa sostanza evita l’ispessimento della membrana basale, la riduzione della carica negativa dell’endotelio glomerulare e la comparsa di albumina nelle urine, senza influenzare la filtrazione glomerulare [gambaro, 1992]. gouverneur e colleghi hanno dimostrato che l’esposizione di cellule endoteliali in coltura a shear stress stimola l’incorporazione di gags contenenti glucosamina nel glicocalice, suggerendo il ruolo protettivo rivestito da esso contro processi infiammatori o aterosclerotici, per i quali lo shear stress rappresenta un importante fattore di rischio [gouverneur, 2006]. l’eparina potrebbe incrementare la biodisponibilità di ossido nitrico (no) endoteliale attraverso la mobilizzazione della mieloperossidasi derivante dai leucociti, che è stata dimostrata essere legata alla parete endoteliale mediante gags in condizioni di disfunzione endoteliale impedendo il rilascio di no [baldus, 2006]. l’aggiunta di sulodexide a plasma umano di volontari sani riduce l’aggregazione piastrinica indotta da fattore tissutale e l’espressione di p-selectina in maniera più potente di enoxaparina a dosaggio equivalente [adiguzel, 2009]. bibliografia y adiguzel c, iqbal o, hoppensteadt d, jeske w, cunanan j, litinas e et al (2009). comparative anticoagulant and platelet modulatory effects of enoxaparin and sulodexide. clin appl thromb hemost [epub ahead of print] y agrati am, mauro m, savasta c et al (1992). a double-blind crossover placebo-controlled study of the profibrinolytic and antithrombotic effects of oral sulodexide. adv ther; 9: 147-55 y andriuoli g, mastacchi r, barbanti m (1984). antithrombotic activity of a glycosaminoglycan (sulodexide) in rats. thromb res; 34: 81-6 y baldus s, rudolph v, roiss m, ito wd, rudolph tk, eiserich jp et al (2006). heparins increase endotelial nitric oxide bioavalaibility by liberating vessel-immobilized myeloperossidase. circulation; 113: 1871-8 y barbanti m, guizzardi s, calanni f, marchi e, babbini m (1992). 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farmacocinetica, farmacodinamica e meccanismo d’azione sulodexide. la risposta in profilassi e terapia alla disfunzione endoteliale conclusioni ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) clinical management issues 63 laura massarelli 1, valerio tomaselli 2, carlo bussolino 1, valter saracco 1 recessiva, è stata identificata nel gene icos (cvid-inducible t-cell costimulator), che codifica per una proteina coinvolta nei meccanismi di costimolazione t-b, e interessa circa il 2% delle diagnosi di cvi. questa alterazione si manifesta con carenza di linfociti b periferici e una marcata riduzione o assenza di linfociti memoria, si associa frequentemente a malattie immunitarie e predispone per neoplasie. la più frequente mutazione, circa il 20% dei casi, è a carico del gene tnfrsf13b il quale codifica per una proteina detta taci (transmembrane activator and caml interactor) che interagisce con caml (calcium modulator and cyclophilin ligand protein) ed è il recettore per una citochina detta b-lys (b-lymphocytes stimulator) o baff, stimolante i b-linfociti. introduzione l’immunodeficienza comune variabile (cvi) è una malattia rara con prevalenza stimata in 1:50.000-1:200.000, un’incidenza di 1:75.000 nati vivi, e rappresenta circa il 30% di tutte le immunodeficienze primitive [1]. la cvi è caratterizzata da ipogammaglobulinemia da difetto di produzione anticorpale da parte dei linfociti b secondaria a uno scarso sviluppo o a una difettosa risposta dei linfociti b agli stimoli da parte dei linfociti t. numerosi studi hanno identificato un locus di suscettibilità nella regione degli antigeni di classe ii-iii del complesso maggiore di istocompatibilità (mhc). attualmente si conoscono 4 mutazioni genetiche associate alla cvi. la prima mutazione, autosomica uno “strano” caso di bpco abstract common var iable immunode f icienc y (cvid) is a rar e s yndr ome, chara cte r iz ed by hypogammaglobulinemia and limited antibody responses due to either impaired b-lymphocyte development or b-cell responses to t-lymphocyte signals. cvid is frequently associated with bacterial infections, particularly against respiratory tract, that could determine a permanent organ damage (copd, asthma), increased incidence of both autoimmune diseases and cancer, high prevalence of gastrointestinal inflammatory diseases (ulcerative colitis, crohn’s disease, celiac disease), lymphoproliferative and granulomatous diseases. given that the gastrointestinal tract is the largest lymphoid organ in the body, it’s not surprising that intestinal diseases are common in immunodeficiency. cvid is considered a congenital condition but it is usually diagnosed in adulthood. we describe the case of a 43-year-old man affected by recurrent infections of respiratory tract with cvid, celiac disease and type 1 diabetes. with the exclusion of gluten from the diet, patient achieved an improvement of serum level of immunoglobulins and a reduction of recurrent infections. this fact suggests that the interruption of the gluten stimulus could have a positive influence on the other diseases, improving the metabolic compensation and stabilizing the immune system. keywords: common variable immunode f iciency, gast rointestinal disease, humoral immunodeficiency a “strange” case of copd cmi 2010; 4(suppl. 3): 63-66 1 medicina interna a osp. c. massaia, asti 2 medicina interna b osp. c. massaia, asti corresponding author dott.ssa laura massarelli medicina interna a osp. c. massaia, c.so dante 202 14100 asti tel. 0141.488301 massarelli@asl.at.it caso clinico ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)64 uno “strano” caso di bpco quest’ultimo è un difetto autosomico dominante e si associa a bassi livelli di iga, malattie immunitarie e splenomegalia. altri difetti sono stati individuati in mutazioni autosomiche recessive per il cd19 e per il tnfrsf13c [2-4]. nel restante 75% circa dei soggetti studiati per cvi non è documentabile nessun difetto genetico tra quelli noti. per la diagnosi di cvi, che è imperniata sul deficit di iga, igg, igm singolo o combinato, è necessaria l’esclusione di cause secondarie di ipogammaglobulinemie distinte per fasce di età (tabella i) [5]. tale primo screening deve essere seguito da due anni di osservazione con assenza di insorgenza di malattie mieloproliferative e persistenza di bassi livelli di immunoglobuline; solo allora può essere formulata la diagnosi di certezza. nei soggetti affetti da cvi, date le caratteristiche della patologia, è frequente la mancata risposta alle vaccinazioni (antipneumococco, anti-haemophilus, anti-hbv, anti-hav, anti-tetanico e difterico) [6]. la cvi si associa a frequenti infezioni batteriche, specie a carico di alte e basse vie respiratorie che evolvono in danni d’organo permanenti, aumento dell’incidenza di malattie autoimmuni e neoplasie, alta prevalenza di malattie infiammatorie gastrointestinali (colite ulcerosa, crohn, celiachia), alta prevalenza di patologie polmonari (bpco, asma). la cvi è considerata una condizione congenita ma è usualmente diagnosticata in età adulta. il ritardo diagnostico è influenzato dalla considerazione che le infezioni ricorrenti siano fisiologicamente normali, o per le comorbilità (es. asma e bpco) che mascherano il deficit immunitario, e ancora per bassi livelli di consapevolezza e conoscenza della patologia al di fuori del mondo immunologico. il trattamento prevede la somministrazione periodica di igg per via endovenosa o sottocutanea, alla dose di 400-600 mg/kg per 5 giorni al mese al solo scopo di prevenire le recidive infettive [7]. la malattia celiaca (mc) è un’intolleranza permanente al glutine, che sino a non molti anni fa era considerata una malattia rara. la diffusa sensibilizzazione per la celiachia e l’utilizzo di algoritmi diagnostici hanno comportato, nell’arco di un decennio, un incremento della prevalenza fino a 1:100, svelandone la maggiore diffusione. nonostante ciò molti casi di mc sfuggono spesso alla diagnosi per la paucisintomaticità e/o presenza di sintomi vaghi e saltuari, contrapponendosi ai casi di mc, fortunatamente sempre più rari, con evidenza di malassorbimento, facilmente diagnosticabili. è nota la correlazione tra mc e disordini autoimmunitari (diabete insulino-dipendente, tiroiditi). il disordine è caratterizzato da infiammazione cronica della mucosa intestinale causata da un infiltrato infiammatorio cronico e atrofia dei villi. tale infiammazione è mediata da risposte immunitarie innate e adattative. la risposta adattativa è causata da linfociti t cd4+ reattivi contro la gliadina, che riconoscono i peptidi ad essa correlati presentati dalle apc via mhc ii. la gliadina può attivare anche una risposta innata dall’epitelio intestinale caratterizzata da un aumento della produzione di il15 enterocitaria. questo stimolo attiva i linfociti intraepiteliali, trasformandoli in citotossici, con conseguente distruzione degli enterociti che esprimono l’antigene di classe iga, prodotti da plasmacellule infiltranti la lamina propria dell’intestino. tali linfociti t maturano direttamente dal tessuto linfoide intestinale (malt). il continuo insulto infiammatorio comporta un incremento considerevole di neoplasie (carcinoma esofageo, adenocarcinoma intestinale), oltre a malattie linfoproliferative come linfomi intestinali a cellule t [8]. la sintomatologia può essere classicamente intestinale, con diarrea, steatorrea, calo ponderale o manifestarsi con sintomi extraintestinali, come anemia sideropenica, osteoporosi precoce, aborti ricorrenti. la diagnosi si basa, oltre che sulla clinica, nella ricerca sierica di autoanticorpi antiendomisio (ema) ma soprattutto antitransglutaminasi (a-ttg). la ricerca di attg sierici può risultare negativa in caso di deficit di iga; pertanto il gold standard per la diagnosi è l’esame istologico della mucosa duodeno-digiunale, prelevata mediante biopsia endoscopica, che mostra un caratteristico quadro caratterizzato dalla iperplasia delle cripte e appianamento dei villi. la terapia è fondata sulla dieta senza glutine (dsg). con la dietoterapia si assiste alla normalizzazione dell’architettura intestinale e alla cessazione dei sintomi. esistono infine evidenze circa l’effetto protettivo della dsg sull’incidenza età (anni) cause secondarie di ipogammaglobulinemie ≤ 4 severe immunodeficienze combinate, ipogammaglobulinemia transitoria dell’infanzia, sindrome xlp, xla, sindrome da iper igm, sindromi mielodisplastiche, sindrome di wiskott-aldrich, fibrosi cistica, hiv 5-55 deficit di immunoglobuline secondario a patologie intestinali e renali, effetti collaterali di farmaci (anticonvulsivanti, antireumatici) ≥ 56 timoma, neoplasie linfoidi, deficit di immunoglobuline secondario a patologie intestinali e renali, effetti collaterali di farmaci (anticonvulsivanti, antireumatici) tabella i principali diagnosi differenziali da escludere per confermare la presenza di cvi in pazienti affetti da infezioni ricorrenti distinti per età [5] xla = x-linked agammaglobulinemie; xlp = x-linked limphoproliferative ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 65 l. massarelli, v. tomaselli, c. bussolino, v. saracco di patologie autoimmunitarie nei soggetti con mc [9]. caso clinico descriviamo il caso di un uomo di 43 anni, tabagista, affetto da diabete mellito di tipo 1 insulino-dipendente e arteriopatia obliterante degli arti inferiori, che ha subito numerosi ricoveri (circa 3-4/anno) negli ultimi 3 anni per infezioni polmonari (bpco riacutizzate e polmoniti). gli esami eseguiti negli ultimi quattro anni evidenziano: αyy 1 antitripsina nella norma; nel 2004 diagnosi (radiologia + istologia) y di fibrosi polmonare classificata come dip (desquamative interstitial pneumonia) regredita dopo trattamento specifico e contestuale screening autoimmunità (negativo); numerose tc torace con quadro di enfiy sema centro-lobulare; ecocardiografia nella norma; y prove di funzionalità respiratoria (pfr) y con ostruzione moderata non reversibile e significativa riduzione della diffusione del co. nel corso di un ricovero per polmonite, avvenuto a gennaio 2007, vi è riscontro di deficit di igg-igm, con iga nella norma. circa un anno prima dell’ultimo ricovero si notano comparsa di calo ponderale e diarrea cronica. nel settembre 2008 è ricoverato nel nostro reparto per “bpco riacutizzata”; nel corso di tale ricovero sono eseguiti diversi esami tra cui dosaggio immunoglobuline sieriche con conferma di doppio deficit umorale. gli esiti di tali esami sono riassunti in tabella ii. viene pertanto posta diagnosi di probabile immunodeficienza comune variabile (cvi) associata a morbo celiaco in bpco riacutizzata ed enfisema centrolobulare, in paziente con diabete mellito di tipo 1 e ipertensione arteriosa. il paziente è trattato con antibiotici, steroidi sistemici, broncodilatatori topici, igg ev 30 g/die per 3 giorni e dieta priva di glutine. dopo due mesi di follow-up si decide di non somministrare igg mensili per costante riscontro di valori stabili delle immunoglobuline ai limiti inferiori della norma. ai controlli ambulatoriali mensili l’uomo risulta in discreto benessere. a un anno non vi è nessuna evidenza di recidive infettive, risoluzione dei disturbi intestinali, nessun ricovero, ottimo controllo glicometabolico e pressorio con progressiva riduzione dei trattamenti farmacologici. la rivalutazione polmonare, eseguita a 12 mesi, mostra hrct (high resolution computed tomography) invariata e spirometria invariata; una nuova biopsia endoscopica duodenale rileva istologia nella norma. discussione il caso clinico esposto tratta di un soggetto affetto da più patologie a genesi immunitaria (diabete di tipo 1, celiachia, cvi) strettamente correlate. tutte patologie favorenti infezioni ricorrenti, in particolare polmonari. numerosi studi dimostrano l’efficacia della terapia con igg ev sul controllo delle infezioni polmonari e arresto del danno ad esse correlato valutato con controlli seriati di funzionalità respiratoria e hrct polmonare [10,11]. con l’esclusione del glutine dalla dieta, si è ottenuto un miglioramento dei valori di ig sieriche e l’assenza di ricorrenti episodi infettivi; tale circostanza suggerisce che l’interruzione dello stimolo patologico determinato dal glutine abbia influenzato positivamente l’andamento delle altre patologie. questa evenienza è supportata da recenti studi sugli effetti della dsg, che induce normalizzazione dei valori sierici di iga oltre che la scomparsa di autoanticorpi in patologie concomitanti quali diabete insulino-dipendente e tireopatie [9]. in presenza di cvi sono frequenti sintomi gastrointestinali come diarrea cronica e malassorbimento; tale sintomatologia è stata riportata nel 60% dei pazienti affetti da cvi, e si accompagna a combinazioni di steatorrea, infezione da giardia lamblia, acloridria, test di schilling patologico, oltre che ad alterazioni istologiche su biopsie intestinali [12]. in particolare le alterazioni istologiche intestinali in corso di cvi sembrano sovrapponibili alle lesioni nella mc (iperplasia delle cripte e appianamento dei esami esiti igg 4,82 g/l (vn = 8,4-16,6) igm 0,32 g/l (vn = 0,52-2,3) iga nella norma ab antiendomisio positivi ab anti-transglutaminasi 140 u/ml (vn = 0-8,0) tipizzazione linfocitaria cd4, cd8, cd16 e cd20 nella norma assetto tiroideo nella norma gastroscopia con biopsia duodenale positiva per atrofia marcata dei villi e iperplasia delle cripte come da malattia celiaca tabella ii esiti degli esami a cui è stato sottoposto il paziente all ’atto del ricovero ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)66 uno “strano” caso di bpco villi), ma a un’analisi immunoistochimica si differiscono per la tipologia dell’infiltrato linfocitario con l’assenza di plasmacellule nella cvi che sono invece aumentate nella mc. naturalmente, vista la diversa patogenesi, la dsg non apporta benefici clinici nei soggetti affetti da cvi. nel caso in esame invece la dsg non solo ha indotto la remissione della sintomatologia della mc, ma all’apparenza ha influito anche sull’assetto umorale globale del paziente sottendendo una correlazione tra mc e cvi. tale evenienza è riportata in letteratura con casi aneddotici [13]. gli autori ipotizzano che l’interruzione dello stimolo irritativo cronico inferto dal glutine abbia influito positivamente sull’andamento clinico della cvi e anche sul diabete insulinodipendente, grazie a un migliore compenso metabolico e alla stabilizzazione delle difese immunitarie. il caso clinico presentato è uno spunto di discussione per ricercare patologie, che sono attualmente annoverate tra le malattie rare, ma probabilmente sottostimate in quanto poco conosciute, o perché si manifestano con sintomi aspecifici e comuni ad altre patologie più note. l’individuazione, l’adeguato trattamento e il follow-up dei soggetti affetti da cvi permetterebbe un miglioramento della qualità di vita degli stessi, con minore ricorso a ospedalizzazioni, oltre che un ipotizzabile risparmio economico in termini di costi diretti e indiretti. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. bibliografia park ma, li jt, hagan jb, maddox de, abraham rs. common variable immunodeficiency: 1. a new look at an old disease. lancet 2008; 372: 489-502 salzer u, grimbacher b. tacitly changing tunes: farewell to a yin and yang of baff receptor 2. and taci in humoral immunity? new genetic defects in common variable immunodeficiency. curr opin allergy clin immunol 2005; 5: 496-503 zhang l, radigan l, salzer u, behrens tw, grimbacher b, diaz g et al. transmembrane 3. activator and calcium-modulating cyclophilin ligand interactor mutation in common variable immunodeficiency: clinical and immunologic outcomes in heterozygotes. j allergy clin immunol 2007; 120: 1178-85 warnatz k, bossaller l, salzer u, skrabl-baumgartner a, schwinger w, 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approccio globale editoriale 1 divisione di ematologia con trapianto, azienda ospedaliera cardarelli, napoli gli inibitori di tirosin chinasi (tki) hanno profondamente rivoluzionato l’approccio terapeutico ai pazienti affetti da leucemia mieloide cronica, modificando il decorso abituale della malattia e migliorando sensibilmente la qualità di vita dei pazienti stessi. imatinib è stato il primo di questa classe di farmaci a mostrarsi in grado di bloccare l’attività e la proliferazione di bcr-abl e di indurre apoptosi nelle cellule che esprimono tale trascritto. prima di imatinib il trattamento di scelta in pazienti con nuova diagnosi di leucemia mieloide cronica era l’interferone o, in pazienti candidabili, il trapianto allogenico. nei primi anni 2000 lo studio iris (international randomized study of interferon and sti571), un trial randomizzato di fase iii, ha evidenziato in maniera inequivocabile i vantaggi di imatinib rispetto a quello che fino ad allora era considerato il gold standard terapeutico, interferone + citarabina. la percentuale stimata di risposte citogenetiche complete a 18 mesi si aggirava intorno al 76% nel braccio imatinib contro il 14% del braccio interferone e citarabina (p < 0,001); la sopravvivenza libera da progressione a fase accelerata o blastica era 96% contro 91%. l’analisi a 5 anni dello studio iris ha evidenziato 87% di risposte citogenetiche complete, 83% di progression free survival e 89% di overall survival tra i pazienti randomizzati a imatinib. questo studio inoltre, ha il merito di avere un lungo follow up; l’analisi a 8 anni ha aggiunto ulteriori importanti dati, tra cui il rischio di progressione che rimane estremamente basso nei pazienti che rispondono a imatinib; le progressioni sono state osservate nei primi 5 anni di malattia, nella misura del 1,5%, 2,8%, 1,8%, 0,9%, 0,5% per anno, diventando poi trascurabili negli anni successivi. da sottolineare che nessun paziente che otteneva la risposta molecolare completa al 12° mese di trattamento con imatinib è successivamente progredito. nonostante questi risultati sorprendenti una parte di pazienti può evidenziare nel corso del trattamento una resistenza primaria o, più frequentemente secondaria, a imatinib; una minima parte, inferiore al 4%, deve sospendere definitivamente per comparsa di effetti collaterali. i dati a lungo termine dello studio citato indicano infatti che circa il 60% dei pazienti ha raggiunto e mantenuto la remissione citogenetica completa. in questi ultimi anni numerosi autori hanno studiato attentamente i meccanismi alla base della resistenza a imatinib; tra questi le mutazioni puntiformi di abl sono quelli maggiormente analizzati. ne sono state descritte ad oggi oltre 90, alcune più frequenti di altre, riscontrate nel 30-50% dei resistenti. per cercare di superare i meccanismi di resistenza sono stati sviluppati i cosiddetti inibitori di tirosin chinasi di seconda generazione; nilotinib e dasatinib sono stati i primi a essere approvati nella seconda metà degli anni 2000 per pazienti affetti da leucemia mieloide cronica, in differenti fasi di malattia, resistenti e/o intolleranti a imatinib. nilotinib in particolare è stato sviluppato a partire dalla molecola di imatinib, ottimizzando il legame con bcr-abl e consentendo di superare i meccanismi di resistenza. in studi di fase ii/iii condotti su pazienti resistenti o intolleranti alla prima linea, nilotinib disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. 4 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(suppl 2) editoriale ha dimostrato, a un follow up di 24 mesi, 59% di risposte citogenetiche maggiori, e tra queste il 44% complete, e la sopravvivenza globale intorno all’87%. anche in fase accelerata nilotinib si è dimostrato efficace, facendo registrare il 32% di risposte citogenetiche maggiori e l’80% di sopravvivenza globale a 12 mesi. prima della comparsa degli inibitori di seconda generazione l’alternativa per pazienti con risposta sub-ottimale o resistenti, era rappresentata dalla dose escalation di imatinib, a 600/800 mg die. tale opzione però, nella pratica clinica si è rivelata poco valida perché gravata da elevata tossicità che, a sua volta, inficiava il risultato terapeutico. i dati di una serie di studi riflettono in pieno tali esperienze cliniche, confermando la superiorità degli inibitori di seconda generazione rispetto alle alte dosi di imatinib nei pazienti resistenti. il caso clinico presentato da porrini e montefusco, in questo supplemento di clinical management issues, è esplicativo in tal senso; ad un giovane uomo in risposta sub-ottimale per assenza di risposta molecolare a 18 e 24 mesi dall’inizio delle dosi standard di imatinib, veniva somministrata la dose di 800 mg/die. nonostante la ottima compliance del paziente e nonostante l’assenza di mutazioni puntiformi, al 36° mese si riscontrava un notevole aumento del trascritto; la diversione terapeutica con nilotinib a 800 mg die permetteva di raggiungere la risposta molecolare maggiore a soli 3 mesi, e la risposta molecolare completa a 24 mesi, mantenuta poi nel tempo. i successivi casi descritti mettono in evidenza un ulteriore aspetto nell’uso degli inibitori di tirosin chinasi: la tossicità. la tollerabilità degli inibitori va costantemente tenuta in considerazione, essendo strettamente connessa alla compliance, che a sua volta rientra tra i meccanismi di resistenza. caocci e colleghi descrivono il successo terapeutico ottenuto con nilotinib in un paziente di 74 anni, in terza linea di terapia, con precedenti gravi tossicità da tki. il paziente ha presentato tossicità extraematologica con eritema maculo-papulare di grado 3 in corso di imatinib, e successivamente ginecomastia e poi versamento pleurico in corso di dasatinib; l’impiego di nilotinib alla dose di 600 mg die, ha permesso di ottenere una remissione molecolare persistente senza comparsa di alcun effetto collaterale. il caso descritto conferma inoltre i dati derivati dagli studi clinici di registrazione di nilotinib in seconda linea, in cui non è presente cross reattività con imatinib, e conferma l’efficacia e la buona tollerabilità di nilotinib anche in pazienti anziani, come recenti lavori suggeriscono. l’assenza di effetti collaterali indotti da nilotinib in pazienti con tossicità conseguente a precedente terapia è ben evidenziato anche dal caso presentato da russo; una donna con una diagnosi di lunga data di leucemia mieloide cronica sperimentava una tardiva tossicità ematologica di grado severo accompagnata da neuropatia periferica in corso di terapia con interferone alfa-2b, a dispetto della riduzione di dose e della ottima risposta molecolare. lo switch a nilotinib permetteva di mantenere la risposta molecolare completa senza alcun effetto collaterale. il caso assume maggior rilievo in quanto, rispetto a imatinib, non esistono in letteratura molti casi riportati di somministrazione di nilotinib in seconda linea dopo interferone. sulla scorta degli studi di seconda linea, gli inibitori di seconda generazione sono stadi valutati anche in pazienti in fase cronica all’esordio, permettendo così la registrazione di nilotinib e dasatinib come farmaci di prima linea. il primo studio in ordine di tempo è stato il gimema, in cui 73 pazienti ricevevano nilotinib 400 mg due volte al dì, e ottenevano alti tassi di risposta citogenetica e molecolare, rispettivamente, 96% e 85%, ad un anno. il successivo studio registrativo enestnd ha messo a confronto, in pazienti in fase cronica all’esordio di malattia, imatinib a dose standard verso nilotinib a due schedule di trattamento, 300 mg o 400 mg due volte al giorno. l’endpoint primario dello studio è stato largamente raggiunto, con il 44% dei pazienti che ottenevano una risposta molecolare maggiore a 12 mesi contro 22% di quelli nel braccio imatinib. il dato è tanto più importante in quanto è ottenuto indipendentemente dal rischio sokal all’esordio; inoltre le differenze si mantenevano significative anche valutando le sole risposte molecolari profonde, mr4 e mr4,5 (rispettivamente 20% vs 6%, 11% vs 1%). un follow up dello studio più lungo ha permesso di valutare anche un tasso di progressioni in fase avanzata di malattia significativamente più basso nel gruppo di pazienti in trattamento con nilotinib, e ha dimostrato che la comparsa di recidive avviene nei primi 2 anni di trattamento diventando poi trascurabili. la profondità della risposta a nilotinib si affian5 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(suppl 2) m. annunziata ca inoltre alla rapidità della risposta, infatti il tasso di risposte molecolari maggiori o più profonde nei primi 12 mesi di trattamento risulta significativamente più alto nel gruppo trattato con nilotinib. recenti studi dimostrano come la rapidità della risposta sia un fattore predittivo dell’outcome del paziente. marin e coll. e hanfstein e coll., su casistiche differenti in pazienti in trattamento con imatinib, giungono alle stesse conclusioni: bassi livelli di trascritto dopo 3 e 6 mesi di terapia correlano con la progressione di malattia e con la sopravvivenza globale. il caso clinico presentato da sessa e colleghi è emblematico della efficacia del nilotinib in prima linea, in termini di profondità e rapidità di risposta. nilotinib alla dose standard di 600 mg die è stato somministrato ad un paziente di 63 anni a rischio sokal intermedio, il quale ottiene la risposta citogenetica al terzo mese di terapia, la molecolare maggiore al sesto e la mr4 al nono mese, senza sperimentare effetti collaterali rilevanti. da rilevare inoltre che il paziente all’esordio presentava, accanto alla leucocitosi, una cospicua trombocitosi (plt 900.000/mm3), e ha ottenuto una rapida normalizzazione dei valori dell’emocromo. in conclusione, i casi riportati sottolineano tutti l’efficacia di nilotinib come prima linea o in pazienti resistenti a una o precedenti linee di trattamento, in termini di risposta molecolare e di durata di risposta; si dimostra inoltre, la buona tollerabilità del farmaco in pazienti con tossicità da precedenti terapie e in pazienti anziani. bibliografia 1. deininger mw, o’brien s, guilhot f et al. international randomized study of interferon vs sti571 (iris) 8-years follow-up: sustained survival and low risk for progression or events in patients with newly diagnosed chronic myeloid leukemia in chronic phase (cml cp) treated with imatinib. blood (ash annual meeting abstract) 2009; 114: 1126 2. baccarani m, cortes j, pane f, et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51; doi: 10.1200/jco.2009.25.0779 3. kantarjian h, hochhaus a, saglio g, et al. nilotinib versus imatinib for the treatment of patients with newly diagnosed chronic phase, philadelphia chromosome positive, chronic myeloid leukemia: 24 month minimum follow-up of the phase 3 randomized enestnd trial. lancet oncol 2011; 12: 841-51; doi: 10.1016/s1470-2045(11)70201-7 4. kantarjian h, pasquini r, hamerschlak n, et al. dasatinib or high dose imatinib for chronic myeloid leukemia after failure of first line imatinib: a randomized phase 2 trial. blood 2007; 109: doi: 5143-50; 10.1182/blood-2006-11-056028 5. giles fj, le coutre pd, pinilla-ibarz j, et al. nilotinib in imatinib resistant or imatinib intolerant patients with chronic myeloid leukemia in chronic phase: 48month follow up results of a phase 2 study. leukemia 2012. doi: 10.1038/leu.2012.181 [epub ahead of print] 6. breccia m, tiribelli m, alimena g. tyrosine kinase inhibitors for elderly chronic myeloid leukemia patients: a sistematic review of efficacy and safety data. crit rev oncol hematol 2012; 84: 93-100. doi: 10.1016/j.critrevonc.2012.01.001 7. marin d, ibrahim ar, lucas c, et al. assessment of bcr-abl1 transcript levels at 3 months is the only requirement for predicting outcome for patients with chronic myeloid leukemia treated with tyrosine kinase inhibitors. j clin oncol 2012; 30: 232-8; doi: 10.1200/jco.2011.38.6565 8. hanfstein b, muller mc, hehlmann r, et al. early molecular and cytogenetic response is predictive for long term progression free and overall survival in chronic myeloid leukemia. leukemia 2012; 26: 2096-102; doi: 10.1038/leu.2012.85 nilotinib nella leucemia mieloide cronica: un approccio globale mario annunziata 1 efficacia della terapia con nilotinib impiegato in seconda linea raffaele porrini 1, enrico montefusco 1 caso clinico risposta molecolare completa indotta precocemente da nilotinib come prima linea di terapia in un paziente affetto da leucemia mieloide cronica a rischio sokal intermedio ursula sessa 1, maria celentano 1, stefano rocco 1, rossella fabbricini 1, olimpia finizio 1, vincenzo mettivier 1 caso clinico efficacia e tollerabilità di nilotinib in terza linea in un paziente anziano con lmc giovanni caocci 1, sandra atzeni 1, giorgio la nasa 1 caso clinico tollerabilità ed efficacia di nilotinib dopo 10 anni di interferone filippo russo 1 17 clinical management issues caso clinico a maggio 2010 giunge alla nostra osservazione una paziente di 62 anni, inviata dal curante per riscontro occasionale di gammopatia monoclonale. la signora aveva fatto i consueti esami di controllo per una nota insufficienza renale cronica (creatinina stabile attorno a 1 mg/dl, clearance della creatinina di 50 ml/min) per cui da diversi anni era in follow-up nefrologico. la paziente appariva sovrappeso (bmi = 34) e lievemente dispnoica. all’esame obiettivo si riscontravano rumori polmonari suggestivi per flogosi bronchiale ed edemi declivi, senza epatosplenomegalia. all’emocromo si evidenziava  una modesta leucocitosi neuperché descriviamo questo caso sempre più pazienti si presenteranno all ’attenzione dei curanti con molteplici comorbidità. anche i pazienti più complessi possono ricevere un trattamento con nilotinib, senza mostrare gli stessi effetti collaterali eventualmente sperimentati con imatinib, e senza un aggravamento dei sintomi basali. in particolare, nel nostro caso, la paziente non ha avuto un peggioramento della cardiopatia e della glicemia, pur essendo a rischio di sviluppare diabete di tipo 2 ed essendo affetta da cardiopatia ischemica corresponding author dott.ssa carmen fava c.fava@tin.it caso clinico abstract a 62 year old lady was accidentally diagnosed of chronic myeloid leukemia, chronic phase, low sokal risk, during analysis to investigate a monoclonal gammopathy. the patient had many comorbidities, including ischemic heart disease, lung disease and chronic renal insufficiency. she was obese and had a metabolic syndrome with glucose intolerance and hyperlypidemia. she started imatinib, 400 mg daily. unfortunately she couldn’t tolerate the therapy, developing within one month many side effects that we were only able to manage with drug interruption. the side effects reappeared when the drug was restarted even at a lower level, so we decided to change imatinib with nilotinib. cardiologic side effects are rare with both drugs although cardiologic monitoring is recommended for these patients. whereas imatinib is known to reduce glucose level in small settings of patients with type ii diabetes, several cases of hyperglycemia developed under treatment with nilotinib. our patient didn’t show any cross-intolerance between imatinib and nilotinib, tolerated nilotinib very well and didn’t show any increase in glucose levels, with no need of starting therapy for hyperglycemia. furthermore she achieved very rapidly a complete cytogenetic response with major molecular remission. this case show how nilotinib is effective and tolerable also in patients with many serious comorbidities. keywords: imatinib; nilotinib; comorbidities; diabetes nilotinib is effective and well tollerate in patients with multiple comorbidities cmi 2011; 5(suppl 6): 17-21 1 medicina interna a indirizzo ematologico, ospedale san luigi, orbassano 2 divisione di oncologia, ircc candiolo carmen fava 1, marco fizzotti 2, giuseppe saglio 1, giovanna rege-cambrin 1 nilotinib è efficace e ben tollerato in pazienti con comorbidità multiple disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. 18 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) nilotinib è efficace e ben tollerato in pazienti con comorbidità multiple mento” di 200 mg al giorno, con l’intento di ri-escalarlo il prima possibile. il consulente neurologo ha concluso per vertigini soggettive da artrosi cervicale, verosimilmente aggravate dal farmaco, l’ecocardiogramma non ha riscontrato nulla di patologico fuorché un’ipertrofia del ventricolo sinistro, da correlare con l’ipertensione, con funzione sistolica e diastolica conservate, mentre l’ecodoppler dei tronchi sovraortici ha visto una piccola placca ateromasica non emodinamicamente significativa. l’esame cocleo-vestibolare non ha evidenziato condizioni patologiche. nonostante gli accertamenti eseguiti fossero tutti negativi, la paziente continuava a essere sintomatica per astenia e vertigini, accompagnati da nausea, palpitazioni, ritenzione idrica e incremento della creatinina (fino a 1,6 mg/dl) perciò, all’inizio di novembre 2010, abbiamo dovuto sospendere definitivamente imatinib. trascorso un altro mese durante il quale sono regrediti completamente i sintomi, in considerazione del quadro respiratorio che sconsigliava l’uso di dasatinib, abbiamo avviato la paziente a terapia di seconda linea con nilotinib. abbiamo inizialmente prescritto un dosaggio “di adattamento” di 400 mg al giorno, assunto quotidianamente dalla paziente lontano dal pranzo, alle 2.30 del pomeriggio. la terapia è stata ben tollerata senza la comparsa di nessuno degli effetti collaterali prima citati. la paziente ha iniziato nilotinib in un quadro di remissione ematologica completa. data la brevità del periodo di esposizione a imatinib non era stato eseguito un aspirato midollare di rivalutazione. questi i risultati degli esami ematochimici: creatinina nei limiti nella norma, ast 20 u/l, alt 16 u/l, gamma glutamil transpeptidasi 18 u/l, fosfatasi alcalina 133 u/l, amilasi 90 u/l, lipasi 23 u/l; glicemia a digiuno di 120 mg/dl. dopo un mese di trattamento la paziente ha dovuto assumere terapia antibiotica e steroidea per circa 15 giorni, a causa di una riacutizzazione della bronchite, senza tuttavia riportare delle alterazioni significative dei valori della glicemia che si sono mantenute attorno ai 150 mg/dl preprandiali, senza bisogno di interventi farmacologici. a distanza dalla terapia steroidea, i valori della glicemia sono ritornati ai parametri basali. a marzo 2011 (3 mesi dall’inizio di nilotinib), l’analisi molecolare su sangue periferico riportava un valore di bcr-abl/abl di 0,1359%is. il dosaggio delle immunoglobuline era stabile rispetto all’esordio. trofila (globuli bianchi totali 13.600/mm3, di cui 8.950 neutrofili), con emoglobina e piastrine nella norma; tra gli ematochimici picco monoclonale in gamma di entità minima, con valori delle immunoglobuline nei rispettivi limiti di normalità, creatinina, calcemia e proteinuria di bence-jones nella norma. la paziente riferiva di essere monorene congenita, ipertesa, intollerante ai glicidi e affetta da cardiopatia ischemica (3 episodi di ima, con posizionamento di 5 stents coronarici). inoltre tra le comorbidità elencava asma bronchiale e sindrome del canale stretto lombare. la paziente assumeva terapia con asa, anti-ipertensivi, antilipemici, beta2-agonisti/steroidi per via inalatoria e cicli di steroidi per os per il suo quadro polmonare. l’rx torace e l’ecografia addominale escludevano una patologia infettiva in atto, l’urocoltura era negativa, la pcr nella norma, e nonostante la paziente non assumesse terapia steroidea da mesi, continuava a presentare neutrofilia anche ai controlli successivi. l’immunofissazione su plasma aveva rivelato un monoclone igg lambda. lo striscio di sangue periferico evidenziava la presenza di seppur rare forme immature (blasti 1%, promielociti 3%, mielociti 2%, metamielociti 5%, neutrofili 50%, linfociti 23%, monociti 7%, basofili 5%, eosinofili 4%). a completamento degli accertamenti, abbiamo richiesto l’analisi molecolare per bcr-abl, ed in effetti l’esame è risultato positivo (bcr-abl/abl 92,1663%). la biopsia ossea ha confermato la diagnosi di leucemia mieloide cronica (lmc); non è stato possibile eseguire l’analisi citogenetica convenzionale per assenza di mitosi. la paziente ha rifiutato di sottoporsi a una seconda procedura di aspirazione midollare ma la fish su sangue midollare ha identificato un 93% di cellule ph+. anche su sangue midollare l’analisi molecolare è risultata positiva per p210 con trascritto b2a2. abbiamo quindi posto diagnosi di lmc philadelfia positiva (ph+), a basso rischio sokal. a fine luglio 2010 è stata avviata terapia con imatinib al dosaggio standard di 400 mg/die, ma a distanza di un mese è stato necessario interrompere il trattamento per la comparsa di dolore costrittivo toracico dopo sforzi modesti e vertigini. soltanto dopo un mese, e a seguito di consulti neurologico, otorinolaringoiatrico e cardiologico negativi, è stato possibile ritentare l’assunzione del farmaco ad un dosaggio minimo “di adatta19 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) c. fava, m. fizzotti, g. saglio, g. rege-cambrin affetti da lmc e diabete, il trattamento con imatinib ha migliorato il diabete di tipo 2, probabilmente riducendo la disfunzione cellulare e la morte delle cellule responsabili della resistenza all’insulina; sembra che imatinib sia responsabile della sopravvivenza cellulare e questo contribuisca all’effetto benefico osservato nel diabete [4-6]. per i pazienti con intolleranza o resistenza a imatinib sono stati approvati due inibitori delle tirosin chinasi (tki) di seconda generazione, nilotinib e dasatinib, che hanno dimostrato ottimi profili di efficacia (tabella i) e di tollerabilità  [7], con scarse intolleranze crociate con imatinib. in particolare nilotinib, a differenza di imatinib, non ha come effetto collaterale la ritenzione di liquidi  [8] (tabella ii). nello studio di fase ii condotto in pazienti con lmc in fase cronica e accelerata resistenti e intolleranti, un qtcf > 500 msec è stato osservato in < 1% di questi pazienti [9]; non sono stati osservati episodi di torsione di punta negli studi clinici. recentemente la cardiotossicità è stata valutata nei pazienti trattati in prima linea con imatinib o con nilotinib nell’ambito dello studio di fase iii che prevedeva la randomizzazione dei pazienti con nuova diagnosi di lmc nei tre bracci di trattamento con imatinib 400 mg versus nilotinib 300 o 400 mg due volte al giorno (bid) [9,10]. nessun paziente ha mostrato un allungamento dell’intervallo qtc > 500 msec e non ci sono stati episodi di torsioni di punta. inoltre non è stato ririsposta (%) totale pazienti n = 321 resistenti a imatinib n = 226 intolleranti a imatinib n = 95 mcyr 59 56 66 ccyr 44 41 51 tabella i. risposta citogenetica maggiore (mcyr ) e completa (ccyr) con nilotinib in pazienti che hanno fallito imatinib: follow-up minimo di 24 mesi (modificata da [7]) a 6 mesi la citogenetica dimostrava 20/20 mitosi negative e un valore di bcr-abl/ abl di 0,0434% e, attualmente, siamo in attesa della rivalutazione all’anno di terapia con nilotinib. la paziente non ha mai manifestato tossicità epatica, pancreatica e le sue condizioni cardiologiche sono rimaste stabili nel tempo. vista la tolleranza della terapia, si prenderà in considerazione un aumento del dosaggio a 600 mg. discussione imatinib è considerato la cura standard per il trattamento in prima linea dei pazienti affetti da lmc ph+. l’iris è stato il primo studio randomizzato di fase iii che ha stabilito, ormai da più di dieci anni, la superiorità di imatinib rispetto all’associazione di interferone e citarabina. inoltre imatinib ha mostrato negli anni un ottimo profilo di tollerabilità. in particolare patologie cardiache, vascolari o del metabolismo sono state riportate con frequenza non comune (≥ 1/1.000, < 1/100) o rara (≥ 1/10.000, < 1/1.000) durante il trattamento con imatinib dei pazienti con lmc ph+ [1]. palpitazioni, tachicardia, scompenso cardiaco, edema polmonare, ipertensione o ipotensione sono stati di riscontro non comune; rari i casi di aritmia, fibrillazione atriale, arresto cardiaco, infarto miocardico, angina pectoris, effusione pericardica [1,2]. anche l’esperienza con i pazienti affetti da gist e trattati con imatinib ha confermato che imatinib non è una causa comune di cardiotossicità [3]. tra gli effetti collaterali metabolici non comuni di imatinib sono riportati ipokaliemia, aumento dell’appetito, ipofosfatemia, diminuzione dell’appetito, disidratazione, gotta, iperuricemia, ipercalcemia, iperglicemia, iponatriemia. per contro è stato riportato che, in un modesto numero di pazienti quali domande il medico dovrebbe porsi di fronte a un caso analogo? trovandosi di fronte ad un caso del genere il medico dovrebbe, prima di tutto, avere un quadro delle condizioni generali del paziente e dei rischi connessi con la sua lmc. in particolare è opportuna, in qualunque categoria di pazienti, una valutazione iniziale del rischio cardiovascolare, includendo un ecg per la valutazione del qtc basale, da monitorare nel tempo. è anche importante raccogliere un profilo metabolico iniziale, con la valutazione di glicemia e assetto lipidico basali, anch’essi da monitorare nel tempo. il medico dovrebbe tuttavia ricordare che, se non trattata o sotto-trattata, la lmc è una malattia gravata da un alto rischio di progressione e pertanto merita una terapia adeguata. nilotinib si è dimostrato un farmaco efficace e maneggevole ed è importante considerare che ogni terapia richiede un attento monitoraggio per la prevenzione e il trattamento precoce degli effetti collaterali 20 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) nilotinib è efficace e ben tollerato in pazienti con comorbidità multiple mento. la maggior parte dei pazienti non ha dovuto modificare la terapia. le variazioni dei parametri esaminati sono state molto modeste e non è stata evidenziata nessuna differenza in termini di efficacia del trattamento tra questa sottopopolazione e i pazienti non diabetici. il peggioramento della funzione renale (la nostra paziente ha sviluppato un aumento della creatinina rispetto ai valori di partenza) è una complicanza non comune nei pazienti trattati con imatinib, così come le vertigini e le palpitazioni, mentre la nausea e gli edemi declivi sono complicanze molto frequenti. visto il quadro polmonare della nostra paziente (che richiede cicli frequenti di terapia antibiotica e steroidea per riacutizzazioni bronchitiche), abbiamo ritenuto che fosse a rischio di insorgenza di versamento pleurico con dasatinib e abbiamo deciso di trattare la signora con nilotinib, avendo ben presenti la sua sindrome metabolica e la cardiopatia ischemica. dai dati della letteratura, tuttavia, emerge che queste due condizioni non rappresentano una controindicazione al trattamento con nilotinib per cui è anche stata descritta una intolleranza crociata minima con imatinib. inoltre è stato recentemente suggerito da studi in vivo su animali che nilotinib potrebbe limitare la progressione del danno cronico renale [11]. bisogna però tenere conto del fatto che i pazienti con condizioni generali molto compromesse solitamente vengono esclusi dagli studi clinici. è prudente perciò che tutti i pazienti, e in particolare quelli con malattia cardiaca o con fattori di rischio per l’insufficienza cardiaca, vengano monitorati attentamente. è consigliabile uno stretto monitoraggio dell’effetto sull’intervallo qtc e si raccomanda di effettuare un ecg basale prima di iniziare la terapia con nilotinib e come indicato clinicamente. l’ipokaliemia o l’ipomagnesemia (che possono influenzare il qt) devono essere corrette prima della somministrazione scontrato nessun paziente con una frazione di eiezione in trattamento < 45% o una riduzione assoluta di frazione di eiezione > 15%. i dati sono anche stati analizzati nel tentativo di individuare casi con cardiopatia ischemica. un totale di 11 pazienti ha avuto manifestazioni di malattia cardiaca ischemica (9 angina pectoris e 2 infarto del miocardio) dopo una mediana di trattamento di 18 mesi: 3 pazienti (1%) con nilotinib 300 mg bid, 6 (2%) con nilotinib 400 mg bid, e2 (< 1%) con imatinib. di questi pazienti, la maggior parte aveva una condizione patologica preesistente o fattori di rischio cardiaci, e solo un paziente ha sospeso definitivamente la terapia per l’insorgenza di un evento ischemico cardiaco. non ci sono stati casi di morte improvvisa. nell’ambito dello stesso studio sono state valutate eventuali variazioni dal baseline del metabolismo del glucosio, con l’analisi di parametri quali la glicemia a digiuno, l’insulina,il c-peptide e l’hba1c a 12 mesi [11]. sono state valutate anche eventuali variazioni di peso. i pazienti trattati con nilotinib sono stati quelli più a rischio di sviluppare iperglicemia: tra 836 pazienti si è manifestato un qualunque grado di iperglicemia nel 38%, 42%, e 22% dei pazienti trattati con, rispettivamente, nilotinib 300 mg bid, nilotinib 400 mg bid o imatinib (gradi 3/4 in 6%, 4%,e 0%). l’iperglicemia è stato un effetto collaterale di frequente riscontro anche nello studio di fase ii con i pazienti trattati in seconda linea con nilotinib: circa il 70% ha sviluppato un qualunque grado di iperglicemia, di cui il 12% di grado 3-4 [7]. tuttavia nello studio in prima linea nessun paziente si è trovato nelle condizioni di dover sospendere il trattamento e non ci sono state complicanze serie dell’iperglicemia. inoltre sono stati analizzati 23 pazienti trattati con nilotinib 300 mg bid, 18 con nilotinib 400 mg bid, e 16 con imatinib, affetti da diabete mellito di tipo 2 prima di iniziare il trattapazienti con lmc fase cronica (n = 95) cause di intolleranza a imatinib ae non ematologici n (%) rash/cute n (%) ritenzione di liquidi n (%) diarrea n (%) incremento alt/ast n (%) mialgia/ artralgia n (%) intolleranti a imatinib ae grado 3/4 o ae grado 2 persistenti 60 (63) 28 (29) 18 (19) 12 (13) 3 (3)/4 (4) 10 (11) ae grado 3/4 o ae grado 2 persistenti con nilotinib 4 0 0 3 1/0 0 ae grado 3/4 con nilotinib 1 0 0 1 0/0 0 tabella ii. minima cross-intolleranza tra pazienti trattati con imatinib e poi con nilotinib (modificata da [8]) ae = eventi avversi 21 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) c. fava, m. fizzotti, g. saglio, g. rege-cambrin bibliografia 1. hochhaus a, o'brien sg, guilhot f, druker bj, branford s, foroni l et al. six-year follow-up of patients receiving imatinib for the first-line treatment of chronic myeloid leukemia. leukemia 2009; 23: 1054-61. erratum in: leukemia 2010; 24: 1102 2. burke mj, trotz b, luo x, weisdorf dj, baker ks, wagner je et al. imatinib use either pre or post-allogeneic hematopoietic cell transplantation (allo-hct) does not increase cardiac toxicity in chronic myelogenous leukemia patients. bone marrow transplant 2009; 44: 169-74 3. trent jc, patel ss, zhang j, araujo dm, plana jc, lenihan dj et al. rare incidence of congestive heart failure in gastrointestinal stromal tumor and other sarcoma patients receiving imatinib mesylate. cancer 2010; 116: 184-92 4. veneri d, franchini m,  bonora e. imatinib and regression of type 2 diabetes. n engl j med 2005; 352: 1049-50 5. breccia m, muscaritoli m, aversa z, mandelli f, alimena g. imatinib mesylate may improve fasting blood glucose in diabetic ph+ chronic myelogenous leukemia patients responsive to treatment. j clin oncol 2004; 22: 4653-5 6. hägerkvist r, sandler s, mokhtari d, welsh n. amelioration of diabetes by imatinib mesylate (gleevec): role of beta-cell nf-kappab 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safety profile of imatinib and nilotinib in patients (pts) with newly diagnosed chronic myeloid leukemia in chronic phase (cml-cp): results from enestnd. blood (ash annual meeting abstracts) 2010; 116: abstract 2291 11. saglio g, richard al, hughes tp, issaragrisil s, turkina ag, marin d et al. efficacy and safety of nilotinib in chronic phase (cp) chronic myeloid leukemia (cml) patients (pts) with type 2 diabetes in the enestnd trial. blood (ash annual meeting abstracts)2010;  116: abstract 3430 di nilotinib e controllate periodicamente durante la terapia. durante il trattamento la nostra paziente ha eseguito esami ematochimici di routine, consulenze diabetologiche per l’ottimizzazione del regime dietetico, ecg, ecocardiogrammi e visite cardiologiche di controllo a cadenza semestrale che hanno evidenziato una sostanziale stabilità del suo quadro clinico, in contemporanea con la remissione molecolare della lmc. punti chiave y minima intolleranza crociata tra nilotinib e imatinib y la condizione di cardiopatia non sembra rappresentare una controindicazione al trattamento con nilotinib. negli studi clinici sono stati esclusi i pazienti con malattia cardiaca non controllata. si deve quindi prestare cautela in pazienti con disturbi cardiaci significativi y nilotinib è maneggevole nei pazienti affetti o a rischio di sviluppare diabete, con efficacia confrontabile con quella della popolazione generale importanza della comorbidità e utilità dell’“early shift” terapeutico nella gestione del paziente con lmc fabio stagno 1 efficacia di nilotinib come terza linea di terapia in un paziente con leucemia mieloide cronica di lunga durata e possibile controindicazione cardiologica ester maria orlandi 1, sara redaelli 2 efficacia di uno switch precoce a nilotinib in paziente affetto da leucemia mieloide cronica in risposta non ottimale a imatinib ferdinando porretto 1 nilotinib è efficace e ben tollerato in pazienti con comorbidità multiple carmen fava 1, marco fizzotti 2, giuseppe saglio 1, giovanna rege-cambrin 1 switch precoce a nilotinib in un caso di risposta non ottimale a imatinib alessandra iurlo 1, tommaso radice 1, chiara de philippis 1, manuela zappa 1, mauro pomati 1, agostino cortelezzi 1 cmi 2015;9(3)79-85.html airway rescue using the lma supremetm in the prone position: a case report massimiliano sorbello 1, ivana zdravkovic 2, massimiliano veroux 3, ruggero massimo corso 4 1 department of anesthesia and intensive care unit, aou policlinico-vittorio emanuele, catania, italy 2 department of anesthesia and reanimation, zvezdara hospital, belgrade, serbia 3 department of surgery, transplantation and advanced technologies; vascular surgery and organ transplant unit, university hospital of catania, catania, italy 4 department of emergency, anesthesia and intensive care section “g.b. morgagni-pierantoni” hospital, forlì, italy abstract surgery in prone positioning may pose considerable challenges to anesthesiologists because of general accessibility to the patient; this is particularly true if referring to airway management, because the airway could be relatively inaccessible while the patient is lying prone. we report a case of an obese women scheduled for lower limbs surgery in the prone position in which the initial anesthetic choice for spinal anesthesia needed to be switched to general anesthesia during the procedure both for the occurrence of surgical complications and because the patient began to become uncooperative. we successfully managed this problem by inserting a lma supremetm leaving the patient in the same prone position, and maintaining anesthesia in mechanical ventilation, thus allowing surgical procedure to be completed uneventfully. the possible options in similar cases and the specific features of lma supremetm which allowed such a choice are discussed. keywords: airway rescue; lma supremetm; prone position; anesthesia salvataggio delle vie aeree mediante lma supremetm in posizione prona: un caso clinico cmi 2015; 9(3): 79-85 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i3.1186 case report corresponding author dr massimiliano sorbello department of anesthesia and intensive care unit, aou policlinico-vittorio emanuele, via del plebiscito 628, 95127 catania, italy phone: +39 349 6277107 maxsorbello@gmail.com disclosure no external funding and no competing interests declared why we describe this case airway management in prone position could be challenging, yet in elective conditions and more when it is unexpectedly and urgently needed. we report a case in which a second generation extraglottic device was used to rescue a critical airway, assessing its safety and efficacy, thus suggesting a further option for similar cases when urgent airway control might be needed introduction the lma (laryngeal mask airway) supremetm (teleflex, usa) is a recently developed laryngeal mask which might be considered not simply a disposable version of lma prosealtm (laryngeal mask company, singapore), but rather its single use evolution. it offers features coming from lma uniquetm (as it is medical pvc made and disposable), from lma fastrachtm (because of shape, mimicking human airway anatomy, curvature and stiffness) and from lma prosealtm (double-cuff design allowing higher sealing despite a lower intracuff pressure and gastric access opportunity) [1]. at the same time, lma supremetm offers a large number of innovations such as an elliptical shaped airway conduit (more resembling to human upper airways anatomy), a stiffer, coaxial and pre-formed gastric tube conduit (which allows an easier insertion of the gastric tube maintaining the possibility to perform the “drain tube leak test”), a totally redesigned cuff (allowing lower cuff pressure with a maximal sealing and a greater tolerance in terms of filling volume) with new features in the perilaryngeal side of the cuff itself, such as two small wings surrounding the gastric tube channel designed to prevent epiglottis down-folding and to maintain airway conduit patency (figure 1). figure 1. lma supremetm functional details: (a) posterior view of the “second seal” designed cuff; (b) cross sectional view of lma supremetm, note epiglottis “anti-down-folding” fins; (c) and (d) cross sectional view of airway (dashed arrows) and gastric (solid arrows) conduits and relative diameters its inflated-deflated ratio is absolutely favorable, which, together with device rigidity and airway-like shape, make insertion easier and smoother. it has been used for many procedures in elective setting, either in patients in supine position and in prone position, while we report a case of emergency use of the lma supremetm as airway rescue technique in a patient receiving lower limbs surgery in the prone position. case description a 118 kg/163 cm obese (bmi = 44.6) female patient was scheduled for a lower limb neoplasm (suspected as lipoma and surrounding hematoma) resection; such a neoplasm was located in posterior part of left lower limb, approximately 15 cm above popliteal fossa, thus scheduled surgery required prone positioning for optimal surgical access. after evaluation of laboratory tests, clinical history and patient consent was obtained, spinal anesthesia was scheduled. also airway evaluation was carefully considered for exclusion of severe difficult intubation and difficult mask ventilation criteria accordingly to italian difficult airway management guidelines [2]. the patient presented a mallampati ii grade, normal thyro-mental and sterno-mental distances, normal mouth opening and inter-incisors distance more than 4 cm, no history of snoring or obstructive sleep apnea (osa) and less than 42 cm neck circumference, the only factor suspect for potential difficult mask ventilation (dmv) being represented by obesity (bmi = 44.6). spinal anesthesia was performed uneventfully using 0.5% levobupivacaine 13 mg + morphine 0.1 mg at l2-l3 level with 25g whitacre pencil point needle, and once the surgical anesthesia was achieved the patient was pronated and surgery started. patient was given cristalloids infusion 500 ml prior to anesthesia via a 18g peripheral intravenous line, and vital signs were monitored. all parameters during surgery were stable, without significant hypotension or hemodynamic impairment and normal patient’s compliance. 1 mg of intravenous midazolam was given immediately before surgery started. the neoplasm not only appeared to be wider than expected, partly covered by hematoma, but macroscopic appearance was suggestive for different diagnosis than lipoma (postoperative histological finding confirmed diagnosis of rhabdomyosarcoma of limb muscles), thus wider resection was started, changing scheduled surgical approach. this choice resulted in a major than expected blood loss (about 800 ml), and in a longer procedure: therefore, 125 minutes after beginning of surgery, the patient started complaining and became poorly cooperative, for positional discomfort and mild agitation appeared, despite 2 mg more midazolam was intravenously given. the surgeon was asked about the possibility of turning the patient to provide deep sedation with extraglottic airway control or general anesthesia via conventional tracheal intubation, but a difficult control on blood vessels had requested provisional clamping of superficial and deep femoral arteries, and more than 15 klemmer forceps were left in position to grant provisional hemostasis during surgical procedures. in any case, turning the patient would have meant high risk of contamination of surgical field and could result challenging due to dimensions of the patient. for these reasons, the patient was left prone and after ventilation check, preoxygenation in 100% o2 was given for three minutes via face mask before administration of propofol 2 mg/kg of ideal body weight, and in any case titrated to loss of consciousness and airway reflexes. a number 4 lma supremetm was then placed smoothly and uneventfully in the prone position after gentle rotation of the head positioned on a soft head support. after inflation of the cuff with 30 ml of air and check of cuff pressure with dedicated manometer, ventilation was excellent, with maintenance of 100% spo2 and airway pressures not exceeding 20-24 cm h2o, if not for isolated values of higher pressures in any case not compromising ventilation and seal. drain tube leak test was performed and negative, and a 16fr gastric tube was easily placed, with intraoperative drainage of small amount of clear fluid. the different procedure phases are showed in figure 2. figure 2. positioning of lma supremetm: (a) positioning with patient in prone position and head slightly lifted and turned; (b) lma supremetm in position; (c) performance of drain tube leak test (note lubricant drop, arrow); (d) positioning of gastric tube and connection to mechanical ventilator; (e) mechanical ventilation loops: note perfect seal despite peak airway pressures ventilation was then turned to pressure control ventilation (pc = 18 cm h2o for a tidal volume of about 600 ml, positive end expiratory pressure—peep = 5 cm h2o) on aestiva sa5 ventilator (general electric, helsinki, finland) and anesthesia was maintained with sevoflurane 1 mac (minimal alveolar concentration) until recovery of spontaneous triggering, so that ventilatory support was turned to psv-pro® mode. continuous monitoring of vital parameters, including end tidal carbon dioxyde (etco2) suggested a regular course of anesthesia. surgery finished uneventfully 95 minutes after lma supremetm positioning, due to need for reconstruction of femoral vessels. mask was removed slightly uncuffed after eyes opening and partial consciousness recovery, always leaving the patient in prone position. no adverse events occurred postoperatively, and no sore-throat or other signs of pharyngo-laryngeal morbidity were reported by the patient. what should the clinician ask himself in similar situations? despite regional anesthesia is planned, did i perform anyway a careful airway assessment? shall obese patient be difficult to intubate, to ventilate or both? do i have a rescue plan b if something goes wrong? am i able to use confidently extraglottic devices? discussion spinal anesthesia allows the patient to self-position and avoid neurological injury that may occur with prone positioning of unconscious patient in general anesthesia. spinal anesthesia also reduces intraoperative surgical blood loss (due to orthosimpatic blockade effect), improves perioperative hemodynamic stability and reduces pain in the immediate postoperative period [3]. combination anesthetic techniques, using both subarachnoid and epidural dosing schemes, may be beneficial for improving postoperative pain control and add further to the benefit of spinal anesthesia [4]. however, our case highlights the need for a “plan b” to manage the airway during loco-regional anesthesia. as recommended also in italian guidelines for airway management, regional anesthesia should never be chosen as alternative to a difficult airway, especially if troubles could be expected not with laryngoscopy and intubation but with either facial or extraglottic ventilation. in such circumstances, the safest pathway is always airway control, better on spontaneous breathing technique, before and independently on eventual performance of loco-regional technique [2]. loss of airway control in an anesthetized patient placed prone is a life-threatening complication, because this position obviously limits airway access and instrumentation. should this situation occur, the accepted procedure is to turn the patient to a lateral or supine position and re-intubate the trachea without delay with conventional technique. in the case we report, we were facing a dilemma because changing the patient’s position could be extremely challenging: at the stage of surgery when agitation occurred, position changing could cause severe bleeding for displacement of hemostatic forceps, with additional complication of being time-consuming and potentially delaying continuation of surgery in a very delicate phase, with further risk of surgical field contamination. last but not least, due to weight of the patient, the maneuver would have not been easy and could result in further risks and complications, because in any case, after turning supine to control the airway, the patient needed to be back turned prone to go on with surgery. at this point, different options were considered: general anesthesia could have been induced providing tracheal intubation using a direct laryngoscopy technique in supine ramped position, but we thought that the risks involved were too high to justify this solution, so it was kept as plan b. fiberoptic tracheal intubation in the prone position, as reported by neal and colleagues in a patient who presented with a severe facial trauma [5] or by hung and colleagues in neurosurgical patient in prone position with fixed neck [6], was considered as a viable solution, but in our case the patient was not perfectly conscious and certainly not cooperative, so it should have been performed asleep or sedated with all implication on ventilation and saturation, or via an extraglottic airway. the last given option was to insert an extraglottic device such as lma supremetm in the prone position, which was supported by large experience with use of this device in elective surgery in both supine and prone positioning. placement of lma classic, prosealtm and supremetm in prone position seems to be challenging, more than placement in regular supine position. but before coming to this conclusion, a series of factors should be considered: if the device is some stiffer (which is case of lma supremetm) and anatomically shaped, insertion is per se easier. when positioning these devices in supine position, manufacturer’s instructions suggest to insert them pushing firmly and gently not in vertical direction, but always keeping contact with hard palate. this indication comes firstly by the presence of the tongue, which could be some obstacle in lma insertion and advancement toward final position in hypopharynx (figure 3). figure 3. lmas positioning technique: (a) note head position and pushing of the mask against hard palate; (b) classic lma in definitive position in hypopharynx; (c) lma classic position as seen in ct scan; (d) lma supreme: note handle and curved anatomical shape lma supremetm feature which is in common with fastrachtm, due to its anatomical shape and stiffness, is per se easier to insert if compared with other lmas [7,8]. starting from this consideration, we could say that paradoxically, positioning of lma, especially if stiffer, curved and anatomically shaped as lma supremetm, is even easier in prone position, as gravity moves the tongue anteriorly leaving more room in oral cavity, oropharynx and hypopharynx, making insertion smoother and easier. the use of the laryngeal mask airway device in the prone position as airway rescue was the subject of different case reports in adults (classic lma used as airway rescue technique for accidental extubation in a neurosurgical case) [9] and children (airway rescue with classic lma for accidental extubation in arnold chiari child undergoing neurosurgical procedure) [10], and of elegant review [11], showing evidence of the feasibility of the use of lma devices in the prone position in the elective setting, confirmed also in another interesting and recent meta-analysis [8]. in 2011, a comparison for use of igeltm and supremetm in prone position for elective cases has been published [12]. a study on 40 patients [13] and the largest audit of lma supremetm insertion in adult patients undergoing elective orthopedic surgery in the prone position both demonstrated high success rate, feasibility, safety, and satisfactory high sealing pressure. this audit, particularly, included obese patients and showed that the lma supremetm can be inserted in this cohort of patients without an increase in the incidence of complications of airway management [14]. to our knowledge, no papers report use of lma supremetm in prone position for airway rescue in obese patients. in the present case, we felt that the only reasonable solution to the problem of airway control was to attempt insertion of an lma supremetm, basing on personal confidence with the device and relying upon its peculiar features. in case of failure, we would have rotated the patient supine (everything was ready for this operation) relying on time offered by preoxygenation before desaturation might have occurred in case of lma supremetm positioning failure. one of the criticisms of our airway management strategy could be that we did not try to insert a tracheal tube through the lma supremetm using a fiberoptic bronchoscope for the remaining of the surgery. main reason to exclude this possibility was that fiberoptic intubation through lma supremetm is well known to be challenging and technically difficult: only a small diameter fiberoptic bronchoscope is allowed to enter the lma supremetm airway conduit and a combined aintree technique [15] should have been used, due to the poor space surrounding the gastric channel of the lma supremetm (see figure 1 c-d) [16]. on the other hand, there was no problem of oxygenation or ventilation and the expected remaining duration of the surgery was relatively short, therefore we decided to proceed only with the lma supremetm, starting from observation that position confirmation tests were satisfactory and ventilation performance on pressure controlled/pressure supported ventilation was excellent. after surgery was finished, patient was left in prone position, and lma supremetm was removed after patient was completely recovered and fully awake. this choice was preferred to allow spontaneous drainage of eventual secretions far away from airway thanks to gravity. patient did not complain sore throat or other side effects, and when second surgery was scheduled to enlarge resection margins and lymph nodes exeresis, lma supremetm in prone position was first anesthetic choice to perform surgery. role of extraglottic devices has recently been underlined and clarified by important evidence, such as data coming from the national audit project 4 [17], suggesting that standards of safety for “second generation extraglottic airways” are higher than first generation, and their use is safe in elective conditions and recommended for rescue maneuvers during difficult airway management, as suggested also in italian guidelines for airway management [2]. as a general point of view, other possible criticism to our case report is that we could have considered a different anesthetic option before choosing for regional anesthesia: if on the one hand we did not perform spinal anesthesia as alternative to expected difficult airway (and we would not have chosen if it was), on the other hand we must admit we probably underestimated surgical requirements, whereas the surgical team preoperative diagnosis was for lipoma rather than for vascular tumor. another important warning which could come after our case report is that preoperative evaluation should always be performed as teamwork. if so, probably, being aware of some preoperative doubts on tumor nature, we would have chosen general anesthesia with intubation since beginning. in conclusion, in our experience, lma supremetm was a useful airway management technique in airway management experts hands, to rescue the “lost airway”, in obese patient undergoing surgery in the prone position, including need for mechanical ventilation. we do recommend to approach this technique only after development of sufficient experience and expertise with lma supremetm (and in general with any other extraglottic device) so to rely on it as rescue technique only if physicians are familiar with prone positioning in elective and calm situations, with airway plan b clear in mind and carefully defining indications preoperatively, considering extended surgical and anesthetic teamwork. accordingly to latin motto si vis pacem, para bellum. acknowledgements this case report has been published with the written consent of the patient. references 1. van zundert a, brimacombe j. the lma supreme tm – a pilot study. anesthesia 2008; 63: 209-10; http://dx.doi.org/10.1111/j.1365-2044.2007.05421.x 2. siaarti difficult airways study group. task force: petrini f, guarino a, merli g, et al. recommendations for airway control and difficult airway management. minerva anestesiologica 2005; 71: 617-56 3. attari ma, mirhosseini sa, honarmand a, et al. spinal anesthesia versus general anesthesia for elective lumbar spine surgery: a randomized clinical trial. j res med sci 2011; 16: 524-9 4. jellish ws, shea jf. spinal anesthesia for spinal surgery. best pract res clin anaesthesiol 2003; 17: 323-34; http://dx.doi.org/10.1016/s1521-6896(02)00115-5 5. neal mr, groves j, gell 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presentava soporosa, risvegliabile con difficoltà; la cute era diffusamente fredda, sudata e marezzata. i valori di pressione arteriosa erano 220/95 mmhg in clinostatismo, la frequenza cardiaca 100 bpm, la saturazione era pari all’84% in aria ambiente, la frequenza respiratoria di 40 atti al minuto e la temperatura corporea di 36,5 °c. si apprezzava turgore giugulare a 45 °c, i polsi periferici erano presenti e normosfigmici ai 4 arti. l’esame obiettivo cardiaco evidenziava toni ritmici e validi, con pause apparentemente libere; all’auscultazione del torace si apprezzavano normofonesi plessica, respiro diffusamente ridotto con ronchi e rantoli a grosse bolle bilaterali. alla palpazione l’addome era globoso, trattabile, apparentemente non dolorabile, con peristalsi valida; gli organi ipocondriaci erano nei limiti. non erano visibili edemi declivi laura perazzolo 1, claudio marengo 1 caso clinico alle 9.30 del 4 febbraio 2008 la signora ec, 74 anni, giungeva in pronto soccorso per dispnea ingravescente dalla sera precedente. secondo il racconto dei familiari, la paziente non aveva mai lamentato dolore toracico e le condizioni cliniche erano drasticamente peggiorate nelle prime ore del mattino. dall’anamnesi emergevano alcuni fattori di rischio cardiovascolare: diabete mellito di tipo 2 in terapia con metformina, noto da circa 3 anni; ipertensione arteriosa da molti anni in terapia con ramipril; familiarità per ipertensione arteriosa e diabete. veniva poi riferita l’asportazione, 3 anni prima, di un epitelioma del collo, con follow-up negativo. non tabagismo, non assunzione di alcolici; lo stile di vita della paziente prevedeva un’alimentazione varia e una modica attività fisica giornaliera. complicanze “inaspettate” di un edema polmonare abstract the article illustrates the case report of a patient, an elderly woman, admitted in the emergency department (ed) with acute pulmonary edema, which was quickly solved through a welltimed application of the therapeutic protocols. at first, the course of the treatment was positive, but some complications developed because of the long stay in the hospital, specifically a decubitus ulcer; this condition quickly evolved regardless of the proper treatment, and caused a progressive fall of the general clinical status of the patient. within the er, some state-of-the-art clinical apparatus (protocols, unintrusive ventilation) are available for even the treatment of the worst conditions. ed overcrowding – with full occupancy of beds and long waits of patients – is related to greater risk of poor outcomes. one of the risks is to expose the patient to serious complications, that are note related to the reason of admission in hospital, but, paradoxically, are caused by the prolonged hospitalization in ed. keywords: pressure ulcers, prevention, heart failure, pulmonary edema unexpected complications of pulmonary edema cmi 2010; 4(suppl. 3): 25-30 1 dea e medicina interna, ospedale santa croce, moncalieri (to) corresponding author dott.ssa laura perazzolo laura.perazzolo@tin.it caso clinico ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)26 complicanze “inaspettate” di un edema polmonare e la cute appariva integra in tutte le sedi esplorate. con i limiti imposti dalle condizioni della paziente, non erano evidenti deficit neurologici. l’emogasanalisi arteriosa eseguita in aria ambiente dimostrava ipossiemia con grave acidosi mista prevalentemente respiratoria (ph = 7,18; pco2 = 70 mmhg; po2 = 50 mmhg; hco3 = 21 meq/l). i primi esami ematochimici non dimostravano anomalie degne di nota, fatta eccezione per una modica elevazione della pcr (proteina c reattiva), in assenza di leucocitosi, e della glicemia (compatibile con il dato anamnestico); in particolare i parametri emocromocitometrici, coagulativi e la funzione epatorenale apparivano nei limiti di norma. anche i marcatori di citonecrosi (troponina, cpk, ck-mb, mioglobina) al prelievo basale erano nel range di norma e anche in successive valutazioni seriate non dimostreranno incrementi suggestivi per ischemia cardiaca in atto. l’elettrocardiogramma non faceva notare alterazioni in senso ischemico, con presenza di tachicardia sinusale, asse cardiaco in equilibrio, non anomalie di conduzione, atipie aspecifiche della fase di ripolarizzazione. si decideva comunque di sottoporre la paziente a una valutazione ecocardiografica urgente in cui si rilevavano una frazione di eiezione discreta (48%), ipertrofia del ventricolo sinistro, segni di alterato rilasciamento diastolico; non versamento pericardio, apparato valvolare continente. la radiografia del torace, eseguita obbligatoriamente in decubito supino, confermava il quadro di sovraccarico del piccolo circolo, senza lesioni parenchimali addensanti e con ingrandimento dell’ombra cardiaca. si decideva quindi di avviare ventilazione non invasiva assistita con peep = 8 mmhg; fio2 = 100%; psv = 23. inoltre, dopo posizionamento di catetere vescicale, sotto monitoraggio pressorio e cardiaco, si procedeva a trattamento farmacologico con diuretici ad alto dosaggio (furosemide in boli ripetuti di 60 mg), nitroderivati in infusione continua (20 g/min) e bolo di morfina (3 mg). si sceglieva poi di avviare infusione continua di insulina rapida al dosaggio di 40 ui/ora. nelle ore successive si verificava un progressivo miglioramento delle condizioni generali della paziente, con buona ripresa del sensorio e della perfusione periferica, detersione del reperto auscultatorio polmonare, ottima risposta diuretica e graduale normalizzazione della pressione arteriosa. in considerazione della significativa variazione dei parametri emogasanalitici (ph = 7,45; pco2 = 45 mmhg; po2 = 323 mmhg; hco3 = 31 meq/l) si decideva di interrompere la ventilazione meccanica e di applicare un flusso inspiratorio del 40% con maschera di venturi, con cui la saturazione si manteneva nella norma. a questo punto, a stabilizzazione clinica avvenuta, per indisponibilità di posto letto non era possibile procedere al trasferimento della paziente in un reparto di degenza. si rendeva dunque necessaria la permanenza protratta della donna negli ambienti del pronto soccorso, per proseguimento delle cure e del monitoraggio clinico. successivamente, 32 ore dopo l’ingresso in ospedale, la paziente veniva ricoverata nel reparto di medicina interna del nostro ospedale, in condizioni generali stabili e discrete, con parametri vitali soddisfacenti; tuttavia, all’esame obiettivo di ingresso si notava un eritema cianotico a farfalla di cm 20 x 10, in sede interglutea e glutea bilaterale, non presente all’arrivo in dea (dipartimento di emergenza e accettazione). veniva pertanto immediatamente avviato un protocollo di cura della lesione che prevedeva detersione accurata quotidiana, medicazione con garza siliconata, utilizzo di materasso antidecubito, variazione di decubito ogni 4 ore e mobilizzazione in carrozzina ai pasti con ausilio di sollevatore. si prevedevano in aggiunta un regime di dieta ipocalorica ad alto contenuto proteico e una valutazione quotidiana del dolore, inizialmente controllato da paracetamolo ev. figura 1 lesione ulcerosa osservata nella paziente ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 27 l. perazzolo, c. marengo l’applicazione tempestiva di tali misure non ha tuttavia impedito l’evoluzione infausta della lesione, che in pochi giorni è degenerata in abbondante necrosi sovrafasciale (figura 1); infruttuosi pure l’utilizzo di plurime linee di terapia antibiotica (nell’ordine ciprofloxacina, meropenem e vancomicina), empiricamente adottati vista l’assai probabile sovrainfezione da parte di patogeni pluriresistenti e della contaminazione di feci, e i ripetuti interventi di sbrigliamento chirurgico. dopo una settimana di ricovero il decubito si classificava come lesione di grado 4 (tabella i), con degenerazione massiva tissutale ed esposizione del piano osseo sottostante. in parallelo al progressivo peggioramento del quadro locale si è verificato un importantissimo decadimento organico della paziente fino a franca cachessia, caratterizzato da precario compenso glicometabolico, rialzo della creatinina sierica su base prevalentemente prerenale, stato simil-anasarcatico da protido-dispersione massiva, anemizzazione secondaria, iporessia, deflessione dell’umore, progressiva riduzione dell’autonomia e della mobilizzazione attiva fino a suballettamento. tale scadimento clinico ha reso quanto mai complicata l’organizzazione di un’assistenza domiciliare della malata e ha necessariamente prolungato il tempo di degenza ospedaliera in attesa di trasferimento in struttura di lungodegenza. discussione l’edema polmonare acuto è, come ben noto, una patologia gravata da un alto indice di mortalità: si stima infatti un rischio di morte intraospedaliera pari al 12%, mentre la probabilità di exitus a 12 mesi è circa del 40% [1]. la prevalenza di malattia aumenta con l’età: essa si aggira intorno all’1-2% tra la v e la vi decade, mentre raggiunge il 10% nei pazienti di oltre 75 anni [2,3]. la corretta applicazione dei protocolli indicati dalle linee guida di trattamento, insieme alle tecniche di ventilazione non invasiva comunemente in uso nei dea, permette oggi di incidere su questi numeri: il medico d’urgenza dispone di validi presidi per offrire al malato, anche anziano e pluricomplicato, la migliore assistenza nel minor tempo possibile. il caso che abbiamo descritto è un esempio di ottimo risultato terapeutico (iniziale) in un soggetto classificabile senza dubbio in una categoria ad alto rischio di morte per patologia, età e multiple comorbilità. grado 1 iperemia della cute sana che non scompare dopo oltre un’ora di scarico della pressione grado 2 lesione cutanea a spessore parziale che interessa epidermide, derma o entrambi. l’ulcera è superficiale e si manifesta clinicamente come una bolla o un’abrasione grado 3 lesione cutanea a spessore totale con degenerazione o necrosi del tessuto sottocutaneo con possibile estensione fino alla fascia ma non oltre grado 4 degenerazione massiva, necrosi tessutale o danno muscolare, osseo o delle strutture di supporto con o senza lesione cutanea a tutto spessore tabella i stadiazione delle ulcere da decubito i “successi” in termini di sopravvivenza e miglioramento clinico che dunque oggi siamo in grado di raggiungere nelle strutture di emergenza rischiano di essere vanificati da una realtà con cui sempre e drammaticamente ci confrontiamo: il sovraffollamento dei reparti ospedalieri e la carenza di posti parametro stato punti condizione fisica buona 4 discreta 3 cattiva 2 pessima 1 condizione mentale sveglio, cosciente 4 apatico 3 confuso 2 stupore, incoscienza 1 attività fisica cammina liberamente 4 cammina solo con qualche aiuto 3 costretto su sedia a rotelle 2 costretto a letto 1 mobilità completa 4 limitata 3 molto limitata 2 immobile 1 incontinenza nessuna 4 occasionale 3 abituale urinaria 2 abituale urinaria e fecale 1 norton rating rischio maggiore di 18 basso tra 18 e 14 medio tra 14 e 10 alto minore di 10 altissimo tabella ii scala di norton ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)28 complicanze “inaspettate” di un edema polmonare letto. si tratta di eventi pressoché quotidiani, che rendono molto spesso obbligatoria una lunga degenza dei pazienti negli stessi ambienti di primo soccorso. questi ultimi, i dipartimenti di emergenza e accettazione, sono per l’appunto strutture organizzate per il solo trattamento immediato, intensivo e breve, fornite quindi di presidi parametro valutazione verbale punti stato descrizione percezione sensoria adeguata risposta a stimoli verbali, nessun impedimento a rendere noto verbalmente uno stato di dolore o di scomodità 4 leggermente limitata risposta a stimoli verbali, ma non sempre riesce a rendere noto un eventuale stato di dolore o scomodità 3 molto limitata risposta solo a stimoli dolorosi, incapacità di comunicare dolore o scomodità tranne con mugolii e lamenti o agitazione 2 completamente limitata nessuna risposta, neppure a stimoli dolorosi 1 umidità cutanea pelle asciutta non viene rilevato quasi mai sudore, urina o altro 4 pelle occasionalmente bagnata 3 pelle molto spesso bagnata 2 pelle costantemente bagnata 1 attività fisica cammina frequentemente esce dalla stanza un paio di volte al giorno e gira per la stanza almeno ogni due ore nelle ore di veglia 4 cammina occasionalmente percorre distanze molto brevi, con/senza assistenza. passa la maggior parte del tempo seduto o a letto 3 costretto su sedia non è in grado di sostenere il proprio peso e deve essere aiutato a sedersi su sedia o sedia a rotelle 2 costretto a letto non può muoversi dal letto 1 mobilità illimitata compie spostamenti frequenti e ampi senza alcuna assistenza 4 limitata compie spostamenti frequenti, anche se di breve portata, senza alcuna assistenza 3 molto limitata si sposta, ma non riesce a compiere movimenti significativi senza assistenza 2 immobilità completa incapace del minimo movimento senza assistenza 1 nutrizione eccellente mangia la maggior parte di ogni pasto, quattro o più porzioni giornaliere di cibi proteici, fa spuntini durante il giorno e non necessita di supplementi 4 adeguata mangia più della metà di ogni pasto, circa quattro porzioni di cibi proteici al giorno. occasionalmente rifiuta un pasto, ma accetta supplementi, oppure è sostenuto da una adeguata dieta liquida 3 probabilmente inadeguata non mangia quasi mai un pasto completo, di solito non più di metà del cibo offerto. non riceve più di tre porzioni di cibi proteici al giorno. accetta solo occasionalmente supplementi alla dieta. in alternativa, riceve una dieta liquida o parenterale inadeguata 2 inadeguata non mangia mai un pasto completo, al massimo non più di 1/3 del cibo offerto, non più di due porzioni di cibi proteici al giorno. riceve pochi liquidi. non accetta supplementi liquidi alla dieta. in alternativa, è sostenuto per via endovenosa da più di cinque giorni 1 frizione e taglio nessun problema apparente si muove indipendentemente nel letto e sulla sedia e ha sufficiente forza muscolare per sollevarsi completamente durante il movimento. mantiene sempre una posizione corretta a letto o sulla sedia 3 possibili problemi si muove debolmente o abbisogna di qualche assistenza. durante il movimento, probabilmente la pelle sfrega contro lenzuoli, sedia o altro. di solito mantiene una buona posizione in sedia o a letto, ma occasionalmente scivola giù 2 problemi necessita di assistenza da moderata a totale per muoversi. impossibile sollevarlo senza sfregare contro lenzuoli o altro. scivola spesso in basso a letto o su sedia, richiedendo frequenti riposizionamenti con massima assistenza. movimenti spastici, contratture o agitazione portano a una frizione pressoché costante 1 tabella iii scala di braden. un punteggio maggiore di 20 indica basso rischio, da 16 a 20 medio rischio e da 11 a 15 alto rischio, mentre un punteggio inferiore a 10 indica un altissimo rischio idonei a una permanenza solo temporanea del malato. il caso della signora ec invita a riflettere sul rischio concreto e tutt’altro che trascurabile di esporre i nostri pazienti a complicanze serie, talvolta del tutto svincolate dal motivo di accesso in ospedale ma, paradossalmente, secondarie proprio alla permanenza nell’am©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 29 l. perazzolo, c. marengo biente di pronto soccorso. tra tali complicanze le più immediate sono le lesioni da decubito, ovvero danni alla cute e ai tessuti sottocutanei classicamente causati da pressione, trazione, frizione o combinazione di questi fattori. vi è consenso unanime nel riconoscere la gravità del problema, anche se mancano in letteratura dati concordanti di prevalenza e incidenza delle piaghe da decubito negli ambienti di emergenza; è difficile confrontare i diversi studi per le differenti metodologie adoperate e per l’eterogeneità dei pazienti in analisi. inoltre la maggior parte degli studi è condotta in reparti di degenza, lungodegenza oppure in popolazioni di pazienti domiciliati [4,5]. la prevenzione e il trattamento delle lesioni cutanee costituiscono un’area importante dell’assistenza infermieristica sia in ambito ospedaliero sia domiciliare [6]. la conoscenza, l’utilizzo e la condivisione da parte di tutti gli operatori sanitari di linee guida conducono a una riduzione dell’insorgenza di tale fenomeno, nonché a un miglioramento delle prestazioni assistenziali [7]. ancora una volta dunque le linee guida si configurano come prezioso strumento che migliora le prestazioni mediante l’adozione di un linguaggio e di una pratica standard, che limita l’incidenza delle lesioni e la durata della degenza ospedaliera e che riduce i costi mediante l’utilizzo appropriato delle risorse [8]. tuttavia, se analizziamo i punti chiave dei protocolli di prevenzione e ne immaginiamo l’applicazione nei nostri pronti soccorsi, ne riconosciamo immediatamente la difficoltà di attuazione a partire dalla stessa valutazione del rischio di decubito (che si raccomanda di effettuare all’ingresso del paziente e di ripetere periodicamente mediante apposite scale di norton e braden) (tabelle ii e iii). i cardini del trattamento precoce delle lesioni consistono nell’ispezione della cute e delle prominenze ossee almeno una volta al giorno, la pulizia accurata e ripetuta dell’epidermide, la prevenzione del frazionamento e dello stiramento cutaneo durante spostamenti, un regime dietetico appropriato e iperproteico, il precoce inizio di un programma riabilitativo, nonché una documentazione scritta e dettagliata degli interventi effettuati sul malato. è raccomandata poi l’attenzione ai carichi meccanici e ai sistemi di supporto, con variazione del decubito almeno ogni due ore, il sollevamento dei talloni dal letto, l’uso del sollevatore e di materassi antidecubito [6,7]. non è difficile intuire la non attuabilità di tali misure al di fuori dei reparti di degenza o dell’ambiente domiciliare. se la diffusione delle linee guida è senza dubbio condivisibile e mandatoria, non va sottovalutato il problema attualmente aperto e insoluto del rischio di sviluppare decubiti là dove le misure preventive, per cause logistiche, non sono applicabili. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria bibliografia hunt sa, abraham wt, chin mh, feldman am, francis gs, ganiats tg et al. 2009 1. focused update incorporated into the acc/aha 2005 guidelines for the diagnosis and management of heart failure in adults: a report of the american college of cardiology foundation/american heart association task force on practice guidelines: developed in collaboration with the international society for heart and lung transplantation. circulation 2009; 119: e391-e479 task force sullo scompenso cardiaco acuto della società europea di cardiologia2. . riassunto esecutivo delle linee guida sulla diagnosi e trattamento dello scompenso cardiaco acuto. ital heart j suppl 2005; 6: 218-54 task force for diagnosis and treatment of acute and chronic heart failure 2008 of european 3. society of cardiology, dickstein k, cohen-solal a, filippatos g, mcmurray jj, ponikowski p, poole-wilson pa et al. esc guidelines for the diagnosis and treatment of acute and chronic heart failure 2008: the task force for the diagnosis and treatment of acute and chronic heart failure 2008 of the european society of cardiology. developed in collaboration with the heart failure association of the esc (hfa) and endorsed by the european society of intensive care medicine (esicm). eur heart j 2008; 29: 2388-442 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)30 complicanze “inaspettate” di un edema polmonare horn sd, bender sa, bergstrom n, cook as, ferguson ml, rimmasch hl et al. description 4. of the national pressure ulcer long-term care study. j am geriatr soc 2002; 50: 1816-25 bours gj, halfens rj, abu-saad hh, grol rt. prevalence, prevention and treatment of 5. pressure ulcers: descriptive study in 89 institutions in the netherlands. res nurs hearth 2002; 25: 99-110 european pressure ulcer advisory panel (epuap). guidelines on treatment of pressure ulcer6. . epuap review 1999; 1: 31-3 stechmiller jk, cowan l, whitney jd, phillips l, aslam r, barbul a et al. guidelines for the 7. prevention of pressure ulcers. wound repair regen 2008; 16: 151 de laat eh, pickkers p, schoonhoven l, verbeek al, feuth t, van achterberg t. guidelines 8. implementation results in a decrease of pressure ulcer incidence in critically ill patients. crit care med 2007; 35: 815 11 clinical management issues ibrido bcr-abl con giunzione b2a2, che codifica per una proteina di tipo p210. è stata quindi posta diagnosi di leucemia miecaso clinico nel maggio 2011 giunge alla nostra osservazione un uomo di 63 anni, con sintomatologia caratterizzata da astenia e sensazione di ripienezza post-prandiale. l’esame obiettivo mette in evidenza una modesta splenomegalia, con milza a circa 2 dita dall’arcata costale, mentre l’esame emocromocitometrico evidenzia leucocitosi (wbc 180.000/mm3) e piastrinosi (plts 900.000/mm3). lo striscio di sangue periferico documenta la presenza in circolo di precursori della granulopoiesi. l’agoaspirato midollare eseguito nel sospetto di sindrome mieloproliferativa, evidenzia un’ipercellularità, con iperplasia della serie granulocitaria e un aumento dei megacariociti. la citogenetica convenzionale mostra la presenza del cromosoma philadelphia nel 100% delle metafasi analizzate (46,xy, t(9;22)(q34;q11), mentre l’esame di biologia molecolare documenta la presenza del gene perché descriviamo questo caso la terapia con gli inibitori delle tirosin chinasi ha trasformato profondamente la prognosi della lmc, modificando sia la storia naturale della malattia sia la qualità di vita dei pazienti. il caso riportato offre a nostro avviso uno spunto di riflessione importante di come oggi, in presenza degli inibitori di seconda generazione, ci troviamo di fronte ad una rivoluzione grazie alla loro maggiore efficacia verso imatinib in termini di velocità e profondità di risposte. il paziente in questione ha presentato una risposta rapida e ottimale a nilotinib, sia da un punto di vista citogenetico sia molecolare immediatamente nei primi mesi di trattamento corresponding author dott.ssa ursula sessa ursula80@inwind.it caso clinico abstract here we describe a case of a man with chronic myeloid leukemia at intermediate risk, according to the sokal index. after cytoreduction with hydroxyurea, the patient started nilotinib at standard dose (600 mg/day) obtaining a complete haematological response after one month of treatment. after about 3 months the patient presented a complete cytogenetic response and after six months major molecular response (mr3). at nine months of treatment the patient presented a complete molecular response (mr4). keywords: chronic myeloid leukemia; optimal response; nilotinib major molecular response induced by nilotinib as first line treatment in a lmc patient with intermediate sokal risk cmi 2012; 6(suppl 2): 11-14 1 ematologia, ao cardarelli, napoli ursula sessa 1, maria celentano 1, stefano rocco 1, rossella fabbricini 1, olimpia finizio 1, vincenzo mettivier 1 risposta molecolare completa indotta precocemente da nilotinib come prima linea di terapia in un paziente affetto da leucemia mieloide cronica a rischio sokal intermedio disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. mailto:ursula80@inwind.it 12 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(suppl 2) risposta molecolare completa indotta precocemente da nilotinib come prima linea di terapia loide in fase cronica (lmc), a rischio sokal intermedio. percorso terapeutico il paziente effettua un breve ciclo terapeutico di citoriduzione con idrossiurea, con progressivo decremento dei globuli bianchi e, successivamente, viene sottoposto a terapia con nilotinib al dosaggio di 600 mg/die. dopo un mese circa di trattamento, in assenza di effetti collaterali, il paziente è in remissione ematologica completa e non presenta più splenomegalia. la rivalutazione, effettuata al terzo mese di terapia, risposta ottimale (non definita precedentemente) risposta sub-ottimale fallimento warnings baseline na na na alto rischio cca/ph+ 3 mesi chr e almeno mcyr (ph+ ≤ 65%) no cyr (ph+ > 95%) 35%) no cyr (ph+ > 95%) na 12 mesi ccyr pcyr (ph+ 1-35%) 35%) < mmolr 18 mesi mmolr < mmolr < ccyr na qualsiasi momento nel corso della terapia mmolr stabile o in miglioramento perdita di mmolr mutazioni* perdita di chr perdita di ccyr mutazioni** cca/ph+ aumento nei livelli di trascritto cca/ph– tabella i. raccomandazioni dell ’european leukemianet (eln) 2009 confrontate con quelle del 2006 (in grassetto le aggiunte eln 2009) cca = clonal chromosome abnormalities; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; hr = risposta ematologica; mcyr = risposta citogenetica minore; mmolr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile; pcyr = risposta citogenetica parziale * bassi livelli di insensibilità a imatinib ** alta insensibilità a imatinib pone in evidenza una risposta citogenetica completa. al sesto mese di trattamento il paziente, secondo le raccomandazioni dell’eln 2009 è in risposta ottimale, in quanto presenta una risposta ematologica completa, una risposta citogenetica completa e una risposta molecolare maggiore [1] (tabella i). al nono mese di terapia, persistendo le risposte ematologica e citogenetica completa, il paziente risulta in mr4. in figura 1 si riporta l’andamento del trascritto bcr-abl nel tempo. il paziente, attualmente in trattamento da 17 mesi, tollera la terapia con nilotinib, mantenendo una risposta di mr4. figura 1. variazioni del trascritto bcr-abl del paziente nel corso della terapia 13 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(suppl 2) u. sessa, m. celentano, s. rocco, r. fabbricini, o. finizio, v. mettivier discussione il caso clinico descritto ha mostrato l’ottimo risultato ottenuto con nilotinib in un paziente affetto da lmc di nuova diagnosi. nilotinib ha rappresentato e rappresenta per il nostro paziente una valida opzione terapeutica. nilotinib è un inibitore tirosinchinasi di seconda generazione più potente e selettivo di imatinib. i legami a idrogeno di imatinib sono stati sostituiti da interazioni lipofiliche, evidenziando una sua minore mutagenicità [2]. i dati di efficacia ottenuti sui pazienti trattati negli studi in prima linea hanno dimostrato che nilotinib è un’efficace arma terapeutica, producendo risposte molecolari rapide e profonde [3,4]. lo studio registrativo enestnd a 12 mesi ha evidenziato che il doppio dei pazienti in trattamento nel braccio sperimentale con nilotinib aveva ottenuto una risposta molecolare maggiore (44% nilotinib vs 22% imatinib): tale risposta poteva essere ottenuta indipendentemente dal rischio sokal. inoltre, analizzando la cinetica della risposta a 24 mesi, era ben chiara una riduzione rapida dei livelli di bcr-abl nel braccio nilotinib: l’incidenza cumulativa di mmr a 18 mesi con imatinib era ottenuta da nilotinib già a sei mesi. se ci soffermiamo sulle risposte molecolari con una riduzione di 4 o 4,5 logaritmi osserviamo a 12 mesi un divario maggiore: nilotinib ottiene mr4 nel 20% dei casi contro il 6% di imatinib, mentre per mr4,5 le percentuali sono dell’11% per nilotinib contro l’1% di imatinib. a tali dati si aggiunge un’altra informazione importante nella scelta terapeutica di un farmaco, cioè l’azzeramento quasi totale delle progressioni con nilotinib: infatti, a 12 mesi, le percentuali sono di 0,7% per nilotinib contro il 3,9% di imatinib. alla luce di tali dati, quando circa un anno fa abbiamo avuto la possibilità di trattare il nostro paziente con nilotinib, sebbene non fosse ancora in commercio, per il nostro centro è sembrata la scelta più appropriata. lo studio iris è stato il primo studio randomizzato di fase iii che ha dimostrato la superiorità di imatinib vs l’associazione di citarabina e interferone: imatinib è stato quindi considerato la cura standard per i pazienti affetti da lmc. l’avvento degli inibitori di seconda generazione ci pone di fronte ad una nuova rivoluzione nella lmc, grazie alla loro maggiore efficacia verso imatinib sia in termini di velocità sia di profondità di risposte. il paziente in questione ha presentato una risposta rapida e ottimale a nilotinib, sia da un punto di vista citogenetico sia molecolare immediatamente già nei primi mesi di trattamento. dopo circa un anno di trattamento i risultati ottenuti dal nostro paziente risultano essere perfettamente in accordo con i dati di efficacia dello studio enestnd, ma anche con i dati preliminari di altri studi come l’enest1st dove la prima interim analysis ha consolidato la rapidità e la profondità di risposta di tale inibitore. inoltre il recente follow-up a 36 mesi rafforza la nostra scelta alla luce delle seguenti risposte: mmr 73% nilotinib vs 53% imatinib; mr4 50% nilotinib vs 26% imatinib; mr4,5 32% nilotinib vs 15% imatinib, con risposte ottenute in tutti i rischi sokal. a tali dati si aggiunge ancora una volta il vantaggio in termini di progressioni: infatti non abbiamo osservato più alcuna progressione dopo il primo anno (0,7% nilotinib vs 4,2% imatinib). tali risultati sono confermati anche dallo studio gimema 0307 il quale ha evidenziato, con un maggiore follow-up (45 mesi), un solo caso di progressione, e in termini di best response: mmr 99% e mr4 79% [5]. inoltre i recenti dati pubblicati da marin e colleghi [6] e dal gruppo tedesco [7], ci confermano come sia fondamentale raggiungere velocemente determinate risposte e come diventa critico il valore dei livelli di trascritto di bcr-abl a 3 e 6 mesi. il valore dei livelli di bcr-abl è un fattore prognostico importante che condiziona l’outcome del paziente. il gruppo tedesco ci segnala che la persistenza di livelli di bcrabl >10% a 3 mesi si correla con una overall survival (os) a 5 anni dell’87% vs il 97% di coloro che a 3 mesi hanno livelli di bcr-abl ≤ 1% (figura 2). il limite del 10% è un cut-off decisivo, da tenere presente nella scelta di un inibitore di seconda generazione che possieda la capacità di abbattere rapidamente e in maniera specifica la riserva cellulare delle cellule ph+, determinando così risposte rapide e profonde che garantiscono al paziente un ottimo outcome a lungo termine. in conclusione, nel caso del nostro paziente de novo, nilotinib si è dimostrato efficace e rapido nell’ottenere una risposta ottimale (risposta citogenetica e risposta molecolare maggiore dopo solo 3 mesi e 6 mesi di terapia) in un paziente a rischio 14 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(suppl 2) risposta molecolare completa indotta precocemente da nilotinib come prima linea di terapia sokal intermedio. in base a questa esperienza è possibile ipotizzare un impiego di tale inibitore in tutti i pazienti di nuova diagnosi al fine di poter ottenere risposte ottimali e garantire al paziente un outcome a lungo termine. figura 2. i livelli di trascritto di bcrabl correlano con la sopravvivenza (modificato da [7]) bibliografia 1. baccarani m, cortes j, pane f, et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51; doi: 10.1200/jco.2009.25.0779 2. breccia m, alimena g. nilotinib therapy in chronic myelogenous leukemia: the strength of high selectivity on bcr/abl. curr drug targets 2009; 10: 530-6; doi: 10.1200/jco.2009.25.0779 3. saglio g, kim dw, issaragrisil s, et al; enestnd investigators. nilotinib versus imatinib for newly diagnosed chronic myeloid leukemia. n engl j med 2010; 362: 2251-9; doi: 10.1200/ jco.2009.25.0779 4. kantarjian hm, hochhaus a, saglio g, et al. nilotinib versus imatinib for the treatment of patients with newly diagnosed chronic phase, philadelphia chromosome-positive, chronic myeloid leukaemia: 24-month minimum follow-up of the phase 3 randomised enestnd trial. lancet oncol 2011; 12: 841-51; doi: 10.1016/s1470-2045(11)70201-7 5. gugliotta g, castagnetti f, breccia m, et al. early cp cml, nilotinib 400 mg twice daily frontline: beyond 3 years, results remain excellent and stable (a gimema cml working party trial). blood (ash annual meeting abstracts) 2011; 118: abs 2756 6. marin d, ibrahim ar, lucas c, et al. assessment of bcr-abl1 transcript levels at 3 months is the only requirement for predicting outcome for patients with chronic myeloid leukemia treated with tyrosine kinase inhibitors. j clin oncol 2012; 30: 232-8; doi: 10.1200/jco.2011.38.6565 7. hanfstein b, müller mc, hehlmann r, et al. early molecular and cytogenetic response is predictive for long-term progression-free and overall survival in chronic myeloid leukemia (cml). leukemia 2012; 26: 2096-102; doi: 10.1038/leu.2012.85 nilotinib nella leucemia mieloide cronica: un approccio globale mario annunziata 1 efficacia della terapia con nilotinib impiegato in seconda linea raffaele porrini 1, enrico montefusco 1 caso clinico risposta molecolare completa indotta precocemente da nilotinib come prima linea di terapia in un paziente affetto da leucemia mieloide cronica a rischio sokal intermedio ursula sessa 1, maria celentano 1, stefano rocco 1, rossella fabbricini 1, olimpia finizio 1, vincenzo mettivier 1 caso clinico efficacia e tollerabilità di nilotinib in terza linea in un paziente anziano con lmc giovanni caocci 1, sandra atzeni 1, giorgio la nasa 1 caso clinico tollerabilità ed efficacia di nilotinib dopo 10 anni di interferone filippo russo 1 3 clinical management issues tazioni ha determinato il fallimento della terapia nei trials di seconda linea, ma fortunatamente la resistenza non è overlapping, tranne che per la t315i. infatti è noto che le mutazioni v299l, t315a e f3177l/v/i/c sono sensibili a nilotinib, mentre la y253h, e255k/v e f359v/c/i sono sensibili a dasatinib [3]. ad esempio, tra i contributi pubblicati sul presente supplemento, il caso della dottoressa iovine evidenzia l’ottima efficacia terapeutica di nilotinib con ottenimento di risposta ottimale in una paziente con mutazione f317l. è quindi opportuno, in presenza di mutazioni, adottare la giusta terapia, anche perché non dobbiamo dimenticare che le mutazioni sono segno di instabilità genetica del clone che rappresenta la base della progressione della malattia. è possibile inoltre che le mutazioni, oltre ad essere “drivers resistance”, possano cooperare con altri meccanismi o essere, come dicevamo, delle “innocent bystanders” [3]. per questo motivo è importante conoscere il tipo di mutazione per adottare la terapia migliore. luigia luciano 1 resistenza e/o intolleranza: ancora una chance! editoriale 1 u.o. ematologia, università degli studi di napoli federico ii corresponding author lulucian@unina.it gli inibitori di seconda generazione rappresentano un ulteriore passo avanti nella terapia della leucemia mieloide cronica. essi infatti hanno mostrato una notevole efficacia anche nei pazienti resistenti o intolleranti a imatinib, oltre che in prima linea. le linee guida del eln [1], aggiornate nel 2009, hanno ulteriormente affinato i criteri di risposta alla terapia con imatinib dei pazienti affetti da leucemia mieloide cronica (lmc) in modo da poter determinare precocemente la risposta ottimale, garanzia del migliore outcome possibile. la resistenza a imatinib però rappresenta, a tutt’oggi, ancora un problema per i pazienti affetti da lmc [2]. come sappiamo, i meccanismi di resistenza sono molteplici (tabella i), ma di sicuro il più studiato è quello legato alla presenza di mutazioni di bcr/abl. in genere le mutazioni non sono indotte, bensì selezionate dagli inibitori di tirosin chinasi (tki). attualmente sono conosciute più di 90 mutazioni, alcune più frequenti di altre, che spaziano fra i vari domini di bcr/abl e che conferiscono gradi variabili di resistenza a imatinib. è importante quindi rispettare i timing delle raccomandazioni eln proprio per cogliere in tempo l’eventuale presenza di mutazioni e trattare quindi opportunamente i pazienti [3]. ricordiamo che la ricerca delle mutazioni deve essere effettuata ogni qualvolta ci si trovi in presenza di perdita di risposta sia ematologica sia citogenetica sia molecolare, oltre che in tutti i casi di fallimento della terapia [3]. anche per gli inibitori di seconda generazione la presenza o l’emergenza di mubiodisponibilità del farmaco interazione con il target y mutazioni di bcr/abl y gene amplification imatinib transporters (oct1, abcb1, abcg2) attivazioni oncogeniche addizionali o alternative (src, lyn, hck, aca…) “compliance” alla terapia combinazioni dei vari meccanismi tabella i. cause di resistenza a imatinib disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. 4 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) editoriale le mutazioni però non rappresentano l’unico meccanismo di resistenza come riportato nella tabella i, le cause di resistenza sono molteplici e rendono ragione di quei casi in cui vi è il fallimento della terapia senza presenza di mutazioni, come nel caso della dottoressa russo in cui il paziente perde l’iniziale risposta ottimale, con addirittura fallimento del trattamento con imatinib, senza però evidenza di mutazioni. come sottolineato, uno degli aspetti cruciali è rappresentato dalla biodisponibilità del farmaco che, nel caso di imatinib, può essere documentato attraverso il blood level test che misura la quantità di imatinib disponibile. sempre nel caso della dottoressa russo vediamo come il dosaggio appare ai limiti bassi della norma per cui, giustamente, il dosaggio di imatinib viene aumentato. la difficoltà però della terapia con alte dosi di imatinib risiede nella tollerabilità a lungo termine, per cui, spesso, il beneficio viene perso per la necessità di ridurre o sospendere il trattamento. il paziente infatti, dopo la buona risposta iniziale alle alte dosi, spesso è costretto a sospendere il trattamento per tossicità. a questo punto quindi il paziente può passare a nilotinib, che in genere determina la risposta ottimale in pochi mesi, senza mostrare tossicità crociata con imatinib un altro aspetto particolare è rappresentato dai pazienti in risposta sub-ottimale che costituiscono la cosiddetta “zona grigia” del trattamento con tki [4]. dai dati di letteratura si evince che le risposte ottimali precoci correlano con una più alta progression-free survival (pfs) e, dal punto di vista molecolare, con un precoce raggiungimento della risposta molecolare cosiddetta completa, che rappresenta un passo importante probabilmente verso la guarigione [5]. il caso della dottoressa sassolini documenta come un paziente in risposta sub-ottimale migliora la risposta molecolare sino a raggiungere la risposta molecolare completa dopo lo switch a nilotinib. di nuovo quindi si ripropone la risposta sub-ottimale. questo è un subset di pazienti che, come suggerito dalle raccomandazioni eln, rappresentano, come abbiamo già detto, la “zona grigia” tra il fallimento e la risposta ottimale. questa condizione è transitoria, potendo quindi evolvere in maniera differente. anche in questi pazienti comunque è opportuno valutare la presenza di mutazioni, in particolare nelle risposte sub-ottimali citogenetiche, per evidenziare eventuali cloni emergenti. l’analisi dei pazienti in risposta sub-ottimale ha documentato come essi rappresentino nel tempo dei potenziali fallimenti al trattamento. infatti, nell’analisi di cortes e il suo gruppo [4], i pazienti in risposta subottimale a 6 mesi avevano una significativa minore possibilità di ottenere la risposta citogenetica completa rispetto ai pazienti in risposta ottimale, con una event-free survival (efs) e una transformation-free survival (tfs) simile ai pazienti in fallimento. a 12 mesi la tfs era simile a quella dei pazienti in risposta ottimale, ma con peggiore efs. a 18 mesi invece l’outcome di questi pazienti era sovrapponibile a quello dei pazienti in risposta ottimale. il gruppo gimema ha presentato all’ash del 2009 [6] i dati dei pazienti sub-ottimali degli studi italiani. in questa analisi i pazienti in risposta sub-ottimale a 6 e 12 mesi presentano una probabilità di ottenere una risposta completa citogenetica e molecolare maggiore significativamente inferiore ai pazienti in risposta ottimale, con significativa minore efs, dato che conferma i risultati del protocollo iris nello stesso subset di pazienti [5]. è noto infatti che il tempo di raggiungimento della risposta citogenetica completa influenza significativamente il rischio di progressione di malattia [7]. di qui la necessità di cambiare inibitore, adoperando quindi un inibitore di seconda generazione che ha la capacità di ottenere risposte rapide e profonde anche in questo tipo di pazienti [8]. nello studio enact, che valutava l’efficacia e la tollerabilità di nilotinib nei pazienti affetti da lmc resistenti e/o intolleranti a imatinib, il subset di pazienti in risposta citogenetica sub-ottimale arruolati ha mostrato il raggiungimento della risposta ottimale dopo circa 4 mesi [9]. fra le varie cause di resistenza è da sottolineare anche la compliance del paziente al trattamento, che rappresenta conseguenza diretta della tollerabilità. come sappiamo, gli effetti collaterali dei tki sono legati prevalentemente ai loro effetti off target [10]. infatti la tossicità ematologica sarebbe legata all’inibizione di c-kit che sappiamo intervenire lungo tutta la linea maturativa ematopoietica. ancora, l’edema periorbitario legato a imatinib è stato imputato all’inibizione del pdgf beta con conseguente alterata permeabilità vascolare. è noto anche come la presenza di effetti collaterali possa condizionare l’efficacia dei tki [11]. in particolare, sappiamo come eventi avversi, anche se di basso grado, ma ricorrenti o persistenti, possono indurre il paziente a sospendere o ridurre la dose di 5 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) l. luciano farmaco arbitrariamente, soprattutto quando questi interferiscono con la vita quotidiana, compromettendone quindi l’efficacia. vari reports hanno sottolineato nel tempo questi aspetti [12,13], tanto che jabbour nel 2010 [14] suggerisce di considerare l’intolleranza come una vera e propria diagnosi definita come la presenza di effetti collaterali che persistono, nonostante la terapia di supporto, e che, secondo il parere del medico e del paziente, compromettono la qualità di vita in misura tale da giustificare il cambio di inibitore.. è importante sottolineare che la qualità di vita del paziente rappresenta oggi un argomento molto importante. infatti, una volta che abbiamo ottenuto una sopravvivenza globale nei pazienti affetti da lmc del 90%, come documentato dagli ultimi aggiornamenti dello studio iris, è opportuno assicurare ad essi anche una buona qualità di vita. nello studio italiano coordinato dal gimema, è stato interessante notare come per i pazienti sia importante la loro percezione di stato di salute, oltre che la limitazione al loro quotidiano inteso come percezione di stato di salute e stato emozionale. le categorie che più risentono di questo aspetto sono i pazienti giovani e le donne [15]. gli aspetti relativi alla qualità di vita si riflettono soprattutto nella compliance al trattamento e influiscono quindi sull’efficacia tessa del trattamento. infatti marin [16] ha sottolineato come, nei pazienti affetti da lmc, un’aderenza al trattamento inferiore al 90% (che significa la mancata assunzione di circa 4 giorni di terapia al mese) correli con una minore significativa efficacia del trattamento, intesa come minore mmr (risposta molecolare maggiore) a 6 anni. anche in questo studio, i pazienti giovani e con effetti collaterali si sono mostrati meno aderenti al trattamento. l’attenzione al follow-up dei pazienti affetti da lmc deve essere quindi costante e continua, attenta sia agli aspetti strettamente clinici, con il monitoraggio preciso secondo le raccomandazioni eln, sia agli aspetti di qualità di vita, valutando correttamente gli effetti collaterali per garantire una buona compliance al trattamento. tutti i nostri sforzi devono pertanto essere rivolti a ottenere e mantenere la risposta migliore possibile. gli inibitori di seconda generazione, grazie alla loro capacità di determinare risposte rapide e profonde, rappresentano di conseguenza un supporto valido anche in seconda linea di trattamento nei pazienti resistenti e/o intolleranti a imatinib, favorendo un ottimo outcome a lungo termine anche in questo tipo di pazienti. bibliografia 1. baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, saglio g, apperley j, et al. chronic myeloid leukemia : an update of concepts and management recommendations of european leukemia net. j clin oncol 2009; 27: 6041-51 2. ernst t, la rosée p, müller mc, hochhaus a. bcr-abl mutations in chronic myeloid leukemia. hematol oncol clin north am 2011; 25: 997-1008 3. soverini s, hochhaus a, nicolini fe, gruber f, lange t, saglio g, et al. bcr-abl kinase domain mutation analysis in chronic myeloid leukemia patients treated with tyrosine kinase inhibitors: recommendations from an expert panel on behalf of european leukemianet. blood 2011; 118: 1208-15 4. alvarado y, kantarjian h, o’brien s, faderl s, borthakur g, burger j, et al. significance of suboptimal response to imatinib, as defined by the european leukemia net, in the long term outcome of patients with early chronic myeloid leukemia in chronic phase. cancer 2009; 115: 3709-18 5. hochhaus a, o’brien sg, guilhot f, druker bj, branford s, foroni l, et al; iris investigators. six-year follow-up of patients receiving imatinib for the firstline treatment of chronic myeloid leukemia. leukemia 2009; 23: 1054-61 6. castagnetti f, gugliotta g, palandri f, breccia m, amabile m, iacobucci i, et al. (cml) patients with “suboptimal response to imatinib (im) according to european leukemianet criteria have a poorer outcome with respect to “optimal” responders: a gimema cml working party analysis. blood (ash annual meeting abstracts) 2009; 114: 2196 7. quintás-cardama a, kantarjian h, jones d, shan j, borthakur g, thomas d, et al. delayed achievement of cytogenetic and molecular response is associated with increased risk of 6 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) editoriale progression among patients with chronic myeloid leukemia in early chronic phase receiving high-dose or standard-dose imatinib therapy. blood 2009; 113: 6315-21 8. jabbour e, saglio g, hughes t, kantarjian h. suboptimal response in chronic myeloid leukemia. cancer 2011. doi: 10.1002/cncr.26391 9. nicolini fe, kim dw, ceglarek b, turkina a, alimena g, al-aliet hk, et al. impact of prior therapy and suboptimal response to imatinib on the efficacy and safety of nilotinib among 1422 patients with imatinibresistant or –intolerant chronic myeloid leukemia (cml) in chronic phase (cp): subanalyses of the enact study. blood (ash annual meeting abstracts) 2009; 114: 2201 10. giles fj, o’dwyer m, swords r. class effect of tyrosine kinase inhibitors in the treatment of chronic myeloid leukemia. leukemia 2009; 23: 1698-707 11. pinilla-ibarz j, cortes j, mauro m. intolerance to tyrosine kinase inhibitors in chronic myeloid leukemia. cancer 2011; 15: 688-97 12. edgerly m, fojo t. is there room for improvement in adverse event reporting in the era of targeted therapies? j natl cancer inst 2008; 100: 240-2 13. noens l, van lierde ma, de bock r, verhoef g, zachée p, berneman z, et al. prevalence, determinants, and outcomes of nonadherence to imatinib therapy in patients with chronic myeloid leukemia: the adagio study. blood 2009; 113: 5401-11 14. jabbour e, deininger m, hochhaus a. management of adverse events associated with tyrosine kinase inhibitors in the treatment of chronic myeloid leukemia. leukemia 2010; 25: 201-21 15. efficace f, baccarani m, breccia m, alimena g, rosti g, cottone f, et al; for gimema. health-related quality of life in chronic myeloid leukemia patients receiving long-term therapy with imatinib compared with the general population. blood 2011; 118: 4554-60 16. marin d, bazeos a, mahon fx, eliasson l, milojkovic d, bua m, et al. adherence is the critical factor for achieving molecular responses in patients with chronic myeloid leukemia who achieve complete cytogenetic responses on imatinib. j clin oncol 2010; 28: 2381-8 resistenza e/o intolleranza: ancora una chance! luigia luciano 1 efficacia di nilotinib in un giovane paziente affetto da lmc ad alto rischio sokal in fallimento terapeutico dopo imatinib ad alte dosi sabina russo 1, giuseppa penna 1, arianna d’angelo 1, alessandro allegra 1, andrea alonci 1, caterina musolino 1 caso clinico efficacia di nilotinib in un paziente in risposta non ottimale dopo terapia con imatinib a fronte di una ridotta compliance al nuovo farmaco francesca sassolini 1 caso clinico risposta molecolare completa indotta da nilotinib come terza linea di terapia in paziente affetta da leucemia mieloide cronica con mutazione f317l del dominio chinasico di bcr/abl maria iovine 1, mario troiano 1, giuseppe monaco 1, antonio abbadessa 1 caso clinico efficacia di nilotinib nel trattamento della lmc in fase cronica tardiva intollerante a imatinib e resistente a dasatinib emilio usala 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 41 clinical management issues megalia ed ectasia della vena cava superiore. il quadro clinico era chiaramente quello di uno scompenso cardiaco con importante componente destra. tale situazione migliorò con l’utilizzo di elevate dosi di diuretico, che ridussero il peso corporeo di circa 17 kg in 12 giorni, ottenendo inoltre una normalizzazione degli indici di necrosi epatica. all’ingresso in dea la conta leucocitaria risultava aumentata, cioè pari a 14.970/ μl con eosinofili = 42% e conta assoluta = 6.290/μl. dalla documentazione portata in un secondo tempo, il paziente presentava già una leucocitosi eosinofila (wbc = 17.200/ μl; eosinofili = 49% pari a 8.580/μl). la biopsia osteomidollare (bom) di due anni prima mostrava una cellularità del 70% con riscontro di iperplasia matura mieloide a impronta eosinofila, cd34 < 2%. la ricerca con ibridazione fluorescente in situ (fish) del riarrangiamento bcr-abl risultava negativa. la conta eosinofila rimase elevata nei controlli successivi raggiungendo il 60% dei leucociti totali pari a 9.600/μl, in caso clinico un paziente di 59 anni si presentò in dea per edemi ingravescenti agli arti inferiori, palpitazioni e dispnea. aveva una storia clinica di diabete mellito in terapia con ipoglicemizzanti orali, ipertensione arteriosa, abuso alcolico e una diagnosi di ipereosinofilia fatta circa due anni prima, ma mai ulteriormente indagata. in pronto soccorso venne riscontrata una fibrillazione atriale a elevata penetranza e all’ecocardiografia una severa cardiopatia ipocinetica con netta riduzione della frazione di eiezione (25%); gli esami ematochimici rivelarono un aumento della conta eosinofila. durante la degenza si assistette a un progressivo aumento delle transaminasi (glutammato-ossalacetato transaminasi o got = 2.152 u/l, glutammato-piruvato transaminasi o gpt = 1.431 u/l) e della lattato deidrogenasi o ldh (1.779 u/l). l’ecografia addominale mostrò un’importante epatocorresponding author dott. carlo bussolino cbussolino@asl.at.it caso clinico abstract we report a case of a 59-year-old italian man with a history of alcoholic abuse and sustained peripheral blood eosinophilia since 2 years. he arrived at our hospital with progressive oedema, palpitations, dyspnea by heart failure. during hospital stay a diagnosis of cel-nos, heart failure and hepatitis c was made. due to the severe hepatopathy and the mild hcv genotype, along with the therapeutic effect of interferon in chronic myeloid disorders, the patient was treated with peg-interferon alpha-2a 180 μg weekly and ribavirin 1,000 mg daily. at the end of the treatment the patient showed an important decrease of eosinophil count, normalisation of liver enzymes and the absence of circulating hcv-rna. keywords: eosinophilia, chronic eosinophilic leukemia, hepatitis c hypereosinophilia and hepatitis c cmi 2011; 5(suppl 2): 41-45 1 s.o.c. medicina a, “ospedale cardinal massaia” asl at carlo bussolino 1, valter saracco 1 ipereosinofilia ed epatite c ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)42 ipereosinofilia ed epatite c latata con funzione sistolica moderatamente/ gravemente compromessa per diffusa ipocinesia più marcata a livello apicale e settale, l’assenza di rigurgito mitralico, una frazione di eiezione (fe) = 35%. la coronarografia selettiva refertò un tronco comune indenne, una lunga lesione calcifica ai limiti della criticità sull’arteria interventricolare anteriore (iva) e una stenosi critica ostiale di due rami marginali (mo1 e mo2) del ramo circonflesso (cx). la rivascolarizzazione fu rimandata a un secondo tempo. la sierologia per il virus dell’epatite c (hcv ) risultò positiva, fu isolato un genotipo 2 con una carica virale notevolmente elevata (7.875.927 ui/ml) e il fibroscan® mostrò un quadro di iniziale cirrosi (stiffness = 15,8 kpa, cioè stadio di fibrosi = f4). il paziente fu dimesso con dicumarolico, digossina, ace inibitore, diuretico e insulina. due mesi dopo, viste le diverse comorbilità, il paziente fu sottoposto a biopsia endomiocardica che non rivelò un infiltrato eosinofilo, bensì un quadro compatibile con miocardite in fase di risoluzione; la polymerase chain reaction (pcr) risultò positiva per enterovirus 72. nella stessa seduta fu eseguita rivascolarizzazione delle lesioni critiche. i test di funzionalità respiratoria risultarono nella norma. completate le ulteriori indagini ematologiche, venne posta diagnosi di leucemia eosinofila cronica, non altrimenti specificata (cel-nos) in accordo con la classificazione delle neoplasie ematologiche world health organization (who) del 2008 [1] (tabella i). per limitare il lento ma progressivo aumento della conta eosinofila, il paziente ricevette un dosaggio di 1 mg/kg di cortisone, che ebbe un effetto negativo aumentando ulteriormente gli eosinofili a quote assolute di circa 14.000/μl. considerando l’epatopatia, il genotipo del virus c e l’effetto terapeutico dell’interferone sui disordini mieloproliferativi, venne intrapresa la terapia con peginterferone alfa-2a 180 μg/settimana più ribavirina 1.000 mg/die. dopo un mese gli esami ematochimici mostrarono una normalizzazione degli indici di citolisi epatica, una riduzione del 50% della conta eosinofila e una lieve trombocitopenia. a fine terapia si ottenne la negativizzazione della carica virale, la persistenza della normalizzazione delle transaminasi e un’ulteriore riduzione della conta eosinofila (wbc = 5.940/μl; eosinofili = 29,8% cioè 1.770/μl). degli eosinofili maturi (figure 1 e 2), assenza di mieloblasti, lieve fibrosi (grado 1) e rari linfociti interstiziali cd20+. l’analisi citogenetica mostrò un’anormalità cariotipica 47 xy+m in 3/12 mitosi. dal punto di vista cardiologico la ventricolografia sinistra evidenziò una cavità non difigura 1 la biopsia del midollo osseo con colorazione ematossilina-eosina e ingrandimento 10× evidenzia la presenza di iperplasia eosinofila e fibrosi figura 2 la biopsia del midollo osseo con colorazione ematossilina-eosina e ingrandimento 10× evidenzia la presenza di ipercellularità e iperplasia eosinofila assenza di sintomatologia. vennero eseguite le ricerche di cause secondarie quali uova e/o parassiti fecali, sierologia per toxocara canis, hiv e screening autoimmune, tutte risultate negative. l’identificazione del gene di fusione fip1l1-platelet derived growth factor receptor alpha (pdgfrα) e di bcr-abl risultarono negative. la bom mostrò una cellularità del 60% con un significativo aumento ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 43 c. bussolino, v. saracco tumori ematologici [1]. una sottocategoria distinta è inclusa in questo sistema di classificazione: la leucemia eosinofila cronica, non altrimenti specificata. la diagnosi di eosinofilia idiopatica implica che sia l’eosinofilia secondaria sia quella clonale siano state escluse. la sindrome ipereosinofila (hes) è una sottocategoria del tipo idiopatico e la diagnosi richiede la presenza di una conta eosinofila nel sangue periferico di 1,5 × 109/l o maggiore e danno d’organo mediato da eosinofili. la valutazione di un’ipereosinofilia non dovuta a cause reattive o secondarie deve prendere in considerazione molteplici possibilità diagnostiche [2]: ipereosinofilia associata a neoplasie miey loidi o linfoidi, positività del riarrangiamento pdgfr o fgfr1; ipereosinofilia associata a neoplasie y mieloidi riportate nella classificazione who; cel-nos; y forme linfocito-mediate; y forme idiopatiche inclusa la sindrome y ipereosinofila. attualmente le condizioni cliniche del paziente sono buone, non ha più avuto episodi di scompenso cardiaco, la fe è migliorata raggiungendo il 40%. il suo ritmo da fibrillazione atriale persistente è tornato sinusale, la carica virale a 6 mesi di distanza continua a essere soppressa ma la quota di eosinofili a due mesi di sospensione dal trattamento è raddoppiata. il follow-up è in corso. discussione l’eosinofilia è comunemente associata a un’ampia gamma di disordini non clonali e clonali. operativamente viene classificata in: secondaria; y clonale; y idiopatica. y nella maggior parte dei casi l’eosinofilia è reattiva associata a condizioni allergiche o autoimmuni, infezioni parassitiche, farmaci, immunodeficienza e disordini endocrini. l’eosinofilia clonale può accompagnare qualsiasi tumore mieloide definito dal sistema di classificazione della who per i leucemia mieloide acuta e disordini correlati neoplasie mieloproliferitive leucemia mieloide cronica, bcr-abl1 positiva y leucemia neutrofila cronica y policitemia vera y mielofibrosi primaria y trombocitemia essenziale y leucemia eosinofila cronica, non altrimenti specificata y mastocitosi y neoplasie mieloproliferative, inclassificabili y sindromi mielodisplastiche citopenia refrattaria con displasia unilineare y anemia refrattaria • neutropenia refrattaria • trombocitopenia refrattaria • anemia refrattaria con sideroblasti ad anello y citopenia refrattaria con displasia multilineare y anemia refrattaria con eccesso di blasti y anemia refrattaria con eccesso di blasti 1 • anemia refrattaria con eccesso di blasti 2 • sindrome mielodisplastica con del(5q) isolata y sindrome mielodisplastica, inclassificabile y sindromi mielodisplastiche/ neoplasie mieloproliferative leucemia mielomonocitica cronica y leucemia mieloide cronica atipica, bcr-abl1 negativa y leucemia mielomonocitica giovanile y sindromi mielodisplastiche/neoplasie mieloproliferative, inclassificabili y anemia refrattaria con sideroblasti ad anello e trombocitosi • neoplasie mieloidi e linfoidi associate a eosinofilia e anomalie genetiche neoplasie mieloidi e linfoidi associate a riarrangiamento pdgfr y α neoplasie mieloidi associate a riarrangiamento pdgfr y β neoplasie mieloidi e linfoidi associate ad anomalie fgfr1 y tabella i classificazione dei tumori mieloidi. modificata da [1] ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)44 ipereosinofilia ed epatite c quale prurito, dolori osteo-articolari, astenia e febbre, arrivando a sintomi più specifici di danno d’organo cardiaco, polmonare, neurologico, gastrointestinale, ecc. ovviamente la presenza di tale danno influirà sulla scelta e sulla tempistica della terapia. in assenza di sintomi la miglior decisione sarebbe quella di posticipare il trattamento. la presenza di un marker molecolare di sensibilità a imatinib è l’unico caso in cui un trattamento precoce sulla monoclonalità eosinofila evita l’evoluzione della malattia, puntando alla remissione clinica e molecolare completa. alcuni autori esprimono la propria opinione, non supportati dall’evidenza, sull’evitare un trattamento della forma asintomatica idiopatica in presenza di una conta eosinofila “non drammatica” (< 30.000/μl) [2]. l’infezione da virus dell’epatite c si associa a volte a disordini di tipo extraepatico quali malattie autoimmuni, crioglobulinemia mista, disordini linfoproliferativi che in alcuni casi evolvono in linfoma non hodgkin di tipo b; studi italiani hanno confermato tale associazione [5]. svariati casi di ipereosinofilia ed epatite c sono riportati in letteratura: tra le casistiche più importanti vi è quella di tarantino, in cui nel 31% dei casi sono stati ritrovati infiltrati epatici eosinofili, dovuti soprattutto all’assunzione di farmaci più che al virus stesso [6]. i vari passaggi da seguire per raggiungere un diagnosi specifica sono riportati nella figura 3. tefferi e colleghi hanno elaborato un algoritmo da seguire considerando lo striscio periferico, la biopsia osteomidollare, l’analisi citogenetica e gli studi molecolari per l’identificazione di geni di fusione tra cui il fip1l1-pdgfrα, capostipite di una serie di proteine di attività tirosin-chinasica implicate nella patogenesi di alcune delle forme mieoloproliferative che rispondono in modo significativo alla terapia con imatinib mesilato [2]. nel 1912 stillman fu il primo a descrivere la leucemia eosinofila, ma solo nel 1996 weide e collaboratori individuarono una sindrome mieloproliferativa caratterizzata da un marcato aumento di eosinofili con una fase acuta e cronica [3,4]. la distinzione tra cel-nos e la forma idiopatica spesso risulta arbitraria. la prima è a tutti gli effetti una malattia mieloproliferativa caratterizzata da una proliferazione monoclonale di eosinofili che dominano il quadro ematologico sullo striscio periferico e sul midollo osseo in maniera prolungata nel tempo associata alla presenza di una anormalità citogenetica. entrambe le forme possono essere accompagnate da un danno tissutale che può essere il più eterogeneo possibile variando da una sintomatologia del tutto aspecifica figura 3 algoritmo diagnostico per l ’eosinofilia clonale o idiopatica. modificato da [2] cel-nos = leucemia eosinofila cronica, non altrimenti specificata; fish = ibridazione fluorescente in situ; hes = sindrome ipereosinofila; pdgfr = platelet-derived growth factor receptor; rt-pcr = reverse transcription polymerase chain reaction; tcr = t-cell receptor; who = world health organization primo passo screening del sangue periferico per fip1l1-pdgfrα usando fish o rt-pcr secondo passo biopsia del midollo osseo con citogenetica terzo passo fenotipizzazione dei linfociti del sangue periferico e studio dei riarrangiamenti genici del tcr tutti negativi eosinofilia clonale associata a fip1l1-pdgfrα eosinofilia clonale con riarrangiamento di pdgfrβ eosinofilia clonale con riarrangiamento di fgfr1 cel-nos o altra neoplasia mieloide definita dalla who variante “linfocitica” dell’ipereosinofilia eosinofilia idiopatica inclusa hes mutazione presente linfociti anomali o clonali presenti traslocazione 5q33 presente traslocazione 8p11 presente altre anomalie o eccesso di blasti presenti ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 45 c. bussolino, v. saracco un altro caso di ipereosinofilia fu scatenato dalla terapia con interferone beta [7]. tuttavia è stato segnalato un solo caso di leucemia eosinofila cronica associata a epatite cronica hcv correlata [8]. in tale occasione il paziente era stato trattato in un primo momento con steroidi ottenendo un parziale beneficio; continuò poi con la terapia di associazione peg-interferone e ribavirina. a causa dell’intensa astenia ridusse l’interferone con effetti deleteri sulla conta eosinofila e fu apparentemente per questo motivo che, pur avendo tutti i marker di sensibilità a imatinib negativi, iniziò tale farmaco a elevato dosaggio ottenendo la remissione clinica e la normalizzazione della conta eosinofila. nel nostro caso, come d’altronde in letteratura, l’associazione delle due patologie e il ruolo del virus c sull’ipereosinofilia non sono chiari. un’unica terapia è riuscita per il momento a controllare le due entità nosologiche verosimilmente con meccanismi differenti. il follow-up continuerà fino a che il paziente non presenterà danni d’organo. la nostra scelta sarà quella di posticipare qualsiasi trattamento. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. bibliografia tefferi a, vardiman jw. classification and diagnosis of myeloproliferative neoplasms: the 2008 1. world health organization criteria and point-of-care diagnostic algorithms. leukemia 2008; 22: 14-22 tefferi a, gotlib j, pardanani a. hypereosinophilic syndrome and clonal eosinophilia: point-2. of-care diagnostic algorithm and treatment update. mayo clinic proc 2010; 85: 158-64 stillman rg. a case of myeloid leukemia with predominance of eosinophil cells. 3. med rec 1912; 81: 594 weide r, rieder h, mehraein y, wolf m, kaiser u, seifart u et al. chronic eosinophilic 4. leukemia: a distinct myeloproliferative disease. br j haematol 1996; 96: 117-23 mele a, pulsoni a, bianco e, musto p, szklo a, sanpaolo mg et al. hepatitis c virus and b-cell 5. non-hodgkin lymphomas: an italian multicenter case-control study. blood 2003; 102: 996-9 tarantino g, cabibi d, cammà c, alessi n, donatelli m, petta s et al. liver eosinophilic 6. infiltrate is a significant finding in patients with chronic hepatitis c. j viral hepat 2008; 15: 523-30 gattoni a, romano c, cecere a, caiazzo r. eosinophilia friggere by beta-interferon therapy 7. for chronic hepatitis c. eur j gastroenterol hepatol 1997; 9: 909-11 kamineni p, baptiste a, hassan m, dawkins fw, zaidi 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added. a further exacerbation prompted the replacement of antibiotic therapy with tazobactam-piperacillin and metronidazole. owing to the detection in fecal examination of cdi signs, tazobactam-piperacillin were replaced with vancomicin. due to the persistence of symptoms, the worsening of physical conditions and the onset of pseudomembranous colitis and toxic megacolon, fidaxomicin therapy was started, with symptom resolution in few days. a patient’s follow-up at five months post-treatment showed no cdi recurrence. keywords: pseudomembranous colitis; toxic megacolon; clostridium difficile; trauma; fidaxomicin pseudomembranous colitis and toxic megacolon due to c. difficile in an inpatient hospitalized for home accident cmi 2015; 9(suppl 1): 17-23 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i1s.1158 caso clinico corresponding author piergiorgio chiriacò chiriaco@tin.it disclosure il presente supplemento è stato realizzato con il supporto di astellas pharma s.p.a. perché descriviamo questo caso dato il notevole impatto sulla salute dell’infezione da clostridium difficile e la sua crescente incidenza, è importante conoscere le possibilità terapeutiche per la cura della patologia. tra i pazienti maggiormente a rischio vi sono coloro che, come nel caso descritto, sono sottoposti a lunghi periodi di degenza e soggetti a plurime terapie antibiotiche introduzione l’infezione da clostridium difficile (cdi) rappresenta la più frequente causa di diarrea nosocomiale. la manifestazione clinica della cdi varia dalla forma asintomatica alla diarrea moderata fino alla colite pseudomembranosa [1]. i potenziali fattori di rischio di cdi includono fattori legati all’ospite [2], l’impiego di inibitori di pompa protonica gastrica e l’uso di antibiotici [3-7]. la terapia antibiotica altera le difese dell’ospite, garantite dalla flora batterica colica, aumentando il rischio di cdi [6]. gli antibiotici maggiormente coinvolti sono clindamicina, penicillina, le cefalosporine e i chinolonici [4,6,7]. tra i farmaci raccomandati in prima linea per il trattamento della cdi vi sono metronidazolo e vancomicina al dosaggio, rispettivamente, di 500 mg per os 3 volte/die e di 125 mg per os 4/die per 10-14 giorni [8]. si è osservato, però, che alcuni pazienti non rispondono a queste terapie e altri ancora manifestano ricorrenza di infezione nonostante un’iniziale risposta clinica. il tasso di ricorrenza dimostrato va dal 7 al 17% per vancomicina e dal 5 al 21% per metronidazolo [9]. nel seguente caso clinico riportiamo il successo del trattamento con fidaxomicina in un paziente con cdi resistente a metronidazolo e vancomicina. caso clinico descriviamo il caso clinico di un uomo di 72 anni accolto presso il pronto soccorso della nostra struttura ospedaliera (ospedale a. perrino, brindisi) il 17 ottobre 2013 alle ore 12:21 con codice giallo. il paziente riferisce di essere caduto da uno scaleo nel giardino della propria abitazione. a seguito di tale incidente domestico, presenta: trauma cranio-facciale con frattura pluri-frammentaria delle ossa nasali, del setto e della parete superiore dell’orbita destra con modesto emoseno, frattura esposta tibio-tarsica e ferita lacero-contusa dell’arcata sopracciliare destra e piramide nasale. dopo gli approfondimenti radiologici e le consulenze chirurgo-plastica e otorinolaringoiatrica, il paziente viene ricoverato presso l’u.o.c. di ortopedia e traumatologia, dove vengono impostate una terapia per la profilassi della trombosi venosa profonda (tvp) con eparine a basso peso molecolare, una terapia analgesica e una terapia antibiotica con cefazolina 2 g × 2 ev. nel reparto di ortopedia, seguiti i comuni accertamenti preoperatori e ottenuto il nulla osta anestesiologico (asa iii), il 19 ottobre 2013 il paziente viene sottoposto a intervento chirurgico di riduzione della lussazione esposta della caviglia e sintesi dei malleoli con viti. durante tale procedura si riscontrano un’importante sofferenza cutanea post-traumatica della faccia laterale della caviglia destra, perdita di sostanza del tendine tibiale posteriore, lesione dell’arteria tibiale, che viene suturata, e perdita di sostanza ossea del malleolo tibiale. durante la seduta si applica un fissatore esterno in trazione e si esegue un ecocolordoppler di controllo dell’arteria tibiale con riscontro di buona perfusione. alla luce di questa situazione clinica si ritiene opportuno sostituire la terapia antibiotica precedentemente impostata (cefazolina 2 g x 2 ev), con teicoplanina 400 mg/die ev + levofloxacina 500 mg/die per os. nella terza giornata postoperatoria si rileva la comparsa di alvo diarroico accompagnato da febbricola. all’esame obiettivo si riscontra un addome globoso, trattabile ma dolente alla palpazione profonda con notevole meteorismo diffuso. viene richiesta ed eseguita una consulenza geriatrica, a seguito della quale si effettuano un esame parassitologico e colturale delle feci, un rx diretto addome (figura 1) e un’ecografia addominale. inoltre, viene consigliato di aggiungere alla terapia antibiotica rifaximina 2 compresse 2/die, oltre alla somministrazione di loperamide 1 compressa 3/die e all’assegnazione di una dieta povera di scorie. figura 1. rx diretto addome in decubito supino che evidenzia una marcata iperdistensione delle anse tenuali e coliche con livelli idroaerei nel contesto. è presente una coprostasi colica successivamente, per l’esacerbazione della sintomatologia con forti algie addominali, si richiede, sempre in ortopedia, una visita chirurgica in regime di urgenza. il collega chirurgo, all’esame obiettivo, rileva un addome globoso, meteorico, non dolente alla palpazione, alvo canalizzato a feci diarroiche e a gas con ampolla vuota all’esplorazione rettale. consiglia di continuare con la terapia in atto e di eseguire una rivalutazione internistica. inoltre, segnala un’ipoalbuminemia (2,30 g/dl) e un’iponatriemia (130 mmol/l) da correggere. dall’ecografia addome si rilevano: colecisti completamente ripiena di fango biliare, minimo versamento liquido peri-epatico e peri-splenico e piccola falda liquida, in addome, inferiore di 40 × 60 mm. alla luce del quadro ecografico, viene effettuata una valutazione chirurgica che, nel sospetto di un’enterocolite batterica, porta al suggerimento di una coprocoltura e di una consulenza infettivologica. si escludono, in questa fase, pertinenze chirurgiche. in settima giornata dalla comparsa della sintomatologia addominale si espleta la consulenza infettivologica. l’addome è globoso, trattabile ipertimpanico con un quadro compatibile con ileo paralitico. si rileva la presenza di leucocitosi neutrofila (leucociti = 17.300/mm3; neutrofili = 87%). in attesa dell’esito dell’esame chimico, fisico e colturale delle feci per germi patogeni e clostridium difficile si modifica la terapia antibiotica precedentemente impostata (teicoplanina e levofloxacina) con tazobactam-piperacillina 4,5 g × 3/die ev + metronidazolo 500 mg × 3/die ev. vengono richiesti, inoltre, rx torace e rx diretto dell’addome (figura 2) che, confrontati con i precedenti, dimostrano un discreto incremento della marcata iperdistensione delle anse tenuali e coliche. inoltre, l’esame fisico-chimico (presenza di muco e sangue), parassitologico e colturale delle feci per e. coli, shigella, salmonella, clostridium difficile e ricerca di rotavirus e adenovirus risultano negativi. figura 2. rx addome eseguito in proiezione frontale in clinostatismo e in proiezione laterolaterale con tubo a bandiera. si osserva un discreto incremento della marcata iperdistensione delle anse tenuali e coliche. nel radiogramma eseguito in proiezione laterolaterale con tubo a bandiera si evidenziano alcuni livelli idroaerei. non falci di aria libera endoperitoneali il paziente viene, quindi, trasferito presso la nostra u.o.c. di malattie infettive. all’esame obiettivo il paziente si presenta vigile, collaborante, eupnoico, con cute calda non sudata e lingua asciutta e impaniata. non sono presenti segni di sofferenza cardio-respiratoria; l’addome è disteso, timpanico, trattabile alla palpazione superficiale e profonda e l’alvo è diarroico. la pressione arteriosa è di 130/70 mmhg, la temperatura corporea di 38,9° con leucocitosi neutrofila (leucociti = 23.360/mm3; neutrofili = 91,40%) e incremento della creatinina (1,8 mg/dl). si provvede, pertanto, a incrementare la reidratazione endovenosa, a ripetere gli esami emato-chimici e quelli colturali con ricerca delle tossine a e b del clostridium difficile nelle feci. nelle ore successive si ha, però, un peggioramento delle condizioni generali e, in attesa dell’rx addome di controllo (figura 3) e di una rivalutazione chirurgica, si apprende telefonicamente dal laboratorio di microbiologia la positività per antigene e tossine a e b del clostridium difficile. pertanto viene prontamente sospesa la terapia con tazobactam-piperacillina e prescritta vancomicina per os 500 mg per 4/die lasciando invariata la posologia di metronidazolo. figura 3. rx addome di controllo che, confrontato con la precedente indagine, presenta incremento della distensione meteorica delle anse del tenue, con presenza di multipli livelli idroaerei nel radiogramma eseguito in proiezione tangenziale. non aria libera dopo 24 ore dal trasferimento, le condizioni cliniche del paziente peggiorano (pressione arteriosa = 110/70 mmhg; i risultati dell’emogasanalisi sono riportati nella tabella i) tanto da dover ricorrere all’ossigenoterapia e, data la presenza di fratture nasali, alla fibroscopia flessibile per il posizionamento di un sondino naso-gastrico; l’alimentazione viene sospesa. inoltre viene eseguita una colonscopia (figura 4) in regime di urgenza, con riscontro di un quadro endoscopico da colite pseudomembranosa. dopo 3 giorni dall’inizio della somministrazione di vancomicina, le condizioni del paziente non tendono a migliorare e il quadro si complica ulteriormente con un’infezione delle vie urinarie da pseudomonas aeruginosa (100.000 ufc/ml) e da un modesto deficit respiratorio. si decide di non trattare l’infezione delle vie urinarie per non aggravare ulteriormente la situazione intestinale. parametro valore riscontrato valori normali ph 7,49 7,38-7,42 pco2 (mmhg) 28,9 35-45 po2 (mmhg) 57 80-100 hco3(meq/l) 23,7 21-30 eccesso di basi (mmol/l) 1,6 tra -2 e +2 tabella i. risultati dell’emogasanalisi figura 4. colonscopia condotta d’urgenza fino al colon discendente in paziente non preparato. il viscere esplorato si presenta dilatato e atonico, ricoperto in tutti i segmenti esplorati da pseudomembrane biancastre. si esegue l’aspirazione di una notevole quantità di aria e feci con detensione addominale e miglioramento della sintomatologia. impossibile proseguire oltre il colon discendente per la presenza di feci semisolide che impediscono la progressione dello strumento. quadro endoscopico come da colite pseudomembranosa viene, pertanto, sottoposto a rx del torace e rx addome (figura 5), che conferma la marcata distensione meteorica delle anse enterocoliche, successivamente confermata dalla tc addome. figura 5. rx torace tecnicamente limitato in urgenza. ombra cardiaca affondata negli emidiaframmi. non evidente falce di aria libera subfrenica. marcata distensione meteorica delle anse enterocoliche dalla tc addome (figura 6), eseguita successivamente, si riscontrano una sovradistensione enterocolica con multipli livelli idro-aerei, una sottile falda di versamento in corrispondenza della doccia parieto-colica di destra e di sinistra e anche nello scavo pelvico. accessoriamente, si osserva una falda di versamento pleurico bilaterale con consensuale area disventilatoria bilaterale. figura 6. tc addome eseguita senza mdc ev, per alterata funzionalità renale. non aria libera. sovradistensione entero-colica con multipli livelli idroaerei. sottile falda di versamento in corrispondenza della doccia parietocolica di destra e di sinistra e nello scavo pelvico. ispessita la fascia lateroconale bilaterale. imbibita la radice del mesentere. per quanto dato valutare non alterazioni tomodensitometriche del parenchima epatico, pancreatico, splenico e renale. accessoriamente si segnala falda di versamento pleurico bilaterale con consensuale area disventilatoria bilaterale preso atto della scarsa o nulla risposta terapeutica a vancomicina per os e a metronidazolo ev si reimposta una terapia con fidaxomicina compresse da 200 mg per 2/die con continuo monitoraggio dei parametri emato-chimici e vitali unitamente alla correzione elettrolitica. dopo 24 ore dalla nuova terapia si rimuove il sondino naso-gastrico e si dà inizio alla rialimentazione con yogurt e omogeneizzati. dopo 4 giorni dall’inizio della somministrazione di fidaxomicina, il paziente migliora, è apiretico, normoteso e le feci tendono alla formazione. dopo una settimana l’addome è trattabile, non dolente né dolorabile alla palpazione e la ricerca nelle feci della tossina a e b del clostridium difficile risulta negativa. il paziente inizia, dopo consulenza fisiatrica e ortopedica, un piano riabilitativo di fisioterapia. il paziente viene trattenuto, ancora, in malattie infettive per problematiche riabilitative e ortopediche e viene dimesso l’11 dicembre 2013 con la seguente diagnosi: colite pseudomembranosa e megacolon tossico da clostridium difficile in paziente con frattura esposta di tibia e perone destro con lussazione posteriore tibio-perone-astragalica; trauma cranio-facciale non commotivo con frattura pluri-frammentaria delle ossa nasali e del setto nasale; frattura della parete superiore dell’orbita destra con modesto emoseno frontale destro; ferite lacero-contuse del volto e del cuoio capelluto; infezione delle vie urinarie da pseudomonas aeruginosa multi-drug resistant. il paziente viene seguito in follow-up presso il nostro ambulatorio, dapprima settimanalmente, poi con cadenza quindicinale e infine mensile sino al mese di aprile del 2014. durante il follow-up, basato sull’esame clinico del paziente e sull’esecuzione di coprocolture per la ricerca di clostridium difficile nonché della ricerca delle tossine a e b specifiche, non abbiamo evidenziato alcuna positività o ricaduta. inoltre al paziente è stato richiesto di mettersi in contatto con l’ambulatorio in caso di manifestazione di alvo dispeptico o diarroico. la successione di antibiotici somministrati per la cdi e la loro efficacia sono riportate nella tabella ii. farmaco usato tempo in terapia risoluzione diarrea metronidazolo 4 giorni no metronidazolo + vancomicina 9 giorni no fidaxomicina 10 giorni sì, dopo 6 giorni tabella ii. riassunto schematico delle risposte cliniche del paziente alle terapie somministrate contro il clostridium difficile discussione e conclusioni l’infezione da clostridium difficile pone una serie di problematiche per l’incidenza crescente nei reparti di terapia intensiva e di degenza, ma anche nelle residenze sanitarie assistenziali e nelle case di riposo, per la difficoltà del trattamento e, non ultima, per la frequenza delle recidive. il caso in oggetto dimostra come un’infezione contratta in ambito ospedaliero possa risultare estremamente grave, arrivando a mettere a repentaglio la vita stessa del paziente. un ruolo determinante è stato svolto, in questo caso, da scelte poco appropriate in tema di antibioticoterapia da parte degli specialisti che si sono susseguiti al capezzale del paziente, quali ad esempio la sostituzione di una cefalosporina (cefazolina 2 g per due/die) dopo 48 ore senza un valido razionale scientifico da una terapia con teicoplanina 400 mg/die ev associata a levofloxacina 500 mg per due/die. nonostante la comparsa di alvo dispeptico e, successivamente, diarroico con un peggioramento ingravescente delle condizioni cliniche generali, non è stata subito ipotizzata la presenza di un’infezione da clostridium difficile quale complicanza terapeutica. dopo diciannove giorni è stato cominciato un nuovo trattamento, questa volta con tazobactam/piperacillina 4,5 g per tre/die ev associato a metronidazolo 500 mg per tre/die ev. ma solo quando il laboratorio di microbiologia ha segnalato la positività delle tossine a e b del clostridium, nonostante un esame coprocolturale in tal senso di qualche giorno prima avesse dato esito negativo, verosimilmente da correlare a una cattiva conservazione del campione o a un ritardo della consegna al laboratorio dello stesso, si sostituisce tazobactam/piperacillina con vancomicina 500 mg per 4/die per os, mantenendo metronidazolo. questa terapia è specifica per l’infezione da clostridium difficile ma, nel nostro caso, si è rivelata inefficace, tanto da dover impiegare fidaxomicina 200 mg per due/die per dieci giorni. l’uso e l’abuso di antibiotici, soprattutto quelli a largo spettro utilizzati, hanno alterato profondamente la flora batterica intestinale, generando le condizioni per l’instaurarsi dell’infezione, che successivamente ha determinato l’insorgenza il megacolon tossico. a nostro avviso, l’impiego di fidaxomicina può essere risolutivo, come dimostrato dal caso qui descritto. fidaxomicina appartiene alla classe degli antibatterici macrociclici e inibisce la sintesi dell’rna da parte della rna-polimerasi batterica. si tratta di un farmaco a esclusivo uso ospedaliero o in strutture assimilabili. la posologia raccomandata è quella somministrata al nostro paziente, una compressa da 200 mg per due volte al dì per dieci giorni. un netto miglioramento sia delle condizioni generali sia dell’alvo è stato ottenuto già al quarto giorno di terapia, mentre la risoluzione è avvenuta al sesto-settimo giorno con la terapia ancora in atto. inoltre, studi controllati presenti in letteratura hanno dimostrato pari efficacia rispetto a vancomicina [10]. fidaxomicina si distingue soprattutto per l’assenza o la netta riduzione delle recidive [11], a loro volta causa di ulteriore diffusione e contaminazione ambientale, che nel nostro paziente non si sono verificate. punti chiave l’infezione da clostridium difficile è la causa più frequente di diarrea nosocomiale tra le sue manifestazioni più gravi vi sono la colite pseudomembranosa e il megacolon tossico la terapia antibiotica è un fattore di rischio riconosciuto in quanto altera la flora batterica intestinale metronidazolo e vancomicina, da soli o in associazione, in alcuni pazienti non sono efficaci la somministrazione di fidaxomicina può essere efficace nella risoluzione della sintomatologia e nella riduzione del rischio di ricorrenza di infezione, a fronte di una bassa incidenza di effetti collaterali bibliografia 1. elliott b, chang bj, golledge cl, et al. clostridium difficile-associated diarrhoea. intern med j 2007; 37: 561-8; http://dx.doi.org/10.1111/j.1445-5994.2007.01403.x 2. mcfarland lv. update on the changing epidemiology of clostridium difficile-associated disease. nat clin pract gastroenterol hepatol 2008; 5: 40-8; http://dx.doi.org/10.1038/ncpgasthep1029 3. aldeyab ma, harbarth s, vernaz n, et al. quasi experimental study of the effects of antibiotic use, gastric acid-suppressive agents, and infection control practices on the incidence of clostridium difficile-associated diarrhea in hospitalized patients. antimicrob agents chemother 2009; 53: 2082-8; http://dx.doi.org/10.1128/aac.01214-08 4. thomas c, stevenson m, riley tv. antibiotics and hospital-acquired clostridium difficile-associated diarrhoea: a systematic review. j antimicrob chemother 2003; 51: 1339-50; http://dx.doi.org/10.1093/jac/dkg254 5. vernaz n, hill k, leggeat s, et al. temporal effects of antibiotic use and clostridium difficile infections. j antimicrob chemother 2009; 63: 1272-5; http://dx.doi.org/10.1093/jac/dkp128 6. owens rc jr, donskey cj, gaynes rp, et al. anti-microbial-associated risk factors for clostridium difficile infection. clin infect dis 2008; 46 (suppl. 1): s19-s31; http://dx.doi.org/10.1086/521859 7. pépin j, saheb n, coulombe ma, et al. emergence of fluoroquinolones as the 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all’ospedalizzazione, dopo terapia con antiemetici e idratazione, le condizioni migliorano e vengono richieste gastroscopia, pancolonscopia, marker oncologici (risulterà cea = 10 ng/ml) ed ecografia dell’addome (da cui emerge la presenza di steatosi epatica). il pomeriggio del giorno stesso il paziente viene sottoposto a gastroscopia, a seguito della quale viene riscontrata candidosi esofagea. in serata compare anche febbre caso clinico un uomo di 53 anni si reca in dea (dipartimento di emergenza e accettazione) per profonda astenia, malessere generale e un episodio di vomito alimentare. nell’ultima settimana ha sospeso i farmaci antipertensivi a causa di ipotensione, è iporessico, ma non lamenta febbre, sudorazioni, dispnea o alterazioni dell’alvo o della minzione. in anamnesi riferisce diabete mellito in terapia ipoglicemizzante orale, sindrome nefrosica (mai indagata completamente), ipertensione arteriosa e anemia refrattaria; inoltre è stato un debole fumatore e in passato uno sportivo a livello agonistico. la terapia domiciliare è: gliclazide 1 cpr × 3, ramipril 10 mg, nebivololo 1 cpr, amlodipina 10 mg, doxazosina 4 mg. in pronto soccorso viene sottoposto a visita medica, nella quale non viene evidenziata alcuna alterazione di rilievo. inoltre il paziente appare in ottime condizioni generali, normopeso, con buon trofismo muscolare e pressione arteriosa in ortostatismo = 110/70 mmhg. corresponding author dott.ssa roberta re roberta.re@tin.it caso clinico abstract we report the case of a patient who presents subacute onset of interstitial pneumonia with rapidly progressive respiratory failure, sepsis and acute thrombotic complication. the diagnosis of the underlying pathology, the hiv infection, is made at the fifth day of hospitalisation, while the bal allows also the detection of pneumocistis jiroveci and cmv. here we discuss the importance of an early diagnosis and the management of antibiotic and antithrombotic therapy in this kind of patients. keywords: interstitial pneumonia, immunosuppression, thrombocytopenia the subacute onset of a bilateral interstitial pneumonia cmi 2011; 5(suppl 2): 27-33 1 medicina interna ii, dipartimento medico aou “maggiore della carità” novara roberta re 1 una polmonite interstiziale bilaterale ad esordio sub-acuto ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)28 una polmonite interstiziale bilaterale ad esordio sub-acuto gli esami ematochimici mostrano i seguenti risultati: plts = 67.000/mm3, wbc = 5.500/mm3, creatinina = 1 mg/dl, ldh = 1.759 ui/l, pcr = 15 mg/l, coagulazione e funzione epatica nella norma. per cercare le cause di interstiziopatia si richiede l’esecuzione di antigene urinario della legionella, ricerca di micoplasma, pneumocystis (su espettorato), citomegalovirus (cmv ), virus di epstein-barr (ebv ), anticorpi anti-antigeni nucleari estraibili (ena), anticorpi anti-nucleo (ana), anticorpi anticitoplasma dei neutrofili (anca), immunocomplessi circolanti (icc), frazione c3 del complemento, enolasi neurone-specifica (nse), cytokeratin fragment (cyfra) nel sospetto diagnostico differenziale anche di linfangite carcinomatosa con sovrainfezione. viene modificata la terapia antibiotica, sospendendo ceftriaxone e introducendo imipenem; prosegue però con levofloxacina a cui viene aggiunta azitromicina. le condizioni però peggiorano rapidamente con una progressiva escalation di somministrazione di o2: maschera venturi (mv ) 40% 6 l/min → mv 50% → mv 60% 10 l/min. alle ore 19.00 si registrano temperatura = 40 °c e pa = 90/60 mmhg, dunque si decide di proseguire l’infusione di liquidi (3.500 cc), antipiretici e o2. alle ore 20.00 vengono rilevate temperatura = 41 °c e pa = 80/50 mmhg: si effettua quindi il fluid challenge test senza risultato, per cui all’idratazione vengono associate le amine (dopamina 5-6 μg/kg). ma la saturazione non supera 88% in reservoir. in accordo con il collega rianimatore consultato, il paziente incomincia l’uso della maschera a ventilazione continua positiva c-pap (peep = 7,5 cmh2o). alle ore 24.00 i parametri misurati restituiscono i seguenti valori: pa = 100/70 mmhg, saturazione o2 = 94% in c-pap, neurologicamente non presenta deficit, diuresi 1,700 ml dalle ore 8.00, fr = 28 atti respiratori/min. al mattino il paziente persiste in condizioni di gravità invariate e dal laboratorio giunge la notizia della positività del test hiv; il paziente inizia quindi la terapia con trimetoprim-sulfametossazolo ev e viene sottoposto presso la terapia intensiva all’esecuzione di lavaggio broncoalveolare (bal) che darà esito di polmonite da pneumocystis jiroveci e cmv. a causa della presenza di piastrinopenia ingravescente al paziente non era stata somministrata terapia anticoagulante; l’ecocolordoppler degli arti inferiori risultava negativo per le patologie trombotiche. con brivido (38,6 °c), e dunque si decide di procedere alle emocolture; inoltre inizia terapia antibiotica con ceftriaxone 2 g ev e levofloxacina 500 mg per os. il mattino dopo il paziente è ancora febbrile, ma i parametri (pressione arteriosa, frequenza cardiaca, saturazione o2, frequenza respiratoria) sono nella norma. nuovamente indagato, il paziente riferisce tosse secca senza febbre da circa un mese: vengono quindi richieste una tc torace per valutare l’eventuale presenza di patologia interstiziale, tubercolosi o patologia eteroplastica e la ricerca del virus hiv per il riscontro di candidosi esofagea. il mattino successivo (4° giorno di ricovero) alle ore 8, dopo essersi alzato dal letto per recarsi in bagno, si accascia a terra senza perdere coscienza, nega alcun sintomo eccetto importante astenia, ma i parametri bioumorali sono cambiati: pressione arteriosa (pa) = 140/70 mmhg; frequenza cardiaca = 120 battiti/min, saturazione o2 = 76% in aria ambiente (aa), frequenza respiratoria (fr) = 28 atti respiratori/min, temperatura = 38,2 °c. viene somministrato o2 a bassi flussi, con buona correzione dell’ipossia (saturazione o2 = 95%); l’ecg rileva tachicardia sinusale, mentre l’emogasanalisi evidenzia ipossia-ipocapnia con bicarbonati e lattati nella norma. viene quindi richiesta tc torace in urgenza al dea nel sospetto di malattia tromboembolica (paraneoplastica?). l’esito della tc conferma la presenza di piccola embolia polmonare a carico di un ramo tributario per il lobo inferiore sinistro, ma soprattutto mostra un quadro compatibile con pneumopatia interstiziale (figura 1). figura 1 tc torace del paziente al 4° giorno di ricovero: si evidenziano la presenza di una piccola embolia polmonare a carico di un ramo tributario per il lobo inferiore sinistro, ma soprattutto «diffuso incremento della densità parenchimale polmonare, bilateralmente, con risparmio esclusivamente delle regioni parenchimali submantellari; reperto compatibile con pneumopatia interstiziale. sono presenti inoltre alcuni linfonodi mediastinici ingranditi, il maggiore dei quali localizzato lungo la riflessione aortica, ha maggior asse di 18 mm circa» ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 29 r. re identificano pattern istologici e radiologici differenti [1]: y nonspecif ic inte rstitial pneumonitis (nsip); y cr yptogenetic organizing pneumonia (cop); y respiratory bronchiolitis-associated interstitial lung disease (rbild); y desquamative interstitial pneumonitis (dip); y lymphocytic interstitial pneumonitis (lip); y acute interstitial pneumonitis (aip); y idiopathic pulmonary fibrosis (ipf). dal punto di vista anatomo-patologico le lesioni possono evolvere in stadi e in momenti diversi nello stesso paziente, dando origine a quadri differenti ed evolutivi spesso in un continuum fino alla fibrosi polmonare [2]. si passa quindi da un pattern infiammatorio caratterizzato da lesioni a vetro smerigliato, aumentata opacità polmonare senza distorsione dei vasi o dei bronchi prevalentemente localizzato in sede centrale (es. nsip, dip, cop) fino ad arrivare a un pattern fibrotico caratterizzato da infiltrati reticolonodulari, formazione di cisti fino alla formazione dell’honeycomb (nido d’ape) bilaterale, soprattutto in sede periferica e basilare con talvolta coinvolgimento della pleura (es. ipf, cop, sarcoidosi) [3]. tra le cause più frequenti annoveriamo: cause occupazionali e ambientali: polveri y inorganiche (silice, asbesto, metalli pesanti), organiche (grano, polveri di uccelli), sostanze che provocano polmoniti da ipersensibilità; infezioni: virus, batteri, protozoi, funghi; y radiazioni: (la radioterapia per la cura dei y carcinomi al polmone e alla mammella); farmaci: antiaritmici (amiodarone), antipy sicotici, alcuni antibiotici, chemioterapia (ct), statine; secondarie a malattie sistemiche, ad esemy pio reumatologiche: lupus eritematoso sistemico (les), sindrome di sjogren, sclerodermia, artrite reumatoide (ar), dermatomiosite, sarcoidosi, sindrome di goodpasture; altro: secondo alcune ipotesi la malattia da y reflusso gastro-esofageo (gerd); cause sconosciute definite “pneumopatie y interstiziali idiopatiche” (iip). tra i fattori predisponenti ricordiamo la o2-terapia ad alti flussi, il fumo e l’età. durante la degenza nel reparto di malattie infettive, emerge un grave deficit dell’immunità cellulo-mediata (cd4 = 30 cell/μl); il paziente prosegue la terapia con fluconazolo 150 mg per os e trimetoprimsulfametossazolo ev (20/100 mg/kg/die; 4 fl × 4) e steroidi (beclometasone 4 mg x 2). per la positività ematica di dna cmv, il paziente inizia una terapia con ganciclovir ev (5 mg/kg × 2/die; poi per os 900 mg 2 cpr) e ovviamente viene sottoposto a terapia antiretrovirale con atazanavir (400 mg) e raltegravir (400 mg × 2). dopo 4 giorni dalla diagnosi di embolia polmonare, con aumento delle piastrine a valori > 75.000/ mm3 ha iniziato fondaparinux 7,5 mg 1 fl/ die. durante la degenza ha eseguito anche tc encefalo e addome (fegato ingrandito, steatosico) e ricerca di lue, toxoplasma gondii, hcv e hbv, risultati tutti negativi. alla dimissione il paziente presenta wbc = 3.000 mm3 e ldh = 500 ui/l. discussione alla luce della gravità del quadro clinico ma soprattutto della velocità con cui si è instaurato, sono rimasti, alla fine della fatidica giornata in cui il paziente si è repentinamente aggravato, alcuni quesiti aperti: sarebbe stato indicato utilizzare da subito y sulfametoxazolo/trimetoprim nelle polmoniti interstiziali? sarebbe stata indicata la terapia steroidea nell’interstiziopatia? riguardo alla profilassi antitrombotica: y sarebbe stato indicato proporre una profilassi in un paziente anemico ma affetto da sindrome nefrosica e in cui si sospettava una malattia neoplastica? riguardo alla terapia antitrombotica: alla y luce dei fattori di rischio (ventilazione non invasiva (niv ) + sepsi) sarebbe stato indicato utilizzare mezzi meccanici in un paziente che aveva comunque già manifestato l’evento tromboembolico? qual è il cut-off piastrinico al di sotto del quale non è consigliato utilizzare la terapia anticoagulante? le patologie dell’interstizio le patologie dell’interstizio (ild) colpiscono tipicamente il polmone a “zolle”: aree sane sono intervallate a zone con alveolite e flogosi interstiziale, fino a quadri di franca fibrosi. in base allo stadio della patologia si ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)30 una polmonite interstiziale bilaterale ad esordio sub-acuto virus: virus respiratorio sinciziale, virus y parainfluenzali 1 e 3, adenovirus, virus influenzali, virus coxsackie a, citomegalovirus, virus del morbillo, varicellazoster virus. per quanto riguarda la terapia, le polmoniti interstiziali beneficiano dei comuni antimicrobici, come riportato dalle linee guida [6-8], quali macrolidi e fluorochinoloni, ad esempio: claritromicina (500 mg ogni 12 h per os y o ev); levofloxacina (500-750 mg/die); y doxiciclina (100 mg ogni 12 h per os). y polmoniti interstiziali da pneumocistis jiroveci pc [7] è un patogeno opportunista che causa malattia solo quando le difese dell’ospite sono compromesse, più frequentemente in presenza di deficit dell’immunità cellulo-mediata, che si verifica per lo più in corso di emopatie maligne, malattie linfoproliferative, chemioterapia e aids [9]. circa il 30% dei pazienti con infezione da hiv ha una polmonite da pneumocystis come diagnosi di esordio dell’aids e più dell’80% dei malati di aids sviluppa questa infezione prima o poi in assenza di profilassi (figura 2), di solito se le cellule t helper cd4+ sono < 200/ml (tabella i). i sintomi di presentazione sono abbastanza aspecifici: febbre, dispnea e tosse secca, non produttiva, che può evolvere in forma subacuta nel corso di diverse settimane o decorrere acutamente nel giro di alcuni giorni. la radiografia del torace può evidenziare infiltrati peri-ilari bilaterali diffusi, ma nel 20-30% dei pazienti affetti risulta normale. la diagnosi richiede la dimostrazione istopatologica del microrganismo mediante colorazione con argentometenamina, giemsa, wright-giemsa, grocott modificato, weigert-gram o colorazione con anticorpi monoclonali, quindi sono necessari i campioni di escreato ottenuti con l’espettorazione o con la broncoscopia. la sensibilità media è del 60% per l’espettorato e del 90-95% per il bal. la mortalità complessiva tra i pazienti ricoverati va dal 15 al 20%. per quanto riguarda la terapia, il farmaco di scelta è il trimetoprim-sulfametossazolo tmp-smx 20/100 mg/kg/die in 4 dosi ev o per os per 21 giorni; è importante ricordare che nonsi deve ritardare l’inizio della terapia per timore che essa possa comproinvece, a seconda dell’insorgenza, le ild possono essere classificate in: acute: polmonite eosinofila, ipersensibilità, y allergia (farmaci, funghi, ecc), polmonite interstiziale idiopatica, causa infettiva; subacute: sarcoidosi, farmaci, sindromi y emorragiche, cop, les, polimiosite, causa infettiva; croniche: ipf, sarcoidosi, istiocitosi a cely lule di langerhans. il sospetto diagnostico può essere formulato a seguito della rilevazione di un insieme di sintomi (che sono tutti aspecifici), dell’anamnesi e dei risultati di alcuni esami strumentali [4]. i sintomi che possono essere rilevati sono: febbricola, dispnea progressiva, toracoalgia atipica, tosse secca, emottisi, respiro sibilante. all’rx torace possono essere evidenziati alterazioni reticolari bibasali, noduli fibrotici fino a nido d’ape. ma l’rx potrebbe anche essere negativa. l’ecocardiografia deve essere eseguita per valutare l’ipertensione polmonare. la tc ad alta risoluzione (hrct) stabilisce entità e distribuzione, ed è in grado di effettuare la diagnosi differenziale: infatti può trattarsi di linfonodi mediastinici, neoplasia, enfisema. può inoltre evidenziare la presenza di opacità a vetro smerigliato, opacità degli spazi aerei a chiazze prevalentemente periferiche, un aumento sfumato della densità polmonare, un quadro reticolare (maggiormente ai campi inferiori) con ispessimento dei setti interlobulari. le aree a nido d’ape, le bronchiectasie da trazione e la fibrosi sottopleurica possono comparire a seconda dello stato della malattia. inoltre deve essere eseguita la broncoscopia con bal e biopsia o brushing. tramite spirometria è possibile rilevare un pattern restrittivo con riduzione di capacità polmonare totale, volume residuo, fev1 (volume espiratorio massimo in un secondo) e capacità vitale forzata. l’ega può evidenziare ipossia e alcalosi respiratoria (ipossia soprattutto da sforzo) può essere necessario eseguire anche una biopsia a cielo aperto. tra le cause infettive è importante ricordare [4,5]: batteri: y mycoplasma pneumoniae, coxiella burnetii, chlamydia pittaci, chlamydia pneumoniae; miceti o protozoi: y pneumocystis jiroveci (pcp); ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 31 r. re volutamente non si discute riguardo la scelta della terapia antiretrovirale in quanto di competenza specialistica e al di là degli scopi di questo articolo. profilassi e terapia per il tromboembolismo venoso riguardo al tromboembolismo venoso, le linee guida di american college on chest physicians del 2008 [13] danno l’indicazione di sottoporre a profilassi antitrombotica i pazienti ricoverati con scompenso cardiaco congestizio o insufficienza respiratoria acuta o che sono allettati e che presentano uno dei seguenti fattori di rischio: neoplasia attiva, pregressa malattia tromboembolica, sepsi o malattia neurologica acuta o malattia infiammatoria intestinale. in questi pazienti è indicata la profilassi con eparina a basso peso molecolare, eparina non frazionata o fondaparinux (grado 1a). per saper quantificare il rischio trombotico al ricovero e al variare delle condizioni cliniche sarebbe opportuno mettere la diagnosi, perché le cisti persistono per settimane. in alternativa è possibile somministrare pentamidina 3-4 mg/kg ev una volta al giorno, atovaquone 750 mg per os bid, trimetoprim 20 mg/kg/die per os con dapsone 100 mg/die per os o clindamicina 300-450 mg per os qid con primachina 15 mg/die per os; tutti questi chemioterapici, però, sono gravati da maggiori effetti collaterali e da minor tollerabilità [12]. di fondamentale importanza è l’uso dei corticosteroidi: soprattutto se la pressione arteriosa di ossigeno (pao2) è < 70 mmhg (prednisone 40 mg/bid o suo equivalente per i primi 5 giorni, poi 20 mg/bid per i successivi 5 giorni e infine 20 mg/die per tutta la durata del trattamento). i corticosteroidi riducono l’ipossia, la necessità di intubazione e la fibrosi tardiva. la terapia di supporto è rappresentato dall’o2-terapia, e talora può essere necessaria una peep per mantenere la pao2 > 60 mmhg. figura 2 epoca di comparsa delle principali infezioni opportunistiche e neoplasie in relazione al declino dei linfociti cd4+ nel corso della malattia da hiv. modificato da [10] alterazione patogeni grave ipogammaglobulinemia* capsulati: streptococcus pneumoniae, haemophilus influenzae neutropenia pseudomonas aeruginosa, enterobatteriacee, staphylococcus aureus, aspergillo deficit dell’immunità cellulo-mediata: conta cd4 < 500/μl mycobacterium tuberculosis conta cd4 < 200/μl pneumocystis jiroveci, istoplasma, criptococco conta cd4 < 50/μl citomegalovirus, mycobacterium avium intracellulare tabella i correlazione tra forma di immunodepressione e patogeni. modificato da [11] * igg sottotipi 2 e 4 costituiscono il 25% degli igg totali. deficit primitivi o acquisiti in sindrome nefrosica o enteropatia proteino-disperdente, malattie linfoproliferative causano grave ipogammaglobulinemia. i pazienti affetti da hiv producono ig poco efficaci ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)32 una polmonite interstiziale bilaterale ad esordio sub-acuto nimo i rischi emorragici rispetto a farmaci con più lunga emivita come fondaparinux. per quanto riguarda le misure profilattiche meccaniche generalmente vengono indicate in profilassi in pazienti che non possono essere sottoposti a terapia farmacologica [15]; poco si sa, invece, su coloro che hanno già manifestato l’evento: è ragionevole però pensare che un paziente che ha già una manifestazione trombotica in atto sia sicuramente a rischio e soprattutto se non viene sottoposto a terapia farmacologica possa giovarsi di questi presidi. in conclusione, il sospetto clinico e l’anamnesi precisa e approfondita possono salvare la vita ai nostri pazienti. alcune volte ci lasciamo fuorviare da diagnosi precostituite e non seguiamo un percorso mentale coerente. è indispensabile valutare tutte le ipotesi diagnostiche e analizzarle singolarmente e ovviamente nella globalità di insieme del paziente. disclosure l’autrice dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. valutare i pazienti ricoverati tramite tabelle di rischio, come ad esempio lo score di ginevra [14] o lo score di goldhaber, lo score barbar, lo score fadoi toscana-campania. con l’applicazione di tali score si sarebbe potuto in effetti aver conferma della non necessità all’ingresso di somministrare terapia profilattica a questo specifico paziente. per quanto riguarda il cut-off piastrinico, molto spesso viene indicata genericamente “piastrinopenia” per suggerire cautela nella somministrazione sia di profilassi sia di terapia nei pazienti piastrinopenici. generalmente viene indicato un cut-off di 50.00070.000 piastrine (sia per profilassi sia per terapia) e solamente nel caso di fondaparinux la somministrazione non è indicata al di sotto di 50.000 piastrine, per cui la non somministrazione della terapia antitrombotica in questo paziente che ha manifestato una complicanza tromboembolica è stata una manifestazione di estrema prudenza in un paziente con piastrinopenia ingravescente (seppur ancora nel range consentito) che poteva sviluppare una coagulazione intravasale disseminata in quanto settico. ovviamente in questa categoria di pazienti può essere buona norma utilizzare farmaci a più breve durata d’azione proprio per ridurre al mibibliografia travis w, talmadge e, king jr. american thoracic society/european respiratory society 1. international multidisciplinary consensus classification of the idiopathic interstitial pneumonias. am j respir crit care med 2002; 165: 277-304 hunninghake gw, lynch da, galvin jr, gross bh, müller n, schwartz da et al. radiologic 2. findings are strongly associated with a pathologic diagnosis of usual interstitial pneumonia. chest 2003; 124: 1215-23 king te jr. clinical advances in the diagnosis and therapy of the interstitial lung diseases. 3. am j respir cr it care med 2005; 172: 268-79 american thoracic society/european respiratory society international multidisciplinary 4. consensus. classification of the idiopathic interstitial pneumonias. am j respir crit care med 2002; 165: 277-304 mandell la, wunderink rg, anzueto a, bartlett jg, campbell gd, dean nc et al; infectious 5. diseases society of america; american thoracic society. infectious diseases society of america/ american thoracic society consensus guidelines on the management of community-acquired pneumonia in adults. clin infect dis 2007; 44: s27-s72 british thoracic society (bts) pneumonia guidelines committee. bts guidelines for the 6. management of community acquired pneumonia in adults 2004 update. published on bts website www.brit-thoracic.org.uk/ on 30/04/04 huang l, morris a, limper ah, beck jm; ats pneumocystis workshop participants. 7. an official ats workshop summary: recent advances and future directions in pneumocystis pneumonia (pcp). proc am thorac soc 2006; 3: 655-64 mandell la, wunderink rg, anzueto a, bartlett jg, campbell gd, dean nc et al. infectious 8. diseases society of america/american thoracic society consensus guidelines on the management of community-acquired pneumonia in adults. clin infect dis 2007; 44: s27-s72 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 33 r. re panel on antiretroviral guidelines for adults and adolescents. guidelines for the use of 9. antiretroviral agents in hiv-1-infected adults and adolescents. department of health and human services. january 10, 2011; 1–166. disponibile all’indirizzo: http://www.aidsinfo.nih. gov/contentfiles/adultandadolescentgl.pdf (ultimo accesso febbraio 2011) center for diseases control and prevention. 1993 revised classification system for hiv infection 10. and expanded surveillance case definition for aids among adolescents and adults. atlanta, december 18, 1992 / 41(rr-17). disponibile all’indirizzo: http://www.cdc.gov/mmwr/preview/ mmwrhtml/00018871.htm (ultimo accesso febbraio 2011) shelhamer jh, toews gb, masur h, suffredini af, pizzo pa, walsh tj et al. nih conference. 11. respiratory disease in the immunosuppressed patient. ann intern med 1992; 117: 415-31 huang l, stansell j, osmond d, turner j, shafer kp, fulkerson w et al.12. performance of an algorithm to detect pneumocystis carinii 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clinico nel 1998 una paziente di 63 anni veniva riscontrata affetta da leucemia mieloide cronica (lmc). il quadro era caratterizzato da: splenomegalia (2 cm), moderata leucocitosi (22.00 x 109/l, basofili 10-20%), piastrinosi (> 4.000 x 109/l), alto rischio sokal, riarrangiamento b2a2 e assenza di alterazioni cromosomiche aggiuntive. veniva iniziata terapia citoriduttiva con idrossiurea e tioguanina, cui si aggiungeva idarubicina a cicli per la persistenza della piastrinosi. la risposta ematologica era lenta e la risposta citogenetica pressoché nulla (ad un anno: ph+ 95%) (tabella i). per intolleranza alla terapia con interferone e per la presenza di un quadro sospetto per fase accelerata (blasti+ promielociti su mielospirato >30% con ph+100% delle metafasi) nel settembre 2000 si passava perché descriviamo questo caso abbiamo descritto un caso in cui l ’impiego di nilotinib come terzo inibitore della tirosin-chinasi (tki) aveva da un lato una chiara indicazione rappresentata da mutazione sensibile e dall ’altro una potenziale controindicazione cardiologica. è inoltre ribadita l’indicazione all’esame mutazionale in condizione di resistenza per re-indirizzare al meglio la terapia anche in terza linea corresponding authordott.ssa ester m. orlandi eorlandi@smatteo.pv.it caso clinico abstract we report a case of a patient with chronic myeloid leukemia who was treated with nilotinib after failure to imatinib and dasatinib. the patient, diagnosed in 1998, was cytogenetically resistant to imatinib. she was switched to dasatinib and achieved a major cytogenetic response, but 3 years later a mutant clone emerged responsible for cytogenetic relapse. the mutation we detected was v299l, that is resistant in vitro to dasatinib, while maintaining a good sensitivity to nilotinib. as the patient was not eligible for allotransplat, we decided to switch to nilotinib, despite a ecg abnormality (wandering pace-maker). after one-year treatment, the patient is in complete cytogenetic response with a low bcr-abl/abl transcript ratio. on mutational analysis, the v299l mutation has disappeared. any cardiologic toxicity has not been observed so far. this case proves that ecg abnormalities do not represent an absolute contraindication to nilotinib and that nilotinib can be effective as third-line bcr-abl inhibitor. keywords: nilotinib; abl mutations; cardiotoxicity efficacy of nilotinib as third-line treatment in a patient with very late chronic myeloid leukemia and a possibile cardiologic contraindication cmi 2011; 5(suppl 6): 5-9 1 dipartimento di oncologia-ematologia, sc ematologia, fondazione irccs policlinico san matteo, pavia 2 dipartimento di medicina clinica e prevenzione, laboratorio di diagnostica molecolare, università milano-bicocca, monza ester maria orlandi 1, sara redaelli 2 efficacia di nilotinib come terza linea di terapia in un paziente con leucemia mieloide cronica di lunga durata e possibile controindicazione cardiologica disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. mailto:eorlandi@smatteo.pv.it 6 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) efficacia di nilotinib come terza linea di terapia in un paziente con lmc di lunga durata (dhplc) e di alterazioni cromosomiche aggiuntive. solo nel gennaio 2006 era possibile passare a un inibitore delle tirosin-chinasi (tki) di seconda generazione, dasatinib, l’unico al tempo disponibile in un programma di uso compassionevole. la terapia con dasatinib aveva portato a registrare una neutropenia di grado ii-iii che era stata gestita con aggiustamenti di dosaggio tra 100 mg al dì e 70 mg al dì; non si osservavano invece tossicità extraematologiche. a partire dal 2004 era stata documentata ipertensione arteriosa sistemica: era stata iniziata terapia con quinapril+ idroclorotiazide e controllato ecg che mostrava iniziale sovraccarico ventricolare sinistro. dal punto di vista cardiologico la paziente era e si manteneva asintomatica. in corso di terapia con dasatinib la risposta citogenetica era maggiore (percentuale di metafasi ph+ oscillante tra 0 e 10%) e la risposta molecolare era sub-ottimale, tra 1% e 2% secondo is (tabella i). nell’ottobre 2010, a fronte di un quadro ematologico periferico normale, si osservava un importante aumento del trascritto bcrabl (bcr-abl/abl = 25% secondo is). l’esame citogenetico non era informativo per assenza di un numero adeguato di metafasi esaminabili (4/4 ph positive). veniva eseguita la ricerca di mutazioni di abl (rt-pcr con amplificazione della regione del dominio chinasico di bcr-abl) che mostrava la presenza di mutazione v299l nel 70% del trascritto. la perdita di risposta osservata poteva essere attribuita quindi a selezione di un clone mutato. questa mutazione, sia in vitro sia in vivo, è resistente a dasatinib, ed è osservata con maggior frequenza rispetto ad altre mutazioni in corso di terapia con dasatinib. al contrario, è meno frequente in corso di terapia con imatinib e nilotinib, dimostrando sia in vitro sia in vivo una maggior sensibilità a questi inibitori. non essendo la paziente candidabile ad allotrapianto, si decideva di passare a nilotinib come terzo inibitore. la valutazione medica eseguita prima di passare a nilotinib mostrava però alterazioni elettrocardiografiche di conduzione e di ritmo. il quadro era quello di un “ wandering pace-maker” con frequenza ventricolare 6080/min e qtc = 400 ms. la presenza di un disturbo del ritmo/conduzione poteva rappresentare una controindicazione all’impiego di nilotinib. nel nostro caso, dopo avere discusso con il cardiologo circa la particolare anomalia riscontrata e avere prospettato alla paziente le possibili opzioni, si è deciso di testare nilotinib, sotto stretto monitoraggio cardiologico. la paziente ha iniziato la terapia alla dose precauzionale di 600 mg al dì e non ha mai lamentato effetti collaterali. l’emocromo è rimasto stabile e la paziente dopo soli 3 mesi di trattamento ha ottenuto la risposta citogenetica completa e molecolare ai limiti della risposta maggiore (tabella i). ai controlli successivi il trascritto si è mantenuto tra 1% e 0,6% is. dal punto di vista cardiologico non si è avuto nessun problema e gli ecg frequentemente ripetuti non hanno mostrato peggioramento dei parametri rispetto al basale. la paziente è tuttora in trattamento con nilotinib al dosaggio di 600 mg al dì e l’analisi mutazionale recentemente eseguita non ha rilevato alcuna mutazione di abl. discussione la terapia con imatinib ha rivoluzionato l’andamento dei pazienti con lmc. tuttavia, nel 25% circa dei casi la risposta non è ottimale secondo le raccomandazioni eln [1]. diversi sono i possibili meccanismi di resistenza, alcuni indagabili (scarsa compliance, interferenze farmacologiche, comparsa di alterazioni cromosomiche aggiuntive, emergenza di clone con mutazione di abl), altri, bcr-abl dipendenti o indipendenti, sono più difficilmente documentabili nella pratica clinica. nei pazientempo trattamento risultati 1998 chemioterapia convenzionale y nessuna risposta citogenetica interferone y intolleranza al trattamento settembre 2000 imatinib 600-400 mg/die y chr y cyr minore (ph+54%) y no mutazioni di abl gennaio 2006 dasatinib 100 70mg/die y chr y cyr maggiore y risposta molecolare sub-ottimale ottobre 2010 dasatinib y chr y risposta citogenetica: ph 4+/4 y bcr-abl/abl 25% is y mutazione v299l nel 70% del trascritto novembre 2010 nilotinib 600 mg/die y chr y a tre mesi ccyr (ph16-/16) e bcr-abl/abl ≈ 1% is y a 12 mesi bcr-abl/abl 0,6% is e assenza di mutazioni di abl tabella i. riassunto della storia clinica della paziente. chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; ccyr = risposta citogenetica completa is = international scale 7 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) e. m. orlandi, s. redaelli nel caso descritto la documentazione di una mutazione specificamente resistente a dasatinib e la buona risposta ottenuta con nilotinib, cui la mutazione è sensibile in vitro, consentono di ipotizzare che in questo caso la malattia, per quanto ad alto rischio sokal alla diagnosi e davvero late, fosse ancora dipendente principalmente da meccanismi bcr-abl determinati e che bcr-abl continuasse ad essere il principale bersaglio della terapia. questo ribadisce l’indicazione all’esame mutazionale in condizione di resistenza per re-indirizzare al meglio la terapia sia in seconda sia in terza linea. metodi diagnostici molto sensibili sono attualmente in studio per identificare anche cloni mutati molto piccoli, non rilevabili alle metodiche standard di sequenziamento. nel nostro caso clinico, se da un lato avevamo una chiara indicazione all’impiego di nilotinib in terza linea, dall’altro però era presente una potenziale controindicazione (la presenza di un disturbo del ritmo/conduzione intracardiaca). negli studi di fase ii che hanno portato all’approvazione di nilotinib in seconda linea infatti si erano osservati episodi di alterazione della frequenza cardiaca o della conduzione con allungamento del qtc e rarissimi casi di morte improvvisa [10,11]. le morti improvvise sono state riportate in pazienti con storia precedente di malattia cardiaca o significativi fattori di rischio cardiaci. in aggiunta alla lmc erano quindi presenti comorbidità e trattamenti concomitanti. non ci sono stati invece casi di morti improvvise nello studio enestnd, con più di 560 pazienti de novo trattati con nilotinib (follow-up attuale 36 mesi). la potenziale cardiotossicità sembra essere comune ai tki e può manifestarsi come riduzione di contrattilità o come alterazione del ritmo e della conduzione. la patogenesi non è tuttora chiara. potrebbe trattarsi di un effetto on target legato a inibizione di abl [12] o di un effetto off target, legato a inibizione di bersagli ancora sconosciuti [13]. nello studio di fase iii che ha portato all’approvazione di nilotinib in prima linea uno stretto monitoraggio cardiologico su una numerosa casistica di pazienti trattati nei due bracci ha portato a ridimensionare il problema [14]. inoltre, la valutazione preclinica nel modello animale ha dimostrato che nilotinib alle concentrazioni clinicamente impiegate nell’uomo non produce alterazioni delle fibrocellule miocardiche [15]. tuttavia, è da tenere presente che negli studi ti resistenti a imatinib le raccomandazioni eln indicano di passare a inibitore delle tirosin-chinasi (tki) di seconda generazione, dasatinib o nilotinib. la scelta del secondo inibitore attualmente dipende da: a) presenza di patologie associate, in quanto lo spettro di tossicità extraematologica è differente per i due farmaci [2]; b) presenza di mutazioni di abl, in quanto pur essendo entrambi i farmaci attivi sulla maggior parte delle mutazioni che emergono in corso di terapia con imatinib, per ciascuno di essi gli studi in vitro hanno mostrato scarsa sensibilità da parte di un certo numero di mutazioni differenti. le mutazioni t315a, v299l e f317l/i/c/v sono resistenti a dasatinib, mentre le mutazioni y253h, y255v/k e f359v/c sono resistenti a nilotinib [3-5]. la mutazione t315i è notoriamente resistente sia a imatinib sia a nilotinib e dasatinib, rappresentando quindi una stretta indicazione ad allotrapianto o a farmaco sperimentale. anche in corso di trattamento con secondo inibitore è possibile che il paziente sviluppi resistenza per emergenza proprio di quelle mutazioni che appaiono in vitro resistenti all’inibitore in uso. il clone mutato viene “selezionato” dal farmaco e può espandersi determinando resistenza. la letteratura in proposito non è estesa [6-9], ma vi è accordo sul fatto che la resistenza a secondo inibitore rappresenti una indicazione al trapianto, in quanto i tki impiegati in terza linea generalmente sono efficaci in una quota modesta di pazienti e le risposte sono generalmente di breve durata, tranne in alcune particolari situazioni. solo una modesta percentuale di pazienti però è candidabile ad allotrapianto e non sempre è possibile l’inserimento in protocolli che valutano farmaci sperimentali. la decisione terapeutica, a questo punto, è di nuovo a favore dell’impiego dall’inibitore alternativo, sempre tenendo in considerazione eventuali comorbidità del paziente. i dati della letteratura non sono concordi nel riconoscere l’importanza per la risposta della presenza di mutazioni allo switch verso un terzo inibitore. il gruppo inglese dell’ hammersmith [9] non riconosce alla mutazione un ruolo determinante per la risposta in quanto attribuisce la resistenza a meccanismi bcr-abl indipendenti. al contrario il gruppo statunitense dell’m. d. anderson cancer center [7] afferma che la scelta dell’inibitore sulla base dell’esame mutazionale è importante anche in terza linea. 8 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) efficacia di nilotinib come terza linea di terapia in un paziente con lmc di lunga durata sono stati esclusi pazienti con malattia cardiaca non controllata, per cui l’incidenza di cardiotossicità da tki potrebbe essere sottostimata e sono molto rare le segnalazioni di trattamento con nilotinib in pazienti con alterazioni ecg [16]. nel nostro caso, nonostante in teoria la presenza di pre-esistenti alterazioni ecg bibliografia 1. baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, saglio g, apperley j, et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009;27: 6041-51 2. valent p. severe adverse events associated with the use of second-line bcr/abl tyrosine kinase inhibitors: preferential occurrence in patients with comorbidities. haematologica 2011; 96: 1395-7 3. branford s, melo jv, hughes tp. selecting optimal second-line tyrosine kinase inhibitor therapy for chronic myeloid leukemia patients after imatinib failure: does the bcr-abl mutation status really matter? blood 2009; 114: 5426-35 4. quintás-cardama a, cortes j. molecular biology of bcr-abl1-positive chronic myeloid leukemia. blood 2009; 113: 1619-30 5. jabbour e, branford s, saglio g, jones d, cortes je, kantarjian hm. practical advice for determining the role of bcr-abl mutations in guiding tyrosine kinase inhibitor therapy in patients with chronic myeloid leukemia. cancer 2011; 117: 1800-11 6. quintas-cardama a, kantarjian h, jones d, nicaise c, o’brien s, giles f, et al. dasatinib (bms-354825) is active in philadelphia chromosome-positive chronic myelogenous leukemia after imatinib and nilotinib (amn107) therapy failure. blood 2007; 109: 497-9 7. garg rj, kantarjian h, o’brien s, quintás-cardama a, faderl s, estrov z, et al. the use of nilotinib or dasatinib after failure to 2 prior tyrosine kinase inhibitors: long-term follow-up. blood 2009; 114: 4361-8 domande da porsi y nel nostro caso (malattia di vecchia data già trattata con chemioterapia prima e 2 tki dopo) aveva senso pensare di impiegare un terzo tki? y qual è l ’outcome dei pazienti trattati con tki in terza linea o successive? y la presenza di alterazioni ecg rappresenta una controindicazione assoluta a nilotinib? miti da infrangere y in una malattia di vecchia data è presumibile che, per l ’accumulo di alterazioni genetiche, la resistenza al trattamento con tki dipenda in gran parte da meccanismi bcr-abl indipendenti e in questo senso è raccomandato l ’allotrapianto o se possibile un trattamento sperimentale. tuttavia, come dimostrano il nostro caso e alcune rare segnalazioni in letteratura [7], la perdita di risposta con emergenza di un clone recante una mutazione specifica resistente all ’inibitore in uso e sensibile all ’alternativo suggerisce il tentativo terapeutico con l ’inibitore specifico (nel nostro caso nilotinib) y la cardiotossicità da tki è tuttora poco conosciuta. con il tempo si è visto che eventi gravi cardiologici da nilotinib sono molto rari anche in pazienti di una certa età e con pre-esistenti alterazioni [10]. il riscontro di anomalie ecg non deve quindi di per sé impedire l ’impiego di nilotinib. importante è monitorare il paziente. le stesse considerazioni possono essere fatte, per esempio, in caso di paziente diabetico, dal momento che solo eccezionalmente è difficile mantenere un buon controllo della glicemia in corso di terapia con nilotinib. potesse suscitare timori circa l’impiego di nilotinib, grazie alla collaborazione con lo specialista cardiologo e un attento monitoraggio, siamo riusciti a riportare la paziente ad una soddisfacente risposta anche molecolare, proprio impiegando il farmaco che, sulla base dei dati di sensibilità in vitro, rappresentava la scelta più adeguata. 9 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) e. m. orlandi, s. redaelli 8. giles fj, abruzzese e, rosti g, kim dw, bhatia r, bosly a, et al. nilotinib is active in chronic and accelerated phase chronic myeloid leukemia following failure of imatinib and dasatinib therapy. leukemia 2010; 24: 1299-301 9. ibrahim ar, paliompeis c, bua m, milojkovic d, szydlo r, khorashad js, et al. efficacy of tyrosine kinase inhibitors (tkis) as third-line therapy in patients with chronic myeloid leukemia in chronic phase who have failed 2 prior lines of tki therapy. blood 2010; 116: 5497-500 10. nicolini fe, turkina a, shen zx, gallagher n, jootar s, powell bl, et al . expanding nilotinib access in clinical trials (enact): an open-label, multicenter study of oral nilotinib in adult patients with imatinib-resistant or imatinib-intolerant philadelphia chromosome-positive chronic myeloid leukemia in the chronic phase. cancer 2011. doi: 10.1002/cncr.26249 11. kantarjian hm, giles fj, bhalla kn, pinilla-ibarz j, larson ra, gattermann n et al. nilotinib is effective in patients with chronic myeloid leukemia in chronic phase after imatinib resistance or intolerance: 24-month follow-up results. blood 2011; 117: 1141-5 12. chen mh, kerkelä r, force t. mechanisms of cardiac dysfunction associated with tyrosine kinase inhibitor cancer therapeutics. circulation 2008; 118 :84-95 importanza della comorbidità e utilità dell’“early shift” terapeutico nella gestione del paziente con lmc fabio stagno 1 efficacia di nilotinib come terza linea di terapia in un paziente con leucemia mieloide cronica di lunga durata e possibile controindicazione cardiologica ester maria orlandi 1, sara redaelli 2 efficacia di uno switch precoce a nilotinib in paziente affetto da leucemia mieloide cronica in risposta non ottimale a imatinib ferdinando porretto 1 nilotinib è efficace e ben tollerato in pazienti con comorbidità multiple carmen fava 1, marco fizzotti 2, giuseppe saglio 1, giovanna rege-cambrin 1 switch precoce a nilotinib in un caso di risposta non ottimale a imatinib alessandra iurlo 1, tommaso radice 1, chiara de philippis 1, manuela zappa 1, mauro pomati 1, agostino cortelezzi 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2) clinical management issues 13 miriana rocchi 1 anamnesi e presentazione del caso nel 1999 un uomo di 68 anni viene sottoposto a prostatectomia per adenoma e l’intervento si complica con trombosi venosa profonda, embolia polmonare e massivo ematoma pelvico e retroperitoneale; per l’impossibilità di praticare terapia anticoagulante viene posizionato filtro cavale definitivo. gli esami ematochimici e strumentali evidenziano hb 10-11 g/100 ml, plt 600.000/ mm3, gb 12.000/mm3, probabile componente monoclonale al tracciato elettroforetico (non quantificabile) e splenomegalia (diam. long. 13 cm). in anamnesi si evidenzia diabete mellito di tipo 2 e ipertensione arteriosa. nella diagnosi di dimissione si riporta anche sospetta sindrome mieloproliferativa, ma non vengono effettuati o consigliati ulteriori accertamenti. dopo due mesi dall’inun caso di doppia leucemia: mieloide cronica intollerante a imatinib e linfatica cronica abstract chronic lymphocytic leukemia (cll) and chronic myeloid leukemia (cml) are the most common leukemias of the elderly. however, the sequential occurrence of cml followed by cll in the same patient is extremely rare. we present a report of a 70-year-old man who developed cll six years after the diagnosis of cml in molecular, cytogenetic and morphologic remission. the diagnosis of cll is confirmed by peripheral lymphocytosis. the first line therapy in cml in chronic phase is still imatinib, but in the present case the patient was intolerant to imatinib, therefore he switched to nilotinib after few months. keywords: chronic myeloid leukemia, imatinib resistance, chronic lymphocytic leukemia, nilotinib a case of double leukemia: chronic myeloid leukemia intolerant to imatinib and chronic lymphocytic leukemia cmi 2010; 4(suppl. 2): 13-16 1 u.o. medicina interna 1, ospedale “f. lotti”, pontedera (pi) corresponding author miriana rocchi r.miriana@libero.it perché descriviamo questo caso? lo sviluppo sequenziale di lmc e llc nello stesso paziente è estremamente raro, per cui la linfocitosi iniziale può passare inosservata, come è successo in questo caso caso clinico tervento il soggetto inizia una terapia con anticoagulanti orali. nel 2001 viene indirizzato a visita ematologica per il persistere, nei controlli effettuati, di trombocitosi. al momento della valutazione ambulatoriale vengono prescritte indagini di laboratorio e strumentali: ecografia addome: splenomegalia, diam. y long. 15 cm, non linfoadenopatie retroperitoneali; emocromo: hb 14 g/100 ml, gr 440.000/ y mm3, mcv 92 fl, plt 605.000/mm3, gb disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2)14 un caso di doppia leucemia: mieloide cronica intollerante a imatinib e linfatica cronica 40.000/mm3 con neutrofili 70%, linfociti 11%, basofili 3%, eosinofili 3%, presenza di elementi immaturi della serie mieloide (mielociti e metamielociti); ldh 663 u/l; ves 7 mm/h; pcr 0,6 mg/dl; rx torace sostanzialmente negativo; y studio midollare: midollo ben cellulato y con iperplasia della serie mieloide, senza blastosi; iperplasia dello stipite eosinofilo e basofilo, serie eritroide ipoplasia; megacariociti presenti; biologia molecolare: pcr per bcr-abl y positivo p210; a seguito di tali indagini si pone diagnosi di leucemia mieloide cronica (lmc). approccio terapeutico e decorso clinico a gennaio 2002 (gb 59.000/mm3, plt 800.000/mm3) si inizia terapia con idrossiurea 1 g/die e allopurinolo 300 mg/die ottenendo controllo della leucocitosi e normalizzazione del valore plt. all’entrata in prontuario, viene proposto il trattamento con imatinib, che il paziente però rifiuta. nel 2006 il soggetto necessita di ricovero in ambiente medico per ulcere alle gambe da alcuni mesi, attribuite inizialmente al diabete, ma non responsive ai comuni trattamenti e fortemente limitanti la deambulazione. i risultati dell’ecodoppler arteriosi agli arti inferiori sono nei limiti, senza segni di trombosi. si sospende la terapia con idrossiurea con netto miglioramento della sintomatologia. in occasione del ricovero si ripetono le indagini midollari: aspirato midollare: preparati per striscio e y apposizione ben cellulati con serie bianca mieloide iperplasica con evidenza di promielociti, senza incremento della quota blastica; serie rossa normomaturante; megacariociti presenti con elementi di piccola taglia; esami ematochimici: gb 21.000/mm y 3, mcv 125 fl, ldh 513 u/l, beta2microglobulina 4 mg/dl, plt 400.000/mm3. si inizia terapia con imatinib mesilato al dosaggio di 400 mg/die, ottenendo una remissione ematologica completa dopo un mese circa; compare però una dermatite eritemato-desquamativa pruriginosa agli arti superiori, poi estesa anche agli arti inferiori, inizialmente controllata dalla terapia topica e poi sistemica con cortisonici e antistaminici, che impone la sospensione di imatinib. dopo due-tre mesi dalla sospensione si tenta la reintroduzione di imatinib 400 mg/die con la stessa risposta ematologica, ma, dopo due mesi dall’inizio della terapia, si assiste alla ricomparsa della dermatite. si sospende definitivamente imatinib e si richiede la fornitura di nilotinib per uso compassionevole. a luglio 2007 si inizia terapia con nilotinib, dopo avere eseguito uno studio midollare (rx torace, ecg e valutazione cardiologica che non evidenziano controindicazioni alla terapia) con i seguenti esiti: biopsia osteomidollare: serie mieloide y prevalente, ipomaturante con aumento di mielociti e meno del 5% di blasti cd34+; figura 1 striscio di sangue periferico in cui si evidenziano 2 linfociti e 1 promielocita figura 2 striscio di sangue periferico con linfociti maturi, ombra di gumprecht, 1 eosinofilo, neutrofili maturi citogenetica convenzionale: 46 xy con y traslocazione standard t(9;22) nelle metafasi analizzate. la valutazione effettuata con sokal score permette di classificare il paziente nella categoria di rischio intermedio. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2) 15 m. rocchi serie eritroide e megacariocitica ipoplasiche; emosiderina presente in modesta quantità; stroma normale; analisi cromosomica: cariotipo maschiy le con assetto modale a 46 cromosomi e presenza di cromosoma philadelphia originatosi da una traslocazione standard t(9;22); biologia molecolare: pcr per bcr-abl y positivo p210, pcr real time per bcrabl (eseguita con kit “philadelphia p210 alert amplimix”nanogen) 33,04. dal mese di ottobre 2006 l’esame emocromo mostra linfocitosi (linfociti 7.000-8.000/ mm3) associata alla consueta neutrofilia. dopo un mese di terapia con nilotinib si assiste alla completa risposta ematologica (neutrofili 5.000/mm3, plt 363.000/mm3, hb 13 g/100 ml) e persiste linfocitosi (linfociti 11.000/mm3). a ottobre 2007 il paziente viene sottoposto a ulteriore controllo midollare, che fornisce i seguenti risultati: biopsia osteomidollare: campione adeguay to e reperti compatibili con malattia mieloproliferativa in fase fibrotica associata a infiltrazione midollare di neoplasia linfoproliferativa dei linfociti b periferici; biologia molecolare: pcr per bcr-abl y ancora positiva, ma non quantificabile in real time (risposta molecolare maggiore); analisi cromosomica: cariotipo maschile y normale; pcr per igh (cdr3) positivo; y tipizzazione linfocitaria: reperto compatiy bile con leucemia linfatica cronica (llc); espressione di marker di cellule b mature (cd19-cd22), coespressione di cd5 e cd23, igm sulla superficie cellulare. dal mese di novembre 2007 si associa alla terapia in atto clorambucil 4 mg/die. a marzo 2008 viene condotta una nuova valutazione midollare: biopsia osteomidollare: localizzazione y midollare di neoplasia linfoproliferativa a piccoli linfociti b periferici e fibrosi midollare; analisi cromosomica: le colture allestite y non hanno fornito metafasi sufficienti per un’indagine citogenetica esaustiva; biologia molecolare: pcr per bcr-abl y negativo, pcr per bcr-abl (real time) 0,48 (risposta sub-ottimale); pcr per igh (cdr3) positivo; y tipizzazione linfocitaria: compatibile con y llc. a distanza di 15 mesi dall’inizio della terapia con nilotinib il paziente presenta una risposta ematologica completa, una risposta molecolare maggiore e una risposta citogenetica non valutabile, ma già completa a 3 mesi di trattamento (tabella i). tuttavia la mancanza di metafasi valutabili in citogenetica non ha consentito di stabilire se siano presenti aggiuntive mutazioni cromosomiche in accordo con llc. la terapia con clorambucil consente di tenere sotto controllo, per il momento, la patologia linfoproliferativa. considerazioni cliniche la terapia di prima scelta nella lmc in fase cronica rimane ancora oggi imatinib alle dosi di 400 mg/die; nel caso descritto terapia con nilotinib chr cyr moir (ratio bcr-abl/abl x 100) 3 mesi sì sì mmr 6 mesi sì nv 0,48 15 mesi sì nv mmr tabella i decorso clinico chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; mmr = risposta molecolare maggiore; moir = tasso di risposta molecolare; nv = non valutabile per metafasi insufficienti per indagine citogenetica figura 3 preparato di sangue midollare in cui si evidenzia iperplasia della serie mieloide con megacariocita mononucleato il paziente è risultato intollerante ed è stato esposto a tale farmaco solo per pochi mesi. è stato poi passato a nilotinib, un inibitore della tirosin chinasi bcr-abl di nuova generazione caratterizzato da maggiore affinità e selettività per questo target. la linfocitosi periferica era già peraltro presente da alcuni mesi prima dell’inizio della terapia con nilotinib e ciò consente di escludere un rapporto di causalità con tali molecole. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2)16 un caso di doppia leucemia: mieloide cronica intollerante a imatinib e linfatica cronica la llc e la lmc sono le leucemie più comuni nell’anziano; la llc rappresenta circa il 25-30% di tutte le leucemie e l’incidenza aumenta nei soggetti sopra i 60 anni. i soggetti affetti da llc sono predisposti a sviluppare una seconda neoplasia (non ematologica) o per effetto della chemioterapia o per immunodepressione favorita dalla malattia stessa. la lmc è una malattia cronica mieloproliferativa che esita spesso in leucemia acuta prevalentemente mieloide, talora linfoblastica con presenza di cromosoma philadelphia; ciò fa sospettare la presenza di comuni precursori mieloidi e cellule b. raramente si associa a seconda neoplasia. in letteratura si trovano descrizioni di casi clinici di simultanea comparsa [1] o coesistenza di malattia mieloproliferativa [2] e linfoproliferativa, prevalentemente riguardanti patologie mieloproliferative bcrabl negative [3-9]; frequenti sono anche le descrizioni di associazione con leucemia linfoide acuta e patologia mieloproliferativa [10]. sono descritti invece solo due casi di comparsa di llc in soggetti con diagnosi di lmc e in tutti i casi i pazienti erano in fase cronica di malattia mieloproliferativa [11,12]. nel caso descritto il paziente sviluppa una llc sei anni dopo la diagnosi di lmc in fase di remissione molecolare, citogenetica e morfologica, in corso di terapia con nilotinib da alcuni mesi; la diagnosi di llc è confermata dalla linfocitosi periferica, dallo studio midollare, dalla tipizzazione linfocitaria. saranno necessari ulteriori studi per chiarire i meccanismi patogenetici alla base dell’insorgenza di una doppia patologia ematologica a carico di serie cellulari diverse nello stesso soggetto. bibliografia leoni f, ferrini pr, castoldi gl, pata m, del prete gf, tomasi p. simultaneous occurrence 1. of chronic granulocytic leukemia and chronic lymphocytic leukemia. haematologica 1987; 72: 253-6 hernández sánchez mc, garcía quiroga h, ulibarrena redondo c, méndez sánchez ja. 2. concurrent lymphoproliferative and myeloproliferative disorders in three patients. an med interna 2008; 25: 78-80 manoharan a, catovsky d, clein p, traub ne, costello c, o’brien m et al. simultaneous or 3. spontaneous occurrence of lympho-and myeloproliferative disorders: a report of four cases. br j haematol 1981; 48: 111-6 wang g, ahn ys, whitcomb cc, harrington wj. development of polycythemia vera and 4. chronic lymphocytic leukemia during the course of refractory idiopathic thrombocytopenic purpura. cancer 1984; 53: 1770-6 ringbaek t schultz h. coincidence of a myeloproliferative and a lymphoproliferative disorde5. a random event? leukemia 1988; 2: 472-3 taberner da, chang j, otridge bw. co-existent chronic lymphatic leukemia with polycythaemia 6. vera. postgrad med j 1977; 53: 222-3 lishner m, jutrin i, bar-sela s, josef d, ravid m. hairy cell leukemia in a patient with 7. polycythemia vera. acta haematol 1984; 72: 49-51 maeda k, abraham j. polycythemia associated with myeloma. 8. am j clin pathol 1984; 82: 501-3 rizzi r, liso a, pannunzio a, carluccio p, specchia g, liso v. concomitant primary 9. polycythemia vera and follicle center cell non-hodgkin lymphoma: a case report and review of the literature. leuk lymphoma 2002; 43: 2217-20 camos m, cervantes f, montoto s, hernandez-boluda jc, villamor n, monserrat e. acute 10. lymphoid leukemia following polycythemia vera. leuk lymphoma 1999; 32: 395-8 esteve j, cervantes f, rives s, rozman m, zarco ma, montserrat e. simultaneous occurrence 11. of b cell chronic lymphocytic leukemia and chronic myeloid leukemia with further evolution to lymphoid blast crisis. hematologica 1997; 82: 596-9 bhagavathi s, borromeo v, desai h, crisan d. case report and literature review: a rare patient 12. with chronic myeloid leukemia and chronic lymphocytic leukemia. ann clin lab sci 2008; 38: 405-9 clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 19 ivan lolli 1, antonio logroscino 1, simona vallarelli 1, maria a. monteduro 2, antonella gentile 1, giuseppe troccoli 1 caso clinico una donna di 47 anni viene ricoverata per astenia intensa, ittero mucoso cutaneo, emissione di urine ipercromiche, bilirubina totale 6,00 mg/dl, bilirubina diretta 3,80 mg/dl, indici di citolisi epatica (got 872 u/l e gpt 591 u/l) e di colestasi (fosfatasi alcalina 225 u/l, ggt 432 u/l); lipasi 5.317 u/l, amilasi 2215 u/l. esegue un’ecografia dell’addome che evidenzia una colecisti sovradistesa, con abbondante sedimento a forma di sludge, coledoco dilatato fino alla papilla con calibro massimo di 1,89 cm, dilatazione dell’emisistema biliare di sinistra e di destra; formazione disomogenea ipo-isoecogena pseudo capsulata di incerta attribuzione a livello del tratto terminale del coledoco in corrispondenza della papilla. viene posta indicazione per ercp (colangiopancreatografia retrograda endoscoun caso di neoplasia endocrina non funzionante del pancreas trattato con analogo della somatostatina abstract non functioning endocrine pancreatic tumors (nf-pets) have absent or low hormone secretion without symptoms and constitue ~60% of pets. at diagnosis more than 50% of patients have liver metastases and almost 40% are not candidates for radical surgery because of either locally advanced disease or unresectable metastases. we described the case of a 47-year-old woman with a pancreatic carcinoma with secondarism in the liver not suitable for radical surgery. histological test of liver metastases showed positivity for endocrine well-differentiated non functioning carcinoma expressing receptors for somatostatin with very low proliferation index (ki67 < 2%). after this diagnosis she started a specific treatment with octreotide analogues which achieved durable stabilization of the disease keywords: non functioning metastatic endocrine tumour, histological test, somatostatin analogues long lasting octreotide l ar therapy in non functioning pancreatic neuroendocrine carcinoma cmi 2010; 4(suppl. 1): 19-25 1 uo oncologia medica, policlinico bari 2 uo radiodiagnostica ospedaliera 1, policlinico bari corresponding author dottor ivan lolli e-mail: ivanlolli1@tin.it caso clinico pica) che viene eseguita con dilatazione meccanica della stenosi e posizionamento di endoprotesi biliare temporanea. perché descriviamo questo caso? l’accertamento cito-istologico delle neoplasie pancreatiche e delle loro metastasi può presentare difficoltà tecniche e interpretative. il raggiungimento di una corretta diagnosi va comunque sempre perseguito in considerazione dei riflessi prognostici e terapeutici che essa comporta. si sottolinea inoltre l ’efficacia terapeutica degli analoghi della somatostatina anche nelle neoplasie endocrine pancreatiche ben differenziate, non funzionanti e metastatiche, con indice proliferativo molto basso e alta densità recettoriale all ’octreoscan disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 20 un caso di neoplasia endocrina non funzionante del pancreas trattato con analogo della somatostatina la paziente viene quindi sottoposta a un esame di tc. la tc a tecnica spirale è infatti l’esame di scelta per la diagnosi e la stadiazione delle neoplasie pancreatiche. con un’accuratezza del 95% consente di studiare l’estensione loco-regionale della malattia, l’interessamento e l’infiltrazione delle strutture vascolari e nervose adiacenti al pancreas (aspetto importante per un approccio chirurgico), la presenza di metastasi linfonodali e a distanza. la tc addome eseguita nella paziente evidenzia, a carico della regione cefalo-panle del coledoco verso la parete mediale del tratto discendente del duodeno. la ricostruzione dell’asse vascolare arterioso e venoso non mostra segni di infiltrazione. vi è lieve ectasia del dotto pancreatico e presenza di stent biliare interno-interno con aerobilia del coledoco e dell’emisistema biliare sinistro. a carico del parenchima epatico si rilevano multiple aree di impregnazione micronodulare (dimensioni massime di circa 7 mm) di verosimile significato ripetitivo (figura 1). v iene successivamente eseguita una rmn. si tratta di un esame spesso eseguito a integrazione della tc per una migliore definizione dei rapporti della neoplasia con le strutture vascolari adiacenti e per valutare la morfologia del  dotto pancreatico wirsung. ha sensibilità superiore alla tc nell’individuazione di secondarismi epatici in quanto permette la diagnosi differenziale tra angiomi e lesioni sostitutive. dalla rmn dell’addome emerge fegato di dimensioni ai limiti superiori della norma. in sede protesi biliare interno-interno con aerobilia che interessa prevalentemente i settori di sinistra. a livello del processo uncinato, nei piani dorsali, presenza di voluminosa lesione solida e disomogenea che coinvolge il tratto distale dell’epatocoledoco, lambisce il wirsung che presenta calibro ai limiti superiori della norma. la lesione, dal profilo dorsale del processo uncinato, si porta a ridosso delle pareti del duodeno e della fascia del gerota, rispetto ai quali non è sempre riconoscibile il piano adiposo di clivaggio. pervia la vena porta. in particolare la lesione non interessa i vasi mesenterici superiori. in ambito parenchimale epatico si conferma la presenza di multiple minute nodulazioni, caratterizzate da importante impregnazione post-contrastografica, che presentano diametro variabile da pochi mm a 1,2 cm per ciò che concerne la maggiore localizzata a livello dei settori più dorsali del segmento vii. i reperti hanno significato di localizzazione (figura 2). l’agoaspirato di lesione epatica sotto controllo ecografico e il successivo agoaspirato della formazione pancreatica eseguito in corso di ecoendoscopia risultano non significativi ai fini diagnostici. l’ecoendoscopia, oltre ad essere utilizzata come guida per l’agobiopsia, ha validità diagnostica complementare alla tc e rmn in quanto, evidenziando con elevato potere di risoluzione i diversi  strati della parete duodenale, consente un’accurata stadiazione figura 1 tc addome eseguita nella paziente: neoformazione della regione cefalopancreatica e secondarietà epatiche figura 2 rmn, eseguita nella paziente, con posizionamento endoprotesi biliare creatica, la presenza di formazione espansiva solida delle dimensioni di circa 3 cm di significato eteroformativo. tale formazione si sviluppa posteriormente al tratto terminaclinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 21 i. lolli, a. logroscino, s. vallarelli, m.a. monteduro, a. gentile, g. troccoli loco-regionale (t), delle stazioni linfonodali (n) e lo studio dei rapporti vascolari. ha alta sensibilità (fino al 100%) per le lesioni della testa del pancreas, circa il 60% per quelle del corpo e della coda, e alta specificità, ma ha come limite di essere fortemente operatoredipendente. si ricorre pertanto a una laparoscopia esplorativa. nel corso di tale procedura si identifica una piccola lesione epatica sospetta per secondarietà al vi segmento, ma l’esame istologico estemporaneo, sulla metastasectomia eseguita, risulta non diagnostico. si procede allora a conversione laparotomica e, individuata la lesione primitiva pancreatica, si effettuano agoaspirati multipli in tale sede e inoltre un’ulteriore metastasectomia epatica associata ad asportazione di linfonodo sospetto del legamento gastrocolico. l’esame citologico, eseguito sull’agobiopsia pancreatica, risulta non diagnostico, mentre il linfonodo si rivela sede di iperplasia linfoide a carattere reattivo. l’esame istologico sul cuneo epatico, comprendente nodulo grigio-giallastro a margini netti del diametro di 0,6 cm, risulta positivo per «metastasi epatica di carcinoma endocrino ben differenziato». l’analisi immunoistochimica risulta compatibile con la natura endocrina della neoplasia. l’immunofenotipo delle cellule neoplastiche è riassunto in tabella i. il dosaggio dei marcatori neoplastici per i tumori epiteliali nel primo approccio diagnostico ha evidenziato valori normali di cea, ca 19.9, tpa, ca 125. la valutazione dei marcatori generali eseguita dopo la diagnosi ha evidenziato valori lievemente elevati di cga (cromogranina a) e nella norma per nse (enolasi neurone specifica). la valutazione dei marcatori specifici non è stata eseguita per assenza di sindrome clinica tipica. decorso clinico e discussione i tumori endocrini primitivi del pancreas sono neoplasie a bassa incidenza (0,4/100.000 individui/anno) e rappresentano circa il 2% dei tumori pancreatici [1]. sul piano clinico vengono distinti in secernenti e non secernenti, a seconda che producano o meno sostanze peptidiche, e in funzionanti e non funzionanti a seconda che manifestino o meno una sindrome correlata alla sostanza o alle sostanze da loro prodotte. tra i tumori funzionanti, le entità cliniche maggiori sono rappresentate dalla sindrome ipoglicemica (insulinoma), sindrome di zollinger-ellison (gastrinoma), sindrome wdha – watery diarrhea, hypokalemia, and achlorhydria (vipoma), sindrome da glucagonoma e somatostatinoma. la precoce insorgenza di queste sindromi può consentire la diagnosi di tali forme morbose in una fase precoce. i tumori non funzionanti rappresentano circa il 60% delle forme neuroendocrine a carico del pancreas e si manifestano al contrario con una sintomatologia del tutto aspecifica in fase iniziale e correlata all’effetto massa esercitato dalla neoplasia sulle strutture circostanti in fase avanzata [2]. in più del 50% dei casi presentano metastasi epatiche alla diagnosi e non sono candidati a chirurgia radicale per l’estensione locale o per la presenza di metastasi non resecabili in circa il 40% dei casi [3]. nel caso descritto, è stato l’ittero il segno principale che ha reso possibile la diagnosi di una neoplasia della testa del pancreas localmente avanzata con presenza di metastasi epatiche multiple. dopo necessaria correzione dell’alterato transito bilio-digestivo con posizionamento di protesi biliare per via endoscopica, si è proceduto alla messa in opera delle metodiche utili alla diagnosi cito-istologica della neoplasia. questa può essere resa complessa, nel caso del pancreas, per la localizzazione retroperitoneale dell’organo. generalmente i prelievi cito-istologici delle lesioni pancreatiche si eseguono per via percutanea sotto guida ecografica o tc o in corso di ecoendoscopia soprattutto per le lesioni a localizzazione cefalica. alternativa all’esecuzione di prelievi sul tumore primitivo, è l’esame cito-istologico delle lesioni metastatiche (prevalentemente epatiche). parametro esito ag epatociti (och1e5) negativo cd56 (123c3.d5) positivo cheratinociti 7 (ov/tl12/30) negativo cromogranina a (dak-a3) negativo ki67 ag prolif. (mib1) < 2% serotonina 5ht (h209) negativo sinaptofisina positivo tabella i risultato delle analisi immunofenotipiche delle cellule neoplastiche clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 22 un caso di neoplasia endocrina non funzionante del pancreas trattato con analogo della somatostatina tumore endocrino ben differenziato a) a comportamento benigno: confinato al pancreas, non angioinvasivo, di dimensioni < 2 cm, ≤ 2 mitosi x 10 hpf, ≤ 2% di cellule ki67 positive: y funzionante: insulinoma y non funzionante b) a comportamento incerto: confinato al pancreas, di dimensioni ≥ 2 cm o angioinvasivo, o > 2 mitosi x 10 hpf, o > 2% di cellule ki67 positive: y funzionante: gastrinoma, insulinoma, glucagonoma, vipoma, somatostatinoma o con sindrome endocrina inappropriata (cushing, acromegalia o gigantismo, ipercalcemia, ecc.) y non funzionante carcinoma endocrino ben differenziato a basso grado di malignità, con invasione locale macroscopica e/o metastasi: y funzionante: gastrinoma, insulinoma, glucagonoma, vipoma, somatostatinoma o con sindrome endocrina inappropriata (cushing, acromegalia o gigantismo, ipercalcemia, ecc) y non funzionante carcinoma endocrino scarsamente differenziato ad alto grado di malignità (a cellule piccole/intermedie o a grandi cellule) essi possono esitare, per difficoltà intrinseca alla metodica eseguita, nella disponibilità per il patologo di materiale esiguo e insufficiente ai fini diagnostici (sotto l’aspetto citologico le cellule neuroendocrine sono facilmente distinguibili dalle altre, ma l’identificazione di una cellula neuroendocrina trasformata rispetto alla controparte normale può presentare delle difficoltà e risultare più laboriosa specie nelle neoplasie ben differenziate). se la diagnosi certa non è possibile per la difficile accessibilità della neoplasia alla procedura di campionamento bioptico, si rende necessario un approccio di tipo laparoscopico o laparotomico, come nel nostro caso, in cui tale approccio ha consentito una diagnosi di certezza di tumore neuroendocrino. secondo la classificazione clinico-patologica proposta dalla world health organization (who) (tabella ii), si trattava di un carcinoma endocrino ben differenziato metastatico non funzionante con diagnosi confermata dall’analisi immunoistochimica. dopo tale diagnosi veniva effettuato un dosaggio ematico della cromogranina a che evidenziava valori di 145 ng/ml (vn fino a 100 ng/ml). la specificità della cga plasmatica nella diagnosi dei tumori neuroendocrini aumenta per livelli di proteina molte volte superiori a quelli normali. valori lievemente elevati, come nel caso descritto, vanno considerati con cautela e, comunque, controllati in differenti occasioni, in quanto anche condizioni fisiologiche come lo stress acuto o cronico, l’ipoglicemia, la gravidanza o l’esercizio fisico possono influenzare la concentrazione della cga nel sangue. le situazioni di più frequente riscontro responsabili di falsi positivi nel dosaggio della cga sono l’insufficienza epatica o renale, il trattamento con inibitori della pompa protonica o con calcio-antagonisti, l’ipertensione arteriosa, la presenza dell’helicobacter pylori e la gastrite cronica atrofica (nota bene: nella nostra paziente la determinazione della gastrinemia alla diagnosi evidenziava valori nella norma). nel follow-up un rapido incremento della cga è indice di outcome sfavorevole e, comunque, vi è buona correlazione (intorno al 90%) tra risposta alla terapia biologica o citostatica e diminuzione dei livelli di cga, mentre è intorno al 75% quella tra non risposta o progressione di malattia e aumento dei valori circolanti. la maggiore o minore espressione immunoistochimica alla cromogranina e agli altri marker utilizzati nella pratica diagnostica può essere estremamente variabile ed è legata al grado di differenziazione della neoplasia, alla sua attività proliferativa e al volume della massa tumorale. per tale motivo è raccomandabile l’utilizzo, nel sospetto di tumore neuroendocrino, di un panel di marcatori, selezionato a seconda della esperienza del patologo e della lesione in esame. esiste inoltre una correlazione tra densità dei granuli secretori nel tessuto tumorale e l’espressione tessutale e sierica della cga. neoplasie con scarsa rappresentazione granulare, indipendentemente dalle dimensioni, possono essere caratterizzate da scarsa o assente immunoreattività tessutale e da bassi livelli sierici di cga. questo impone un atteggiamento di cautela nell’interpretazione del dato relativo alla cga come indicatore di diagnosi e di estensione di malattia. importante appare invece l’utilizzo del marcatore nel monitoraggio della risposta alla terapia medica. la diagnosi di tumore endocrino non secernente è spesso occasionale ed è resa difficoltosa proprio dalla mancanza di marker tumorali specifici. in tale contesto, pur se suffragata da una minore quantità di dati rispetto ai tumori associati a sindrome, la validità della cga come marker tumorale si conferma soddisfacente con una sensibilità che oscilla tra il 50% e il 70%. un guadagno diagnostico in termini di sensibilità può essere ottenuto utilizzando altri marker tumorali “generici” come, ad esempio, il polipeptide pancreatico che, in combinazione tabella ii classificazione clinicopatologica dei tumori endocrini del pancreas ( world health organization) hpf = high power fields; ki67 = marker di proliferazione clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 23 i. lolli, a. logroscino, s. vallarelli, m.a. monteduro, a. gentile, g. troccoli con la cga, può fornire un incremento della sensibilità diagnostica nei tumori endocrini digestivi non associati a sindrome fino al 90%. si procedeva quindi a completare la diagnosi strumentale con tecniche di medicina nucleare. la scintigrafia radiorecettoriale con analoghi marcati della somatostatina (octreoscan) viene usata per la ricerca dei tumori neuroendocrini ben differenziati che esprimono i sottotipi recettoriali 2 e 5 della somatostatina (sensibili a un trattamento bioterapico con octreotide o lantreotide) e per il completamento della stadiazione del paziente. la scintigrafia con octreoscan con tracciante 111in-dtpa pentatreotide evidenziava, nella nostra paziente, un aumento della captazione del radio-indicatore in corrispondenza di due piccole aree del fegato evidenti soprattutto nelle immagini spect a 24h (figura 3). il dato era compatibile con la presenza di tessuto ad alta espressione e densità di recettori per la somatostatina. la positività dell’octreoscan nei tumori neuroendocrini del pancres è di circa l’80% e dipende dalla presenza e densità dei recettori della somatostatina. l’assenza di captazione pancreatica all’octreoscan nella nostra paziente potrebbe dipendere dalla distribuzione dei recettori della somatostatina sulla lesione primitiva evidentemente differente da quella presente sulle lesioni epatiche octreoscan positive. l’acquisizione mediante octreoscan del dato funzionale della presenza dei recettori della somatostatina sul tumore primitivo e/o sulle metastasi rappresenta il presupposto per intraprendere la terapia con analoghi della somatostatina e ha valore predittivo di risposta. è importante ricordare che aree di accumulo patologico a carattere aspecifico possono verificarsi in alcune condizioni quali: y processi flogistici linfocito-mediati; y tessuto cicatriziale recente; y essudati/trasudati; y gastrite atrofica; y noduli tiroidei; y milza accessoria. esclusa, nel nostro caso, l’opzione chirurgica per la diagnosi in fase avanzata e metastatica della neoplasia, la successiva strategia terapeutica è stata condizionata dalla valutazione dei fattori prognostici e predittivi di responsività che integrano la classificazione who dei tumori neuroendocrini: sede di insorgenza, grado di differenziazione, indice di proliferazione cellulare, volume tumorale, presenza di malattia epatica ed extraepatica, sintomi tumore correlati e positività all’octreoscan [4]. le condizioni generali della paziente, evidentemente compromesse dalla malattia diagnosticata in fase avanzata, la diagnosi di tumore neuroendocrino a metastatizzazione epatica non operabile, ben differenziato, il basso indice proliferativo del ki67 (< 2%), la positività all’octreoscan hanno indotto alla scelta di un trattamento con analoghi della somatostatina. evidenze cliniche confermano l’efficacia degli analoghi della somatostatina sul controllo della sintomatologia clinica da iperincrezione di amine e peptidi nei tumori neuroendocrini funzionanti. controverso è, invece, il loro reale impatto sul controllo della proliferazione tumorale nelle forme non funzionanti, ove una obiettiva riduzione della massa tumorale secondo i criteri who o recist (response evaluation criteria in solid tumor) può dimostrarsi in meno del 5% dei pazienti trattati con analoghi, a fronte di tassi di stabilizzazione di malattia in oltre il 50% dei casi [5]. un possibile effetto antitumorale, secondario ad attività antiproliferativa, emerge, inoltre, dallo studio promid (placebocontrolled prospective randomized study on the antiproliferative efficacy of octreotide lar in patients with metastatic neuroendocrine midgut tumor) in cui il trattamento con octreotide lar in nets metastatici o localmente inoperabili, sia funzionalmente attivi che inattivi, ad istologia ben differenziata, basso ki67 (< 2%) e con karnofsky performance status > 60, ha determinato un significativo incremento del tempo alla progressione rispetto al placebo (15,6 mesi vs 5,9), specialmente figura 3 octreoscan con 111in-dtpa pentatreotide clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 24 un caso di neoplasia endocrina non funzionante del pancreas trattato con analogo della somatostatina in caso di limitata malattia epatica (< 10%) e tumore primario resecabile. una stabilizzazione di malattia era osservata nel 66,7% dei pazienti del gruppo trattato [6]. la conclusione del caso descritto nel gennaio 2008 la paziente inizia la terapia con octreotide a rilascio prolungato, lar, 30 mg im una volta al mese, con controlli clinico-strumentali periodici, che, in caso di evidenza di progressione, avrebbero indotto a un differente approccio terapeutico (terapia loco-regionale, radioterapia metabolica, chemioterapia). il 6 giugno 2008 viene eseguita una tc di controllo da cui emergono: formazione di circa 3 cm in regione cefalo-pancreatica, lieve ectasia del dotto epatico e lieve dilatazione del coledoco e vie biliari intraepatiche, ridotte di numero le lesioni epatiche. il 4 novembre dello stesso anno, a causa del dislocamento della protesi temporanea, si procede a ercp con sostituzione e posizionamento di nuova protesi metallica definitiva auto-espandibile. tale procedura è complicata da episodio di pancreatite acuta risoltasi con terapia conservativa. il 21 settembre del 2009 viene eseguita un’altra tc in cui si evidenzia che la formazione espansiva di circa 3 cm in corrispondenza della regione cefalo-pancreatica è invariata. immodificata anche la lieve estasia del dotto pancreatico. aerobilia delle vie biliari intraepatiche con stent coledocico. sovrapponibili per numero e dimensioni le focali impregnazioni epatiche. il trattamento con analogo della somatostatina prosegue tuttora e risulta ben tollerato tranne episodi di meteorismo e diarrea saltuaria. la paziente, dopo oltre 20 mesi dall’inizio del trattamento, presenta un ps (performance status) di 90, normalizzazione della cromograninemia e un quadro tc di stazionarietà della lesione pancreatica con riduzione dimensionale delle metastasi epatiche. conclusioni nonostante i tumori neuroendocrini siano di riscontro relativamente raro nella comune pratica clinica, la loro precisa identificazione riveste notevole importanza perché essi presentano aspetti di diagnostica strumentale, terapia e prognosi spesso molto diversi da quelli della controparte neoplastica di natura non endocrina. il trattamento curativo per i tumori neuroendocrini non funzionanti del pancreas è la resezione chirurgica con intento radicale ove possibile. nel caso la chirurgia non sia proponibile, il trattamento medico dei tumori endocrini è difficile per l’eterogeneità istologica, biologica e clinica di queste neoplasie in cui non esiste una terapia standard, ma approcci terapeutici differenti da adattare al singolo paziente [7]. nei tumori funzionanti la priorità è quella di ridurre i sintomi utilizzando gli analoghi della somatostatina da associare a chemioterapia se il tumore presenta caratteristiche biologiche di alta aggressività. qualora il fegato sia l’unica sede della malattia metastatica con numero di lesioni non elevato, è indicato un trattamento loco-regionale con chemioembolizzazione e termoablazione con radiofrequenza. quando la malattia è estesa e presenta refrattarietà alla terapia convenzionale, si può ricorrere a una terapia radiometabolica che utilizza radionuclidi coniugati agli analoghi della somatostatina, in caso di ipercaptazione alla scintigrafia radiorecettoriale [8]. sensibili alla chemioterapia sono i tumori endocrini a localizzazione pancreatica sia nelle forme scarsamente differenziate che in quelle a citologia ben differenziata e a modesto indice proliferativo [9]. possono giovarsi invece di una bioterapia con analoghi della somatostatina, i carcinomi neuroendocrini pancreatici non funzionanti, ben differenziati, a metastatizzazione epatica, se esibiscono un indice proliferativo molto basso (ki67 < 2%) ed evidenziano una elevata densità recettoriale all’octreoscan. nel nostro caso la terapia con analoghi della somatostatina ha determinato un miglioramento delle condizioni generali della paziente e consente a tutt’oggi un prolungato e soddisfacente controllo locale e generale della malattia. clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 25 i. lolli, a. logroscino, s. vallarelli, m.a. monteduro, a. gentile, g. troccoli bibliografia 1. heitz pu, kommintoth p, perren a et al. pancreatic endocrine tumours. in: de lellis ra, lloyd ru, heitz pu, eng c (a cura di). pathology and genetics of tumours of endocrine organs. world health organization classification of tumours. lyon: jarc press, 2004 2. falconi m, plockinger u, kwekkeboom dj, manfredi r, korner m, kvols l et al. well differentiated pancreatic non functioning tumours carcinoma. neuroendocrinology 2006; 84: 196-211 3. bettini r, boninsegna l, mantovani w, capelli p, bassi c, pederzoli p et al. prognostic factors at diagnosis and value of who classification in a no institutional series of 180 non-functioning pancreatic endocrine tumours. ann oncol 2008; 19: 903-8 4. fischer l, kleeff j, esposito i, hinz u, zimmermann a, friess h, büchler mw. clinical outcome and long-term survival in 118 consecutive patients with neuroendocrine tumours of the pancreas. br j surg 2008; 95: 627-35 5. susini c, buscail l. rationale for the use of somatostatin analogs as antitumor agents. ann oncol 2006; 17: 1733-42 6. rinke a, müller hh, schade-brittinger c, klose kj, barth p, wied m et al. placebo controlled double-bind, prospective, randomized study on the effect of ocreotide lar in the control of tumour growth in patients with metastatic neuroendocrine midgut tumors: a report from the promid study group. j clin oncol 2009; 22: 8510. 7. oberg k, eriksson b. endocrine tumours of the pancreas. best pract reg clin gastroenterol 2005; 19: 753-81 8. kaltsas ga. treatment of the advanced neuroendocrine tumours with radiolabelleded somatostatin analogues. endocr relat cancer 2005; 12: 683-99 9. vilar e, salazar r, perez-carcia j, oberg k, tabernero j. chemiotherapy and role of the proliferation marker ki-67 in digestive neuroendocrine tumours. endocr relat cancer 2007; 14: 221-32 terapia con octreotide in una paziente affetta da microcitoma polmonare (sclc) daniela adua1, bruno gori1, luciano stumbo1, ester del signore1, flavia longo1 caso clinico efficacia della terapia con analoghi della somatostatina sulla sopravvivenza e qualità di vita in una paziente “frail” con net scarsamente differenziato delle vie biliari marco alì 1, antonino d’agostino 2, alfio todaro 2, andrea girlando 2, marcello ferrara 3, rosanna aiello 1 caso clinico terapia protratta con octretide acetato lar nel carcinoma neuroendocrino a larghe cellule del polmone alfredo butera 1 caso clinico un caso di neoplasia endocrina non funzionante del pancreas trattato con analogo della somatostatina ivan lolli1, antonio logroscino1, simona vallarelli1, maria a. monteduro2, antonella gentile1, giuseppe troccoli1 caso clinico trattamento del microcitoma del polmone con differenziazione neuroendocrina nel paziente anziano alessandra bearz 1, arben lleshi 1, lucia fratino 1, silvia venturini 1, massimiliano berretta 1, umberto tirelli 1 27 clinical management issues caso clinico nel 1999 una donna di 60 anni si è presentata nel nostro ospedale per il riscontro all’esame emocromocitometrico di una leucocitosi, esame eseguito per dolore persistente, in addome, al fianco sinistro. al momento del ricovero si attestava ipertensione arteriosa in trattamento, ben tollerato con normalizzazione e stabilità dei valori pressori. all’esame clinico non si rilevavano febbre né segni sistemici (sudori notturni, calo ponderale, prurito diffuso), mentre all’esame obiettivo era presente una splenomegalia importante (23 cm dall’arco in apnea). l’esame emocromocitometrico ha evidenziato i seguenti valori: globuli bianchi perché descriviamo questo caso per ricordare che: y gli inibitori di ii generazione, con meccanismi di azione differenti e con attività inibitoria più potente, permettono una terapia “sequenziale” capace, come nel nostro caso, di ottenere risposte citogenetiche e molecolari anche nelle fasi croniche tardive; y ci sono dei casi di malattia resistenti con analisi mutazionale negativa, a prova del fatto che esistono diversi meccanismi di resistenza, oltre che la comparsa di mutazioni; y è importante saper gestire in modo corretto gli eventi avversi dei farmaci per garantirne una corretta assunzione corresponding author dott. emilio usala emiliousala@tiscali.it caso clinico abstract we describe the case of a 60-year-old woman who was admitted to our hospital in 1999. a blood test performed for pain in the upper left side of the abdomen had showed leukocytosis. at the admission the patient was apyretic, with no systemic signs. an important splenomegaly was found at physical examination. the results of the bone marrow aspiration (hypercellularity) and the cytogenetic analysis (chromosoma ph in all metaphasis) allowed us to diagnose cml. the patient’s sokal score was high (1.252). the patient was treated with hydroxyurea until 2002, when imatinib became available. then she started imatinib at the dosage of 400 mg/die. tests performed during the follow up showed a fast haematological response but no cytogenetic response in two years. the patient received imatinib until february 2004, when a psoriasiform-lichenoid dermatosis appeared. therefore we decided to interrupt the therapy and the skin lesions disappeared. after starting again imatinib, also dermatosis reappeared, so we decided to interrupt imatinib definitively. on july 2007 the patient started dasatinib, a 2nd generation tki. no adverse events occurred and cytogenetic analysis performed periodically was always positive (no response). she continued on dasatinib until may 2010, when she switched to nilotinib. in seven months a complete cytogenetic response (ccyr) was documented with level reduction of bcr abl transcript from 13.0 to 2.0. currently the patient is still receiving nilotinib, with persistent ccyr. keywords: nilotinib; late chronic phase cml; intolerance to imatinib; resistance to dasatinib efficacy of nilotinib in a patient in late chronic phase cml, intolerant to imatinib and resistant to dasatinib cmi 2011; 5(suppl 5): 27-30 1 struttura complessa di ematologia, presidio ospedaliero a. businco, asl cagliari emilio usala 1 efficacia di nilotinib nel trattamento della lmc in fase cronica tardiva intollerante a imatinib e resistente a dasatinib disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. 28 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) efficacia di nilotinib nel trattamento della lmc in fase cronica tardiva strutturalmente un miglioramento di imatinib e 30 volte più potente. se con il primo si era ottenuta una risposta citogenetica minore c’erano buone probabilità che nilotinib avrebbe migliorato questa risposta. così convinta, la paziente ha iniziato terapia con nilotinib 800 mg al dì. il farmaco è stato ben tollerato e a dicembre 2010 è stata documentata una risposta citogenetica completa con una riduzione dei valori della proteina bcr/abl da 13,0 a 3,0. attualmente la paziente continua il trattamento con nilotinib e il monitoraggio conferma la risposta citogenetica completa e una ulteriore riduzione del trascritto a 2,0 (figure 1-2). discussione la terapia della leucemia mieloide cronica con imatinib ha cambiato radicalmente la storia clinica e l’evoluzione della malattia. i dati riportati dallo studio iris sono entusiasmanti sia per il medico sia, soprattutto, per il paziente, con sopravvivenza a 8 anni del 90%, nei pazienti che tollerano il trattamento [1]. questi risultati sono sostenuti dalla alta percentuale di risposte citogenetiche complete, essendo questo un marcatore surrogato ormai validato. i dati emergenti dalla messe di parametri che vengono testati evidenziano che la quantità di trascritto presente, intesa come risposta molecolare, quando raggiunge o scende al di sotto del valore di 0,1 mantiene stabile la risposta citogenetica, che raramente viene persa, con conseguente annullamento degli eventi di progressione tipici della malattia. il caso clinico descritto dimostra l’importanza dell’utilizzo degli inibitori anche nel caso che non si raggiungano gli obiettivi necessari: la malattia, nonostante l’assenza di risposta citogenetica completa è rimasta, per anni, in fase cronica. evidentemente il farmaco, in qualche modo, modifica il decorso naturale della malattia e permette una sopravvivenza superiore a quella che si ottiene con i farmaci citostatici che si usavano precedentemente. la recente disponibilità di altri inibitori della tirosin chinasi, nilotinib e dasatinib, più potenti e più efficaci di imatinib, permette il trattamento e il recupero di una importante quota di pazienti che non rispondono o sono intolleranti a imatinib. i dati che emergono oooooo figura 1. andamento della risposta citogenetica della paziente in relazione al suo percorso terapeutico figura 2. andamento della risposta molecolare della paziente in relazione al suo percorso terapeutico 413.000/mm3 (con presenza di elementi precursori della serie granuloblastica all’esame dello striscio); emoglobina 10,9 gr/dl; piastrine 289.000/mm3. gli esami di chimica clinica risultavano in ordine, tranne che per i valori di latticodeidrogenasi (8893 mu/l). la valutazione cardiologica con ecocardiogramma ha escluso la presenza di cardiopatia significativa. l’esame radiologico del torace è risultato negativo per lesioni pleuropolmonari in atto o pregresse. l’esame dell’aspirato midollare (incremento della serie granuloblastica; quota di basti e promielociti nella norma), l’indagine citogenetica (riscontro del cromosoma filadelfia nelle 20 metafasi esaminate) e l’indagine di biologia molecolare (riscontro del trascritto) ci hanno permesso di porre diagnosi di leucemia mieloide cronica ph+, con trascritto b3a2. il calcolo del rischio relativo sokal è risultato alto (1.252). la paziente è stata sottoposta a trattamento con idrossiurea a tolleranza, con una lenta e progressiva riduzione del numero dei globuli bianchi e delle dimensioni della milza. dimessa, dopo qualche settimana, è stata seguita nel nostro servizio ambulatoriale. la paziente ha continuato il trattamento con idrossiurea fino a febbraio 2002, quando è stato immesso in commercio imatinib: sospesa quindi la terapia con idrossiurea, è eseguita, ha però evidenziato, al diciottesimo mese di trattamento, solo una risposta citogenetica minore. non essendo disponibili farmaci alternativi e non essendo idonea al trapianto di midollo osseo, la paziente ha continuato il trattamento con imatinib. il farmaco è stato ben tollerato, la risposta ematologica completa è stata mantenuta ma i controlli citogenetici periodicamente eseguiti hanno sempre evidenziato una risposta citogenetica minore. nel mese di febbraio 2004 la signora si è presentata estemporaneamente alla nostra osservazione per la comparsa di una importante lesione cutanea al dorso. sottoposta a consulenza dermatologica, ha praticato una biopsia della lesione con esame istologico indicativo per “dermatite psoriasiforme lichenoide”, compatibile con lesione da imatinib. il farmaco è stato sospeso e la lesione è stata trattata con steroidi per via orale, con regressione completa in due settimane. alla ripresa del trattamento con imatinib è però comparsa nuovamente anche la lesione cutanea, peraltro più aggressiva e sempre nella stessa sede. a maggio 2005 imatinib è stato definitivamente sospeso. la paziente è stata informata sulla possibilità di essere inserita in un protocollo sperimentale che prevedeva l’utilizzo del nuovo inibitore nilotinib ma, pur non presentando, in base alle sue caratteristiche e ai requisiti del protocollo, controindicazioni al trattamento, la paziente ha deciso di non partecipare al protocollo. si è quindi tornati al trattamento con idrossiurea a tolleranza fino a luglio 2007, quando, dopo attenta valutazione cardiaca e polmonare, la paziente è stata sottoposta a trattamento con dasatinib alla dose di 100 mg/die. il farmaco, che all’epoca era l’unico in commercio con indicazione per la seconda linea di trattamento, è stato ben tollerato. la remissione ematologica è stata mantenuta ma le indagini citogenetiche, eseguite periodicamente, hanno sempre evidenziato l’assenza di risposta citogenetica di qualsiasi grado, con presenza del cromosoma ph in tutte le metafasi analizzabili. l’analisi mutazionale eseguita è risultata negativa per mutazioni del gene neoplastico. il trattamento è continuato fino a maggio 2010 quando la paziente è stata informata sulla necessità di passare ad altro trattamento. le è stato riproposto nilotinib, con due motivazioni: 1) nel frattempo il farmaco aveva ricevuto l’autorizzazione al commercio ed era disponibile sul mercato; 2) il farmaco era stato iniziato il trattamento con imatinib alla dose standard di 400 mg/die. il farmaco è stato ben tollerato e la paziente ha ottenuto, prontamente, la risposta ematologica completa. l’analisi del cariotipo, periodicamente 29 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) e. usala strutturalmente un miglioramento di imatinib e 30 volte più potente. se con il primo si era ottenuta una risposta citogenetica minore c’erano buone probabilità che nilotinib avrebbe migliorato questa risposta. così convinta, la paziente ha iniziato terapia con nilotinib 800 mg al dì. il farmaco è stato ben tollerato e a dicembre 2010 è stata documentata una risposta citogenetica completa con una riduzione dei valori della proteina bcr/abl da 13,0 a 3,0. attualmente la paziente continua il trattamento con nilotinib e il monitoraggio conferma la risposta citogenetica completa e una ulteriore riduzione del trascritto a 2,0 (figure 1-2). discussione la terapia della leucemia mieloide cronica con imatinib ha cambiato radicalmente la storia clinica e l’evoluzione della malattia. i dati riportati dallo studio iris sono entusiasmanti sia per il medico sia, soprattutto, per il paziente, con sopravvivenza a 8 anni del 90%, nei pazienti che tollerano il trattamento [1]. questi risultati sono sostenuti dalla alta percentuale di risposte citogenetiche complete, essendo questo un marcatore surrogato ormai validato. i dati emergenti dalla messe di parametri che vengono testati evidenziano che la quantità di trascritto presente, intesa come risposta molecolare, quando raggiunge o scende al di sotto del valore di 0,1 mantiene stabile la risposta citogenetica, che raramente viene persa, con conseguente annullamento degli eventi di progressione tipici della malattia. il caso clinico descritto dimostra l’importanza dell’utilizzo degli inibitori anche nel caso che non si raggiungano gli obiettivi necessari: la malattia, nonostante l’assenza di risposta citogenetica completa è rimasta, per anni, in fase cronica. evidentemente il farmaco, in qualche modo, modifica il decorso naturale della malattia e permette una sopravvivenza superiore a quella che si ottiene con i farmaci citostatici che si usavano precedentemente. la recente disponibilità di altri inibitori della tirosin chinasi, nilotinib e dasatinib, più potenti e più efficaci di imatinib, permette il trattamento e il recupero di una importante quota di pazienti che non rispondono o sono intolleranti a imatinib. i dati che emergono oooooo figura 1. andamento della risposta citogenetica della paziente in relazione al suo percorso terapeutico figura 2. andamento della risposta molecolare della paziente in relazione al suo percorso terapeutico dagli studi clinici fino ad ora fatti evidenziano la loro capacità di indurre risposte citogenetiche e molecolari complete in una alta percentuale di pazienti e, soprattutto, che questi risultati vengono mantenuti nel tempo con una progression free survival intorno al 60% [2,3]. questi risultati hanno indotto la comunità scientifica e le stesse aziende produttrici a testare questi farmaci nella terapia di prima linea. i risultati evidenziano una percentuale di risposte citogenetiche e molecolari complete significativamente superiori rispetto a quelli ottenuti con imatinib [4]. qualora essi siano confermati nel tempo sarà possibile progettare dei protocolli che prevedano la sospensione del trattamento con lo scopo di documentare la “cura” della malattia. questi inibitori di seconda generazione differiscono per selettività su chinasi diverse da bcr-abl, caratteristiche farmacocinetiche, modalità di influsso ed efflusso cellulare e possono essere attivi in pazienti resistenti o intolleranti a precedenti terapie. sono stati pubblicati degli studi che dimostrano che non esiste una cross resistenza tra nilotinib e dasatinib e che il loro uso può indurre risposte citogenetiche e molecolari nei casi di doppia resistenza [5,6]. il caso della nostra paziente conferma questi dati: dopo dieci anni dalla diagnosi, ha potuto usufruire, in terza linea, di un inibitore di seconda generazione che ha portato al raggiungimento dei risultati indicativi di lunga sopravvivenza. la precocità dei risultati fa ben sperare per il loro mantenimento nel tempo. 30 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) efficacia di nilotinib nel trattamento della lmc in fase cronica tardiva domande da porsi y in caso di resistenza alla terapia con tki è importante eseguire l ’analisi per la ricerca di mutazioni del gene bcr-abl? y qual è la principale differenza fra il meccanismo d ’azione di dasatinib e quello di nilotinib? risposte y l’analisi mutazione è utile in caso di resistenza ai tki perché ci mette al riparo da un possibile uso improprio dei farmaci. esistono mutazioni che sono resistenti ad alcuni farmaci, ma sensibili ad altri. la loro individuazione è importante per la scelta terapeutica y dasatinib, oltre che sulla proteina bcr-abl, agisce anche sul sistema src, inibendolo mentre nilotinib agisce sulla proteina bcr-abl. questa differenza è alla base di una diversa selettività e della comparsa di effetti collaterali differenti. bibliografia 1. hochhaus a, o’brien sg, guilhot f, druker bj, branford s, foroni l, et al; iris investigators. six-years follow-up of patients receiving imatinib for the first-line treatment of chronic myeloid leukemia. leukemia 2009; 23: 1054-61 2. kantarjian h, pasquini r, lévy v, jootar s, holowiecki j, hamerschlak n, et al. dasatinib or high-dose imatinib for chronic-phase chronic myeloid leukemia resistant to imatinib at a dose of 400 to 600 milligrams daily: two-year follow-up of a randomized phase 2 study (start-r). cancer 2009; 115: 4136-7 3. kantarjian hm, giles fj, bhalla kn, pinilla-ibarz j, larson ra, gattermann n, et al. nilotinib is effective in patients with chronic myeloid leukemia in chronic phase after imatinib resistance or intolerance: 24-month follow-up results. blood 2011; 117: 1141-5 4. kantarjian hm, hochhaus a, saglio g, souza cd, flinn iw, stenke l, et al. nilotinib versus imatinib for the treatment of patients with newly diagnosed chronic phase, philadelphia chromosome-positive, chronic myeloid leukaemia: 24-month minimum follow-up of the phase 3 randomised enestnd trial. lancet oncol 2011; 12: 841-51 5. quintas-cardama a, kantarjian h, jones d, nicaise c, o’brien s, giles f, et al. dasatinib (bms-354825) is active in philadelphia chromosome-positive chronic myelogenous leukemia after imatinib and nilotinib (amn107) therapy failure. blood 2007; 109: 497-9 6. giles fj, abruzzese e, rosti g, kim dw, bhatia r, bosly a, et al. nilotinib is active in chronic and accelerated phase chronic myeloid leukemia following failure of imatinib and dasatinib therapy. leukemia 2010; 24: 1299-301 resistenza e/o intolleranza: ancora una chance! luigia luciano 1 efficacia di nilotinib in un giovane paziente affetto da lmc ad alto rischio sokal in fallimento terapeutico dopo imatinib ad alte dosi sabina russo 1, giuseppa penna 1, arianna d’angelo 1, alessandro allegra 1, andrea alonci 1, caterina musolino 1 caso clinico efficacia di nilotinib in un paziente in risposta non ottimale dopo terapia con imatinib a fronte di una ridotta compliance al nuovo farmaco francesca sassolini 1 caso clinico risposta molecolare completa indotta da nilotinib come terza linea di terapia in paziente affetta da leucemia mieloide cronica con mutazione f317l del dominio chinasico di bcr/abl maria iovine 1, mario troiano 1, giuseppe monaco 1, antonio abbadessa 1 caso clinico efficacia di nilotinib nel trattamento della lmc in fase cronica tardiva intollerante a imatinib e resistente a dasatinib emilio usala 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3) 25 clinical management issues caso clinico nel gennaio 2006 una donna di 40 anni viene inviata dal medico curante presso l’ambulatorio di ematologia per il riscontro di notevole leucocitosi all’esame emocromocitometrico, eseguito per marcata astenia. la paziente si presenta in discrete condizioni cliniche generali; l’anamnesi patologica remota è completamente negativa; l’anamnesi familiare è negativa per patologie onco ematologiche. non ha germani. riferisce febbricola, astenia e tensione addominale, presenti da alcune settimane. all’esame obiettivo sono presenti alcune ecchimosi agli arti inferiori e splenomegalia, con milza palpabile a 12 cm dall’arcata costale. gli esami di laboratorio confermano la notevole leucocitosi (wbc 454.000/mm3; hb 9,5 gr/dl; plts 279.000/mm3, allo striscio di sangue periferico: neutrofili 47%, linfociti 8%, monociti 6%, basofili 3%, metamielociti 11%, corresponding author dott. mario annunziata annunziatam@libero.it caso clinico abstract we describe here the case of a 40-years-old woman diagnosed as having chronic phase chronic myeloid leukemia and treated with standard dose of imatinib; the patient obtained the complete cytogenetic remission in 7 months, but she failed to achieve major molecular response (mmolr) after more than18 months of imatinib therapy. sub-optimal response, defined according european leukemianet guidelines, persisted despite of increasing imatinib dose to 600 mg daily. no bcr-abl mutations were detected. three months after switching to nilotinib 800 mg bid, the patient obtained mmolr. she experienced any toxicities due to nilotinib. we speculate about use of nilotinib in patients classified as sub-optimal at 18 months from imatinib. keywords: chronic myeloid leukemia; imatinib; nilotinib; sub-optimal response; early switch rapid and sustained molecular response to nilotinib in a patient with sub-optimal response to imatinib cmi 2011; 5(suppl 3): 25-28 1 divisione di ematologia con trapianto, ao cardarelli, napoli mario annunziata 1 rapida e duratura risposta molecolare con nilotinib in una paziente in risposta non ottimale a imatinib perché descriviamo questo caso i pazienti in risposta sub-ottimale rappresentano un gruppo eterogeneo nei quali la prognosi dipende anche dal momento in cui è presente la risposta sub-ottimale. i pazienti in risposta sub-ottimale a 6 e 12 mesi sono spesso considerati per uno switch precoce a un secondo inibitore di tk, mentre quelli con risposta sub-ottimale a 18 mesi sono paragonati prognosticamente ai pazienti in risposta ottimale. il caso clinico descritto evidenzia come una risposta sub-ottimale a 18 mesi di terapia con imatinib abbia avuto un significativo incremento della quota di trascritto a dispetto anche dell ’incremento di dose di farmaco. anche in questo sottogruppo di pazienti potrebbe essere preso in considerazione lo switch precoce a un secondo inibitore di tk disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. mailto:annunziatam@libero.it ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3)26 rapida e duratura risposta molecolare con nilotinib in una paziente in risposta non ottimale a imatinib mielociti 12%, promielociti 11%, mieloblasti 2%); si pratica, quindi, il mieloaspirato. l’esame morfologico del preparato mostra marcata ipercellularità della serie granulocitaria e blasti mieloidi valutabili intorno al 2%; viene avviata dunque terapia con idrossiurea in attesa delle indagini di citogenetica e biologia molecolare. la presenza del cromosoma philadelphia in tutte le metafasi analizzate e del trascritto ibrido bcr/abl p210 b2a2 conferma la diagnosi di leucemia mieloide cronica in fase cronica (rischio sokal 1,03 euro score 824) e viene iniziata terapia con imatinib 400 mg/die. la paziente tollera bene la terapia e in 28a giornata si ottiene la remissione ematologica completa. nel maggio 2006, a +3 mesi dall’inizio di imatinib, viene eseguito il mieloaspirato di controllo che evidenzia remissione citogenetica completa (ccyr), con nessuna metafase ph positiva su 20 analizzate, ma assenza di risposta molecolare maggiore (mmolr) (rapporto bcr-abl/abl 1,76). nel settembre 2006, il monitoraggio al mese +7 dall’inizio della terapia in corso conferma la ccyr, ma ancora assenza di risposta molecolare (bcr-abl/abl is 1,97). al mese +12 e al mese +18 dall’inizio di imatinib la paziente, ai rispettivi controlli, presenta ancora ccyr, ma assenza di risposta molecolare, con trascritto ibrido in entrambi i casi superiore a 0,1%is (ratio 0,5 e 0,3). sulla base delle raccomandazioni eln 2006, allora disponibili, la paziente viene classificata come “sub-optimal” [1]. la paziente è perfettamente aderente alla terapia, come dimostrato anche dal dosaggio plasmatico di imatinib, effettuato al mese +18. si decide quindi di incrementare la dose di imatinib a 600/mg die. nel febbraio 2008 (+24 mesi dall’inizio di imatinib e 6 mesi a dosaggio di 600 mg/die) viene eseguita nuova rivalutazione midollare; la citogenetica convenzionale conferma la remissione completa e l’analisi molecolare in rq-pcr è sostanzialmente invariata rispetto al precedente controllo (0,2% is); prosegue quindi imatinib 600 mg/die. il controllo al mese +30 invece mostra un incremento di circa 1 log del trascritto bcr/abl rispetto alla valutazione precedente. si decide quindi di eseguire uno screening mutazionale che risulta negativo. si opta per una diversione terapeutica con un inibitore di seconda generazione, e la scelta cade su nilotinib, per cui, nel settembre 2008, la paziente inizia terapia con nilotinib a 400 mg / 2 volte al giorno. la paziente tollera bene la terapia ematologica; non è presente alcuna tossicità ematologica né extraematologica. nel dicembre 2008, a +3 mesi dall’inizio di nilotinib, viene eseguito il mieloaspirato di controllo che conferma la ccyr (nessuna metafase ph positiva su 20 analizzate) e attesta anche la mmolr (bcr-abl/abl is 0,1). il controllo in rq-pcr a +6 mesi dall’inizio di nilotinib mostra una ulteriore riduzione del trascritto (bcr-abl/abl is 0,01); la mmolr viene confermata a tutti i successivi controlli (figura 1). la mmolr rimane confermata all’ultimo controllo del dicembre 2010, a +27 mesi dall’inizio della terapia con un inibitore di seconda generazione; la paziente prosegue la terapia con nilotinib 400 mg due volte al dì senza alcuna tossicità ematologica né extraematologica; tutti i parametri di laboratorio eseguiti sono risultati sempre nella norma. domanda si doveva evitare l ’incremento di dose di imatinib utilizzando un secondo inibitore al 18° mese? discussione lo studio iris ha dimostrato che imatinib permette di ottenere elevate percentuali di risposte ematologiche e citogenetiche figura 1 andamento bcrabl/abl della paziente ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3) 27 m. annunziata complete, oltre che risposte molecolari maggiori, che si traducono nell’85% di sopravvivenza globale stimata a 8 anni e nel 92% di sopravvivenza libera da progressione [2]. lo stesso studio evidenzia anche che il 20-25% circa dei pazienti presenta una resistenza citogenetica primitiva a imatinib, più raramente secondaria. il meccanismo di resistenza più conosciuto e studiato è rappresentato dalle mutazioni. le risposte cosidette sub-ottimali, così come definito secondo i criteri dell’european leukemianet (eln), sono espressione comunque di un certo grado di resistenza della malattia al farmaco, e possono influire sulla prognosi del paziente. le recenti linee guida eln 2009 indicano che i pazienti in risposta sub-ottimale possono ancora ricevere beneficio dalla terapia con imatinib, ma poiché la prognosi a lungo termine potrebbe non essere ottimale, il paziente è eleggibile per altri trattamenti (tabella i) [3]. gli studi recenti suggeriscono però che pazienti con risposta sub-ottimale rappresentano una categoria di pazienti distinta per outcome differente, tenendo anche conto che la risposta sub-ottimale è una risposta dinamica. i pazienti in risposta sub-ottimale sono infatti un gruppo eterogeneo nel quale la prognosi dipende anche dal momento in cui è presente la risposta sub-ottimale. infatti in una recente casistica, pazienti con risposta sub-ottimale a 6 e 12 mesi hanno avuto una prognosi simile ai pazienti in failure, a differenza di quelli in risposta sub-ottimale a 18 mesi che avrebbero un outcome simile a quelli con risposta ottimale [4]. su questa base i pazienti in risposta sub-ottimale a 6 e 12 mesi sono candidati ad uno switch precoce a un secondo inibitore di tk. il caso clinico in discussione descrive una paziente in risposta sub-ottimale a imatinib oltre i 18 mesi di trattamento. l’incremento del dosaggio a 600 mg die, seppur ben tollerato dalla paziente, si è rivelato inefficace, traducendosi, dopo oltre 12 mesi, in un aumento del trascritto di oltre un log, seppure ancora in presenza di ccyr. l’assenza di mutazioni puntiformi del trascritto ibrido fa presupporre meccanismi di resistenza a imatinib differenti dalle mutazioni. nilotinib, un inibitore di tk di seconda generazione, che presenta maggiore affinità di legame con il dominio chinasico di bcr-abl, oltre a maggiore selettività, si è dimostrato altamente efficace nei pazienti in fase cronica resistenti a imatinib. i risultati, recentemente aggiornati, dello studio di fase ii in questo setting di pazienti ha evidenziato il 94% di risposte ematologiche complete, il 59% di risposte citogenetiche maggiori e una sopravvivenza globale stimata a 2 anni dell’88% [5-6]. anche nel nostro caso nilotinib ha dimostrato efficacia in tempi brevi: la paziente, in sola ccyr con imatinib a 30 mesi, ha ottenuto una mmolr a 3 mesi dall’inizio del secondo inibitore, e la quota di trascritto si è ridotta ulteriormente ai controlli successivi. tabella i raccomandazioni eln 2009[3] (in grassetto le aggiunte rispetto alla versione 2006 [1]) cca = clonal chromosome abnormalities; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; hr = risposta ematologica; mcyr = risposta citogenetica minore; mmolr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile; pcyr = risposta citogenetica parziale * bassi livelli di insensibilità a imatinib ** alta insensibilità a imatinib risposta ottimale (non definita precedentemente) risposta subottimale fallimento warnings baseline na na na alto rischio cca/ph+ 3 mesi chr e almeno mcyr (ph+ ≤ 65%) no cyr (ph+ > 95%) 35%) no cyr (ph+ > 95%) na 12 mesi ccyr pcyr (ph+ 1-35%) 35%) < mmolr 18 mesi mmolr < mmolr < ccyr na qualsiasi momento nel corso della terapia mmolr stabile o in miglioramento perdita di mmolr mutazioni* perdita di chr perdita di ccyr mutazioni** cca/ph+ aumento nei livelli di trascritto cca/ph– ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3)28 rapida e duratura risposta molecolare con nilotinib in una paziente in risposta non ottimale a imatinib la tossicità sia ematologica che extraematologica da nilotinib è stata del tutto trascurabile. in conclusione, considerando l’andamento clinico del caso descritto, sarebbe possibile prendere in considerazione l’uso di nilotinib come alternativa precoce anche in pazienti in risposta sub-ottimale a imatinib già a 18 mesi di trattamento, riducendo il rischio di progressione della malattia. considerazioni finali y le alte dosi di imatinib sono generalmente mal tollerate y l’incremento di dose a 600 mg/die può non essere efficace anche in un paziente con risposta sub-ottimale y lo switch precoce a nilotinib anche in pazienti con risposta sub-ottimale a 18 mesi dovrebbe essere preso in considerazione bibliografia 1. baccarani m, saglio g, goldman j, hocchaus a, simonsson b, appelbaum f et al. evolving concepts in the management of chronic myeloid leukaemia. recommendations from an expert panel on behalf of the european leukemianet. blood 2006; 108: 1809-20 2. druker bj, guilhot f, o’brien s, gathmann i, kantarjian h, gattermann n et al. five year follow-up of patients receiving imatinib for chronic myeloid leukaemia. n engl j med 2006; 355: 240817 3. baccarani m, cortes j, pane f, neiderwieser d, saglio g, apperley j et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009: 27: 6041-51 4. alvarado y, kantarjian h, o’brien s, faderl s, borthakur g, burger j et al. significance of suboptimal response to imatinib, as defined by european leukemianet, in the long term outcome of patients with early chronic myeloid leukemia in chronic phase. cancer 2009; 115: 3709-18 5. kantarjian h, giles f, bhalla kn, larson ra, gattermann n, ottmann og et al. nilotinib in chronic myeloid leukemia patients in chronic phase with imatinib resistance or intolerance: 2-years followup results of phase ii study. blood 2008; 112: 3238 6. swords r, mahalingam d, padmanabhan s, carew j, giles f. nilotinib: optimal therapy for patients with chronic myeloid leukemia and resistance or intolerance to imatinib. drug des devel ther 2009; 23: 16981707 7. kantarjian h, o’brien s, talpaz m, borthakur g, ravandi f, faderl s et al. outcome of patients with ph chromosome positive chronic myeloid leukaemia post imatinib mesylate failure. cancer 2007; 109: 1556-60 8. deininger mw, o’brien s, ford jm, druker bj. practical management of patients with chronic myeloid leukemia receiving imatinib. j clin oncol 2003; 21: 1637-47 quesiti terapeutici in corso di leucemia mieloide cronica bruno martino 1 efficacia di nilotinib in un paziente ricaduto dopo 9 anni di terapia con imatinib e in risposta citogenetica completa stabile marzia defina 1 efficacia e sicurezza di nilotinib, dopo risposta sub-ottimale a imatinib, in paziente con leucemia mieloide cronica e tachicardia parossistica sopraventricolare stefana impera 1, ugo consoli 1, giuseppina uccello 1, patrizia guglielmo 1 differente risposta a imatinib e nilotinib in relazione al tempo di somministrazione paolo danise 1 rapida e duratura risposta molecolare con nilotinib in una paziente in risposta sub-ottimale a imatinib mario annunziata 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 75 clinical management issues case report a 70-year-old teacher, a good eater, didn’t drink any wine and any alcoholic drinks. his intestinal transit and his diuresis were normal. he was a nonsmoker, a single and he didn’t take any therapy. in his past medical history we found hypertension, prostatic hypertrophy, appendectomy, and melanoma in the left arm in 2002. in november 2008 he was admitted to hospital because of wheezing with fever chills, symmetrical arthralgias, and relevant asthenia. he was apiretic. physical examination revealed obtuseness chest and showed mean pleural effusion; the neurological examination showed that the patient was sound; the cranial nerve function was observed: the sensation, the muscle strength, and tenden reflex were normal. the heart sound was normal, and there were no oedema on lower extremities. in the abdomen we found no specific abnormalities and blumberg sign was negative. there were introduction pure red cell aplasia (prca) describes a condition where the rbc precursors in bone marrow are nearly absent, while megakaryocytes and wbc precursors are usually present at normal levels. in 1922, this condition was recognised by kaznelson [1] as a different entity from aplastic anaemia. pure red cell aplasia exists in several forms, and the most common one is an acute selflimited condition. acquired pure red cell aplasia is chronic and is often associated with underlying disorders like thymomas [2], lymphomas [3], and autoimmune diseases. initially a congenital form of pure red cell aplasia was described by joseph in 1936 and by diamond-blackfan in 1938 [4]. congenital pure red cell aplasia is a lifelong disorder, and it is associated with physical abnormalities. both acquired and congenital pure red cell aplasia are occasionally refractory to therapy (table i). corresponding author dott. massimo incagliato incagliatom@virgilio.it caso clinico abstract we report a case of acquired pure red cell aplasia (aprca) associated with carcinoma of the tongue: the first was considered a rare paraneoplastic syndrome. we point out that there is no case in literature with this association. after surgical operation (subglottic laryngectomy + right lymphadenectomy + laterocervical on the right) the transfusions required, at the beginning very frequent, decreased relevantly. this is a typical case where the paraneoplastic syndrome precedes the diagnosis of the primary carcinoma of the tongue (one year before what happens in bronchogenic carcinoma). keywords: pure red cell aplasia, paraneoplastic syndrome, carcinoma of the tongue un raro caso di aplasia eritroide pura che occulta un carcinoma squamoso della lingua cmi 2011; 5(suppl 2): 75-79 1 division of internal medicine, hospital san giacomo, aslal novi ligure (al) 2 division of haematology, hospital san biagio, alessandria 3 department of clinical and laboratory investigation, hospital san martino, genova massimo incagliato 1, antonella daffonchio 1, lidia celesti 1, amedeo bottero 1, francesco balbi 1, massimo d’ulizia 1, emilia ballestrero 1, monia costanzo 1, valeria primon 2, amelia leone 3, giancarlo gambarotta 1 an unusual case of secondary pure red cell aplasia (prca) that occults a squamous carcinoma of the tongue ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)76 an unusual case of secondary pure red cell aplasia (prca) that occults a squamous carcinoma of the tongue = 3.9 g/dl) [6]. for this test, in accordance with the criteria proposed by light, this pleural effusion was considered an exudate [6]. culture of infected pleural fluid yielded negative results. the echocardiography presented minimal pericardial effusion. the haematic tests revealed lymphocytes = 55% and neutrophils = 42%. cytology findings were negative for neoplastic cells. because of the negativity of the clinical examinations during hospitalisation, the patient was transferred to the thoracic surgery, where he was subjected to pleural biopsy: the pathologic specimen showed a chronic pleuritis. during hospitalisation ticarcillin 4.5 mg × 3, prednisone 50 mg/die, and a gastroprotective drug were administered. the patient was discharged after 20 days with good resolution of the general clinical condition and an outpatient follow-up was arranged. at home the patient continued steroid treatment since there was the suspect of a possible form of autoimmune disease (maybe systemic lupus erythematosus). this suspicion roused by the results of the following tests: positive antibody and native dna, pleural effusion, and pericardial effusion associated with moderate megaloblastic anaemia, which was already present since some time. in march 2009 he was re-hospitalised in department of internal medicine for severe megaloblastic anaemia (hb = 5.8 g/dl; no skin lesions, the genitals were normal, and we found no rash and no lymphadenopathy. he was overweight. the blood tests revealed the results shown in table ii. tuberculin skin testing (mantoux test) and a single smear-sputum sample for mycobatterium tuberculosis were negative. the urinalysis and proteinuria were normal. the testing stool for the presence of haemoglobin was negative. the electrocardiogram (ecg) showed a normal rhythm at a rate of 87 bpm. the cystoscopy explored prostate lobes, finding mucosal hyperaemia bleeding heavily at the passage of the instrument. the bladder mucosa was regular. the neck/thoracic magnetic resonance imaging (mri) detected a pleural effusion on the left. the mri performed on the abdomen showed gallbladder-renal calculi and prostatic hypertrophy. the chest ct confirmed the gallbladder calculi and the abundant pleural effusion on the left, adding the detection of not dependent focal lesions of the remaining lung parenchyma. the tracheal and bronchial branches were normal, such as adrenal glands. the pet was negative. a thoracentesis was performed for pleural effusions: the ratio of pleural fluid to serum protein resulted greater than 0.5. the ratio of pleural fluid to serum lactate dehydrogenase (ldh) was greater than 0.6. pleural fluid ldh is greater than two thirds of the upper limits of normal serum value (protein “congenital” form (diamond-blackfan anaemia) acquired prca parvovirus b19 infection transient aplastic crisis (tac) in patients with shortened erythrocyte life span y chronic type of bone marrow failure in immunosuppressed patients y immunological suppression of erythropoiesis antibody mediated y antibody against red-cell progenitors • transient erythroblastopenia in childhood (tec) · adult form · ab0-incompatibility following bone marrow transplantation · antibody against erythropoietin • αβ or γδ t cell-mediated t-helper cell-mediated antibody production y mhc-restricted, recognition of red-cell progenitors y mhc-unrestricted recognition of red-cell progenitors y nk cellor t cell-mediated mhc-unrestricted cytotoxicity y associated with pregnancy associated with certain drugs and toxins initial manifestation of a pre-leukaemic syndrome table i types of pure red cell aplasia. modified from [5] ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 77 m. incagliato, a. daffonchio, l. celesti, a. bottero, f. balbi, m. d’ulizia et al the biopsy of the bone marrow revealed a 20% cellularity (hypocellular) and a normal myeloid series. the erythroid series was aplastic, while the megakaryocytic one resulted hyperplastic. we found also interstitial infiltrates of lymphocytes for 25% of elements with immunophenotype cd3cd20 positive (reactive lymphocytes), and cd34 cells 2%. the test for the pnh (paroxysmal nocturnal haemoglobinuria) platelets = 150,000/mm3; mcv = 110 fl), dyspnoea, and tachycardia. the gastroscopy performed showed chronic gastritis, while the colonscopy was normal. a computed tomographic scanned neck, chest, abdomen with administration of contrast material: the main pulmonary artery and the pulmonary arterial vasculature were normal, such as the lung parenchymal. parameter results normal range wbc 4,990/mm3 4,500-11,000/mm3 neutrophils 40% lymphocytes 55% plts 150,000/mm3 150,000-350,000/mm3 hb 10.5 g/dl 14-18 g/dl mcv 110 fl 80-100 fl esr 31 mm/hour 2-10 mm/hour inr 1.1 0.8-1.2 fibrinogen 278 mg/dl 175-400 mg/dl glucose 97 mg/dl 70-110 mg/dl urea 37 mg/dl 10-50 mg/dl creatinine 1 mg/dl 0-1.5 mg/dl total cholesterol 112 mg/dl < 200 mg/dl tag 142 mg/dl 40-170 mg/dl total bilirubin 0.8 mg/dl < 1 mg/dl uric acid 5.7 mg/dl 3.6-8.5 mg/dl ferritin 226 ng/dl 30-300 ng/dl na+ 146 meq/l 135-145 meq/l k+ 4.4 meq/l 3.4-4.8 meq/l got 25 u/l 9-25 u/l gpt 24 u/l 7-30 u/l ggt 37 u/l 7-33 u/l alp 50 u/l 40-115 u/l ldh 493 u/l 110-210 u/l pt 5.8 sec 11-16 sec amylase 42 u/l 10-220 u/l lipase 30 u/l 114-286 u/l alpha fetoprotein 1.38 ng/ml < 10 ng/ml cea 1.6 ng/ml < 5 ng/ml ca 19-9 30 u/ml 0-40 u/ml crp 0.3 mg/l < 8 mg/l ace 7 nmol/ml 8-22 nmol/ml vitamin b12 675 µg/dl 200-900 µg/dl folic acid 13 ng/ml 3.1-17.5 ng/ml hiv negative hbv negative hcv negative ana 1:640 ena negative lac negative aca negative b2gp1 negative anti-dsdna positive c3 in range c4 in range rheumatoid factor in range antibodies ccp in range table ii results of the blood tests performed aca = anti-cardiolipin antibody; ace = angiotensin converting enzyme; alp = alkaline phosphatase; ana = antinuclear antibody; antibodies ccp = antibodies anti-citrulline; b2gp1 = beta 2 glycoprotein 1 antibody; c3 = c3 complement component; c4 = c4 complement component; ca 19-9 = carbohydrate antigen 19-9; cea = carcinoembryonic antigen; crp = c reactive protein; dsdna = double-stranded dna; ena = anti-extractable nuclear antigens; esr = erythrocyte sedimentation rate; ggt = gamma-glutamyl transferase; got = glutamic oxaloacetic transaminase; gpt = glutamic pyruvic transaminase; hbv = hepatitis b virus; hcv = hepatitis c virus; hiv = human immunodeficiency virus; inr = international normalized ratio; lac = lupus anticoagulant antibody; ldh = lactate dehydrogenase; mcv = mean corpuscular volume; pt = prothrombin time; tag = triacylglycerol ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)78 an unusual case of secondary pure red cell aplasia (prca) that occults a squamous carcinoma of the tongue subsequently radiotherapy. after radiotherapy a hyperhaemia on the head and neck and dysfagia appeared. during the following 6 months no trasfusion was necessary and the patient maintained the level of 9.5 g/dl of haemoglobin. unfortunately, about 4 months after the patient had to receive transfusion every 20 days. discussion the description of this case is useful to point out the polymorphic features of paraneoplastic syndromes. in fact at the beginning there were suspected symptoms of systemic lupus erythematosus (sle) but the examinations did not meet all the criteria of the american college of rheumathology (table iii). because of the above-mentioned symptoms a steroid therapy was given. subsequently the patient was again admitted to the hospital for severe megaloblastic anaemia: radiological, endoscopic, and serological investigations excluded causes of blood loss from the digestive tract, and eventual malabsorption and haemolysis. the bone biopsy showed a series of red cell aplasia with a lymphoid infiltrate of reactive elements consistent with this histological result; the patient was transferred to the department of haematology, where the investigations were completed with the study of cell cultures of the erythroid series, that showed no basal growth and stimulation of growth factors, thus confirming the diagnosis of prca, but it was not yet clear if there was a primary or a secondary form on the periferic blood was negative. the cytogenetic revealed a xy karyotype. in bone marrow cultures there was a lack of growth of bfu-e (burst forming unit-erythroid) and cf u-gm (colony forming unitgranulocyte, macrofage). among the laboratory tests, the parvovirus b19, the hiv, the cmv, and the ebvtoxo monotest were negative. there were no signs of haemolysis (ldh, haptoglobin, direct and indirect coombs’ tests were negative, schistocytes not on peripheral blood) and not obvious signs (clinical and laboratory) of viral disease. the epo-hb electrophoresis was in range, tumour markers were normal, and proteinaemia and serum electrophoresis were in range. after all examinations, we diagnosed pure red cell aplasia. in august 2009 we started immunosuppressive therapy with cyclosporin and prednisone 25 mg + 200 mg + 250 mg/day with poor response (in fact the patient was transfused with two bags of erythrocytes every 15 days). from november 2009 to february 2010 testosterone undecanoate 50 mg was added to cyclosporin, with haemoglobin levels ranging from 7.2 and 8.9. in total, the patient was transfused with 40 bags of blood and ferritin 4,079 ng/dl. the 2nd of february 2010 during the ambulatory monitoring appeared a swelling on the right laterocervical and on the tongue. then the patient was sent to maxillofacial department where a biopsy was made and its specimen was later diagnosed of squamous cell carcinoma on the base of the tongue pn2b pt4. subsequently he was submitted to subglottic laryngectomy + right lymphadenectomy + right laterocervical and then there was a plastic reconstruction and serositis pleurisy, pericarditis on examination or diagnostic ecg or imaging oral ulcers oral or nasopharyngeal, usually painless; palate is most specific arthritis nonerosive, two or more peripheral joints with tenderness or swelling photosensitivity unusual skin reaction to light exposure blood disorders leukopenia (< 4 × 103 cells/µl on more than one occasion), lymphopenia (< 1,500 cells/µl on more than one occasion), thrombocytopenia (< 100 × 103 cells/µl in the absence of offending medications), haemolytic anaemia renal involvement proteinuria (> 0.5 g/dl or 3+ positive on dipstick testing) or cellular casts anas (antinuclear antibodies) higher titers generally more specific (> 1:160); must be in the absence of medications associated with drug-induced lupus immunologic phenomena anti-double-stranded dna, anti-smith (sm) antibodies; antiphospholipid antibodies (anticardiolipin immunoglobulin g (igg) or immunoglobulin m (igm) or lupus anticoagulant); biologic false-positive serologic test results for syphilis, lupus erythematosus (le) cells (omitted in 1997) neurologic disorder seizures or psychosis in the absence of other causes malar rash fixed erythema over the cheeks and nasal bridge, flat or raised discoid rash erythematous raised-rimmed lesions with keratotic scaling and follicular plugging, often scarring table iii the 1982 american college of rheumatology (acr) criteria summarise features necessary to diagnose systemic lupus erythematosus (sle). they are summarised here with a useful mnemonic: the acronym “soap brain md”. the presence of 4 of the 11 criteria yields a sensitivity of 85% and a specificity of 95% for sle. it must be considered that individual features are variably sensitive and specific. patients with sle may present with any combination of clinical features and serologic evidence of lupus [7,8] ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 79 m. incagliato, a. daffonchio, l. celesti, a. bottero, f. balbi, m. d’ulizia et al a bone marrow biopsy control showed a slight increase of erythroid series: in this case we point out the absence in the literature of associations between pure red cell aplasia and squamous cell carcinoma of the tongue and that the removal of the tumour, as it happens in many paraneoplastic syndromes, shows the improvement of the clinical picture. in this case the improvement of anaemia is connected to debulky cancer, to cytokines and to antibodies produced by the tumour. the diagnosis of a paraneoplastic syndrome (pns) may precede, follow or be concurrent with the diagnosis of a malignant tumour [9]. acknowledgements we acknowledge professor eugenia nicolicchia for the article reviewing and the nursing team of the internal medicine department for the collaboration and the data collection. disclosure the authors declare that they have no financial competing interests. of subclinical autoimmune disease (erythroblastopenia in sle). in august 2009 the patient began a therapy with prednisone 25 mg and cyclosporin 600 mg/day; blood transfusions were required every 15 days, as the steroid therapy alone was not sufficient to maintain acceptable levels of haemoglobin. in november 2009 the patient received 40 bags of transfused red cell concentrates and we decided therefore to associate also androgens (testosterone undecanoate) 50 mg and if after three months there was an improvement of haemoglobin, he could have started the serum anti-lymphocyte. in october 2010, because of the appearance of laterocervical and lingual enlarged lymphnodes, the patient was transferred to the department of maxillofacial surgery, where the biopsy was diagnosed with squamous cell carcinoma of the tongue pn2b pt4 (subglottic laryngectomy + right lymphadenectomy + right laterocervical with a plastic reconstruction); subsequently a radiotherapy was performed. after surgery the patient wasn’t transfused for about 6 months. the haemoglobin maintained the values of 9-9.8 g/dl and then the haemotransfusion was performed every 20 days. references karnelsom p. zur entseling der bluptplattehen. 1. verh dtsh ges inn med 1922; 34: 577 nelson rp jr, pascuzzi rm. paraneoplastic syndromes in thymoma: an immunological 2. perspective. curr treat options oncol 2008; 9: 269-76 hirokawa m, sawada k, fujishima n, kawano f, kimura a, watanabe t et al. acquired pure 3. red cell aplasia associated with malignant lymphomas: a nationwide cohort study in japan for the prca collaborative study group. am j hematol 2009; 84: 144-8 avondo f, roncaglia p, crescenzio n, krmac h, garelli e, armiraglio m et al. fibroblasts from 4. patients with diamond-blackfan anaemia show abnormal expression of genes involved in protein synthesis, amino acid metabolism and cancer. bmc genomics 2009; 10: 442 fisch p, handgretinger r, schaefer he. pure red cell aplasia. 5. br j haematol 2000; 111: 101022 light rw, macgregor mi, luchsinger pc, ball wc jr. pleural effusions: the diagnostic 6. separation of transudates and exudates. ann intern med 1972; 77: 507-13 tan em, cohen as, fries jf, masi at, mcshane dj, rothfield nf et al. the 1982 revised criteria 7. for the classification of systemic lupus erythematosus. arthritis rheum 1982; 25: 1271-7 hochberg mc. updating the american college of rheumatology revised criteria for the 8. classification of systemic lupus erythematosus. arthritis rheum 1997; 40: 1725 toro c, rinaldo a, silver ce, politi m, ferlito a. paraneoplastic syndromes in patients with 9. oral cancer. oral oncol 2010; 46: 14-8 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 4) 7 clinical management issues patologica remota risulta in età infantile un intervento chirurgico per torsione del funicolo spermatico destro e un grave episodio allergico con shock anafilattico nel 2008, a seguito di assunzione di ampicillina per faringite. descrizione del caso il caso clinico riguarda un paziente di 42 anni che si presenta al pronto soccorso dell’ospedale san giovani battista di torino per improvvisa comparsa di intensi dolori addominali nel febbraio 2010. dall’anamnesi familiare risulta che il padre è affetto da ipertensione arteriosa, in terapia farmacologica; la madre è stata sottoposta a chirurgia e successiva ormonoterapia per neoplasia della mammella ed ora è in buona salute. ha una sorella di 39 anni in buona salute. il paziente è sposato, ha due figli in buona salute; vive con la moglie in ambiente urbano. riferisce primo sviluppo nella norma, ha un titolo di studio di scuola professionale; ha fumato dall’età di 15 anni fino a circa un mese prima e fino ad allora ha avuto un’alimentazione varia, con moderato consumo di alcolici ai pasti. lavora come autista presso la locale azienda di trasporti pubblici. dall’anamnesi corresponding author dott.ssa patrizia lista plista@molinette.piemonte.it caso clinico abstract we here report a case of 42 years old man who experienced sudden abdominal cramps and then underwent explorative laparotomy because of the ct-finding of a 23 cm abdominal mass at the stomach. frozen specimen analysis indicated a probable gastrointestinal stromal tumor (gist). radical excision was performed. definitive pathological analysis revealed a cd34 and cd 117(c-kit) positive gist with a mitotic count of 15/50 hpf. these features indicate a disease with an high risk of recurrence within few years. molecular analysis found a wk557-558 deletion of c-kit exon 11, that indicates a poor prognosis in patients with completely resected gist. in april 2010 he started adjuvant therapy with imatinib at standard dose of 400 mg/day that was well tolerated: he reported only g1 periocular edema and conjunctivitis. considering the risk of disease recurrence he continued adjuvant therapy beyond the first year. keywords: gist; imatinib; adiuvant therapy imatinib as adjuvant therapy for high risk gist: a case report cmi 2010; 5(suppl 4): 7-12 1 s.c. oncologia medica 1, dipartimento di ematologia ed oncologia, a.o.u. san giovanni battista, torino patrizia lista 1, agostino ponzetti 1 imatinib adiuvante in paziente con gist ad alto rischio di comportamento maligno definito in base a parametri clinici, istologici e genotipo tumorale perché descriviamo questo caso perché imatinib ha ottenuto indicazione in adiuvante nei pazienti con gist a “rischio significativo” di ricaduta, ma la decisione di quali pazienti trattare e per quanto tempo è lasciata alla discrezione del clinico. è importante quindi avere chiaro quali parametri (clinici, patologici e genetici) sia necessario valutare e poter quindi motivare un’indicazione che comporta un trattamento farmacologico anche a lungo termine disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 4)8 imatinib adiuvante in paziente con gist ad alto rischio di comportamento maligno gli operatori procedono ad eseguire wedge resection della lesione neoplastica. all’esame al congelatore risulta: neoplasia di origine stromale, verosimile gist (gastrointestinal stromal tumor), margini di resezione indenni. all’analisi microscopica del pezzo operatorio risulta: tratto di stomaco di 5 x 6 cm con lesione esofitica ulcerata di 4,5 x 3,5 cm, che giunge a 1 cm nel punto più prossimo al margine di resezione. la lesione è in continuità con massa esofitica di 23 x 13 x 4 cm che ingloba in parte il tessuto adiposo omentale di 30 x 20 x 2 cm. al taglio la massa appare in parte fascicolata ed in parte cistica, con aree emorragiche e necrotiche. all’esame istologico definitivo risulta: numero di mitosi 15/50 hpf; necrosi: presente; reazioni immunoistochimiche con anticorpi anti-actina di muscolo liscio e anti s100 negative; reazioni immunoistochimiche con anticorpi anti-cd34 e anticd117: positive; indice di proliferazione (valutato con anticorpo anti-ki67 – clone mib-1): 12%. viene pertanto posta diagnosi di gist gastrico ulcerato ad alto rischio di comportamento biologico maligno, sia secondo la classificazione di fletcher [1], sia secondo la classificazione di miettinen [2], infiltrante la mucosa gastrica ed il tessuto adiposo perigastrico. margini di resezione gastrici indenni; la neoplasia giunge focalmente al margine di resezione circonferenziale. il post-operatorio è regolare, eccetto per difficoltà a riprendere l’alimentazione per via orale e per astenia persistente. è dimesso in dodicesima giornata, con un appuntamento per consulenza oncologica. al momento della visita (in marzo 2010) il paziente si presenta in condizioni generali appena discrete, lamentando ancora intensa astenia; il peso corporeo è di 68 kg (in pieno benessere 75 kg). sta assumendo terapia con ferro e folati. all’esame obiettivo si osserva l’incisione laparotomica in avanzato stato di cicatrizzazione. non presenta altri reperti di rilievo. sulla base della documentazione clinica sopra descritta già in questa occasione proponiamo al paziente la terapia adiuvante con imatinib, previa analisi mutazionale da eseguire sul pezzo operatorio e rivalutazione strumentale. gli illustriamo le peculiari caratteristiche biologiche del gist, la natura del farmaco, i principali effetti collaterali, le premesse in base alle quali gli è stato riconosciuto un ruolo appunto adiuvante e in quali casi. riguardo alla durata del trattamento, in considerazione del rischio clinico, gli prospettiamo la possibilità di proseguire anche alla valutazione obiettiva l’addome risulta poco trattabile per dolorabilità nei quadranti superiori. è sottoposto a prelievi per ematochimici da cui risulta anemizzazione moderata (hb = 9,2 g/dl), leucocitosi neutrofila, lieve incremento di alt e ggt, funzione renale e coaugulazione nella norma. in data 13/02/10 è sottoposto a tc addome completo con mezzo di contrasto: riscontro di voluminosa massa di 23 x 10 x 10 cm che occupa i quadranti superiore e medio di sx nella porzione anteriore, estesa dal diaframma all’ombelicale trasversa, strettamente adesa alla parete gastrica anteriore con aspetto di mammeloni che aggettano nel lume. lo stomaco è nettamene compresso e dislocato; la massa appoggia sulla coda pancreatica con margine di contatto di 5 cm ed è contigua alla cupola diaframmatica. il colon trasverso ed il piccolo intestino sono dislocati anteriormente, i vasi splenici sono improntati e dislocati infero-posteriormente, i vasi mesenterici nei quadranti di dx. la massa è polilobulata, disomogenea per componente solida e che assume il mezzo di contrasto in periferia, mentre centralmente è presente un’area necrotica. il tessuto adiposo peritoneale è disomogeneo, micronodulare, ed è presente esile falda di versamento peritoneale nello scavo pelvico. il reperto sembra deporre per lesione espansiva a origine dalla parete gastrica. il fegato è privo di lesioni focali, le vie biliari e il dotto di wirsung non sono dilatati. milza, pancreas (eccetto per il suddetto contatto), surreni e reni hanno normale aspetto tc; non si riconoscono adenopatie. in data 15/02/2010 il paziente è ricoverato nel reparto di chirurgia d’urgenza dove è sottoposto ad esofago-gastro-duodenoscopia da cui risulta la presenza di una lesione vegetante ulcerata con orifizio al centro, probabilmente a fondo cieco. i margini, regolari, sono friabili. sono eseguite 4 biopsie che determinano discreto sanguinamento, autolimitantesi. all’esame istologico: lembi di mucosa di tipo cardiale, non evidenza di infiltrazione neoplastica. a un nuovo controllo dell’emocromo, in data 16/02/2010, si riscontra ulteriore riduzione dell’emoglobinemia (8,5 g/dl), con sideropenia. in data 19/02/10 il paziente è sottoposto a laparotomia; all’ispezione della cavità addominale non si evidenziano secondarietà epatiche, carcinosi peritoneale né infiltrazione di colon, pancreas e milza. si riscontra invece una perforazione gastrica coperta, con raccolta purulenta tra milza e diaframma. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 4) 9 p. lista, a. ponzetti neamente proseguendo la terapia pertanto non è stato ritenuto correlato all’assunzione del farmaco. è stato sottoposto a rivalutazione strumentale ogni 3 mesi con rx torace e, inizialmente, tc addome; in seguito, avendo sperimentato una reazione allergica al mezzo di contrasto tc, anche con adeguata profilassi, con ecografia alternata a risonanza magnetica dell’addome. avendo considerato la buona tollerabilità, il genotipo e la presentazione di malattia (ad alto rischio di comportamento biologico maligno) abbiamo concordato con il paziente di proseguire il trattamento con imatinib, che è a tutt’oggi in corso. considerati i recenti risultati dello studio scandinavo ssgxviii/aio [5] sull’efficacia di imatinib nel trattamento adiuvante a 3 anni, la decisione presa appare più che giustificata. domande da porsi y quando proporre un trattamento adiuvante con imatinib dopo chirurgia radicale per gist? y per quanto deve essere proseguito il trattamento? discussione i gist rappresentano il 5% di tutti i sarcomi e l’82% dei tumori mesenchimali gastrointestinali [6]. il trattamento stanoltre l’anno di terapia, se il farmaco risultasse ben tollerato. il paziente accetta. l’analisi mutazionale degli esoni 9,11,13,14 e 17 del gene c-kit e degli esoni 12,14 e 18 del gene pdgfra, mediante sequenziamento diretto dei frammenti di amplificazione corrispondenti agli esoni in esame ottenuti tramite pcr, evidenzia la mutazione del wk557-558 a livello dell’esone 11 del gene c-kit [3]. alla rivalutazione strumentale (rx torace e tc addome, in data 18/04/10): non evidenza di ripresa di malattia, segnalata cisti epatica di 5 mm. in data 28/04/2010 l’astenia è nettamente ridotta, il paziente è tornato a una vita attiva. dal controllo degli ematochimici (emocromo, enzimi epatici, bilirubina, creatinina, elettroliti) risulta unicamente modesta anemia sideropenica (hb = 11 g/dl) ma un successivo esame delle feci risulta negativo. in quella stessa data il paziente inizia ad assumere imatinib 400 mg/die. i controlli clinici e gli esami ematochimici, eseguiti a cadenza mensile, hanno rilevato una buona tolleranza al trattamento. ha lamentato edemi perioculari e, di recente, congiuntivite entrambi di grado 1 secondo ctcae v 4.0 [4]. tali eventi avversi sono stati ritenuti di correlazione sospetta con il farmaco e sono stati debitamente segnalati al responsabile di farmacovigilanza della struttura sanitaria di appartenenza. per il problema degli edemi è stata instaurata terapia diuretica a basse dosi con moderato beneficio. il paziente inoltre ha riferito occasionali dolori crampiformi ai polpacci, di lieve entità, con potassiemia nella norma; tale effetto si è risolto spontaclassificazione categoria di rischio dim (cm) cm (/50 hpf) fletcher [1] molto basso < 2 < 5 basso 2-5 < 5 intermedio < 5 6-10 5-10 < 5 alto > 5 > 5 > 10 qualsiasi qualsiasi > 10 gruppo dim (cm) cm (/50 hpf) gist gastrico gist tenue %pd pm %pd pm miettinen [2] 1 ≤ 2 ≤ 5 0 minimo 0 minimo 2 > 2, ≤ 5 ≤ 5 1,9 basso 4,3 basso 3 a > 5, ≤ 10 ≤ 5 3,6 basso 24 intermedio 3 b > 10 ≤ 5 12 intermedio 52 alto 4 ≤ 2 > 5 0 basso 50 alto 5 > 2, ≤ 5 > 5 16 intermedio 73 alto 6 a > 5, ≤ 10 > 5 55 alto 85 alto 6 b > 10 > 5 86 alto 90 alto tabella i confronto tra le classi di rischio di fletcher [1] e quelle di miettinen [2] %pd = percentuale di paziente con progressione durante il follow-up; cm = conta mitotica (/50 high power field); dim = maggiore dimensione della neoplasia; pm = potenziale maligno ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 4)10 imatinib adiuvante in paziente con gist ad alto rischio di comportamento maligno anno [15]. analoga conclusione ha raggiunto lo studio di fase ii dell ’american college of surgeon oncology group (acosog) z9000, in cui, con una casisitica di 107 pazienti si è osservato un incremento della sopravvivenza globale (os) a 1,2 e 3 anni, con un follow up medio di 4 anni [16]. lo studio acosog z9001, pubblicato nel 2009, è il primo studio di fase iii multicentrico in cui sia stato valutato l’utilizzo di imatinib in adiuvante. i paziente arruolati sono stati sottoposti ad asportazione macroscopicamente completa di gist c-kit positivo maggiore di 3 cm e quindi randomizzati a trattamento per un anno con imatinib 400 mg al giorno vs placebo. lo studio è stato interrotto quando l’analisi ad interim ha dimostrato un miglioramento significativo della sopravvivenza libera da recidiva (rfs) nei pazienti trattati. non si è osservato un aumento della sopravvivenza globale (os) ma i pazienti trattati con placebo alla ricaduta iniziavano ad assumere il farmaco. il vantaggio è stato osservato in tutte le categorie di pazienti a prescindere dalle dimensioni del tumore anche se lo studio non aveva il potere statistico per evidenziare queste differenze [17]. i risultati di questo trial hanno anche confermato che la determinazione del genotipo nei gist ha valore predittivo della risposta al trattamento: i pazienti con gist in cui si sono riscontrate mutazioni dell’esone 11 di c-kit o di pdgfrα hanno avuto giovamento dal trattamento adiuvante con imatinib mentre questo non è successo nei pazienti wild type [18]. in seguito alla pubblicazione di questi dati dal 2009 imatinib ha ottenuto l’indicazione all’uso in adiuvante, in caso di rischio significativo di ricaduta; tuttavia la durata ottimale del trattamento non è stata ancora definita. sono di recentissima presentazione (asco 2011) i dati relativi allo studio ssgxvii/aio (randomizzato multicentrico di fase iii condotto nei paesi scandinavi dard consiste nella chirurgia radicale ma comunque il rischio di ripresa di malattia, di solito con metastasi epatiche e/o peritoneali, varia a seconda della localizzazione, delle dimensioni e della conta mitotica [6,7]. la predizione di un comportamento clinico più o meno aggressivo sulla base dei fattori prognostici è fondamentale per decidere per esempio la frequenza degli esami di followup o l’indicazione alla terapia adiuvante. ll volume del tumore e l’indice mitotico sono state le due variabili inizialmente utilizzate nel primo sistema di stratificazione del rischio che ha avuto un largo consenso [1]. in seguito miettinen e lasota hanno evidenziato il peso prognostico della localizzazione di malattia (migliore lo stomaco, peggiori progressivamente il digiuno, l’ileo e il colon) [2,8,9]. come si può dedurre consultando le due classificazioni, riassunte in tabella i, il gist del paziente in questione rientra per entrambi nella categoria ad alto rischio, per dimensioni e numero di mitosi; anche se la sede di malattia è lo stomaco. più recentemente si è valutato anche il ruolo del genotipo del tumore. l’attivazione del gene c-kit è responsabile della tumorigenesi dell’80% dei casi di gist, nel 5-8% dei casi si tratta invece di una mutazione attivante pgfra mentre nel 12-15% dei casi non si riscontrano mutazioni in entrambi i geni [10-12]. il tipo e la sede di mutazioni hanno significato prognostico. in particolare la delezione dei codoni 557-558 dell’esone 11, quella osservata nel caso clinico in esame, comporta un rischio sensibilmente peggiore di ripresa di malattia entro 5 anni rispetto a mutazioni non delezione [3]. in considerazione dei benefici osservati con l’uso di imatinib nei pazienti affetti da gist in fase avanzata [13,14] è stato valutato il suo uso come terapia adiuvante. uno studio pilota del 2007 condotto su 23 pazienti dopo chirurgia radicale ha dimostrato una netta riduzione delle riprese di malattia rispetto ai controlli storici, utilizzando il farmaco alla dose di 400 mg al giorno per un braccio standard braccio 3 anni hr (p) numero pazienti 200 200 durata imatinib adiuvante 12 mesi 36 mesi follow up mediano 54 mesi relapse-free survival a 5 anni* 47,9% 65,6% 0,46 (< 0,0001) overall survival a 5 anni 81,7% 92% 0,45 (0,019) interruzione del trattamento non correlata a ripresa di malattia 12,6% 25,8% (0,001) tabella ii studio ssgxvii/aio su 12 vs 36 mesi di imatinib in adiuvante in gist ad alto rischio secondo classificazione di fletcehr [1,5] * endpoint primario ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 4) 11 p. lista, a. ponzetti alto (eortc 62024) e in secondo luogo gli effetti di un trattamento adiuvante protratto per 5 anni (persist-5). conclusione nella pratica clinica è ormai consolidato il ruolo di imatinib come trattamento adiuvante dopo resezione macroscopicamente completa del gist, almeno nei casi a rischio di comportamento maligno intermedio e alto. è di fondamentale importanza la valutazione del rischio di ricaduta. i dati presentati all’asco ci danno una prima risposta sulla durata ottimale della terapia adiuvante, dimostrando che prolungare il trattamento adiuvante a 3 anni porta a dei benefici in termini di rfs e os. i risultati degli studi ancora in corso potranno fornire ulteriori informazioni sull’eventuale insorgenza di resistenza in corso di trattamento adiuvante o sull’opportunità di protrarlo ulteriormente. e in germania), che valuta l’efficacia e la tollerabilità di imatinib 400 mg al giorno in adiuvante per 3 vs 1 anno in pazienti sottoposti a chirurgia radicale per gist localizzato ad alto rischio, secondo classificazione di fletcher (tabella ii). a un follow-up mediano di 54 mesi, 3 anni di trattamento con imatinib migliorano significativamente la rfs e os riducendo il rischio relativo di ricaduta del 54% e il rischio relativo di morte del 55%. il trattamento è risultato ben tollerato, con un profilo di sicurezza sovrapponibile ai dati storici [5]. è stata riscontrata maggiore incidenza (p < 0,05) di alcuni eventi avversi (tutti i gradi) nel braccio 3 anni anche se nella maggior parte dei casi sono risultati essere di grado 1 e 2. mentre nessuna differenza significativa è stata osservata nell’incidenza di eventi avversi di grado 3-4. sono attualmente in corso altri due studi multicentrici (figura 1) volti a definire innanzitutto se il trattamento adiuvante con imatinib influisce sul tempo alla comparsa di resistenza secondaria nei pazienti operati radicalmente di gist a rischio intermediofigura 1 studi clinici di terapia adiuvante con imatinib nei gist resecati attualmente in corso studio eortc-italian sarcoma group-fsg-agit 62024 (nct00103168) gist resecati a rischio intermedio o alto studio persist-5 (nct00867113) gist resecati ad alto rischio imatinib 400 mg/die per 2 anni vs osservazione imatinib 400 mg/die per 5 anni endpoint i: tempo di insorgenza resistenza secondaria endpoint i: relapse-free survival risposte a i quesiti emersi y si ritiene indicato proporre un trattamento adiuvante con imatinib nei pazienti operati radicalmente per gist a rischio intermedio o alto y la durata del trattamento può essere anche superiore all ’anno, alla luce degli ultimi dati anche fino a tre, almeno nei pazienti con rischio alto, considerata anche l ’elevata tollerabilità del farmaco ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 4)12 imatinib adiuvante in paziente con gist ad alto rischio di comportamento maligno bibliografia 1. fletcher cd, berman jj, corless c, gorstein f, lasota j, longley bj et al. diagnosis of gastrointestinal stromal tumors: a consensus approach. hum pathol 2002; 33: 459-65 2. miettinen m, lasota j. gastrointestinal stromal tumors: review on morphology, molecular pathology, prognosis, and differential diagnosis. arch pathol lab med 2006; 130: 1466-78 3. martín j, poveda a, llombart-bosch a, ramos r, lópez-guerrero ja, garcía del muro j et al. deletions affecting codons 557-558 of the c-kit gene indicate a poor prognosis in patients with completely resected gastrointestinal stromal tumors: a study by the spanish group for sarcoma research (geis). j clin oncol 2008; 26; 5360-7 4. national cancer institute, bethesda, usa. common terminology criteria and adverse events (ctcae) version 4.0 disponibile all’indirizzo http://ctep.cancer.gov/protocoldevelopment/ electronic_applications/ctc.htm (ultimo accesso giugno 2011) 5. joensuu h, eriksson m, hatrmann j, sundby hall k, schutte j, reichardt m et al. twelve versus 36 months of adjuvant imatinib (im) as treatment for operable gist with a high risk of recurrence: final results of a randomized trail (ssgxviii/aio). j clin oncol 2011; 29 (suppl.; abstr lba1) 6. hassan i, you yn, shyyan r, dozois ej, smyrk tc, okuno sh et al. surgically managed gastrointestinal stromal tumors: a comparative and prognostic analysis. ann surg oncol 2008; 15: 52-9 7. nilsson b, bümming p, meis-kindblom jm, odén a, dortok a, gustavsson b et al. gastrointestinal stromal tumors: the incidence, prevalence, clinical course, and prognostication in the preimatinib mesylate era--a population-based study in western sweden. cancer 2005; 103: 821-6 8. miettinen m, sobin lh, lasota j. 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trial acosog z9000. abstract #8 at 2008 asco gastrointestinal cancers symposium 17. dematteo rp, ballman kv, antonescu cr, maki rg, pisters pw, demetri gd, blackstein me, blanke cd, von mehren m, brennan mf, patel s, mccarter md, polikoff ja, tan br, owzar k; american college of surgeons oncology group (acosog) intergroup adjuvant gist study team. adjuvant imatinib mesylate after resection of localised, primary gastrointestinal stromal tumour: a randomised, double-blind, placebo-controlled trial. lancet 2009; 373: 1097-104 18. heinrich mc, owzar k, corless cl, hollis d, borden ec, fletcher cd et al. correlation of kinase genotype and clinical outcome in the north american intergroup phase iii trial of imatinib mesylate for treatment of advanced gastrointestinal stromal tumor: calgb 150105 study by cancer and leukemia group b and southwest oncology group. j clin oncol 2008; 26: 5360-7 ottimizzazione della dose di imatinib a seguito della progressione della malattia in un paziente con gist metastatico mariangela parodi 1, monica boitano 1, luciano canobbio 1 caso clinico imatinib adiuvante in paziente con gist ad alto rischio di comportamento maligno definito in base a parametri clinici, istologici e genotipo tumorale patrizia lista 1, agostino ponzetti 1 caso clinico considerazioni sull’appropriatezza della durata della terapia adiuvante con imatinib in un paziente con gist ad alto rischio: la migliore scelta nell’anno 2010 lucia tozzi 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2) clinical management issues 21 marianna de muro 1, odoardo maria olimpieri 1, rosa greco 1, lidia altomare 1 caso clinico una donna di 42 anni giungeva alla nostra osservazione per comparsa di febbricola, astenia e malessere generale. la donna riferiva, inoltre, difficoltà digestive post-prandiali. l’esame obiettivo mostrava splenomegalia (18 cm). la donna veniva, quindi, sottoposta a esami ematochimici di approfondimento: l’emocromo mostrava leucocitosi con 123.000 globuli bianchi/mm3; nello striscio di sangue venoso periferico erano presenti cellule immature. nel sospetto di una patologia mieloproliferativa, la paziente veniva sottoposta ad aspirato del midollo osseo; l’esame morfologico del midollo mostrava iperplasia granuloblastica senza elementi indifferenziati, mentre l’analisi citogenetica convenzionale non rilevava alterazioni (cariotipo 46 xx). l’esame di citogenetica fish su nuclei in interfase dimostrava la presenza di una traslocazione classica t(9;22) con delezione 9q. l’esame molecolare del sangue midollare mostrava un trascritto b2a2 e l’esame quantitativo (rq-pcr) evidenziava una ratio bcr-abl/abl del 48%. resistenza a imatinib: opzioni diagnostiche e terapeutiche abstract we report a case of a 42-year-old woman with t(9;22) positive chronic myeloid leukemia (cml) who developed a sub-optimal response to therapy with imatinib mesylate due to m351t mutation and low plasma level of imatinib. dose increase of imatinib resulted in toxicity. she obtained a complete molecular response to therapy with nilotinib, without adverse events. keywords: imatinib resistance, blood level test, nilotinib imatinib resistance: diagnostic and therapeutic choices cmi 2010; 4(suppl. 2): 21-25 1 area di ematologia, policlinico universitario campus bio-medico, roma corresponding author marianna de muro m.demuro@unicampus.it perché descriviamo questo caso? i pazienti affetti da lmc possono manifestare resistenza durante la terapia, ma tale evento non preclude il raggiungimento di una remissione della patologia, se vengono utilizzati i giusti strumenti diagnostici e terapeutici caso clinico gli elementi permettevano di porre diagnosi di leucemia mieloide cronica (lmc), in fase cronica. data la gravità del caso e il forte sospetto di patologia mieloproliferativa, prima di ottenere le risposte della citogenetica e della biologia molecolare, era stata intrapresa terapia citoriduttiva con idrossiurea. ottenuta la conferma diagnostica di lmc, nel mese successivo la terapia fu modificata sostituendo il chemioterapico con imatinib a dosaggio standard (400 mg/die). nelle prime settimane di terapia non fu rilevato alcun effetto collaterale e alla terza settimana la paziente aveva ottenuto una risposta ematologica completa. al 3° mese di terapia l’esame citogenetico mostrava una risposta parziale (ph+ 25%). disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2)22 resistenza a imatinib: opzioni diagnostiche e terapeutiche al 6° mese di terapia la paziente aveva ottenuto una risposta citogenetica completa (rcc, ph+ 0%). al 12° mese di terapia persisteva la rcc. l’analisi molecolare quantitativa mostrava una ratio bcr-abl/abl pari a 1,2%. al 18° mese di terapia l’analisi molecolare quantitativa evidenziava una ratio in ascesa (2,4%), rcc persistente. considerando l’incremento della ratio quantitativo, la paziente è stata sottoposta a dosaggio del livello plasmatico di imatinib (blt) e a screening mutazionale, mediante tecnica denaturing high performance liquid chromatography (dhplc). il blt, eseguito 2 volte consecutivamente, evidenziava una concentrazione plasmatica di imatinib pari a 850 ng/ml e 940 ng/ml, valori inferiori rispetto alla soglia ritenuta efficace (1.002 ng/ml). lo screening mutazionale evidenziava la mutazione m351t del dominio catalitico di bcr-abl. la presenza di un dosaggio plasmatico del farmaco inferiore rispetto a quello reputato efficace e la presenza di una mutazione che rendeva la paziente potenzialmente responsiva a imatinib a dosaggio maggiore rispetto a quello standard suggerivano di incrementare il farmaco al dosaggio di 600 mg/die. dopo tre mesi di terapia l’esame molecolare evidenziava nuovamente una ratio di 2,5%. a 6 mesi dall’aumento del dosaggio la ratio era pari al 3%, con persistenza della mutazione evidenziata precedentemente. la paziente iniziò inoltre a manifestare effetti collaterali legati a imatinib, quali ritenzione idrica e crampi muscolari, sintomi mai presentati prima. in considerazione della resistenza alla terapia effettuata, degli effetti collaterali e della mutazione m351t, si decideva di interrompere definitivamente imatinib e iniziare nilotinib, inibitore delle tirosin chinasi di seconda generazione, al dosaggio standard di 400 mg/bid. a 3 mesi dall’assunzione la ratio era pari a 0,1%, raggiungendo una risposta molecolare maggiore secondo l’international scale. dopo 6 mesi l’analisi molecolare quantitativa evidenziava una ratio pari a 0,01%. la ritenzione idrica sviluppata con imatinib non venne più riscontrata, mentre solo nelle prime settimane di assunzione la paziente riferì cefalea. domande da porsi come gestire la “risposta sub-ottimale”? y qual è l ’utilità dello studio mutazionale y e del blt? come interpretare i risultati delle anay lisi? come scegliere il farmaco di seconda liy nea? discussione la leucemia mieloide cronica (lmc) è una patologia ematologica derivata dalla trasformazione neoplastica della cellula staminale pluripotente. è caratterizzata dalla presenza della traslocazione t(9;22) (cromosoma philadelphia) nel clone neoplastico. il cromosoma philadelphia è il risultato della fusione fra il gene bcr (brekpoint cluster region) situato sul cromosoma 22, e il gene abl (abelson leukemia virus), situato sul cromosoma 9; ne deriva l’oncogene di fusione bcr-abl. la proteina codificata dall’oncogene, bcr-abl, è una tirosin chinasi citoplasmatica costitutivamente attivata, attualmente considerata la principale causa della lmc. la lmc è caratterizzata da tre fasi [1]: fase cronica y : leucocitosi neutrofila (121.000 x 109/l), con neutrofili presenti nelle varie fasi maturative. possono essere presenti basofilia assoluta e/o eosinofilia; in alcuni casi è presente monocitosi assoluta. la quota di blasti nel sangue venoso periferico non supera il 2%. la conta piastrine è variabile: da valori normali a valori elevati (1.000 x 109/l), la trombocitopenia è meno frequente. nel midollo osseo è presente un’iperplasia granuloblastica, con una quota di blasti minore al 10%. è spesso presente splenomegalia; fase accelerata y , con presenza di uno dei seguenti parametri: persistenza/incremento dei globuli 1. bianchi >10 x 109/l e/o persistenza/incremento della splenomegalia; persistenza della piastrinosi (> 1.000 x 2. 109/l), non controllata dalla terapia; persistenza della piastrinopenia non 3. correlata alla terapia (< 100 x 109/l); evoluzione clonale citogenetica rispetto 4. al cariotipo della diagnosi; ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2) 23 m. de muro, o. m. olimpieri, r. greco, l. altomare basofili ≥ al 20% nel sangue venoso 5. periferico; 10-19% di mieloblasti nel sangue veno-6. so periferico o nel midollo osseo; fase blastica y : blasti ≥ 20% di cellule nel sangue ve-1. noso periferico o delle cellule nucleate nel midollo osseo; proliferazione di blasti in sede extra-2. midollare. attualmente la terapia di scelta per la fase cronica è rappresentata da imatinib mesilato, al dosaggio standard di 400 mg/die. imatinib è un inibitore della tirosin chinasi [2]. durante la terapia i pazienti devono essere sottoposti a controlli ematologici, citogenetici e molecolari per la valutazione della risposta alla terapia stessa. la nostra paziente è stata sottoposta ai controlli previsti, mostrando una rapida risposta sia ematologica sia citogenetica, ma la presenza del trascritto valutato mediante biologia molecolare quantitativa positiva al 12° mese di trattamento permetteva di classificarla come un paziente warning, ovvero un paziente che non ha avuto una buona risposta al trattamento e che necessita di un monitoraggio stretto [4]. la ripetizione al 18° mese di terapia dell’analisi molecolare quantitativa evidenziava una ratio in ascesa (2,4%), nonostante la risposta citogenetica completa: per tale motivo la paziente presentava una risposta sub-ottimale alla terapia. la risposta sub-ottimale significa che il paziente può ancora trarre beneficio da imatinib nonostante l’outcome a lungo termine non sia ottimale. recentemente marin e collaboratori hanno stratificato i pazienti affetti da lmc dell’hammersmith hospital in base ai criteri eln (european leukemianet), evidenziando una sovrapposizione nelle definizioni di fallimento e risposta sub-ottimale [5]. l’incidenza di risposta sub-ottimale in corso di terapia con imatinib, secondo gli studi eln del 2006, è pari a circa il 20% [4]. i pazienti con risposta sub-ottimale possono giovare di trattamento con imatinib a dosaggio maggiore se non hanno sviluppato resistenza al farmaco. il dosaggio plasmatico di imatinib, valutato con il blt, al di sotto della soglia ritenuta terapeutica, può supportare ulteriormente la decisione di incrementare il dosaggio del farmaco. il problema dell’insorgenza delle mutazioni nel dominio chinasico di bcr-abl, ovvero nel sito di legame di imatinib con la proteina, rappresenta una questione aperta. l’incidenza di resistenza a imatinib dovuta a mutazioni riportata in letteratura è pari a circa il 40-50% nella fase cronica di malattia. in letteratura sono ormai note più di 90-100 mutazioni ed è conosciuto l’ic50 di ciascuna mutazione: alcune rispondono a un incremento di dosaggio del farmaco, altre ai nuovi farmaci inibitori delle chinasi; la mutazione t315i conferisce resistenza a tutti i farmaci attualmente disponibili. tipo di risposta definizione ematologica completa (chr) globuli bianchi < 10 x 10 y 9/l basofili < 5% y assenza di mielociti, mieloblasti, promielociti y piastrine < 450 x 10 y 9/l milza non palpabile y citogenetica completa (ccgr) y assenza del cromosoma philadelphia parziale (pcgr) y philadelphia + compreso fra 1-35% minore (mcgr) y philadelphia + compreso fra 36-65% minima (mincgr) y philadelphia + compreso fra 66-95% nessuna (no cgr) y philadelphia + > 95% molecolare completa(cmoir) y trascritto bcr-abl mrna non rintracciabile con rt-q-pcr e/o nested pcr in due campioni consecutivi di sangue di adeguata qualità (sensibilità > 104) maggiore (mmoir) y ratio bcr-abl su abl ≤ 0,1% della international scale tabella i definizione di risposta ematologica, citogenetica e molecolare [3] rt-q-pcr = real time quantitative polymerase chain reaction risposta descrizione del monitoraggio ematologica alla diagnosi e ogni 15 giorni fino al raggiungimento della risposta ematologica completa (chr); successivamente ogni 3 mesi o quando richiesto citogenetica alla diagnosi, a 3 e a 6 mesi. successivamente ogni 6 mesi fino al raggiungimento e conferma della risposta citogenetica completa (ccgr). successivamente ogni 12 mesi, se non può essere eseguito il controllo molecolare regolare; sempre nel sospetto di fallimento terapeutico (resistenza primaria o secondaria), e per la comparsa di anemia, leucopenia, piastrinopenia inspiegata molecolare con rt-q-pcr ogni 3 mesi fino al raggiungimento e conferma della risposta molecolare maggiore (mmoir). successivamente almeno ogni 6 mesi molecolare con analisi mutazionale nel caso di risposta sub-ottimale o fallimento. sempre prima di iniziare terapia con un altro inibitore tabella ii timing del monitoraggio della risposta alla terapia con imatinib in corso di lmc [3] rt-q-pcr = real time quantitative polymerase chain reaction ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2)24 resistenza a imatinib: opzioni diagnostiche e terapeutiche nel caso della mutazione m351t, l’ic50 è pari a 820 ng/ml, valore che ci ha consentito di ottimizzare la dose; inoltre questa mutazione rende il soggetto suscettibile a terapia con nilotinib (inibitore della tirosin chinasi di seconda generazione) [6]. il blt è uno strumento valido nei casi di pazienti resistenti con mutazioni sensibili a imatinib o senza alcuna mutazione in cui il sottodosaggio del farmaco è causa della resistenza. il blt può essere utile quindi per valutare: l’assorbimento del farmaco; y l’ aderenza alla terapia; y il possibile sviluppo di interazioni farmay cologiche che riducono/aumentano l’assorbimento di imatinib. trova inoltre impiego nella diagnosi di eventi avversi gravi legati al sovradosaggio di imatinib [7-9]. nel nostro caso la mutazione m351t [6], e il basso livello plasmatico hanno giustificato l’incremento del dosaggio del farmaco. il nostro tentativo, tuttavia, è stato vano per assenza di risposta molecolare e insorgenza di effetti collaterali. la resistenza alla terapia e l’intolleranza a imatinib a dosaggi maggiori di 400 mg/die (comparsa di effetti collaterali) imponevano una nuova decisione terapeutica. la mutazione sviluppata dalla paziente rendeva possibile la somministrazione di nilotinib, un inibitore della tirosin chinasi che si è dimostrato 30-50 volte più potente di imatinib, con alta selettività e affinità per bcr-abl, maneggevole e ben tollerato [10,11]. la somministrazione di questo nuovo farmaco ha consentito il raggiungimento della risposta molecolare completa in tempi brevi. bibliografia swerdlow sh, ciampo e, lee h, jaffe es, pileri sa, stein h. who classification of tumors 1. of haematopoietic and lymphoid tissue. geneva: who, 2008; 4th edition hochhaus2. a, o’brien sg, guilhot f, druker bj, branford s, foroni l et al. six-year follow-up of patients receiving imatinib for the first-line treatment of chronic myeloid leukemia. leukemia 2009; 23: 1054-61 risposte alle domande emerse nel corso del caso clinico la “risposta sub-ottimale” y necessita di una attenta valutazione in quanto il paziente non ha raggiunto il target terapeutico, quindi potrebbe, potenzialmente, evolvere perdendo la risposta ottenuta. bisogna quindi decidere, utilizzando gli strumenti diagnostici a disposizione, l ’atteggiamento terapeutico più corretto da adottare lo studio mutazionale e il blt y rappresentano i due strumenti attualmente disponibili per valutare sia la causa dell ’assenza/perdita della risposta alla terapia, sia il tipo di approccio terapeutico da adottare l’ analisi mutazionale y ci fornisce: indicazioni rispetto alla presenza o meno di una mutazione y il tipo di mutazione y l ’eventuale sensibilità della mutazione a imatinib, giustificando un eventuale increy mento del farmaco la sensibilità della mutazione ad altri tipi di inibitori della tirosin chinasi di seconda y generazione, indicando, quindi, il farmaco da adottare il blt y consente di valutare se il dosaggio plasmatico di imatinib risulta entro il range terapeutico, permettendo di diagnosticare sia sottodosaggi che rendono inefficace la terapia (in caso, per esempio, di scarsa aderenza alla terapia o interazione tra farmaci), sia sovradosaggi che causano reazioni avverse il farmaco di seconda linea y nel paziente resistente a imatinib deve essere scelto in base alla capacità di bypassare la resistenza indotta dalla mutazione che ha reso inefficace imatinib [6] ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2) 25 m. de muro, o. m. olimpieri, r. greco, l. altomare baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, saglio g, apperley j et al. chronic myeloid 3. leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51 baccarani m, saglio g, goldman j, hochhaus a, simonsson b, appelbaum f et al. evolving 4. concepts in the management of chronic myeloid leukemia: recommendations from an expert panel on behalf of the european leukemianet. blood 2006; 108: 1809-20 marin d, milojkovic d, olavarria e, khorashad js, de lavallade h, reid ag et al. european 5. leukemianet criteria for failure or suboptimal response reliably identify patients with cml in early chronic phase treated with imatinib whose eventual outcome is poor. blood 2008; 112: 4437-44 o’hare t, eide ca, deininger mw. bcr-abl kinase domain mutations, drug resistance, and 6. the road to a cure for chronic myeloid leukemia. blood 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individual drugs with bcr-abl mutations and patient history. leukemia 2010; 24: 6-12 breccia m, alimena g. nilotinib therapy in chronic myelogenous leukemia: the strength of 11. high selectivity on bcr-abl. curr drug targets 2009; 10: 530-6 tollerabilità ed efficacia di nilotinib dopo 10 anni di interferone 19 clinical management issues corresponding authors dott. filippo russo filipporusso12@gmail.com milioni, a giorni alterni. dopo due anni di trattamento, la paziente, secondo le raccomandazioni dell’eln 2009 (tabella i) [1], è in risposta sub-ottimale,con un rapporto bcr-abl/abl di 0,2% (figura 1). caso clinico nel 1998 giunge alla nostra osservazione una donna di 45 anni, per una leucocitosi riscontrata in corso di effettuazione di esami di controllo. la donna, quattro anni prima, era stata operata per un carcinoma nel quadrante superiore esterno (qse) della mammella e per due anni sottoposta a radioterapia e goserelin acetato. l’esame obiettivo mette in evidenza una discreta splenomegalia, mentre l’esame emocromocitometrico fa riscontrare marcata leucocitosi e trombocitosi. la citogenetica convenzionale mostra la presenza del cromosoma philadelphia nel 100% di metafasi 46,xx, t(9;22)(q34;q11). la paziente riceve quindi diagnosi di leucemia mieloide cronica (lmc). percorso terapeutico la paziente viene sottoposta a terapia con interferone alfa-2b (ifn) a dosaggio di 9 abstract here we describe a case of a woman with chronic myeloid leukemia at high risk, according to the sokal index. the patient started interferon alfa-2b (ifn) at standard dose obtaining a major molecular response after about four years of treatment. after about 10 years the patient presented a toxicity from ifn and different comorbidities, so she was switched to nilotinib and achieved a complete molecular response (mr4). this case shows how nilotinib is effective and tolerable also in patients with multiple comorbidities. keywords: chronic myeloid leukemia; optimal response; nilotinib; interferon alfa-2b safety and efficacy of nilotinib after 10 years of interferon cmi 2012; 6(suppl 2): 19-24 caso clinico 1 dirigente medico, sc ematologia oncologica, istituto nazionale tumori, fondazione pascale, napoli filippo russo 1 tollerabilità ed efficacia di nilotinib dopo 10 anni di interferone perché descriviamo questo caso a nostro avviso, il caso offre uno spunto di riflessione importante sulla rivoluzione generata dagli inibitori delle tirosin chinasi di seconda generazione, per la loro maggiore efficacia rispetto a imatinib in termini di velocità e profondità di risposte. la nostra paziente, con una lunga storia di malattia trattata con interferone, nel tempo ha sviluppato diverse comorbidità e intolleranza allo stesso interferone, per cui è stato necessario cambiare terapia. lo switch a nilotinib ci ha permesso non solo di mantenere, ma anche di migliorare la qualità della risposta della nostra paziente garantendole una buona qualità della vita disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. mailto:filipporusso12@gmail.com 20 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(suppl 2) tollerabilità ed efficacia di nilotinib dopo 10 anni di interferone paziente affetta da lmc da più di 10 anni. nilotinib ha rappresentato e rappresenta per la nostra paziente una valida opzione terapeutica, che ha mostrato un buon profilo di tollerabilità. quando, circa 18 mesi fa, ci siamo trovati di fronte a dover sospendere definitivamente l’interferone alfa-2b e a optare per un inibitore delle tirosin chinasi (tki) ci si sono presentate diverse opzioni terapeutiche: imatinib, dasatinib e nilotinib. lo studio iris è stato il primo studio randomizzato di fase iii che ha dimostrato la superiorità di imatinib vs l’associazione di citarabina e interferone: imatinib è stato quindi considerato la cura standard per i pazienti affetti da lmc. l’avvento degli inibitori di seconda generazione ci pone di fronte ad una nuova rivoluzione nella lmc, grazie alla loro maggiore efficacia rispetto a imatinib sia in termini di velocità sia di profondità di risposte. i dati di efficacia di nilotinib ottenuti sui pazienti trattati negli studi in prima linea hanno dimostrato che nilotinib è un’efficace arma terapeutica producendo risposte molecolari rapide e profonde [2-4], con un buon profilo di tollerabilità. lo studio registrativo enestnd a 12 mesi ha evidenziato che il doppio dei pazienti in trattamento nel braccio sperimentale con nilotinib aveva ottenuto una risposta molecolare maggiore: 44% nilotinib vs 22% imatinib. tale risposta era indipendente dal rischio sokal. considerando le risposte molecolari con una riduzione di 4 o 4,5 logaritmi, notiamo un divario maggiore a 12 mesi: nel 2000 la paziente manifesta la presenza di un nodulo tiroideo benigno e tireopatia correlata a interferone che richiede il trattamento con levotiroxina sodica. nel 2002, dopo 4 anni di trattamento con interferone, la paziente raggiunge una risposta molecolare prima maggiore e poi completa. nei controlli successivi la paziente mostra sempre una risposta molecolare maggiore (figura 1). nel 2009 la paziente evidenzia tossicità ematologica da interferone (piastrine = 60.000 mm3), che viene gestita riducendo il dosaggio. durante un esame di controllo si riscontra la presenza di due noduli mammari con vascolarizzazione periferica. nel gennaio del 2010 viene effettuata l’asportazione dei noduli mammari: gli esami e i controlli successivi sono nella norma. nel marzo del 2011 si ripresenta la tossicità ematologica (piastrine = 34.000 mm3) con segni di neuropatia periferica agli arti inferiori causati anche questi dall’interferone. la paziente, intanto, sviluppa anche una broncopatia e una gastrite. si decide di sospendere definitivamente l’interferone alfa-2b e si effettua lo switch a nilotinib 800 mg/die. dopo un mese di trattamento la paziente aveva raggiunto una risposta molecolare completa, che si mantiene ancora oggi, dopo 18 mesi circa di trattamento. discussione il caso clinico descritto ha mostrato l’ottimo risultato ottenuto con nilotinib in una risposta ottimale (non definita precedentemente) risposta sub-ottimale fallimento warnings baseline na na na alto rischio cca/ph+ 3 mesi chr e almeno mcyr (ph+ ≤ 65%) no cyr (ph+ > 95%) 35%) no cyr (ph+ > 95%) na 12 mesi ccyr pcyr (ph+ 1-35%) 35%) < mmolr 18 mesi mmolr < mmolr < ccyr na qualsiasi momento nel corso della terapia mmolr stabile o in miglioramento perdita di mmolr mutazioni* perdita di chr perdita di ccyr mutazioni** cca/ph+ aumento nei livelli di trascritto cca/ph– tabella i. raccomandazioni dell ’european leukemianet (eln) 2009 confrontate con quelle del 2006. in grassetto le aggiunte eln 2009 cca = clonal chromosome abnormalities; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; hr = risposta ematologica; mcyr = risposta citogenetica minore; mmolr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile; pcyr = risposta citogenetica parziale * bassi livelli di insensibilità a imatinib ** alta insensibilità a imatinib figura 1. variazioni del trascritto bcrabl nel tempo figura 2. aggiornamento a 36 mesi delle progressioni della fase core dello studio enestnd ac = fase accelerata bc = crisi blastica 21 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(suppl 2) f. russo queste due condizioni non rappresentano una controindicazione al trattamento con nilotinib. nilotinib è un inibitore tirosin chinasi di seconda generazione più potente e selettivo di imatinib. i legami a idrogeno di imatinib sono stati sostituiti da interazioni lipofiliche, evidenziando una sua minore mutagenicità [6]. nilotinib inibisce la proliferazione di cellule che esprimono bcr-abl a concentrazioni 20 volte inferiori rispetto a imatinib. per nilotinib si registra il 20% di mr4 contro il 6% di imatinib, mentre le percentuali di mr4,5 sono dell’11% per nilotinib vs 1% per imatinib. tali differenze e superiorità sono mantenute anche nel follow up a tre anni. oltre a questi dati, emerge anche un’altra informazione importante nella scelta terapeutica di un farmaco, e cioè l’azzeramento quasi totale delle progressioni con nilotinib: a 12 mesi la percentuale di progressioni è dello 0,7% con nilotinib vs 3,9% di imatinib, e dopo tre anni di trattamento ancora 0,7% con nilotinib vs 4,2% di imatinib (figura 2). anche lo studio registrativo di seconda linea ha mostrato come nilotinib continua ad essere efficace e ben tollerato dopo 4 anni di follow-up nei pazienti intolleranti/resistenti a imatinib. secondo lo studio camn2101 nella terapia con nilotinib la sopravvivenza libera da progressione è del 57% e il 78% dei pazienti in terapia è vivo a 48 mesi di follow-up [5]. alla luce di tali dati e visto il quadro polmonare della nostra paziente, nilotinib, per il nostro centro, è sembrata la scelta più appropriata. la considerazione che ci ha guidato è stata quella di scegliere un farmaco che riducesse in maniera statisticamente significativa le progressioni ed evitasse complicazioni a livello polmonare: in base al quadro polmonare della nostra paziente poteva esserci il rischio di insorgenza di versamento pleurico. inoltre abbiamo tenuto ben presente la tireopatia e la gastrite cronica della nostra paziente: dai dati di letteratura emerge che nel 2000 la paziente manifesta la presenza di un nodulo tiroideo benigno e tireopatia correlata a interferone che richiede il trattamento con levotiroxina sodica. nel 2002, dopo 4 anni di trattamento con interferone, la paziente raggiunge una risposta molecolare prima maggiore e poi completa. nei controlli successivi la paziente mostra sempre una risposta molecolare maggiore (figura 1). nel 2009 la paziente evidenzia tossicità ematologica da interferone (piastrine = 60.000 mm3), che viene gestita riducendo il dosaggio. durante un esame di controllo si riscontra la presenza di due noduli mammari con vascolarizzazione periferica. nel gennaio del 2010 viene effettuata l’asportazione dei noduli mammari: gli esami e i controlli successivi sono nella norma. nel marzo del 2011 si ripresenta la tossicità ematologica (piastrine = 34.000 mm3) con segni di neuropatia periferica agli arti inferiori causati anche questi dall’interferone. la paziente, intanto, sviluppa anche una broncopatia e una gastrite. si decide di sospendere definitivamente l’interferone alfa-2b e si effettua lo switch a nilotinib 800 mg/die. dopo un mese di trattamento la paziente aveva raggiunto una risposta molecolare completa, che si mantiene ancora oggi, dopo 18 mesi circa di trattamento. discussione il caso clinico descritto ha mostrato l’ottimo risultato ottenuto con nilotinib in una risposta ottimale (non definita precedentemente) risposta sub-ottimale fallimento warnings baseline na na na alto rischio cca/ph+ 3 mesi chr e almeno mcyr (ph+ ≤ 65%) no cyr (ph+ > 95%) 35%) no cyr (ph+ > 95%) na 12 mesi ccyr pcyr (ph+ 1-35%) 35%) < mmolr 18 mesi mmolr < mmolr < ccyr na qualsiasi momento nel corso della terapia mmolr stabile o in miglioramento perdita di mmolr mutazioni* perdita di chr perdita di ccyr mutazioni** cca/ph+ aumento nei livelli di trascritto cca/ph– tabella i. raccomandazioni dell ’european leukemianet (eln) 2009 confrontate con quelle del 2006. in grassetto le aggiunte eln 2009 cca = clonal chromosome abnormalities; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; hr = risposta ematologica; mcyr = risposta citogenetica minore; mmolr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile; pcyr = risposta citogenetica parziale * bassi livelli di insensibilità a imatinib ** alta insensibilità a imatinib figura 1. variazioni del trascritto bcrabl nel tempo figura 2. aggiornamento a 36 mesi delle progressioni della fase core dello studio enestnd ac = fase accelerata bc = crisi blastica 22 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(suppl 2) tollerabilità ed efficacia di nilotinib dopo 10 anni di interferone bibliografia 1. baccarani m, cortes j, pane f, et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51; doi: 10.1200/jco.2009.25.0779 2. saglio g, kim dw, issaragrisil s, et al; for the enestnd investigators. nilotinib versus imatinib for newly diagnosed chronic myeloid leukemia. n engl j med 2010; 362: 2251-9; doi: 10.1056/ nejmoa0912614 3. kantarjian hm, hochhaus a, saglio g, et al. nilotinib versus imatinib for the treatment of patients with newly diagnosed chronic phase, philadelphia chromosome-positive, chronic myeloid leukaemia: 24-month minimum follow-up of the phase 3 randomised enestnd trial. lancet oncol 2011; 12: 841-51; doi: 10.1016/s1470-2045(11)70201-7 4. larson ra, hochhaus a, hughes tp, et al. nilotinib vs imatinib in patients with newly diagnosed philadelphia chromosome-positive chronic myeloid leukemia in chronic phase: enestnd 3-year follow-up. leukemia 2012; 26: 2197-2203; doi: 10.1038/leu.2012.134 5. giles fj, le coutre pd, pinilla-ibarz j, et al. nilotinib in imatinib-resistant or imatinib-intolerant patients with chronic myeloid leukemia in chronic phase: 48-month follow-up results of a phase ii study. leukemia 2012 jul 5. doi: 10.1038/leu.2012.181. [epub ahead of print] 6. breccia m, alimena g. nilotinib therapy in chronic myelogenous leukemia: the strength of high selectivity on bcr/abl. curr drug targets 2009; 10: 530-6; doi: 10.2174/138945009788488468 7. o’hare t, walters dk, deininger mw, et al. amn107: tightening the grip of imatinib. cancer cell 2005; 7: 117-9; doi: 10.1016/j.ccr.2005.01.020 8. weisberg e, manley pw, breitenstein w, et al. characterization of amn107, a selective inhibitor of native and mutant bcr-abl. cancer cell 2005; 7: 129-41; doi: 10.1016/j.ccr.2005.01.007 9. giles f, mahon fx, gjertsen b, et al. developmental therapeutics consortium report on study design effects on trial outcomes in chronic myeloid leukaemia. eur j clin invest 2012; 42: 101626; doi: 10.1111/j.1365-2362.2012.02675.x contribuito a guidare la scelta tra i diversi tki [7-9]. all’inizio del trattamento la nostra paziente ha eseguito i controlli di routine, che proseguono ancora oggi e sia la consulenza endocrinologica sia quella gastro-enterologica hanno evidenziato una stabilità del suo quadro clinico, in contemporanea con la persistenza della remissione molecolare completa. inoltre, nilotinib ha dimostrato un’attività inibitoria nei confronti di tutte le mutazioni di bcr-abl resistenti a imatinib, ad eccezione della mutazione t315i. nilotinib ha dimostrato di proteggere dalla progressione alla fase blastica e questo elemento per noi ha rappresentato un fattore clinico guida decisivo per la scelta terapeutica. inoltre la comorbidità ha nilotinib nella leucemia mieloide cronica: un approccio globale mario annunziata 1 efficacia della terapia con nilotinib impiegato in seconda linea raffaele porrini 1, enrico montefusco 1 caso clinico risposta molecolare completa indotta precocemente da nilotinib come prima linea di terapia in un paziente affetto da leucemia mieloide cronica a rischio sokal intermedio ursula sessa 1, maria celentano 1, stefano rocco 1, rossella fabbricini 1, olimpia finizio 1, vincenzo mettivier 1 caso clinico efficacia e tollerabilità di nilotinib in terza linea in un paziente anziano con lmc giovanni caocci 1, sandra atzeni 1, giorgio la nasa 1 caso clinico tollerabilità ed efficacia di nilotinib dopo 10 anni di interferone filippo russo 1 15 clinical management issues caso clinico nel settembre 2007, durante un ambulatorio ematologico di routine, si è presentato alla nostra osservazione un uomo di 42 anni, inviato dal medico curante con urgenza, per riscontro occasionale di leucocitosi neutrofila e lievi disturbi intestinali. il paziente presentava il seguente emocromo: globuli bianchi 250 x 103/µl con la seguente formula leucocitaria: neutrofili 80%, leucociti 13%, monociti 3%, basofili 2%, mielociti 1%, blasti 1%; l’emoglobina si attestava intorno a 11 g/dl e le piastrine risultavano nella norma (plt 351 x 103/µl). l’esame clinico documentava una discreta splenomegalia, con milza che arrivava due dita sotto l’arcata costale, come confermato dall’ecografia addominale che ne documentava una lunghezza di 18 cm totali. perché descriviamo questo caso per interrogarsi sulla natura della risposta sub-ottimale, da sempre ritenuta una “zona grigia” tra i pazienti ottimali e coloro che non ottengono alcun giovamento dalla terapia con gli inibitori delle tirosin chinasi (tki). tale risposta pone il clinico di fronte a una patologia sensibile alla terapia, ma identifica anche precocemente coloro che non trarranno a lungo beneficio dal trattamento. anche in epoca di utilizzo in prima linea dei tki di seconda generazione risultano pertanto necessari uno stretto monitoraggio molecolare nei primi mesi dall ’inizio della terapia e, non secondario, un sincero colloquio con il paziente, per identificare eventuali problemi di compliance e/o intolleranza al tki utilizzato prima di modificarne il trattamento corresponding author dott.ssa francesca sassolini ciocy@jomix.org caso clinico abstract we report a case of a patient with chronic myeloid leukemia in chronic phase who was treated with imatinib at standard dose from diagnosis to 18 months end point. he rapidly achieved a stable complete cytogenetic response (ccyr), but not a major molecular response (mmolr). according to european leukemianet (eln) recommendations, he was classified as a suboptimal patient. since the treatment was fully tolerated by the patient, we tried an imatinib dose escalation in order to improve this result, obtaining only a transitory mmolr: bcr-abl trascript level waved from 0,23 to 0,3% (bcr-abl/abl%). therefore, we proposed a change of therapy. due to his optimal compliance to imatinib and his wish of a future pregnancy, he refused the proposal. unfortunately the pregnancy remained a desire, therefore, after 1 year of stable results (“near” mmolr), the patient switched to nilotinib at 400 mg/bid. after 3 months of treatment he achieved mmolr and after 6 months we could also document a complete molecular response (cmolr). keywords: chronic myeloid leukemia; suboptimal response; compliance; nilotinib efficacy of nilotinib in a patient in non-optimal response after imatinib treatment but in reduced compliance to the new drug cmi 2011; 5(suppl 5): 15-19 1 divisione di ematologia, università di firenze, firenze francesca sassolini 1 efficacia di nilotinib in un paziente in risposta non ottimale dopo terapia con imatinib a fronte di una ridotta compliance al nuovo farmaco disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. 16 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) efficacia di nilotinib in un paziente in risposta non ottimale dopo terapia con imatinib il paziente ha intrapreso subito trattamento citoriduttivo con idrossiurea, proseguita per circa 20 giorni; nel frattempo sono stati eseguiti tutti gli esami diagnostici del caso, in particolare lo striscio di sangue periferico, l’aspirato midollare con esecuzione delle analisi citogenetiche e molecolari. tali indagini hanno permesso di porre diagnosi di leucemia mieloide cronica (lmc), in fase cronica (con doppio trascritto b2a2/b3a2), e sokal score basso. appena confermata la diagnosi e ridotta l’imponente leucocitosi, il paziente ha iniziato il trattamento con imatinib al dosaggio standard di 400 mg/ die ottenendo già dopo un mese di terapia la normalizzazione dell’esame emocromocitometrico (gb 6,4 x 103/µl; hb 11,9 g/dl; plt 190 x 103/µl) e una netta riduzione del volume splenico, con scomparsa dei disturbi intestinali. a fronte di questo risultato la tollerabilità del farmaco era buona dato che il paziente non lamentava particolari problemi soggettivi, né presentava i classici edemi superficiali o crampi muscolari. dopo 6 mesi di trattamento è stata eseguita la rivalutazione midollare che ha documentato il raggiungimento della risposta citogenetica completa (ccyr). il paziente si presentava quindi come un soggetto in risposta ottimale [1], pur in presenza di una persistenza del trascritto bcr-abl/abl che si attestava intorno all’1,91% (ratio is labnet). abbiamo pertanto proseguito la terapia inalterata. il controllo a 12 mesi nel dicembre 2008 confermava la risposta ottimale [2], con un calo del trascritto che era sceso al valore di 0,3% ma senza il raggiungimento della risposta molecolare maggiore (mmolr) attesa. la tollerabilità al farmaco si confermava ottima, con una perfetta aderenza alla terapia da parte del paziente che, con questi dati alla mano, espresse insieme alla partner il desiderio di avere dei figli [3]. secondo le raccomandazioni del momento, abbiamo proseguito la terapia inalterata, in attesa di controllare la risposta all’end point dei 18 mesi. nel maggio 2009 l’analisi citogenetica confermava la stabilità della ccyr, ma i dati molecolari non mostravano ulteriore riduzione del trascritto: il valore del bcrabl/abl si attestava infatti sempre allo 0,23-0,3%: secondo le nuove linee guida il paziente presentava ora una risposta subottimale [2]. pertanto, data l’ottima tollerabilità a imatinib da sempre dimostrata, vista la volontà di paternità espressa dal paziente e il timore dello switch farmacologico, abbiamo pensato, prima di cambiare farmaco, di tentare la strada dell’incremento di dose. a 18 mesi dalla diagnosi, in presenza di una ccyr stabile, il paziente ha intrapreso la terapia con imatinib a 600 mg/die. dopo ulteriori 6 mesi, gli esami eseguiti per controllo hanno dimostrato per la prima volta l’ottenimento della mmolr. per un altro anno il paziente ha proseguito la terapia con imatinib a 600 mg/die: i controlli trimestrali in biologia molecolare hanno documentato un oscillamento continuo della risposta stessa, senza mai mostrare la stabilità della risposta molecolare maggiore e senza essere riusciti al momento ad ottenere una gravidanza. a questo punto abbiamo proposto di passare a una terapia di seconda linea con nilotinib e, nonostante la resistenza da parte del paziente, questi ha accettato e iniziato il nuovo farmaco. dopo 3 mesi di tale trattamento al dosaggio di 800 mg/die il paziente presentava una mmolr e, dopo altri 3 mesi, per la prima volta ha raggiunto la risposta molecolare completa (cmolr). a fronte di quest’ottimo risultato, la tollerabilità al nuovo farmaco è rimasta buona, ma lo stesso non si può dire della compliance del paziente che, per il tipo di lavoro svolto, preferiva l’assunzione del farmaco in unico momento della giornata, senza dover avere l’accortezza della vicinanza o meno ai pasti al momento dell’assunzione. facendo infatti il muratore, il paziente si trova a lavorare in luoghi sempre diversi ed ha orari di lavoro non sempre stabili, che talvolta dipendono anche dalle condizioni atmosferiche: per questo ritiene un peso portare con sé il farmaco, piuttosto che assumerlo sempre e soltanto prima di partire da casa. inoltre la ricerca di una gravidanza è stata interrotta, non essendo disponibili al momento dati certi con i tki di seconda generazione, non senza una certa riluttanza e ostilità da parte del paziente. al momento tuttavia, prosegue la terapia con il secondo tki, sempre senza presentare alcun evento avverso e mantenendo la risposta molecolare completa. questa storia clinica, peraltro molto lineare, viene schematizzata in tabella i. discussione nei pazienti con lmc, la terapia con imatinib in prima linea fa conseguire la ccyr nella maggior parte dei soggetti in fase cronica; tali risposte sono inoltre sostanzialmente durature e stabili. lo studio iris [4] ha evidenziato che, con la stessa terapia, oltre a raggiungere la ccyr, dopo 12 mesi il 22% dei pazienti ha raggiunto la mmolr mentre, dopo 3 anni dall’inizio del trattamento, questa percentuale supera il 50%. la terapia con i tki di seconda generazione porta a risultati ancora migliori: in particolare il trattamento con nilotinib in seconda linea ha dimostrato il raggiungimento della ccyr nel 44% dei casi e della mmolr nel 28% dei casi a 24 mesi [5]. sappiamo inoltre dalla letteratura che la rapidità con cui si raggiungono tali end points è fondamentale per predire l’andamento stesso della patologia negli anni. in particolare, la precocità nell’ottenimento della mmolr si associa alla probabilità di ottenere poi la cmolr che è strettamente correlata con il mantenimento della ccyr e della mmolr (figura 1) [6]. non sono ancora chiari i dati sulla overall survival (os), ma sicuramente il raggiungimento della cmolr dà una events free survival (efs) e una progression free survival (pfs) migliori rispetto al gruppo che non la raggiunge. considerando questi dati, possiamo dire che il nostro paziente ha ottenuto una rapida e stabile ccyr con il trattamento standard, e un progressivo calo del trascritto in biologia molecolare. evidentemente, però, imatinib non è risultato sufficiente per riperiodo terapia risultati 2007 – diagnosi di lmc in fase cronica imatinib 400 mg/die 2008 – 6 mesi ccyr (risposta ottimale) 2008 – 12 mesi 2009 – 18 mesi < mmolr (risposta sub-ottimale) 2010 imatinib 600 mg/die mmolr ↔ < mmolr 2011 nilotinib 800 mg/die mmolr stabile → cmolr tabella i. schema storia clinica del paziente ccyr = risposta citogenetica completa; mmolr = risposta molecolare maggiore; cmolr = risposta molecolare completa figura 1. probabilità di bcr/abl undetectable in relazione alla presenza o meno di mmolr a 12 mesi dall ’inizio della terapia con imatinib (modificata da [6]) 17 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) f. sassolini luoghi sempre diversi ed ha orari di lavoro non sempre stabili, che talvolta dipendono anche dalle condizioni atmosferiche: per questo ritiene un peso portare con sé il farmaco, piuttosto che assumerlo sempre e soltanto prima di partire da casa. inoltre la ricerca di una gravidanza è stata interrotta, non essendo disponibili al momento dati certi con i tki di seconda generazione, non senza una certa riluttanza e ostilità da parte del paziente. al momento tuttavia, prosegue la terapia con il secondo tki, sempre senza presentare alcun evento avverso e mantenendo la risposta molecolare completa. questa storia clinica, peraltro molto lineare, viene schematizzata in tabella i. discussione nei pazienti con lmc, la terapia con imatinib in prima linea fa conseguire la ccyr nella maggior parte dei soggetti in fase cronica; tali risposte sono inoltre sostanzialmente durature e stabili. lo studio iris [4] ha evidenziato che, con la stessa terapia, oltre a raggiungere la ccyr, dopo 12 mesi il 22% dei pazienti ha raggiunto la mmolr mentre, dopo 3 anni dall’inizio del trattamento, questa percentuale supera il 50%. la terapia con i tki di seconda generazione porta a risultati ancora migliori: in particolare il trattamento con nilotinib in seconda linea ha dimostrato il raggiungimento della ccyr nel 44% dei casi e della mmolr nel 28% dei casi a 24 mesi [5]. sappiamo inoltre dalla letteratura che la rapidità con cui si raggiungono tali end points è fondamentale per predire l’andamento stesso della patologia negli anni. in particolare, la precocità nell’ottenimento della mmolr si associa alla probabilità di ottenere poi la cmolr che è strettamente correlata con il mantenimento della ccyr e della mmolr (figura 1) [6]. non sono ancora chiari i dati sulla overall survival (os), ma sicuramente il raggiungimento della cmolr dà una events free survival (efs) e una progression free survival (pfs) migliori rispetto al gruppo che non la raggiunge. considerando questi dati, possiamo dire che il nostro paziente ha ottenuto una rapida e stabile ccyr con il trattamento standard, e un progressivo calo del trascritto in biologia molecolare. evidentemente, però, imatinib non è risultato sufficiente per riperiodo terapia risultati 2007 – diagnosi di lmc in fase cronica imatinib 400 mg/die 2008 – 6 mesi ccyr (risposta ottimale) 2008 – 12 mesi 2009 – 18 mesi < mmolr (risposta sub-ottimale) 2010 imatinib 600 mg/die mmolr ↔ < mmolr 2011 nilotinib 800 mg/die mmolr stabile → cmolr tabella i. schema storia clinica del paziente ccyr = risposta citogenetica completa; mmolr = risposta molecolare maggiore; cmolr = risposta molecolare completa figura 1. probabilità di bcr/abl undetectable in relazione alla presenza o meno di mmolr a 12 mesi dall ’inizio della terapia con imatinib (modificata da [6]) durre a zero il trascritto e il nostro paziente, a 18 mesi dalla diagnosi, presentava una risposta “soltanto” di tipo sub-ottimale. nel 2008 la pratica clinica di fronte a questi pazienti proponeva due opzioni: l’incremento di dosaggio di imatinib o il passaggio ad un inibitore di seconda generazione [7]. nel nostro caso, il paziente presentava un’ottima tolleranza al farmaco in uso, aveva una corretta aderenza alla terapia e presentava un ottimo stato fisico: era pertanto molto riluttante al cambiamento di farmaco. allo stesso tempo aveva espresso il desiderio di una gravidanza chiedendo numerose informazioni riguardo ai rischi in caso di prosecuzione o cambiamento di terapia. dai dati in nostro possesso sapevamo che una gravidanza ottenuta in caso di trattamento con imatinib da parte del partner maschile non determina particolari problemi [3]. gli stessi dati non erano e non sono tuttora ancora disponibili per nilotinib, dato il minor follow up del farmaco. dalle poche segnalazioni note, tuttavia, non sembra che il tki di seconda generazione determini problemi diversi dal “vecchio” farmaco [8]. per queste motivazioni, prima di cambiare terapia, abbiamo tentato la strada dell’incremento di dosaggio, che ha determinato un ulteriore calo del trascritto del paziente, senza però che la mmolr fosse confermata a determinazioni successive. probabilmente la stessa situazione vista oggi ci avrebbe fatto propendere per un cambio di terapia più rapido. anche nel caso in esame infatti, il nilotinib si è dimostrato molto più efficace dell’aumento di dose nell’ottenere la cmolr 18 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) efficacia di nilotinib in un paziente in risposta non ottimale dopo terapia con imatinib e i primi dati sulle gravidanze con partner maschili che assumevano nilotinib non discostano da quelli conosciuti con imatinib. rimane tuttavia da segnalare la scontentezza del paziente che ha dovuto assumere nuove abitudini e riconsiderare al momento l’ipotesi di una gravidanza. in particolare, pur in assenza di eventi avversi, il nostro paziente lamenta attualmente una maggior difficoltà nell’assunzione del nuovo farmaco, sia per la doppia dose giornaliera, sia per la necessità della lontananza dai pasti che, per il lavoro svolto, risulta maggiormente complicata. se queste difficoltà si trasformeranno alla lunga in una ridotta compliance, con minor aderenza alla terapia e quindi minor efficacia, sarà importare avere colloqui più approfonditi con il paziente. è necessario infatti che comprenda l’importanza della continuità della cura, ma soprattutto l’importanza dell’ottenimento di una risposta molecolare maggiore/completa stabile per evitare possibili eventi che potrebbero condurre a una progressione di malattia. i pazienti sub-ottimali sono, del resto,   spesso i più difficili da seguire e consigliare, e nel futuro avremo sempre più bisogno di linee guida basate sull’evidenza che ci aiutino a trattare adeguatamente ogni singolo paziente e ogni singola lmc. domande da porsi 1. qual è la probabilità di ottenere una mmolr nei pazienti trattati con nilotinib in seconda linea? 2. quali fattori hanno reso difficile per il nostro paziente accettare una modifica di terapia? risposte 1. il follow-up a 24 mesi dei pazienti in trattamento con nilotinib in seconda linea mostra che, oltre ad ottenere una ccyr duratura nella quasi metà dei casi, essi presentano una probabilità di circa il 30% di ottenere la mmolr [5]. l’os di tali pazienti è stimata inoltre all ’87% a 24 mesi. nel nostro caso, dato che l ’aumento di dose non aveva di fatto modificato la risposta, abbiamo scelto di cambiare tki allo scopo di garantire una migliore sopravvivenza a lungo termine 2. oltre all ’ottima tolleranza a imatinib, a una perfetta compliance e a una risposta che comunque era stata ottenuta, probabilmente il fattore principale che ci ha fatto “scontrare” con il paziente è stato un problema comunicativo dovuto ai diversi “punti di vista”: per noi, il mancato raggiungimento di una mmolr stabile significava una non completa risposta alla terapia, che avrebbe potuto portare a una successiva perdita della ccyr; per il paziente, invece, significava un ottimo stato fisico e mentale, di cui ci era grato, ma a cui non voleva rinunciare. questo caso ha posto ancora una volta alla nostra attenzione l ’importanza di una corretta comunicazione tra medico e paziente, necessaria per instaurare una positiva “alleanza terapeutica”: non sempre infatti dare una informazione significa comunicare veramente e risulta pertanto fondamentale “dedicare tempo” a ogni singolo paziente perché riesca davvero a capire il perché delle nostre scelte e a partecipare attivamente al processo decisionale. bibliografia 1. baccarani m, saglio g, goldman j, hochhaus a, simonsson b, appelbaum f, et al. european leukemianet. evolving concepts in the management of chronic myeloid leukemia; recommendations from an expert panel on behalf of the european leukemianet. blood 2006; 108: 1809-20 2. baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, saglio g, hochhaus a, et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-5 3. apperley j. cml in pregnancy and childhood. best pract res clin haematol 2009; 22: 455-74 19 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) f. sassolini 4. hochhaus a, o’brien sg, guilhot f, druker bj, branford s, foroni l, et al. six-year follow-up of patients receiving imatinib for the first-line treatment of chronic myeloid leukemia. leukemia 2009; 23: 1054-61 5. kantarjian hm, giles fj, bhalla kn, pinilla-ibarz j, larson ra, gattermann n, et al. nilotinib is effective in patients with chronic myeloid leukemia in chronic phase after imatinib resistance or intolerance: 24-month follow-up results. blood 2011; 117: 1141-5 6. brandford s, seymour jf, grigg a, arthur c, rudzki z, lynch k, et al. bcr-abl messenger rna levels continue to decline in patients with chronic phase chronic myeloid leukemia treated with imatinib for more than 5 years and approximately half of all first-line treated patients have stable undetectable bcr-abl using strict sensitivity criteria. clin cancer res 2007; 13: 7080-5 7. saglio g, ulisciani s, bosa m, cilloni d, rege-cambrin g. new therapeutic approaches and prognostic factors in chronic myeloid leukemia. leuk lymphoma 2008; 49: 625-8 8. conchon m, sanabani ss, bendit i, santos fm, serpa m, dorliac-llacer pe. two successful pregnancies in a woman with chronic myeloid leukemia exposed to nilotinib during the first trimester of her second pregnancy: case study. j hematol oncol 2009; 2: 42 resistenza e/o intolleranza: ancora una chance! luigia luciano 1 efficacia di nilotinib in un giovane paziente affetto da lmc ad alto rischio sokal in fallimento terapeutico dopo imatinib ad alte dosi sabina russo 1, giuseppa penna 1, arianna d’angelo 1, alessandro allegra 1, andrea alonci 1, caterina musolino 1 caso clinico efficacia di nilotinib in un paziente in risposta non ottimale dopo terapia con imatinib a fronte di una ridotta compliance al nuovo farmaco francesca sassolini 1 caso clinico risposta molecolare completa indotta da nilotinib come terza linea di terapia in paziente affetta da leucemia mieloide cronica con mutazione f317l del dominio chinasico di bcr/abl maria iovine 1, mario troiano 1, giuseppe monaco 1, antonio abbadessa 1 caso clinico efficacia di nilotinib nel trattamento della lmc in fase cronica tardiva intollerante a imatinib e resistente a dasatinib emilio usala 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) clinical management issues 47 il paziente era immediatamente trattato con o2 terapia (maschera di venturi; fio2 = 50%) con miglioramento della saturazione (so2 = 92%). l’ecg dimostrava la presenza di ritmo sinusale, s1q3t3, inversione dell’onda t in sede anteriore. all’emogasanalisi emergeva insufficienza respiratoria tipo i (ph = 7,46; pco2 = 29,7; po2 = 46,8; hco3 = 22,3; so2 = 79%). gli esami ematochimici eseguiti in urgenza dimostravano insufficienza renale (creatinina = 1,8 mg/dl) e lieve anemia normocitica (emoglobina = 10,9 g/dl). nel sospetto di embolia polmonare (tep) veniva eseguito lo score di probabilità clinica (revised geneva score, tabella i) che ha ottenuto un punteggio di 7, identificando una probabilità intermedia di embolia polmonare. sulla base di questa probabilità pre-test è stato eseguito il dosaggio del d-dimero (figura 1) che è risultato nettamente increfulvio pomero 1, chiara brignone 2, giovanni gollè 1, alberto silvestri 1, elena migliore 2, christian bracco 2, cristina serraino 2, elisabetta castagna 2, sara severini 2, luigi m. fenoglio 1 caso clinico un uomo di 59 anni si presentò in ospedale lamentando dispnea ingravescente associata a dolore localizzato all’emitorace destro esacerbato dagli atti del respiro. due settimane prima il paziente era stato sottoposto a intervento di asportazione di meningioma localizzato in sede frontale. all’anamnesi patologica remota emergeva una pielonefrite in giovane età con residua lieve insufficienza renale cronica e ipertensione arteriosa essenziale. a domicilio il paziente assumeva aceinibitori con buon controllo dei valori pressori; inoltre, nei dieci giorni dopo l’intervento neurochirurgico, aveva assunto eparine a basso peso molecolare (lmwh) a dosaggio profilattico. i parametri all’ingresso in ospedale erano i seguenti: pressione arteriosa = 110/70 mmhg; frequenza cardiaca 120 bpm, ritmica; so2 = 79% in aa. un caso complicato di embolia polmonare in paziente con insufficienza renale abstract we describe a case of pulmonary embolism with instable hemodynamics in a patient with renal failure; the case is complicated by heparin-induced thrombocytopenia (hit). renal failure has a high prevalence in hospitalized patients and is a restriction on administration of low molecular weight heparins (lmwh) and fondaparinux. hit is a potentially life-threatening complication, therefore a precocious diagnosis is essential. therapy consists in the immediate stop of heparin’s administration and in the administration of non-heparin antithrombotic drugs. keywords: pulmonary embolism, renal failure, heparin-induced thrombocytopenia, fibrinolysis, caval filter a complicated case of pulmonary embolism in a patient with renal failure cmi 2010; 4(suppl. 3): 47-54 1 dipartimento medicina interna. ospedale s. croce e carle, cuneo 2 i scuola di specializzazione in medicina interna, università degli studi di torino corresponding author dott. fulvio pomero dipartimento di medicina interna ospedale s. croce e carle via coppino 14, cuneo tel. 0171.641302 fax 0171.641614 fulviopomero@yahoo.it caso clinico ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)48 un caso complicato di embolia polmonare in paziente con insufficienza renale mentato (30,6 µg/ml; vn < 0,5 µg/ml); pertanto è stata eseguita tc torace con mezzo di contrasto che evidenziava la presenza di grossolani difetti di riempimento a carico dell’arteria polmonare pressoché occludenti il ramo destro e parzialmente il sinistro. il calcolo del filtrato glomerulare con la formula di cockroft-gault (creatinina = 1,8 mg/dl; peso = 70 kg; 59 anni; sesso maschile) dimostrava un’insufficienza renale di iii grado (clearance creatinina = 43,75 ml/ min), per cui si è preferito utilizzare eparina sodica ev piuttosto che eparina a basso peso molecolare sc. dopo circa due ore il paziente si presentava nuovamente sofferente con dispnea peggiorata (so2 = 88% con fio2 = 50%). veniva rilevata ipotensione severa (80/60 mmhg), tachicardia sinusale (125 bpm) e shock index = 1,56. l’esecuzione di un ecocardiogramma al letto del paziente dimostrava la presenza di un’importante dilatazione delle cavità destre con dissinergia del setto interventricolare e ampia ipocinesia del ventricolo destro con dilatazione delle vene sovraepatiche e della vena cava inferiore per cui il paziente veniva candidato a una metodica riperfusiva. il recente intervento neurochirurgico controindicava in modo assoluto l’esecuzione di trombolisi sistemica (tabella ii) per cui si decideva di procedere alla frammentazione meccanica transcatetere del trombo con trombolisi locoregionale in radiologia interventistica (figura 2). al termine della procedura si assisteva a buona perfusione polmonare con maggiore compromissione del lobo medio di destra e lo shock index risultava nettamente ridotto (0,9). il paziente ritornava in reparto in condizioni cliniche migliorate e ci veniva comunicato dai tabella i probabilità clinica di embolia polmonare (pe): revised geneva score sospetta tep (senza ipotensione o shock) valutazione della probabilità clinica bassa/intermedia probabilità alta probabilità d-dimero positivo tc negativo no trattamento tep trattamento no tep no trattamento tc tep trattamento no tep no trattamento o ulteriori indagini figura 1 proposta di un algoritmo diagnostico per pazienti con sospetto di embolia polmonare (tep), senza shock o ipotensione arteriosa variabile punteggio fattori predisponenti età > 65 anni +1 precedente tev +3 chirurgia o frattura nel mese precedente +2 neoplasia attiva +2 sintomi dolore unilaterale all’arto inferiore +3 emottisi +2 segni clinici frequenza cardiaca 75-94 bpm y ≥ 65 bpm y +3 +5 dolore alla palpazione venosa degli arti inferiori o edema unilaterale +4 risultati 0-3: bassa probabilità di pe (8%) y 4-10: media probabilità di pe (28%) y ≥ 11: alta probabilità di pe (74%) y ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 49 f. pomero, c. brignone, g. gollè, a. silvestri, e. migliore, c. bracco, c. serraino, e. castagna, s. severini, l. m. fenoglio medici della radiologia il posizionamento di filtro cavale durante la seduta operativa. nei giorni seguenti la conta piastrinica si riduceva rapidamente e in settima giornata dall’inizio della terapia le piastrine erano 35 x 103/µl. nel sospetto di trombocitopenia da eparina veniva effettuato lo score clinico di probabilità che identificava una probabilità elevata (score = 7). dopo aver interrotto la terapia eparinica veniva iniziata terapia con lepirudina a dosi adeguate per la ridotta funzionalità renale del paziente, eseguendo un’infusione di 0,01 mg/kg/h senza bolo iniziale con controlli della coagulazione ogni 4 ore, finalizzati a mantenere un tempo di protrombina attivata (aptt) tra 1,5 e 2. si effettuava inoltre la ricerca degli anticorpi anti-pf4 che risultavano positivi. con questa terapia la conta piastrinica migliorava progressivamente, portando in dodicesima giornata le piastrine a essere 220 x 103/ml. si avviava quindi la terapia con warfarin (5 mg/die) fino al raggiungimento dell’inr (international normalized ratio) terapeutico e il paziente veniva dimesso in buone condizioni generali in diciottesima giornata con un inr di 2,65. dopo 12 mesi di follow-up il paziente eseguiva un ecocardiogramma transtoracico che escludeva la presenza di ipertensione polmonare (paps = 20 mmhg) e, dopo aver sospeso la terapia anticoagulante orale (tao), veniva sottoposto a screening trombofilico che risultava negativo: non veniva pertanto ripresa la terapia con warfarin. due mesi più tardi, in seguito all’insorgenza di edema a carico degli arti inferiori (sinistra>destra), il paziente si recava in pronto soccorso dove un ecocolordoppler dimostrava una trombosi venosa profonda (tvp) iliaco-femorale sinistra e la tc addome poneva in evidenza la trombosi del filtro cavale. in considerazione della precedente hit (trombocitopenia indotta da eparina), nonostante la negatività degli anticorpi anti-pf4 il paziente è stato avviato a terapia con fondaparinux 7,5 mg/die seguito da warfarin. a distanza di due anni dall’episodio iniziale il paziente è in tao con buon controllo dell’inr e si presenta in buone condizioni generali. discussione quale terapia per il paziente con tev e insufficienza renale ? l’insufficienza renale costituisce una importante limitazione nell’utilizzo di alcuni farmaci, come le eparine a basso peso molecolare (lmwh) e fondaparinux, e rappresenta una condizione piuttosto frequente nei reparti di medicina interna. lo studio gemini ha dimostrato che il 15% dei pazienti internistici possiede una clearance della creatinina inferiore a 30 ml/min [1]. sebbene i trial randomizzati escludano regolarmente i pazienti con insufficienza renale, esistono tuttavia studi di farmacocinetica che confermano una stretta associazione tra la clearance della creatinina e i livelli di attività anti-xa. è stato inoltre dimostrato un eccesso di sanguinamenti in pazienti con insufficienza renale trattati con lmwh. la meta-analisi di lim e colleghi [2] conclude che pazienti non dializzati con clearance della creatinina < 30 ml/min che vengono trattati con enoxaparina a dosaggio terapeutico hanno un livello elevato di attività anti-xa e un rischio di sanguinamento maggiore rispetto a pazienti con funzionalità renale normale (5% vs 2,4%; odds ratio = 2,25; p = 0,013). l’aggiustamento empirico del dosaggio potrebbe ridurre il rischio di sanguinamento, ma merita ulteriori valutazioni. gli autori specificano che i dati relativi alle altre lmwh sono troppo scarsi per figura 2 riperfusione polmonare mediante tecnica transcatetere a. angiografia basale b. frammentazione meccanica c. fibrinolisi locoregionale a b c ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)50 un caso complicato di embolia polmonare in paziente con insufficienza renale giungere ad alcuna conclusione. la food and drug administration americana ha indicato per enoxaparina un dosaggio dimezzato (1 mg/die) per i pazienti con tev e clearance della creatinina < 30 ml/min mentre non si esprime sulle altre lmwh [3]. le correnti linee guida accp (american college of chest physicians) suggeriscono l’utilizzo dell’eparina non frazionata rispetto all’eparina a basso peso molecolare nei pazienti con severa insufficienza renale (grado 2c) [4]. quale trattamento per il paziente con tep a emodinamica compromessa e controindicazioni alla trombolisi? i pazienti con embolia polmonare a emodinamica compromessa (ipotensione arteriosa o shock) necessitano di una pronta riduzione delle resistenze polmonari al fine di migliorare rapidamente il post-carico del ventricolo destro. la metodica di prima scelta è rappresentata dalla trombolisi sistemica con farmaci approvati dalla food and drug administration (tabella iii). le linee guida accp indicano come preferita la trombolisi con rapido protocollo infusivo (2 h) rispetto a protocolli a lunga durata (24 h). esistono pochi dati sul trattamento da riservare a pazienti con emodinamica compromessa e controindicazione assoluta alla trombolisi (tabella ii). l’embolectomia chirurgica d’emergenza costituisce una soluzione terapeutica valida in questa sfortunata situazione o nel caso di insuccesso della fibrinolisi sistemica. uno studio ha valutato 47 pazienti in un periodo di 4 anni con una sopravvivenza post-intervento del 96%. in questo studio la procedura era effettuata senza ipotermia, a cuore battente, senza clampaggio aortico o cardioplegia [5]. uno studio francese che ha studiato pazienti non responder alla fibrinolisi sistemica, l’embolectomia d’emergenza confrontata con la trombolisi secondaria ha dato il medesimo risultato in termini di mortalità totale mentre è risultata superiore per quel che riguarda la recidiva di embolia polmonare e l’evoluzione libera da eventi [6]. accanto alla tecnica chirurgica esiste la tecnica della frammentazione meccanica transcatetere in pazienti in cui è controindicata la trombolisi sistemica. anche con questa tecnica lo scopo è quello di ridurre il post-carico del ventricolo destro e può essere associata anche la trombolisi locoregionale nei pazienti in cui il rischio di sanguinamento non risulta elevatissimo. in uno studio retrospettivo su 12 pazienti sottoposti a frammentazione transcatetere con o senza fibrinolisi locoregionale, 10 sono sopravvissuti mentre due sono deceduti [7]. nei due pazienti morti non era stato ridotto lo shock index (frequenza cardiaca/pressione sistolica) al di sotto di 0,9 al termine della procedura. gli autori concludono che in presenza di shock emodinamico da embolia polmonare, la frammentazione transcatetere può rappresentare una procedura salva-vita farmaco dosaggio anno di approvazione streptochinasi 250.000 u in 30 min poi 100.000 u/h per 24 h 1977 urochinasi 4.400 u/kg in 10 min poi 4.400 u/kg/h per 12-24 h 1978 rtpa 100 mg in 2 h 1990 tabella iii regimi trombolitici approvati per il trattamento dell ’embolia polmonare rtpa = recombinant tissue plasminogen activator assolute storia di stroke emorragico o stroke di origine sconosciuta y stroke ischemico nei 6 mesi precedenti y neoplasie cerebrali o danno al sistema nervoso centrale y recente trauma maggiore/chirurgia/trauma alla testa (nelle tre settimane precedenti) y sanguinamento gastrointestinale nel mese precedente y sanguinamento in atto y relative tia nei 6 mesi precedenti y terapia anticoagulante orale y gravidanza o periodo post-partum (1 mese) y puntura in regioni non comprimibili y rianimazione cardiopolmonare traumatica y ipertensione refrattaria (pressione sistolica > 180 mmhg) y patologia epatica avanzata y endocardite infettiva y ulcera peptica in fase attiva y tabella ii controindicazioni alla terapia fibrinolitica ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 51 f. pomero, c. brignone, g. gollè, a. silvestri, e. migliore, c. bracco, c. serraino, e. castagna, s. severini, l. m. fenoglio in pazienti che non rispondono o non tollerano la trombolisi sistemica. approccio alla trombocitopenia indotta da eparina (hit) la hit rappresenta un disordine protrombotico che inizia con la somministrazione di eparina e prosegue con la formazione di anticorpi che determinano l’attivazione piastrinica e la successiva generazione di trombina. tipicamente la conta piastrinica scende tra 5 e 10 giorni dopo l’inizio della terapia eparinica sebbene possa scendere più rapidamente dopo una recente esposizione all’eparina. la hit può essere una complicanza pericolosa per la vita o per l’integrità dell’arto in relazione alla risposta trombotica (venosa o arteriosa) piuttosto che emorragica. mentre la hit immunomediata (hit ii) rappresenta una condizione estremamente grave sebbene non frequente (1-3% dei pazienti trattati con eparina non frazionata; 0,8% dei pazienti esposti a eparina a basso peso molecolare), la trombocitopenia da eparina su base non immunologica rappresenta una situazione più frequente (10-30%) ma priva di significato trombotico o emorragico [8]. più della metà dei pazienti che sviluppano una hit va incontro a una complicanza trombotica. il tromboembolismo venoso è 4 volte più frequente rispetto agli episodi trombotici arteriosi. il distretto venoso degli arti inferiori è la sede più frequente per la trombosi venosa ed è spesso colpito bilateralmente. l’embolia polmonare si registra in circa il 25% dei casi. una situazione meno frequente ma estremamente grave è rappresentata dalla trombosi dei seni venosi cerebrali e dalla trombosi delle vene surrenaliche. quest’ultima evenienza determina la necrosi emorragica delle ghiandole surrenaliche con conseguente ipocorticosurrenalismo acuto. la localizzazione trombotica arteriosa più frequente è a carico degli arti inferiori ma la hit può presentarsi con ictus ischemico, infarto miocardico acuto, trombosi intracardiaca, trombosi di by-pass e potenzialmente di ogni vaso arterioso. anche la coagulazione intravascolare disseminata si può associare alla hit e si caratterizza per la presenza di ipofibrinogenemia e di un allungamento dell’inr e dell’aptt per un deficit di atiii e di proteina c coagulativa. quando la hit è sospettata clinicamente, l’eparina deve essere sospesa immediatamente e deve essere introdotto in terapia un farmaco antitrombotico alternativo perché l’attesa dei test di laboratorio di conferma può essere catastrofica. a tale scopo è stato studiato uno score clinico pre-test che prende in considerazione l’entità del calo della conta piastrinica, il tempo, la presenza di nuove trombosi e la possibilità di diagnosi alternative per la piastrinopenia (tabella iv ). uno score inferiore a 3 indica una bassa probabilità di hit mentre se lo score è maggiore di 6 la probabilità risulta elevata [9]. nel sospetto di hit è necessaria la ricerca degli anticorpi anti-pf4, la cui presenza non è sufficiente per la diagnosi. in effetti gli anticorpi diretti contro il complesso pistrinico pf4 sono presenti nel 20% dei pazienti trattati con eparina non frazionata e approssimativamente nell’8% di quelli trattati con lmwh [10]. nel caso di hit fortemente sospetta o confermata occorre sospendere immediatamente la somministrazione di eparina (anche l’eparinizzazione dei cateteri venosi centrali), somministrare un anticoagulante non eparinico, evitare l’utilizzo di warfarin fino a quando la conta piastrinica torna a essere maggiore di 150 x 103/mm3, eseguire la ricerca per gli anticorpi anti-pf4, ricercare eventabella iv il 4ts assessment point system per pazienti con sospetta trombocitopenia indotta da eparina (hit). probabilità pretest: 6-8 elevata; 4-5 intermedia; 0-3 bassa enf = eparina non frazionata categoria punteggio (0, 1, 2 per ogni categoria; score massimo = 8) 2 1 0 trombocitopenia caduta piastrinica > 50% o nadir 20-100 x 109/l caduta piastrinica 30-50% o nadir 10-19 x 109/l caduta piastrinica > 30% o nadir < 10 x 109/l tempo di inizio giorno 5-10 o ≤ 1 giorno se eparina nei 30 giorni precedenti giorno > 10, tempo indeterminato; o > 1 gg se eparina nei 31-100 giorni precedenti < 4 giorni (no recente terapia eparinica) trombosi o altre sequele nuova provata trombosi; necrosi cutanea; reazione sistemica acuta dopo bolo enf ev trombosi progressiva o ricorrente, lesioni cutanee eritematose, sospetta trombosi (non provata) nessuna altre cause di trombocitopenia non evidenti possibili definite ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)52 un caso complicato di embolia polmonare in paziente con insufficienza renale tuali trombosi venose o arteriose ed evitare la trasfusione profilattica di piastrine. i farmaci anticoagulanti non eparinici indicati dalle linee guida accp 2008 sono danaparoid (grado 1b), lepirudina (grado 1c), argatroban (grado 1c), fondaparinux (grado 2c) e bivalirudina (grado 2c) [11]. dopo l’interruzione dell’eparina gli anticorpi anti-pf4 usualmente scompaiono entro 100 giorni. quando questi pazienti vengono nuovamente esposti a eparina dopo la scomparsa degli anticorpi anti-pf4 la hit si sviluppa molto raramente. la ricomparsa di hit è vincolata infatti alla formazione di nuovi anticorpi, la quale richiede normalmente almeno 5 giorni. nonostante tutto la somministrazione di eparina è preferibilmente da evitare in pazienti con anamnesi positiva per hit e se risulta indicata (cardiochirurgia o chirurgia vascolare) deve essere documentata l’assenza di anticorpi anti-pf4 e la terapia effettuata per breve periodo. fondaparinux, pentasaccaride di sintesi, non lega il fattore piastrinico 4 e non è in grado di reagire con gli anticorpi indotti dall’eparina in presenza di pf4 e piastrine [12]. attualmente esistono limitati dati sull’utilizzo del fondaparinux nel trattamento o nella profilassi dei pazienti con hit confermata. in letteratura sono riportati tre casi di pazienti trattati con successo con fondaparinux per eventi tromboembolici conseguenti all’insorgenza di hit causata da eparina non frazionata (ufh) o lmwh. in due case series, una che valutava l’utilizzo di fondaparinux a dosaggio profilattico in pazienti con anamnesi di hit confermata e l’altra il dosaggio terapeutico in pazienti con trombosi in corso di piastrinopenia da eparina (ufh, lmwh), la conta piastrinica rimaneva nel range di normalità durante tutto il trattamento [13]. attualmente non esistono trial randomizzati e controllati che abbiano valutato fondaparinux in pazienti con hit o anamnesi di hit per cui persistono interrogativi riguardo l’efficacia, la sicurezza, la durata del trattamento e le dosi ottimali del pentasaccaride in questo contesto clinico. dubbi ed evidenze sui filtri cavali i filtri cavali sono stati impiantati per più di 40 anni e il loro utilizzo è stato incrementato dallo sviluppo dei filtri rimuovibili. questi ultimi sono utilizzati per ridurre le complicanze associate alla permanenza del filtro in sede per molto tempo, di cui la maggiore è rappresentata dalla trombosi. da alcuni studi emerge però che fino al 70% di questi filtri non viene rimosso [14]. la rimozione in effetti richiede una seconda procedura che è associata a costi, esposizione radiologica e rischi periprocedurali. inoltre in alcuni casi la rimozione non risulta eseguibile per motivi tecnici come l’angolazione del filtro, l’intrappolamento di materiale trombotico o la penetrazione della struttura del filtro nei piani profondi della parete cavale [15]. l’unico studio randomizzato che ha valutato l’efficacia e la sicurezza del posizionamento del filtro cavale è il prepic, che ha arruolato 400 pazienti con trombosi venosa prossimale i quali venivano randomizzati a ricevere la sola terapia anticoagulante o quest’ultima associata al posizionamento di un filtro cavale [16]. al dodicesimo giorno di follow-up si assisteva a una significativa riduzione di embolia polmonare nel gruppo portatore di filtro cavale (1,1 vs 4,8%; p = 0,03) ma a distanza di 2 anni dal posizionamento non si vedevano significative differenze in termini di embolia polmonare sintomatica e il gruppo con il filtro aveva una significativa maggior incidenza di episodi trombotici (20,8 vs 11,6%,; p = 0,02). la rivalutazione dei risultati a distanza di 8 anni dalla randomizzazione ha dimostrato che l’incidenza di embolia polmonare è effettivamente ridotta in modo significativo nei portatori del filtro (6,2 vs 15,1%; p = 0,008) ma questi ultimi hanno più probabilità di andare incontro a trombosi venosa profonda (35,7 vs 27,5%; p = 0,042) [17]. le raccomandazioni delle recenti linee guida accp [4] sul posizionamento dei filtri cavali sono le seguenti: si raccomanda contro il posizionamento di y filtri cavali oltre alla terapia anticoagulante in caso di trombosi venosa profonda o embolia polmonare (grado 1a); in pazienti con trombosi venosa profony da nei quali non è possibile effettuare la terapia anticoagulante è raccomandato il posizionamento di un filtro cavale (grado 1c); quando è stato posizionato un filtro cavale y come alternativa alla terapia anticoagulante e il rischio di sanguinamento si riduce, viene raccomandata l’anticoagulazione standard (grado 1c); si raccomanda contro il posizionamento y di filtro cavale come tromboprofilassi in ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 53 f. pomero, c. brignone, g. gollè, a. silvestri, e. migliore, c. bracco, c. serraino, e. castagna, s. severini, l. m. fenoglio pazienti con trauma maggiore o trauma spinale (grado 1c). tra le controindicazioni all’utilizzo del filtro cavale si registra la trombosi estesa all’intera vena cava inferiore che non permette il posizionamento o la presenza di una severa coagulopatia che determina un inaccettabile rischio di emorragia a livello del sito di inserzione. l’utilizzo di un filtro cavale non modifica la necessità di anticoagulazione. nella pratica clinica si esegue solitamente la terapia anticoagulante a tempo indeterminato nei portatori di filtro permanente anche se non esistono studi dedicati in letteratura. alcuni autori concludono che non è indicata la terapia anticoagulante per la protezione del filtro poiché l’incidenza di trombosi indotta dal filtro è elevata solo nei primi mesi dal posizionamento per ridursi in modo significativo nei mesi successivi [18]. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. punti chiave e raccomandazioni l’insufficienza renale costituisce un’importante limitazione nell ’utilizzo delle eparine a y basso peso molecolare (lmwh) e di fondaparinux. le linee guida accp suggeriscono l ’utilizzo dell ’eparina non frazionata rispetto all ’eparina a basso peso molecolare nei pazienti con severa insufficienza renale (grado 2c) in caso di embolia polmonare a emodinamica compromessa è necessaria una pronta riduy zione delle resistenze polmonari al fine di migliorare rapidamente il post-carico del ventricolo destro. nei pazienti con emodinamica instabile e controindicazione assoluta alla trombolisi sia l ’embolectomia chirurgica sia la frammentazione meccanica transcatetere sono procedure salva-vita più della metà dei pazienti che sviluppano una hit va incontro a una complicazione y trombotica. quando la hit è sospettata clinicamente (4ts assessment point system) l ’eparina deve essere sospesa immediatamente e deve essere introdotto in terapia un farmaco antitrombotico non eparinico. i farmaci anticoagulanti non eparinici indicati dalle linee guida accp sono danaparoid (grado 1b), lepirudina (grado 1c), argatroban (grado 1c), fondaparinux (grado 2c) e bivalirudina (grado 2c) [11] le raccomandazioni delle linee guida accp sul posizionamento dei filtri cavali sono: y si raccomanda contro il posizionamento di filtri cavali oltre alla terapia anticoagulante y in caso di trombosi venosa profonda o embolia polmonare (grado 1a) in pazienti con trombosi venosa profonda nei quali non è possibile effettuare la terapia y anticoagulante è raccomandato il posizionamento di un filtro cavale (grado 1c) quando è stato posizionato un filtro cavale come alternativa alla terapia anticoaguy lante e il rischio di sanguinamento si riduce, viene raccomandata l ’anticoagulazione standard (grado 1c) si raccomanda contro il posizionamento di filtro cavale come tromboprofilassi in pay zienti con trauma maggiore o trauma spinale (grado 1c) non è tuttora chiaro se sia necessaria la terapia anticoagulante a tempo indeterminato nei y portatori di filtro cavale permanente bibliografia gussoni g, campanini m, silingardi m, scannapieco g, mazzone a, magni g et al. in-hospital 1. symptomatic venous thromboembolism and antithrombotic prophylaxis in internal medicine. findings from a multicenter, prospective study. thromb haemost 2009; 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(8th edition) of chest physicians evidence-based clinical thromboembolic disease: american college antithrombotic. chest 2008; 133: 454-545 leacche m, unic d, goldhaber sz, rawn jd, aranki sf, couper gs et al. modern surgical 5. treatment of massive pulmonary embolism: results in 47 consecutive patients after rapid diagnosis and aggressive surgical approach. j thorac cardiovasc surg 2005; 129: 1018-23 meneveau n, séronde mf, blonde mc, legalery p, didier-petit k, briand f et al. management 6. of unsuccessful thrombolysis in acute massive pulmonary embolism. chest 2006; 129: 104350 kuo wt, van den bosch maaj, hofmann lv, louie jd, kothary n, sze dy. catheter-7. directed embolectomy, fragmentation, and thrombolysis for the treatment of massive pulmonary embolism after failure of systemic thrombolysis. chest 2008; 134: 250-4 shantsila e, lip gyh, chong bh. heparin-induced thrombocytopenia. 8. chest 2009; 135: 1651-64 warkentin te. heparin-induced thrombocytopenia: diagnosis and management. 9. circulation 2004; 110: e454-e458 amiral j, peynaud-debayle e, wolf m, bridey f, vissac am, meyer d. generation of antibodies 10. to heparin-pf4 complexes without thrombocytopenia in patients treated with unfractionated or low-molecular-weight heparin. am j hematol 1996; 52: 90-5 warkentin te, greinacher a, koster a , lincoff am. treatment and prevention of heparin-11. induced thrombocytopenia. chest 2008; 133: 340s-380s harenberg j, jörg i, fenyvesi t. treatment of heparin-induced thrombocytopenia with 12. fondaparinux. haematologica 2004; 89: 1017-8 efird l13. e, kockler dr. fondaparinux for thromboembolic treatment and prophylaxis of heparininduced thrombocytopenia. ann pharmacother 2006; 40: 1383-7 grande wj, trerotola so, reilly pm, clark tw, soulen mc, patel a et al. experience with the 14. recovery filter as a retrievable inferior vena cava filter. j vasc interv radiol 2005; 16: 1189-93 berczi v, bottomley jr, thomas sm, taneja s, gaines pa, cleveland tj. long-term 15. retrieveability of ivc filters: should we abandon permanent devices? cardiovasc intervent radiol 2007; 30: 820-7 decousus h, leizorovicz a, parent f, page y, tardy b, girard p et al. a clinical trial of vena 16. caval filters in the prevention of pulmonary embolism in patients with proximal deep-vein thrombosis. prévention du risque d’embolie pulmonaire par interruption cave study group. n engl j med 1998; 338: 409-15 prepic study group. eight year follow up of patients with permanent vena cava filters in the 17. prevention of pulmonary embolism. circulation 2005; 112: 416-22 kaufman ja, kinney tb, streiff mb, sing rf, proctor mc, becker d et al. guidelines for the 18. use of retrievable and convertible vena cava filters: report from the society of interventional radiology multidisciplinary consensus conference. j vasc interv radiol 2006; 17: 449-59 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5) clinical management issues 3 antonella gozzini 1 uno sguardo al paziente sub-ottimale nell’era dei tki nel mondo della leucemia mieloide cronica (lmc) imatinib continua pienamente a rinnovare l’entusiasmo di 10 anni fa: infatti, i risultati dello studio iris aggiornati ad 8 anni [1] riportano una sopravvivenza globale (os) dell’85% e una sopravvivenza libera da progressione (pfs) del 92%, confermando anche per l’ottavo anno di osservazione una percentuale di evoluzione in fa/cb estremamente bassa (0,4%). dopo l’iniziale stupore dei dati di efficacia di imatinib gli sforzi si sono concentrati per individuare i pazienti resistenti e per ottimizzare le strategie terapeutiche. sappiamo dallo studio iris che una percentuale dal 15 al 25% dei casi mostrava una resistenza citogenetica primaria a 18 mesi di terapia, con una percentuale di resistenza secondaria dal 7 al 15%. una recente analisi pubblicata da lavallade e coll. [2] stima che la possibilità di un individuo in trattamento con imatinib da 5 anni dalla diagnosi di mantenere la risposta citogenetica completa sia del 63%, anche se tale valore può essere sottostimato da un certo numero di pazienti che hanno interrotto la terapia nonostante avessero ottenuto una risposta. sappiamo bene che la ragione del successo terapeutico nella lmc risiede nel “target molecolare” e nella possibilità di utilizzare terapie “selettive”. la disponibilità di nuove molecole che riescano a bersagliare anche i meccanismi di resistenza sono in continua espansione. si conoscono dei meccanismi di resistenza che sono dipendenti da bcr-abl stesso come l’amplificazione oncogenica delle proteine e l’insorgenza di mutazioni del sito di legame con imatinib. nonostante il numero di mutazioni puntiformi individuate continui a crescere, il loro impatto clinico è estremamente variabile tra i singoli pazienti e raramente vi è una correlazione con la sopravvivenza.  nicolini [3] ha dimostrato una diminuzione della pfs e os per solo quei pazienti con mutazioni del p-loop e per quelli con alterazioni t315i. chu e coll. [4] hanno invece identificato mutazioni nei progenitori lmc in 7 su 8 pazienti in fase cronica con incremento del trascritto, dimostrando soltanto in 2 pazienti una progressione di malattia confermando che non tutte le mutazioni sono clinicamente significative (dati presentati all’ash 2009, new orleans). tra i meccanismi di resistenza bcrabl indipendenti esistono numerosi studi volti all’analisi dei fenomeni che regolano l’efflusso di farmaco, l’uptake intracellulare, il legame e la concentrazione plasmatica del farmaco. mahon e coll. [5] hanno dimostrato un incremento nell’espressione delle p-glicoproteine (pgp) della pompa di efflusso in cellule di pazienti in crisi blastica che avevano incrementato il dosaggio di imatinib. questi fenomeni sono ancora oggetto di studio e ci sono pareri discordanti sull’attribuire loro una rilevanza clinica. anche studi sul polimorfismo multi-drug resistance sono molto attivi per individuare caratteristiche biologiche che possano individuare i pazienti rispondenti da quelli non rispondenti a imatinib. per capire invece se la concentrazione plasmatica di imatinib correli con la risposta sono necessarie ancora validazioni; al momento non esistono dati prospettici suleditoriale 1 divisione di ematologia, auo careggi, firenze corresponding author dott.ssa antonella gozzini antonella.gozzini@unifi.it disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5)4 editoriale la intensificazione di dose di imatinib per i pazienti con livello sub-ottimale plasmatico di farmaco. i pazienti che falliscono imatinib dovrebbero essere analizzati sia per la compliance sia per l’eventuale presenza di mutazioni puntiformi ed essere considerati per un cambio di atteggiamento terapeutico. le opzioni a nostra disposizione sono l’incremento di dose, il cambio di inibitore o un trapianto allogenico. se siamo di f ronte ad una resistenza, magari dovuta ad una esposizione sub terapeutica di imatinib, potremmo tentare di “bypassare” la resistenza con un incremento del dosaggio di farmaco. ci sono almeno 4 studi clinici [6-9] che valutano l’efficacia di alte dosi di imatinib (600-800 mg/die) in pazienti non trattati in fase cronica, ma soltanto uno [7] ha dimostrato un miglioramento sulla sopravvivenza libera da trasformazione rispetto ad un gruppo di controllo. jabbour [10] riporta a 3 anni una event free survival (efs) del 47% e una os del 76% in 84 pazienti resistenti a imatinib trattati con dosi elevate di imatinib con un 40% di ccyr e un 30% di pazienti che manteneva una ccyr a 5 anni di follow-up. a oggi, avendo a disposizione tki di seconda generazione che mostrano dati più che incoraggianti, la strada della dose escalation è da ritenersi destinata per specifici setting di pazienti, ricordando che la decisione terapeutica ottimale deve basarsi su un accurato studio del fenomeno di resistenza. in particolare nilotinib appare colpire selettivamente la conformazione inattiva di abl e con un’attività più alta. l’aggiornamento dei dati a 24 mesi di trattamento con nilotinib in pazienti resistenti a imatinib su 226 pazienti presentato all’ash 2009 da kantarjan [11] dell’md anderson cancer center di houston riporta un 41% di risposte citogenetiche complete. questo dato sale al 58% se vengono considerati i pazienti che avevano già una risposta ematologica completa prima di cominciare il trattamento con nilotinib in seconda linea. un ulteriore dato è il raggiungimento della risposta molecolare maggiore nel 58% dei pazienti che avevano una risposta citogenetica completa e una ematologica. l’os a 24 mesi è del 87%. risultati simili sono stati presentati anche sulla vasta popolazione dello studio enact [12], 1.793 pazienti resistenti (tutte le fasi) e intolleranti trattati con nilotinib in ii linea. interessanti sono stati i dati presentati sugli anziani > 65 anni, che non mostrano alcuna differenza per quanto riguarda l’outcome o la safety rispetto alla popolazione giovane in corso di trattamento con nilotinib. nel nostro supplemento troviamo la descrizione di quattro casi clinici di pazienti affetti da lmc che abbiano poi sviluppato resistenza a imatinib. la dottoressa luciano, dell’ematologia dell’università federico ii di napoli, riporta un caso di un giovane paziente affetto da lmc in early chronic phase con basso rischio sokal trattato con imatinib dose standard, in risposta sub-ottimale a 18 mesi per non raggiungimento della major molecular response (mmolr) secondo le linee guida eln 2006, pur essendo in risposta citogenetica completa (ccyr) dal sesto mese di terapia. dopo un’analisi mutazionale che rivela la presenza della mutazione l248v, il paziente inizia il trattamento con nilotinib 400 mg/ bid ottenendo a 3 mesi di terapia una risposta molecolare maggiore (ratio 0,1%). anche il caso descritto dal dottor breccia del policlinico umberto i, università la sapienza di roma, riporta il caso di un giovane paziente affetto da lmc in fase cronica trattato con imatinib a dose standard in risposta sub-ottimale a 6 mesi e diventato successivamente resistente a 12 mesi per non raggiungimento della risposta citogenetica parziale (< pcyr secondo le linee guida eln). due consecutive analisi mutazionali del dominio chinasico di bcr-abl non hanno evidenziato la presenza di mutazioni puntiformi e ripetuti dosaggi plasmatici di imatinib non hanno documentato una “concentrazione inadeguata” di farmaco sebbene non vi sia ad oggi alcuna evidenza clinica che una bassa concentrazione plasmatica di imatinib possa correlare con una inefficacia terapeutica. questi due casi clinici ci introducono nella “zona grigia” dei pazienti sub-ottimali, per i quali la decisione terapeutica non ha specifiche linee guida da seguire. di questi pazienti sappiamo che devono essere strettamente sorvegliati perché il loro destino potrebbe essere quello di essere slow-responders e di diventare ottimali oppure quello di diventare resistenti. dopo 10 anni di imatinib sappiamo che la risposta molecolare ha avuto negli anni momenti molto contraddittori ma che rappresenta comunque un end-point importantissimo nella storia della malattia impattando sull’outcome a lungo termine. è stato ampiamente descritto come il raggiungimento della mmolr si associ ad una efs a 12 mesi del 90% rispetto ad un rate del 60% per ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5) 5 a. gozzini coloro che non la raggiungono. tale dato è confermato a 18 mesi con efs del 95% per i pazienti in risposta ottimale secondo le linee guida eln rispetto al 60% dei pazienti sub-ottimali [13]. sappiamo anche dai dati generati in questi 10 anni come il raggiungimento di una mmolr si associ ad una più lunga durata di una ccyr e a una maggiore pfs [14]. in questi due casi descritti l’applicazione dei criteri eln (european leukemianet) riesce ad evidenziare categorie di pazienti distinte per le quali un cambio della strategia ha prodotto un successo terapeutico. in uno dei due casi descritti l’incremento del dosaggio di imatinib non ha prodotto alcuna modifica della risposta. i dati presenti in letteratura su questo specifico atteggiamento terapeutico sono scarsi e in particolare vi sono segnalazioni su casistiche esigue di nessun vantaggio in termini di raggiungimento della mmolr per pazienti in risposta subottimale molecolare con la dose escalation di imatinib [15-16]. un lavoro pubblicato da quintas-cardama su blood nel 2009 [17], citato nel dettaglio nella discussione del caso clinico del dottor breccia, dimostra come su una casistica di 258 pazienti non in risposta citogenetica la probabilità di raggiungimento della ccyr decresce, mentre aumenta la probabilità di progredire ad ogni singolo time-point di 3, 6 e 12 mesi. è interessante notare come i pazienti che a 12 mesi non hanno raggiunto una ccyr abbiano un alto rischio di progressione e come tali possono essere buoni candidati per uno switch terapeutico pur essendo di fatto considerati sub-ottimali per le linee guida eln. a questo proposito il gruppo del dottor alvarado del mdacc di houston ha recentemente pubblicato (cancer, 2009) come i pazienti in risposta sub-ottimale a 6 mesi abbiano un efs e un tfs (transforming free survival) simili ai failure, mentre a 12 e 18 mesi la tfs dei pazienti sub-ottimali è sovrapponibile a quella degli ottimali [18]. i dati prodotti dal gruppo gimema su una ampia casistica di 423 pazienti individua nei pazienti subottimali una significativa riduzione del rate di efs e ffs (failure free survival) sia a 6 che a 12 mesi rispetto ai pazienti in risposta ottimale [19]. nel caso descritto dalla dottoressa russo rossi di bari viene riportata la storia di una giovane donna di 30 anni affetta da lmccp, trattata con imatinib a dose standard in risposta sub-ottimale a 16 mesi per non raggiungimento di una mmolr e ricorrenza di tossicità ematologica con la comparsa di una anomalia citogenetica aggiuntiva (+8) nel clone phin assenza di mutazioni puntiformi del dominio chinasico bcr-abl. alla paziente viene consigliato lo switch a tki di seconda generazione, precocemente rispetto alle raccomandazioni eln, con ottenimento dopo 3 mesi di terapia con nilotinib 400 mg/bid, della mmolr e della ccyr con scomparsa della trisomia 8 precedentemente riscontrata. è interessante segnalare come il trattamento con nilotinib in questo specifico caso clinico non abbia provocato una tossicità midollare come quella osservata durante il trattamento con imatinib e abbia rapidamente realizzato una clearance delle alterazioni cromosomiche aggiuntive come ad indicare una efficacia profonda a livello della cellula staminale. la relazione della dottoressa tomaselli di palermo ci illustra invece il particolare caso di un giovane paziente diabetico affetto da lmc-cp che, a causa di un raro effetto collaterale (emorragia vitrea) di grado 3 dovuto al trattamento con imatinib, sospende la terapia e perde la risposta citogenetica ottenuta a 6 mesi. l’introduzione di nilotinib 400 mg/bid riporta il paziente in ccyr e rapidamente in mmolr. a 18 mesi dall’inizio del trattamento con nilotinib il paziente è in risposta ottimale con un buon compenso della glicemia e senza particolare variazione della terapia antidiabetica in atto. nuovi e stimolanti dati dell’utilizzo di tki di seconda generazione in prima linea dimostrano una velocità di raggiungimento della risposta molecolare sorprendente che ci spinge a pensare che nel prossimo futuro il raggiungimento della risposta molecolare sarà l ’end-point primario della terapia con tki. a più di 10 anni dall’introduzione di imatinib nello scenario della lmc abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione terapeutica. in particolare gli sforzi sono rivolti nella identificazione dei pazienti a rischio di progressione alla diagnosi, nella scelta della migliore terapia front-line per questi e nella identificazione di strategie terapeutiche della leucemia mieloide. il mondo della mieloide cronica è cambiato radicalmente negli ultimi 10 anni e continuerà a farlo con la speranza di ottenere la terapia adeguata per la totalità dei pazienti. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5)6 editoriale bibliografia 1. deininger m, o’brien s, guilhot f, goldman jm, hochhaus a, hughes tp et al. international randomized study of interferon vs sti571 (iris) 8-year follow up: sustained survival and low risk for progression or events in patients with newly 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associations with hepatic pseudocyst is not described and a lack of association with hcv is very rare. therefore, the hypothesis of “essential” mixed cryoglobulinemia (emc) associated with nephrotic syndrome was formulated. renal disease associated with emc (unrelated to hcv) is characterized by the high prevalence of primary sjögren syndrome and overt b-cell non-hodgkin’s lymphoma for which repetitive clinical evaluation is necessary. keywords: cryoglobulinemia; rheumatoid factor; complement; purpura; nephrotic syndrome; mixed essential cryoglobulinemia; elderly an unusual case of cryoglobulinemic purpura in elderly patient cmi 2015; 9(1): 13-20 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i1.1165 caso clinico corresponding author dottor mauro turrin tel.: 0429.715918 fax: 0429.715488 m.turrin@libero.it disclosure l’autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo perché descriviamo questo caso alcune malattie definite “rare” non risultano tali se vengono approfonditi i criteri diagnostici. pertanto è fondamentale eseguire un puntuale iter diagnostico anche nei soggetti anziani con molteplici comorbilità introduzione la crioglobulinemia mista è associata a infezioni, malattie autoimmuni e disordini linfoproliferativi, in particolare a epatite cronica c. la sua frequenza sembra essere maggiore di quanto comunemente ritenuto per una malattia “rara”, anche in soggetti di età avanzata. caso clinico un paziente di 86 anni veniva ricoverato per scompenso cardiaco in cardiopatia ischemico-ipertensiva e bronchite acuta asmatiforme. nell’anamnesi risultavano: pregressi episodi di scompenso cardiaco, diabete mellito di tipo 2 complicato da neuropatia periferica, insufficienza renale cronica, anemia sideropenica, ipertrofia prostatica, rallentamento motorio. nel 2012 fu ricoverato in diabetologia per ipoglicemia prolungata. era seguita terapia con: repaglinide, furosemide, prednisone, aspirina, olmesartan, alfuzosina, cicli di terapia marziale per os. da un anno lamentava artralgie alle mani e ai piedi. presentava discromie cutanee di tipo petecchiale alle gambe. 9 mesi prima vennero riscontrati: aumento del fattore reumatoide (1.359; vn fino a 14 ku/l), ves = 44 mm/h, pcr = 13,53 mg/dl, creatininemia = 1,63 mg/dl, proteine = 0,54 g/l all’esame delle urine. nel sospetto di artrite reumatoide lo specialista reumatologo consigliava terapia con idrossiclorochina (di breve durata) e cortisone a basso dosaggio. da due settimane lamentava tosse e dispnea: da una settimana aveva ripreso la terapia cortisonica precedentemente sospesa. l’obiettività all’ingresso dimostrava: broncospasmo diffuso, edemi declivi, lieve stasi polmonare, cute delle gambe e dei piedi di color rosso “vinoso” (porpora cutanea accentuata dall’ortostatismo), chiazze purpuriche alla radice degli arti superiori e alle cosce (figura 1). figura 1. le gambe del paziente al momento della sua presentazione: cute di color rosso “vinoso” (porpora cutanea accentuata dall’ortostatismo) l’rx torace indicava: campi polmonari poco espansi, cardiomegalia, dilatazione e sfumatura del disegno vasale iloperiilare, velatura pleurica bibasilare, lieve ispessimento della pleura margino-costale al terzo medio inferiore del campo polmonare destro. l’ecocardiogramma segnalava: ventricolo sinistro lievemente ipertrofico e dilatato, ipoacinesia medioapicale, insufficienza tricuspidale lieve, pressione arteriosa polmonare (pap) calcolata = 60 mmhg. gli esami di laboratorio dimostravano: pcr = 32 mg/l (vn < 5), alfa2globuline = 14,3%, gammaglobuline = 23%, non anomalie monoclonali (all’elettroforesi capillare), normale il dosaggio di igg, iga, igm (figura 2). figura 2. elettroforesi capillare delle proteine sieriche all’esame delle urine era possibile rilevare proteine = 2,2 g/l, cilindri ialini e granulosi, batteri = 40.614/μl, e l’urinocoltura era positiva per proteus mirabilis (1.000.000 ufc/ml). gli enzimi epatici, pancreatici, lattato deidrogenasi (ldh) e creatina fosfochinasi (cpk) erano normali. sono state inoltre rilevate iperuricemia, anemia normocitica (hb = 8,7 g/dl e mcv = 94 fl) con deficit di folati e carenza di vitamina d. i test di coombs indiretto e diretto erano negativi, l’aptoglobina risultava aumentata. si confermava l’aumento del fattore reumatoide con normali anticorpi anti-citrullina, ana e anti-ena negativi, ridotta complementemia e β2microglobulina sierica aumentata. si provvedeva pertanto al dosaggio delle crioglobuline, che risultavano positive con criocrito = 7% (figura 3). figura 3. dosaggio delle crioglobuline: positive con criocrito = 7% figura 4. ecografia delle parotidi: ipertrofia bilaterale della ghiandola parotide, non alterazioni ecostrutturali, non alterazioni a carico delle ghiandole sottomandibolari; tiroide di dimensioni nei limiti con ecostruttura finemente e diffusamente disomogenea, vascolarizzazione parenchimale nei limiti; in sede laterocervicale linfonodi di tipo reattivo fino a 7 mm nelle regioni sottomandibolari l’immunofissazione sul criocrito non permetteva di tipizzare con precisione una possibile iniziale reazione monoclonale delle catene leggere delle igm. normali risultavano inoltre: hbsag, anti-hcv, marcatori neoplastici (cea, alfafetoproteina, ca 19-9, psa, ferritina), pe c-anca, anticorpi anticardiolipina, antiβ-glicoproteina, autoanticorpi anti-muscolatura liscia, anticorpi antitireoglobulina, anticorpi anti-microsomi epatici-renali e anti-membrana basale glomerulare, anticorpi anticitomegalovirus igm (elevata avidità). l’anemia veniva corretta con due emotrasfusioni. per il rilievo di d-dimero aumentato (da 1.406, vn < 200 μg/l) si eseguiva un’ecografia doppler venosa degli arti inferiori senza riscontro di segni di trombosi venosa profonda. per la presenza di ipertrofia biparotidea abbiamo eseguito l’ecografia del collo (figura 4), che ha confermato l’ingrossamento delle parotidi senza alterazioni ecostrutturali. esclusa la possibilità di una crioglobulinemia secondaria a hcv, a connetivopatie e a malattie autoimmuni (in particolare sindrome di sjögren e lupus eritematoso sistemico), si procedeva, pertanto, alla ricerca di eventuali foci neoplastici, non rilevati dalla tc addome (figura 5). la tc torace mostrava versamento pleurico bilaterale (figura 6). con la biopsia epatica si prelevava materiale brunastro di consistenza poltacea. l’esame istologico dimostrava materiale necrobiotico acellulato da pseudocisti; l’esame colturale e la ricerca di entamoeba risultavano negativi. il paziente veniva trattato con terapia diuretica, cortisonica, broncodilatatrice e protezione antitrombotica con fondaparinux. l’infezione delle vie urinarie da proteus mirabilis veniva eradicata, sulla base dell’antibiogramma, con cefepime. figura 5. tc addome: fegato nei limiti con multiple areole focali ipodense, avascolari, di natura cistica; formazione espansiva rotondeggiante, del diametro di 6 cm, a densitometria omogenea, fluida, delimitata da sottile pseudocapsula periferica tenuemente vascolarizzata e con presenza di puntiformi calcificazioni parietali in sede superiore; colecisti ipodistesa, completamente occupata da formazioni litiasiche con diametro massimo di 17 mm; milza e pancreas nei limiti; mielolipoma a carico del surrene destro; reni di ridotte dimensioni con spessore corticale marcatamente ridotto e con alcune formazioni cistiche corticali; all’ilo epatico alcuni linfonodi, di cui il maggiore con diametro di 2 cm; al retroperitoneo lombo-aortico e in sede lombo-iliaca alcuni linfonodi con diametro massimo di 12 mm; prostata molto ingrandita e disomogenea; in sede iliaco-inguinale sinistra alcuni linfonodi vascolarizzati del diametro massimo di 11 mm figura 6. tc torace: versamento pleurico bilaterale non si è proceduto con ulteriori indagini perché il paziente rifiutava biopsie linfonodali e l’aspirato midollare. il paziente veniva poi dimesso con terapia: prednisone 12,5 mg/die, colchicina 1 mg/die, allopurinolo 100 mg/die, aspirina 100 mg/die, acido folico 10 mg/die, dieta ipoallergenica [1]. un controllo degli esami di laboratorio dopo un anno dimostrava: ves = 39 mm/h, fattore reumatoide = 329,5 ku/l, crioglobuline positive, criocrito = 6%, all’elettroforesi delle sieroproteine in gel di agarosio (figura 7) presenza di una componente monoclonale in zona gamma pari a 2,87 g/l, all’immunofissazione iniziale reazione monoclonale di igm montanti catene λ; creatinina = 2.10 mg/dl, beta2microglobulina sierica = 6,48 mg/l, uricemia e calcemia nella norma; proteinuria delle 24 ore = 2,51 g/die. figura 7. elettroforesi su gel di agarosio delle proteine sieriche, controllo dopo tredici mesi. la componente monoclonale in zona gamma era pari a 2,87 g/l. all’immunofissazione si rilevava un’iniziale reazione monoclonale di igm montanti catene leggere λ è possibile effettuare un confronto tra i parametri di laboratorio rilevati nel paziente a gennaio 2014 e quelli riscontrati a febbraio 2015 mediante la tabella i. parametro gen 2014 feb 2015 valori normali colesterolemia totale (mg/dl) 122 < 200 uricemia (mg/dl) 11 3,7 3,5-7,2 ferritina (μg/l) 193 22-322 vitamina d 25(oh)(nmol/l) 17,2 carenza: < 25 acido folico (ng/ml) 6,7 54 carenza: < 7,0 vitamina b12 (pmol/l) 155 156-672 d-dimero (μg/l) 1.406 0-200 ves (mm/h) 39 2,0-37 proteina c reattiva (mg/l) 32 < 5 aptoglobina (g/l) 3,19 0,3-2,0 creatinina (mg/dl) 2,27 → 1,7 2,1 0,72-1,18 alp (u/l) 65 30-120 ldh (u/l ) 331 < 480 γgt (u/l ) 56 < 55 cpk (u/l) 32 31 0-171 anticorpi anti-cardiolipina igg (gpl) 2,84 < 15 anticorpi anti-cardiolipina igm (mpl) 19,25* < 12,5 anticorpi anti-cardiolipina igg (gpl) 1,6 < 20,0 anticorpi antiβ2-glicoproteina igm (smu) 2,7 < 20,0 autoanticorpi anti-muscolatura liscia (titolo) < 1:20 negativo: < 1:20 autoanticorpi microsomi epatici-renali (titolo) < 1:20 negativo: < 1:20 autoanticorpi anti-membrana basale glomerulare (titolo) < 1:20 negativo: < 1:20 p-anca (titolo) < 1:20 negativo: < 1:20 c-anca (titolo) < 1:20 negativo: < 1:20 test di coombs indiretto e diretto negativi igg (g/l) 7,48 7,0-16,0 iga (g/l) 1,19 0,7-4,0 igm (g/l) 1,31 0,4-2,30 complemento frazione c3c (g/l) 0,77 0,9-1,8 complemento frazione c4 (g/l) 0,01 0,1-0,4 crioglobuline (crioprecipitazione a 4°c) positivo positivo negativo criocrito 7% 6% β2microglobulina sierica (mg/l) 6,11 6,48 < 3,0 fattore reumatoide (ku/l) 1.068 329,5 fino a 14 anticorpi anti-citrullina (u/ml) 2,1 0,0-20,0 ana (titolo) < 1:40 < 1:40 ena (screening) negativo hbsag negativo anti-hcv negativo hcv-rna non rilevabile cea (μg/l) 2,5 0,0-4,0 αfp (kiu/l) 3,6 0,0-6,0 ca 19-9 (ku/l) 27,3 < 31 psa (μg/l ) 1,78 0,0-4,0 proteinuria 24 ore (g/die) 1,13 2,51 0,0-0,14 urinocoltura (ufc/ml) positiva per proteus mirabilis (1.000.000) < 100.000 proteinuria di bence jones negativa tabella i. parametri di laboratorio gennaio 2014-febbraio 2015 *lieve aumento aspecifico, non significativo αfp = alfafetoproteina; alp = fosfatasi alcalina; ana = anticorpi anti-nucleo; c-anca = anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili citoplasmatici; cea = antigene carcino-embrionario; cpk = creatinafosfochinasi; ena = antigeni nucleari estraibili; γgt = gamma glutamil-transpeptidasi; hbsag = antigene di superficie dell’epatite b; ldh = lattato deidrogenasi; p-anca = anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili perinucleari; psa = antigene prostatico specifico; ves = velocità di eritrosedimentazione discussione abbiamo descritto il caso clinico di un paziente anziano, diabetico con neuropatia periferica e con nefroangiosclerosi, che ha presentato persistente e marcato aumento del fattore reumatoide, ipocomplementemia, screzio nefrosico, iniziale gammopatia monoclonale e crioglobulinemia senza positività per hcv. nel follow-up a tredici mesi non abbiamo riscontrato patologia autoimmune né neoplastica. in letteratura non vengono descritte associazioni con pseudocisti epatiche (tabella ii). frequenza elevata frequenza media frequenza bassa infezioni hcv hiv hbv streptococcus brucella klebsiella leishmania clamidia mycobacterium tubercolosis lebbra hav citomegalovirus parvovirus b-19 virus chikungunya virus epstein-barr hantavirus plasmodium amebiasi toxoplasmosi malattie autoimmuni sindrome di sjögren lupus eritematoso sistemico artrite reumatoide sclerodermia sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi miopatie infiammatorie morbo di still dell’adulto poliarterite nodosa arterite a cellule giganti arterite di takayasu vasculiti anca-associate epatite autoimmune cancro linfoma a cellule b mieloma multiplo linfoma di hodgkin leucemia linfatica cronica leucemia mieloide cronica mielodisplasia carcinoma epatocellulare carcinoma papillare tiroideo adenocarcinoma polmonare carcinoma renale carcinoma naso-faringeo altre cause cirrosi alcolica cotrimossazolo* interferon alfa* cocaina* mezzo di contrasto radiografico* vaccinazione antinfluenzale vaccinazione hbv bacillo di calmette-guérin intravescicale malattia moyamoya endocardite geloni tabella ii. principali cause associate alla crioglobulinemia sin dal 1990. adattata dal lavoro pubblicato da ramos-casals sulla rivista lupus [2] *associato a esacerbazione di crioglobulinemia nell’ambito delle crioglobulinemie la prevalenza della forma mista (mc) hcv-negativa è risultata compresa tra il 4% e il 16% [3-9]. in questo ristretto ambito le forme definite “essenziali” sembrano incidere per circa un quarto dei casi [10,11]. il nostro caso clinico presenta molte analogie con quanto descritto da autori olandesi nel 2007 e da autori giapponesi e francesi nel 2009: in particolare, un paziente di 81 anni con glomerulonefrite membranoproliferativa [12], sette [13] e dieci casi con altrettanta sindrome nefrosica [14], tutti senza evidenza di hcv. pur con il limite della mancata tipizzazzione del criocrito, abbiamo formulato l’ipotesi diagnostica di sindrome crioglobulinemica, con associata nefropatia nefrosica, da verosimile crioglobulinemia mista di tipo “essenziale” (emc). la malattia renale associata alla mc non correlata a hcv è caratterizzata, come peraltro nell’epatite c, da elevato rischio di sviluppare sindrome di sjögren primaria e linfoma non-hodgkin (nhl) [9,13,14]. livelli elevati di crioglobuline, la presenza di vasculite e di ipogammaglobulinemia sono risultati fattori indipendenti di progressione verso il nhl. risulta pertanto necessario in questi pazienti un prolungato monitoraggio clinico/laboratoristico per poter cogliere l’eventuale comparsa di tali patologie. punti chiave non è infrequente il riscontro di aumento del fattore reumatoide nella popolazione geriatrica in presenza di porpora cutanea è indicata la ricerca della crioglobuline un marcato aumento del fattore reumatoide non associato a criteri diagnostici clinico/laboratoristici per artrite reumatoide è indicativo per crioglobulinemia mista (mc) nella diagnosi differenziale di gammopatia monoclonale va tenuta in considerazione la crioglobulinemia in presenza di crioglobuline circolanti è obbligatoria la ricerca del virus dell’epatite c la diagnosi di crioglubulinemia mista di tipo essenziale (emc) prevede l’assenza di anti-hcv e la mancata associazione con patologie autoimmuni, disordini linfoproliferativi e neoplasie l’ipocomplementemia isolata del c4 deve far sempre ricercare la presenza di crioglobulinemia la malattia renale nella mc non correlata a hcv è caratterizzata da alto rischio di sviluppare sindrome di sjögren primaria e linfoma non-hodgkin, motivo per uno stretto monitoraggio clinico la crioglobulinemia mista (codice icd9-cm:2732) è classificata nel registro delle malattie rare con codice di esenzione rc0110 [15] bibliografia 1. pietrogrande m, de vita s, zignego al et al. recommendations for the management of mixed cryoglobulinemia syndrome in hepatitis c virus-infected patients. autoimmun rev 2011; 10: 444-54; http://dx.doi.org/10.1016/j.autrev.2011.01.008 2. ramos-casals m, trejo o, garcía-carrasco m, et al. mixed 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j. type ii cryoglobulinemia is not associated with hepatitis c infection: the dutch experience. ann n y acad sci 2007; 1107: 251-8; http://dx.doi.org/10.1196/annals.1381.027 14. matignon m, cacoub p, colombat m, et al. clinical and morphologic spectrum of renal involvement in patients with mixed cryoglobulinemia without evidence of hepatitis c virus infection. medicine 2009; 88: 341-8 15. allegato 1 al d.m. n° 279/2001 (elenco malattie rare esentate dalla partecipazione al costo) gazzetta ufficiale, supplemento ordinario, serie generale n.160 del 12/07/2001 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5) clinical management issues 9 y hb = 13,7 g/dl; y gr = 4.340.000/mm3; y gb = 250.000/mm3; y piastrine = 822.000/mm3. giunge quindi presso il nostro centro, dove viene confermata la leucocitosi (gb = massimo breccia 1 caso clinico il caso clinico riguarda un paziente di sesso maschile, di 44 anni, con un fratello di 43 anni non immunocompatibile. il paziente svolge un’attività di libero professionista ed è uno sportivo. dall’anamnesi emerge che è nato a termine da parto eutocico, è stato allattato naturalmente, e ha avuto uno sviluppo psicofisico normale. ha svolto regolare servizio di leva. fuma circa 10 sigarette al giorno e nega allergie a farmaci e alimenti. diuresi fisiologica, alimentazione varia. i genitori sono viventi e in buona salute. riferisce le comuni malattie esantematiche dell’infanzia. ha subìto un intervento di artroscopia a 18 anni in seguito a un incidente automobilistico. nel mese di gennaio 2008, per la comparsa di sudorazione notturna e lieve calo ponderale, il medico curante consiglia di eseguire un emocromo di controllo, che evidenzia: nilotinib dopo recidiva citogenetica a 12 mesi in paziente in fase cronica con precedente risposta sub-ottimale a imatinib abstract we report a case of patient with chronic myeloid leukemia who started imatinib at standard dose and obtained a sub-optimal response at 6 months. considering the patient as a possible “late responder”, we decided not to change the imatinib dose, but, at 12 months, we did not achieve a complete cytogenetic response. at that time, we decided to switch to a second-generation tyrosine kinase inhibitor ( tki), nilotinib 800 mg/day, obtaining soon a major molecular response. recently, the retrospective application of european leukemianet guidelines in large cohorts of patients suggested that patients whose response to imatinib is sub-optimal at 6 months showed significantly worse survival. therefore we can hypothesise that this kind of patients could be eligible for an early switch to second-generation tki. keywords: chronic myeloid leukemia, imatinib, nilotinib, sub-optimal response treatment with nilotinib after cytogenetic relapse at 12 months in a patient in chronic phase with sub-optimal response to imatinib cmi 2010; 4(suppl. 5): 9-13 1 azienda policlinico umberto i, università sapienza roma corresponding author dott. massimo breccia breccia@bce.uniroma1.it caso clinico perché descriviamo questo caso? perché ci può aiutare a capire come l ’applicazione dei criteri eln (european leukemianet) evidenzi alcune categorie di pazienti, come quelli in risposta sub-ottimale a 6 mesi di terapia con imatinib, con caratteristiche prognostiche estremamente negative e outcome simile ai pazienti considerati in fallimento terapeutico. un cambio di inibitore in tempi precoci è ipotizzabile per questo sottogruppo di pazienti disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5)10 nilotinib dopo recidiva citogenetica a 12 mesi in paziente in fase cronica con precedente risposta sub-ottimale 274.000/mm3), con presenza di forme immature nell’esame morfologico del sangue venoso periferico. l’esame obiettivo evidenzia una modesta splenomegalia (13 cm). l’esame morfologico del midollo dimostra un’iperplasia granuloblastica senza elementi indifferenziati, compatibile con una fase cronica di sindrome mieloproliferativa. l’esame citogenetico in tecnica convenzionale evidenzia 20 metafasi valutabili tutte con la presenza del cromosoma philadelphia, senza evidenza di alterazioni aggiuntive. l’esame fish su nuclei in interfase dimostra la presenza di una t(9;22) con riarrangiamento bcr-abl su 300/350 nuclei esaminati, senza evidenza di delezione del cromosoma 9. l’esame molecolare determina il tipo di trascritto come b3a2 e l’esame quantitativo, una ratio bcr-abl/abl di 34%. trattamento dopo un breve periodo iniziale di citoriduzione con idrossiurea, il paziente inizia la terapia con imatinib al dosaggio standard di 400 mg/die e, in seconda settimana di trattamento, ottiene la risposta ematologica completa. i principali eventi avversi nelle prime settimane di trattamento sono stati l’insorgenza di crampi muscolari e il peggioramento, dopo la quinta settimana di trattamento, di una dermatite atopica già presente alla diagnosi, che ha richiesto l’uso di creme locali cortisoniche. valutazione della risposta al terzo mese di terapia, il paziente persiste in risposta ematologica completa e l’esame citogenetico in tecnica convenzionale evidenzia la persistenza del cromosoma philadelphia su 20 delle 25 metafasi osservate (risposta ottimale secondo i criteri della european leukemianet, eln). al sesto mese, sempre in tecnica citogenetica convenzionale, si evidenzia una risposta citogenetica meno che parziale (metafasi philadelphia+ 45%, risposta sub-ottimale secondo eln). l’analisi molecolare in rq-pcr mostra una ratio di 12,4%, in decremento rispetto alla valutazione baseline. considerando il paziente un rispondente sub-ottimale secondo le linee guida eln 2009 per l’assenza di una risposta citogenetica parziale, si decide di sottoporlo a uno screening mutazionale, risultato negativo, e all’analisi della concentrazione plasmatica di imatinib su due test consecutivi che risultano rispettivamente di 1.040 ng/ml e di 1.200 ng/ml. considerando il paziente come un possibile late-responder, in assenza di evidenze di resistenza e mancata aderenza, si decide di continuare con lo stesso dosaggio di imatinib. al 12° mese di trattamento, persiste la risposta ematologica completa: l’esame citogenetico in tecnica convenzionale dimostra la persistenza del cromosoma philadelphia nel 70% delle metafasi osservate e l’analisi molecolare, una ratio bcr-abl/abl in incremento del 21%. un’analisi mutazionale ripetuta in questo momento risulta di nuovo negativa. l’esame del blt è nuovamente superiore a 1.000 ng/ml. considerando il paziente in failure per il mancato ottenimento di una risposta citogenetica parziale a 12 mesi, si decide di passare a inibitore di seconda generazione. dopo l’inizio di nilotinib al dosaggio standard di 400 mg due volte al giorno, il paziente ha mantenuto la risposta ematologica completa. non ha avuto altre tossicità ematologiche e non-ematologiche. dopo tre mesi di trattamento, un controllo dell’esame citogenetico ha evidenziato una risposta citogenetica maggiore con esame molecolare quantitativo del 2%. al 6° mese di trattamento, in assenza di tossicità, il paziente ha ottenuto una risposta citogenetica completa e una risposta molecolare maggiore (ratio bcr-abl/abl 0,1%, secondo is). domande da porsi y si sarebbe potuto evitare il tentativo terapeutico con dose escalation? y qual è l ’outcome dei pazienti in risposta sub-ottimale? discussione nel caso illustrato, la risposta citogenetica a 6 mesi evidenziava un criterio di risposta sub-ottimale (tabella i). l’incidenza di risposta sub-ottimale, secondo le definizioni delle europeanleukemia net guidelines del 2006 [1], è valutabile intorno al 20%. non ci sono studi prospettici che focalizzano l’attenzione sulla possibile evoluzione di tali risposte. marin e colleghi [2] hanno dimostrato come, applicando i criteri di eln, vi sia una sovrapposizione in termini prognostici nelle definizioni di risposta sub-ottimale a 6 e 12 mesi con i criteri di fallimento. è ancora ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5) 11 m. breccia aperta la discussione su come trattare questi pazienti: la prima scelta terapeutica suggerita è la dose escalation con l’ottimizzazione della dose. a favore dell’ottimizzazione della terapia è il dosaggio della concentrazione plasmatica di imatinib: nel nostro caso, due test consecutivi di blood level testing hanno provato una concentrazione di imatinib superiore a 1.000 ng/ml, quindi non tale da considerare in prima ipotesi una mancata aderenza o tentare un aumento di dosaggio. l’assenza di dati prospettici impedisce attualmente di prendere una decisione in merito al possibile tentativo di aumentare il dosaggio di imatinib, anche quando il blt sia > 1.000 ng/ml. recentemente cortes e colleghi [3] hanno suggerito una possibile ottimizzazione della dose anche per i pazienti con concentrazione plasmatica superiore ai 1.000 ng/ml in assenza di tossicità. due recenti pubblicazioni hanno analizzato l’outcome dei pazienti con inadeguata risposta a imatinib: quintas-cardama e colleghi [4] hanno osservato come, benché alcuni pazienti possano migliorare la risposta continuando imatinib, i pazienti che non raggiungono la risposta citogenetica completa (rcc) hanno sì la possibilità di migliorare tale risposta, ma anche il rischio di progredire. in 258 pazienti, la probabilità di raggiungere la rcc decresce mentre aumenta il rischio di progressione a ogni singolo time point (3, 6 e 12 mesi). il monitoraggio molecolare può essere dirimente in queste situazioni: i pazienti con una ratio bcr-abl/abl > 1-10% dopo 3 mesi hanno il 92% di probabilità di raggiungere la rcc continuando la terapia, simile al 98% dei pazienti con ratio < 1%, ma il rischio di progressione è 11%, simile ai pazienti con ratio > 10% (14%). questi risultati indicano come i pazienti che non hanno raggiunto la rcc a 12 mesi presentino un rischio elevato di progressione e siano i probabili candidati a un cambiamento di inibitore. il gruppo del dottor alvarado ha recentemente pubblicato il possibile significato dell’applicazione dei criteri di risposta subottimale in 281 pazienti, trattati con dosaggio standard o con le alte dosi (800 mg) [5]: l’incidenza di risposta sub-ottimale a 6, 12 e 18 mesi è rispettivamente del 4%, 8% e del 40% e non è influenzata dal rischio sokal. i pazienti con risposta sub-ottimale a 6 mesi hanno una bassa probabilità di raggiungere la rcc se confrontati con quelli in risposta ottimale (30% vs 97%) e l’event free survival (efs) e il transformation free survival (tfs) sono simili a quelle dei pazienti considerati in fallimento allo stesso time point. la risposta sub-ottimale a 12 mesi identifica un gruppo di pazienti con una tfs simile ai pazienti con risposta ottimale ma con una peggiore efs. coloro che mostrano una risposta sub-ottimale a 18 mesi hanno un outcome simile a quelli con risposta ottimale. questi risultati suggeriscono che la categoria sub-ottimale è estremamente eterogenea e che, verosimilmente, i pazienti con risposta sub-ottimale a 6 mesi sono candidati a un intervento terapeutico precoce. nilotinib è un inibitore di seconda generazione dotato di una maggiore selettività e affinità di legame con il dominio chinasico tabella i raccomandazioni dell ’european leukemianet del 2009, confrontate con quelle del 2006: valutazione complessiva della risposta a imatinib in prima linea nella fase cronica iniziale. in grassetto le aggiunte eln 2009. modificato da [1] aca = additional chromosome abnormalities; cca = clonal chromosome abnormalities; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; hr = risposta ematologica; mcyr = risposta citogenetica minore; mmolr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile; pcyr = risposta citogenetica parziale risposta ottimale (non definita precedentemente) risposta sub-ottimale fallimento warning baseline na na na alto rischio cca/ph+ (era anche del9q+ e aca in cellule ph+) 3 mesi chr e almeno mcyr (ph+ ≤ 65%) no cyr (ph+ > 95%) (era < chr) < chr (era no hr) na 6 mesi almeno pcyr (ph+ ≤ 35%) < pcyr (ph+ > 35%) no cyr (ph+ > 95%) (era anche < chr) na 12 mesi ccyr pcyr (ph+ 1–35%) < pcyr (ph+ > 35%) < mmolr 18 mesi mmolr < mmolr < ccyr na qualsiasi momento durante la terapia mmolr stabile o in via di miglioramento perdita di mmolr mutazioni (era anche aca in cellule ph+) perdita di chr/ccyr mutazioni cca in cellule ph+ un aumento nei livelli di trascritto cca in cellule ph– ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5)12 nilotinib dopo recidiva citogenetica a 12 mesi in paziente in fase cronica con precedente risposta sub-ottimale di bcr-abl: diverse esperienze in vitro hanno evidenziato una minore mutagenicità di tale composto in cui i legami a idrogeno tipici di imatinib sono sostituiti da interazioni lipofiliche [6]. il recente aggiornamento dei risultati di fase ii nei pazienti trattati in fase cronica ha evidenziato il 94% di risposte ematologiche complete, nel tempo mediano di un mese, e il 59% di risposte citogenetiche maggiori di cui il 44% complete nel tempo mediano di 2,8 mesi di trattamento [7]. la sopravvivenza complessiva stimata a 2 anni è dell’88% e il 78% dei pazienti ha mantenuto a 2 anni la risposta citogenetica raggiunta [7]. in conclusione, nel caso del nostro paziente con risposta sub-ottimale a 6 mesi e in fallimento a 12 mesi, nilotinib si è dimostrato efficace e sicuro: è possibile ipotizzare un probabile ruolo di tale inibitore come “intensificazione” precoce in pazienti con questo tipo di caratteristiche. bibliografia 1. baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, saglio g, apperley j et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51 2. marin d, milojkovic d, olavarria e, khorashad js, de lavallade h, reid ag et al. european leukemianet criteria for failure or suboptimal response reliably identify patients with cml in early chronic phase treated with imatinib whose eventual outcome is poor. blood 2008; 112: 4437-44 3. cortes je, egorin mj, guilhot f, molimard m, mahon fx. pharmacokinetic/pharmacodynamic correlation and blood-level testing in imatinib therapy for chronic myeloid leukemia. leukemia 2009; 23: 1537-44 4. quintas-cardama a, kantarjian h, jones d, shan j, borthakur g, thomas d et al. delayed achievement of cytogenetic and molecular response is associated with increased risk of progression among patients with chronic myelogenous leukemia in early chronic phase receiving high-dose or standard-dose imatinib therapy. blood 2009; 113: 6315-21 5. alvarado y, kantarjian h, o’brien s, faderl s, borthakur g, burger j et al. significance of suboptimal response to imatinib, as defined by the european leukemianet, in the long-term outcome of patients with early chronic myeloid leukemia in chronic phase. cancer 2009; 115: 3709-18 le risposte alle domande emerse nel corso del caso clinico y le nuove raccomandazioni dell ’european leukemianet del 2009 [8] indicano che la risposta sub-ottimale è una zona di transizione per natura. le strategie terapeutiche consigliate sono la dose escalation o anche un cambiamento di terapia. alla luce dei risultati riportati recentemente in letteratura [2,5], per alcune categorie di sub-ottimali, come ad esempio i pazienti con mancata risposta a 6 mesi, è ipotizzabile un cambiamento precoce e non la dose escalation y sia dagli articoli citati [2,5], sia dalla recente analisi a 8 anni dello studio iris [9], i pazienti con ritardata risposta citogenetica hanno una prognosi non favorevole. lo studio iris ha fornito l ’evidenza di un diverso outcome in base alla risposta citogenetica ottenuta nei diversi time point, stabilendo come a 6 mesi la risposta debba essere almeno parziale. ad esempio un paziente che ottiene solo una risposta minore a 6 mesi ha il 35% di probabilità di raggiungere una risposta citogenetica completa a 12 mesi contro il 38% di rischio di sviluppo di una resistenza e 11% di rischio di evoluzione in crisi blastica. la recente pubblicazione del gruppo mdacc ha evidenziato come il paziente con risposta sub-ottimale abbia una transformation free survival (tfs) del 60% e una event free survival (efs) del 45%, quest’ultima simile al 30% del paziente considerato in fallimento terapeutico [5] ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5) 13 m. breccia 6. breccia m, alimena g. nilotinib therapy in chronic myelogenous leukemia: the strength of high selectivity on bcr/abl. curr drug targets 2009; 10: 530-6 7. kantarjian h, giles f, bhalla kn, larson ra, gattermann n, ottmann og et al. nilotinib in chronic myeloid leukemia patients in chronic phase (cmlcp) with imatinib resistance or intolerance: 2-year follow-up results of a phase 2 study. blood 2008; 112: 3238 8. baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, saglio g, apperley j et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51 9. deininger m, o’brien s, guilhot f, goldman jm, hochhaus a, hughes tp et al. international randomized study of interferon vs sti571 (iris) 8-year follow up: sustained survival and low risk for progression or events in patients with newly diagnosed chronic myeloid leukemia in chronic phase (cml-cp) treated with imatinib. blood 2009; 114: 1126 clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 9 marco alì 1, antonino d’agostino 2, alfio todaro 2, andrea girlando 2, marcello ferrara 3, rosanna aiello 1 caso clinico il caso clinico in esame riguarda una donna di 71 anni in mediocri condizioni generali che, in seguito alla comparsa di ittero sclero-cutaneo e coliche addominali, viene ricoverata nel dicembre 2005 presso il reparto di chirurgia addominale del nostro ospedale. durante la degenza la paziente viene sottoposta a rm dell’addome e tc torace ed encefalo, con evidenza di lesioni focali epatiche e dilatazione delle vie biliari intraepatiche per stenosi serrata per 7 mm in regione intrapancreatica e metastasi polmonari. esegue quindi una colangiografia retrograda endoscopica, senza che sia possibile incannulare la via biliare principale; le viene inoltre posizionato un drenaggio biliare trans-parieto-epatico. successivamente si esegue biopsia epatica percutanea sulle lesioni nodulari presenti al iv e viii segmento, il cui esito è «metastasi da carcinoma scarsamente differenziato a immunofenotipo neuroendocrino con neoplasia efficacia della terapia con analoghi della somatostatina sulla sopravvivenza e qualità di vita in una paziente frail con net scarsamente differenziato delle vie biliari abstract we describe the case of a 71-year-old woman with poorly differentiated neuroendocrine tumor of third distal biliary duct and osteolytic metastasis. the patient was evaluated as a third stage of balducci’s criteria for the recognition of frailty. the patient received radiotherapy and octreotide lar. this treatment allowed a good tumour progression rate (18 months), a good quality of life and a good survival (35 months). the case report describes the role of octreotide in the therapy of neuroendocrine tumours, and underlines the importance of a multidisciplinary management of cancer in frail patients. keywords: neuroendocrine tumours, chromogranin a, octreotide lar, frailty efficacy of somatostatine analogues in survival and quality of life of a frail patient with poorly differentiated biliary neuroendocrine tumour cmi 2010; 4(suppl. 1): 9-14 1 dipartimento di oncologia medica. humanitas centro catanese di oncologia, catania 2 dipartimento di radioterapia. humanitas centro catanese di oncologia, catania 3 dipartimento di chirurgia. humanitas centro catanese di oncologia, catania corresponding author dottor marco alì humanitas centro catanese di oncologia, dipartimento di oncologia medica via v.e. dabormida 64 95126 catania tel.: 095/73390126 fax: 095/73390637 e-mail: marcoali71@virgilio.it perché descriviamo questo caso? per evidenziare l’importanza del corretto inquadramento diagnostico e terapeutico di una patologia neuroendocrina rara in un soggetto affetto da frailty che necessita di indagini diagnostiche e trattamenti adeguati caso clinico ad architettura solido-cordonale, costituita da cellule epiteliomorfe, coese con nuclei rotondi anisocariocitici e ampi citoplasmi eosinofili». in considerazione del referto istologico, la paziente è sottoposta a dosaggio della cromogranina a su siero e a scintigrafia globale corporea con 111indio-pentatreotide (octreoscan). la cromogranina a sierica risulta di 850 ng/ml; l’octreoscan evidenzia iperaccumuli di radiotracciante in sede epatica e polmonare. la paziente è pertanto da considerarsi in stadio iv per metastasi polmonari disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 10 efficacia della terapia con analoghi della somatostatina sulla sopravvivenza e qualità di vita in una paziente frail ed epatiche, e inquadrabile come ecog ps 3 (eastern cooperative oncology group performance status). presenta inoltre diverse comorbilità: una cardiomiopatia postischemica con frazione di eiezione del 35%, un’ipertensione arteriosa in trattamento medico, un deficit della deambulazione per coxo-gonartrosi a marcata incidenza funzionale e uno stato depressivo di grado severo con ritiro sociale e con rifiuto della paziente a trattamenti medici reputati “aggressivi”. prima di procedere al trattamento terapeutico si decide pertanto di eseguire una valutazione geriatrica multidimensionale (vgm). la vgm si compone di singoli questionari correlati a scale che indagano aspetti diversi dello stato generale del paziente anziano: y lo stato funzionale, valutato dalla scala adl (activities of daily living) ideata da katz. la scala adl valuta l’abilità del soggetto a compiere le 6 attività quotidiane più semplici che presiedono alla cura di sé [1]; y la comorbilità (insieme delle malattie concomitanti al tumore) può essere valutata con la versione geriatrica della cumulative illness rating scale (cirs-g), che tiene conto di tutte le malattie, suddivise per organo/apparato e graduate in severità da 1 (malattia ben controllata, non problematica) a 5 (condizione severa) [2]; y lo stato umorale-affettivo, e in particolare la sua componente depressiva, viene valutato dalla scala gds (geriatric depression scale). si tratta di una scala, composta nella versione ridotta da 15 item, che indaga il ciclo sonno-veglia, la perdita di interesse nelle varie attività e di energia, i problemi nella concentrazione, i pensieri di morte, ecc. [3]. in tabella i sono riportati gli esiti della valutazione della comorbilità della paziente calcolata secondo la scala cirs-g. la paziente viene pertanto inquadrata come frail, ossia nella iii classe della classificazione della fragilità di balducci (tabella ii) [4]. ciò comporta un rischio potenziale di tossicità da chemioterapia o da terapia radiometabolica sproporzionato rispetto a organo patologia rilevata nella paziente punteggio cirs-g patologie cardiache (solo cuore) cardiomiopatia dilatativa post-schemica con fe 35% 5 ipertensione arteriosa ipertensione arteriosa (pa = 160/88 mmhg) 4 patologie vascolari: sangue, vasi, midollo, milza, sistema linfatico 1 patologie respiratorie: polmoni, bronchi, trachea sotto la laringe 1 occhio, orecchio, naso, gola, laringe 1 apparato gastrointestinale superiore: esofago, stomaco, duodeno, albero biliare, pancreas gastropatia erosiva in esito a trattamento con fans 2 apparato gastrointestinale inferiore: intestino, ernie 1 patologie epatiche: solo fegato 1 patologie renali: solo rene 1 altre patologie genito-urinarie: ureteri, vescica, uretra, prostata, genitali 1 sistema muscolo-scheletro-cute: muscoli, scheletro, tegumenti deficit della deambulazione per coxo-gonartrosi a marcata incidenza funzionale 4 patologie sistema nervoso centrale e periferico; non include la demenza vasculopatia cerebrale ischemico-ipertensiva 2 patologie endocrine-metaboliche: include diabete, infezioni, sepsi, stati tossici 1 patologie psichiatriche-comportamentali: include demenza, depressione, ansia, agitazione, psicosi stato depressivo di grado severo con ritiro sociale 3 risultati y indice di severità della comorbilità = 1,9 y indice di comorbilità complessa = 4/14 tabella i valutazione delle comorbilità, dello stato funzionale e umoraleaffettivo del paziente secondo la cumulative illness rating scale (cirs-g)[2]. la severità è valutata secondo una scala da 1 a 5, in cui: 1 = assente 2 = lieve 3 = moderato 4 = grave 5 = molto grave clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 11 m. alì, a. d’agostino, a. todaro, a. girlando, m. ferrara, r. aiello quanto ottenibile da queste terapie in termini di clinical benefit. pertanto, nel gennaio 2006, si avvia il trattamento di induzione con octreotide 0,1 mg, 1 f. sc x 3 volte al giorno per 15 giorni, seguito da somministrazione di octreotide lar 20 mg im, 1 f. ogni 28 giorni, con prosecuzione per ulteriori 15 giorni di tale iniezione con octreotide 0,1 mg, 1 f. sc x 3 volte al giorno. si imposta inoltre la terapia antalgica con fentanyl tts 25 ng/ora e si provvede ad attivare l’assistenza domiciliare per pazienti oncologici operante sul territorio. progressivamente la sintomatologia addominale accusata dalla paziente si riduce, con recupero in circa tre mesi del peso corporeo perduto e netto miglioramento della qualità di vita. in concomitanza con tali controlli (a partire da gennaio 2006), vengono tenuti sotto controllo i valori di cromogranina a: in tabella iii sono riassunti gli esiti di tali controlli e delle tc total body effettuate da gennaio a luglio 2007. la paziente ha continuato ad effettuare follow-up di malattia con dosaggio di cromogranina a bimestrale e con tc total body semestrale senza significativi segni di progressione di malattia fino a luglio 2007. in questo periodo la donna viene rivalutata per intense algie dorsali. viene effettuata una tc della colonna dorsale e lombare, che evidenzia una lesione osteolitica a carico della vertebra d1; per tale lesione viene eseguito trattamento radioterapico con erogazione di 20 gy in 5 f razioni. ad agosto il valore della cromogranina a aumenta a 282 ng/ml. il controllo con indagine pet, eseguito nello stesso mese, evidenzia progressione di malattia polmonare bilaterale e linfonodale sopraclaveare destra. sulla base degli esiti della pet e dell’aumento dei valori di cromogranina a si provvede a incrementare la dose di octreotide lar da 20 a 30 mg ogni 4 settimane. detto incremento di dose comporta una sensibile riduzione, nei successivi controlli, sia dei valori plasmatici di cromogranina a (decremento del marcatore fino a valori di 87 ng/ml ad aprile 2008 e 88 ng/ml a giugno 2008; trend mantenuto anche in seguito), sia dei secondarismi polmonari e linfonodale sopraclaveare destra, con una riduzione quantificabile rispettivamente del 30 e del 50% secondo criteri recist (response evaluation criteria in solid tumors). nel novembre 2007, in seguito ad algie a carico della gamba destra, si esegue rx mirata che documenta lesione osteolitica del tratto prossimale della tibia destra, per la quale si somministrano 20 gy in 5 frazioni. tabella ii le tre classi di pazienti anziani secondo balducci [4] adl = activites of daily living; cirs-g = cumulative illness rating scale; vmg = valutazione multidimensionale geriatrica parametri vgm mortalità a 2 anni (%) indicazioni terapeutiche classe i: paziente fit y non dipendenza in adl y non comorbilità rilevanti y non sindromi geriatriche 8-12 stessa terapia dei pazienti più giovani classe ii: paziente intermedio y non dipendenza in adl y comorbilità di medio grado y lievi disordini cognitivi e/o depressione y non sindromi geriatriche 16-25 trattamenti personalizzati o adattati, ad es. con riduzione di dose classe iii: paziente frail y età ≥ 85 anni oppure y dipendenza in una o più adls oppure y presenza di una o più sindromi geriatriche oppure y tre o più comorbilità di grado 3 (cirs-g) oppure una grave comorbilità che limita pesantemente le attività quotidiane > 40 sola terapia di supporto e palliazione data del controllo cromogranina a (ng/ml) tc total body gennaio 2006 850 marzo 2006 (prima rivalutazione dall’inizio della somministrazione di octreotide lar) 505 ng/ml stazionarietà di malattia maggio 2006 380 ng/ml giugno 2006 stazionarietà di malattia luglio 2006 215 ng/ml tabella iii esiti dei controlli dei valori di cromogranina a e della tc total body effettuati dalla paziente da gennaio a luglio 2006 la paziente è rivalutata fino a due settimane dall’exitus (avvenuto nel novembre 2008), presentandosi in accettabili condizioni generali e riferendo un valido compenso antalgico e una accettabile qualità di vita. l’ultima cromogranina a sierica risultava di 82 ng/ml e clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 12 efficacia della terapia con analoghi della somatostatina sulla sopravvivenza e qualità di vita in una paziente frail la tc total body mostrava stabilità di malattia in sede epatica e polmonare. domande da porsi: y dinanzi a una progressione di malattia accertata con diagnostica strumentale è opportuno incrementare il dosaggio dell ’analogo della somatostatina? y l’approccio al paziente frail con tumore neuroendocrino deve tener conto delle comorbilità, dello stato funzionale e dello stato umorale affettivo per instaurare con sicurezza un trattamento terapeutico? si risponde affermativamente ad ambedue le domande discussione il caso clinico esposto pone alcuni argomenti di discussione per le comorbilità presenti nella paziente, per le caratteristiche istologiche e infine per le metodiche di imaging eseguite e per le scelte terapeutiche impostate. caratteristiche istopatologiche delle neoplasie neuroendocrine i tumori neuroendocrini derivano dal sistema neuroendocrino diffuso e comprendono cellule e organi che secernono un ampio numero di sostanze ormonali. sono pertanto incluse sia alcune ghiandole endocrine, quali l’ipofisi, le paratiroidi e i surreni, così come isole di cellule endocrine presenti in altri tessuti ghiandolari (per esempio pancreas), sia cellule disseminate in altri organi, come il tratto digestivo o respiratorio, la tiroide o il timo. le cellule che appartengono al sistema neuroendocrino diffuso presentano un comune fenotipo, caratterizzato dalla simultanea espressione di marcatori cellulari endocrini (ad esempio la cromogranina a o la sinaptofisina) e di sostanze ormonali specifiche per ogni tipo di cellula (ad esempio serotonina, insulina, glucagone, ecc.) [5,6]. le neoplasie che hanno origine dalle cellule di questo sistema sono dette neuroendocrine. i dati epidemiologici appartenenti a queste neoplasie sono tuttora scarsi, in particolar modo per quanto concerne i tumori non gastroenteropancreatici [7]. l’incidenza reale della differenziazione neuroendocrina in molti distretti non è completamente conosciuta ed è sicuramente sottostimata [8]. diagnostica in vivo le indagini radiologiche ed endoscopiche indispensabili per stadiare e pervenire all’accertamento istologico di tutte le patologie neoplastiche trovano una loro importante collocazione anche nell’ambito dei tumori neuroendocrini [9]. funzione del tutto precipua per questo campo è però svolta dall’insieme di metodiche per immagini che ricadono sotto la branca della medicina nucleare [10]. le indagini medico-nucleari utilizzano molecole a tropismo specifico per il tessuto neuroendocrino (substrati metabolici, ligandi recettoriali) marcati con isotopi radioattivi che le rendono localizzabili e identificabili. l’imaging medico-nucleare consente lo studio dei fenomeni metabolici cellulari specifici in vivo con una relativa indipendenza dalle dimensioni delle lesioni, permette la scansione dell’intero organismo (whole body scan) e fornisce pertanto un sostanziale aiuto nella stadiazione del tumore. la scintigrafia recettoriale con 111indiopentatreotide (octreotide) è un’indagine che possiede elevata sensibilità nel riconoscimento di lesioni primitive e metastatiche le cui cellule esprimano recettori per la somatostatina [10,11]. quest’ultima è un ormone proteico di 14 aminoacidi responsabile anche del controllo della proliferativo cellulare: l’impiego di questa molecola nella preparazione di farmaci e radiofarmaci è sostanzialmente impossibile a causa del suo tempo di emivita molto breve (circa 3 minuti). per ovviare all’impossibilità di utilizzare la somatostatina come tracciante, in medicina nucleare viene utilizzata octreotide, molecola peptidica di sintesi formata da 8 aminoacidi, che è l’analogo della somatostatina e presenta una valida resistenza ai processi di degradazione enzimatica e una considerevole attività biologica specifica. i recettori per la somatostatina (sstr) sono glicoproteine integrali di membrana accoppiate al sistema delle g-proteins: la loro attivazione determina l’inibizione dell’adenil-ciclasi cellulare. studi molecolari hanno rilevato l’esistenza di cinque sottotipi di recettori per la somatostatina: sstr1, sstr2, sstr3, sstr4 e sstr5. in particolare gli sstr2 si distinguono in sstr2a e sstr2b. i recettori sstr2a, sstr2b, sstr3 e sstr5 presentano elevata affinità per octreotide [12]. clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 13 m. alì, a. d’agostino, a. todaro, a. girlando, m. ferrara, r. aiello gli analoghi della somatostatina la positività recettoriale di membrana delle cellule delle neoplasie neuroendocrine viene valutata perché a tale caratteristica è legata la possibilità di utilizzare degli analoghi della somatostatina per ridurre i sintomi di queste neoplasie (soprattutto se secernenti) e controllare la proliferazione cellulare mediante il legame di queste sostanze con specifici recettori di superficie e l’inibizione di alcuni fattori di crescita (fra cui igf-1 e egf). la risposta dei sintomi e spesso la risposta obiettiva del tumore alla somministrazione degli analoghi della somatostatina sono dose-dipendenti. octreotide in formulazione lar, ovvero l’analogo della somatostatina coniugato a microsfere carrier, possiede una cinetica diversa da quella della somatostatina e rende possibile la somministrazione mensile dello stesso migliorando la compliance del paziente. lo steady-state delle formulazioni lar di octreotide viene raggiunto dopo tre somministrazioni, circa 50-70 giorni di terapia, anche se il rescue al bisogno con la formulazione sc per questo periodo è sufficiente al pieno controllo dei sintomi della malattia [12]. per quanto concerne l’effetto del trattamento con octreotide sulla qualità di vita (qol) dei pazienti, uno studio prospettico di fase iv ha esaminato trattamento di prima linea con octreotide lar dei tumori neuroendocrini in fase avanzata octreoscan-positivi eseguito su 21 pazienti. i risultati di questo trial hanno mostrato un tasso di risposta completa del dolore addominale del 38% associato a una risposta biochimica nel 50% dei pazienti trattati in assenza di alcun evento avverso maggiore [13]. il recente studio di arnold e colleghi ha invece evidenziato l’effetto di octreotide lar nel controllo della progressione tumorale, evidenziandone l’efficacia in termini di ttp [14]. in accordo con i risultati di questi studi, nella paziente esaminata nel caso clinico qui descritto gli esiti sono stati positivi per quanto riguarda sia la progressione del tumore (18 mesi), sia la qualità di vita, sia la sopravvivenza (35 mesi). analisi del caso descritto e conclusioni la paziente in esame apparteneva a un insieme di pazienti definiti “fragili” (frail), ossia soggetti di età avanzata o molto avanzata, cronicamente affetti da patologie multiple, con stato di salute instabile, in cui gli effetti dell’invecchiamento e delle malattie sono spesso complicati da problematiche di tipo psicologico e socio-economico. la paziente presentava inoltre una neoplasia piuttosto rara che solamente le indagini più complesse, quali l’analisi ultrastrutturale, la scintigrafia recettoriale e l’immunoistochimica, hanno consentito di definire compiutamente come neoplasia neuroendocrina non funzionante, permettendo così di pianificare la terapia più adatta. benché la neoplasia neuroendocrina presa in esame faccia parte di una quota ridotta dei carcinomi neuroendocrini e delle neoplasie in genere, occorre riconoscere che essa rientra in quella serie di tumori che vengono attualmente riconosciuti e trattati con un corretto iter diagnostico e terapeutico da un crescente numero di oncologi medici. l’integrazione delle competenze delle varie figure professionali, come quelle degli oncologi medici, dei medici nucleari e degli anatomopatologi, nonché l’applicazione di metodiche immunoistochimiche, associate a tecniche di medicina nucleare sempre più avanzate, consentono oggi di porre diagnosi più circostanziate che sono il primo passo per scegliere la terapia e i follow-up più adatti al singolo paziente [10,11]. l’obiettivo principale nei pazienti frail deve essere il conseguimento di un clinical benefit compatibile, ove possibile, con un aumento delle percentuale di risposte obiettive e della sopravvivenza globale. nel caso esaminato la valutazione geriatrica multidimensionale ha concorso a incrementare l’efficacia clinica dell’approccio terapeutico, ottenendo un clinical benefit e un tempo a progressione del tumore considerevole (18 mesi), senza una rimarchevole riduzione della qol, e con una sopravvivenza di 35 mesi. la risposta obiettiva mirata al controllo dei sintomi è stata confermata dalla riduzione, documentata dagli esiti della tc, dei secondarismi polmonari e linfonodale sovraclaveare destra dopo l’incremento del dosaggio di octreotide da 20 a 30 mg ogni 4 settimane, e dal decremento dei valori di cromogranina a plasmatica. la buona tolleranza della paziente al trattamento con octreotide lar e il controllo ottimale della sintomatologia hanno pertanto consentito di evidenziare l’utilità della vgm in età avanzata per la migliore pianificazione terapeutica. clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 14 efficacia della terapia con analoghi della somatostatina sulla sopravvivenza e qualità di vita in una paziente frail bibliografia 1. parmelee pa, thuras pd, katz ir, lawton mp. validation of the cumulative illness rating scale in a geriatric residential population. j am geriatr soc 1995; 43: 130-7 2. katz s, ford ab, moskowitz rw, jackson ba, jaffe mw. studies of illness in the aged. the index of adl: a standardized measure of biological and psychosocial function. jama 1963; 185: 94-9 3. hickie c, snowdon j. depression scales for the elderly: gds, gilleard, zung. clin gerontologist 1987; 6: 51 4. balducci l, extermann m. management of cancer in the older person: a practical approach. oncologist 2000; 5: 224-37 5. abeloff m, armitage j, niederhuber j, kastan m, mckenna w. abeloff ’s clinical oncology fourth edition. churchill linvingstone, 2008 6. devita vt, hellman s, rosenberg sa (a cura di). principles and practice of oncology. philadelphia: lippincott williams & wilkins, 2007 7. rindi g, capella c, solcia e. introduction to a revised clinicopathological classification of neuroendocrine tumors of the gastroenteropancreatic tract. q j nucl med 2000; 44: 13-21e 8. solcia e, klöppel g, sobin lh. histological typing of endocrine tumors. world health organization international histological classification of tumors. heidelberg: springer, 2000 9. wiedenmann b. synaptophysin and chromogranin/secretogranins-widespread constituents of distinct types of neuroendocrine vesicles and new tools in tumor diagnosis. virchows arch b cell pathol 1989; 58: 95-121 10. chiti a, bombardieri e. la diagnostica dei tumori neuroendocrini. tumori 2000; 86: s9-s11 11. eriksson b, bergström m, orlefors h, sundin a, oberg k, långström b. use of pet in neuroendocrine tumors. in vivo applications and in vitro studies. q j nucl med 2000; 44: 68-76 12. arnold r. simon b, wied m. treatment of neuroendocrine gep tumors with somatostatin analogues: a review. digestion 2000; 62: 84-91 13. butturini g, bettini r, missiaglia e, mantovani w, dalai i, capelli p et al. predictive factors of efficacy of the somatostatin analogue octreotide as first line therapy for advanced pancreatic endocrine carcinoma. endocrine-related cancer 2006; 13: 1213 -21 14. arnold r, müller h, schade-brittinger c, rinke a, klose k, barth p et al; promid study group. placebo-controlled, double blind, prospective, randomized study of the effect of octreotide lar in the control of tumor growth in patients with metastatic neuroendocrine midgut tumors: a report from the promid study group. j clin oncol 2009; 27: 4656-63 terapia con octreotide in una paziente affetta da microcitoma polmonare (sclc) daniela adua1, bruno gori1, luciano stumbo1, ester del signore1, flavia longo1 caso clinico efficacia della terapia con analoghi della somatostatina sulla sopravvivenza e qualità di vita in una paziente “frail” con net scarsamente differenziato delle vie biliari marco alì 1, antonino d’agostino 2, alfio todaro 2, andrea girlando 2, marcello ferrara 3, rosanna aiello 1 caso clinico terapia protratta con octretide acetato lar nel carcinoma neuroendocrino a larghe cellule del polmone alfredo butera 1 caso clinico un caso di neoplasia endocrina non funzionante del pancreas trattato con analogo della somatostatina ivan lolli1, antonio logroscino1, simona vallarelli1, maria a. monteduro2, antonella gentile1, giuseppe troccoli1 caso clinico trattamento del microcitoma del polmone con differenziazione neuroendocrina nel paziente anziano alessandra bearz 1, arben lleshi 1, lucia fratino 1, silvia venturini 1, massimiliano berretta 1, umberto tirelli 1 clinical management issues 2011; 5(suppl 3) 13 clinical management issues me immature della serie granuloblastica, con assenza di elementi indifferenziati. nel sospetto diagnostico di una sindrome mieloproliferativa cronica, si esegue agoaspirato midollare, il cui esame morfologico evidenzia spiccata iperplasia granuloblastica in tutte le fasi maturative, senza elementi indifferenziati. l’indagine citogenetica convenzionale rivela la presenza della traslocazione t(9;22) (q34;q11) nel 100% delle metafasi esaminate, in assenza di alterazioni caso clinico una donna di 61 anni si presenta alla nostra osservazione, nel novembre 2008, per riscontro di marcata leucocitosi. dall’anamnesi emerge una condizione di bpco, un pregresso ima e una tachicardia parossistica sopraventricolare (psvt), esordita in epoca post-infartuale e in trattamento con amiodarone. la paziente riferisce comparsa da circa un mese di astenia fisica e precordialgie. l’esame obiettivo evidenzia una milza debordante di circa 15 cm dall’arcata costale, in assenza di epatomegalia e/o linfoadenomegalie superficiali. all’esame emocromocitometrico si osserva leucocitosi (wbc 128.130/mm3), piastrinosi (plt 699.000/mm3) e valori di hb 11,4 g/dl; l’esame citologico del sangue venoso periferico mostra la presenza di forcorresponding author dottoressa stefana impera st.impera@alice.it caso clinico abstract here we describe the case of a 61-year-old woman who developed chronic myeloid leukaemia in chronic phase under treatment with antiaritmic-therapy (amiodarone) for parossistic sopraventricular tachycardia (psvt). initially the patient started with imatinib at standard dose of 400 mg/day but after 6 months of treatment she reached only a minor cytogenetic response (“sub-optimal response”, according to european leukaemianet criteria 2006). after 9 months, she was still in a minor cytogenetic response. we therefore performed a mutation screening analysis that highlighted t240s, n322s, t406a, y435n mutations. the patient switched to nilotinib at the dose of 800 mg day: complete cytogenetic response and major molecular response were reached after 3 months. nilotinib was safely administered without further qtc prolongation or haematologic and extrahaematologic adverse side effects. keywords: chronic myeloid leukemia; nilotinib; sub-optimal response; parossistic sopraventricular tachycardia (psvt). nilotinib efficacy and safety in cml patient with parossistic sopraventricular tachycardia (psvt), after sub-optimal response to imatinib cmi 2011; 5(suppl 3): 13-17 1 uoc ematologia, po garibaldi nesima, catania stefana impera 1, ugo consoli 1, giuseppina uccello 1, patrizia guglielmo 1 efficacia e sicurezza di nilotinib, dopo risposta non ottimale a imatinib, in paziente con leucemia mieloide cronica e tachicardia parossistica sopraventricolare perché descriviamo questo caso per segnalare l ’efficacia e la sicurezza dell ’uso di nilotinib anche in pazienti affetti da leucemia mieloide cronica e con comorbidità cardiache disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3)14 efficacia e sicurezza di nilotinib, dopo risposta non ottimale a imatinib, in paziente con leucemia mieloide cronica aggiuntive del cariotipo (aca). lo studio molecolare eseguito con rtpcr evidenzia la positività per il trascritto bcr/abl tipo b3a2 (p210); all’esame q-rt pcr, la ratio bcr-abl/abl x 100 è pari a 78,26is. un’ecografia dell’addome conferma il reperto obiettivo della splenomegalia (dl 27 cm). viene quindi posta diagnosi di leucemia mieloide cronica in fase cronica (cml-cp) e calcolato un profilo di rischio evolutivo “intermedio”, sia secondo sokal score (0,99) sia secondo hasford score (957.68) approccio terapeutico e decorso clinico la paziente viene inizialmente avviata a terapia citoriduttiva con idrossiurea, effettuando per la comorbidità cardiaca anche un controllo cardiologico con ecg (ritmo sinusale) ed ecocardiogramma (fe 55%). al mese +6 viene effettuata una rivalutazione midollare, con indagine citogenetica e nuova q-rt pcr, dalla quale emerge una risposta citogenetica minore (mcyr: 39% di metafasi ph+) e una ratio di bcr-abl/ abl x100 di 12,47is. la possibilità che si tratti di una “lateresponder” ci induce a proseguire con imatinib a dose standard per ancora tre mesi. al mese +9, lo studio del cariotipo mostra ancora una mcyr (ph+ nel 43% delle metafasi esaminate) e una ratio di bcr-abl/abl x100 pari a 21,32is.viene eseguita pertanto l’analisi mutazionale tramite sequenziamento clonale, che evidenzia la presenza delle mutazioni t240s-n322s-t406a-y435n (tabella i). si decide di cambiare inibitore tirosinchinasico (tki). la paziente viene sottoposta a rivalutazione della sua patologia cardiaca con un test ergometrico da sforzo, risultato negativo per segni e sintomi di ischemia miocardica indotta da lavoro. inoltre, relativamente alla concomitante terapia antiaritmica, si sostituisce amiodarone con propanololo, la cui efficacia terapeutica viene successivamente verificata tramite ecg dinamico delle 24 ore sec. holter. la paziente è avviata a terapia con nilotinib al dosaggio di mg 400 bid. l’outcome successivo mostra già al mese +3 di trattamento col nuovo tki, una risposta citogenetica completa (ccyr: 0 metafasi ph+), associata a risposta molecolare maggiore (mmolr: bcr-abl/abl x 100 pari a 0,1is), mantenute alla rivalutazione del mese +9. la risposta molecolare si presenta completa (cmolr) alla rivalutazione del mese +12 (tabella ii). la paziente è attualmente al mese +20 di terapia con nilotinib. durante tutto il follow-up non si sono mai verificati episodi di psvt e, ai periodici controlli ecg, non è mai stato evidenziato allungamento di qtc o altre alterazioni del tracciato degne di nota. relativamente al profilo di tollerabilità, nessun evento avverso è stato osservato. discussione imatinib al dosaggio standard di 400 mg/ die trova indicazione nel trattamento di prima linea del paziente affetto da lmc in fase cronica. i time-points a 3, 6, 12 e 18 mesi della risposta al trattamento e la qualità della stessa (risposta ottimale, risposta sub-ottimale, fallimento) sono stati definiti monitoraggio della risposta a imatinib periodo ematologica citogenetica convenzionale molecolare (bcr-/ablx100 sec is) basale (ph+ 100%) 78,26is mese +3 chr n. v. 23, 78is mese +6 chr mcyr (ph+ 37%) 12,47is mese +9 chr mcyr (ph+ 43%) no aca 21,32is t240s-n322st406a-y435n monitoraggio della risposta a nilotinib periodo status mese +3 ccyr (0/20 metafasi ph+); mmolr (0,1is) mese +6 mmolr (0,02is) mese +9 ccyr (0/20 metafasi ph+); mmolr ( 0,025is) mese +12 ccyr (0/20 metafasi ph+); cmolr (0,000is) tabella i variazioni della risposta citogenetica e molecolare in corso di terapia con imatinib aca= anomalie cromosomiche aggiuntive; chr= risposta ematologica completa; mcyr = risposta molecolare minore; ph + = metafasi philadelphia positive tabella ii monitoraggio della risposta citogenetica e molecolare a nilotinib ccyr= remissione citogenetica completa; cmolr= risposta molecolare completa; mmolr= risposta molecolare maggiore; ph+ = metafasi philadelphia positive dopo due settimane di citoriduzione, viene intrapreso trattamento con imatinib a dosaggio standard di 400 mg/die. la risposta ematologica completa (chr) viene ottenuta dopo 4 settimane di terapia. al mese +3, si esegue la prima rivalutazione quantitativa del trascritto bcr-abl, che mostra una ratio bcr-abl/abl x100 di 23,78is. la paziente continua il dosaggio standard, mantenendo la chr. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3) 15 s. impera, u. consoli, g. uccello, p. guglielmo e successivamente rivisitati dalle european leukemianet (eln) guidelines, rispettivamente nel 2006 [1] e nel 2009 [2]. nel caso clinico descritto, la mcyr a 6 mesi rappresenta una tipo di risposta subottimale [1], la cui incidenza in letteratura è valutata intorno al 20%. i pazienti con ritardata risposta citogenetica non avrebbero una prognosi favorevole [3,4]. un paziente che ottiene solo una mcyr a 6 mesi ha il 35% di probabilità di raggiungere una ccyr a 12 mesi; di contro, presenta il 38% di rischio di sviluppare una resistenza e l’11% di rischio di evoluzione in crisi blastica. esisterebbe una sovrapposizione, in termini prognostici, delle definizioni di risposta sub-ottimale a 6 e 12 mesi con i criteri di fallimento [3]. anche in un gruppo di pazienti trattati con alti dosaggi di imatinib, è stato osservato che il paziente con risposta sub-ottimale a 6 mesi presenta una event free survival (efs) e una transforming free survival (tfs) paragonabili a quelle dei pazienti considerati in fallimento terapeutico allo stesso time-point, mentre ai 12 e 18 mesi la tfs dei pazienti sub-ottimali è sovrapponibile a quella degli ottimali [5]. questi dati suggeriscono che la categoria sub-ottimale è estremamente eterogenea e che verosimilmente i pazienti con risposta sub-ottimale a 6 mesi rappresentano un subset candidabile a un cambiamento terapeutico precoce. a tal proposito uno screening mutazionale viene raccomandato nei pazienti con risposta sub-ottimale o failure a imatinib [1,2,6]. il meccanismo più comune di resistenza a imatinib è infatti rappresentato dalle mutazioni puntiformi di bcr-abl. l’incidenza di resistenza a imatinib dovuta a mutazioni è riportata dalla letteratura pari al 40-50%, nella fase cronica di malattia. nel caso clinico descritto, la paziente è stata sottoposta ad analisi mutazionale, che ha evidenziato la presenza di mutazioni che, seppur di non chiaro significato clinico e non associate a resistenze note in letteratura verso un particolare tki di i o ii generazione, rappresentano sicuramente un indice di instabilità genetica del clone leucemico [7]. la scelta di avviare la paziente a trattamento di seconda linea con nilotinib a dose standard (400 mg bid) è stata effettuata sulla base di diverse considerazioni. in primo luogo, sono state valutate le sue caratteristiche farmacologiche: maggiore selettività e affinità di legame con il dominio chinasico di bcr-abl rispetto a imatinib, di cui risulta 20-30 volte più potente, e apparente minore mutagenicità. in secondo luogo, abbiamo osservato i dati della letteratura relativi alla qualità della risposta e alla sopravvivenza: in un recente aggiornamento dei risultati di uno studio di fase ii condotto su 321 pazienti resistenti o intolleranti a imatinib, è stato osservato che a 24 mesi di trattamento con nilotinib il 59% dei pazienti ha raggiunto una mcyr. una ccyr è stata osservata nel 44% dei pazienti, il 56% dei quali ha anche presentato una mmolr, con un tempo mediano al raggiungimento di 5,6 mesi. la risposta citogenetica raggiunta viene mantenuta nell’84% dei pazienti in ccyr valutati a 24 mesi. la mmolr è stata raggiunta dal 28% dei pazienti. la sopravvivenza globale (os) stimata a 2 anni è risultata pari all’87%, con un rate di sopravvivenza libera da progressione (pfs) pari al 64% e di efs del 55% [6,8] . infine, è stato scelto nilotinib per i risultati di ampi studi che hanno verificato il suo profilo di sicurezza, soprattutto in relazione agli eventi avversi cardiologici. tra questi, lo studio enact (expanding nilotinib access in clinical trials) [9,10], condotto allo scopo di valutare l’efficacia e la sicurezza di nilotinib su 1.793 pazienti con lmc resistenti o intolleranti a imatinib, ha evidenziato un’incidenza < 1% di alterazioni elettrocadiografiche (prolungamento qtc> 500 msec) (tabella iii). il caso clinico descritto evidenzia come nilotinib possa essere somministrato anche in pazienti con patologie cardiache, se preliminarmente valutati e adeguatamente monitorizzati, in corso di trattamento, lmc-cp n = 1.422 (%) lmcap n = 181 (%) lmc-bc n = 190 (5) totale n = 1.793 (%) cambiamento qtc dal basale > 60 msec 18 (1) 5 (3) 9 (5) 32 (2) prolungamento qtc > 450 msec 233 (16) 22 (12) 24 (13) 279 (16) prolungamento qtc > 480 msec 30 (2) 3 (2) 6 (3) 39 (2) prolungamento qtc > 550 msec 4 (<1) 1 (<1) 1 (<1) 6 (<1) tabella iii lo studio enact (expanding nilotinib access in clinical trials) è stato condotto su 1.793 pazienti con lmc resistenti o intolleranti a imatinib, per valutare l ’efficacia e la sicurezza di nilotinib in uno scenario di pratica clinica i dati raccolti su tipi e gestione degli eventi avversi (ae), hanno dimostrato, relativamente agli eventi avversi cardiologici, un’incidenza <1% di alterazioni elettrocadiografiche. modificato da [10] ap = fase accelerata; bc = crisi blastica; cp = fase cronica ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3)16 efficacia e sicurezza di nilotinib, dopo risposta non ottimale a imatinib, in paziente con leucemia mieloide cronica con indagini strumentali e di laboratorio (ecg in basale e poi periodicamente; dosaggio periodico degli elettroliti sierici), nonché controllati nelle terapie concomitanti (ad es. con antiaritmici) in particolare, nilotinib ha confermato quanto riportato in letteratura circa il buon profilo di tollerabilità, efficacia e sicurezza, in una paziente con preesistente morbidità cardiaca. bibliografia 1. baccarani m, saglio g, goldman j, hochhaus a, simonsson b, appelbaum f et al; european leukemianet. evolving concepts in the management of chronic myeloid leucemia: recommendations from an expert panel on behalf of the european leukemianet. blood 2006; 108: 1809-20 2. baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, saglio g, apperley j et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51 3. marin d, milojkovic d, olavarria e, khorashad js, de lavallade h, reid ag et al. european leukemianet 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resistance or intolerance: 24 month follow-up results. blood 2011; 117: 1141-5 (epub ahead of print 2010 nov 22) 7. baccarani m, pane f, saglio g. monitoring treatment of chronic myeloid leukaemia. haematologica 2008; 93:161-9 8. kantarjian h, giles f, bhalia kn, larson ra, gattermann n, ottmann og et al. nilotinib in chronic myeloid leukaemia patients in chronic phase (cmlcp) with imatinib resistance or intolerance: 2-year follow-up results of a phase 2 study. blood 2008; 112: abstr 3238 9. nicolini f, alimena g, shen z, al-ali h k, turbina a, smith g et al. expanding nilotinib access in clinical trials (enact) study in adult patients with imatinibresistant punti chiave y quali sono i dati di tossicità cardiologica e di sicurezza di nilotinib nei pazienti con comorbidità cardiaca? y i dati emersi dagli studi di fase ii su efficacia e sicurezza di nilotinib e dallo studio enact su tipi e gestione degli eventi avversi (ae) hanno dimostrato, relativamente agli eventi avversi cardiologici, un’ incidenza < 1% di alterazioni elettrocardiografiche. nilotinib deve essere utilizzato con cautela nei pazienti che sono a rischio significativo di sviluppare un prolungamento del qtc. tuttavia, il caso clinico descritto evidenzia come nilotinib possa essere somministrato in specifici pazienti con comorbilità cardiaca, qualora questi pazienti siano sottoposti a valutazione preliminare dei trattamenti concomitanti (con antiaritmici o con altre sostanze che possono prolungare il qtc) ed a successivo e attento monitoraggio strumentale (ecg in basale e controlli periodici) e laboratoristico (dosaggio degli elettroliti sierici e correzione di eventuale ipokaliemia e/o ipomagnesemia) e qualora il giudizio del clinico ritenga il trattamento con nilotinib opportuno ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3) 17 s. impera, u. consoli, g. uccello, p. guglielmo or intolerant chronic myeloid leukaemia (cml): updated safety analysis. haematologica 2008: 2: abstr 134 10. nicolini fe, alimena g, al-ali hk, turkina at, shen z, jootar s et al. final safety analysis of 1,793 cml patients from enact (expanding nilotinib access in clinical trials) study in adult patients with imatinibresistant or intolerant chronic myeloid leukaemia. haematologica 2009; 94 (s2): 255-6 quesiti terapeutici in corso di leucemia mieloide cronica bruno martino 1 efficacia di nilotinib in un paziente ricaduto dopo 9 anni di terapia con imatinib e in risposta citogenetica completa stabile marzia defina 1 efficacia e sicurezza di nilotinib, dopo risposta sub-ottimale a imatinib, in paziente con leucemia mieloide cronica e tachicardia parossistica sopraventricolare stefana impera 1, ugo consoli 1, giuseppina uccello 1, patrizia guglielmo 1 differente risposta a imatinib e nilotinib in relazione al tempo di somministrazione paolo danise 1 rapida e duratura risposta molecolare con nilotinib in una paziente in risposta sub-ottimale a imatinib mario annunziata 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1) 11 clinical management issues ganomegalia o linfoadenopatie superficiali. emocromo ed ematochimici erano negativi, ma l’ecografia addominale dimostrava una dilatazione aneurismatica dell’aorta addominale da approfondire con tc addome. il successivo esame radiologico confermava la presenza della dilatazione aneurismatica, descrizione del caso il caso clinico riguarda un paziente maschio di 63 anni in buone condizioni generali. l’anamnesi fisiologica rivelava pregresso tabagismo per fumo di 25 sigarette/die per oltre 20 anni. all’anamnesi patologica remota si registrava che nel 1995 il paziente era stato diagnosticato di un linfoma non hodgkin con interessamento tonsillare e faringeo. il paziente era stato allora trattato con cinque cicli di chop/f-machop e successivamente sottoposto a consolidamento con trattamento radiante a livello del collo e all’anello di waldeyer. nei successivi dodici anni era stato sottoposto a periodici controlli ematologici senza alcuna evidenza di ripresa di malattia. all’inizio del 2008 le sue condizioni generali erano molto buone, il paziente era asintomatico, l’esame obiettivo dimostrava parametri vitali nella norma e risultava sostanzialmente negativo per orperché descriviamo questo caso in caso di gist resecabile l ’opzione di prima scelta è la terapia chirurgica, tuttavia la sola chirurgia non è spesso efficace nell ’eradicare completamente la malattia nei pazienti a rischio intermedio o elevato. il caso clinico descritto evidenzia l ’eff icacia del trattamento adiuvante con imatinib mesilato 400 mg/die nel prolungare la sopravvivenza libera da ricaduta dopo resezione chirurgica corresponding author dott. giuseppe aprile aprile.giuseppe@aoud.sanita.fvg.it caso clinico abstract the presented case regards a 63-year-old male patient who underwent radical surgery for an intermediate risk gastrointestinal stromal tumor (gist) and thereafter was treated with imatinib mesilate at a daily dose of 400 mg for one year. adjuvant therapy for primary gist has proven benefit in extending relapse free survival in randomised controlled phase iii trials; the advantage in overall survival, however, is yet to be proved. defined risk factors for recurrence are based on gist size, location, and mitotic rate provide useful guidelines for selecting patients for adjuvant therapy considerations. nevertheless, it is currently unclear how to select those patients who would benefit the most, which is the optimal dose and treatment duration, and, importantly, if the use of adjuvant imatinib could enhance the chance of cure. the case report will be used as a paradigmatic springboard for further discussion. keywords: primary gist, adjuvant therapy, imatinib mesilate, relapse free survival adjuvant therapy with imatinib mesilate in a patient with intermediate risk gist cmi 2011; 5(suppl. 1): 11-16 1 dipartimento di oncologia, azienda ospedaliero-universitaria di udine giuseppe aprile 1 imatinib mesilato: trattamento adiuvante in un paziente con gist a rischio significativo disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1)12 imatinib mesilato: trattamento adiuvante in un paziente con gist a rischio significativo passaggio tra corpo e fondo gastrica era evidenziata una compressione ab estrinseco con la presenza di un cratere ulcerativo, a tronco conico e base di circa 1 cm di diametro che veniva ripetutamente biopsiato. l’analisi istologica dei campioni evidenziava mucosa gastrica nella norma con note di iperplasia foveolare. nel dicembre 2008, dopo opportuna sedazione con 3 mg di midazolam ev, 0,1 mg di fentanile e buscopan 1 fl, il paziente era sottoposto ad ecoendoscopia con strumento e2 petax ut lineare, operativo con frequenze comprese tra 7,5 e 10 mhz. la visione endoscopica preliminare confermava la presenza di grossolana impronta ab estrinseco a livello del corpo gastrico prossimale al confine con il fondo verso la grande curva. in corrispondenza dell’impronta sulla parete gastrica l’esame ecografico descriveva la presenza di una grossolana formazione polilobulata ed ecostruttura diffusamente ipoecogena e con multiple lacune anecogene al suo interno. anche ecoendoscopicamente rimaneva il dubbio diagnostico, non potendo con certezza differenziare tra la recidiva del pregresso linfoma e una neoplasia stromale della parete gastrica. a febbraio 2009 il paziente era sottoposto a chirurgia con finalità radicale, oltre che diagnostica, con intervento di gastrectomia totale con asportazione en-bloc della coda del pancreas e della milza. l’esame macroscopico del campione operatorio dimostrava gli organi resecati tenacemente adesi a una massa lardacea di 3,8 × 3,5 × 2 cm, ma senza apparente infiltrazione. la descrizione microscopica del campione (figure 2 e 3) rivelava una neoplasia mesenchimale caratterizzata dalla presenza di cellule fusate, riarrangiate in pattern fascicolato e vorticoso, con microfocali aspetti di necrosi e proliferazione con indice mitotico > 5/50 hpf, con espressione immunoistochimica positiva per cd117, negativa per s100 e cd31 e pertanto riferibile a tumore stromale gastrointestinale di grado intermedio secondo la classificazione di miettinen del 2006 [1]. il paziente arrivava alla nostra attenzione all’inizio di marzo del 2009. le condizioni generali rimanevano molto buone nonostante il calo ponderale perioperatorio di quasi 10 kg. i parametri emocromocitometrici e di funzionalità epatica e renale erano nella norma. trattamento in considerazione dell’età, del buon performance status e della completa informasenza segni di rottura, e si decideva per monitoraggio clinico-radiologico. nel settembre 2008 veniva ripetuta una tc addominale che dimostrava la stabilità dimensionale della dilatazione aneurismatica, ma la comparsa di tessuto solido in sede epigastrica (figura 1), di forma ovalare e dimensioni massime di poco inferiori ai 4 cm, che improntava la parete gastrica a livello della grande curvatura, non potendosi discriminare tra una ripresa della malattia ematologica e una neoplasia insorta della parete gastrica. nel novembre 2008 il paziente veniva figura 2 esame microscopico neoplasia mesenchimale (5×) figura 1 referto tc addominale in cui si evidenzia la comparsa di tessuto solido in sede epigastrica sottoposto a una egds che dimostrava esofago pervio e indenne. la cavità gastrica era descritta come ben distendibile, con mucosa lievemente distrofica in sede antrale, ma al ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1) 13 g. aprile te per inibire la tasca di legame dell’atp con varie tirosinochinasi, tra le quali bcr-abl, pdgfr-alfa e il c-kit espresso nei gist, bloccando la cascata di segnale che porta alla crescita incontrollata e ristabilendo l’equilibrio tra la proliferazione cellulare e l’apoptosi [7]. con le note evidenze della sua efficacia nel trattamento dei pazienti con gist metastatico [8], lo sviluppo clinico del farmaco è continuato in setting adiuvante. estese review hanno recentemente analizzato lo stato dell’arte sul trattamento post-operatorio dei gist [9,10]; il dettaglio specifico travalica lo scopo di questo case report, quindi ci limiteremo a riassumere i dati di maggiore interesse clinico. i tre più importanti trial che hanno analizzato l’efficacia dell’imatinib mesilato somministrato alla dose di 400 mg/die nel migliorare la sopravvivenza di pazienti sottoposti a chirurgia sono l’acosog z9001 [11], il trial intergroup eortc 62024 [12] e il trial scandivavo ssg xviii/aio [13]. tra questi solo il primo è a oggi disponibile in forma estesa [11]. in questo trial di fase iii multicentrico, condotto in nord america, oltre 700 pazienti erano randomizzati in doppio cieco a ricevere, dopo la chirurgia radicale di gist c-kit positivo di dimensioni superiori a 3 cm, il trattamento con imatinib (n = 359) ovvero placebo (n = 354) per un anno; i due gruppi di pazienti erano bilanciati per età, dimensioni della neoplasia, sito di origine e probabilità di resezione con margini positivi. il calcolo del campione era stato stimato per verificare una differenza significativa in termini di sopravvivenza libera da ricaduzione riguardo alla patologia e al rischio di recidiva, abbiamo proposto al paziente trattamento post-operatorio con imatinib mesilato alla dose di 400 mg/die, discutendo con l’interessato il rapporto rischio/ beneficio della terapia e i principali effetti collaterali. il farmaco è stato fornito in uso compassionevole dalla ditta produttrice, non essendo ancora in indicazione terapeutica in italia. il trattamento è stato avviato alla fine di marzo 2009. il paziente ha continuato la terapia senza interruzioni né modifica del dosaggio fino a novembre 2009, quando è stato sottoposto a laparotomia d’urgenza per occlusione intestinale. l’esplorazione chirurgica intraoperatoria della cavità addominale suggeriva la presenza di volvolo con carcinosi peritoneale, la presenza di malattia neoplastica peritoneale non è stata però confermata all’esame istologico dei multipli campionamenti bioptici eseguiti durante l’intervento. il paziente ha quindi ripreso il trattamento con imatinib alla stessa dose pochi giorni dopo la procedura chirurgica e lo ha proseguito senza altre interruzioni fino all’inizio di maggio 2010, completando un anno di trattamento. la ristadiazione radiologica al termine del trattamento non evidenziava alcun segno di ripresa di malattia. il paziente è attualmente seguito in follow-up clinico e radiologico quadrimestrale. discussione i tumori stromali gastrointestinali sono una rara neoplasia maligna stromale esprimente c-kit con un’incidenza media di 15 casi/milione/anno [2], un’età mediana di insorgenza attorno ai 60 anni e una genesi anatomica che nel 50% dei casi ha origine gastrica. la terapia chirurgica è l’opzione di prima scelta nel caso di malattia resecabile [3-4], ma una quota significativa di pazienti è destinato a ricadere dopo la chirurgia [5] e oltre il 50% dei pazienti ad alto rischio (neoplasia di dimensioni > 10 cm o indice mitotico elevato > 50/hpf) avranno una ricomparsa della malattia entro due anni dall’intervento [6]. la sola chirurgia, dunque, spesso non è efficace nell’eradicare completamente la malattia nei pazienti a rischio intermedio o elevato. tuttavia, l’outcome di questi pazienti può essere migliorato con l’utilizzo di imatinib mesilato in setting post-operatorio. imatinib è una piccola molecola somministrata oralmente e disegnata specificatamenfigura 3 esame microscopico neoplasia mesenchimale (10×) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1)14 imatinib mesilato: trattamento adiuvante in un paziente con gist a rischio significativo espresso come numero di mitosi per 50 campi ad alto ingrandimento (hpf), il tipo di mutazione e la qualità dell’intervento chirurgico. tuttavia, anche l’età del paziente e la sua aspettativa di vita andrebbero tenute in considerazione nella pratica clinica. le classificazioni di rischio più utilizzate, schematizzate in tabella i e ii, sono quella di fletcher del 2002 [15] e quella di miettinen del 2007 [1]. entrambe le classificazioni trovano un limite nel fatto che dimensioni e indice mitotico siano considerati come variabili qualitative piuttosto che continue e quantitative. vi sono, per esempio, studi che confermerebbero l’importanza della classificazione molecolare e patologica per definire differenti categorie di rischio anche nei gist di piccole dimensioni [16]. un lavoro del 2005 di joensuu [17] aggiunge alla classificazione di miettinen il parametro clinico della rottura della neoplasia come fattore di rischio di ricaduta; mentre nella pratica clinica risulta anche molto utile il nomogramma di gold [5]. il valore prognostico delle mutazioni è attualmente in corso di studio; in considerazione dell’endpoint primario y dello studio nordamericano [11], non è chiaro se l’utilizzo di imatinib in setting adiuvante prevenga la ricomparsa della malattia (aumentando il numero dei pazienti guariti) o solamente la ritardi (aumentando la durata del tempo tra la chirurgia radicale e la ripresa della malattia, ma senza che vi sia un maggior numero di guarigioni). l’ambizione primaria di ogni trattamento adiuvante è quella di guarire un maggior numero di pazienti esposti al farmaco dopo la chirurgia radicale: se questo obiettivo sia raggiungibile con l’utilizzo di imatinib mesilato sarà noto solo tra alcuni anni, quando saranno disponibili i dati di sopravvivenza dei pazienti arruolati negli studi di terapia adiuvante; la durata ottimale del trattamento posty operatorio non è definita. in considerazione dell’andamento delle curve di sopravvivenza libera da ricaduta dello studio di dematteo che si avvicinano dopo il termine del trattamento post-operatorio, si deduce che un anno di terapia postoperatoria potrebbe non essere sufficiente [11]. in attesa dei dati di confronto fra 1 [11], 2 [12] e 3 [13] anni, è in corso il trial persist-5 (clinicaltrials.gov identifier: nct00867113) nel quale pazienti radicalmente operati per gist con sita (relapse-free survival, rfs), endpoint primario dell’analisi. dopo un follow-up mediano di quasi due anni, la probabilità di ripresa di malattia o morte risultava statisticamente ridotta nel gruppo di pazienti che riceveva imatinib mesilato (8% vs 20%), con un evidente vantaggio in rfs a un anno (98% vs 83%; hr = 0,35; ic95% = 0,230,53; p < 0,0001). il vantaggio era mantenuto indipendentemente dalla dimensione della neoplasia primitiva. imatinib era stato generalmente ben tollerato dai pazienti, seppur con un modesto aumento di effetti collaterali severi quali dermatite (3% vs 0%), diarrea (2% vs 0%) e dolore addominale (3% vs 1%). sulla base dei dati riportati in questo studio, fda (nel dicembre 2008) ed ema (nel marzo 2009) hanno approvato l’utilizzo di imatinib mesilato in setting adiuvante per pazienti resecati radicalmente di gist. tuttavia, mentre l’fda ha esteso l’indicazione a tutti i pazienti, in assenza di criteri di rischio, l’ema ha limitato l’indicazione a pazienti con rischio significativo di ricaduta (categoria di rischio intermedio o elevato). nello studio intergroup 900 pazienti resecati radicalmente di gist con rischio intermedio o elevato sono stati randomizzati a ricevere imatinib mesilato per due anni o placebo, inizialmente mirando a un vantaggio in termini di overall survival. tuttavia, considerata l’efficacia dei trattamenti target nella malattia metastatica e la prolungata sopravvivenza di pazienti con malattia avanzata, l’endpoint primario dello studio è stato modificato a tempo allo sviluppo della resistenza secondaria [12]. nel trial randomizzato scandinavo ssg xviii/aio, sono confrontati il trattamento adiuvante per 1 vs 3 anni in 400 pazienti sottoposti a chirurgia per gist ad alto rischio di ricaduta; analogamente allo studio nordamericano, anche lo studio scandinavo si prefiggeva come endpoint primario il vantaggio in rfs [13]. i dati verranno presentati all’asco meeting 2011. l’evidenza in letteratura riguardo il beneficio del trattamento con imatinib adiuvante in relazione al rischio di recidiva è indiscutibile. tuttavia rimangono alcuni punti controversi che andranno chiariti nel tempo dai dati provenienti dai nuovi trial clinici [14]. in particolare: quali sono i pazienti che beneficiano y maggiormente del trattamento adiuvante? i fattori da valutare per stimare il rischio di ricaduta sono dimensioni e sede della neoplasia, l’indice di proliferazione ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1) 15 g. aprile dopo il termine del trattamento adiuvante con imatinib rispondano al rechallenge con lo stesso farmaco. attualmente non ci sono evidenze che supportino una ridotta sensibilità al farmaco nel momento della comparsa di malattia metastatica. conclusioni dopo la resezione di gist di dimensioni superiori ai 3 cm, il trattamento adiuvante post-operatorio con imatinib alla dose di 400 mg/die ha dimostrato una chiara efficacia nel prolungare la sopravvivenza libera da ricaduta. la selezione dei pazienti candidati al trattamento adiuvante avviene secondo la classificazione di rischio di fletcher [15] o quella di miettinen [1] ed è facilitata nella pratica clinica dall’uso del nomogramma di gold [5]. rimane da chiarire quale sia la durata ottimale della terapia post-operatoria, se tutti i pazienti debbano essere trattati con una dose iniziale di 400 mg e se la caratterizzazione molecolare debba condizionare la scelta del dosaggio e, soprattutto, se la terapia adiuvante sia in grado di produrre un maggior numero di guarigioni. le analisi degli studi attualmente in corso aiuteranno a fare luce sulle questioni e a risolvere questi importanti interrogativi. gnificativo rischio di ricaduta (dimensioni > 3 cm e indice mitorico superiore a 5 o gist extragastrico con dimensioni > a 5 cm) ricevono imatinib mesilato alla dose di 400 mg/die per 5 anni, con rfs come endpoint primario; la dose ottimale da applicare a differenti y pazienti non è nota. per esempio, considerando il setting di malattia metastatica, pazienti con gist con mutazione dell’esone 9 beneficiano di un trattamento a dosi maggiori (800 mg/die); tuttavia non è noto se questo dato può essere traslato in setting adiuvante [18]. l’analisi per sottogruppi di mutazione, non programmata inizialmente, ha fornito delle indicazioni preliminari sul potenziale ruolo dell’analisi mutazionale nell’indirizzare il trattamento di imatinib in adiuvante [19]. un anno di trattamento con imatinib in adiuvante ha determinato un ritardo significativo della ricaduta di malattia nei pazienti con mutazione dell’esone 11, ma non per i pazienti con gist wild-type. nell’ambito del trattamento di pazienti con mutazione dell’esone 9, nessun evento si è verificato durante l’anno di trattamento. la rfs a 2 anni non si è dimostrata statisticamente significativa, ma trattandosi di un’analisi non pianificata occorre ricordare che i due bracci di confronto non erano bilanciati. saranno quindi necessari ulteriori dati per valutare l’impatto del trattamento adiuvante nelle mutazioni dell’esone 9, valutando anche l’incremento di dose a 800 mg/die. inoltre, nel setting di malattia metastatica, dati clinici dimostrano che potrebbe esistere una correlazione tra livelli plasmatici di imatinib ed efficacia del farmaco [20]; l’esperienza aneddotica suggerisce che la y maggior parte dei pazienti che ricadono mitosi per 50 hpf dimensione (cm) stomaco duodeno digiuno/ileo retto ≤ 5 ≤ 2 0 0 0 0 2-5 1,9% 4,3% 8,3% 8,5% 5-10 3,6% 24% 34% 57% > 10 10% 25% 34% 57% > 5 ≤ 2 54% 2-5 16% 73% 50% 52% 5-10 55% 85% 86% 71% > 10 86% 90% 86% 71% mitosi per 50 hpf dimensione (cm) rischio ≤ 5 < 2 molto basso ≤ 5 2-5 basso 6-10 ≤ 5 intermedio ≤ 5 6-10 intermedio > 5 > 5 alto ogni valore > 10 alto > 10 ogni valore alto tabella i classificazioni del rischio secondo fletcher. modificata da [15] tabella ii classificazioni del rischio secondo miettinen. modificata da [1] ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1)16 imatinib mesilato: trattamento adiuvante in un paziente con gist a rischio significativo bibliografia miettinen m, lasota j. gastrointestinal stromal tumors: pathology and prognosis at different 1. sites. sem diagn pathol 2006; 23: 70-83 kats sc, dematteo rp. gastrointestinal stromal tumors and leiomyosarcomas. 2. j surg oncol 2008; 97: 350-9 eisenberg bl, judson i. surgery and imatinib in the management of gist: emerging approaches 3. to adjuvant and neoadjuvant therapy. ann surg oncol 2004; 11: 465-75 nikfarjam m, kimchi e, shereef s, gusani nj, jiang y, liang j et al. surgical outcomes of 4. patients with gastrointestinal stromal tumors in the era of targeted drug therapy. j gastrointest surg 2008; 12: 2023-31 gold js, gönen m, gutiérrez a, broto jm, garcía-del-muro x, smyrk tc et al. development 5. and validation of a prognostic nomogram for recurrence-free survival after complete surgical resection of localised primary gastrointestinal stromal tumour: a retrospective analysis. lancet oncol 2009; 10: 1045-52 rutkowski p, nowecki zi, michej w, debiec-rychter m, woźniak a, limon j et al. risk criteria 6. and prognostic factors for predicting recurrences after resection of primary gastrointestinal stromal tumor. ann surg oncol 2007; 14: 2018-27 schindler t, bornmann w, pellicena p, miller wt, clarkson b, kuriyan j. structural mechanism 7. for sti-571 inhibition of abelson tyrosine kinase. science 2000; 289: 1938-42 demetri gd, von mehren m, blanke cd, van den abbeele ad, eisenberg b, roberts pj et 8. al. efficacy and safety of imatinib mesylate in advanced gastrointestinal stromal tumors. n engl j med 2002; 347: 472-80 essat m, cooper k. imatinib as adjuvant therapy for gastrointestinal stromal tumora systematic 9. review. int j cancer 2010 [epub ahead of print] eisenberg bl, smith kd. adjuvant and neoadjuvant therapy for primary gist. 10. cancer chemother pharmacol 2011; 67: s3-s8 dematteo rp, ballman kv, antonescu cr, maki rg, pisters pw, demetri gd et al. adjuvant 11. imatinib mesylate after resection of localised, primary gastrointestinal stromal tumour: a randomised, double-blind, placebo-controlled trial. lancet 2009; 373: 1097-104 european organization for research and treatment of cancer, italian sarcoma group, 12. federation nationale des centres de lutte contre le cancer, sarcomas gedie. eortc 62024. intermediate and high risk localized, completely resected, gastrointestinal stromal tumors (gist) expressing kit receptor: a controlled randomized trial on adjuvant imatinib mesylate (glivec) versus no further therapy after complete surgery. 2009 (nct identifier: nct00103168) scandinavian sarcoma group. ssgxviii/aio. short (12 months) versus long (36 months) 13. duration of adjuvant treatment with the tyrosine kinase inhibitor imatinib mesylate of operable gist with a high risk of recurrence. 2009 (nct identifier: nct00116935) gronchi a, judson i, nishida t, poveda a, martin j, reichardt p et al. adjuvant treatment of 14. gist with imatinib: solid ground or still quicksand? a comment on behalf of the eortc soft tissue and bone sarcoma group, the italian sarcoma group, the ncri sarcoma clinical studies group (uk), the japanese study group on gist, the french sarcoma group and the spanish sarcoma group (geis). eur j cancer 2009; 45: 1103-6 fletcher cd, berman jj, corless c, gorstein f, lasota j, longley bj et al. diagnosis of 15. gastrointestinal stromal tumors: a consensus approach. hum pathol 2002; 33: 459-65 rossi s, gasparotto d, toffolatti l, pastrello c, gallina g, marzotto a et al. molecular and 16. clinicopathologic characterization of gastrointestinal stromal tumors (gists) of small size. am j surg pathol 2010; 34: 1480-91 joensuu h. risk stratification of patients diagnosed with gastrointestinal stromal tumor. 17. hum pathol 2008; 39: 1411-9 debiec-rychter m, sciot r, le cesne a, schlemmer m, hohenberger p, van oosterom at 18. et al. kit mutations and dose selection for imatinib in patients with advanced gastrointestinal stromal tumours. eur j cancer 2006; 42: 1093-103 corless cl, ballman kv, antonescue c, blanke cd, blackstein me, demetri gd et al. 19. relation of tumor pathologic and molecular features to outcome after surgical resection of localized primary gastrointestinal stromal tumor (gist): results of the intergroup phase iii trial acosog z9001. asco meeting abstracts 2010: 10006 demetri gd, wang y, wehrle e, racine a, nikolova z, blanke cd et al. imatinib plasma 20. levels are correlated with clinical benefit in patients with unresectable/metastatic gastrointestinal stromal tumors. j clin oncol 2009; 27: 3141-7 un caso di tumore stromale gastrointestinale del piccolo intestino complicato da rottura tumorale ivan lolli 1, sergio diotaiuti 2, silvana russo 3, giovanna a. campanella 1, nicola giampaolo 3, gioacchino leandro 5, vincenzo defilippis 1 caso clinico imatinib mesilato: trattamento adiuvante in un paziente con gist a rischio significativo giuseppe aprile 1 caso clinico incremento di dose di imatinib a 800 mg nel paziente con gist in progressione con dosaggio standard: caso clinico giuseppe naso 1, enrico cortesi 1 cmi 2015;9(2)45-55.html confronto fra entecavir e tenofovir nei pazienti con epatite cronica b nella pratica clinica: esperienza di un singolo centro salvatore sollima 1, alessandro torre 1 1 u.o. malattie infettive iii, azienda ospedaliera l. sacco, università degli studi di milano abstract chronic hepatitis b (chb) affects 350-400 million of patients worldwide. entecavir (etv) and tenofovir disoproxil fumarate (tdf) are two nucleoside/nucleotide analogs recommended as first-line treatments in chb. this retrospective study aimed at comparing effectiveness and renal safety of etv and tdf through the analysis of data obtained from our chb outpatients from june 2007 to september 2014. 41 out of 126 chb outpatients were treated with etv and 18 with tdf. tdf showed greater, though not statistically significant, effectiveness, in the three groups considered, i.e. naïve, pretreated with nucleoside/nucleotide analogs other than etv or tdf, and pretreated with etv or tdf patients. in particular, in naïve patients, those treated with tdf attained not detectable levels of viremia more rapidly (7 months versus 9 months) than etv-treated patients, even starting from higher hbv dna levels. in addition, virologic failure was observed in 0 versus 11% in tdf and etv group, respectively. also in patients pretreated with nucleoside/nucleotide analogs other than etv or tdf, virologic failure was observed just in etv patients. in patients who switched from etv or tdf the mean time to attain undetectable hbv dna levels was shorter in tdf group (3 months versus 6 months). considering renal toxicity, there was no difference in creatinine and gfr levels between the two groups. proteinuria and phosphaturia were greater in tdf patients, reaching statistical significance just in those pretreated with nucleoside/nucleotide analogs other than etv or tdf. therefore, etv and tdf are similarly effective and safe, though tdf seems slightly more convenient in clinical practice. keywords: entecavir; tenofovir; chronic hepatitis b; comparison; retrospective analysis a comparison between entecavir and tenofovir in chronic hepatitis b in the clinical practice: a single-center experience cmi 2015; 9(2): 45-55 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i2.1191 clinical management corresponding author salvatore sollima ospedale sacco – milano iii divisione di malattie infettive tel: 0239042677 sollima.salvatore@hsacco.it disclosure il presente articolo è stato realizzato con il supporto incondizionato di gilead sciences srl introduzione l’epatite cronica b (chb) costituisce un problema di sanità pubblica globale [1]. si stima che 350-400 milioni di persone nel mondo siano cronicamente infette dal virus dell’epatite b (hbv) e che circa un milione di pazienti muoia ogni anno di cirrosi, insufficienza epatica terminale (esld) ed epatocarcinoma (hcc), quale risultato dell’infezione cronica da hbv. inoltre, il 5-10% dei trapianti di fegato sono dovuti a una malattia (esld o hcc) hbv-correlata [2-4]. in assenza di terapia, la chb progredisce in cirrosi nell’8-20% dei casi nell’arco di 5 anni. i pazienti evoluti in cirrosi sono a rischio, inoltre, di scompenso epatico e di hcc, con una incidenza cumulativa a 5 anni rispettivamente del 20% e 10-15%. infine, lo scompenso epatico si associa a una prognosi infausta, con una probabilità di sopravvivenza a 5 anni del 14-35% [5-7]. è dimostrato che il rischio di progressione della malattia epatica correla con i livelli di hbv dna in circolo [8,9]. scopo del trattamento della chb è migliorare la qualità della vita e aumentare la sopravvivenza dei pazienti, prevenendo le gravi complicanze della malattia. questo può essere raggiunto con la eliminazione dell’hbsag (con o senza sieroconversione ad anti-hbs) che, in quanto espressione di una risposta immunitaria efficace, rappresenta il risultato ideale, quello più vicino alla cura del paziente, ma anche quello più difficile da conseguire con le terapie attualmente disponibili. un obiettivo più realistico è la soppressione persistente della replicazione virale (spesso associata alla sieroconversione ad anti-hbe nelle forme hbeag-positive) che, comportando la riduzione dell’attività necrotico-infiammatoria e, in molti casi, la regressione della fibrosi epatica [10], si correla con una prognosi favorevole in termini di riduzione del rischio di complicanze e aumento della sopravvivenza [1,11-13]. in questo scenario, gli analoghi nucleosidici/nucleotidici (nuc) rappresentano gli agenti antivirali di riferimento, per la loro azione di inibizione della dna-polimerasi di hbv e, quindi, di soppressione della replicazione virale [14]. fra i nuc, entecavir (etv) e tenofovir disoproxil fumarato (tdf) si distinguono per la potenza e l’elevata barriera genetica contro lo sviluppo di resistenze [15-23], per cui sono raccomandati come farmaci di prima linea nel trattamento della chb [1,11-13]. sebbene l’efficacia e la sicurezza a lungo termine di ognuno sia stata valutata da studi clinici su larga scala [15-28], i dati comparativi fra i due farmaci sono molto limitati. lo scopo di questo studio è stato quello di confrontare in modo retrospettivo l’efficacia e la sicurezza renale di etv e tdf nella pratica clinica. pazienti e metodi disegno dello studio in questo studio sono stati valutati retrospettivamente i dati dei pazienti con infezione cronica da hbv seguiti presso il nostro ambulatorio di epatologia e trattati con etv e tdf fra giugno 2007 e dicembre 2014. sono stati arruolati consecutivamente i pazienti hbsag-positivi da almeno 6 mesi e in follow-up attivo, che al 31 dicembre 2014 avevano cioè effettuato almeno una visita (comprensiva di ecografia dell’addome superiore e di esami ematochimici, sierologici e virologici recenti) nell’ultimo anno. l’unico criterio di esclusione è stato la coinfezione con hiv. abbiamo considerato tre gruppi di pazienti: naïve alla terapia con nuc, pretrattati con nuc diversi da etv e tdf (ovvero con lamivudina, adefovir o telbivudina), pretrattati con etv o tdf che effettuavano uno switch a, rispettivamente, tdf o etv. di questi pazienti sono stati raccolti al basale i dati relativi alle caratteristiche demografiche (sesso, età, provenienza geografica), alla presenza di eventuali comorbilità (infettive o non infettive), all’infezione da hbv (livello di hbv dna, hbeag-positività), alla malattia epatica (presenza di cirrosi, livello di fibrosi, livello di alt) e alla funzionalità renale (creatinina e velocità di filtrazione glomerulare [gfr]). degli stessi pazienti sono stati in seguito raccolti i dati successivi all’inizio del trattamento con etv o tdf disponibili al 31 dicembre 2014 o al momento dell’interruzione della terapia, specificatamente quelli relativi alla durata ed eventuale sospensione della terapia, alla risposta virologica (percentuale di soggetti con viremia soppressa, tempo di negativizzazione dell’hbv dna, livello di hbv dna), ai marcatori sierologici (hbeag, anti-hbs), alla malattia epatica (livello di fibrosi, livello di alt) e alla funzionalità renale (creatinina, gfr, delta gfr, presenza di proteinuria e/o fosfaturia). definizioni la risposta virologica è stata definita come un livello di hbv dna nel siero non rilevabile mediante reazione a catena della polimerasi (pcr). il fallimento virologico è stato definito come un livello di hbv dna nel siero ancora rilevabile mediante pcr dopo almeno 12 mesi di trattamento in un paziente con un’alta aderenza (secondo quanto riferito) alla terapia. il danno renale è stato definito come un incremento della creatininemia > 0,3 mg/dl e/o una riduzione del gfr (< 90 ml/min nei pazienti con funzionalità renale normale) e/o la comparsa o il peggioramento di anomalie urinarie (proteinuria, fosfaturia) rispetto al basale. esami sierologici, virologici e strumentali l’hbsag, l’hbeag e l’anti-hbe sono stati determinati mediante test elisa (architect system; abbott laboratories, north chicago, il, usa); i livelli di hbv dna nel siero sono stati misurati con metodiche che sono cambiate nel tempo: il versant hbv dna 3.0 assay (bdna, siemens diagnostics, tarrytown, ny, usa; limite di sensibilità prima 2.000 copie/ml, poi 46 ui/ml) prima, l’abbott real time hbv assay (real time pcr, abbott laboratories, north chicago, il, usa; limite di sensibilità 10 ui/ml) poi; il livello di fibrosi (e la presenza di cirrosi) è stato misurato mediante biopsia epatica (diagnosi di cirrosi per metavir score > 3 o ishak score > 4 all’esame istologico) o fibroscan® (diagnosi di cirrosi per stiffness ≥ 14,6 kpa); il gfr è stato calcolato utilizzando la formula mdrd. analisi statistiche l’analisi dei dati è stata effettuata mediante l’xlstat statistical software per excel. per confrontare le variabili categoriali e continue fra i gruppi sono stati utilizzati, rispettivamente, il test chi-quadro e il test di mann-whitney. un valore p ≤ 0,05 è stato considerato statisticamente significativo. risultati su un totale di 126 pazienti con chb in follow-up attivo presso il nostro ambulatorio di epatologia, 59 (47%) hanno iniziato un trattamento con etv o tdf. di questi, 40 (68%) erano naïve e 19 (32%) erano stati in precedenza trattati con lamivudina, adefovir o telbivudina. i pazienti che hanno ricevuto etv sono risultati 41 (69%), di cui 28 naïve (68%) e 13 pretrattati (32%); quelli che hanno ricevuto tdf sono risultati 18 (31%), di cui 12 naïve (67%) e 6 pretrattati (33%). inoltre, 20/59 (34%) pazienti sono stati posti in terapia con etv o tdf come switch da tdf o etv che avevano iniziato da naïve o dopo un trattamento con lamivudina, adefovir o telbivudina. pazienti naïve le principali caratteristiche al basale dei pazienti naïve sono mostrate nella tabella i. etv (n = 28) tdf (n = 12) maschi (n) 21 (75%) 7 (58%) età (anni), mediana (min-max) 52 (23-75) 50 (28-65) provenienza geografica (n) italiani 17 (61%) 8 (67%) orientali 6 (21%) 4 (33%) est europei 4 (14%) 0 (0%) africani 1 (4%) 0 (0%) comorbilità (n) coinfezione hdv 1 (4%) 1 (8%) coinfezione hcv 0 (0%) 0 (0%) dm 3 (11%) 1 (8%) ipertensione arteriosa 11 (39%) 0 (0%) connettivite 4 (14%) 1 (8%) neoplasia 5 (18%) 1 (8%) cirrosi (n) 6 (21%) 5 (42%) hbv dna (ui/ml), mediana (min-max) 149.826 (25-1010) 3.043.803 (49-108) hbeag-positivi (n) 8 (29%) 2 (17%) fibrosi (n) f0-f1 5 (18%) 2 (17%) f2 3 (11%) 0 (0%) f3-f4 6 (21%) 1 (8%) na 14 (49%) 9 (75%) alt (u/l), mediana (min-max) 66 (12-588) 59 (21-684) creatinina (mg/dl), mediana (min-max) 0,9 (0,5-2) 0,8 (0,5-1) gfr (ml/min), mediana (min-max) 90 (33-139) 100 (73-128) tabella i. caratteristiche al basale dei pazienti naïve alt = alanina transaminasi; dm = diabete mellito; etv = entecavir; gfr = velocità di filtrazione glomerulare; tdf = tenofovir i due gruppi di trattamento sono risultati omogenei per quanto riguarda il sesso (prevalenza di quello maschile), l’età, la nazionalità, le comorbilità (ad eccezione dell’ipertensione arteriosa, più frequente nel gruppo etv) dei pazienti, nonché i livelli di alt e di creatinina e il gfr, mentre hanno mostrato delle differenze, seppure statisticamente non significative, per quanto riguarda la prevalenza di cirrosi (maggiore nel gruppo tdf, con 42% contro 21%), la carica virale (più elevata nel gruppo tdf, con una viremia mediana di 3.043.803 ui/ml contro 149.826 ui/ml) e la percentuale di soggetti hbeag-positivi (più alta nel gruppo etv, con 29% contro 17%). i dati relativi alla fibrosi epatica erano disponibili, invece, in un numero limitato di pazienti in entrambi i gruppi, per cui non è stato possibile effettuare un confronto. analizzando l’effetto del trattamento (tabella ii), è emerso che la durata media della terapia è stata significativamente maggiore nel gruppo etv rispetto al gruppo tdf (24 mesi contro 11 mesi; p = 0,04). i tassi di sospensione della terapia sono stati nel complesso simili nei due gruppi, ma nello specifico hanno mostrato delle marcate differenze per quanto riguarda la causa: fallimento virologico in 3 pazienti (11%) in etv contro nessuno di quelli in tdf, danno renale in 4 pazienti (34%) in tdf contro nessuno di quelli in etv (p = 0,008), riduzione della spesa farmaceutica in 4 pazienti (14%) in etv contro nessuno di quelli in tdf; inoltre, nel gruppo etv sono stati registrati 2 decessi (7%), entrambi non correlati alla malattia epatica. i due gruppi sono risultati simili anche in quanto a livelli di hbv dna e a percentuale di soggetti con viremia negativa, mentre il tempo medio di negativizzazione della carica virale è apparso inferiore (7 mesi contro 9 mesi), sebbene in maniera non significativa, nel gruppo tdf. tre su 8 pazienti hbeag-positivi (38%) in etv contro nessuno di quelli in tdf hanno negativizzato l’hbeag, mentre 1 paziente in ciascun gruppo ha mostrato una sieroconversione ad anti-hbs. i livelli di alt si sono ridotti in maniera simile nei due gruppi. rispetto ai pazienti trattati con etv, i pazienti trattati con tdf hanno mostrato, in maniera statisticamente non significativa, un aumento della creatininemia e una riduzione del gfr, anche se la mediana di entrambi i parametri è rimasta nell’intervallo di normalità, nonché una maggiore incidenza di proteinuria e/o fosfaturia (17% contro 4%). non è stato possibile, invece, valutare in maniera attendibile il livello di fibrosi e l’eventuale regressione rispetto al basale, a causa della mancanza di una misurazione nella maggior parte dei pazienti in entrambi i gruppi di trattamento. etv (n = 28) tdf (n = 12) durata terapia (mesi), media (min-max) 24 (2-75) 11 (2-28)* sospensione terapia (n) fallimento virologico 3 (11%) 0 (0%) danno renale 0 (0%) 4 (34%)§ riduzione costi 4 (14%) 0 (0%) sieroconversione anti-hbs 0 (0%) 1 (8%) compliance 2 (7%) 0 (0%) decesso 2 (7%) 0 (0%) altro 1 (4%) 1 (8%) totale 12 (43%) 6 (50%) hbv dna-negativi (n) 14 (50%) 7 (58%) tempo di negativizzazione hbv dna (mesi), media (min-max) 9 (4-19) 7 (2-19) hbv dna (ui/ml), mediana (min-max) < 10 (< 10-105) < 10 (< 10-108) hbeag-positivi (n) 5 (18%) 2 (17%) anti-hbs-positivi (n) 1 (4%) 1 (8%) fibrosi (n) f0-f1 9 (32%) 3 (25%) f2 3 (11%) 0 (0%) f3-f4 1 (4%) 0 (0%) na 15 (53%) 9 (75%) alt (u/l), mediana (min-max) 34 (11-247) 33 (15-145) creatinina (mg/dl), mediana (min-max) 0,9 (0,5-1,6) 1 (0,5-1,5) gfr (ml/min), mediana (min-max) 86 (42-151) 83 (35-128) δgfr (ml/min), mediana (1°q-3°q) 0 ([-7]-11) -20 ([-25]-0) proteinuria/fosfaturia (n) 1 (4%) 2 (17%) tabella ii. risultati del trattamento con etv e tdf nei pazienti naïve *p = 0,04; §p = 0,008; alt = alanina transaminasi; etv = entecavir; gfr = velocità di filtrazione glomerulare; tdf = tenofovir pazienti pretrattati considerando i pazienti pretrattati (11 con lamivudina, 1 con adefovir, 2 con telbivudina e 5 con lamivudina più adefovir), i due gruppi di trattamento presentavano caratteristiche basali simili a quelle dei soggetti naïve, da cui si differenziavano per la minor prevalenza di cirrosi (sempre più alta, comunque, nel gruppo tdf) e per i livelli di hbv dna, le cui mediane erano inferiori al limite di sensibilità (a significare che il cambio della terapia non era dovuto, nella maggior parte dei casi, a un fallimento virologico), come riportato nella tabella iii. etv (n = 13) tdf (n = 6) maschi (n) 8 (62%) 4 (67%) età (anni), mediana (min-max) 50 (28-78) 48 (39-51) provenienza geografica (n) italiani 11 (85%) 3 (50%) orientali 1 (8%) 1 (17%) est europei 0 (0%) 1 (17%) africani 1 (8%) 1 (17%) comorbilità (n) coinfezione hdv 0 (0%) 1 (17%) coinfezione hcv 2 (15%) 0 (0%) dm 2 (15%) 0 (0%) ipertensione arteriosa 4 (31%) 1 (17%) connettivite 0 (0%) 0 (0%) neoplasia 0 (0%) 0 (0%) cirrosi (n) 1 (8%) 1 (17%) hbv dna (ui/ml), mediana (min-max) < 2000 (< 10-108) < 46 (< 10-108) hbeag-positivi (n) 3 (23%) 1 (17%) fibrosi (n) f0-f1 0 (0%) 0 (0%) f2 1 (8%) 1 (17%) f3-f4 0 (0%) 0 (0%) na 12 (92%) 5 (83%) alt (u/l), mediana (min-max) 52 (12-193) 55 (21-155) creatinina (mg/dl), mediana (min-max) 0,7 (0,4-1,6) 0,8 (0,7-1,1) gfr (ml/min), mediana (min-max) 99 (44-169) 93 (71-103) tabella iii. caratteristiche al basale dei pazienti pretrattati alt = alanina transaminasi; dm = diabete mellito; etv = entecavir; gfr = velocità di filtrazione glomerulare; tdf = tenofovir dopo l’inizio del trattamento con etv o tdf (tabella iv), i tassi di sospensione della terapia sono stati significativamente più alti nel gruppo etv che nel gruppo tdf (85% contro 17%; p = 0,004); analizzando le cause, le principali sono state il fallimento virologico o l’intolleranza in 4 pazienti (31%) in etv contro nessuno di quelli in tdf e la riduzione della spesa farmaceutica in 4 pazienti (31%) in etv contro nessuno di quelli in tdf. non ci sono state interruzioni del trattamento per danno renale. la percentuale di soggetti con carica virale soppressa, il tempo medio di negativizzazione dell’hbv dna e i livelli di viremia sono risultati simili nei due gruppi. la negativizzazione dell’hbeag è stata osservata in 1 paziente e la sieroconversione ad anti-hbs in un altro, entrambi in terapia con etv, contro nessuno dei pazienti in terapia con tdf. non ci sono state variazioni nella funzionalità renale in nessuno dei due gruppi, mentre l’incidenza di proteinuria e/o fosfaturia è stata significativamente maggiore nel gruppo tdf (33% contro 0%; p = 0,03). etv (n = 13) tdf (n = 6) durata terapia (mesi), media (min-max) 25 (3-75) 34 (1-59) sospensione terapia (n) fallimento virologico 2 (15%) 0 (0%) danno renale 0 (0%) 0 (0%) intolleranza 2 (15%) 0 (0%) riduzione costi 4 (31%) 0 (0%) sieroconversione anti-hbs 1 (8%) 0 (0%) compliance 0 (0%) 1 (17%) altro 2 (15%) 0 (0%) totale 11 (85%) 1 (17%)* hbv dna-negativi (n) 7 (54%) 4 (67%) tempo di negativizzazione hbv dna (mesi), media (min-max) 9 (3-18) 3 hbv dna (ui/ml), mediana (min-max) < 46 (< 10-103) < 10 (< 10-102) hbeag-positivi (n) 2 (15%) 1 (17%) anti-hbs-positivi (n) 1 (8%) 0 (0%) fibrosi (n) f0-f1 3 (23%) 0 (0%) f2 0 (0%) 0 (0%) f3-f4 2 (15%) 0 (0%) na 8 (61%) 6 (100%) alt (u/l), mediana (min-max) 37 (16-116) 25 (21-95) creatinina (mg/dl), mediana (min-max) 0,8 (0,5-1,4) 0,8 (0,7-1,1) gfr (ml/min), mediana (min-max) 100 (36-136) 102 (71-117) δgfr (ml/min), mediana (1°q-3°q) -6 ([-19]-15) 7 ([-0,8]-17) proteinuria/fosfaturia (n) 0 (0%) 2 (33%)§ tabella iv. risultati del trattamento con etv e tdf nei pazienti pretrattati *p = 0,004; §p = 0,03; alt = alanina transaminasi; etv = entecavir; gfr = velocità di filtrazione glomerulare; tdf = tenofovir pazienti che avevano effettuato uno switch il gruppo dei pazienti che avevano effettuato uno switch da tdf o da etv era costituito da 4 pazienti che erano passati a etv per danno renale in corso di terapia con tdf e da 16 pazienti che erano passati a tdf per fallimento virologico (31%), riduzione della spesa farmaceutica (56%) o intolleranza (13%) in corso di terapia con etv. nella tabella v sono riportate le caratteristiche basali di questi pazienti. etv (n = 4) tdf (n = 16) maschi (n) 2 (50%) 11 (69%) età (anni), mediana (min-max) 50 (39-67) 49 (25-63) provenienza geografica (n) italiani 3 (75%) 12 (75%) orientali 1 (25%) 3 (19%) est europei 0 (0%) 1 (6%) africani 0 (0%) 0 (0%) comorbilità (n) coinfezione hdv 1 (25%) 0 (0%) coinfezione hcv 0 (0%) 2 (12%) dm 1 (25%) 1 (6%) ipertensione arteriosa 0 (0%) 3 (19%) connettivite 0 (0%) 0 (0%) neoplasia 0 (0%) 0 (0%) cirrosi (n) 3 (75%) 1 (6%)* hbv dna (ui/ml), mediana (min-max) < 10 (< 10-103) < 46 (< 10-105) hbeag-positivi (n) 0 (0%) 5 (31%) fibrosi (n) f0-f1 0 (0%) 5 (31%) f2 0 (0%) 1 (6%) f3-f4 0 (0%) 2 (12%) na 4 (100%) 8 (50%) alt (u/l), mediana (min-max) 37 (25-116) 37 (15-247) creatinina (mg/dl), mediana (min-max) 1 (0,5-1,5) 0,8 (0,5-1,1) gfr (ml/min), mediana (min-max) 86 (35-128) 98 (68-150) tabella v. caratteristiche al basale dei pazienti con switch da tdf a etv e viceversa *p = 0,002; alt = alanina transaminasi; dm = diabete mellito; etv = entecavir; gfr = velocità di filtrazione glomerulare; tdf = tenofovir le differenze principali fra i due gruppi di trattamento erano rappresentate dal maggior numero di cirrotici nel gruppo etv rispetto al gruppo tdf (75% contro 6%; p = 0,002) e dalla maggior prevalenza di soggetti hbeag-positivi nel gruppo tdf rispetto al gruppo etv (31% contro 0%). inoltre, i pazienti che iniziavano etv mostravano valori di creatinina più alti e di gfr più bassi di quelli dei pazienti che iniziavano tdf, senza però raggiungere la significatività statistica. i dati sulla fibrosi non erano confrontabili fra i due gruppi, che invece risultavano simili per quanto riguarda gli altri parametri. come si evince dalla tabella vi, una volta iniziato il trattamento con etv o tdf, un maggior numero di pazienti in tdf (37% contro 25%) ha interrotto la terapia, principalmente per danno renale (2 su 16 pazienti, 13%) e problemi di intolleranza (3 pazienti, 18%), come cefalea, nausea, dolori ossei e rash. etv (n = 4) tdf (n = 16) durata terapia (mesi), media (min-max) 26 (20-32) 21 (1-52) sospensione terapia (n) fallimento virologico 0 (0%) 1 (6%) danno renale 0 (0%) 2 (13%) intolleranza 0 (0%) 3 (18%) riduzione costi 0 (0%) 0 (0%) sieroconversione anti-hbs 1 (25%) 0 (0%)* compliance 0 (0%) 0 (0%) altro 0 (0%) 0 (0%) totale 1 (25%) 6 (37%) hbv dna-negativi (n) 4 (100%) 13 (81%) tempo di negativizzazione hbv dna (mesi), media (min-max) 6 (6-6) 3 (1-5) hbv dna (ui/ml), mediana (min-max) < 10 < 10 (< 10-102) hbeag-positivi (n) 0 (0%) 5 (31%) anti-hbs-positivi (n) 1 (25%) 0 (0%)§ fibrosi (n) f0-f1 0 (0%) 6 (38%) f2 0 (0%) 1 (6%) f3-f4 0 (0%) 1 (6%) na 4 (100%) 8 (50%) alt (u/l), mediana (min-max) 26 (17-41) 37 (13-98) creatinina (mg/dl), mediana (min-max) 1 (0,5-2) 0,9 (0,5-1,3) gfr (ml/min), mediana (min-max) 89 (25-126) 89 (55-147) δgfr (ml/min), mediana (1°q-3°q) -1 ([-4]-1) -3 ([-14]-0) proteinuria/fosfaturia (n) 0 (0%) 4 (25%) tabella vi. risultati del trattamento dopo switch da tdf a etv e viceversa *p = 0,04; §p = 0,04; alt = alanina transaminasi; etv = entecavir; gfr = velocità di filtrazione glomerulare; tdf = tenofovir la percentuale di soggetti con viremia negativa è stata maggiore nel gruppo etv (100% contro 81%), anche se il tempo medio di negativizzazione dell’hbv dna è stato inferiore nel gruppo tdf (3 mesi contro 6 mesi). la sieroconversione ad anti-hbs è stata osservata in 1 paziente che riceveva etv contro nessuno di quelli che ricevevano tdf (25% contro 0%; p = 0,04). non si sono registrate differenze significative fra i due gruppi in merito ai livelli di creatinina e di gfr. invece, l’incidenza di proteinuria e/o fosfaturia è stata osservata esclusivamente nel gruppo tdf (25% contro 0%). discussione l’obiettivo principale della terapia della chb è prevenire la progressione della malattia verso la cirrosi, lo scompenso epatico, l’esld e l’hcc, aumentando così la sopravvivenza dei pazienti. per raggiungere ciò, è necessario sopprimere in maniera efficace e persistente la replicazione virale. attualmente, le principali linee guida raccomandano etv e tdf come prima linea di trattamento dell’infezione cronica da hbv [1,11-13]. i dati estrapolati dagli studi clinici registrativi [15-17] e dagli studi di real life [24-28] sui singoli farmaci mostrano tassi di risposta virologica, resistenza e tollerabilità simili fra etv e tdf. anche il rischio di nefrotossicità associata a tdf, emerso durante la sorveglianza post-marketing dei pazienti hiv-positivi trattati con tdf [29], appare molto basso nei pazienti con chb [23,30], sebbene recentemente siano stati riportati 3 casi di sindrome di fanconi in pazienti con chb trattati con tdf [31,32]; lo stesso vale per la riduzione della densità minerale ossea [30]. tuttavia, pochi studi hanno messo direttamente a confronto etv con tdf. si tratta, per lo più, di studi retrospettivi che riportano i dati derivanti dalla pratica clinica nei pazienti con chb: alcuni mostrano tassi di efficacia (in termini di risposta virologica, biochimica e sierologica) simili fra etv e tdf [33-36], anche nel lungo termine e anche nei pazienti cirrotici [37,38], altri mostrano invece una superiorità di tdf nel raggiungimento della risposta virologica [39,40]. in particolare, gao e colleghi [40] hanno osservato che i pazienti hbeag-positivi con alta viremia (definita come un livello di hbv dna maggiore di 6 log10 ui/ml) e naïve ai nuc trattati con tdf raggiungevano una carica virale non rilevabile in maniera significativamente più rapida rispetto ai pazienti trattati con etv (probabilità di soppressione completa del 18% contro 11% a 6 mesi, del 51% contro 28% a 12 mesi e del 72% contro 39% a 18 mesi, rispettivamente). questo risultato è in linea con una serie di metanalisi [41-43] che hanno concluso che, fra tutti i nuc, tdf è il più efficace nell’indurre un livello di hbv dna non rilevabile dopo 12 mesi di trattamento nei pazienti hbeag-positivi. diversamente, la metanalisi di ke e collaboratori ha mostrato tassi di soppressione dell’hbv dna, di normalizzazione dell’alt e di sieroconversione ad anti-hbe a 24 e 48 settimane di terapia simili per etv e tdf [44]. comunque, in tutti gli studi non emerge alcuna differenza significativa fra etv e tdf per quanto riguarda la tollerabilità e la sicurezza renale. nella nostra analisi, tdf si è dimostrato più efficace di etv riguardo alla risposta virologica in tutti e tre i gruppi di pazienti (naïve, pretrattati con nuc diversi da etv e tdf, pretrattati con etv o tdf), sebbene la differenza non sia risultata statisticamente significativa. infatti, i pazienti naïve trattati con tdf hanno raggiunto una viremia non rilevabile più rapidamente dei pazienti trattati con etv (7 mesi contro 9 mesi), pur partendo da livelli di hbv dna più alti, e non hanno fatto registrare casi di fallimento virologico (contro 11% nel gruppo etv). anche fra i pazienti in precedenza trattati con nuc diversi da etv e tdf il fallimento virologico è stato osservato solo nel gruppo etv, mentre fra pazienti che avevano effettuato uno switch da tdf o da etv il tempo medio di negativizzazione dell’hbv dna è stato inferiore nel gruppo tdf (3 mesi contro 6 mesi). considerando la funzionalità renale, non si sono osservate differenze significative fra etv e tdf in tutti e tre i gruppi di pazienti per quanto riguarda i livelli di creatinina e di gfr, mentre l’incidenza di proteinuria e/o fosfaturia, maggiore nei pazienti in terapia con tdf, ha raggiunto la significatività statistica nel gruppo dei pretrattati con nuc diversi da etv e tdf. tuttavia, nella nostra casistica la precedente esposizione ad adefovir non ha avuto alcun impatto sulla funzionalità renale in nessuno dei due gruppi di trattamento. questo studio presenta una serie di limiti. innanzitutto, si tratta di un’analisi retrospettiva di dati derivanti dalla real life, il che, se da una parte rappresenta un valore aggiunto, dall’altra risente della mancanza di omogeneità dei dati raccolti e della diversa durata di trattamento nei pazienti considerati; inoltre, il fatto di avere incluso solo i pazienti in follow-up attivo rappresenta un importante bias di selezione che ha ridotto la casistica di pazienti trattati, senza però influire sui risultati derivati dal confronto fra i due gruppi di trattamento; ancora la bassa numerosità del campione ha impedito, in molti casi, di raggiungere un’adeguata potenza statistica; infine, la mancanza di una misurazione della fibrosi epatica al basale e in corso di trattamento nella maggior parte dei pazienti non ci ha consentito di valutare e confrontare la risposta istologica alla terapia con etv e tdf. in conclusione, il nostro studio indica che, pur essendo etv e tdf simili per efficacia e tollerabilità, nella pratica clinica tdf sembra rendere qualcosa di più in termini di risposta virologica, senza mostrare una tossicità renale significativa. considerando questo, insieme alla minima propensione allo sviluppo di resistenza, tdf può dunque essere considerato a buon titolo l’antivirale di riferimento per il trattamento della chb. punti chiave entecavir e tenofovir sono analoghi nucleosidici/nucleotidici raccomandati in prima linea per il trattamento dell’epatite cronica b risultano avere efficacia e tollerabilità simili tuttavia è stata notata una risposta virologica più rapida e un numero inferiore di fallimenti virologici da parte di coloro che sono stati trattati con tenofovir, ma tali differenze non hanno raggiunto la significatività statistica nei confronti di coloro che sono stati trattati con entecavir bibliografia 1. european association for the study of the liver. easl clinical practice 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modesta), anamnesi patologica remota caratterizzata da ipercolesterolemia, episodi tachiaritmici sopraventricolari (isolata tpsv – tachicardia parossistica sopraventricolare, parossismi di fibrillazione atriale) e storia trentennale di ipertensione arteriosa ben controllata pur con polifarmacoterapia. veniva all’osservazione per progressiva elevazione dei valori pressori sisto-diastolici negli ultimi tre anni, con precedente ricovero ospedaliero per crisi ipertensive con dispnea e palpitazioni notturne. la terapia all’atto del ricovero era costituita da: ramipril/idroclorotiazide 5 mg + 12,5 mg, felodipina 10 mg, propafenone 75 mg x 2, acido acetilsalicilico 100 mg e pravastatina 20 mg. l’esame obiettivo evidenziava normopeso (bmi = 23), pressione arteriosa omerale bilaterale pari a 190/105 mmhg e buon compenso cardiorespiratorio senza rilievi patologici a carico di organi e apparati. angelo bosio 1, flavio cerrato 1, claudio pascale 1 introduzione si definisce ipertensione resistente la situazione clinica caratterizzata dall’insuccesso a raggiungere gli obiettivi pressori sistodiastolici (diversi in base al quadro clinico) con un piano terapeutico che comprenda corretto stile di vita e uso a dose adeguata di almeno tre farmaci tra cui un diuretico [1]. la rilevanza del problema non è nota con sicurezza, visto che i dati disponibili in letteratura indicano prevalenza nella popolazione generale incerta, ma verosimilmente bassa (variabile dal 2,9 al 15%) [2-6]. il peso della malattia renovascolare nel determinare ipertensione resistente è pure dubbio, perché correlata all’età e spesso asintomatica. in letteratura stime di prevalenza di questa forma nella popolazione sono comprese fra lo 0,5% e il 3-4% [7-9], per arrivare al 7% nella popolazione anziana [10]. il riscontro di stenosi dell’arteria renale pone spesso di fronte a scelte terapeutiche non sempre univoche e chiare, con necessità di ritagliare le decisioni sul singolo paziente, facendo riferimento certamente alle linee guida, ma senza dimenticare il buon senso. ipertensione resistente da malattia aterosclerotica renovascolare abstract resistant hypertension requires careful evaluation for cause assessment. in this report we present a case of renovascular hypertension due to atherosclerotic renal artery stenosis, with particular regard for diagnostic options and therapeutic strategies (medical therapy versus endovascular angioplasty). this case underlines the importance of an adequate evaluation of the patient’s characteristics (i.e age and comorbidities) in order to choose the right strategy. keywords: resistant hypertension, atherosclerotic renal artery stenosis, endovascular angioplasty, stenting resistant hypertension in atherosclerotic renovascular disease cmi 2010; 4(suppl. 3): 5-10 1 struttura complessa di medicina interna, presidio ospedale cottolengo, torino corresponding author dott. angelo bosio struttura complessa di medicina interna. presidio ospedale cottolengo via cottolengo 9 10152 torino tel. 0115294437 fax. 0115294311 abosio2002@yahoo.it caso clinico ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)6 ipertensione resistente da malattia aterosclerotica renovascolare gli esami ematochimici rilevavano la presenza di insufficienza renale cronica moderata (creatinina = 1,0 mg/dl, clearance di 54 ml/min secondo cockroft-gault [11]), mentre gli altri valori erano nella norma; l’elettrocardiogramma mostrava ritmo sinusale, conduzione av normale, deviazione assiale sinistra con emiblocco anteriore sinistro, atipie aspecifiche del tratto st-t; la radiografia del torace e l’esame del fondo oculare non mostravano alterazioni significative; l’ecografia addominale evidenziava assottigliamento bilaterale del parenchima renale, con rene destro di dimensioni lievemente ridotte; l’ecocardiogramma rilevava lieve dilatazione atriale sinistra (25 mm/m2), ventricolo sinistro a massa aumentata con aumento di spessore di parete posteriore e setto, normale funzione sistolica (fe = 75%) e cinesi segmentaria, pattern mitralico da alterato rilasciamento diastolico. durante la degenza la misurazione clinica della pressione rilevava valori costantemente elevati (180-200 mmhg di sistolica, 100-115 mmhg di diastolica), confermati al monitoraggio ambulatoriale della pressione (abpm). veniva pertanto adeguata la terapia sostituendo felodipina con amlodipina 10 mg, e aggiungendo nebivololo 5 mg e furosemide 25 mg (presenza di insufficienza renale cronica), con riduzione dei valori, ma senza raggiungere il target pressorio. era posta quindi diagnosi di ipertensione resistente e veniva effettuata, in accordo alle linee guida e ai documenti di consenso [1,4,8,12-14], una valutazione sistematica delle possibili cause. veniva, tra l’altro, eseguito l’ecodoppler arterioso dei vasi addominali con riscontro di: aorta addominale diffusamente ateromasica; arteria renale destra con accelerazioni superiori a 200 cm/ sec e turbolenze di flusso da stenosi; componente diastolica della velocità ridotta per incremento delle resistenze vascolari intraparenchimali (indice di resistenze renali, ir = 0,86); arteria renale sinistra normale (figura 1). tale reperto veniva confermato dalla successiva angio-tc (stenosi severa dell’80-85% dell’emergenza dell’arteria renale destra determinata da placca mista, di estensione complessiva di 7 mm; a sinistra una stenosi del 65-70% da placca ostiale calcifica) (figura 2). visto l’inadeguato controllo pressorio con farmaci a dose adeguata e associazioni razionali, si decideva per un intervento di rivascolarizzazione, effettuando angiografia delle arterie renali (stenosi del 75% circa poco dopo l’origine dell’arteria renale destra; arteria renale sinistra di calibro normale) e contestuale pta e stenting dell’arteria renale destra con buon risultato angiografico (figura 3). il follow-up mostrava un progressivo miglioramento del controllo pressorio (145/80 figura 1 ecodoppler arteria renale destra figura 2 angio-tc aorta addominale e arterie renali, con ricostruzione 3d ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 7 a. bosio, f. cerrato, c. pascale mmhg), confermato dall’abpm, in assenza di sintomi, pur persistendo la necessità di polifarmacoterapia (ramipril/idroclorotiazide 5 mg + 12,5 mg, nebivololo 5 mg, amlodipina 10 mg, propafenone 150 mg x 3, acido acetilsalicilico 100 mg, pravastatina 20 mg). discussione la stenosi dell’arteria renale rappresenta circa un terzo delle cause di ipertensione secondaria nei soggetti di età superiore a 50 anni che afferiscono a un centro specialistico per la cura dell’ipertensione resistente [14]. l’eziologia più frequente (più del 90% dei casi) è da ricondurre a lesioni aterosclerotiche, che si verificano con maggior probabilità nei soggetti più anziani, fumatori, con aterosclerosi nota (specialmente come arteriopatia periferica) o con insufficienza renale non spiegabile [14,15]. i criteri clinici che devono far sospettare la presenza di stenosi dell’arteria renale sono indicati nella tabella i. nella nostra paziente il sospetto è stato posto in relazione sia alla perdita del controllo pressorio, prima ottimale, con incapacità a riottenerlo nonostante una terapia con tre farmaci, sia al riscontro ecografico di seppur modesta asimmetria fra i due reni associata ad assottigliamento corticale. in presenza di sospetto clinico di stenosi dell’arteria renale le linee guida acc/aha (american college of cardiology e american heart association) del 2005 raccomandano come screening per la diagnosi (classe i, livello di evidenza b) l’ecodoppler, l’angiormn e l’angio-tc renale (nei soggetti con funzione renale conservata) [16], scegliendo fra esse in base alla disponibilità della metodica, all’esperienza dell’operatore, alle caratteristiche del paziente [9,16]. l’angiografia renale viene consigliata (classe i, livello di evidenza b) in caso di negatività degli esami non invasivi con sospetto clinico rilevante per stenosi ovvero della necessità di figura 3 angiografia arterie renali a. pre-angioplastica b. post-angioplastica segni clinici classe di raccomandazione livello di evidenza 1 comparsa di ipertensione a età inferiore a 30 anni o ipertensione severa dopo i 55 anni di età i b 2 ipertensione accelerata, resistente o maligna i c 3 comparsa di nuova insufficienza renale o peggioramento della funzione renale dopo l’uso di ace-inibitore o di antagonista recettoriale per l’angiotensina ii i b 4 atrofia renale o differenza di dimensione fra i due reni > 1,5 cm, non spiegabile i b 5 edema polmonare improvviso non spiegabile i b 6 insufficienza renale non spiegabile, comprendendo anche i soggetti indirizzati a terapia sostitutiva (dialisi o trapianto) iia b 7 coronaropatia multivasale iib b 8 scompenso cardiaco congestizio non spiegabile iib c 9 angina refrattaria iib c tabella i segni clinici suggestivi per stenosi dell ’arteria renale [8,15,16] a b ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)8 ipertensione resistente da malattia aterosclerotica renovascolare effettuare altre indagini angiografiche (coronarografia, aortografia, ecc.) [16]. nel nostro caso l’esame ultrasonografico ha consentito di rilevare flusso da stenosi e incremento delle resistenze parenchimali. la successiva indagine angio-tc è stata effettuata per ottenere migliori dettagli sulla sede, l’estensione e le caratteristiche della lesione stenosante (placca aterosclerotica): la presenza di calcificazioni (come in questa situazione) può peraltro alterare la qualità delle immagini [9] e, conseguentemente, delle informazioni. la stenosi dell’arteria renale è una manifestazione comune di aterosclerosi, associata con molte altre forme aterosclerotiche [17,18]. i lavori in letteratura sono concordi nel mostrare che ha prognosi negativa (deterioramento di funzione renale, perdita di massa renale, tassi di sopravvivenza minori, aumento di morbilità e mortalità cardiovascolare) [6,16,18], ma non sono, invece, in grado di fornire dati univoci e solidi sull’approccio terapeutico migliore (terapia medica o rivascolarizzazione) nel prevenire la progressione del danno renale, nel controllare i valori pressori e nel migliorare la prognosi. gli studi di confronto fra rivascolarizzazione (con o senza terapia medica) e solo terapia medica non hanno evidenziato, infatti, differenze significative sulla preservazione della funzione renale e sulla riduzione degli eventi cardiovascolari, mostrando beneficio non sempre significativo unicamente sul controllo pressorio [19-25]; l’approccio con angioplastica e stenting, se confrontato con l’angioplastica semplice, sembra essere vantaggioso nel mantenere la pervietà del vaso (in particolare per le lesioni ostiali) e nel controllo pressorio, ma non nel preservare la funzione renale [26-28]. vari autori hanno ricercato parametri in grado quantomeno di predire l’effetto della rivascolarizzazione sul controllo pressorio e sulla preservazione della funzione renale, in modo da poter orientare la scelta verso tale approccio. sembrano avere capacità predittiva sull’inefficacia dell’intervento endovascolare: durata e accelerazione dell’ipertensione y [29,30]; presenza di valori di bnp ( y b-type natriuretic peptide) inferiori a 80 pg/ml [31]; presenza all’ecodoppler di ir superiore y a 80 [32] (tale evidenza non è stata, peraltro, confermata da successive osservazioni [28]). la debolezza delle evidenze disponibili sull’efficacia della rivascolarizzazione fa preferire la terapia medica come primo approccio per la stenosi significativa dell’arteria renale (i valori soglia per severità anatomica e funzionali includono i pazienti con stenosi superiore al 70% alla valutazione doppler o angiografica o con stenosi compresa fra 50 e 70% e gradiente translesionale di picco di almeno 20 mmhg o medio di almeno 10 mmhg, misurato con catetere ≤ 5 fr) [16,31]. la terapia medica si basa sull’uso di più farmaci antipertensivi necessari per ottenere gli obiettivi pressori (classe di raccomandazione i e livello di evidenza a per aceinibitori, calcio-antagonisti e beta-bloccanti, classe di raccomandazione i e livello di evidenza b per antagonisti recettoriali per l’angiotensina ii), a cui vanno associate terapia ipolipidemizzante, aspirina ed eventuale cessazione del fumo di tabacco [16]. la rivascolarizzazione va considerata in presenza di sintomi collegati a una stenosi significativa dell’arteria renale: nelle tabelle ii e iii sono elencate le indicazioni a tale trattamento [16,31,33]. indipendentemente dalle indicazioni fornite dalle linee guida, ogni paziente va valutato a. classificazione funzionale per la stenosi dell’arteria renale b. fattori a favore di terapia medica e intervento di rivascolarizzazione c. fattori a favore di terapia medica e follow-up clinico grado i: presenza di stenosi, ma senza manifestazioni cliniche (pressione arteriosa e funzione renale nella norma) grado ii: presenza di stenosi, ma pazienti con ipertensione controllata con terapia e funzione renale normale grado iii: presenza di stenosi, ma pazienti con ipertensione refrattaria a terapia medica, evidenza di alterazione della funzione renale, evidenza di sovraccarico di volume progressivo declino del gfr in corso di terapia antipertensiva fallimento nell’ottenere adeguato compenso pressorio con terapia medica ottimale declino rapido o ricorrente del gfr associato a riduzione della pressione sistemica declino del gfr in corso di terapia con ace-inibitori o antagonisti recettoriali dell’angiotensina ii scompenso cardiaco congestizio ricorrente non spiegabile con i parametri di funzione ventricolare sinistra pressione controllata con funzione renale stabile stenosi stabile senza progressione al followup (ad es. ecodoppler seriati) età avanzata e/o aspettativa di vita limitata comorbilità importanti che rendono troppo rischiosa la rivascolarizzazione alto rischio di o precedente evento ateroembolico presenza di altre malattie nefroparenchimali che causano disfunzione renale progressiva (ad es. nefropatia diabetica) tabella ii classificazione clinica della stenosi aterosclerotica dell ’arteria renale e linee guida per l ’intervento vascolare [33] gfr = filtrato glomerulare ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 9 a. bosio, f. cerrato, c. pascale attentamente, considerando il quadro clinico nel suo contesto (età, comorbilità, difficoltà per ottimizzare la terapia) per poter fare la scelta migliore [34]. la nostra paziente è stata indirizzata all’intervento di angioplastica con stenting, sicuramente per l’impossibilità di tenere sotto controllo i valori pressori nonostante cinque farmaci antipertensivi (l’ipertensione di per sé è un importante fattore di rischio cardiovascolare [14]), ma anche considerando il quadro clinico generale decisamente buono a dispetto degli 83 anni, nell’intento di prevenire probabili complicanze quali uno scompenso ventricolare sinistro. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. tabella iii indicazione a rivascolarizzazione della stenosi dell ’arteria renale significativa [16,31] quadro clinico indicazione classe di raccomandazione livello di evidenza asintomatica in rene vitale (lunghezza > 7 cm) può essere presa in considerazione (utilità non provata) iib c sintomatica con ipertensione accelerata, maligna, resistente; ipertensione in terapia non tollerata; ipertensione con rene piccolo monolaterale non spiegabile è ragionevole iia b malattia renale cronica in stenosi bilaterale o monolaterale su monorene funzionante è ragionevole iia b stenosi monolaterale e insufficienza renale cronica può essere presa in considerazione iib c scompenso cardiaco congestizio o edema polmonare improvviso, non spiegabili è indicata i b angina instabile è ragionevole iia b bibliografia the task force for the management of arterial hypertension of the european society of 1. hypertension (esh) and of the european society of cardiology (esc). 2007 guidelines for the management of arterial hypertension. j hypertens 2007; 25: 1105-87 setaro jf, black hr. 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ischemico cardioembolico con residua sindrome extrapiramidale e successiva sostituzione nel 1996 di protesi introduzione l’emofilia acquisita è dovuta allo sviluppo di autoanticorpi in grado di inibire determinati fattori della coagulazione. si definisce emofilia acquisita di tipo a (acquired hemophilia a – aha) la presenza di inibitori del fattore viii in un paziente non precedentemente affetto da deficit di tale fattore. questa situazione rappresenta un evento abbastanza raro (approssimativamente 1 caso per milione/anno), è più frequente nei pazienti anziani e può essere secondaria a patologie autoimmuni, malattie infettive, reazioni allergiche a farmaci, neoplasie maligne, gravidanza [1,2]. tuttavia, in circa il 50% dei casi non è possibile riconoscerne una causa scatenante. la manifestazione clinica più caratteristica è il sanguinamento massivo che coinvolge preferenzialmente la cute, le mucose e i tessuti molli, mentre rari sono gli emartri, sintomo peculiare della forcorresponding author dott.ssa irene ricca specialista in ematologia irene_ricca/ocs@ ospedalecottolengo.it caso clinico abstract acquired haemophilia a (aha) is a rare disorder with a high mortality rate. it occurs due to autoantibodies against coagulation factor viii (fviii) which neutralise its procoagulant function resulting in severe bleeding. this disease may be associated with autoimmune diseases, malignancies, infections or medications and occurs most commonly in the elderly. diagnosis is based on the isolated prolongation of aptt which does not normalise after the addition of normal plasma along with reduced fviii levels. treatment involves eradication of antibodies and maintaining effective haemostasis during bleeding. we report a case of a 76-year-old patient with a history of haemorrhage with severe anaemia. the article describes difficulties and complexities of clinical and therapeutic management of the patient. keywords: acquired haemophilia, coagulation factor viii, activated partial thromboplastin time a case of serious bleeding cmi 2011; 5(suppl 2): 15-19 1 ss lungodegenza, presidio ospedaliero cottolengo, torino 2 sc medicina interna, presidio ospedaliero cottolengo, torino irene ricca 1, marisa coggiola 1, silvia destefanis 1, claudio pascale 2 un caso di grave diatesi emorragica ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)16 un caso di grave diatesi emorragica 6,1 g/dl; ht = 26%; mcv = 92 fl), valori piastrinici di poco inferiori rispetto ai limiti di norma (plts = 124 × 106/l), non segni di sovradosaggio di acenocumarolo (inr = 2,2), significativo allungamento del tempo di tromboplastina parziale attivato (aptt ratio = 2,13). la gastroscopia aveva evidenziato petecchie gastriche antrali con fini erosioni e mucosa bulbare facilmente sanguinante; la colonscopia era resa difficoltosa dalla presenza di voluminoso laparocele del colon discendente. le indagini radiologiche (tc addome con mdc e colonscopia virtuale) non risultavano diagnostiche per foci occulti di sanguinamento. nel corso del ricovero la paziente veniva sottoposta a terapia trasfusionale (fabbisogno di circa due unità di emazie concentrate prive di leucociti (ecpl)/settimana). in seguito alla comparsa di melena veniva intrapreso trattamento empirico con sandostatina per via endovenosa ottenendo un transitorio miglioramento clinico e dei parametri coagulativi. per quanto riguarda la terapia anticoagulante è stato preferito l’uso dell’eparina a basso peso molecolare (ebpm) data la recidiva di sanguinamento proprio in occasione del tentativo di reintroduzione di acenocumarolo. tuttavia, in corso di terapia anticoagulante con enoxaparina, si assisteva alla ricomparsa di numerosi ed estesi ematomi spontanei con nuova anemizzazione e sintomatologia dolorosa locale. nonostante l’interruzione di ogni terapia anticoagulante nei giorni successivi si assisteva a un progressivo peggioramento della diatesi emorragica senza alterazioni del tempo di protrombina e grave anemizzazione. in considerazione della difficoltà trasfusionale della paziente, portatrice di gruppo sanguigno raro (gruppo a rh-, fenotipo rh ccdee) e della comparsa di anticorpi irregolari, si decideva di non trasfondere e di proseguire uno stretto monitoraggio clinico e dei parametri bioumorali. veniva poi eseguita consulenza ematologica e, nel sospetto di coagulopatia, venivano eseguiti ulteriori accertamenti. i risultati di tali indagini sono riassunti in tabella i. era, inoltre, riscontrata positività per autoanticorpi anti-piastrine igm. i test di coombs diretto e indiretto risultavano negativi. la presenza di un inibitore della coagulazione è stata diagnosticata tramite lo studio di miscela del plasma della paziente con plasma normale con un rapporto di 1:1. questo test non ha corretto il tempo di mitralica biologica con protesi meccanica st jude 27, fibrillazione atriale permanente a bassa penetranza ventricolare, con successivo impianto di pacemaker (pm) definitivo vvir, ipertensione arteriosa, broncopneumopatia cronica ostruttiva (bpco) con interstiziopatia e cuore polmonare cronico, ulcera peptica, osteoporosi con cedimenti vertebrali in sede dorsale, anemia cronica con componente emolitica da protesi cardiaca. non emergevano familiarità per disordini coagulativi, né pregressi episodi di sanguinamenti significativi. all’esame fisico si riscontravano numerosi ematomi diffusi a tutto il corpo, modesti edemi declivi. all’obiettività polmonare si segnalavano crepitii bibasali. gli organi ipocondriaci apparivano nei limiti. gli esami ematici rilevavano una grave anemia normocromica normocitica (hb = indagine risultato valori di riferimento anticoagulante lupico (lac) positivo anticorpi anti-nucleo (ana) positivo 1:160 pattern di fluorescenza: citoplasmatico anticorpi anti-dna negativi antigeni nucleari estraibili (ena) ab anti-rnp y ab anti-sm y ab anti-ss-a y ab anti-ss-b y ab anti-scl-70 y ab anti-jo-1 y negativo negativo negativo negativo negativo negativo ab anti-cellule parietali gastriche negativi ab anti-muscolo liscio negativi ab anti-mitocondrio negativi ab anti-reticolina negativi ab anti-lkm negativi ab anti-tireoglobulina 29 u/ml 0-60 u/ml ab anti-perossidasi 0 u/ml 0-60 u/ml indagini coagulative di secondo livello anticorpi antifosfolipidi igg anti-cardiolipina y igm anti-cardiolipina y igg antiy β2 glicoproteina igm antiy β2 glicoproteina igg anti-protrombina y igm anti-protrombina y 2,5 gpl/ml 21 mpl/ml 1,2 ui/ml 29 ui/ml 1 ui/ml 3 ui/ml 0-10 gpl/ml 0-7 mpl/ml 0-8 ui/ml 0-8 ui/ml 0-8 ui/ml 0-10 ui/ml attività fattore vii 88% 50-129 attività fattore ii 66% 50-150 attività fattore ix 42% 60-150 attività fattore viii 3% 55-150 attività fattore xi 69% 60-150 attività fattore xii 84% 50-150 inibitori fattore viii presenti tabella i risultati delle indagini ematiche eseguite 1 gpl = 1 μg di anticorpo igg purificato; 1 mpl = 1 μg di anticorpo igm purificato ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 17 i. ricca, m. coggiola, s. destefanis, c. pascale normale. il trattamento deve prevedere una prima fase volta al ripristino dell’emostasi in caso di gravi episodi emorragici a cui deve necessariamente far seguito una terapia di tipo immunosoppressivo allo scopo di eliminare il fattore causale della malattia stessa. naturalmente, nel caso in cui si dovesse evidenziare una patologia sistemica responsabile del disordine coagulativo, questa dovrà essere prontamente trattata. sono disponibili numerosi farmaci per controllare l’emorragia. per limitare i sanguinamenti mucosi vengono proposti gli antifibrinolitici [3]. nei pazienti con alto titolo di inibitore, può essere utilizzato il fattore vii attivato ricombinante. questa molecola, mediante l’attivazione del fattore x direttamente sulla superficie delle piastrine attivate nella sede di lesione, è in grado di contrastare l’azione degli anticorpi inibitori presenti nei pazienti con emofilia acquisita, eludendo l’azione del fattore viii e del fattore ix [1,4,5]. in pazienti con inibitori a basso titolo, invece, possono essere utilizzati i derivati del plasma o i concentrati di fattore viii ricombinante umano, a dosi sufficienti per saturare l’inibitore e così raggiungere livelli adeguati di fattore viii [4]. generalmente, può essere raggiunta una buona emostasi con livelli plasmatici di fattore viii dal 30% al 50% [6,7]. tuttavia, può essere molto difficile saturare gli autoanticorpi con il fattore viii concentrato a causa della variabilità della farmacocinetica degli inibitori stessi. sebbene non vi siano studi prospettici randomizzati, possiamo fare riferimento a studi clinici controllati per valutare il dosaggio del fattore viii contromboplastina parziale attivato, suggerendo così la presenza di inibitori specifici della coagulazione (figura 1). analisi quantitative hanno rilevato un ridotto livello di attività del fattore viii e la presenza di inibitori del fattore viii (tabella i). veniva pertanto posta diagnosi di emofilia acquisita di tipo a associata a positività lac (anticoagulante lupico) e blanda positività per anticorpi anti-fosfolipidi. a causa della concomitante protesi meccanica si preferiva non eseguire terapia con procoagulanti (es.: fattore vii attivato, concentrati di fattore viii) per timore di un elevato rischio trombotico successivo al trattamento. veniva bensì impostata terapia immunosoppressiva con metilprednisolone 1 mg/kg/die ed effettuato uno scrupoloso monitoraggio clinico con controllo giornaliero dell’emocromo per una costante valutazione dei rischi/benefici di tale scelta terapeutica. nelle settimane successive si assisteva a un graduale miglioramento dei valori di aptt e dell’emoglobina con contestuale miglioramento clinico e netta riduzione della necessità trasfusionale. a circa un mese dal trattamento è stato possibile reintrodurre la terapia con ebpm, pur inizialmente solo a dosi profilattiche. per la terapia immunosoppressiva a medio termine è stata introdotta azatioprina permettendo così una progressiva riduzione della terapia cortisonica sino a completa sospensione. a circa due mesi dalla diagnosi di aha venivano ripetuti i test coagulativi che dimostravano un netto miglioramento dell’aptt (ratio = 1,24) e una ripresa dell’attività del fattore viii (59%) in assenza di inibitori specifici dimostrabili. persisteva debole positività lac. discussione l’aha rappresenta un evento raro ma grave e potenzialmente mortale [1,2]. la sua eziologia rimane incerta. in circa la metà dei casi, gli autoanticorpi diretti contro il fattore viii si sviluppano senza alcuna causa identificabile, mentre i restanti casi possono essere associati a malattie autoimmuni, infezioni, uso di farmaci, neoplasie [1,2]. la diagnosi può non essere di facile esecuzione e richiede test specifici di tipo emocoagulativo. in particolare, la diagnosi di aha va sempre sospettata in caso di aptt allungato che non si corregge dopo test di miscela con plasma figura 1 risultati del test di miscela. il test è stato eseguito incubando in parti uguali il plasma della paziente con plasma normale rispettivamente per 30 minuti, 1 ora e 2 ore. il tempo di tromboplastina parziale attivata (aptt) è espresso in secondi 40 42 44 48 52 54 2 h1 h30’basale ap tt (s ec ) tempo 46 50 plasma (paziente/plasma normale con rapporto 1:1) 44,2 46,5 49,7 52,2 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)18 un caso di grave diatesi emorragica terapia immunosoppressiva con un farmaco più maneggevole nel medio-lungo termine. la scelta di azatioprina è stata dettata prevalentemente dalla buona esperienza clinica in altre patologie autoimmuni di tipo ematologico (anemia emolitica autoimmune, porpora trombotica idiopatica), ritenendo che un farmaco come ciclofosfamide potesse essere poco maneggevole in una paziente ospedalizzata, a elevato rischio infettivo e con una concomitante cardiopatia. infine, alcuni recenti studi hanno ipotizzato l’utilizzo dell’anticorpo monoclonale anti-cd20 (rituximab) sia in monosomministrazione sia in associazione con altri agenti immunosoppressivi [1,4,8,9]. tale molecola, infatti, agendo direttamente sulle cellule produttrici degli inibitori, garantirebbe una rapida clearance anticorpale con conseguente miglioramento della crasi ematica [8]. tuttavia, i dati in merito a tale trattamento nella aha sono ancora pochi e in parte discordanti e necessiterebbero pertanto di essere convalidati nell’ambito di studi clinici controllati. per questo motivo l’utilizzo di rituximab nel trattamento della aha viene ad oggi considerato fuori indicazione e non giustificato essendo disponibili più consolidate alternative terapeutiche. in effetti, nel caso della nostra paziente si era presa in esame anche tale ipotesi terapeutica ma solo nel caso in cui non si fosse ottenuto un significativo miglioramento dalla terapia cortisonica. in conclusione, l’emofilia acquisita è un’entità estremamente rara. la sua diagnosi richiede esperienza clinica e competenza laboratoristica. il medico dovrebbe sospettare una diagnosi di emofilia acquisita in tutti i casi di sanguinamento inspiegabile persistente, soprattutto se a carico dei tessuti molli o delle mucose e in ogni paziente che presenta un prolungato tempo di tromboplastina parziale attivata senza altra causa. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. centrato nell’ambito dell’emofilia acquisita. secondo questi studi, può essere utilizzata una dose di carico variabile da 20 a 50 ui/kg seguita o da boli refratti (20-50 ui/kg ogni 6-8 ore) o da una dose di mantenimento in infusione continua (da 3 a 4 ui/kg/ora) [47]. nel caso qui descritto, il test bethesda per il dosaggio degli inibitori non era immediatamente disponibile e pertanto, anche in considerazione delle comorbilità della paziente, abbiamo preferito non somministrare alcun fattore, monitorando la situazione clinica e i parametri coagulativi. la nostra esperienza ha dimostrato come, pur tenendo sempre in considerazione le linee guida o le raccomandazioni terapeutiche derivanti dagli studi clinici, queste debbano essere comunque rivalutate alla luce del singolo caso nella sua complessità clinica. la nostra paziente, infatti, pur presentando numerosi ematomi muco-cutanei e saltuari episodi di melena, non appariva in immediato rischio di vita. d’altra parte, la paziente era portatrice di una valvola meccanica, situazione notoriamente a elevato rischio tromboembolico, costretta a un allettamento forzato a causa di un vasto ematoma ulcerato alla coscia sinistra e affetta da cardiopatia valvolare. pur presentando un gruppo sanguigno raro, disponevamo presso il centro trasfusionale di alcune unità di emazie concentrate compatibili in caso di peggioramento del quadro clinico. queste considerazioni ci hanno portato a preferire un atteggiamento astensionistico in termini di terapia antiemorragica sperando in una pronta risposta al trattamento immunosoppressivo. in base alle recenti linee guida, infatti, la terapia immunosoppressiva con steroidi (1 mg/kg/ die per via orale per 4-6 settimane) o con ciclofosfamide deve essere iniziata non appena accertata la diagnosi di aha, con l’intento di bloccare la produzione di nuovi inibitori [2,4]. la nostra paziente ha risposto bene alla terapia immunosoppressiva con corticosteroidi, pur manifestando dopo circa un mese di trattamento tutti gli effetti collaterali legati alla terapia (diabete mellito iatrogeno, irrequietezza, facies lunaris). dopo aver ottenuto una buona clearance degli inbitori selettivi, si è pertanto scelto di modificare la ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 19 i. ricca, m. coggiola, s. destefanis, c. pascale bibliografia shetty s, bhave m, ghosh k. acquired hemophilia a: diagnosis, aetiology, clinical spectrum 1. and treatment options. autoimmun rev 2010; nov 27 [epub ahead of print] franchini m, lippi g. acquired factor viii inhibitors. 2. blood 2008; 112: 250-5 fraser is, porte rj, kouides pa, lukes as. a benefit-risk review of systemic haemostatic agents: 3. part 1: in major surgery. drug saf 2008; 31: 217-30 huth-kühne a, baudo f, collins p, ingerslev j, kessler cm, lévesque h et al. international 4. recommendations on the diagnosis and treatment of patients with acquired hemophilia a. haematologica 2009; 94: 566-75 franchini m, lippi g. recombinant activated factor vii: mechanisms of action and current 5. indications. semin thromb hemost 2010; 36: 485-92 schramm w. haemate p von willebrand factor/factor viii concentrate: 25 years of clinical 6. experience. haemophilia 2008; 14(suppl 5): 3-10 berntorp e, archey w, auerswald g, federici ab, franchini m, knaub s et al: a systematic 7. overview of the first pasteurised vwf/fviii medicinal product, haemate p/humate -p: history and clinical performance. eur j haematol suppl 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(hb = 10,6 g/dl; mvc o volume corpuscolare medio dei globuli rossi = 75 fl) e aumento netto degli indici infiammatori aspecifici (pcr o proteina c reattiva = 37,54 mg/dl; ves o velocità di eritrosedimentazione = 72 mm/ora). il compenso glicemico era discreto ma non ottimale (glicemia = 225 mg/dl); gli ormoni tiroidei erano normali con il trattamento sostitutivo. in urgenza si eseguiva risonanza magnetica nucleare (rmn) con mezzo di contrasto [1] della colonna dorsale, che caso clinico la paziente, cinquantacinquenne, da anni era in terapia insulinica per diabete mellito di tipo 2; all’anamnesi risultavano esiti di tiroidectomia per struma, pregresse coliche renali in nota calcolosi, anemia ipocromica microcitica mai indagata, obesità e, nel 2006, diagnosi di tromboembolismo venoso dell’asse femoro-popliteo destro. in tale occasione lo screening trombofilico eseguito era risultato negativo, come quello tumorale. al momento del ricovero la paziente non era in terapia anticoagulante orale o in terapia antiaggregante. circa 2 mesi prima del ricovero, la donna lamentava febbricola e dolore dorsale ingravescente, ma sottostimato dalla stessa, che si automedicava con utilizzo di antinfiammatori non steroidei e steroidi (fino a 25 mg di prednisone al giorno). a febbraio 2010 la paziente avvertiva la comparsa di netti segni e sintomi neurologici: ipostenia-ipoestesia progressive corresponding author dott.ssa elisabetta zoppis elisabettazoppis@tiscali.it caso clinico abstract a woman suffering from type 2 diabetes mellitus was admitted, in april 2010, to the internal medicine department for hyperpyrexia: then a diagnosis for spondylodiscitis d3d4 (staphylococcus aureus) was made. during these last months, we diagnosed sepsis due to staphylococcus epidermidis and escherichia coli, lung consolidation and critical respiratory failure of the 1st type, pulmonary infection due to candida albicans, and anaemia of multifactorial origin. during pet examination the tracer was initially fixed on the dorsal side, after an antibiotic treatment just at the level of the large intestine’s walls. the diagnosis that explained the chronic anaemia, the spondylodiscitis and the recurring sepsis with pneumonia was made thanks to the colonscopy and the calprotectin increase: crohn disease in relative activity. keywords: spondylodiscitis, crohn disease, sepsis a hidden pathology: crohn disease cmi 2011; 5(suppl 2): 59-64 1 s.c. medicina interna ii, ospedale maggiore della carità, novara elisabetta zoppis 1 una patologia nascosta: il morbo di crohn ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)60 una patologia nascosta: il morbo di crohn estendeva a sinistra verso lo spazio pleurico, espressione di un’ampia formazione similcistica (figure 1 e 2). la rmn permetteva di porre diagnosi di focolaio spondilodiscitico d3-d4 con ascesso esteso a manicotto perivertebrale, epidurale e pleurico. la biopsia tac-guidata (figura 3) venne effettuata sia come atto terapeutico (detensione della raccolta purulenta) sia diagnostico, con prelievo di materiale paravertebrale e pleurico a sinistra. la coltura dell’essudato risultava positiva per staphylococcus aureus, il batterio più comunemente implicato nella genesi della spondilodiscite in almeno il 35-40% dei casi [1] e veniva avviata antibiotico-terapia con teicoplanina 600 mg/die, poi rifampicina 600 mg/die + levofloxacina 500 mg, secondo l’antibiogramma disponibile e considerando anche le linee guida del trattamento delle spondilodisciti [1] che prediligono questa scelta di farmaci. a completamento diagnostico e per la sua successiva utilità nel follow-up terapeutico, venne richiesta fdg pet (tomografia a emissione di positroni con 2-fluoro-2-desossi-d-glucosio) [2], che offre il vantaggio di verificare l’efficacia della terapia stessa. la pet confermava la presenza di un’area infiammatoria a livello di d3-d4 e di aree di accumulo aspecifico meno intenso nella regione sigma/ano-retto. i neurochirurghi non ponevano indicazione alla stabilizzazione chirurgica della lesione, per deficit neurologico consolidato da tempo e per la presenza di paziente clinicamente compromessa: allettamento, obesità, posizionamento di catetere venoso centrale per nutrizione parenterale, dovuta anche al rifiuto della paziente all’alimentazione e per la terapia cronica con oppioidi, atta a limitare il dolore neuropatico toraco-addominale. in aprile la paziente veniva trasferita in medicina interna per iperpiressia: la radiografia del torace, l’ecografia dell’addome superiore/inferiore e l’urinocoltura erano negativi per la determinazione di sedi di infiammazione. per la ricerca di focolai infettivi oltre a quello vertebrale, considerando le pluripatologie della paziente, si eseguiva un’ecocardiografia, risultata negativa per vegetazioni valvolari, e tre emocolture con rimozione del catetere venoso centrale (cvc), normofunzionante ma con cute sovrastante lievemente arrossata. si evidenziava positività per staphylococcus epidermidis ed escherichia coli, produttore esteso di beta-lattamasi.veniva perciò modificata la terapia antibiotica sempre secondo l’antibiodimostrava assenza del disco intervertebrale con lesione osteolitica dei somi di d3 e d4, (ipodensità del corpo vertebrale in t1 (tempo di rilassamento della magnetizzazione che ritorna sul piano longitudinale), iperdensità t2 (tempo di rilassamento della magnetizzazione che ritorna sul piano trasversale), stir tse figura 1 risonanza magnetica nucleare (rmn) della colonna dorsale con mezzo di contrasto: è possibile notare l ’ipodensità del corpo vertebrale in t1 figura 2 la risonanza magnetica nucleare (rmn) con mezzo di contrasto consentiva di evidenziare l ’iperdensità in t2 (short-tau inversion recovery turbo spin echo) espressione di elevato contenuto liquido come nelle sedi flogistiche, alterazione del segnale midollare e cancellazione degli spazi subaracnoidei perimidollari. si associava manicotto di tessuto paravertebrale iperdenso, che si ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 61 e. zoppis cola. l’anemia era talmente marcata da richiedere emotrasfusioni, ma si collocava in un contesto clinico silente dal punto di vista del dolore addominale (sezione midollare d3-d4) o dell’emorragia acuta. il profilo marziale evidenziava anemia microcitica sideropenica con una relativa riduzione delle riserve marziali: hb = 7,7 g/dl; mcv = 70 fl; pcr = 15 mg/dl; wbc = 13.800/μl; sideremia = 13 μg/dl; ferritina non drasticamente ridotta (200 ng/ml), che abbiamo considerato frutto di un probabile disturbo infiammatorio associato a carenza marziale, anche per la presenza di sangue occulto in tre campioni di feci. alla pet (in programma come controllo a sei mesi dalla diagnosi) il tracciante veniva fissato non più in sede dorsale, ma solo a livello delle pareti dell’intestino crasso, che appariva allungato oltre la norma. in base a questi dati emato-strumentali, venivano richiesti esami endoscopici (gastroscopia e colonscopia) e la determinazione di calprotectina (risultata positiva con un valore di 72 g/kg). le lesioni tipiche riscontrate alla colonscopia prima e all’istologia della biopsia della mucosa colica poi, hanno permesso di diagnosticare morbo di crohn in fase di moderata attività. l’attività della malattia cronica intestinale è stata valutata da quadro endoscopico stadio 2 con edema della mucosa, perdita del pattern vascolare, erosioni e fragilità e da quadro clinico (febbre, calo ponderale) e di laboratorio (anemia e flogosi). discussione nella paziente in esame le lesioni coliche determinate dalla malattia cronica ingramma, avviando piperacillina-tazobactam 4,5 g × 3/die e mantenendo teicoplanina 600 mg/die come prosieguo della terapia della spondilodiscite (indicazione secondo linee guida a un trattamento ev per almeno 6-9 settimane) [3]. a un mese della diagnosi di spondilodiscite e per la presenza della nuova sepsi, gli indici di flogosi, monitorizzati, rimanevano elevati. dopo un relativo miglioramento delle condizioni cliniche, a maggio compariva improvvisamente un episodio di insufficienza respiratoria acuta di tipo i: per l’allettamento protratto, la paraplegia, le pregresse infezioni e la pregressa trombosi venosa profonda (tev ), inizialmente ci si orientava per un episodio di tromboembolismo acuto e veniva eseguito ecocolordoppler venoso degli arti inferiori, con evidenza di parziale trombosi della femorale destra (ma non era dirimente circa un recente evento e l’esito della pregressa tev ) e si eseguiva angiotac del torace, che escludeva tromboembolia polmonare acuta (tepa), ma mostrava un addensamento polmonare paracardiaco destro. le emocolture effettuate in seguito erano positive per proteus mirabilis, mentre la coltura dell’escreato risultava negativa. si decideva di effettuare un controllo con rmn della colonna dorsale, sia per valutare l’efficacia dell’antibioticoterapia sulla spondilodiscite, sia come follow-up terapeutico a tre mesi dalla diagnosi e dall’avvio delle terapia antibiotica [4,5]. l’esame strumentale non mostrava infezione in atto ma la scomparsa del soma di d3, senza alterazioni di segnale, compatibile con risoluzione dell’infezione localizzata al rachide. oltre ad antibioticoterapia mirata verso proteus mirabilis (amikacina 1 g/die), si sostituiva enoxaparina, somministrata come profilassi medica della tev/tepa, con fondaparinux 7,5 mg/die sc per il trattamento della tev, e si posizionavano calze a compressione di 18 mmhg. l’anticoagulante orale non era considerato indicato per la politerapia antibiotica e la verosimile difficoltà a mantenere l’inr nel range terapeutico. nuovamente, dopo un periodo di relativo benessere, a luglio 2010 assistevamo a un’altra infezione con comparsa di polmonite lobare basale destra. le emocolture, l’escreato delle colture e la coltura cvc erano compatibili con la diagnosi di sepsi da candida albicans, trattata con fluconazolo (400 mg/die ev) per 14 giorni. a settembre 2010, dopo guarigione dall’infezione fungina, ricompariva febbrifigura 3 la biopsia tacguidata: è possibile notare il tragitto dell ’ago bioptico che penetra nell ’ascesso paravertebrale e pleurico sinistro ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)62 una patologia nascosta: il morbo di crohn sono inderogabili e di aiuto per l’antibioticoterapia mirata le emocolture e la coltura di materiale bioptico/chirurgico. il microbo maggiormente implicato nell’infezione è lo staphylococcus aureus; nell’elenco sottostante sono indicati i patogeni causanti le spondilodisciti e la loro percentuale di riscontro. y staphylococcus aureus meticillino-resistente 35-40%; y escherichia coli 23%; y pseudomonas aeruginosa 5%; y proteus mirabilis 3%; y streptococcus sanguis 8%; y streptococcus agalactiae 5%; y candida; y mycobacterium tuberculosis; y brucella. l’infezione ha origine da cute e tessuti molli (12%), dispositivi intravascolari (3%), infezioni con diffusione ematogena (15%), ferite infette (12%), artrite settica (12%) e causa ignota (48%) [6]. gli esami strumentali per la diagnosi di spondilodiscite con più elevata specificità e sensibilità sono la risonanza magnetica con mezzo di contrasto e la fdg pet. il gold standard per l’imaging rimane la rmn con gadolinio per le sue elevate sensibilità (96%) e specificità (94%), per la capacità di rilevare le alterazioni di segnale sia a livello midollare sia osseo, e anche quelle delle strutture adiacenti. risulta poi l’esame principe per il follow-up terapeutico, che dalla letteratura viene modulato con la tempistica a tempo 0 (alla diagnosi), dopo tre e sei mesi di terapia antibiotica (m0-3-6) [4]. esistono alcuni studi clinici che confutano tale utilizzo, sostenendo che le anomalie radiologiche spesso persistono anche nei pazienti in cui si osservano ottimo andamento clinico e risposta biologica all’antibiotico-terapia [7]. la fdg pet sta diventando l’esame radiologico in sostituzione della rmn con mdc per alcune caratteristiche radiologiche e cliniche non riscontrabili nel precedente: bassa esposizione alle radiazioni, più elevata sensibilità (100%) e capacità della valutazione dell’attività infiammatoria nella sede della lesione. quest’ultimo dato può essere utile nella valutazione dell’efficacia della terapia. è invece di scarsa utilità per la diagnosi differenziale tra le infezioni e le neoplasie. anche la pet è indicata da alcuni autori come esame per il follow-up terapeutico (m0-6-12) [2]. la radiografia della colonna e la scintigrafia con leucocitestinale possono essere la sede dei focolai emboligeni settici determinanti le sepsi recidivanti, come i numerosi episodi di polmoniti, e giustifica l’origine della stessa spondilodiscite. infatti con l’avvio di metilprednisolone 1 mg/kg/die, budesonide 9 mg/die, mesalazina 4,5 g/die [4] dopo poche settimane abbiamo riscontrato la risoluzione clinica della febbre e la normalizzazione degli esami di laboratorio. a ottobre 2010 i risultati degli esami ematologici erano: wbc = 6.480/μl; neutrofili (n) = 41%; hb = 13 g/dl; mcv = 86 fl; pcr = 0,44 mg/dl; ves = 10 mm/ora. la spondilodiscite è l’infezione primaria del disco intervertebrale con interessamento osseo (95% nel corpo vertebrale; 5% nei processi trasversi) e viene considerata una patologia rara. è sottostimata: a volte viene diagnosticata con un ritardo anche di 2-4 mesi dall’esordio subacuto, con possibili sequele invalidanti e gravi. negli anni ’80 l’incidenza era decisamente inferiore (5 casi/1.000.000 di abitanti all’anno), mentre attualmente si aggira intorno a 2-20/1.000.000 abitanti all’anno. il rapporto di incidenza tra i sessi è m : f = 3 : 1 ed esistono due picchi di età: nell’infanzia (in cui è maggiormente coinvolto il disco intervertebrale) e nella vi/vii decade. la mortalità è del 2% nei pazienti immunocompromessi. la recidiva è dello 0,7% a 5 anni. i fattori di rischio sono: l’età avanzata, la malnutrizione e l’obesità, gli immunodeficit (congeniti/acquisiti), il diabete mellito, lo stato settico, la presenza di cateteri vascolari e urinari, la terapia cronica con steroidi, l’artrite reumatoide, l’insufficienza renale cronica, le epatopatie croniche, la recente chirurgia viscerale o vertebrale (discectomia), i politraumi e le malattie cardiovascolari croniche. la distribuzione anatomica vede alcune sedi maggiormente interessate: colonna lombare 60%, colonna dorsale 20%, colonna cervicale 15%, sede multifocale 5%. per indirizzare la diagnosi, i segni più evidenti sono: deficit neurologici (radicolopatie fino para/tetraplegia), ipoestesiaanestesia e vescica neurologica. i sintomi sono aspecifici e non sempre evidenziabili: febbre a 38 °c (25%), rigidità del rachide, dolore irradiato, anoressia, astenia, calo ponderale. anche le alterazioni degli esami ematici sono molto poco patognomoniche e prevedono leucocitosi neutrofila, aumento della proteina c reattiva, della ves e del fibrinogeno anche in modo considerevole. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 63 e. zoppis conclusioni il presente caso clinico è volto a illustrare come spesso la diagnosi definitiva si ottenga dopo un lungo periodo costellato da complicanze, che possono essere fuorvianti. in questa paziente la causa dell’origine delle numerose infezioni, dell’anemia microcitica e sideropenica, della spondilodiscite e delle numerose polmoniti, viene in definitiva attribuita a una malattia infiammatoria cronica, il morbo di crohn: le lesioni ulcerose coliche sono la sede dell’origine dei focolai emboligeni settici. nell’ambito della flogosi sistemica, abbiamo approfondito l’argomento inerente alle spondilodisciti, in quanto malattia rara, spesso sottostimata, sia per i segni e i sintomi inizialmente aspecifici, sia per il ritardo nell’esecuzione degli esami strumentali principi per la diagnosi finale: la rmn con mdc e la fdg pet. tali sono gli esami di riferimento per porre diagnosi e secondo alcuni autori, ma in modo discordante, anche per il follow-up terapeutico e la conseguente scelta della risoluzione o continuazione della terapia antibiotica. la stessa terapia antibiotica, scelta empiricamente o con le indicazioni dettate dall’antibiogramma della coltura della lesione biopsiata, è volta alla risoluzione e alla guarigione o alla limitazione del danno neurologico, qualora coesistessero spondilodiscite e interessamento e sezione midollare. la terapia chirurgica è utilizzata per il debridement o se comparissero deficit neurologici acuti o deformazioni, nonostante la terapia medica. disclosure l’autrice dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. ti marcati o anticorpi marcati sono ormai esami strumentali in disuso come primo approccio diagnostico, a causa della bassa specificità (rx = 57% e in aumento solo dopo due settimane dall’esordio clinico; scintigrafia = 91%), e bassa sensibilità (rx = 82%; scintigrafia = 87%) rispetto ai precedenti esami. inoltre la radiografia standard della colonna non è in grado di differenziare l’iniziale lesione flogistica con la spondiloartrosi. l’utilizzo della scintigrafia rimane una valida alternativa nei pazienti che non possono essere sottoposti a rmn (portatori di pacemaker o di defibrillatori cardiaci impiantabili) [1]. la terapia delle spondilodisciti può essere di tipo conservativo-medico o di tipo chirurgico. la terapia conservativa prevede l’utilizzo di antibiotici secondo le indicazioni dell’antibiogramma ottenuto dalla coltura della lesione oppure antibiotici somministrati con metodo empirico e secondo la letteratura [1] utilizzando levofloxacina 500 mg/die + rifampicina 600 mg/die, oppure teicoplanina 600 mg/die in associazione con rifampicina 600 mg/die, e anche vancomicina 500 mg per 4 volte/die + rifampicina. la somministrazione sarà endovenosa per le prime 4-8 settimane, seguite poi da un trattamento per os per altre 6 settimane [1]. la terapia chirurgica, qualora non vi siano danni midollari irreversibili, prevede la stabilizzazione vertebrale con placche di titanio [8] nei casi selezionati di deficit neurologici acuti (radiculopatia, cauda equina, para/tetraplegia) e nel trattamento delle conseguenti deformazioni, se si verifica il fallimento della terapia conservativa. inoltre la chirurgia interviene per il debridement della sede di infezione. bibliografia sobottke r, seifert h, fätkenheuer g, schmidt m, goßmann a, eysel p. current diagnosis 1. and treatment of spondylodiscitis. dtsch arztebl int 2008; 105: 181-7 gratz s, dörner j, fischer u, behr tm, béhé m, altenvoerde g et al. 18f-fdg hybrid pet 2. in patients with suspected spondylitis. eur j nucl med 2002; 29: 516-24 ozuna rm, delamarter rb. pyogenic vertebral osteomyelitis and postsurgical disc space 3. infections. orthop clin north am 1996; 27: 87-94 bettini n, girardo m, dema e, cervellati s. evaluation of conservative treatment of non specific 4. spondylodiscitis. eur spine j 2009; 18 (suppl 1): 143-50 straforini g, brugnera r, tambasco r, rizzello f, gionchetti p, campieri m. news and 5. controversy in inflammatory bowel disease treatment. ital j med 2009; 3: 179-86 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)64 una patologia nascosta: il morbo di crohn kowalski ajnr. follow-up mr imaging in patients with pyogenic spine infections: lack of 6. correlation with clinical features. am j neuroradiol 2007; 28: 693-9 zarrouk v, feydy a, sallès f, dufour v, guigui p, redondo a et al. imaging does not predict 7. the clinical outcome of bacterial vertebral osteomyelitis. rheumatology 2007; 46: 292-5 robinson y, tschoeke sk, finke t, kayser r, ertel w, heyde ce. successful treatment of 8. spondylodiscitis using titanium cages. acta orthopaedica 2008; 79: 660-4 cmi 2015;9(1)33-33.html ringraziamento dei referee (giugno 2014 – marzo 2015) la redazione di cmi – clinical management issues desidera ringraziare tutti i referee che, con il loro supporto e con la loro fattiva collaborazione, hanno contribuito a migliorare il rigore scientifico, la precisione e l’accuratezza dei contenuti della rivista. maria tiziana bertero giovanni cammarota gianluca catania mario catanzaro massimo cecchi francesco cortese domenico d’amico giuseppe de socio daniela drandi marco foppoli francesco saverio grossi pietro lampertico andrea lo vecchio roberto manfredi maria teresa mascia mauro mennuni sebastiano mercadante franco mongini giuseppe morgia giancarlo orofino francesco saccardo marco sebastiani gabriele stocco paul thompson michele viana maria claudia vigliani alessandro volpe cmi 2015;9(4)101-108.html a temible complication of ischemic stroke: pulmonary embolism linda iurato 1, giovanna randisi 1, josita torrisi 1, roberto grimaldi 1, grazia naso 1, sara verniccio 1, clorinda occhipinti 1, michele maria vecchio 2 1 u.o.c. di neurologia, asp caltanissetta presidio ospedaliero sant’elia 2 direttore u.o.c. di neurologia asp caltanissetta p.o. sant’elia abstract stroke is a leading cause of death and disability and is the third highest cause of death in the western world. medical illness after ischemic stroke contribute substantially to poor stroke outcomes. the early in-hospital complications of stroke patients are mainly: pneumonia (hospital acquired pulmonary infection), increased intracranial pressure (neuroimaging evidence of cerebral edema or brain shift syndrome with clinical deterioration), urinary tract infection, intracerebral bleeding, recurrent stroke, epileptic seizures, thrombosis or pulmonary embolism. all these complications influence the patient’s outcomes and require diagnostic and therapeutic measures. pulmonary embolism is a major contributor to in-hospital death after stroke. although the rate of clinically overt pulmonary embolism after stroke has been estimated to be less than 1%, pulmonary emboli account for up to 50% of early deaths after stroke. in daily practice, the clinical burden of pulmonary embolism in patient with stroke is, however, underestimated since the clinical symptoms of stroke may obscure the recognition of this complication. the aim of this article is to describe the clinical and therapeutic aspects of pulmonary embolism as complication after stroke. keywords: ischemic stroke; pulmonary embolism; complications una temibile complicanza dell’ictus ischemico: l’embolia polmonare cmi 2015; 9(4): 101-108 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i4.1196 clinical management corresponding author dr linda iurato lindaiurato@yahoo.it disclosure the authors declare they have no conflict of interests regarding the publication of this article introduction pulmonary embolism (pe) is a widespread and life-threatening condition, representing the second cause of sudden death [1]: in fact, most patients affected by pulmonary embolism die within the first few hours from the event. although several diagnostic advances have been made in recent years, delays in the diagnosis are common and represent an important limit. frequently, the diagnosis of pe is missed due to non-specific signs and symptoms. if left untreated, about one-third of patients who survive an initial pulmonary embolism die from a subsequent embolic episode. when a case of pe is recognized, it has to be classified as acute or chronic. in terms of pathologic diagnosis, an embolus is acute if it is situated centrally within the vascular lumen or if it occludes a vessel. acute pe commonly causes distention of the involved vessel. an embolus is chronic if it is eccentric and contiguous with the vessel wall and reduces the arterial diameter by more than 50%, and evidence of recanalization within the thrombus is present. pe is also categorized as central or peripheral, depending on the location of the arterial branch involved. the aim of this article is to focus on pulmonary embolism as complication of ischemic stroke. risk assessment of deep-vein thrombosis and epidemiology of pe in ischemic stroke pe is an uncommon but serious medical complication after an acute ischemic stroke (ais). an effective thromboprophylaxis and an early diagnosis and treatment of venous thrombosis embolism (vte) have been shown to reduce effectively the morbidity and mortality from pe. in fact, pe is characterized by non-specific signs and symptoms, resulting in a correct and timely diagnosis just in a small percentage of patients who manifest objective symptoms. especially elderly patients are often underdiagnosed and misdiagnosed. no reliable clinical signs and symptoms have been identified to make a definitive clinical diagnosis of dvt: when ancillary investigations enable the diagnosis, generally the patients are asymptomatic. pe generally arises from venous thromboembolism developing in a paralyzed lower extremity after a stroke. the overall prevalence of clinically evident deep vein thrombosis (dvt) after acute stroke is around 2-20% and it develops mainly between two and seven days after the event [2]. it can lead to post-thrombotic leg and varicose ulcers in addition to delaying rehabilitation. the most powerful tool to lower the risk of dvt is prevention, feasible using maneuvers like: early mobilization; administration of antithrombotic agents; and the use of external compression device. factors with positive predictive value of dvt poststroke are: female gender; older age; body mass index (bmi) ≥ 25 kg/m2; cancer; hemorrhagic subtype stroke; and a lower limb nihss score ≥ 2 [2]. in fact, obesity may restrict venous return secondary to body fat, preventing an efficient blood flow. in addition, fatty tissue has a proinflammatory, prothrombotic, and hypofibrinolytic role. this is why the risk of dvt is directly proportional to body weight. the detection of an increased occurrence in patients affected by hemorrhagic stroke subtype may be attributed to the lack of antithrombotic usage after a hemorrhagic stroke. dehydration in acute stroke patients and the severity of leg weakness may also increase the risk of post-stroke dvt. the annual incidence rate of pe in the general population is 0.50 to 0.69 per 1000 persons [3]; the mortality is high, ranging between 8.6% and 17% at 3 months. immobility, older age, smoking, hypertension, thrombophilia, and cancer are commonly reported risk factors of pe and they are also frequent in ais patients. pongmoragot and colleagues have described the clinical characteristics, risk factors and relevant clinical outcomes in patients who developed a pe within 30 days after an ais [3]. almost one-third of these patients died in the hospital after ais and had higher rates of disability, higher case fatality at 30 days and 1 year, higher prevalence of in-hospital complications and only 1 out of 5 patients were discharged home. the risk of pe in ais patients was higher in older patients with more severe stroke, history of cancer or dvt/pe or dvt during admission in stroke unit. pe was more frequent in cardioembolic and large artery atherosclerosis subtype stroke [3]. in fact, stroke subtypes are: lacunar, cardioembolic, large artery atherosclerosis, other, cryptogenic stroke. diagnosis of pe as reported in the pioped study, patients with acute pe often present with dyspnea or chest pain (table i). symptom incidence dyspnea 73% pleuritic chest pain 66% cough 37% hemoptysis 13% table i. the pioped study reported the following incidence of common symptoms of pe [4] pulmonary embolism may present with a variety of symptoms, ranging from sudden catastrophic hemodynamic collapse (often observed in patients with prior poor cardiopulmonary status) to gradually progressive dyspnea. patients with pe may also present with atypical symptoms, such as: seizures; syncope; abdominal pain; fever; productive cough; wheezing; decreasing level of consciousness; new onset of atrial fibrillation; flank pain; and delirium (in elderly patients) [1]. if pulmonary infarction occurs, patients may also experience pleuritic chest pain with hemoptysis. the possibility of massive pe should be considered in patients who have a sudden onset of syncope, hypotension, extreme hypoxemia, electromechanical dissociation, or cardiac arrest. strong suspicion of pe is based on the presence of risk factors that lead to consider pe in the differential diagnosis [1]. the risk factors reported hereafter can be indications for the presence of pulmonary embolism: venous stasis; hypercoagulable states; immobilization; surgery and trauma; pregnancy; oral contraceptive and estrogen replacement; malignancy; hereditary factors resulting in a hypercoagulable state; acute medical illness; drug abuse (intravenous drugs); drug induced lupus anticoagulant; hemolytic anemias; heparin associated thrombocytopenia; homocystinemia; homocystinuria; hyperlipidemias; phenothiazines; thrombocytosis; varicose veins; venography; venous pacemaker; warfarin (first few days of therapy); and inflammatory bowel disease. the pioped study listed also some indicators for pe [4]: travel lasting 4 hours or more in the past month; surgery within the last 3 months; malignancy, especially lung cancer; current or past history of thrombophlebitis; trauma in the lower extremities and pelvis during the past 3 months; smoking; central venous instrumentation within the past 3 months; stroke, paresis or paralysis; prior pulmonary embolism; heart failure; and chronic obstructive pulmonary disease (copd). among the biomarkers offering useful clinical information [5]: cardiac troponin levels may be elevated, particularly in patients with acute pe; plasma b-type natriuretic peptide was found elevated in patients with rv dysfunction from acute pe; and d-dimer test indicates possible pe; it has a sensitivity of 96-98%, but the test alone is non specific, because it results positive also in case of cancer, infection, injury, and inflammation; therefore it has to be evaluated together with clinical signs and symptoms. anyway the d-dimer test is not predictive of dvt in stroke patients. among the instrumental test helping the diagnosis, ct angiography has the greatest sensitivity and specificity for detecting emboli in the main, lobar, or segmental pulmonary arteries. the echocardiogram is fundamental both to study the hemodynamic measures of rv and to guide the treatment of pe. the diagnosis of pulmonary embolism should be suspected in patients with respiratory symptoms unexplained by an alternative diagnosis in presence of risk factors. in patients with recognized pulmonary embolism, the main physical signs are [1]: tachypnea (respiratory rate > 16/min); rales; accentuated second heart sound; tachycardia (heart rate > 100/min); fever (temperature > 37,8°c); diaphoresis; s3 or s4 gallop; clinical signs and symptoms suggesting thrombophlebitis; lower extremity edema; cardiac murmur; and cyanosis. pathophysiology of acute pe in acute pe there are both respiratory and hemodynamic consequences. acute respiratory consequences of pe include the following: increased alveolar dead space; hypoxemia; and hyperventilation. additional possible consequences include regional loss of surfactant and pulmonary infarction [1]. arterial hypoxemia is frequently found in patients with acute embolism. the mechanism of hypoxemia includes ventilation-perfusion mismatch, intrapulmonary shunt, reduced cardiac output, and intracardiac shunt via a patent foramen ovale. pulmonary infarction is an uncommon consequence and is due to the bronchial arterial collateral circulation. pe reduces the area of the pulmonary vascular bed, thus causing an increment in pulmonary vascular resistance, which increases the right ventricular afterload. if the afterload is severely increased, the right ventricular failure happens. in addition, the humoral and reflex mechanism contribute to the pulmonary arterial constriction. dvt prophylaxis and therapy of pe in ischemic stroke pe is a potentially preventable complication after stroke [6,7]. the importance of thromboprophylaxis is relevant and is now considered one of the quality measures in a stroke unit [8]. in our department we use to fill a specific form for every patient admitted to neurological ward (table ii). this card with a risk stratification score includes all predisposing factors of the patient and the factors that led to hospitalization and is used for the evaluation of the risk of venous thromboembolism. predisposing factors points* factors related to the event points* personal history of venous thromboembolism 2.0 hemiplegia or paraplegia from neurological damage 2.0 congenital thrombophilia° 2.0 active cancer 2.0 antiphospholipid antibody 2.0 respiratory failure with non-invasive mechanical ventilation 2.0 staying in bed 1.5 chemotherapy or radiotherapy or hormone therapy 2.0 obesity (bmi > 30) 1.0 heart failure iii-iv cl. nyha 2.0 contraceptive pill or replacement therapy after menopause 1.0 acute infectious disease including sepsis 2.0 congenital thrombophilia§ 1.0 copd exacerbation 1.0 varicose vein 1.0 myocardial infarction 1.0 reduced mobility 1.0 minor surgery 1.0 familiar history of venous thromboembolism 1.0 high risk surgery 2.0 age 40-60 0.5 chronic inflammatory bowel disease 1.0 60-75 1.0 > 75 1.5 table ii. form filled for every patient admitted in the neurological ward. the reference guidelines are those used in tuscany region [9] bmi = body mass index; copd = chronic obstructive pulmonary disease; nyha = new york heart association *circle where appropriate °lack of antithrombin, c protein, s protein, homozygosity for leiden v factor or g20210a prothrombin or double heterozygous §heterozygous for v leiden factor or g20210a prothrombin by adding the points, an individual score is obtained. the risk stratification is consequently made as indicated in table iii. prophylaxis is generally performed throughout the period of hospitalization and even beyond if reduced mobility persists, up to a maximum of 28 days. in our ward, we prescribe low-molecular-weight heparin (lmwh) according to the form reported in tables ii and iii. we find it useful, however this isn’t a validated score. we report also the padua prediction score [10] (table iv), a validated score conceived by an italian group and now spreading, also due to the inclusion in the american college of chest physicians guidelines about the prevention of vte in nonsurgical patients [11]. it is deemed to be the best clinical model now available to assess the thrombotic risk in hospitalized patients. individual score risk stratification prophylaxis < 2.5 low no prophylaxis ≥ 2.5 high lmwh or fondaparinux 2.5 mg > 4 high consider adding also physical setting table iii. risk stratification for pulmonary embolism and need for thromboprophylaxis. the reference guidelines are those used in tuscany region [9] lmwh = low-molecular-weight heparin baseline features score active cancer* 3 previous vte (with the exclusion of superficial vein thrombosis) 3 reduced mobility† 3 already known thrombophilic condition‡ 3 recent (≤ 1 month) trauma and/or surgery 2 elderly age (≥ 70 years) 1 heart and/or respiratory failure 1 acute myocardial infarction or ischemic stroke 1 acute infection and/or rheumatologic disorder 1 obesity (bmi ≥ 30) 1 ongoing hormonal treatment 1 table iv. risk assessment model (high risk of vte: ≥ 4) of the padua prediction score [10] bmi = body mass index; vte = venous thromboembolism * patients with local or distant metastases and/or in whom chemotherapy or radiotherapy had been performed in the previous 6 months. † bedrest with bathroom privileges (either due to patient’s limitations or on physicians order) for at least 3 days. ‡ carriage of defects of antithrombin, protein c or s, factor v leiden, g20210a prothrombin mutation, antiphospholipid syndrome. national institute for health and care excellence (nice) guidelines 2015 [12] for patients admitted for stroke recommend not to offer anti-embolism stockings for vte prophylaxis to patients, but consider offering prophylactic-dose lmwh (or unfractionated heparin for patients with severe renal impairment or established renal failure) if: a diagnosis of hemorrhagic stroke has been excluded; and the risk of bleeding (hemorrhagic transformation of stroke or bleeding into another site) is assessed to be low. anti-embolism stockings are not recommended for ischemic stroke, but they are important and recommended in case of hemorrhagic stroke. the reason of this decision lies in the data from clot 3 study [13], showing that patients who have used intermittent pneumatic compression (ipc) up to six months after stroke have a more severe disability than patients treated with medical therapy alone. in our opinion, these data are inconclusive because it is important to distinguish between ischemic and hemorrhagic stroke in the trials and also to study patients similar in severity at the onset of stroke. unfractionated heparin (ufh) and lmwh reduce dvt after ais; also intermittent pneumatic compression reduces the risk of dvt in ais with immobility. the italian clinical guidelines for ischemic stroke management recommend prophylactic lmwh or ufh to all immobilized patients with no contraindications. a low dose of lmwh or ufh seems to be effective and relatively safe as a prophylactic agent to prevent venous thromboembolism in patients with ischemic stroke. in these patients, the benefit-risk profile seems best for low-dose lmwh [14]. the duration of antithrombotic prophylaxis in almost all studies was 14 days or less. since the occurrence of pulmonary embolism peaks at 2-4 weeks after stroke onset, it is possible that the duration of prophylaxis was in most of the cases too short to provide full benefit. in our experience, we recommended lmwh to all patients with ischemic stroke for 20 days at home. results from exclaim study show that extended duration thromboprophylaxis with enoxaparin was associated with reduced venous thromboembolism risk and increased major bleeding in the subgroup of patients with ischemic stroke [15]. in patients who cannot receive anticoagulants for dvt prophylaxis, the use of aspirin and intermittent external compression devices are recommended. the use of intermittent external compression devices is recommended for treatment of patients who cannot receive anticoagulants. the medical treatment of acute massive pulmonary embolism is fibrinolysis with alteplase. the classification of patients with acute pe based on early mortality risk is an important prognostic assessment strategy [16]. for prediction of early (in hospital or 30-day) outcome in patients with acute pe, both the pe-related risk and the patient’s clinical status and comorbidities should be taken into consideration. at the stage of clinical suspicion of pe, hemodynamically unstable patients with shock or hypotension should immediately be identified at high-risk patients. they require an emergency diagnostic algorithm, if pe is confirmed, primary pharmacological reperfusion or alternatively surgical or interventional therapy. patient without shock or hypotension are not at high risk of an adverse early outcome. further risk stratification should be validated with a clinical prognostic score like pulmonary embolism severity index (pesi) or simplified pulmonary embolism severity index (spesi), able to distinguish between intermediate and low risk. around one-third of pe patients are at low risk of an early adverse outcome as indicated by pesi class i or ii or a simplified pesi of 0. in these cases there are no therapeutic implications. on the other hand, patients in pesi class iii-iv had a 30-day mortality rate of up to 24,5% and those with a simplified pesi ≥ 1 up to 11%. accordingly, normotensive patients in pesi class ≥ iii or a simplified pesi ≥ 1 are considered to constitute an intermediate-risk group. within this category, further risk assessment should be considered, focusing on the status of the right ventricular (rv) in response to the pe-induced acute pressure overload [17]. patients with evidence of both rv dysfunction and elevated serum cardiac biomarker levels should be classified into an intermediate-high-risk category. in these cases, it is recommended to monitor hemodynamic parameters for initiation of reperfusion therapy. on the other hand, patients with normal rv and/or with normal cardiac biomarker levels belong to an intermediate-low-risk group. the therapeutic strategies of pulmonary embolism depend on the risk stratification [16]. primary reperfusion treatment, particularly systemic thrombolysis is the treatment of choice for patient with high-risk pe. in patients with contraindications to thrombolysis and in those in whom thrombolysis was not able to improve the hemodynamic status, surgical embolectomy is recommended. as an alternative to surgery, percutaneous catheter-directed treatment should be considered. on the other hand, for most case of acute pe without hemodynamic compromise, lmwh or fondaparinux, given subcutaneously at weight-adjusted doses without monitoring, is the treatment of choice unless there is severe renal dysfunction. in patients in intermediate-high risk group, systemic thrombolysis is not routinely recommended as primary treatment, but should be considered if clinical signs of hemodynamic decompensation appear. surgical pulmonary embolectomy or percutaneous catheter-directed treatment may be considered as alternative, rescue procedures for patients with intermediate-high-risk pe, in whom hemodynamic decompensation appears imminent and the anticipated bleeding risk under systemic thrombolysis is high. anticoagulation is indicated in patients in intermediate-low-risk group. patent foramen ovale (pfo) and related ischemic stroke are frequent in intermediate-risk pe. considering the high risk of intracranial bleeding with thrombolysis in pe, which may be partly due to hemorrhagic transformation of subclinical strokes, screening pfo should be considered in intermediate risk pe when thrombolytic treatment is discussed [18]. finally, patients presenting with hemodynamic instability are usually treated with either thrombolytic therapy or pulmonary embolectomy followed by anticoagulation therapy, while most hemodinamically stable patients can be treated with anticoagulation alone. anticoagulation medications include the following: unfractionated heparin; low molecular weight heparin; factor xa inhibitors; fondaparinux; and warfarin. long-term anticoagulation is critical to the prevention of recurrence of dvt or pe, because even in fully anticoagulated patients, dvt and pe can often recur. the general consensus is that a significant reduction in recurrence is associated with 3-6 months of anticoagulation. in addition, previous ischemic stroke within 3 or 6 months is a contraindication to thrombolysis in esc guidelines [16]. however, a study involving 145 patients with a stroke within 3 months who received thrombolysis for a further stroke did not show an increase in intracranial hemorrhage [19]. condliffe and colleagues consider previous ischemic stroke not to be an absolute contraindication to thrombolysis, but at the moment there are no data to guide an acceptable timescale since the stroke [20]. stroke guidelines advise delaying anticoagulation for 2 weeks post-ischemic stroke in patients with atrial fibrillation, but give discordant advice regarding anticoagulation for coexisting pe. uk stroke guidelines suggest anticoagulation for proximal dvt or pe, while american heart association guidelines do not recommend initial anticoagulation in patients with moderate to severe stroke [21,22]. the risk-benefit ratio for individual patients should be assessed; however the general approach is to anticoagulate all patients with a cerebral infarct and pe. in patients with pe and a primary hemorrhagic stroke or recent significant hemorrhagic transformation, it is possible to consider inferior vena cava filter insertion and delayed anticoagulation [20]. venous filter are usually placed in the infrarenal portion of the inferior vena cava. venous filters are indicated in patient with acute pe who have absolute contraindications to anticoagulant drugs, and in patients with objectively confirmed recurrent pe despite adequate anticoagulation treatment. observational studies suggest that insertion of a venous filter might reduce pe-related mortality rates in the acute phase, benefit possibly coming at the cost of an increased risk of recurrence of vte. in conclusion, the management of these patients should be done after a thorough clinical assessment, taking into account the risks, benefits and local availability for every therapeutical option. key points pulmonary embolism (pe) is a common and potentially lethal condition patients with acute pulmonary embolism often present with dyspnea or chest pain it is often diagnosed with important delays, due to nonspecific symptoms, affecting a timely treatment pulmonary embolism is not a disease in itself, but a complication of venous thromboembolism, most commonly deep vein thrombosis it is possible to prevent it after stroke with thromboprophylaxis the medical treatment of acute massive pulmonary embolism is fibrinolysis patients presenting with hemodynamic instability are usually treated with either thrombolytic therapy or pulmonary embolectomy followed by anticoagulation therapy, while most hemodinamically stable patients can be treated with anticoagulation alone long term anticoagulation is critical to the prevention of recurrence references 1. quellette dr, kamangar n, harrington a. pulmonary embolism. medscape. available at http://emedicine.medscape.com/article/300901-overview (last accessed december 2015) 2. liu lp, zheng hg, wang dz, et al. risk assessment of deep-vein thrombosis after acute stroke: a prospective study using 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process of in-hospital emergency planning. the afferent limb of the rrs is the way, managed by the ward staff, doctors and nurses, to identify the patient in crisis, at risk of physiological deterioration, and enable an appropriate response. the afferent limb includes the monitoring, the recognition of patient’s deterioration and the activation of the emergency team. the aim of this study is to describe the dynamics of the afferent limb, focusing on the evidence about early detection of the clinical deterioration in a general ward. keywords: patient in crisis; deteriorating ward patient; afferent limb; rapid response systems in-hospital emergency: how to identify the patient in crisis cmi 2015; 9(3): 69-78 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i3.1185 gestione clinica corresponding author marcello difonzo ospedale di venere, bari corso di laurea in infermieristica università degli studi di bari “aldo moro” mardif@libero.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo premesse l’emergenza intraospedaliera è un sistema strutturato per garantire una risposta adeguata, in rapidità e appropriatezza, agli arresti cardiaci e alle altre emergenze cliniche, nei reparti di degenza e in aree non sanitarie dell’ospedale. quest’evoluzione nella medicina di cure critiche e nella gestione della malattia acuta [1] è descritta, nel 1974, da peter safar [2], pioniere della rianimazione cardiopolmonare: «the most sophisticated intensive care often becomes unnecessarily expensive terminal care when the pre-icu system fails». nell’emergenza intraospedaliera, gli specialisti in medicina critica espandono il loro ruolo al di fuori delle quattro mura della terapia intensiva [3], gestendo i pazienti con instabilità delle funzioni vitali direttamente nei reparti di degenza. il centro delle cure per i pazienti acuti diventa l’ospedale, perché non tutte le malattie critiche si manifestano nell’unità di terapia intensiva [1].una percentuale rilevante di malati, durante l’ospedalizzazione, al di fuori della terapia intensiva, può manifestare eventi avversi responsabili di arresto cardiaco, di ricoveri non programmati in terapia intensiva e di morte [4]. negli anni novanta, numerosi studi analizzano i malati con instabilità fisiologica, ricoverati nei reparti di degenza, rilevando, spesso, una risposta inadeguata al deterioramento clinico. schein e colleghi [5], nel 1990, documentano un deterioramento dei segni vitali nelle otto ore precedenti un arresto cardiopolmonare nell’84% dei pazienti. le alterazioni fisiologiche sono, in percentuale elevata, respiratorie, neurologiche e metaboliche; generalmente, queste non sono fatali, così gli sforzi per prevedere e prevenire l’arresto cardiaco possono essere utili. uno studio simile [6] evidenzia che il deterioramento fisiologico si manifesta, nel 66% dei casi, nelle sei ore precedenti l’arresto cardiaco. mcquillan e colleghi [7], nel 1998, rilevano che il trattamento dei pazienti instabili, prima del ricovero in terapia intensiva, è spesso subottimale, con un aumento della morbilità e della mortalità. il trattamento subottimale riguarda l’ossigenoterapia, le vie aeree, la respirazione, la circolazione e il monitoraggio. le cause principali sono: la mancanza di organizzazione; la mancanza di conoscenze; il mancato riconoscimento dell’urgenza clinica; la mancata supervisione; la mancata richiesta di un consulto. il monitoraggio permette di identificare i malati a rischio di eventi avversi ma molti casi non sono riconosciuti dallo staff, perché i segni vitali non sono misurati [8]. lo scopo dello studio è descrivere la dinamica del braccio afferente del rapid response system, mettendo in luce le evidenze sul riconoscimento precoce del deterioramento clinico di un paziente, ricoverato in un reparto ospedaliero di degenza. il rapid response system in molte nazioni, all’interno degli ospedali, sono previsti dei team di specialisti, con medici e infermieri di terapia intensiva, per gestire le emergenze cliniche nei reparti di degenza. nel giugno 2005, una consensus conference internazionale [4] rivaluta i modelli organizzativi più diffusi di gestione dell’emergenza intraospedaliera, sviluppati in australia, stati uniti, canada, gran bretagna e in molte altre nazioni. il modello proposto, il rapid response system (rrs), descrive l’intero processo di pianificazione dell’emergenza intraospedaliera: il braccio afferente; il braccio efferente; il braccio amministrativo; il processo di miglioramento. il braccio afferente permette di individuare il malato instabile e l’allertamento di un team specialistico. il braccio efferente è la risposta da parte di un team, esperto in cure critiche, responsabile della valutazione e del trattamento del malato. il braccio amministrativo ha il compito di supervisionare e implementare la qualità del monitoraggio e della risposta, assicurando l’efficienza del sistema. la componente per il miglioramento del processo si occupa della raccolta dei dati per determinare il tasso di eventi, le risorse necessarie e gli esiti (figura 1). figura 1. algoritmo di funzionamento di un rapid response system. adattato da [4] cco = critical care outreach; met = medical emergency team; rrt = rapid response team i team di emergenza assumono, nei diversi stati, denominazioni diverse. i rapid response team (rrt) appaiono per la prima volta nel 1997, negli stati uniti. il team è sovente guidato da un infermiere o un terapista respiratorio, in altri casi da un medico [9]. il critical care outreach (cco), introdotto nel 2000 [10], è diffuso soprattutto in gran bretagna. il team funziona fornendo assistenza a pazienti ricoverati nei reparti di degenza o come servizio di sorveglianza per i malati dimessi dalla terapia intensiva [4,11]; prevede un unico infermiere o un team di infermieri di area critica [12]. il medical emergency team (met) è il modello diffuso in australia, nuova zelanda, scandinavia e in numerose nazioni europee [4,13,14]. il team prevede un medico e un infermiere di terapia intensiva e opera 24 ore al giorno. una recente metanalisi, nel 2015 [15], include 22 studi sull’arresto cardiaco non previsto e 25 studi sulla mortalità ospedaliera, pubblicati nel periodo 2000-2014. i dati mostrano che l’introduzione di un rapid response system in ospedale è correlata, nell’adulto, a una riduzione significativa dei tassi di arresto cardiaco (risk ratio aggregato = 0,64 (0,55-0,73); p < 0.0001) e della mortalità ospedaliera (risk ratio aggregato = 0,88 (0,83-0,93); p < 0.001). il braccio afferente del rapid response system e il paziente in crisi la seconda conferenza internazionale sul rapid response system [16], organizzata a toronto nel maggio 2008, pone l’accento sulla dinamica del braccio afferente, analizzando il monitoraggio e il riconoscimento del paziente con deterioramento clinico inaspettato e improvviso. il braccio afferente è il percorso, gestito dallo staff di medici e infermieri dei reparti di degenza, che permette di individuare precocemente i pazienti a rischio di deterioramento fisiologico e di attivare una risposta adeguata. la dinamica del braccio afferente [4,16] è l’espressione di tre componenti: il monitoraggio, il riconoscimento del deterioramento del malato e l’attivazione della risposta (braccio efferente del rapid response system) [17]. implicazioni per la pratica clinica la gestione adeguata di un malato in deterioramento clinico nei reparti di degenza di un ospedale riduce l’incidenza di eventi avversi gravi come l’arresto cardiaco non previsto, i ricoveri non programmati in terapia intensiva, la morte non prevista il rapid response system è il modello che descrive l’intero processo di pianificazione dell’emergenza intraospedaliera l’implementazione del rrs in ospedale riduce in modo significativo gli arresti cardiaci e la mortalità l’efficienza del braccio afferente del rrs è fondamentale per il riconoscimento precoce dell’instabilità clinica del paziente in crisi osservazione e monitoraggio i segni vitali classici, le informazioni più semplici sulla salute di un malato, sono la frequenza respiratoria, la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa e la temperatura. altri parametri essenziali, facilmente rilevabili in ogni reparto ospedaliero, sono la pulso-ossimetria e lo stato di coscienza. la saturazione arteriosa di ossigeno non invasiva dell’emoglobina, misurata con la pulso-ossimetria, è definita il quinto segno vitale [18]. lo stato di coscienza può essere valutato con la glasgow coma scale [12] o con la scala avpu (alert, voice, pain, unresponsive) [19]. per “segni vitali” si intende la misurazione di funzioni fisiologiche vitali o critiche, mentre il termine “osservazioni” implica una gamma più vasta di rilevazioni riguardo allo stato clinico dei pazienti [20]. “osservazione” non può essere considerata “monitoraggio”. la consensus conference di toronto definisce monitoraggio: «la valutazione costante di un paziente con l’intenzione di (1) rilevare un’anormalità e (2) attivare una risposta se si è individuata un’anormalità» [16], indicando un livello di valutazione maggiore, con la registrazione dei parametri vitali e una risposta adeguata se si eccedono i limiti fisiologici. i parametri da osservare sempre sono la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa, la frequenza respiratoria, la temperatura, la pulso-ossimetria e il livello di coscienza. in determinate circostanze, si devono osservare anche la pervietà delle vie aeree, il cambiamento nel comportamento del paziente, il tempo di riempimento capillare, la diuresi, gli esami emato-chimici, l’incapacità a stare in piedi (di recente insorgenza) [16]. i parametri clinici e le osservazioni rappresentano i criteri che sono inclusi, in combinazioni diverse, in modelli che permettono l’attivazione del team di emergenza del braccio efferente, definiti sistemi di track and trigger. il monitoraggio può migliorare l’abilità nella gestione del deterioramento clinico: ogni paziente dovrebbe avere un piano individuale di monitoraggio con le variabili misurate, la frequenza di valutazione e i valori che richiedono un intervento [16]. il monitoraggio può essere intermittente o continuo, manuale o automatico. per rilevare un deterioramento fisiologico il più presto possibile, e prevenire l’arresto cardiaco non previsto, sarebbe necessario un monitoraggio continuo più che intermittente [4]. la valutazione intermittente dei segni vitali dovrebbe avvenire almeno ogni 12 ore, ma sarebbe preferibile una valutazione ogni sei ore [16]. nel 1999, lo studio australiano retrospettivo di buist e colleghi [21] riporta, tra i pazienti con ricoveri non programmati in terapia intensiva o arresto cardiaco, una percentuale del 76% con instabilità cardiaca o respiratoria nelle ore precedenti. la durata mediana dell’instabilità fisiologica precedente l’evento acuto è di 6,5 ore. un sistema di monitoraggio continuo ideale deve avere una sensibilità e una specificità adeguate, essere facilmente utilizzabile dallo staff di medici e infermieri, limitare poco i movimenti del malato, avere un tasso basso di falsi positivi per evitare l’alert fatigue e raggiungere un rapporto costo-beneficio favorevole. diversi studi pongono l’accento sui vantaggi di un monitoraggio continuo elettronico dei parametri vitali, ma i risultati sono controversi [22-24]. nel 2012, lo studio multicentrico di bellomo e colleghi [23] dimostra un aumento della sopravvivenza alla dimissione dall’ospedale e una riduzione del tempo necessario per la misura e la registrazione dei parametri vitali, con il calcolo elettronico del sistema di track and trigger a punteggio aggregato. la prevenzione di ogni alterazione fisiologica e di tutte le morti evitabili richiede un monitoraggio continuo elettronico, tuttavia i sistemi elettronici di attivazione della risposta, basati esclusivamente sull’alterazione dei segni vitali, possono rappresentare un carico eccessivo per i sistemi stessi [24]. riconoscimento del deterioramento clinico del malato il riconoscimento precoce di un paziente in crisi, in un reparto di degenza, richiede il monitoraggio dei segni vitali, l’osservazione di altri parametri clinici e l’uso di sistemi predefiniti per attivare la risposta. il rilievo dei segni vitali è una responsabilità degli infermieri ed è una procedura essenziale nel riconoscimento del deterioramento fisiologico di un paziente [25]. i segni vitali sono misurati con gli apparecchi elettromedicali, tranne la frequenza respiratoria, rilevata, di solito, sulla base dell’osservazione clinica. cretikos e colleghi [26], nel 2008, osservano che la frequenza respiratoria è un parametro spesso non rilevato e omesso frequentemente, che richiede un monitoraggio attento, anche se gli altri segni vitali sono normali. hogan [27] riporta che la registrazione della frequenza respiratoria, da parte degli infermieri, avviene in meno del 50% dei casi. i modelli per individuare i soggetti a rischio si basano sulla valutazione dei segni fisiologici, the tracking, con dei criteri predefiniti per attivare la risposta del team di emergenza, the trigger, chiamati sistemi di allarme fisiologici di track and trigger (track and trigger systems – tts) [28,29]. i più usati sono i sistemi a parametro singolo (single parameter track and trigger systems – sptts), diffusi soprattutto in australia e negli stati uniti, e i sistemi a punteggio aggregato (aggregate weighted track and trigger systems – awtts), usati soprattutto in gran bretagna [17]. i sistemi a parametri multipli (multiple parameter track and trigger systems – mptts), che richiedono due o più criteri per attivare la risposta, sono utilizzati soprattutto in europa. i sistemi a parametro singolo (tabella i) prevedono una risposta tutto o nulla, con un meccanismo a soglia che permette l’attivazione della risposta quando è presente un solo criterio. vie aeree ostruite respirazione tutti gli arresti respiratori frequenza respiratoria < 5 o > 36 atti/min circolazione tutti gli arresti cardiaci frequenza cardiaca < 40 o > 120 battiti/min pressione arteriosa sistolica < 90 mmhg neurologia variazione improvvisa dello stato di coscienza (riduzione maggiore di due punti della glasgow coma scale) convulsioni ripetute o prolungate altro qualsiasi altro paziente per il quale si sia seriamente preoccupati, anche se non corrispondente ai criteri precedenti tabella i. criteri di allertamento del medical emergency team: è sufficiente la variazione di un parametro fisiologico. adattato da [30] rispetto ai sistemi a punteggio aggregato, i sistemi a parametro singolo hanno il vantaggio di essere semplici e facili da usare [17]. il modello usato dal medical emergency team [31] nel 1995, in australia, valuta l’ostruzione delle vie aeree, la respirazione, la circolazione, lo stato di coscienza e qualsiasi variazione nel paziente che possa destare preoccupazione [30]. i sistemi a parametri multipli richiedono la presenza di più di un criterio per attivare la risposta [28,29]. il patient-at-risk team (part), presentato da goldhill e colleghi [32] nel 1999, prevede la presenza di tre o più criteri per attivare il team di emergenza (tabella ii). frequenza respiratoria < 10 o  ≥ 25 atti/min pressione arteriosa sistolica < 90 mmhg frequenza cardiaca < 55 o ≥ 110 battiti/min saturazione di ossigeno < 90% diuresi < 100 ml nelle ultime quattro ore altri criteri paziente non pienamente sveglio e orientato e frequenza respiratoria ≥ 35 atti/min o frequenza cardiaca ≥ 140 battiti/min tabella ii. criteri di allertamento del patient-at-risk team. la presenza contemporanea di tre o più criteri attiva il team di emergenza. adattato da [32] il sistema proposto da radeschi e colleghi [33] nel 2008, utilizzato soprattutto in italia, prevede la valutazione secondo l’approccio airway, breathing, circulation, disability, exposure (sistema abcde). i criteri di allertamento sono distinti in rossi e gialli: per attivare la risposta è necessario un criterio rosso o la presenza contemporanea di due criteri gialli (tabella iii). criteri rossi perdita di coscienza ostruzione delle vie aeree arresto respiratorio arresto cardiaco criteri gialli frequenza respiratoria < 8 o > 30 atti/minuto distress respiratorio acuto riduzione acuta della saturazione arteriosa di ossigeno (< 90%) frequenza cardiaca < 40 o > 130 battiti/minuto riduzione rapida della pressione arteriosa sistolica < 90 mmhg deterioramento neurologico (riduzione di due punti della scala odas: orientato, disorientato, agitato, soporoso) improvvisa insorgenza o rapido peggioramento della cianosi in assenza di pulso-ossimetria severa emorragia temperatura corporea > 38,5°c tabella iii. criteri di allertamento del sistema abcde. la presenza di un criterio rosso o di due criteri gialli attiva il team di emergenza. adattato da [33] i sistemi a punteggio aggregato prevedono l’attivazione della risposta quando lo score, che deriva dai singoli parametri misurati, supera un determinato valore. questi modelli hanno il vantaggio di fornire un trattamento più graduale, individuando un deterioramento del malato prima della soglia di attivazione della risposta, e sono più sensibili. lo svantaggio deriva dalla maggiore complessità nel loro uso, che spesso richiede l’impiego di tabelle e strumenti elettronici per calcolare il punteggio totale [17]. i sistemi di early warning score si basano sull’assegnazione di un punteggio alla variazione dal range di normalità di ogni variabile fisiologica misurata, la somma è lo score finale [28,29]. questi modelli permettono una serie di risposte: un trattamento diretto del malato, un aumento della frequenza di monitoraggio, l’allertamento del medico di reparto o del team di emergenza. l’early warning scoring system (ewss) originale, proposto da morgan e colleghi [19] nel 1997, usato soprattutto in gran bretagna, prevede il monitoraggio di quattro parametri fisiologici, frequenza cardiaca, pressione arteriosa, frequenza respiratoria, temperatura, e un’osservazione, lo score avpu (alert, voice, pain, unresponsive) (tabella iv). score 3 2 1 0 1 2 3 frequenza cardiaca (battiti/min) < 40 41-50 51-100 101-110 111-130 130 pressione arteriosa sistolica (mmhg) < 70 71-80 81-100 101-199 > 200 frequenza respiratoria (atti/min) < 8 9-14 15-20 21-29 > 30 temperatura (c°) < 35 35,1-36,5 36,6-37,4 > 37,5 stato di coscienza a v p u tabella iv. criteri di allertamento dell’early warning scoring system. un punteggio ≥ 3 attiva il protocollo. adattato da [19] in seguito, sono introdotti il modified early warning score (mews) [34] e il national early warning score (news) [35], per garantire una valutazione standard nel servizio sanitario nazionale, in gran bretagna, con tre livelli di allertamento: basso (punteggio 1-4), medio (punteggio 5-6), alto (punteggio ≥ 7) (tabella v). score 3 2 1 0 1 2 3 frequenza cardiaca (battiti/min) ≤ 40 41-50 51-90 91-110 111-130 ≥ 131 pressione arteriosa sistolica (mmhg) ≤ 90 91-100 101-110 111-219 ≥ 220 frequenza respiratoria (atti/min) ≤ 8 9-11 12-20 21-24 ≥ 25 temperatura (c°) ≤ 35 35,1-36 36,1-38 38,1-39 ≥ 39,1 stato di coscienza a v, p o u saturazione di ossigeno (%) ≤ 91 92-93 94-95 ≥ 96 supplemento di ossigeno sì no tabella v. criteri di allertamento del national early warning score. il rischio clinico è basso per i punteggi 1-4, medio per 5-6 e alto se ≥ 7. adattato da [35] i sistemi combinati comprendono i modelli a parametro singolo o a parametri multipli usati in combinazione con i sistemi a punteggio aggregato. un sistema di track and trigger ideale deve avere un’accuratezza adeguata per riconoscere il maggior numero di pazienti a rischio, evitando i falsi allarmi e le chiamate improprie. una sensibilità alta permette di identificare un numero elevato di pazienti con i criteri di allertamento, una specificità alta permette di evitare un allertamento improprio. la maggior parte dei sistemi di track and trigger ha una sensibilità bassa, un valore predittivo positivo basso e una specificità alta [29]; tuttavia, i sistemi di track and trigger si dimostrano efficaci nel migliorare il tasso di risposta alla chiamata [36]. la review sistematica di gao e colleghi [37], del 2007, valuta l’accuratezza e la precisione dei sistemi di track and trigger a parametro singolo, a punteggio aggregato e dei sistemi combinati, nell’identificare i pazienti a rischio di deterioramento clinico. lo studio indica la mancanza di evidenze sull’accuratezza dei sistemi di track and trigger, una sensibilità bassa e l’impossibilità nell’identificare il sistema migliore. l’applicazione di nuove tecnologie può essere una soluzione per migliorare l’accuratezza e l’efficacia del monitoraggio e dei sistemi di allertamento. l’earlysense è un sistema di monitoraggio continuo, in combinazione con una tecnologia multipla, che prevede un sensore, posto sotto il materasso, per rilevare la frequenza respiratoria, la frequenza cardiaca e i movimenti del paziente. il sistema prevede un’allerta quando i parametri fisiologici superano una soglia predefinita; inoltre, permette l’allertamento degli infermieri per evitare le cadute del malato e le ulcere da pressione. uno studio recente valuta gli effetti dell’earlysense [38] sul monitoraggio di frequenza cardiaca e frequenza respiratoria in unità mediche e chirurgiche, dimostrando una riduzione significativa della durata del ricovero e dei giorni di ricovero in unità di terapia intensiva per i pazienti trasferiti. attivazione della risposta: il braccio efferente diversi elementi influiscono sull’attivazione del braccio efferente e condizionano l’efficacia del trattamento, nei malati a rischio. aspetti importanti sono i “fattori umani” (human factors), espressione che indica il modo in cui i membri dello staff sanitario interagiscono tra loro e con la tecnologia, e le “competenze non tecniche” (non-technical skills). in questo senso, attitudini, comunicazione, teamwork e consapevolezza situazionale sono altrettanto importanti quanto il trattamento medico [39]. il ritardo o la mancata attivazione di un team di risposta rapida può condizionare l’esito del malato e aumentare i ricoveri in terapia intensiva. quando la presenza dei criteri di attivazione del rapid response system non è associata a chiamata del team nelle 24 ore precedenti un evento acuto, trinkle e colleghi [40] parlano di insuccesso del braccio afferente. nei pazienti con insuccesso del braccio afferente, confrontati con quelli senza insuccesso, c’è un aumento significativo di ricovero non previsto in terapia intensiva (34,4% vs 22,5%); la durata del ritardo condiziona la mortalità ospedaliera (52,5% vs 31,9%). i rapid response system sono attivati soprattutto dagli infermieri dei reparti di degenza [11,41]. uno studio rileva che gli infermieri non individuano e non trattano adeguatamente i pazienti con deterioramento clinico per mancanza di esperienza, di abilità e per eccessivo carico di lavoro [42]. la review di odell [25], del 2014, analizza la pratica infermieristica nella gestione del paziente in deterioramento con il protocollo dell’early warning score. rispetto a precedenti ricerche, c’è un miglioramento della registrazione dei segni vitali, ma l’accuratezza dell’early warning score e la richiesta di aiuto a clinici più esperti restano subottimali. diverse survey, realizzate in singoli centri ospedalieri, valutano le barriere all’attivazione dei team di emergenza, coinvolgendo gli infermieri dei reparti di degenza. i fattori che influenzano positivamente l’attivazione del met includono i percorsi didattici frequentati e la partecipazione a corsi sulla rianimazione cardiopolmonare, l’opinione sull’aiuto che il met apporta nella gestione del paziente acuto, il miglioramento delle condizioni di lavoro [43-45]. i fattori con influenza negativa sono lo scoraggiamento da parte dei medici, la paura di subire critiche e l’aderenza a modelli che portano a contattare il medico di reparto prima di attivare il met [44,45]. davies e colleghi [46], nel 2014, dimostrano un tasso di aderenza basso ai criteri di attivazione del met da parte di medici e infermieri. la partecipazione a corsi di educazione continua può migliorare le attitudini verso il medical emergency team. radeschi e colleghi [47], nel 2015, presentano i risultati di una survey multicentrica italiana, in dieci ospedali per adulti, che coinvolge medici e infermieri di reparti medici e chirurgici. la maggioranza valorizza il medical emergency team; per gli infermieri il medico di reparto è il maggior ostacolo all’attivazione del met. la ricerca mostra che essere medico, lavorare in un reparto chirurgico vs medico, l’anzianità professionale e la partecipazione al corso metal sono elementi associati a una probabilità minore di mostrare barriere all’attivazione del medical emergency team. conclusioni gli ammalati, negli ospedali moderni, sono sempre più complessi, a rischio di complicanze responsabili di eventi avversi durante l’ospedalizzazione. nei reparti di degenza, questa situazione richiede un approccio diverso alle cure, che comprende la gestione da parte dello staff di medici e infermieri dei reparti e il supporto da parte di clinici esperti in cure critiche, quando la gravità della malattia rende necessario un trattamento intensivo. il riconoscimento precoce del paziente in crisi richiede l’efficienza di tutti gli elementi del braccio afferente del rapid response system: il monitoraggio del paziente, l’uso di modelli adeguati con criteri predefiniti per attivare la risposta e il processo di attivazione del team di emergenza. il rilievo costante dei parametri fisiologici permette di riconoscere il deterioramento clinico. il monitoraggio continuo elettronico dei segni vitali può migliorare il riconoscimento di un paziente in crisi. le evidenze di alcuni studi indicano un miglioramento negli esiti, ma i risultati non sono conclusivi. la sorveglianza dei parametri fisiologici e l’uso dei sistemi di track and trigger garantiscono l’allertamento precoce del team di risposta rapida. tuttavia, bisogna tener conto dei falsi allarmi e delle chiamate improprie legate all’accuratezza di questi sistemi. la mancata attivazione del braccio efferente può aumentare la frequenza di ricoveri non programmati in terapia intensiva. infine, è necessario uno studio più approfondito dei fattori che influenzano l’attività infermieristica nel trattamento del paziente in crisi nei reparti di degenza degli ospedali. punti chiave la valutazione e il riconoscimento precoce del deterioramento clinico di un malato richiedono l’utilizzo del monitoraggio dei segni vitali, intermittente o continuo, secondo le risorse umane e tecnologiche disponibili i sistemi di track and trigger (a parametro singolo, a parametri multipli, a punteggio aggregato) permettono di stabilire i punteggi o le soglie di attivazione del team di risposta rapida presente nel proprio ospedale, quando la gravità della malattia richiede un trattamento da parte degli specialisti in cure critiche è necessario ridurre le barriere culturali che condizionano l’attivazione dei team di emergenza e favorire percorsi di educazione continua sui sistemi di allertamento del braccio efferente del rapid response system l’attivazione di un team di emergenza permette il trattamento del paziente in crisi direttamente nei reparti di degenza, il trattamento dell’arresto cardiaco non previsto o l’accesso a un livello diverso di cure, in unità di terapia intensiva bibliografia 1. rosengart mr, pinsky mr. origins of the critically ill: the impetus for critical care medicine. in: scales dc, rubenfeld gd (eds.). the organization of critical care. an evidence-based approach to improving quality. respiratory medicine 18. springer science business media new york, 2014. disponibile all’indirizzo: http://link.springer.com/chapter/10.1007/978-1-4939-0811-0_2 (ultimo 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http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i2.1190 editoriale corresponding author antonino faillaci faill@libero.it disclosure gli autori dichiarano di non aver ricevuto finanziamenti per la stesura del presente articolo e di essere gli autori del libro descritto   l’epidemia di obesità e sovrappeso pone questioni di notevole importanza riguardo all’accompagnamento e al sostegno nel percorso verso il calo ponderale e soprattutto riguardo al mantenimento a lungo termine di sane abitudini alimentari e di attività fisica. il tentativo fallito e talvolta ricorrente da parte dei pazienti di sottostare a rigidi regimi dietetici, unitamente a un diffuso e ingiustificato pregiudizio che ritiene pigre e prive di forza di volontà le persone obese e sovrappeso rendono particolarmente delicata l’assistenza a questi soggetti. i pazienti si rivolgono al nutrizionista per un aiuto talvolta già feriti e sfiduciati. è compito del terapeuta saperli accompagnare e sostenere. ma in che modo? innanzitutto occorre che il curante in primis eviti i pregiudizi e gli etichettamenti nei confronti di questi pazienti. in secondo luogo occorre trovare il modo per far emergere la motivazione dal paziente. una soluzione che, se abilmente applicata, consente di ottenere ottimi risultati è l’utilizzo del colloquio motivazionale (o comunicazione motivante o colloquio motivante). sviluppato principalmente da miller e rollnick [1] a partire dalle teorie di carl rogers [2,3], che ricollocavano il paziente al centro della terapia, conferendogli piena autonomia decisionale, il colloquio motivazionale ha trovato la sua applicazione principale nelle dipendenze patologiche. tuttavia, noi riteniamo, per le esperienze fatte negli ultimi anni e con il conforto della notevole produzione scientifica al riguardo [4], che rappresenti una indispensabile risorsa nell’ambito della consulenza nutrizionale, che, per certi versi, pone degli ostacoli più impegnativi da superare, non potendo per ovvie ragioni puntare alla cessazione dell’assunzione della sostanza (il cibo) che dà dipendenza. questo approccio poggia le proprie basi sul costrutto secondo cui il paziente sovrappeso possegga già, dentro di sé, le motivazioni in grado di condurlo a un cambiamento, abbia cioè già delle ragioni che, nella bilancia dell’ambivalenza tra vantaggi e svantaggi del perdere peso, facciano pendere a favore del cambiamento: occorre evocarle, ampliarle e mantenerle. la comunicazione motivante è una tecnica che mira sostanzialmente a indurre il paziente a pronunciare delle espressioni dimagranti (affermazioni orientate al cambiamento), che, secondo importanti ricerche [5], correlano con una buona probabilità di reale cambiamento da parte del paziente. si considerano affermazioni dimagranti le frasi pronunciate dal paziente che esprimono: gli svantaggi del sovrappeso; l’intenzione di cambiare lo stile di vita per perdere peso; i vantaggi del perdere peso; la fiducia nelle proprie capacità di giungere a un cambiamento dello stile di vita allo scopo di perdere peso. esistono diverse tecniche a disposizione del terapeuta per evocarle, ampliarle e per rispondere adeguatamente. alcuni professionisti posseggono per natura caratteristiche utili a sostenere il paziente nel percorso di dimagrimento. tuttavia, la maggior parte degli specialisti, per via della mancanza di una specifica formazione, tende ad assumere atteggiamenti troppo direttivi, attribuendo erroneamente al paziente tutta la responsabilità del non cambiamento. esistono cinque principi alla base della comunicazione motivante, corrispondenti a specifici atteggiamenti che il terapeuta dovrebbe adottare in ogni suo contatto con il paziente (figura 1). figura 1. elementi di base del colloquio motivante essi sono: trattenersi dal correggere: benché sia compito del terapeuta indicare al paziente la strada giusta, correggerlo precocemente, senza una adeguata preparazione, comporta molto spesso un arroccamento sul comportamento problematico, mentre l’accettazione delle sue difficoltà e la riproposizione delle stesse possono agire più efficacemente sul cambiamento sperato; “sentire” il paziente: occorre cercare un’empatia con la persona che chiede aiuto, accoglierla e dimostrarsi disposti ad accettarla e ad accompagnarla e comprensivi riguardo alla sua condizione; cercare e ampliare la motivazione del paziente: il paziente possiede già le motivazioni; è compito del terapeuta cercare, con garbo e genuina curiosità, di trarle e renderle evidenti alla persona; potenziare l’autoefficacia: occorre innanzitutto convincersi che il paziente sia in grado di cambiare, e di conseguenza, coinvolgerlo in ogni decisione, mirando a renderlo “nutrizionista di se stesso”; evitare i blocchi della comunicazione: thomas gordon [6] ha individuato una serie di atteggiamenti da evitare affinché non si creino dei blocchi, che rischiano di interrompere il dialogo con il paziente, fino a indurlo a interrompere la terapia; tra essi vi sono, ad esempio, ordinare, fare prediche, ma anche rassicurare, atteggiamenti facilmente riscontrabili nella pratica clinica. al fine di poter adottare efficacemente questi principi, occorre imparare a utilizzare specifici strumenti. ne abbiamo identificati cinque: l’ascolto dinamico: si tratta di un modo di colloquiare con il paziente in grado di condurlo a una continua esplorazione delle proprie motivazioni; le domande: ne esistono di chiuse e di aperte. le une e le altre devono essere utilizzate in modo appropriato, nel momento opportuno, al fine di orientare il colloquio nella direzione più utile; i riassunti: sintetizzare opportunamente ciò che il paziente ha espresso consente, da un lato, di dimostrargli che è stato ascoltato, dall’altro di chiarire gli aspetti chiave dell’incontro; le espressioni di sostegno: necessarie a promuovere l’autoefficacia del paziente; gli aspetti non verbali: è nota l’importanza della comunicazione non verbale, per questa ragione è necessario porre attenzione a espressioni, postura, contatto fisico e oculare, al fine di favorire l’accoglienza e l’accettazione del paziente. malgrado si tratti di un’abilità distante dal naturale approccio al paziente normalmente utilizzato in ambulatorio, è realistico affermare che acquisire tali abilità rappresenti, oggi, una caratteristica imprescindibile per ogni operatore del settore, in grado di spostare l’ago della bilancia da insuccesso a successo. per questa ragione appare appropriato che ogni specialista operante in quest’ambito abbia l’opportunità di impegnarsi nello studio e nella pratica di questa metodologia. bibliografia 1. miller wr, rollnick s. il colloquio motivazionale, preparare la persona al cambiamento. trento: ed. erickson, 2004 2. rogers cr. a theory of therapy, personality, and interpersonal relationships, as developed in the client-centered. framework in: psychology: a study of a science. study 1, volume 3: formulations of the person and the social context (a cura di sigmund koch). milano: mcgraw-hill, 1959 3. rogers cr. client-centered therapy. oxford, england: houghton mifflin, 1951 4. armstrong mj, mottershead ta, ronksley pe, et al. motivational interviewing to improve weight loss in overweight and/or obese patients: a systematic review and meta-analysis of randomized controlled trials. obes rev 2011; 12: 709-23; http://dx.doi.org/10.1111/j.1467-789x.2011.00892.x 5. amrhein pc, miller wr, yahne ce, et al. client commitment language during motivational interviewing predicts drug use outcomes. j consult clin psychol 2003; 71: 862-78; http://dx.doi.org/10.1037/0022-006x.71.5.862 6. gordon th. insegnanti efficaci. il metodo gordon: pratiche educative per insegnanti genitori e studenti. teramo: giunti lisciani, 1991 per chi desidera approfondire la comunicazione motivante nella terapia di sovrappeso e obesità. principi e strategie pratiche francesco iarrera, antonino faillaci prezzo: 25,00 € (cartaceo) | 19,99 € (ebook) acquistabile su www.edizioniseed.it prima edizione settembre 2015   una teoria della motivazione nei pazienti in sovrappeso, e la possibile conseguente applicazione in ambito clinico, suscita un indubbio fascino nei terapeuti della nutrizione. poter disporre di uno strumento che induca il paziente ad adottare misure terapeutiche che vanno nella giusta direzione rappresenta forse il sogno di ogni professionista che opera in questo ambito. come posso aiutare il mio paziente a perdere peso, riportandolo alla razionalità dei pensieri, e conseguentemente dei comportamenti? l’intento di questo manuale è fornire ai professionisti che si occupano di sovrappeso e obesità gli strumenti di base per comprendere e applicare una comunicazione motivante nella pratica clinica. grazie alla decennale esperienza sul campo degli autori, il manuale presenta numerosi esempi pratici sull’impostazione delle domande (domande aperte, domande chiuse, domande chiave), del fornire informazioni, delle espressioni di sostegno, delle diverse fasi del colloquio e dei casi difficili. cmi 2013;7(suppl 1)25-29.html efficacia di nilotinib in seconda linea in un paziente anziano con lmc di vecchia data con risposta non ottimale e con comorbidità plurime carmen tomaselli 1 1 u.o. di ematologia con tmo, a.r.n.a.s. civico palermo abstract in this case report we describe the clinical case of an elderly patient with chronic myeloid leukemia and multiple comorbidities (heart disease, diabetes). following the diagnosis of cml, in 2005 the patient had started treatment with imatinib 400 mg / day; therapy was well tolerated and never suspended until 2011, when he comes to the attention of our center. after re-evaluation of the disease, the patient is considered "failure" according to the recommendations eln 2009. for this reason he switched to second generation tyrosine kinase inhibitor, nilotinib. after just 3 months of treatment with nilotinib the patient gets a complete cytogenetic response and a reduction of the transcript bcr/abl %is from 0,85 to 0,004. these results are still maintained, without any influence on pre-existing conditions. keywords: chronic myeloid leukemia; monitoring; imatinib; nilotinib; comorbidities efficacy of nilotinib in second line in an elderly patient with cml, suboptimal response and multiple comorbidities cmi 2013; 7(suppl 1): 25-29 caso clinico corresponding author dott.ssa carmen tomaselli carmen.tomaselli@libero.it perché descriviamo questo caso il paziente in questione ci segnala come sia fondamentale eseguire un attento monitoraggio della malattia anche a distanza di anni di trattamento, secondo i criteri eln 2009. il monitoraggio attento ci permette di individuare tempestivamente i pazienti che sviluppano nel tempo resistenza a imatinib e che si possono giovare di un inibitore più selettivo. tale modus operandi è applicabile anche ai pazienti con molteplici comorbidità. nel nostro caso il paziente cardiopatico e diabetico ha potuto ricevere un trattamento più adeguato senza alcuna ripercussione sulle patologie di base caso clinico nel luglio 2005 ad un uomo di 64 anni veniva posta diagnosi di leucemia mieloide cronica in fase cronica presso altra sede. all’esordio, il quadro era caratterizzato dalla presenza di splenomegalia debordante 2 cm dall’arco costale, anemia di grado moderato, conta piastrinica nei limiti della norma e leucocitosi con presenza all’esame morfologico dello striscio di sangue periferico di precursori mieloidi in varie fasi maturative e di una percentuale di blasti mieloidi pari all’1%. l’esame morfologico su aspirato midollare era indicativo di patologia mieloproliferativa cronica. l’esame citogenetico evidenziava la presenza del cromosoma ph+, con cariotipo 46, xy t(9;22) rilevato in 20/20 metafasi analizzate; la ricerca del riarrangiamento ibrido bcr abl era positivo con metodica pcr di tipo qualitativo. il rischio prognostico valutato impiegando la stratificazione secondo sokal, indicava un rischio intermedio (0,877). nel 2002 tre anni prima della diagnosi di lmc, il paziente, iperteso già da alcuni anni, era stato sottoposto a ptca con posizionamento di 3 stent in seguito ad infarto del miocardio. in tale occasione gli era stato diagnosticato anche un diabete mellito trattato inizialmente con metformina, successivamente sospesa e sostituita con insulina per la comparsa di acidosi lattica. in merito alla patologia vascolare, ulteriori esami avevano evidenziato la presenza di calcificazioni parietali dell’aorta addominale e delle arterie iliache. sempre nell’ambito delle comorbidità, il paziente presentava anche ipertiroidismo in struma tiroideo in follow up e una colelitiasi. a seguito della diagnosi di lmc, nel 2005 il paziente aveva iniziato terapia con imatinib 400 mg/die, terapia ben tollerata e mai sospesa fino al 2011 quando giunge all’attenzione del nostro centro. percorso terapeutico nel gennaio 2011 per la prima volta il paziente si presenta alla nostra osservazione esibendo la documentazione che ci consente di raccogliere la sua storia clinica, così come precedentemente descritta. ad una analisi della documentazione risulta subito evidente che il paziente non aveva mai effettuato una valutazione molecolare quantitativa del trascritto e l’esame citogenetico era stato eseguito al basale e successivamente solo al 18° mese e 36° mese dall’inizio della terapia con imatinib. le analisi citogenetiche effettuate mostravano una risposta parziale (18 mesi) e completa (36 mesi) alla terapia, mentre la risposta ematologica si era mantenuta costantemente completa. decidiamo quindi di sottoporre il paziente a rivalutazione della malattia. l’esito degli esami conferma quanto paventato in un paziente che per anni non è stato monitorato e che, secondo le raccomandazioni eln 2009 [1] è “failure” al trattamento con imatinib: risposta ematologica completa (chr), risposta citogenetica parziale (pcyr) (4% metafasi ph+), assenza di risposta molecolare maggiore (mmr) (bcr/abl %is= 0,85) (tabella i). l’analisi mutazionale condotta non evidenzia la presenza di mutazioni. risposta ottimale (non definita precedentemente) risposta subottimale fallimento warnings baseline na na na alto rischio cca/ph+ 3 mesi chr e almeno mcyr (ph+ ≤ 65%) no cyr (ph+ > 95%) 35%) no cyr (ph+ > 95%) na 12 mesi ccyr pcyr (ph+ 1-35%) 35%) < mmolr 18 mesi mmolr < mmolr < ccyr na qualsiasi momento nel corso della terapia mmolr stabile o in miglioramento perdita di mmolr mutazioni* perdita di chr perdita di ccyr mutazioni** cca/ph+ aumento nei livelli di trascritto cca/ph– tabella i. raccomandazioni dell’european leukemianet (eln) 2009 confrontate con quelle del 2006 (in grassetto le aggiunte eln 2009) cca = clonal chromosome abnormalities; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; hr = risposta ematologica; mcyr = risposta citogenetica minore; mmolr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile; pcyr = risposta citogenetica parziale * bassi livelli di insensibilità a imatinib ** alta insensibilità a imatinib figura 1. variazioni nel tempo dei livelli di trascritto bcr-abl/abl is in trattamento con nilotinib decidiamo pertanto di cambiare terapia, optando per un inibitore di tirosin chinasi di seconda generazione (tki). la scelta non si presenta facile per due motivi: da un lato per le numerose comorbidità presenti e dall’altro per la resistenza opposta al cambio di terapia. il paziente infatti non è disposto a modificare la terapia che assume ormai da anni, senza alcun effetto collaterale e con una buona compliance. nel marzo del 2011 dopo una serie di colloqui con il paziente durante i quali vengono valutati tutti i possibili benefici e gli eventuali effetti collaterali di un cambio terapeutico, previa rivalutazione cardiologica e diabetologica, inizia terapia di seconda linea con nilotinib 800 mg/die. dopo due settimane di terapia, il paziente lamenta astenia, spossatezza, epigastralgia e dopo 4 settimane gli esami di laboratorio evidenziano un incremento di glicemia, amilasi e lipasi (g2). decidiamo di non sospendere la terapia con nilotinib, ma di dimezzarla (400 mg/die), e in collaborazione con il diabetologo viene modificata anche la terapia insulinica con un buon compenso glicemico. i parametri amilasi e lipasi vengono strettamente monitorati mostrando un trend in decremento e dopo circa un mese rientrano nella norma; contestualmente la sintomatologia precedentemente descritta si riduce fino alla scomparsa. a questo punto il dosaggio di nilotinib viene aumentato e mantenuto, sino ad oggi, a 600 mg/die. dopo soli 3 mesi dall’inizio del trattamento con nilotinib il paziente ottiene una risposta citogenica completa (ccyr) e una riduzione del trascritto bcr/abl %is da 0,85 a 0,004. la ccyr viene confermata dopo 6 mesi e dopo 12 mesi di terapia e il trascritto bcr/abl %is si riduce ulteriormente realizzando una risposta molecolare mr4.5 dopo 6 e 12 mesi di terapia. ad oggi, il paziente è in trattamento con nilotinib 600 mg/die, in assenza di tossicità ematologica o extraematologica, ha una buona compliance e presenta una risposta mr 4,5 (figura 1). discussione tipo di risposta monitoraggio risposta ematologica alla diagnosi, poi ogni 15 giorni fino al raggiungimento e conferma di chr, poi almeno ogni 3 mesi o come richiesto risposta citogenetica alla diagnosi, a 3 mesi e a 6 mesi; poi ogni 6 mesi fino al raggiungimento e conferma di ccyr, poi ogni 12 mesi se non è possibile garantire un monitoraggio molecolare regolare; sempre in caso di failure del trattamento (resistenza primaria o secondaria) e in caso di anemia inspiegabile, leucopenia o trombocitopenia risposta molecolare da rt-q-pcr ogni 3 mesi fino al raggiungimento e conferma di mmolr, poi almeno ogni 6 mesi risposta molecolare da analisi mutazionale in caso di risposta subottimale o failure; sempre richiesta prima di effettuare un cambio di terapia (verso altri tki o altri farmaci) tabella ii. tempistica di monitoraggio secondo le raccomandazioni eln 2009 ccyr = complete cytogenetic response chr = complete hematologic response mmolr = major molecular response rt-q-pcr = real-time quantitative polymerase chain reaction tki = tirosinkinase inhibitors il caso clinico appena descritto vuole ulteriormente sottolineare l’importanza di eseguire un attento e corretto monitoraggio della malattia in corso di terapia con imatinib, e in generale con tki, non soltanto durante le prime fasi della malattia, ma anche nel tempo rispettando le timelines. le raccomandazioni eln [1] vengono in nostro supporto, fornendoci i concetti chiave sul ruolo del monitoraggio e sulle definizioni di risposta: in un paziente in fallimento bisogna cambiare inibitore per prevenire la progressione di malattia (tabella ii). al nostro paziente, dopo i primi tre anni di trattamento con imatinib, era stata controllata esclusivamente la risposta ematologica, contrariamente a quanto indicato dalle linee guida (tabella ii), e non aveva più effettuato alcun esame del midollo per valutare la risposta citogenetica [1] né era stata valutata una risposta molecolare. la nostra rivalutazione ha permesso di evidenziare che il paziente, seppur compliante alla terapia con imatinib e in risposta ematologica completa, era failure al trattamento. da qui la necessità di cambiare terapia. la scelta di avviare il paziente a trattamento di seconda linea con nilotinib è stata dettata da diverse considerazioni. in primo luogo è stata valutata la specificità della molecola per il target di malattia. nilotinib è un inibitore tirosin chinasi di seconda generazione più potente e selettivo di imatinib. i legami a idrogeno di imatinib sono stati sostituiti da interazioni lipofiliche, evidenziando una sua minore mutagenicità [2]; nilotinib presenta una maggiore selettività e affinità di legame con il dominio chinasico di bcr-abl. il razionale farmacologico è supportato dai dati di letteratura. i risultati del trial di fase ii che ha determinato la registrazione di nilotinib in ii linea hanno evidenziato al follow up di 24 mesi risposte citogenetiche maggiori nel 59% dei pazienti e complete nel 44%, con una sopravvivenza dell’87% [3]. la presenza della chr baseline, così come evidenziato dagli studi di fase ii, permette l’ottenimento di una risposta citogenetica sia maggiore sia completa in una percentuale maggiore di pazienti e in tempi più rapidi rispetto alle condizioni di non chr. oggi noi disponiamo dei dati del follow-up a 48 mesi dello studio registrativo di ii linea da dove si evince che i pazienti con risposta ematologica completa al basale presentano un maggiore tasso di pfs (progression free survival) rispetto ai pazienti senza risposta ematologica completa (71% vs 49%, p = .001). inoltre i pazienti con risposta citogenetica completa a 12 mesi presentano una più alta pfs se paragonati ai pazienti che a 12 mesi non hanno ottenuto una risposta citogenetica completa: 89% vs 56% (p < .0001). il tasso stimato di os (overall survival) a 48 mesi è del 78% (95% ci: 73%-83%). inoltre la profondità della risposta molecolare dopo tre mesi di trattamento correla significativamente con la os a 48 mesi; infatti il raggiungimento di livelli di trascritto < 1%, compresi tra 1-10% e > 10%, a tre mesi è associato ad una os del 95%, 81% e 71% rispettivamente (figura 2) [4]. figura 2. andamento della os (overall survival) in base ai livelli di trascritto di bcr-abl a 3 mesi [4] in secondo luogo, anche se le comorbidità cardiaca e diabetica possono essere considerate due potenziali controindicazioni all’uso di nilotinib, i risultati di ampi studi come lo studio enact [5] ed enestnd [7] hanno fornito informazioni in merito al profilo di sicurezza. lo studio enact (expanding nilotinib access in clinical trials) condotto allo scopo di valutare l’efficacia e la sicurezza di nilotinib in ii linea su una popolazione di circa 1400 pazienti resistenti o intolleranti a imatinib ha evidenziato una incidenza di alterazioni elettrocardiografiche (prolungamento del qtc>500ms) < 1%. anche la sub-analisi di uno studio di fase ii su 321 pazienti, 1/3 dei quali anziani (> 65 anni), resistenti o intolleranti a imatinib, ha dimostrato che non ci sono differenze tra le due popolazioni di pazienti di età < 65 o > 65 anni in termini di incidenza di infarto del miocardio, scompenso cardiaco o prolungamento del qtc >500 msec [6]. in merito alla patologia diabetica, una sub-analisi del trial enestnd presentato all’ash 2010 su una popolazione di pazienti già diabetici al momento della diagnosi di lmc ha evidenziato che il 74% dei pazienti non aveva modificato la terapia antidiabetica, e in tutti i pazienti non vi erano state variazioni significative del tasso glicemico, del peso corporeo e dell’hba1c [7]. concludendo, i risultati ottenuti nel nostro paziente sono in linea con quanto evidenziato dallo studio di fase ii registrativo in termini di efficacia, e in linea con le evidenze emerse dalle sotto-analisi dei trials di fase ii e fase iii di nilotinib, sia in prima sia in seconda linea, in termini di safety. bibliografia baccarani m, cortes j, pane f, et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041. http://dx.doi.org/10.1200/jco.2009.25.0779 breccia m, alimena g. nilotinib therapy in chronic myelogenous leukemia: the strength of high selectivity on bcr/abl. curr drug targets 2009; 10: 530-6. http://dx.doi.org/10.2174/138945009788488468 kantarjan h, giles, f et al. nilotinib in chronic myeloid leukemia patients in chronic phase (cmlcp) with imatinib resistance or intolerance: 2 year follow up results of a phase 2 study. blood 2008; 112: 3238 giles fj, le coutre pd, pinilla-ibarz j, et al. nilotinib in imatinib-resistant or imatinib-intolerant patients with chronic myeloid leukemia in chronic phase: 48-month follow-up results of a phase ii study. leukemia 2013; 27: 107-112. http://dx.doi.org/10.1038/leu.2012.181 nicolini fe, turkina a, shen zx, et al. expanding nilotinib access in clinical trials (enact). an open-label, multicenter study of oral nilotinib in adult patients with imatinib-resistant or imatinib-intolerant philadelphia chromosome-positive chronic myeloid leukemia in the chronic phase. cancer 2012; 118: 118-26. http://dx.doi.org/10.1002/cncr.26249 lipton jh, le coutre pd, wang j, et al. nilotinib in elderly chronic myeloid leukemia patients in chronic phase (cml-cp) with imatinib resistance or intolerance: efficacy and safety analysis. blood (ash annual meeting abstracts) 2008; 112: abstract 3233 saglio g, larson ra, hughes tp, et al. efficacy and safety of nilotinib in chronic phase (cp) chronic myeloid leukemia (cml) patients with type 2 diabetes in enestnd trial. blood (ash annual meeting abstracts) 2010; 116: abstract 3430 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6) 17 clinical management issues è stato dunque calcolato il sokal score, che ha rivelato un rischio intermedio (sokal score = 0,91). non avendo fratelli hla-identici, si è deciso di escludere la possibilità di un trapianto di midollo osseo, e dunque è stata iniziata terapia con imatinib 400 mg/die. caso clinico una paziente di 52 anni si è presentata alla nostra attenzione nell’agosto del 2008 a causa dell’alterazione dei suoi esami ematochimici (tabella i). la formula leucocitaria si presentava come illustrato nella tabella ii. l’elevato valore dei globuli bianchi riscontrato all’emocromo e la presenza di numerosi leucociti immaturi, come mostrato dalla formula leucocitaria, unitamente alla splenomegalia, con milza di 18 cm, hanno condotto alla decisione di effettuare un esame citogenetico nel sospetto di una neoplasia interessante il clone leucocitario. il cariotipo evidenziato da tale esame è stato 46 xx t(9;22), e dunque ha permesso di porre diagnosi di leucemia mieloide cronica (cml). il breakpoint di bcr è risultato essere del sottotipo b2a2, mentre la pcr ha evidenziato un livello iniziale di trascritto pari a 150. perché descriviamo questo caso perché è importante individuare i pazienti che non rispondono in modo ottimale a imatinib (anche incrementando la dose), e spesso tale incremento è poco efficace sulla malattia, ma aumenta gli effetti collaterali del farmaco. è dunque ipotizzabile al giorno d ’oggi non incrementare la dose di imatinib in caso di scarsa risposta, ma utilizzare terapia con farmaci di seconda generazione. inoltre il nostro caso evidenzia la non cross-intolleranza tra imatinib e nilotinib corresponding author dott. luca pezzullo lucapezzullo@libero.it caso clinico abstract we here report a case of a woman who was diagnosed as having chronic myeloid leukemia. she started imatinib at standard dose of 400mg/day and she reached a poor haematological response after 30 days of treatment. for good compliance treatment we increased the dose of imatinib at 600 mg/day. after 3 months the patient has not achieved hematologic remission and imatinib compliance has deteriorated. considering the patient as a failure and intolerant at this time, he switched to second-generation tyrosine kinase inhibitor, nilotinib at the dose of 800 mg/day. she reached complete cytogenetic remission after 3 months and nilotinib and regressed the side effects of imatinib. keywords: chronic myeloid leukemia, imatinib, nilotinib, cross-intolerance nilotinib after imatinib failure cmi 2010; 4(suppl. 6): 17-21 1 ematologia a.o.r.n. “a. cardarelli”, napoli luca pezzullo 1 uso di nilotib a seguito di fallimento terapeutico con imatinib disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6)18 uso di nilotib a seguito di fallimento terapeutico con imatinib malizzazione dei valori di emoglobina e di piastrine, e hanno sancito il rientro nel range della normalità dei valori di globuli bianchi (8.500/ml). la formula leucocitaria appariva finalmente priva di percentuali rilevanti di precursori leucocitari (neutrofili = 75%; linfociti = 15%; monociti = 10%). l’esame molecolare mostrava una riduzione del trascritto di un logaritmo (pcr = 16) e l’assenza di mutazioni addizionali. le dimensioni della milza risultavamo ulteriormente diminuite (13 cm), ma comunque ancora non normali. dunque la paziente non aveva ottenuto una risposta ematologica completa (tabella v ). l’esame citogenetico rivelava una percentuale di metafasi ph+ pari all’85% e quindi la risposta citogenetica ottenuta era solo minima (tabella v ). ma soprattutto la paziente cominciava a manifestare eventi avversi di rilevanza maggiore. pertanto la risposta clinica è stata giudicata non soddisfacente nonostante l’aumento evoluzione della malattia dopo un mese di trattamento il numero di globuli bianchi appariva decisamente diminuito, ma non rientrava ancora nel range della normalità. i livelli di emoglobina e di piastrine, invece, si erano normalizzati (tabella iii). veniva inoltre registrata la persistenza di elevate percentuali di precursori leucocitari (tabella iv ). la splenomegalia risultava lievemente migliorata, con dimensioni della milza pari a 15 cm e la tollerabilità alla terapia farmacologica pareva buona, con una leggera manifestazione avversa. data la scarsità degli eventi avversi e dal momento che la paziente non presentava ancora una risposta ematologica completa, si è deciso di aumentare il dosaggio di farmaco, somministrando dunque 600 mg/die di imatinib. gli esami effettuati dopo altri due mesi di trattamento hanno confermato la norneutrofili 60% linfociti 5% monociti 0% eosinofili 4% basofili 5% metamielocito 10% mielocito 8% promielocito 5% cellule patologiche 3% parametro valore riscontrato valori normali wbc 155.000/ml 4.000-10.000/ml hb 10,5 g/dl 12-16 g/dl plts 494.000/mm3 150.000-400.000/mm3 tabella i valori iniziali degli esami ematochimici della paziente tabella ii formula leucocitaria iniziale della paziente parametro valore riscontrato valori normali wbc 10.500/ml 4.000-10.000/ml hb 12,9 g/dl 12-16 g/dl plts 250.000/mm3 150.000-400.000/mm3 tabella iii emocromo dopo un mese di trattamento con imatinib neutrofili 65% linfociti 10% monociti 10% metamielocito 5% mielocito 10% tabella iv formula leucocitaria dopo un mese in trattamento con imatinib ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6) 19 l. pezzullo cente risposta ematologica dopo un mese e la buona compliance al farmaco hanno portato alla decisione di incrementare la dose di imatinib. tale decisione non ha inciso sulla risposta ematologica a 3 mesi (non ottenimento della risposta ematologica per persistente splenomegalia) mentre è peggiorata la compliance della paziente al farmaco [2]. questo ci ha indotto a non dosare la concentrazione plasmatica del farmaco, essendo la paziente intollerante a 600 mg/die. al terzo mese di terapia, anche le risposte degli esami di citogenetica e molecolare sono risultate minime e, per tale motivo, si è effettuato uno studio mutazionale che è risultato essere negativo (lo screening mutazionale dovrebbe essere riservato, secondo le raccomandazioni eln 2006 e le successive pubblicazioni in merito, ai pazienti in fallimento terapeutico o risposta sub-ottimale [3]). del dosaggio di farmaco utilizzato, che ha invece causato effetti collaterali rilevanti per la paziente. la terapia con imatinib è stata dunque sospesa ed è stato iniziato un trattamento con nilotinib 800 mg/die. a tre mesi dall’inizio della nuova terapia i leucociti apparivano ulteriormente ridotti (wbc = 6.100/ml), così come le dimensioni della milza (11 cm). l’esame citogenetico rivelava un cariotipo 46 xx su tutte e 20 le metafasi analizzate, mentre l’esame molecolare dava un valore del trascritto pari a 0,497. date le ottime condizioni generali della paziente, si è deciso di proseguire la terapia con nilotinib. dopo ulteriori tre mesi, l’emocromo è rimasto sostanzialmente invariato, così come l’esame citogenetico e le dimensioni della milza. il trascritto è invece diminuito di più di 3 logaritmi (pcr = 0,063), e dunque la paziente ha ottenuto una risposta molecolare maggiore (tabella v ). al nono mese di trattamento con nilotinib, il trascritto risultava non rilevabile alla pcr, condizione che descrive l’ottenimento della risposta molecolare completa (tabella v ). persistevano le ottime condizioni generali. tali risultati sono stati confermati al trascorrere di tre ulteriori mesi e poi al diciottesimo mese di trattamento con nilotinib. nella figura 1 viene schematizzato l’andamento della risposta alla terapia. discussione nel caso illustrato, presentando la paziente un rischio sokal intermedio, la non soddisfatipo di risposta definizione ematologica completa (chr) y globuli bianchi < 10 x 109/l y basofili < 5% y assenza di mielociti, mieloblasti, promielociti y piastrine < 450 x 109/l y milza non palpabile citogenetica y completa (ccgr) assenza del cromosoma philadelphia y parziale (pcgr) philadelphia + compreso fra 1-35% y minore (mcgr) philadelphia + compreso fra 36-65% y minima (mincgr) philadelphia + compreso fra 66-95% y nessuna (no cgr) philadelphia + > 95% molecolare y completa(cmoir) trascritto bcr-abl mrna non rintracciabile con rt-q-pcr e/o nested pcr in due campioni consecutivi di sangue di adeguata qualità (sensibilità > 104) y maggiore (mmoir) ratio bcr-abl su abl ≤ 0,1% della international scale tabella v definizione di risposta ematologica, citogenetica e molecolare. modificato da [1] rt-q-pcr = real time quantitative polymerase chain reaction figura 1 schema che illustra l ’andamento della malattia nel tempo in relazione al farmaco usato, sulla base del numero di cellule leucemiche e del livello di trascritto bcr-abl n u m e r o d i c e ll u le le u c e m ic h e nilotinib 10 6 10 7 10 8 10 9 10 10 10 11 10 12 0,0001 0,001 0,01 0,1 1 10 100 r a tio b c r a b l ( s e c o n d o la s c a la in te r n a z io n a le ) diagnosi, pretrattamento o recidiva ematologica risposta ematologica completa risposta citogenetica completa risposta molecolare maggiore transcritto non determinabile (risposta molecolare completa) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6)20 uso di nilotib a seguito di fallimento terapeutico con imatinib abl rispetto alle altre chinasi pdgfr e kit. come conseguenza della sua attività biochimica, nilotinib inibisce selettivamente la proliferazione cellulare e induce la morte delle cellule leucemiche ph+ dei pazienti affetti da lmc. la maggiore selettività del farmaco nei confronti della chinasi bcrabl si riflette in una buona efficacia clinica [6,7,8]. la tossicità cutanea è riportata tra i più comuni effetti collaterali di nilotinib, ma è essenzialmente di grado i/ii e solo il 10 % dei pazienti necessita di sospensione [9]. nilotinib ha una maggiore affinità di imatinib per il sito di legame della tirosin chinasi. inoltre, analogamente a imatinib, la capacità di tale farmaco di agire su pochi e selezionati bersagli, senza coinvolgere in maniera aspecifica molecole ubiquitarie a livello cellulare, ha permesso di ridurre gli eventi avversi. un’altra importante caratteristica di nilotinib è quella di non presentare crossintolleranza con la terapia di riferimento (imatinib): i pazienti che non tollerano il trattamento con imatinib non mostrano una particolare predisposizione all’intolleranza a nilotinib [10]. in conclusione,una precoce valutazione della risposta al trattamento con imatinib, ha condotto: 1) ad aumentare il dosaggio del farmaco, cosa alla quale la paziente è risultata intollerante; 2) allo switch precoce a nilotinib,tki di seconda generazione. ciò ha comportato una rapida risposta, anche molecolare, al trattamento, e una completa regressione degli effetti collaterali di imatinib. queste valutazioni cliniche e biologiche ci hanno indotto a sospendere il trattamento con imatinib e ad iniziare trattamento con nilotinib 800 mg/die, a cui la paziente ha risposto in modo ottimale (dopo 3 mesi: citogenetica normale e riduzione di 3 log della valutazione quantitativa del trascritto bcr/abl). nilotinib è un inibitore di seconda generazione, ideato per una maggiore selettività e affinità di legame con il dominio chinasico di bcr-abl: i legami a idrogeno tipici di imatinib sono sostituiti da interazioni lipofiliche, che rendono la tasca di legame apparentemente meno soggetta a mutazioni. l’aggiornamento dei risultati di fase ii ha evidenziato una notevole efficacia in 321 pazienti resistenti e/o intolleranti a imatinib. è stato riportato il 94% di risposte ematologiche complete, nel tempo mediano di 1 mese, e il 59% di risposte citogenetiche maggiori, di cui il 44% complete nel tempo mediano di 2,8 mesi di trattamento. la sopravvivenza globale stimata a 2 anni è dell’88%, e il 78% dei pazienti ha mantenuto a 2 anni la risposta citogenetica raggiunta [4]. il 42% dei pazienti arruolati nello studio di fase ii aveva una mutazione: i risultati, con un follow-up di 19 mesi, hanno dimostrato un’incidenza sostanzialmente simile e non significativa di risposte tra mutati e non mutati [5]. quindi, rispetto a imatinib, nilotinib è 30 volte più potente nell’inibire abl e presenta una maggiore affinità di legame è cioè più specifico e selettivo per la chinasi bcrbibliografia 1. baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, 3. saglio g, apperley j et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51 2. druker bj, talpaz m, resta dj, peng b, buchdunger e, ford jm et al. efficacy and safety of a specific inhibitor of the bcr-abl tyrosine kinase in chronic myeloid leukaemia. n engl j med 2001; 344:1 031-7 3. baccarani m, saglio g, goldman j, hochhaus a, simonsson b, appelbaum f et al; european leukemianet. evolving concepts in the management of chronic myeloid leukemia: recommendations from an expert 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alessandra cupri 1, stefania stella 2, michele massimino 2, silvia rita vitale 2, paolo vigneri 2 caso clinico leucemia mieloide cronica: un caso di risposta sub-ottimale a imatinib trattato efficacemente con nilotinib fausto palmieri 1 caso clinico uso di nilotib a seguito di fallimento terapeutico con imatinib luca pezzullo 1 caso clinico efficacia della terapia con nilotinib in paziente con leucemia mieloide cronica esordita in epoca pre-tki e resistente a imatinib ivana pierri 1, m. bergamaschi 1, antonia cagnetta 1, anna ghiso 1, marco gobbi 1 cmi 2013;7(suppl 1)13-17.html risposta molecolare completa indotta da nilotinib in una paziente pluritrattata giuseppe pietrantuono 1 1 dipartimento di oncoematologia, irccs-crob rionero in vulture (potenza) abstract we reported a case report of a female patient with chronic myeloid leukemia who was treated with nilotinib after failure to imatinib, nilotinib, dasatinib. the patient was diagnosed in 2001 and treated with imatinib, but complete cytogenetic response (ccyr) and complete hematologic response (chr) were lost four years later. doubling imatinib dose to 800 mg/die gave no positive results. the patient was enrolled in clinical trial with nilotinib, but mutational analysis performed after two months showed y253h point mutation (no nilotinib sensitive). in april 2007 dasatinib was started and ccyr and major molecular response (mmolr) was reached. in may 2011 bcr-abl transcript progressively increased and mutational analysis showed a m244v point mutation. therapy with nilotinib 800 mg/die was started, and after six months the patient obtained a complete molecular response (cmr), surprising with disappearance of both point mutations. keywords: nilotinib; chronic myeloid leukemia; imatinib resistance; bcr-abl mutations complete molecular response induced by nilotinib in a patient previously treated with imatinib, nilotinib and dasatinib cmi 2013; 7(suppl 1): 13-17 caso clinico corresponding author dott. giuseppe pietrantuono ematologia45@alice.it perché descriviamo questo caso? per sottolineare che non sempre è possibile prevedere le ricadute nei pazienti in trattamento con tki anche dopo anni di trattamento e come la scelta terapeutica è quasi sempre a favore dell’inibitore alternativo. nel nostro caso in corso di trattamento con “terzo” inibitore la paziente ha sviluppato resistenza per la presenza della mutazione che in vitro risulta essere sensibile all’inibitore in uso. ciò ci ha spinto a reintrodurre nilotinib, come “quarto” inibitore e come “ultima chance” di trattamento terapeutico per la paziente, ottenendo una risposta rapida e profonda caso clinico nel dicembre 2001 giunge alla nostra osservazione una donna di 57 anni, a cui viene posta diagnosi di leucemia mieloide cronica (lmc), con uno score sokal basso. la paziente presentava iperleucocitosi, riscontrata per controllo in seguito ad astenia e assenza di splenomegalia. percorso terapeutico la paziente viene sottoposta per circa tre mesi a terapia con interferone alfa (3.000.000 u/2 volte a settimana) non ottenendo alcuna risposta. ad aprile 2002, non appena è disponibile in commercio imatinib, la paziente inizia il trattamento con 400 mg/die. dopo 6 mesi di trattamento la paziente non raggiunge ancora una risposta citogenetica soddisfacente, pertanto imatinib viene aumentato fino a 800 mg. dopo tre anni di terapia la paziente non ottiene ancora una risposta citogenetica e decide di non voler continuare il trattamento con imatinib, che pertanto viene sospeso a ottobre 2006. a novembre 2006, essendo disponibile presso il nostro centro il protocollo clinico camn-107a2101, la paziente inizia il trattamento con nilotinib 800 mg/die. dopo due mesi di terapia (gennaio 2007) la biologia molecolare risulta essere ancora positiva con un valore di trascritto bcr-abl/abl pari al 20%. a causa dell’incremento della biologia molecolare, si decide di effettuare un’analisi mutazionale anche se non prevista dal protocollo, rilevando così la presenza della mutazione y253h, con comparsa di piastrinosi (quindi mancata risposta). dai dati di letteratura è noto che tale mutazione risulta essere insensibile al nilotinib (figura 1 [1]). a causa della documentata assenza di risposta sia ematologica sia molecolare, la paziente interrompe il trattamento e discontinua il protocollo clinico. figura 1. scala della sensibilità alle mutazioni per dasatinib e nilotinib determinate in vitro mediante cell proliferation assays. shading di o’hare: rosso, resistente, giallo, sensibilità intermedia e verde sensibile. shading di redaelli: rosso, altamente resistente, arancione, resistente, giallo moderatamente resistente e verde sensibile. modificato da [1] figura 2. variazioni del trascritto bcr/abl dopo la seconda assunzione di nilotinib avendo a disposizione in commercio dasatinib, ad aprile 2007 decidiamo di iniziare il trattamento con tale inibitore al dosaggio di 70 mg/bid per due mesi, successivamente ridotto a 100 mg/die come da nuova indicazione della scheda tecnica. nel contempo, a maggio 2010, la paziente si sottopone a un intervento di tiroidectomia per gozzo multinodulare tossico con nessuna complicanza. la paziente ottiene rapidamente una risposta molecolare maggiore con l’introduzione del nuovo trattamento, ma dopo 4 anni (maggio 2011) cominciamo a notare oscillazioni del trascritto e decidiamo una nuova indagine mutazionale che documenta la presenza di una ulteriore mutazione che si aggiunge alla precedente, ossia m244v presente in una regione di bcr-abl immediatamente precedente al p-loop, ma con documentata sensibilità a dasatinib. si decide quindi di aumentare il dosaggio di dasatinib a 140 mg/die, ma dopo 6 mesi di terapia (novembre 2011) assistiamo a una perdita di risposta con un valore di trascritto bcr-abl/abl pari a 2,65 % con contemporaneo incremento delle piastrine (548x103/ul). il successivo controllo (gennaio 2012) mostra un peggioramento della malattia con un valore di trascritto bcr-abl/abl aumentato fino a 30, 65% e un valore di piastrine ancora aumentato (1080 x103/ul). di fronte a tale quadro, avendo a disposizione trials clinici presso il nostro centro e dopo il rifiuto della paziente ad allontanarsi da casa per poter essere arruolata in protocolli sperimentali seguiti da altri colleghi, il mese successivo (febbraio 2012) si decide di iniziare nuovamente la terapia con nilotinib 800 mg/die. dopo due mesi di trattamento (aprile 2012) assistiamo a una risposta ematologica completa e a una rapida diminuzione del trascritto bcr-abl/abl con un valore pari a 1,98%. a giugno 2012 l’andamento rimane positivo: la paziente raggiunge infatti la risposta molecolare completa con un valore di trascritto bcr-abl/abl pari a 0,0024% (figura 2). all’ultimo controllo di settembre 2012 la paziente conferma sia la risposta ematologica completa sia la risposta molecolare completa. sorprendentemente, al controllo mutazionale, si documenta anche la scomparsa di entrambe le mutazioni puntiformi. in tabella i si riporta un breve riassunto della storia clinica della paziente. periodo evento/trattamento risultato dicembre 2001 diagnosi lmc inizio trattamento con ifn-alfa nessuna risposta aprile 2002 inizio terapia con imatinib 400 mg/die assenza di risposta citogenetica ottobre 2002 aumento della dose di imatinib a 800 mg/die la paziente decide di interrompere il trattamento novembre 2006 arruolamento nel protocollo camn-107a2101 gennaio 2007 l’analisi mutazionale rileva la presenza della mutazione y253h e la comparsa di piatrinosi aprile 2007 inizio terapia con dasatinib 70 mg/bid e successivamente 100 mg/die (come da nuova indicazione scheda tecnica) risposta molecolare maggiore maggio 2011 mutazione m244v aumento del dosaggio di dasatinib a 140 mg/die perdita di risposta ematologica, citogenetica e molecolare novembre 2011 bcr/abl 2,65 gennaio 2012 bcr/abl 30,65 febbraio 2012 inizio terapia con nilotinib 800 mg/die aprile 2012 bcr/abl 1,98 giugno 2012 bcr/abl 0,0024 agosto 2012 bcr/abl 0,0000 risposta ematologica completa, molecolare completa e scomparsa mutazioni puntiformi settembre 2012 bcr/abl 0,0000 risposta ematologica completa, molecolare completa e scomparsa mutazioni puntiformi tabella i. riassunto della storia clinica della paziente domande da porsi qual è l’outcome dei pazienti trattati con tki in terza linea o successive? è stato corretto nel nostro caso impiegare/reintrodurre il terzo tki? discussione è stato documentato che la terapia con imatinib determini il raggiungimento della risposta citogenetica completa (rcc) nella maggior parte dei pazienti con lmc [2]. una parte di questi pazienti mostra una resistenza primaria o acquisisce una resistenza secondaria che compare dopo il raggiungimento della rcc. i dati clinici e preclinici hanno dimostrato come sia nilotinib sia dasatinib siano in grado di sopperire alla resistenza a imatinib in modo efficace. tra i vari meccanismi associati allo sviluppo delle resistenze ricordiamo la scarsa compliance, le interferenze farmacologiche, la comparsa di alterazioni cromosomiche aggiuntive; tuttavia quello riscontrato più comunemente è l’acquisizione di mutazioni puntiformi all’interno del dominio chinasico di bcr-abl [3]. la scelta dell’inibitore di tirosin chinasi (tki) sulla base dell’esame mutazionale è una prassi comune nella nostra pratica clinica: il gruppo statunitense dell’m.d. anderson sostiene che anche in terza linea è fondamentale che la scelta dell’inibitore avvenga sulla base dell’esame mutazionale [4]. il gruppo inglese dell’hammersmith, invece, non riconosce alle mutazioni un ruolo determinante per la risposta, in quanto la resistenza può essere causata anche da meccanismi bcr-abl indipendenti [5]. nel caso che abbiamo descritto ci siamo trovati di fronte a una paziente con una storia datata di malattia che, dopo perdita di risposta con imatinib e la comparsa di una mutazione non sensibile a nilotinib (y253h), viene trattata con dasatinib. la paziente dopo circa 4 anni di trattamento ha quindi una perdita di risposta per la comparsa di una nuova mutazione (m244v) che è descritta come dasatinib sensibile. viene quindi sottoposta al trattamento con nilotinib ottenendo una risposta molecolare completa in circa 6 mesi. nilotinib e dasatinib sono attivi contro la maggior parte delle mutazioni resistenti a imatinib, ma alcune di queste conferiscono resistenza clinica sia a nilotinib sia a dasatinib o a entrambi. la prima mutazione che compare a inizio del trattamento con nilotinib, y253h, è una mutazione molto comune nei casi di perdita di risposta da imatinib [1]. i risultati dello studio clinico registrativo di fase ii che vedeva 281 pazienti in fase cronica, trattati con nilotinib, hanno evidenziato che nessun paziente con la mutazione t315i, y253h, e255k/v ha raggiunto la risposta citogenetica completa entro i 12 mesi, solo il 19% una risposta citogenetica maggiore e il 35% una risposta ematologica [6]. i dati che avevamo a disposizione a suo tempo e il quadro clinico della paziente ci avevano indotto a discontinuare il protocollo e a utilizzare l’inibitore alternativo che mostrava sensibilità alla mutazione. tuttavia, come evidenziato nel nostro caso, la perdita di risposta anche con dasatinib e la comparsa di una nuova mutazione sensibile all’inibitore in uso ci hanno spinto, all’inizio, ad un aumento di dosaggio, successivamente, trovandoci di fronte alla persistenza della non risposta e scartata la possibilità del trapianto e di un trattamento sperimentale, abbiamo deciso di reintrodurre nilotinib. il quadro della paziente era ben chiaro, con la presenza dell’unica mutazione m244v (nilotinib-sensibile) e la presenza di una recidiva della malattia. intanto dati di efficacia ottenuti dagli studi di fase ii in seconda linea hanno dimostrato che nilotinib è una efficace opzione terapeutica nei pazienti resistenti/intolleranti a imatinib, garantendo elevate probabilità di risposta, basso rischio di progressione e un buon profilo di tollerabilità [7]. il tasso di incidenza di raggiungimento della risposta citogenetica completa è uguale nei pazienti con o senza mutazioni nilotinib-sensibili, con la maggior parte dei pazienti che ottengono una risposta citogenetica entro 9 mesi dall’inizio del trattamento e il 28% che ottiene una risposta molecolare maggiore a 12 mesi, per entrambi i gruppi [8]. il risultato riportato dalla nostra paziente è in accordo con quanto evidenziato anche dallo studio enact, in particolare nella sottopopolazione dei pazienti francesi, dove il 37% ha raggiunto una risposta molecolare maggiore entro i 12 mesi e, di questi, il 20% una risposta molecolare completa [9]. due studi pubblicati qualche anno fa dimostrano che non esiste una cross resistenza tra dasatinib e nilotinib; inoltre il loro utilizzo può indurre risposte citogenetiche e molecolari nel caso di doppia resistenza. anche i dati di efficacia ottenuti sui pazienti trattati negli studi in prima linea hanno dimostrato che nilotinib è un’efficace arma terapeutica, producendo risposte molecolari rapide e profonde. lo studio registrativo enestnd a 12 mesi ha evidenziato che il doppio dei pazienti in trattamento nel braccio sperimentale con nilotinib aveva ottenuto una risposta molecolare maggiore (44% nilotinib vs 22% imatinib) [10-11]. anche l’ultimo follow up a 36 mesi rafforza la nostra scelta alla luce delle seguenti risposte: mmr 73% nilotinib vs 53% imatinib; mr4 50% nilotinib vs 26% imatinib; mr4.5 32% vs 15% risposte ottenute in tutti i rischi sokal. a tali dati si aggiunge ancora una volta il vantaggio in termini di progressione: infatti non abbiamo osservato più alcuna progressione dopo il primo anno (0,7% nilotinib vs 4,2% imatinib). tali dati ci confortano perché ci permettono di poter progettare protocolli di discontinuazione del trattamento, al fine di poter “curare” la malattia. in conclusione il caso che abbiamo descritto mostra come in una paziente pluritrattata, dopo dieci anni dalla diagnosi, siamo riusciti a ottenere degli ottimi risultati. la nostra paziente in soli 6 mesi ha raggiunto una risposta molecolare completa che è mantenuta ancora oggi, unitamente a una buona tollerabilità del farmaco. la nostra considerazione ormai c’è un consensus che la resistenza a secondo/terzo inibitore rappresenti una indicazione al trapianto, in quanto i tki impiegati in terza/quarta linea hanno “minore efficacia”, e le risposte possono essere di breve durata. purtroppo solo una piccola percentuale di pazienti è candidabile al trapianto e non sempre si hanno a disposizione protocolli sperimentali con nuovi farmaci. tuttavia, come ha evidenziato il nostro caso, in una paziente pluritrattata l’utilizzo di interferone, imatinib e degli inibitori di ii generazione con meccanismi di azione differente ci hanno consentito di operare una “terapia sequenziale” che oggi ci ha permesso di ottenere con nilotinib una risposta rapida e di portare la paziente in risposta molecolare completa bibliografia bradford s, melo jv, hughes t. bcr-abl mutation status really matter? chronic myeloid leukemia patients after imatinib failure: does the selecting optimal second-line tyrosine kinase inhibitor therapy for chronic myeloid leukemia patients after imatinib failure: does the bcr-abl mutation status really matter? blood 2009; 114: 5426-35. http://dx.doi.org/10.1182/blood-2009-08-215939 deininger m, o’brien sg, guilhot f, et al. international randomized study of interferon vs sti571 (iris) 8-year follow up: sustained survival and low risk for progression or events in patients with newly diagnosed chronic myeloid leukemia in chronic phase (cml-cp) treated with imatinib. 51st ash annual meeting and exposition, new orleans, la, december 5-8, 2009 (abstr 1126) von bubnoff n, schneller f, peschel c, et al. bcr-abl gene mutations in relation to clinical resistance of philadelphia-chromosome-positive leukaemia to sti571: a prospective study. 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potentially life-threatening event demanding timely recognition and prompt intervention as, even in cases without acute respiratory failure, delayed diagnosis and treatment can result in serious complications [1]. the vast majority of fb inhalation occurs in infancy and early children (80% of cases in children younger than 3 years of age) [2], with the peak incidence in children between one and two years. reasons for this include their: habit to putting anything in the mouth, especially when they play/laugh/cry; lack of molar teeth and poorer mastication; and less mature protective laryngeal reflexes [3]. loss of consciousness from trauma, drug or alcool intoxication, aging-associated pathological status, and medication use are risk factors for fb inhalation in the adults [4]. the majority of inhaled fbs are organic materials, such as nuts and seeds in children and food and bones in adults [5]. organic fbs can expand from bronchial secretions and worsen obstruction; moreover, materials with a high oil content (such peanuts) can also cause severe mucosal inflammation and accumulation of bulky granulation tissue resulting in airway stenosis. inorganic fbs can result in direct airway injury if they are sharp. the most common type of inorganic fbs in children are beads, coins, and small parts of toys; whereas in adults are dental debris, dental prostheses, and appliances [5]. however, with globalization, civilization and growing populations new types and more reports of fb inhalation are published. for example, there is a distinct group recently being recognized as at risk: women wearing headscarves who inappropriately place the pin in their mouth prior to securing the veil, leading to accidental aspiration. fbs are lodged preferentially in the right bronchial tree (60% of cases); this is due to its more vertical disposition and to the position of the carina to the left of the mid-trachea that increase the “catchment area” of the right main bronchus [6]. the position of the carina to the right of the mid-trachea in one third of children could account for the prevalence of inhaled fbs in the left bronchial tree reported in some pediatrics series. the clinical course and outcome of fb inhalation depend on the size and localization of the fb, as well as the lenght of time that the fb has been in the airway. airway involvement varies from complete obstruction with hypoxia and cardiorespiratory impairment (more frequent in case of large fb or laryngeal/tracheal fb) to partial obstruction with coughing, wheezing, and respiratory distress (more common when fb is inhaled in the lower lobes). in children even a small reduction of the size of airway can cause a significant increase in airway resistance; therefore the consequences of fb inhalation could be dramatic (the fb inhalation is one of the leading cause of accidental death in children). the most frequent symptoms associated with fb inhalation are sudden onset of choking and intractable cough with or without vomiting (“penetration syndrome”) [7]. other presenting symptoms may be cyanosis and breathing difficulties. these symptoms can subside spontaneously and quickly even when the fb remains. in other cases, children continue to have respiratory symptoms due to complications related to the presence of the fb, such as obstructive pneumonitis, atelectasis, bronchiectasis, lung abscess, pneumomediastinum or pneumothorax. compared to children, in adults, the clinical presentation of fb inhalation is often subtle or silent [8]. the most common symptom is chronic cough that may mimic other respiratory diseases such as asthma not responding to therapy, or recurrent/nonresolving pneumonia. the nonspecificity of clinical presentation and the absence of inhalation history are the probable reasons for the frequent misdiagnosis in these patients. in adults, a fb may be discovered incidentally during bronchoscopy performed for symptoms related to complications caused by the fb often ignored or forgotten. of all signs and symptoms, the most predictive indicator of fb inhalation is the history of choking (sensitivity of 76 to 92%) [9]. at clinical examination, the most frequent sign of the presence of an inhaled fb is the decrease in the breathing sound on the same side as the fb; however, physical examination may be normal (up to 56% of cases). likewise, as the majority of fbs are radiolucent, the chest radiograph may be normal (up to 80% of cases) unless aspiration is accompanied by airway obstruction or other complications [9,10]. in these cases, an expiratory chest radiograph or fluoroscopy may be helpful to demonstrate the air trapping distal to the fb or a mediastinal shift contralateral to lung containing the fb [11]. as the clinical presentation of fb inhalation may be silent, the most important factor in diagnosis is consider the possibility. in this regard, when bronchopulmonary symptoms develop in an otherwise healthy child, one should always ask whether the child may have eaten nuts or seeds, or whether the child may have been playing with small objects that could have been inhaled. once fb inhalation is suspected, rapid fb identification and localization are required. flexible bronchoscopy is the gold standard for definitive diagnosis. because of complications that can result from the presence of a fb in the airway, if there is any doubt about the existence of a fb in the lung, it is better to perform a bronchoscopy to conclude that there is no a fb rather than risk to leave a fb in the bronchial tree [12]. rigid bronchoscopy is the procedure of choice to remove the fb, especially in children; whereas in adults most of inhaled fbs can be removed with the flexible bronchoscope [13]. rigid bronchoscopy permits control of airways (ventilation), manipulation of the fb with a wide variety of extraction instruments, and management of mucosal bleeding that can occur in the case of fb embedded in granulation tissue. a strong coordination among interventional pulmonologist, anesthesiologist, and instrumentation nurse in addition to relevant skill and experience is essential in making the removal procedure safe and efficacious. during the endoscopic removal the fb may slip out of the grip of the forces and dislodge in previously healthy mainstem bronchus: this event may be lethal if the originally involved lung is atelectatic or the originally involved bronchus remains obstructed by inflammation or residual fb. this potentially dangerous accident is most likely to happen when the fb is too large to be withdrawn through the bronchoscope and usually occurs as it is being withdrawn through the cords. another complication during fb extraction may be distal dislodgement and fragmentation of the fb. because fb inhalation is a relatively rare phenomenon, opportunities for acquiring skill in removal procedures are inherently scarce. this problem is made more complex because the rigid bronchoscopy in children is quite a different matter from flexible bronchoscopy in adults; and it is not just a matter of size of the airways and size of the instruments (which is still a big problem). there is, also, in children, a tendency to spasm which can be increased by the prolonged intubation necessary to the removal of the fb. therefore, if an immediate emergency procedure is not indicated, i recommend the transfer of the patient to a center with experience in airway endoscopy in children. this also applies to the “simple” diagnostic flexible bronchoscopy as accidental dislodgement of the fb may occur during this procedure so that interventional pulmonologist should have a rigid bronchoscopy immediately available in the event of a more serious airway obstruction. there is no agreement about the urgency for removal of inhaled fbs. laryngeal and subglottic/tracheal fbs need urgent intervention, whereas more commonly the clinical situation is relatively stable. however, even in stable patients with distal obstructions, the possibility of increased morbidity due to prolonged distal obstruction as well as the potential for a fb to dislodgement, should be taken into consideration when planning the timing of removal [14,15]. finally, it is important to emphasize preventive measures in order to make parents able to avoid risk situations. in particular, the offering of nuts or seeds of any kind to young children should be avoided. it is also strongly recommended that younger children should not be allowed to play with small plastic or metallic objects. references 1. al-majed sa, ashour m, al-mobeireek af, et al. overlooked inhaled foreign bodies: late sequelae and the likelihood of recovery. respir med 1997; 91: 293-6; http://dx.doi.org/10.1016/s0954-6111(97)90033-0 2. casalini ag. broncoscopia operativa pediatrica. i corpi estranei tracheobronchiali in età pediatrica. in: casalini ag (a cura di). pneumologia interventistica. milano: springer verlag, 2007: 655-6; http://dx.doi.org/10.1007/978-88-470-0556-3_62; 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rallentamento ideomotorio alternato a sopore, nonché comparsa di incontinenza urinaria, disfagia e un’importante cervicalgia da due giorni. in anamnesi la figlia riportava un’ipertensione arteriosa in buon compenso con la terapia antipertensiva, e un’artrite reumatoide in terapia con steroidi e idrossiclorochina. cristina pellissetto 1 introduzione la mediastinite è un processo flogistico a decorso acuto o cronico che riconosce nella maggior parte dei casi un’eziologia infettiva. descritta per la prima volta da boerhaave nel 1742, essa risulta caratterizzata dalla necrosi del tessuto cellulare lasso del mediastino. le cause di mediastinite sono riassunte nella tabella i. gli organismi patogeni responsabili di mediastinite sono: aerobi, anaerobi, miceti o flora mista [1]. l’infezione mediastinica si propaga per contiguità lungo i piani fasciali, i grossi vasi, la trachea e i bronchi. i segni/sintomi più frequenti di mediastinite sono: febbre, leucocitosi, dolore intenso cervicale e/o toracico, a volte disfagia, fino a complicanze più temibili quali ards (acute respiratory distress syndrome) e shock. il sospetto di mediastinite si ha attraverso l’anamnesi e l’esame obiettivo; l’rx torace può mostrare un allargamento del mediastino, ma è la tc collo + torace che fa formulare la diagnosi di certezza. un interessante caso di mediastinite abstract mediastinitis is an inflammatory process; it can be either acute or chronic and it can advance rapidly. causes of acute mediastinitis usually arise from perforation of the oesophagus or from contiguous spread of neck infections. an important neck or chest pain with fever or the onset of inflammatory index and the enlargement of the mediastinal x-ray image should lead to suspect mediastinitis. the tc-scan of neck and thorax is the gold standard for mediastinitis diagnosis. keywords: mediastinitis, neck pain, pleural drainage an interesting case of mediastinitis cmi 2010; 4(suppl. 3): 43-46 1 ospedale s. lorenzo, carmagnola (to) corresponding author dott.ssa cristina pellissetto cpellissetto@yahoo.it caso clinico perforazione dell’esofago (90% dei casi) y infezioni della testa e del collo (tonsilliti, ascessi dentari) y infezioni pleuriche e/o polmonari y ascessi subfrenici y traumi chiusi o penetranti y infezioni metastatiche secondarie a osteomieliti y infezione da sternotomia mediana idiopatica y tabella i cause di mediastinite ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)44 un interessante caso di mediastinite all’ingresso in p.s. la paziente si presentava vigile e collaborante seppur astenica; la pressione arteriosa era di 120/70 mmhg in presenza di tachicardia regolare (frequenza tiroide risultava palpatoriamente ingrandita e non erano presenti soffi carotidei. l’esame obiettivo risultava nella norma, eccetto che per la presenza di toni cardiaci tachicardici, di un murmure vescicolare diffusamente ridotto soprattutto alle basi polmonari e di una dolorabilità nei quadranti addominali di destra con blumberg e murphy negativi. l’esame obiettivo neurologico rilevava un lieve deficit sensitivo-motorio a sinistra. gli esami ematochimici rilevavano una leucocitosi neutrofila (globuli bianchi = 24.960/mm3, neutrofili = 96,9%), un incremento degli indici ritentivi renali (creatinina = 2,7 mg/dl), elettroliti, glicemia e funzionalità epatica sostanzialmente nella norma (na+ = 134 meq/l; k+ = 4,3 meq/l; hgt = 90; ast = 30; alt = 16), enzimi cardiaci e funzionalità tiroidea nella norma. la radiografia del torace evidenziava segni di enfisema, con modesto ingrandimento dell’ombra cardiaca e dell’ombra mediastinica con margini sfumati. l’rx dell’addome risultava nella norma. veniva inoltre eseguita un’ecografia latero-cervicale + tiroide che evidenziava uno struma tiroideo. la paziente veniva quindi ricoverata nel reparto di medicina con il sospetto di tia (attacco ischemico transitorio). alla tc cranio basale si evidenziava un quadro di encefalopatia corticale su base vasculopatica cronica. durante la degenza si assisteva a un episodio di agitazione psicomotoria, accompagnata da dispnea e dolore toracico con nuovo rialzo termico (temperatura corporea = 37,7 °c). gli accertamenti eseguiti permettevano di escludere un quadro di sindrome coronarica acuta (ecg paragonabile al precedente, curva enzimatica cardiaca negativa). venne quindi eseguita un’ega (emogasanalisi) arteriosa, durante ossigeno-terapia, con evidenza di una grave acidosi metabolica (ph = 7,06; pco2 = 35 mmhg; po2 = 126 mmhg; hco3 = 10,6 mmol/l) in presenza di valori di creatininemia in aumento rispetto all’ingresso (3 mg/dl). le emocolture risultavano negative. dopo terapia con bicarbonato ev e idratazione si assisteva a netto miglioramento clinico ed emogasanalitico. al persistere dell’importante cervicalgia, e in seguito al rialzo degli indici di flogosi e della febbre, veniva eseguita una tc massiccio-facciale + collo + torace che evidenziava, oltre a un parziale impegno di seni mascellari e fosse nasali (figura 1), una colata retrotracheale di 15 mm che si estendeva figura 1 tc massiccio-facciale effettuata dalla paziente figura 2 tc mediastino effettuata dalla paziente cardiaca = 120 bpm) e la saturazione era di 91% in aria ambiente con una frequenza respiratoria di 28 atti per minuto. la temperatura corporea era di 37,8 °c. le mucose erano disidratate con micosi della lingua, la ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 45 c. pellissetto nel mediastino medio (figura 2), oltre a un versamento pleurico bilaterale, maggiore a destra (figura 3). la paziente veniva quindi sottoposta a intervento chirurgico di toracotomia posterolaterale destra, con evacuazione di abbondanti raccolte pleuriche e paravertebrali al collo (aspirazione di 800 ml di liquido torbido, con colturale negativo). veniva inoltre eseguita una tracheostomia chirurgica e lasciato in sede drenaggio pleurico. durante la degenza nel reparto di rianimazione la paziente sviluppava un quadro di shock settico con necessità di supporto aminico e sedute dialitiche. veniva ventilata meccanicamente per due settimane e sottoposta a terapia antibiotica ad ampio spettro. dopo circa un mese di permanenza nel reparto di rianimazione, veniva trasferita nuovamente in medicina. a causa della persistenza della disfagia, la donna veniva sottoposta a peg (gastrostomia posizionata per via endoscopica); si assisteva a una quasi normalizzazione della conta leucocitaria (globuli bianchi = 9.530/mm3) e alla netta riduzione della creatinina (1,4 mg/dl). la paziente iniziava un programma di fisioterapia motoria, pur con necessità di frequenti aspirazioni tracheali. dopo qualche giorno, però, il quadro si complicava con nstemi (non-st segment elevation myocardial infarction) e successiva comparsa di febbre e dispnea. all’rx torace si evidenziava un focolaio polmonare basale destro con positività all’esame colturale su escreato per klebsiella pneumoniae, trattata con ciprofloxacina. nonostante un iniziale miglioramento clinico e radiologico, si assisteva ad exitus della paziente per edema polmonare acuto. figura 3 tc torace effettuata dalla paziente manifestazione clinica di infezione orofaringea severa y dimostrazione di infezione mediastinica all’esame radiologico y documentazione di infezione necrotizzante del mediastino sul tavolo operatorio o all’autopsia y evidenza di una relazione fra l’infezione orofaringea e la mediastinite y tabella ii criteri per la diagnosi di mediastinite discendente necrotizzante [2] terapia ev elettiva piperacillina-tazobactam 4,5 g q8h x 2 settimane oppure ampicillina-sulbactam 3 g q6h x 2 settimane terapia ev alternativa meropenem 1 g q8h x 2 settimane oppure imipenem 1 g q6h x 2 settimane oppure ertapenem 1 g q24h x 2 settimane tabella iii esempi di terapia empirica della mediastinite discussione la mediastinite è una grave infezione che proviene più frequentemente dal distretto cervicale, mentre più raramente origina dal retroperitoneo (per l’effetto protettivo esercitato dal diaframma). il caso clinico sopra descritto può essere un esempio di mediastinite discendente necrotizzante, una varietà di mediastinite particolarmente grave; essa origina da infezioni a partenza orofaringea che diffondono agli spazi cervicali e da essi discendono al mediastino [2]. nella tabella ii sono riportati i criteri per la diagnosi di mediastinite discendente necrotizzante descritti da estrera e colleghi [2]. il trattamento della mediastinite si avvale principalmente del drenaggio cervico-me©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)46 un interessante caso di mediastinite bibliografia crepaldi g, baritussio a. trattato di medicina interna. milano: piccin; vol 3, p. 21241. estrera as, lanay mj, grisham jm, sinn dp, platt dp, platt mr. descending necrotizing 2. mediastinitis. surg gynecol obstet 1983; 157: 545-52 burke cunha a. antibiotic essentials. sudbury, ma: physicians press 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cromosoma ph nel 100% delle metafasi analizzate, senza alterazioni citogenetiche aggiuntive. le indagini di biologia molecolare in rt-pcr mostrano il riarrangiamento per il gene di fusione p210 (e13a2) con un rapporto di bcr-abl/abl % pari a 171,185is. caso clinico un uomo di 47 anni viene sottoposto a diverse indagini di laboratorio per la presenza di febbricola e sudorazione profusa. l’esame emocromocitometrico evidenzia le seguenti alterazioni: leucocitosi, piastrinosi e anemia lieve (tabelle i e ii). l’esame obiettivo evidenzia una marcata splenomegalia (8 cm dall’arcata costale sinistra) con una lieve epatomegalia (2 cm dall’arcata costale destra). sono invece nei limiti la funzionalità renale ed epatica, mentre il valore di ldh è = 910 u/l (vn = 125-243). nel sospetto di una sindrome mieloproliferativa cronica viene eseguito un agoaspirato midollare con indagine citogenetica e molecolare. l’esame morfologico del preparato mostra una marcata ipercellularità, con iperplasia della serie megacariocitaria e granulocitaria, con shift a sinistra del mielogramma; normale la serie eritroide. la ciperché descriviamo questo caso? perché l ’impiego clinico dei criteri eln sottolinea come i pazienti in risposta clinica di tipo sub-ottimale a imatinib mesilato (im) possano a loro volta essere stratificati in pazienti sub-ottimali di tipo citogenetico e pazienti sub-ottimali di tipo molecolare. questi due sottogruppi di pazienti presentano decorsi clinici differenti corresponding author dott. fabio stagno fsematol@tiscali.it caso clinico abstract imatinib mesylate (im) has shown unprecedented effectiveness in the treatment of chronic myeloid leukemia (cml) patients (pts) in the chronic phase of the disease. however, some pts fail to respond or lose their initial response to im. the european leukemianet (eln) published recommendations designed to identify patients responding poorly to imatinib. here we report a case of a suboptimal cytogenetic responder to im who had a successful response to the second generation tyrosine kinase inhibitor nilotinib (nil). according to the eln criteria, cml pts on im-therapy might show a suboptimal response either because of failure to achieve a ccyr by 12 months of therapy or because of lack of a mmr after 18 months. the prognostic value of these two types of responders might be very different. keywords: nilotinib, chronic myeloid leukemia, therapy, tyrosine kinase inhibitors successful nilotinib therapy in a cml affected patient with a380t, p407s and v468a mutations, and a previous suboptimal cytogenetic response to imatinib cmi 2010; 4(suppl. 6): 7-11 1 sezione di ematologia, dipartimento di scienze biomediche, università di catania 2 sezione di patologia generale, dipartimento di scienze biomediche, università di catania fabio stagno 1, alessandra cupri 1, stefania stella 2, michele massimino 2, silvia rita vitale 2, paolo vigneri 2 terapia con nilotinib in un paziente con le mutazioni a380t, p407s e v468a e in risposta non ottimale a imatinib disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6)8 terapia con nilotinib in un paziente con le mutazioni a380t, p407s e v468a e in risposta non ottimale a imatinib rapporto bcr-abl/abl % che risulta pari a 75,988is. al 6° mese di terapia l’indagine citogenetica evidenzia un’ulteriore riduzione del clone ph-positivo (25% di metafasi phpositive: risposta citogenetica parziale), mentre il rapporto bcr-abl/abl % si riduce a 9,015is. tuttavia, le rivalutazioni citogenetica e molecolare del 12° mese, pur in presenza di una risposta ematologica completa, rilevano ancora una positività per il cromosoma ph (23% delle metafasi; risposta citogenetica parziale) e un rapporto bcr-abl/abl % pari a 4,505is. viene nel contempo avviato lo studio molecolare per la ricerca di mutazioni di bcrabl che individua una inserzione/delezione di 35 nucleotidi nella sequenza del dominio tirosin-chinasico dell’oncoproteina e le seguenti sostituzioni aminoacidiche: 1. a380t 2. p407s 3. v468a si tratta di mutazioni mai descritte in precedenza e situate rispettivamente in una regione tra il sito catalitico e l’ansa di attivazione (a380t), e nella regione carbossiterminale del dominio tirosin-chinasico di bcr-abl (p407s e v468a). il paziente – secondo i criteri eln – è da considerarsi in risposta clinica sub-ottimale di tipo citogenetico a 12 mesi. viene pertanto avviato a trattamento di seconda linea con nilotinib 400 mg due volte al giorno. al 3° mese di terapia con nilotinib, l’esame citogenetico mostra il raggiungimento di approccio terapeutico e decorso clinico dopo citoriduzione con idrossiurea il paziente inizia una terapia specifica con im 400 mg/die. dopo 1 mese di terapia ottiene una remissione ematologica completa; la rivalutazione citogenetica a 3 mesi mostra una riduzione del cromosoma ph (presente nell’80% delle metafasi analizzate) configurando il raggiungimento di una risposta citogenetica minima. sul piano molecolare si osserva una riduzione del tabella i risultati dell ’esame emocromocitometrico neutrofili 58% eosinofili 1% basofili 1% linfociti 7% monociti 0% metamielociti 17% mielociti 9% promielociti 5% mieloblasti 2% parametro valore riscontrato valori normali wbc 91.000/mm3 3.000-10.000/mm3 hb 11,2 g/dl 12-16 g/dl plts 745.000/mm3 150.000-400.000/mm3 tabella ii formula leucocitaria del paziente viene quindi posta diagnosi di leucemia mieloide cronica ph+ a rischio intermedio secondo sokal (1,16). figura 1 andamento dei livelli di trascritto bcrabl/abl dall ’inizio della terapia: sebbene una diminuzione del trascritto fosse già stata ottenuta con imatinib, una risposta molecolare maggiore e una risposta citogenetica completa sono state raggiunte solo dopo il passaggio a nilotinib ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6) 9 f. stagno, a. cupri, s. stella, m. massimino, s. r. vitale, p. vigneri sultato ottimale e il decorso a lungo termine potrebbe rivelarsi non favorevole. in questo caso le strategie terapeutiche suggerite dalle linee eln sono l’incremento di dose di im o l’impiego degli inibitori di 2° generazione. nel caso descritto, lo stato di sub-ottimale citogenetico e la presenza di mutazioni di bcr-abl ci ha indotto a scegliere un secondo inibitore. diverse casistiche riportate in letteratura hanno riscontrato resistenza primaria o secondaria a im nel 20-30% dei pazienti in fase cronica. molteplici meccanismi contribuiscono al fallimento della terapia. tra questi, le mutazioni nel dominio tirosinchinasico di bcr-abl sono particolarmente frequenti (> 50%) nei pazienti con resistenza secondaria. a tutt’oggi, sono state identificate sostituzioni in più di 80 residui aminoacidici. alcune mutazioni riducono l’affinità di legame per im ma rispondono all’incremento di dose del farmaco, mentre altre conferiscono una resistenza completa alla terapia [10-12]. il riscontro di mutazioni mai descritte in letteratura che scompaiono dopo l’aumento di dose di im o successivamente all’assunzione di un inibitore di seconda generazione suggerisce che queste sostituzioni nucleotidiche si selezionino in modo stocastico e siano indicative di una maggiore instabilità genomica [13]. diviene pertanto di fondamentale importanza la loro tempestiva identificazione per individuare il trattamento più appropriato che, in presenza di livelli crescenti di instabilità genomica, suggerisce l’impiego degli inibitori di seconda generazione. una risposta citogenetica completa (assenza di metafasi ph-positive) e l’ottenimento di una risposta molecolare maggiore (rapporto bcr-abl/abl % 0,088is). attualmente, al follow-up 30 mesi, il paziente prosegue la terapia con nilotinib 400 mg bid e mantiene una risposta molecolare maggiore. considerazioni cliniche l’impiego clinico di im ha prodotto elevate percentuali di risposte ematologiche e citogenetiche complete nonché di risposte molecolari maggiori, se paragonate al precedente uso di alfa-interferone [1,2]. inoltre, nel trattamento a lungo termine, im ha mostrato risposte cliniche durature in un’alta percentuale dei pazienti in fase cronica [3-5]. questa sua straordinaria efficacia, insieme alla potente inibizione dell’attività catalitica di bcr-abl, ha indotto un panel di esperti riuniti sotto l’egida dell’european leukemianet (eln) a formulare delle raccomandazioni cliniche (2006) [6]. tali raccomandazioni sono state recentemente aggiornate (2009), anche alla luce della recente disponibilità degli inibitori di 2° generazione (nilotinib e dasatinib), codificando la risposta clinica alla terapia convenzionale con im in risposta ottimale, sub-ottimale e fallimento (tabella iii) [7]. il caso clinico qui riportato mostra un paziente in risposta clinica sub-ottimale di tipo citogenetico al 12° mese di terapia. la condizione clinica di risposta sub-ottimale riflette uno stato di transizione [8,9]. il trattamento in atto non ha configurato un ririsposta ottimale (non definita precedentemente) risposta subottimale fallimento warnings baseline na na na alto rischio cca/ph+ 3 mesi chr e almeno mcyr (ph+ ≤ 65%) no cyr (ph+ > 95%) < chr na 6 mesi almeno pcyr (ph+ ≤ 35%) < pcyr (ph+ > 35%) no cyr (ph+ > 95%) na 12 mesi ccyr pcyr (ph+ 1 35%) < pcyr (ph+ > 35%) < mmolr 18 mesi mmolr < mmolr < ccyr na qualsiasi momento durante la terapia mmolr stabile o in via di miglioramento perdita di mmolr mutazioni perdita di chr/ccyr mutazioni cca in cellule ph+ un aumento nei livelli di trascritto cca in cellule ph– tabella iii raccomandazioni dell ’european leukemianet (eln) 2009 confrontate con quelle del 2006 (in grassetto le aggiunte eln 2009) modificata da [7] aca = additional chromosome abnormalities; cca = clonal chromosome abnormalities; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; hr = risposta ematologica; mcyr = risposta citogenetica minore; mmolr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile; pcyr = risposta citogenetica parziale ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6)10 terapia con nilotinib in un paziente con le mutazioni a380t, p407s e v468a e in risposta non ottimale a imatinib i punti chiave del caso y status di sub-ottimale citogenetico: secondo le linee guida eln, un paziente che al 12° mese di trattamento con imatinib non abbia ottenuto una risposta citogenetica completa, ha ottenuto una risposta sub-ottimale, che deve essere affrontata aumentando il dosaggio di imatinib o passando a un inibitore di seconda generazione (nilotinib o dasatinib) y mutazioni riscontrate e loro rilevanza terapeutica: la rilevazione di mutazioni nella proteina di fusione è una spiegazione plausibile alla risposta sub-ottimale del paziente. tali mutazioni, infatti, possono essere state selezionate dalla terapia stessa perché conferiscono resistenza al farmaco. poiché in questo caso le mutazioni riscontrate non erano state descritte in letteratura, non è stato possibile capire se la resistenza conferita fosse parziale (e dunque sarebbe bastato un aumento del dosaggio di imatinib, ma con rischio aumentato di insorgenza di effetti collaterali) o completa (l ’unica soluzione possibile sarebbe stata il passaggio a un inibitore di seconda generazione). nel dubbio si è optato per la seconda possibilità bibliografia 1. deininger m, buchdunger e, druker bj. the development of imatinib as a therapeutic agent for chronic myeloid leukemia. blood 2005; 105: 2640-53 2. o’brien sg, guilhot f, larson ra, gathmann i, baccarani m, cervantes f et al. imatinib compared with interferon and low-dose cytarabine for newly diagnosed chronic-phase chronic myeloid leukemia. n engl j med 2003; 348: 994-1004 3. hughes tp, kaeda j, branford s, rudzki z, hochhaus a, hensley ml et al. frequency of major molecular responses to imatinib or interferon alfa plus cytarabine in newly 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h, reid ag et al. european leukemianet criteria for failure or suboptimal response reliably identify patients with cml in early chronic phase treated with imatinib whose eventual outcome is poor. blood 2008; 112: 4437-44 9. alvarado y, kantarjian h, o’brien s, faderl s, borthakur g, burger j et al. significance of suboptimal response to imatinib, as defined by the european leukemianet, in the long-term outcome of patients with early chronic myeloid leukemia in chronic phase. cancer 2009; 115: 3709-18 10. shah np, nicoll jm, nagar b, gorre me, paquette rl, kuriyan j et al. multiple bcr-abl kinase domain mutations confer polyclonal resistance to the tyrosine kinase inhibitor imatinib (sti571) in chronic phase and blast crisis chronic myeloid leukemia. cancer cell 2002; 2: 11725 11. hughes tp, deininger mw, hochhaus a, branford s, radich j, kaeda j et al. monitoring cml patients responding to treatment with tyrosine kinase inhibitors: review and recommendations for “harmonizing” current methodology for detecting bcr-abl transcripts and kinase domain mutations and for expressing results. blood 2006; 108: 28-37 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 6) 11 f. stagno, a. cupri, s. stella, m. massimino, s. r. vitale, p. vigneri 12. branford s, rudzki z, parkinson i, grigg a, taylor k, seymour jf et al. real-time quantitative pcr analysis can be used as a primary screen to identify patients with cml treated with imatinib who have bcr-abl kinase domain mutations. blood 2004; 104: 2926-32 13. penserga etp, skorski t. fusion tyrosine kinases: a result and cause of genomic instability. oncogene 2007; 26: 11-20 nilotinib: inibitore selettivo per pazienti in fallimento o in risposta sub-ottimale ad imatinib massimo breccia 1 terapia con nilotinib in un paziente con risposta sub-ottimale di tipo citogenetico a imatinib fabio stagno 1, alessandra cupri 1, stefania stella 2, michele massimino 2, silvia rita vitale 2, paolo vigneri 2 caso clinico leucemia mieloide cronica: un caso di risposta sub-ottimale a imatinib trattato efficacemente con nilotinib fausto palmieri 1 caso clinico uso di nilotib a seguito di fallimento terapeutico con imatinib luca pezzullo 1 caso clinico efficacia della terapia con nilotinib in paziente con leucemia mieloide cronica esordita in epoca pre-tki e resistente a imatinib ivana pierri 1, m. bergamaschi 1, antonia cagnetta 1, anna ghiso 1, marco gobbi 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2) clinical management issues 7 massimo breccia 1 caso clinico il nostro caso clinico riguarda un paziente di sesso maschile, di 37 anni, con un fratello di 29 anni. il soggetto è nato a termine da parto eutocico, è stato allattato artificialmente e ha presentato uno sviluppo psico-fisico normale. non ha svolto servizio di leva. non fuma, nega allergie a farmaci e alimenti, riporta diuresi fisiologica e alimentazione varia. i genitori sono viventi e in apparente buona salute (il padre è affetto da gammapatia monoclonale). il paziente riferisce le comuni malattie esantematiche dell’infanzia. a 16 anni ci fu riscontro cardiologico di sindrome di wolf-parkinson white (wpw ). nel mese di febbraio 2008 compaiono astenia e affanno e successivamente, ad aprile 2008, ematomi spontanei, non traumatici sul tronco. il soggetto esegue un emocromo di controllo che evidenzia: hb 8,6 g/dl, gr nilotinib dopo resistenza a imatinib in paziente con leucemia mieloide cronica e sindrome di wolf-parkinson white abstract we report a case of a young man affected by wolf-parkinson white syndrome, who was diagnosed as having chronic myeloid leukemia. he started imatinib at standard dose of 400 mg/day and he reached a partial cytogenetic response at 6 months, a sub-optimal response according to european leukemianet criteria of 2006. for this reason he increased imatinib dose to 600 mg/day, but after 3 months he suddenly lost his hematologic response. cytogenetic analysis performed at this time showed a cytogenetic relapse and acquisition of an additional cytogenetic abnormality (trisomy 8). considering the patient as a failure at this time, he switched to second-generation tyrosine kinase inhibitor, nilotinib at the dose of 800 mg/day. he reached complete cytogenetic remission after 3 months and nilotinib was safely administered without further qtc prolongation. keywords: chronic myeloid leukemia, imatinib, nilotinib nilotinib after resistance to imatinib in cml patients with wolf-parkinson white syndrome cmi 2010; 4(suppl. 2): 7-11 1 azienda policlinico umberto i, università sapienza, roma corresponding author massimo breccia breccia@bce.uniroma1.it perché descriviamo questo caso? perché l ’applicazione retrospettiva dei criteri eln ha evidenziato come i pazienti in risposta sub-ottimale a 6 e 12 mesi di terapia con imatinib abbiano caratteristiche prognostiche negative, simili ai pazienti considerati in fallimento terapeutico. in questo subset di pazienti è ipotizzabile un rapido cambiamento a un inibitore di seconda generazione caso clinico 3.200.000/mm3, gb 350.000/mm3 e piastrine 102.000/mm3. il paziente giunge quindi presso il nostro centro, dove conferma la leucocitosi (gb 354.000/mm3), con presenza di forme immature nell’esame morfologico del sangue venoso periferico. in tabella i si riportano i risultati degli esami a cui è stato sottoposto il soggetto. disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2)8 nilotinib dopo resistenza a imatinib in paziente con leucemia mieloide cronica e sindrome di wolf-parkinson white una risposta citogenetica completa precoce, il paziente eseguiva uno screening mutazionale, risultato negativo, e l’analisi della concentrazione plasmatica di imatinib su due test consecutivi, che risultavano rispettivamente di 940 ng/ml e di 990 ng/ml. aumentava pertanto il dosaggio di imatinib a 600 mg/die. dopo 3 mesi di dose escalation di imatinib, durante una visita periodica e un controllo dell’emocromo, si evidenziava una perdita della risposta ematologica (gb 18.000/ mm3), in assenza di altri motivi. il paziente ripeteva un’analisi mutazionale, risultata di nuovo negativa e ripeteva immediatamente un aspirato midollare e un esame citogenetico. in presenza di un quadro morfologico come da fase cronica, l’esame citogenetico metteva in evidenza 10 metafasi con trisomia del cromosoma 8 e duplicazione del ph, 4 metafasi con persistenza del cromosoma ph e 6 metafasi normali. per la comparsa di una alterazione citogenetica aggiuntiva (trisomia 8) e di duplicazione del cromosoma ph, il paziente è stato considerato in fallimento terapeutico. la tipizzazione hla con il fratello è risultata non compatibile. prima del trattamento con inibitore di seconda generazione, è stata eseguita una rivalutazione cardiologica, che ha dimostrato una situazione stabile con un intervallo qtc basale di 462 msec. il paziente ha quindi iniziato la terapia con nilotinib al dosaggio standard di 400 mg due volte al giorno, raggiungendo la risposta ematologica completa dopo 20 giorni di trattamento: ripetuti controlli dell’ecg durante le prime settimane di trattamento hanno evidenziato una variabilità dell’intervallo qtc tra 460 e 476 msec. non ha avuto altre tossicità ematologiche e non-ematologiche. dopo 3 mesi di trattamento ha eseguito un controllo di citogenetica, che ha evidenziato un cariotipo normale, con scomparsa del cromosoma philadelphia e dell’aca osservata durante la recidiva. attualmente continua nilotinib allo stesso dosaggio. domande da porsi era ipotizzabile un cambiamento a sey condo inibitore già a 6 mesi di imatinib, vista la risposta sub-ottimale? quali sono i dati di tossicità cardiologica y di nilotinib? trattamento il paziente eseguiva un iniziale periodo di citoriduzione con idrossiurea. durante tale periodo eseguiva accertamenti cardiologici: all’ecg risultava evidenza di alterazioni elettrocardiografiche con deviazione assiale sinistra, onda delta positiva in di, dii, avl, da v2 a v6 e negativa in diii, avf, avr, v1. l’ecocardiogramma inoltre evidenziava una frazione di eiezione iniziale del 50% in assenza di deficit segmentali, con atrio sinistro aumentato e sezioni destre nei limiti della norma. su consiglio del cardiologo il paziente eseguiva, prima del trattamento con inibitori tirosin chinasici, un test ergometrico da sforzo, negativo per segni e sintomi di ischemia miocardica indotta da lavoro, con pre-eccitazione ventricolare tipo wpw. il paziente non assumeva farmaci per la situazione cardiologica concomitante. per l’esistenza di questi problemi cardiologici, il paziente non è stato arruolato in nessun protocollo e ha iniziato imatinib al dosaggio standard. ha ottenuto la risposta ematologica completa alla terza settimana di trattamento. nelle prime settimane di trattamento il paziente ha avuto crampi muscolari come unica forma di tossicità. ripetuti ecg durante il trattamento non hanno mai evidenziato alterazioni degne di nota. valutazione della risposta al terzo mese di terapia, l’esame citogenetico in fish evidenziava l’84% di persistenza di nuclei ph+ (risposta ottimale secondo le definizioni dell’european leukemianet guidelines del 2006 [1]). al sesto mese si evidenziava ancora una risposta citogenetica parziale (rcp, ph+ 35%, risposta sub-ottimale secondo eln). per l’assenza di tabella i esami del paziente alla prima osservazione esame risultato obiettivo splenomegalia di 15 cm morfologico del midollo iperplasia granuloblastica senza elementi indifferenziati citogenetica convenzionale poche metafasi valutabili, ma tutte con la presenza del cromosoma philadelphia fish su nuclei in interfase presenza di una t(9;22) in 240/240 nuclei esaminati molecolare trascritto b2a2 quantitativo ratio bcr-abl/abl di 62% ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2) 9 m. breccia discussione nel caso illustrato, la risposta citogenetica a 6 mesi evidenziava un criterio di risposta sub-ottimale. l’incidenza di risposta subottimale secondo le definizioni dell’european leukemianet guidelines del 2006 [1] è valutabile intorno al 20%. per risposta sub-ottimale si intende un paziente che può ancora trarre beneficio da imatinib, ma l’outcome a lungo termine può non essere ottimale. non ci sono studi che hanno focalizzato l’attenzione sulla possibile evoluzione di tali risposte. soltanto la pubblicazione di marin e colleghi [2] ha provato come applicando i criteri eln vi sia una sovrapposizione in termini prognostici nelle definizioni di risposta sub-ottimale a 6 e 12 mesi con i criteri di fallimento. la strategia terapeutica principale indicata dall’eln è la dose escalation di imatinib. prima di tale possibilità abbiamo approfondito le cause della possibile resistenza in questo paziente con lo studio della concentrazione plasmatica di imatinib e con lo studio mutazionale. il primo ha evidenziato 2 dosaggi inferiori alla soglia stabilita di 1.000 ng/ml. il paziente rientra in una delle quattro categorie di pazienti che si possono giovare del test per la determinazione della concentrazione plasmatica: risposta non soddisfacente alla terapia; y non aderenza sospetta alla terapia; y possibile sviluppo di un’interazione fary macologica; effetti collaterali severi. y alla dose standard raccomandata di imatinib, la concentrazione plasmatica minima è approssimativamente di 1.000 ng/ml. recenti pubblicazioni [3,4] hanno indicato come la concentrazione plasmatica di 1.002-1.009 ng/ml correli con la risposta citogenetica completa e molecolare maggiore. nel caso specifico del paziente, visti i risultati dei due test consecutivi, appare giustificato il tentativo dell’aumento del dosaggio di imatinib. recentemente, un gruppo di esperti ha pubblicato delle riflessioni sull’effettivo peso che il dosaggio della concentrazione plasmatica può avere nel paziente in risposta sub-ottimale o in caso di fallimento terapeutico: considerando l’assenza di studi controllati, suggerisce di tentare la dose escalation anche se il dosaggio supera i 1.002-1.009 ng/ml previsti dalla letteratura, se il paziente ha una buona tolleranza al dosaggio standard [5]. lo screening mutazionale dovrebbe essere riservato, secondo le raccomandazioni eln 2006 e successive pubblicazioni in merito, ai pazienti in fallimento terapeutico o risposta sub-ottimale [1]. le pubblicazioni negli ultimi anni hanno anche evidenziato come un incremento della ratio di 1-2 log, possa essere identificativo di una resistenza a imatinib [6-8]. il gruppo di ricerca dell’hammersmith hospitals trust, in una recente pubblicazione, ha anche suggerito lo screening mutazionale per i pazienti che non raggiungono mai la risposta molecolare maggiore, pur avendo ottenuto la risposta citogenetica completa [9]. l’incidenza di resistenza a imatinib dovuta a mutazioni è riportata dalla letteratura pari a circa il 40-50% in fase cronica. l’incidenza è più elevata in resistenza secondaria che primaria e in fase avanzata rispetto alla fase cronica. sono ormai note in letteratura più di 90-100 mutazioni ed è noto l’ic50 di ogni mutazione [10,11]. il primo tentativo terapeutico eseguito, nel nostro caso, è stato la dose escalation: due recenti pubblicazioni hanno evidenziato i risultati della dose escalation su 109 pazienti dello studio iris [12] e su 84 pazienti del gruppo md anderson [13]. ambedue le pubblicazioni hanno dimostrato una sopravvivenza globale e una pfs superiore all’80% e, nel caso dello studio iris, un miglioramento del 52% delle risposte iniziali. dalle due pubblicazioni è emerso come la dose escalation sia una concreta strategia terapeutica nel caso dei pazienti in resistenza/recidiva citogenetica rispetto ai pazienti con resistenza/recidiva ematologica: questi ultimi sono pazienti che si possono giovare di uno switch precoce a un inibitore di seconda generazione. nilotinib è un inibitore di seconda generazione, ideato per una maggiore selettività e affinità di legame con il dominio chinasico di bcr-abl: i legami a idrogeno tipici di imatinib sono sostituiti da interazioni lipofiliche, che rendono questo composto apparentemente meno mutageno. l’aggiornamento dei risultati di fase ii ha evidenziato una notevole efficacia in 321 pazienti resistenti e/o intolleranti a imatinib. è stato riportato il 94% di risposte ematologiche complete, nel tempo mediano di 1 mese, e il 59% di risposte citogenetiche maggiori, di cui il 44% complete nel tempo mediano di 2,8 mesi di trattamento. la sopravvivenza globale stimata a 2 anni è dell’88% e il 78% dei pazienti ha mantenuto a 2 anni la risposta citogenetica raggiunta [14]. il 42% dei ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2)10 nilotinib dopo resistenza a imatinib in paziente con leucemia mieloide cronica e sindrome di wolf-parkinson white pazienti arruolati nello studio di fase ii aveva una mutazione: i risultati con un follow-up di 19 mesi hanno dimostrato un’incidenza sostanzialmente simile di risposte tra mutati e non mutati [15]. i risultati dello studio di espansione per la sicurezza e la tollerabilità (enact, expanding nilotinib access in clinical trials) [16], su una popolazione di 1.217 pazienti in fase cronica, hanno anche evidenziato un’incidenza < 1% di alterazioni elettrocardiografiche (prolungamento dell’intervallo qtc > 500 msec). in conclusione, nel caso del nostro paziente resistente, nilotinib si è dimostrato efficace e sicuro anche con una condizione cardiologica basale di pre-eccitazione ventricolare. bibliografia baccarani m, saglio g, goldman j, hochhaus a, simonsson b, appelbaum f et al; 1. european leukemianet. evolving concepts in the management of chronic myeloid leukemia: recommendations from an expert panel on behalf of the european leukemianet. blood 2006; 108: 1809-20 marin d, milojkovic d, olavarria e, khorashad js, de lavallade h, reid ag et al. european 2. leukemianet criteria for failure or suboptimal response reliably identify patients with cml in early chronic phase treated with imatinib whose eventual outcome is poor. blood 2008; 112: 4437-44 picard s, titier k, etienne g, teilhet e, ducint d, bernard ma et al. trough imatinib plasma 3. levels are associated with both cytogenetic and molecular responses to standard-dose imatinib in chronic myeloid leukemia. blood 2007; 109: 3496-9 larson ra, druker bj, guilhot f, o’brien sg, riviere gj, krahnke t et al; iris (international 4. randomized interferon vs sti571) study group. imatinib pharmacokinetics and its correlation with response and safety in chronic-phase chronic myeloid leukemia: a subanalysis of the iris study. blood 2008; 111: 4022-8 cortes je, egorin mj, guilhot f, molimard m, mahon fx. pharmacokinetic/pharmacodynamic 5. correlation and blood-level testing in imatinib therapy for chronic myeloid leukemia. leukemia 2009; 23: 1537-44 hughes t, branford s. molecular monitoring of bcr-abl as a guide to clinical management 6. in chronic myeloid leukaemia. blood rev 2006; 20: 29-41 hughes t, deininger m, hochhaus a, branford s, radich j, kaeda j et al. monitoring cml 7. patients responding to treatment with tyrosine kinase inhibitors: review and recommendations for harmonizing current methodology for detecting bcr-abl transcripts and kinase domain mutations and for expressing results. blood 2006; 108: 28-37 soverini s, colarossi s, gnani a, rosti g, castagnetti f, poerio a et al; gimema working 8. party on chronic myeloid leukemia. contribution of abl kinase domain mutations to imatinib resistance in different subsets of philadelphia-positive patients: by the gimema working party on chronic myeloid leukemia. clin cancer res 2006; 12: 7374-9 risposte alle domande emerse nel corso del caso clinico alla luce della recente letteratura, i pazienti con risposta sub-ottimale a 6 mesi hanno y event-free survival (efs) e trasformation-free survival (tfs) paragonabili a quelle dei pazienti in fallimento terapeutico, secondo i criteri stabiliti da eln nel 2006. per questa categoria di pazienti è quindi possibile come scelta terapeutica, la dose escalation di imatinib, ma anche in assenza di dati comparativi disponibili, uno switch precoce a un inibitore di seconda generazione più efficace e selettivo i dati emersi dalla fase ii e dal protocollo enact (expanding nilotinib access in cliniy cal trials) hanno evidenziato come, nel protocollo di fase ii, le alterazioni elettrocardiografiche siano state solo transitorie e aspecifiche, con solo 2 pazienti con un prolungamento dell ’intervallo qtc > 450 msec. i risultati dello studio enact hanno dimostrato come solo meno dell ’1% dei pazienti abbia avuto un’alterazione del qtc ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2) 11 m. breccia khorashad js, de lavallade h, apperley jf, milojkovic d, reid ag, bua m et al. finding of 9. kinase domain mutations in patients with chronic phase chronic myeloid leukemia responding to imatinib may identify those at high risk of disease progression. j clin oncol 2008; 26: 4806-13 baccarani m, pane f, saglio g. monitoring treatment of chronic myeloid leukemia. 10. haematologica 2008; 93: 161-9 o’hare t, eide ca, deininger mw. bcr-abl kinase domain mutations, drug resistance, and 11. the road to a cure for chronic myeloid leukemia. blood 2007; 110: 2242-9 kantarjian h m, larson r a, guilhot f, o’brien sg, mone m, rudoltz m et al; international 12. randomized study of interferon vs sti571 (iris) investigators. efficacy of imatinib dose escalation in patients with chronic myeloid leukemia in chronic phase. cancer 2009; 115: 551-60 jabbour e, kantarjian h, jones d, shan j, o’brien sg, reddy n et al. imatinib mesylate dose 13. escalation is associated with durable responses in patients with chronic myeloid leukemia after cytogenetic failure on standard-dose imatinib therapy. blood 2009; 113: 2154-60 kantarjian h, giles f, bhalla kn, larson ra, gattermann n, ottmann og et al. nilotinib in 14. chronic myeloid leukemia patients in chronic phase (cmlcp) with imatinib resistance or intolerance: 2-year follow-up results of a phase 2 study. blood 2008; 112: abstr 3238 hochhaus a, kim dw, martinelli g, hughes tp, soverini s, branford s et al. nilotinib efficacy 15. according to baseline bcr-abl mutations in patients with imatinib-resistant chronic myeloid leukemia in chronic phase (cml-cp). blood 2008; 112: abstr 3216 nicolini f, alimena g, shen z, al-ali h k, turbina a, smith g et al. expanding nilotinib 16. access in clinical trials (enact) study in adult patients with imatinib-resistant or intolerant chronic myeloid leukemia (cml): updated safety analysis. haematologica 2008; 2: abstr 134 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 71 clinical management issues falopatia epatica con cirrosi hbv-correlata e diabete scompensato. al momento del ricovero la paziente si presenta disorientata e con rallentamento ideo-motorio; inoltre necessita di aiuto nell’esecuzione delle attività della vita quotidiana (adl). la situazione emodinamica all’ingresso nell’unità operativa è indicata nella tabella i. l’esame obiettivo evidenzia anche edemi declivi agli arti inferiori e addome globoso a causa dell’ascite. vengono informati i parenti circa i bisogni immediati dell’utente, cioè: valutazione continua dello stato di coscienza, quantificazione del grado di rallentamento ideomotorio e capacità residue. in base a ciò viene definito il piano assistenziale dei bisogni in fase acuta, volto a garantire il mantenimento delle funzioni vitali di base e il supporto della persona nell’esecuzione delle proprie adl. contemporaneamente l’infermiere si occupa della corretta applicazione delle preintroduzione il caso clinico in questione vuole porre l’attenzione su una nuova sfida alla quale la medicina contemporanea si trova a dover rispondere sempre più frequentemente: l’assistenza, intesa come risposta a bisogni clinici, relazionali, tecnici ed educativi a pazienti appartenenti a culture diverse dalla nostra. si identificherà quel tipo di assistenza infermieristica basata sul lavoro in équipe mirata a identificare i bisogni del paziente dal momento dell’ingresso in reparto fino alla dimissione: tale tipo di assistenza deve essere incentrata sulle esigenze del paziente e su quelle della sua famiglia. caso clinico la paziente el di 66 anni, straniera, si reca in dea e in seguito viene ricoverata in medicina interna con la diagnosi di encecorresponding author infermiera roberta gallo roby02@interfree.it caso clinico abstract a moroccan 66-year-old female patient arrives in the hospital, where the physicians make the diagnosis of hepatic encephalopathy, hbv-related cirrhosis and decompensated diabetes. this article points out the problems and the aims that a good nursing management must face in the case of a multipathological patient who doesn’t speak italian. in this case the difficulty consists also in the understanding and the acceptance of a new life-style by the patient and her family, due to the chronicity of the diseases. the team work, helped by the assistance of the italianspeaking caregiver, taking into account the clinical condition and the culture and religion related needs, let the patient understand the therapeutic schedule to follow at home and obtained a good compliance by the patient and by her family. keywords: caregiver, nursing, foreign multipathological patient medicine as a frontier: the foreign multipathological patient cmi 2011; 5(suppl 2): 71-74 1 reparto di medicina interna, ospedale degli infermi, biella roberta gallo 1 la medicina come frontiera: il paziente pluripatologico straniero ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)72 la medicina come frontiera: il paziente pluripatologico straniero endovenosa di cristalloidi con potassio per kaliemia pari a 3,20 meq/l e avvia la terapia con aminoacidi ramificati endovena e lattulosio per via orale e rettale. nel pomeriggio perviene il referto, da cui risulta emoglobina glicata = 10,1%, valori glicemici in aumento e sempre > 300 mg/dl: per tale motivo viene aumentata la terapia insulinica sottocutanea. la paziente riferisce, tramite il supporto del caregiver, un episodio di epistassi risoltosi spontaneamente. il terzo giorno di ricovero la paziente si presenta stabile e più reattiva rispetto ai giorni precedenti, e quindi si decide di mantenere la terapia invariata. l’ammoniemia, però, è in aumento ed è pari a 284 μg/dl, e nel pomeriggio si presenta nuovamente un episodio di iperglicemia: alle 14.00 risulta dtx = 345 mg/dl e quindi si somministrano 10 ui di insulina rapida, ma alle ore 16.00 dtx = 358 mg/dl. si reimposta nuovamente infusione endovenosa di insulina come sopra fino alle ore 23.00 quando, per dtx = 153 mg/dl, viene sospesa. il quarto giorno la paziente è più reattiva e collaborante, e il flapping tremor agli arti superiori è in riduzione; non vengono più infusi aminoacidi ramificati, il peso corporeo è di 60 kg, in aumento di 2 kg dall’ingresso: viene impostata una restrizione idrica a 750 ml/die e impostato il diuretico potassio canreonato 200 mg; la paziente prosegue i controlli glicemici pree post-prandiali. nella mattina del quarto giorno si presenta una nuova criticità della paziente: le condizioni cliniche mutano rapidamente per l’insorgenza di ematemesi pur in un quadro di mantenimento di un buon compenso emodinamico; viene impostata una dieta assoluta e richiesta l’esecuzione di esofago-gastro-duodenoscopia urgente: il referto mostra sanguinamento di varici esofagee sottoposte a legatura elastica, ulcera gastrica di grado moderato e gastropatia congestizia. viene allora avviata una terapia endovenosa con ceftazidime, sospesa la terapia diuretica e somministrata una fiala endovenosa di vitamina k. a causa di un nuovo riscontro di iperglicemia (246 mg/dl), si avvia nuovamente infusione endovenosa di insulina secondo il protocollo del duke university hospital sperimentato da lien e colleghi [1]. al controllo durante l’ematemesi viene riscontrata hb = 7,7 g/dl e quindi si decide di richiedere 3 unità di concentrato eritrocitario, mentre nel pomeriggio vengono trasfuse 2 unità ematiche. i controlli glicemici sono rientrati nella norma. scrizioni diagnostico-terapeutiche atte a stabilizzare l’iperglicemia e a ridurre l’iperammoniemia al fine di migliorare le funzioni cognitive. dopo essere stata impostata una dieta per diabetici e dopo aver somministrato lattulosio per os a diversi orari, si procede con il controllo glicemico alle ore 20.00 (orario definito come “tempo zero”) che, tramite prelievo capillare, risulta essere hi (cioè high): il medico di reparto dà quindi indicazione di somministrare 10 ui di insulina rapida e di eseguire un prelievo ematico urgente per dosare il glucosio. quando perviene il risultato, la glicemia risulta essere 539 mg/dl, e per tale motivo viene avviata un’infusione endovenosa di 5 ui/h di insulina rapida associata a cristalloidi contenenti soluzioni di potassio, prevedendo rilevazioni glicemiche ogni 2 ore. la prescrizione medica pone le seguenti indicazioni: proseguire con infusione insulinica fino a y che dtx (glicemia da prelievo capillare) risulti < 200 mg/dl. quando dtx risulta al di sotto di tale soglia sospendere l’infusione insulinica e mantenere controlli capillari ogni due ore; riprendere l’infusione insulinica se al prey lievo capillare risulta dtx > 250 mg/dl. nel secondo giorno di ricovero, alle ore 6.30, si sospende l’insulina endovena per dtx = 196 mg/dl. i successivi controlli dtx risultano essere < 200 mg/dl; la paziente si alimenta a colazione e si somministrano 10 ui di insulina rapida sottocutanea. alle ore 10.30 risulta dtx = 298 mg/dl: si sospendono i controlli glicemici ogni 2 ore e poi si prosegue con le rilevazioni alle ore 12.00, 14.00, 18.00 e 20.00 e la visita del medico di reparto. i parametri vitali risultano invariati, ma all’esame obiettivo, rispetto al giorno precedente, si denota flapping tremor all’estensione degli arti superiori. la signora el prosegue poi la cura con terapia parametri risultati pressione arteriosa (pa) 120/80 mmhg frequenza cardiaca (fc) 90 battiti/min frequenza respiratoria (fr) eupnoica saturazione di ossigeno (spo 2 ) in aria ambiente 97% temperatura corporea 36,5 °c dtx (glicemia da prelievo capillare) 441 mg/dl peso corporeo 58 kg ammoniemia 190 μg/dl tabella i risultati che riflettono la situazione emodinamica della paziente al momento dell ’ingresso in reparto ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 73 r. gallo glicemico risulta buono, e il peso corporeo in aumento (73 kg) anche dopo la reintroduzione della terapia diuretica; l’ammoniemia è pari a 199 μg/dl. la ritenzione idrica persiste nonostante la restrizione idrica e la dieta iposodica. si somministra pertanto albumina umana 30 g/die per 6 giorni. dopo alcuni giorni il peso corporeo si stabilizza a 74 kg, gli edemi e l’ascite sono in via di diminuzione e il compenso glicemico appare buono. viste le condizioni cliniche e lo scompenso, vengono eseguiti esami ematici urgenti che rilevano la diminuzione dell’emoglobina a 6,1 g/dl. si decide pertanto di trasfondere altre 2 unità di globuli rossi e poi di dimettere la paziente. discussione quando tutta la fase valutativa è risolta, il passo successivo è la dimissione della paziente; si interviene con la valutazione della terapia diuretica a domicilio, della terapia insulinica e del mantenimento dello stato di salute. una possibilità, in questo caso, sarebbe quella dell’attivazione di periodici controlli infermieristici domiciliari, ma poiché nella famiglia della paziente vige una gestione di tipo matriarcale, la donna potrebbe rifiutare l’accesso proposto, perché nonostante i familiari e il caregiver siano completamente d’accordo nell’accettare questa possibilità, colei che prende le decisioni in famiglia è la paziente stessa, la quale al momento della proposta effettuata dall’équipe in reparto è sembrata poco propensa a tale eventualità, esprimendo con i propri familiari il suo dissenso. con la signora el non è stato possibile fornire questo tipo di supporto che sarebbe stato sicuramente rilevante per mantenere lo stato di salute, evitando eventuali scompensi nei quali si potrebbe incorrere in futuro. si giunge poi alla valutazione degli obiettivi attesi e si concorderanno periodiche visite di controllo nell’ambulatorio di diabetologia ed epatologia, più frequenti rispetto agli accessi precedenti. gli obiettivi proposti durante la degenza saranno quindi: evitare nuovi ricoveri ospedalieri (per y quanto possibile, data la patologia cronica); la dimissione “protetta”, volta a ridurre al y minimo i problemi che possono insorgere successivamente in pazienti con importanti comorbilità; il giorno successivo, dopo l’emotrasfusione (hb = 9,6 g/dl) il quadro clinico e assistenziale è in miglioramento, la paziente non lamenta disturbi e inizia ad alimentarsi con dieta morbida fredda e vengono adeguate, alla terapia insulinica in vena, ui sottocute ai pasti. alle ore 16.00 sospende definitivamente la terapia insulinica in vena per un buon compenso dtx, pari a 75 mg/dl. il sesto giorno di ricovero il peso corporeo è pari a 64 kg (+ 6 kg dall’ingresso); viene incrementata la restrizione idrica e viene ripresa la terapia insulinica. il quadro iniettivo risulta di scarso controllo, la pressione arteriosa omerale è di 130/80 mmhg e si evidenzia ancora la presenza di edemi agli arti inferiori e di ascite. la paziente prosegue con la terapia antibiotica endovenosa. l’ammoniemia è in discesa, con un valore di 48 μg/dl. il giorno successivo, per la mancata diminuzione del peso corporeo, riavvia il trattamento con canreonato 100 mg e successivamente furosemide 25 mg, riprende la dieta ipoglicidica e prosegue con controlli glicemici; viene introdotta anche la dieta iposodica. nei giorni successivi, a seguito di un ulteriore incremento ponderale sino a 69 kg, viene raddoppiata la terapia diuretica, con buon compenso. il peso diventa poi stabile, con conseguente diminuzione degli edemi; la paziente è vigile, lucida e orientata, e si sospende la terapia antibiotica. successivamente viene reintrodotto propranololo 10 mg 2 volte/die. si giunge quindi alla fase di valutazione in cui viene eseguita una egdscopia di controllo, che evidenzia esiti di legatura elastica di varici esofagee, senza significativi vasi residui, ulcera gastrica e gastropatia congestizia di grado moderato: si avvia quindi una terapia con inibitori di pompa protonica (ppi). il giorno seguente la paziente si dimostra vigile, ma non collaborante e reattiva agli stimoli esterni e non esegue ordini semplici; viene allora sospesa la terapia diuretica e vengono richiesti una tc cerebrale urgente di controllo, e l’esecuzione di esami ematici urgenti per escludere aree ischemico-emorragiche e per dubbia ipostenia dell’emisoma destro. dal referto tc non vengono evidenziate lesioni ischemico/emorragiche, ma l’ammoniemia risulta essere pari a 121 μg/dl: viene quindi indotta la catarsi con lattulosio. nei giorni seguenti la paziente si dimostra più collaborante e reattiva, il compenso ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)74 la medicina come frontiera: il paziente pluripatologico straniero supporto fornitoci dai familiari e dal caregiver, in questo contesto il mancato contatto è stato ben supportato: tutta l’équipe è riuscita fin da subito a collaborare e a stabilire un rapporto di fiducia reciproca con i familiari, che ha permesso di agire in modo positivo per la paziente nel rispetto dei suoi spazi, garantendole un sostegno sempre presente, come lei desiderava, fornitole dai familiari. sono stati attuati piani educativi attraverso nozioni infermieristiche applicate all’individualità della paziente stessa e della famiglia anche con l’ausilio di opuscoli informativi. le valutazioni da parte del gruppo infermieristico del caregiver parlante italiano hanno consentito di rilevare una graduale comprensione durante il periodo di degenza dell’assistita fino a una completa e chiara comprensione del piano stesso e delle procedure che dovranno essere messe in pratica al domicilio. le problematiche degli obiettivi preposti comparse nella fase iniziale del ricovero sono state poi completamente superate: per quanto riguarda l’insulinoterapia è stato sufficiente il solo ausilio del piano educativo, mentre per quanto riguarda la dieta ipoglucidica e iposodica il piano educativo è stato più complesso da attuare poiché, tenendo conto delle differenze culturali e non dovendo “imporre” una dieta assoluta, il percorso da affrontare è stato più lungo e laborioso proprio per cercare di trovare un compromesso tra le varie culture, nel rispetto della persona, ma senza trascurare il buon mantenimento dello stato di salute della paziente. questo è quanto l’infermiere si deve proporre per essere in grado di gestire il proprio assistito con un metodo incentrato sulla globalità del paziente, definendo gli obiettivi in base ai suoi bisogni, ma rispettando il suo stile di vita e le sue scelte in maniera da migliorare la salute del paziente stesso. disclosure l’autrice dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. l’educazione del paziente stesso a una y nuova accettazione del proprio stile di vita, l’educazione del caregiver al riconoscimento di eventuali segni o sintomi di scompenso epatico, glicemico e di sanguinamento. l’infermiere e i medici trovandosi a collaborare, in questo caso, con un paziente straniero dovranno cooperare in maniera molto più strategica poiché le informazioni pertinenti a tutta la degenza e al riconoscimento di eventuali segni e sintomi sono più “labili”. in casi come questo l’infermiere stesso è tenuto a prestare maggiore attenzione ai comportamenti e alle richieste, talvolta singolari, stabilendo un rapporto più concreto di fiducia reciproca con il caregiver, il figlio per la signora el, che ricoprirà il ruolo di accesso alla comprensione dei bisogni del paziente, valutando mediante la continuità assistenziale, l’evolversi della condizione clinica e il variare dei bisogni, interverrà supportando e aiutando l’équipe nella spiegazione dell’importanza delle rilevazioni glicemiche orarie che si riveleranno causa di notevole disagio. per effettuare un’assistenza adeguata si porrà l’attenzione su una buona mediazione culturale intervenendo sulla lingua, poiché la paziente in questione è di nazionalità marocchina e ha difficoltà a esprimere i propri bisogni e a farsi comprendere; risulta ancora una volta cruciale il ruolo del caregiver come tramite, che sarà presente durante tutto il ricovero della paziente e al quale tutta l’équipe farà riferimento. si presterà anche attenzione al rispetto della cultura e delle credenze della paziente, permettendole di svolgere le pratiche religiose nonostante i ritmi e i tempi di gestione dell’unità operativa, ma soprattutto insieme ci si dovrà concentrare sulla formulazione di obiettivi atti a migliorare lo stato di salute della propria assistita tramite l’ottenimento di una compliance adeguata da parte della paziente e anche da parte dei familiari. nella nostra asl sono presenti direttive che permettono di collaborare con un mediatore culturale ma, vista la presenza e il bibliografia lien lf, spratt se, woods z, osborne kk, feinglos mn. optimizing hospital use of intravenous 1. insulin therapy: improved management of hyperglycemia and error reduction with a new nomogram. endocr pract 2005; 11: 240-53 cmi 2015;9(4)89-94.html la felicità nelle organizzazioni: perché no in sanità? anna ercoli 1 1 consulente aziendale per lo sviluppo delle risorse umane, formatrice ad approccio integrato. fondatrice del centro studi bodymindsoul   happiness in organizations: why not in healthcare? cmi 2015; 9(4): 89-94 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i4.1204 editoriale corresponding author anna ercoli anna.ercoli@hotmail.it disclosure l’autrice dichiara di non avere conflitti di interesse in merito alla pubblicazione del presente articolo introduzione il titolo di questo articolo può richiamare alla nostra mente, visti i tempi che corrono nei contesti organizzativi sanitari, pensieri che possono celebrare la “follia”, non certo quella decantata da erasmo da rotterdam nel suo “elogio della follia”, satira scintillante e bonaria che alla demenza del mondo, avido di cose effimere, contrappone la “superiore follia” [1]. la storia del servizio sanitario nazionale italiano così, prima di entrare nel cuore dell’articolo, ricordiamo come nacque il servizio sanitario nazionale italiano, il quale ha una storia che affonda le sue radici in un sistema assistenziale-sanitario basato su numerosi “enti mutualistici” o “casse mutue”, tra cui ricordiamo l’inam (istituto nazionale per l’assicurazione contro le malattie). la legge 3 marzo 1958, n°296 [2] emanata durante il governo fanfani, istituì per la prima volta il ministero della sanità, scorporandolo dal ministero dell’interno. la legge 17 agosto 1974, n° 386 [3] estinse i debiti accumulati dagli enti mutualistici degli enti ospedalieri, sciolse i consigli di amministrazione dei primi e ne dispose il commissariamento, trasferendo i compiti in materia di assistenza ospedaliera alle regioni. la legge del 23 dicembre 1978, n° 833 [4], infine, soppresse definitivamente il sistema mutualistico e istituì il servizio sanitario nazionale. all’interno di questo servizio sanitario nazionale, si sono poi susseguiti diversi cambiamenti allo scopo di regolamentare una sanità che potesse funzionare sia per il cittadino, fruitore dei servizi, sia per l’azienda stessa, affinché costi, benefici e bilanci potessero quadrare. diversi cambiamenti sono avvenuti nel tempo all’interno delle aziende sanitarie, legati in particolare allo sviluppo di piani regionali, all’introduzione del sistema drg (diagnosis related groups), alla costituzione di distretti sanitari, alle fusioni tra università e ospedali, allo studio dei sistemi di risk management, all’introduzione dei capi dipartimento, ecc. la ragione di ogni modifica effettuata non risiede solo nell’intento di migliorare l’organizzazione sanitaria, ma anche nei limiti imposti dal sistema sociale economico, gravato da crisi, difficoltà, mancanza di risorse e recessione. la crisi nella sanità oggi, la parola “crisi” viene reiterata in tutti i contesti: sociali, politici, economici, accademici e sanitari. come ha affermato il dottor carmelo scarcella, direttore generale dell’asl di brescia, in un documento dal titolo: “la gestione della crisi in sanità pubblica” [5], «la crisi, intesa come evento che minaccia il funzionamento di una organizzazione interferendo con le normali attività e compromettendo il benessere e la sicurezza della comunità, costituisce un problema di notevole rilevanza per ogni settore di attività, ma assume particolare importanza per le aziende sanitarie, garanti della tutela della salute dei cittadini […] sono molti i fattori da considerare per costruire un sistema di risposta alla crisi: la gestione delle emergenze è un processo complesso, la cui preparazione deve avvenire in “tempi ordinari”, definendo assetti organizzativi e procedure da attuare. una corretta sinergia tra questi due elementi rappresenta il punto nevralgico che influenza l’effettiva capacità di una azienda nell’affrontare con successo ogni circostanza critica». nelle aziende sanitarie quindi, la richiesta di cambiamento è necessaria, anche se spesso i programmi pianificati falliscono penalizzando il clima organizzativo: ciò, a sua volta, incide fortemente su percezione, motivazione, operatività e ben-essere degli operatori sanitari, aumentando stress e burn-out. il burn-out se i cambiamenti non possono fermarsi, i disagi non devono essere ignorati, anche perché, come affermano gli esperti in psicologia sociale e burn-out christina maslach e michael leiter: «sino a quando non ci si rende conto che le “questioni umane” incidono sui valori economici delle imprese, queste non riserveranno mai adeguate attenzioni alla valorizzazione delle persone» [6]. un altro esperto in psicologia sociale, nicola alberto de carlo, definisce il “disagio organizzativo” come «qualsiasi dinamica, di natura personale, sociale o istituzionale, che impedisca sistematicamente, anche se per un periodo di tempo limitato, il raggiungimento degli obiettivi organizzativi e/o incrini la salute psico-fisica dei collaboratori all’organizzazione» [7]. la crisi economica e la crisi di valori recuperando parole chiave espresse, come crisi, stress, burn-out, cambiamenti organizzativi, recessione economica con relative trasformazioni, l’esperto in filosofia della scienza e della teoria dei sistemi ervin laszlo, afferma che l’unica vera crisi che impera in questo periodo è la crisi di valori, cioè la perdita, da parte degli individui, del contatto con se stessi e con ciò che essenzialmente caratterizza l’essere umano [8]. si potrebbe pertanto pensare che i cambiamenti organizzativi potrebbero avere successo se le persone cominciassero a scegliere di cambiare se stesse. in effetti sono proprio ciò che l’organizzazione definisce “risorse umane” quelle che potrebbero fare la differenza sui processi aziendali, sia tecnici, sia relazionali e comportamentali. “fare”, oggi più che mai, non è l’unica cosa che conta. è possibile pensare a un modo diverso di “essere” per giungere a un modo diverso di “fare”. tutte le persone sono chiamate a una nuova metamorfosi culturale in cui l’ego possa lasciare più spazio al sé o essenza [9]. l’ego e l’essenza volendo semplificare, l’ego è quella parte delle persone in cui spesso si attivano i “valori deboli”, legati, cioè, all’effimero, all’immagine di sé per una propria autocelebrazione, sviluppando una visione parziale, facendo crescere il conflitto e la competizione fine a se stessa o finalizzata al raggiungimento di interessi personali. le convinzioni che ne stanno alla base sono limitanti, cioè negano la flessibilità e le strade alternative. le azioni dipendenti dall’ego vengono guidate da paure irrazionali, rabbia, risentimento, ecc. tali emozioni risultano ben poco funzionali per il contesto aziendale. l’essenza, invece, ha altre radici, «è una zona invisibile, che quando si decide di lasciarle la guida, imprime la direzione, il senso, la motivazione ai nostri comportamenti» [9]. in questa parte sono radicati valori forti, come la condivisione, l’onore, il rispetto o l’onestà. una consapevole presa di contatto con questa parte della persona consentirebbe di rispondere agli eventi, organizzativi e non, con più assertività e con una maggiore respons-abilità. secondo lo psichiatra raffaele morelli «gli alchimisti ritenevano che non ci fosse niente di più significativo del tuorlo dell’uovo. rosso come il sole, nascosto come la vita che si genera da lui. c’è un “sole rosso” dentro di noi che non vediamo, eppure crea il nostro essere, come il pulcino che nasce dall’uovo. […] sotto la superficie c’è uno stato profondo di noi che vive in una dimensione diversa, quella del senza tempo. lì c’è l’energia della vita, c’è il benessere, ci sono le soluzioni che stiamo cercando» [10]. l’ego, secondo la psicanalista anna freud, è quell’istanza psichica che gestisce i meccanismi di difesa deputati alla protezione dell’io [11]. l’ego può essere paragonato alla maglia che le persone hanno indossato in tenera età per proteggersi da esperienze poco gradevoli in cui non si sono sentite sufficientemente riparate dalle paure e dalle angosce che potevano assalirle. è costituito, quindi, dai meccanismi di difesa che sono necessari per affrontare la vita. l’istituzione di tali meccanismi ha comportato, però, un allontanamento dallo stato di ben-essere, al quale è subentrato uno stato di mal-essere, che può essere di tipo fisico, psichico o sociale. ricordiamo che l’organizzazione mondiale della sanità definisce lo stato di salute come stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non come la semplice assenza di malattia. l’ego non deve essere negato, ma «va conosciuto, compreso, accettato affinché non sottragga energia, flessibilità nei movimenti mentali, emotivi e fisici, togliendo sapore alla vita e all’affermazione di sé, come un fiume che non raggiunge il mare a causa delle acque stagnanti che soffocano la vitalità della sua risorgiva» [9]. alla luce di tutto ciò, è possibile comprendere l’importanza che potrebbe avere la decisione da parte di ogni individuo, indipendentemente dal ruolo rivestito nell’azienda, di realizzare una crescita personale, sciogliendo quelle convinzioni generate da aspettative non realizzate, che solitamente generano sentimenti avversi al proprio dialogo interno, generando paura, delusione, disagio, rabbia. queste emozioni si ripercuotono, a loro volta, sulla prassi quotidiana, sulle decisioni da prendere e sugli obiettivi da raggiungere. mediante un serio lavoro su stessi si potrebbe arrivare a una profonda comprensione dei meccanismi che sono alla base dei propri comportamenti: da qui è breve il passo sino al recupero di una visione sistemica dell’organizzazione per cui si lavora. si potrebbe, pertanto, risvegliare quella sensibilità orientata verso un collettivo che si impegna insieme orientandosi al vero servizio, pur con obiettivi economici da raggiungere, con un’attenzione consapevole alla qualità delle prestazioni, sia in termini qualitativi, sia quantitativi. un lavoro di questo genere comporta una maggior connessione con la propria essenza, in grado di attivare emozioni come il coraggio, la passione e l’amore. lo scrittore neale walsch afferma: «l’essere o il sé è qualcosa che tutti hanno, indipendentemente dal livello di istruzione, dal gruppo etnico o culturale di appartenenza, dal ceto sociale» [12]. la scritta “conosci te stesso” campeggiava sul pronao del tempio di apollo a delfi e per molti secoli ha influenzato i più importanti pensatori dell’epoca della cultura occidentale, da socrate a platone, da s. agostino a kant [9]. persino il generale e filosofo cinese sun tzu circa 2500 anni fa asseriva: «se non conosci né il nemico, né te stesso, ogni battaglia significherà per te sconfitta certa. se non conosci il nemico ma conosci te stesso, le tue possibilità di vittoria saranno pari a quelle di una sconfitta. se conosci il nemico e conosci te stesso, nemmeno in cento battaglie troverai il nemico» [13]. la crescita personale e il business management si auspica, pertanto, che gli operatori sanitari, ma soprattutto coloro che hanno in carico la gestione delle aziende sanitarie, ricreino un nuovo equilibrio innanzitutto con se stessi, e in seguito con l’organizzazione, i colleghi, i pazienti e le loro famiglie. questo concetto è ormai chiaro anche alle maggiori scuole di business management, che non si accontentano più di impartire ai loro allievi lezioni di economia, ma provvedono a integrare gli studi con nozioni riguardanti l’etica, la responsabilità sociale e la giustizia. la escuela superior de administracion y direccion de empresas (esade), oltre a prendere parte al global compact delle nazioni unite, è firmataria dei principi di responsible education management (prme), una rete globale di università e di business school impegnata a integrare la responsabilità sociale, l’etica e la sostenibilità nell’istruzione [14]. il congresso mondiale che esade ha tenuto quest’anno a barcellona si intitolava “spiritualità e creatività del management”. le business school più famose al mondo, pertanto, dichiarano la necessità di integrare la carriera professionale con la propria vita interiore. personalmente ritengo che questa sia la modalità corretta per cercare di non ripetere gli errori commessi nel passato, accettando in modo fluido i cambiamenti con le relative trasformazioni personali e collettive. al posto di formare persone votate al successo e al denaro, si sta quindi cercando di plasmare individui capaci di amare, che agiscono per una visione sistemica ed evolutiva. fra le abilità che vengono richieste ai nuovi responsabili, vi sono le capacità di: rimanere connessi ai più alti valori della vita; non anteporre il profitto personale al benessere collettivo; comprendere che il proposito etico che l’impresa stabilisce è più importante dell’autocelebrazione dell’ego. con questo tipo di rinnovata visione, al congresso organizzato dall’esade si è discusso della spiritualità in termini di modalità di insegnamento all’interno dell’educazione manageriale e delle imprese, rivoluzione che potrebbe influire sui sistemi di relazione, sulla performance lavorativa e su quella decisionale [14]. la servant leadership la crescita interiore nella formazione di un bravo leader si rifà ampiamente al concetto di servant leadership, coniato da robert k. greenleaf in “the servant as leader”, nel quale affermava: «la prima e la più importante scelta che un leader fa è quella di servire, senza la quale la capacità di guidare è fortemente limitata» [15]. greenleaf ha evidenziato sette pilastri che caratterizzano questa tipologia di leadership, divulgata in italia da lucia giovannini, formatrice internazionale per una crescita evoluta in azienda “tutta un’altra azienda” [16], che sono: il carattere: prendere decisioni coscienziose, etiche, fondate sui valori, dimostrando umiltà e devozione al servizio, puntando sempre a uno scopo più alto; le persone al primo posto: aiutare gli individui a soddisfare i maggiori bisogni per il loro sviluppo con cura e attenzione; la mentalità è quella del mentore; una comunicazione chiara ed etica: ascoltare con interesse e parlare in modo efficace, dimostrare empatia, invitare a dare feedback, comunicare in modo persuasivo; la collaborazione: rafforzare le relazioni, valorizzare le diversità creando senso di appartenenza, costruendo squadre e comunità, negoziando i conflitti; la visione: immaginare le possibilità, anticipare il futuro, procedere con chiarezza di scopo, dimostrare creatività agendo con coraggio e determinazione; il pensiero sistemico: pensare e agire in maniera strategica, guidare il cambiamento con efficacia, equilibrare il tutto con la somma delle diverse parti, trovarsi a proprio agio con le complessità dimostrando adattabilità e tenendo sempre in considerazione “il bene più grande”; l’autorità morale: essere meritevoli di rispetto, ispirare fiducia e sicurezza stabilendo standard di qualità e di performance, accettare e delegare le responsabilità, condividere il potere e il controllo, creare la cultura della respons-abilità, facendo rispondere i collaboratori mediante l’uso di abilità per reagire agli eventi o ai cambiamenti che possono avvenire in un’azienda. ken blanchard, il padre della leadership situazionale, conosciuto prevalentemente da chi gestisce collaboratori, domanda: «perché siete leader? per servire o essere serviti? rispondere in modo sincero a questa domanda è della massima importanza. fingere di essere un servant leader è impossibile. siamo convinti che per diventarlo sia indispensabile possedere il giusto spirito. la barriera che maggiormente ostacola la nascita del servant leader è uno spirito motivato solo dall’interesse personale, che si propone di dar poco e di prendere molto. i leader motivati esclusivamente dall’interesse personale pongono i propri programmi, la propria sicurezza, lo status e la gratificazione al di sopra di tutti coloro che sono condizionati dai loro pensieri e dalle loro azioni» [17]. una trasformazione individuale e collettiva va inoltre messo in evidenza che la global university network for innovation (guni) dell’unesco ha selezionato 73 autori da tutto il mondo per contribuire al report più esteso mai realizzato sull’educazione superiore [14]. sono stati identificati tre indicatori significativi che possono rappresentare questa trasformazione individuale e collettiva, cioè: consapevolezza: una cultura basata su esseri sempre più consapevoli di se stessi e dei loro automatismi; responsabilità: individui capaci di assumersi la piena responsabilità, con abilità per rispondere alle sfide della vita; felicità: l’acquisizione della capacità di vivere e di creare la propria felicità indipendentemente dagli avvenimenti esterni. oggi, noi siamo testimoni e parte attiva di una nuova presa di coscienza, possiamo comprendere profondamente che il mondo esterno è un semplice riflesso della propria condizione interiore. è inutile cambiarlo reagendo ai suoi stimoli, poiché il mondo esterno cambia quanto più l’individuo lavora sulla propria coscienza [14]. conclusioni in conclusione, nelle organizzazioni sanitarie pubbliche e private, oltre alla crisi economica, è presente anche una profonda crisi di valori. un elemento fondamentale per il successo dei cambiamenti organizzativi aziendali volti al superamento delle crisi è la crescita interiore dei singoli individui, che consiste sostanzialmente nella riscoperta della propria essenza come guida delle proprie azioni, al posto dell’ego, troppo spesso dominante. questa chiave per il superamento delle crisi è stata anche recentemente scoperta e valorizzata dalle scuole di business management, che hanno inserito nella formazione dei leader anche la crescita interiore e l’etica. la servant leadership, che parte dal concetto del leader come guida al servizio dell’organizzazione, è il concetto alla base dei nuovi corsi che formano i leader di domani. l’unesco, attraverso il guni, ha identificato tre indicatori che possono garantire la trasformazione individuale e collettiva, che sono: consapevolezza, responsabilità e felicità. e come ricordava un anonimo saggio: «c’è un viaggio che attende ciascuno di noi: è il viaggio nella conoscenza di sé, l’unico che valga la pena di essere intrapreso, sempre». bibliografia 1. erasmo da rotterdam. elogio della follia. torino: einaudi, 2005 2. legge 13 marzo 1958, n. 296. costituzione del ministero della sanità. gazzetta ufficiale n. 90 del 14-4-1958 3. legge 17 agosto 1974, n. 386. conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 8 luglio 1974, n. 264, recante norme per l’estinzione dei debiti degli enti mutualistici nei confronti degli enti ospedalieri, il finanziamento della spesa ospedaliera e l’avvio della riforma sanitaria. gazzetta ufficiale n. 225 del 29-8-1974 4. legge 23 dicembre 1978, n. 833. istituzione del servizio sanitario nazionale. gazzetta ufficiale n.360 del 28-12-1978 – suppl. ordinario 5. direzione generale dell’asl della provincia di brescia. la gestione della crisi in sanità pubblica. disponibile all’indirizzo http://www.aslbrescia.it/media/pdf/pubblicazioni/gestione_della_crisi2007.pdf (ultimo accesso settembre 2015) 6. maslach c, leiter mp. burnout e organizzazione. trento: erikson, 2000 7. de carlo na (a cura di). teorie e strumenti per lo psicologo del lavoro e delle organizzazioni. milano: franco angeli, 2004 8. laszlo e, grof s, russel p. la rivoluzione della coscienza. milano: spazio interiore, 2015 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dozza 17. blanchard k. la leadership per l’eccellenza. segrate (mi): sperling & kupfer editori, 2007 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) clinical management issues 17 dall’incremento della stiffness miocardica [1,2]. fattori precipitanti la fa in pazienti senza patologie cardiache sono invece: uso di farmaci o intossicazioni da alcol, da y monossido di carbonio, caffeina, droghe, decorso post-operatorio, soprattutto dopo chirurgia polmonare o cardiaca; malattie polmonari acute o croniche y ; anomalie metaboliche [1,2] y . può essere correlata allo sforzo fisico o all’ipertono vagale o simpatico; infine l’eziologia può anche essere neurogena in corso di emorragia cerebrale o post major stroke ischemico. vengono definiti “fibrillatori isolati” i pazienti affetti da fibrillazione atriale isolata o “idiopatica”, solitamente soggetti sotto i 60 anni senza evidenza clinica o ecocardiografica di patologie cardio-polmonari: rappresentano il 30-45% dei pazienti con fa parossistica e il 20-25% dei pazienti con fa persistente [1,2]. erica delsignore 1, roberto cantone 1, maria luisa moia 2, luigi olivetto 1, maria cristina pollo 3, anna maria varese 1, aldo tua 1, maria cristina bertoncelli 1 introduzione la fibrillazione atriale (fa) è una tachiaritmia sopraventricolare caratterizzata da un’attività atriale scoordinata con conseguente riduzione dell’efficienza della meccanica atriale stessa [1]. può essere associata a: condizioni primitive o secondarie che dey terminano alterazioni strutturali del ventricolo sinistro, con disfunzione sistolica o diastolica; condizioni che determinano modificazioy ni strutturali dell’atrio; anomalie cardiache congenite; y malattie infiammatorie delle tonache y cardiache; tumori primitivi o localizzazioni metay statiche a livello dell’atrio, del pericardio o adiacenti la parete atriale; triggering arrhythmias y . i soggetti anziani ne sono più facilmente colpiti per modificazioni cardiache indotte un complicato caso di fibrillazione atriale abstract atrial fibrillation, usually considered a benign arrhythmia, recognizes several aetiologies: not only sctructural cardiopathies, but also other diseases, drugs intake or post-operative courses. sometimes it can occur in absence of apparente cause. more and more frequently it is usual to consider this arrhythmia like a marker of pathological unknown situation; therefore, also patients with “lone atrial fibrillation” should be submitted to surveys in order to find probable associated causes. keywords: atrial fibrillation, syndrome of inappropriate antidiuretic hormone hypersecretion (siadh), ectopic adrenocorticotropic hormone syndrome a complicated case of atrial fibrillation cmi 2010; 4(suppl. 3): 17-23 1 sc medicina interna ospedale s. andrea, vercelli 2 sc anatomia patologica ospedale s. andrea, vercelli 3 sc radiodiagnostica ospedale s. andrea, vercelli corresponding author dott.ssa erica delsignore eridelsi@tiscali.it caso clinico ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)18 un complicato caso di fibrillazione atriale ne dell’interstizio polmonare senza lesioni pleuro-parenchimali. per il lieve incremento della troponina (1,72 ng/ml) viene effettuata la coronarografia, con reperto di coronarie indenni e contemporaneamente viene eseguita anche angiografia arteriosa agli arti inferiori che rileva ateromasia diffusa dei vasi iliacofemorali e stenosi critica e complessa del tratto iliaco femorale destro su cui si esegue ptca (angioplastica coronarica transluminale percutanea) e posizionamento di stent autoespansibile. all’ecocardiogramma si osserva ipocinesia della parete inferiore e del setto inferiore con frazione di eiezione (fe) lievemente ridotta; iperreflettività miocardica come da fibrosi. all’ecografia addome si nota fegato steatosico con area ipoecogena di 1,5 cm di natura da determinarsi al iii segmento. gli esami ematochimici mostrano grave iponatremia (na+ = 107 mmol/l) in corso di terapia antipertensiva di associazione sartano/tiazidico. la fa è riconvertita a ritmo sinusale con infusione endovenosa di amiodarone, mentre l’iponatremia, in un primo momento attribuita all’utilizzo domiciliare di tiazidici, è corretta con somministrazione endovenosa di soluzioni saline ipertoniche. si indaga il disturbo dell’equilibrio idroelettrolitico con i seguenti esami: renina: 11,1 µui/ml (vn = 4,4-46 µui/ y ml); aldosterone 159 pg/ml (vn = 35-300 pg/ y ml); ormone adrenocorticotropo (acth) = y 60 pg/ml (vn < 46 pg/ml); cortisolo = 734 nmol/l (vn = 138-690 y nmol/l); ormone antidiuretico (adh) = 50,6 pg/ y ml (vn < 6,7); sodiuria = 40 mmol/l. y si pone pertanto il sospetto diagnostico di «sindrome da inappropriata secrezione di adh (siadh) in paziente con fa parossistica» e alle dimissioni si consiglia oltre alla profilassi con amiodarone, anche sodio bicarbonato per il controllo del disturbo elettrolitico. pochi giorni dopo il paziente viene ricoverato nella nostra sc medicina per ricomparsa di tachicardiopalmo aritmico, sudorazione, oppressione retrosternale e lieve dispnea. all’ecg si nota aritmia assoluta da fa (figura 1) e l’rx torace evidenzia disomogeneo addensamento dndd (di natura da determinare) in sede parailare sinistra, immagine cardiaca ingrandita e calcificazioni parietali dell’arco aortico. figura 1 ecg all ’ingresso in reparto figura 2 tc torace con mezzo di contrasto [per gentile concessione sc radiodiagnostica] caso clinico il signor ab, 59 anni, ex fumatore, viene sottoposto nel 2003 a lobectomia polmonare sinistra per amartocondroma; il follow-up periodico è interrotto dopo qualche anno in assenza di patologia evidenziabile. sono presenti: pregressa trombosi retinica e maculopatia dell’occhio destro; arteriopatia cronica ostruttiva con stenosi emodinamicamente significativa all’arto inferiore destro; gotta cronica tofacea e ipertensione arteriosa in trattamento da due anni. dal 2 al 7 giugno 2009 il paziente viene ricoverato in cardiologia per fibrillazione atriale con lieve movimento della troponina; alla radiografia del torace, eseguita in un’unica proiezione, si osserva accentuazio©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 19 e. delsignore, r. cantone, m. l. moia, l. olivetto, m. c. pollo, a. m. varese, a. tua, m. c. bertoncelli gli esiti degli esami ematochimici sono: k+ = 3,1 mmol/l (per un approfondimento sulle cause di ipokaliemia, vedi tabella i); moderata leucocitosi neutrofila; creatinina = 1,5 mg/dl e troponina 0,41 ng/ml (vn = 0-0,2 ng/ml) ad alcune ore dall’insorgenza dei sintomi; cea, ca19.9, afp e funzionalità tiroidea nella norma. all’emogasanalisi (ega), in aria ambiente, lieve ipossiemia e alcalosi mista (ph = 7,5; po2 = 62 mmhg; pco2 = 39 mmhg; hco3 = 30,8 mmhg). la fa è stata riconvertita a ritmo sinusale con amiodarone. a stabilizzazione avvenuta si invia il paziente al domicilio con indicazione a pet total body, alla luce del sospetto di siadh e in relazione all’addensamento polmonare di dubbia natura. per il ripresentarsi di astenia, il 3 luglio 2009 il paziente viene nuovamente ricoverato in reparto per ipokaliemia severa (k+ = 1,8 meq/l); è evidente una lieve ipocloremia, mentre la natremia è nella norma. all’ecg ritmo sinusale, con marcato allungamento del qt (0,60 msec) che impone la sospensione di amiodarone. all’ega alcalosi mista (ph = 7,485; hco3 = 40,3; pco2 = 38). accertamenti strumentali tc total body: a sinistra esiti di intervento chirurgico con resezione atipica al lobo polmonare superiore e tessuto anomalo che circonda “a manicotto” i bronchi e i vasi all’ilo, indissociabile da adenopatia aortopolmonare, paratracheale sinistra, retrobronchiale, pretracheale e sottocarenale; altri linfonodi con diametro massimo di 2,7 cm sono riconoscibili in sede paratracheale destra e paratracheale sinistra superiore; al segmento apicale del lobo inferiore destro, in sede retrobronchiale, piccolo nodulo polmonare del diametro di 4 mm di possibile significato ripetitivo; parenchima epatico a densità disomogenea per numerose lesioni nodulari lievemente ipodense appena riconoscibili, del diametro massimo di 2 cm al ii segmento, compatibili con sostituzione neoplastica secondaria; all’ilo epatico in sede sovrapancreatica e interaortocavale alcuni linfonodi del diametro massimo di 17 mm; in sede periepatica e nello scavo pelvico minima falda liquida (figura 2). pet total body: massa grossolana iperfissante il tracciante nella regione del bronco principale di sinistra con estensione della finestra aorto-polmonare fino all’ilo di sinistra, adenopatia mediastinica, disomogeneità ipercaptanti al iii e al iv segmento epatico da diminuito apporto anoressia nervosa y alcolismo y diete sbilanciate y da trasferimento intracellulare perfusione glucosio insulina y aumento della insulinemia y alcalosi metabolica o respiratoria y paralisi familiare ipokaliemica y iatrogene somministrazione di soluzioni saline ipertoniche y prive di potassio diuretici y corticosteroidi, beta y 2 -stimolanti bicarbonati per os o ev y da perdite gastrointestinali vomito protratto o drenaggio gastrico y fistole salivari pancreatiche o biliari y diarrea e/o abuso di lassativi y ureterosigmoidostomia y malassorbimento e adenoma villoso del colon-retto y da perdite renali iperaldosteronismo primitivo (iperplasia o adenoma y surrenale) o secondario ipersecrezione di acth e/o cortisolo y ingestione di liquirizia o carbenoxolone y nefropatie da uso di diuretici (tiazidici, dell'ansa, y inibitori dell’anidrasi carbonica) ipomagnesiemia y idiopatica o familiare y tabella i cause di ipokaliemia [3] acth = ormone adenocorticotropo e focalità iperfissante fdg a livello della sincondrosi sacro-iliaca sinistra. broncoscopia: quadro endoscopico suggestivo di neoplasia broncogena maligna di figura 3 istologico: colorazione con nse, marcatore caratteristico neuroendocrino [per gentile concessione sc anatomia patologica] tipo infiltrante a partenza dal lobo superiore del polmone sinistro e segni endoscopici di adenopatie ilari bilaterali e mediastiniche. superati i limiti di resecabilità. altri esami ematochimici: ormone adenocorticotropo (acth) = 470 pg/ml (vn < ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)20 un complicato caso di fibrillazione atriale 46); cortisolemia = 1.540 nmol/l (vn = 138650 nmol/l): si noti l’incremento esponenziale rispetto ai precedenti del 6/2009; oncomarker (cea, nse e tps) nella norma; costante ipokaliemia nonostante infusione endovenosa continua di cloruro di potassio a dosi crescenti fino a 160 meq/l; natremia sempre nella norma. su biopsia di tessuto polmonare, al citologico presenza di cellule tumorali maligne e all’istologico quadro morfologico in accordo con carcinoma indifferenziato a piccole cellule (figura 3). diagnosi: sindrome paraneoplastica da acth ectopico e siadh in microcitoma. discussione la fa di questo caso clinico è a complessa eziopatogenesi e ci ha indotto a esaminare i molteplici fattori che hanno concorso al suo innesco. a un primo rapido esame il nostro paziente appariva esente da cardiopatie sottostanti, in effetti non note, ma l’ipertensione arteriosa, seppur ben controllata dalla terapia in atto, l’arteriopatia cronica in ex fumatore, insieme ai quadri clinici, laboratoristico ed elettrocardiografico potevano essere suggestivi di alterazioni morfologiche cardiache o di malattia aterosclerotica diffusa anche al circolo coronarico (esclusa poi dall’esame angiografico). il riscontro ecografico di ipocinesia della parete inferiore e del setto inferiore con fe lievemente ridotta confermava infatti l’alterazione strutturale del miocardio. la cardiopatia ipertensiva, definita come la risposta del cuore allo stimolo stressorio ipertensivo imposto al ventricolo sinistro, è condizione sufficiente allo sviluppo di fa: nello studio di framingham il rischio relativo di fa in pazienti ipertesi con e senza ipertrofia ventricolare sinistra è definita a 3,0 e 1,9 rispettivamente, quindi solo modestamente aumentato in pazienti ipertesi con normali reperti ecocardiografici [4]. nella cardiopatia ipertensiva le complesse modificazioni nella struttura miocardica prendono il nome di “rimodellamento strutturale”: l’ipertrofia dei cardiomiociti del ventricolo sinistro rappresenta la risposta adattativa al sovraccarico pressorio, nel tentativo di far fronte allo stress sistolico di parete, mentre le alterazioni che coinvolgono strutture del compartimento non miocardiocitico sono costituite dall’attivazione e proliferazione dei fibroblasti e dalla trasformazione dei fibroblasti in miofibroblasti che può condurre a fibrosi; quest’ultima è legata alla rottura dell’equilibrio tra sintesi e degradazione del collagene di tipo i e di tipo iii, conseguenza di diversi processi patologici dovuti a fattori meccanici, neurormonali e produzione di citochine. la fibrosi facilita il passaggio a scompenso cardiaco o altre alterazioni cardiache (riduzione di flusso e riserva coronarica, sviluppo di aritmie) [5]. la fibrosi miocardica severa è associata a disfunzione sistolica in pazienti con cardiopatia ipertensiva e può alterare la funzione diastolica del ventricolo sinistro [6] o determinare anche disfunzione diastolica in assenza di malattia coronarica in pazienti con frazione di eiezione conservata [7]. la diagnosi non invasiva di fibrosi miocardica sta ottenendo larga applicazione e si basa sulle alterazioni del segnale ultrasonoro quando questo incontra il tessuto fibrotico: queste caratteristiche consentono di quantificare le caratteristiche funzionali e strutturali del miocardio. nel miocardio degli ipertesi è stata dimostrata associazione tra ecoreflettività e incremento di tessuto fibrotico [5]. i meccanismi di innesco della fa, favoriti dal substrato fibrotico, sono però ancora controversi: possono essere costituiti da macrorientro o da sorgenti focali che originerebbero dall’atrio destro, dall’atrio sinistro o dalle vene polmonari. sta poi emergendo l’importanza di alcune vie molecolari che potrebbero contribuire al peggioramento della fibrosi atriale: tra queste il sistema renina angiotensina-aldosterone e il tgfbeta1 possono avere un ruolo di spicco, costituendo inoltre un target nello sviluppo di nuove strategie terapeutiche finalizzate alla prevenzione o alla regressione del rimodellamento atriale [8]. le aritmie dipendono da complesse interazioni tra substrato miocardico e trigger che creano la suscettibilità al rischio di aritmia, determinata in parte geneticamente, ma soprattutto dalla presenza di una cardiopatia strutturale: le più frequenti sono infatti disturbi acquisiti che occorrono nel contesto di una cardiopatia strutturale (cardiopatia ipertensiva, infarto miocardico acuto con cicatrice residua). il rimodellamento strutturale ed elettrico in risposta al danno miocardico, l’alterazione dei carichi emodinamici e i cambiamenti nei segnali neurormonali possono condurre a modificazioni nella funzione ione-cellulare, della concentrazione del calcio intracellula©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 21 e. delsignore, r. cantone, m. l. moia, l. olivetto, m. c. pollo, a. m. varese, a. tua, m. c. bertoncelli re, della comunicazione intercellulare e della composizione della matrice intercellulare, fattori che contribuiscono a creare un substrato proaritmico; anche il bilancio elettrolitico, l’attivazione neurormonale, la terapia farmacologica e l’ischemia possono costituire trigger per l’innesco dell’aritmia [9]. nel nostro paziente, sul substrato dato dalla cardiopatia ipertensiva avrebbe probabilmente agito anche la disionia: un’appropriata concentrazione di potassio intra ed extracellulare, infatti, contribuisce al mantenimento di una normale funzione cardiaca, mentre una sua riduzione può essere causa di aritmie anche letali, oltre che di astenia muscolare ingravescente fino alla paralisi flaccida. sul piano elettrofisiologico il potassio esce dalla cellula in scambio con il cloro nella fase i e vi rientra nelle fasi ii e iii del potenziale d’azione, in scambio con il calcio. la riduzione della kaliemia modifica durata e morfologia del potenziale d’azione: il plateau in fase ii diventa più ripido, mentre la discesa in fase iii rallenta notevolmente. se la kaliemia scende al di sotto delle 2 mmol/l il potenziale di riposo aumenta fino all’iperpolarizzazione e quindi, gradualmente, fino all’ineccitabilità di membrana: quest’ultimo evento si realizza quando il potenziale di membrana da -85 mv arriva a -120 mv [10]. all’ecg è evidente progressiva riduzione in ampiezza dell’onda t, depressione del tratto st e comparsa dell’onda u. alla base delle aritmie possono esserci sia fenomeni di aumentato automatismo sia fenomeni di rientro, imputabili a condizioni di disomogeneità del periodo refrattario delle singole fibrocellule miocardiche [11]. l’ipokaliemia contribuisce alle alterazioni del ritmo anche facilitando la comparsa di battiti ventricolari prematuri e postdepolarizzazione precoce e inducendo modificazioni ultrastrutturali e istochimiche della connessina 43; quando la fosforilazione di questa proteina di membrana viene ridotta, si realizza una disregolazione funzionale delle gap junctions, con conseguente disturbo dell’omeostasi del calcio intracellulare, che conduce a danno dell’accoppiamento cellulare e desincronizzazione del miocardio nella propagazione del potenziale d’azione, facilitando la comparsa di fibrillazione atriale e ventricolare [12,13]. i fenomeni fibrotici sarebbero stati accentuati dalla disendocrinia che caratterizza la sindrome paraneoplastica da acth ectopico [14]: l’ipercortisolismo può aver agito da stato funzionale di eccesso di mineralcorticoidi. infatti l’aldosterone può stimolare direttamente la sintesi di collagene di tipo i da parte dei fibroblasti cardiaci [15], come si evince dalla comorbilità cardiovascolare di soggetti affetti da aldosteronismo primario (angina pectoris, infarto miocardico acuto, insufficienza cardiaca cronica, fa) [16]. i dosaggi ormonali del nostro paziente mostravano renina e aldosterone nella norma, ma gli elevati livelli di cortisolo documentati possono aver avuto un’azione aldosterone-simile non solo nello sviluppo dell’ipokaliemia e dell’aggravamento dell’ipertensione, ma anche, si può ipotizzare, nella produzione di collagene e quindi nella fibrosi. infatti la conversione del cortisolo attivo a cortisone inattivo da parte dell’enzima 11-betaidrossisteroidodeidrogenasi di tipo 2 diviene meno efficiente nell’ipercortisolismo severo in cui l’enzima viene saturato dal suo substrato [17]. un ennesimo trigger di fibrosi può essere costituito dall’infiammazione, condizione che può essere causa e conseguenza di fa: secondo alcuni autori la fa parossistica in cuori senza patologie infiammatorie note o senza cardiopatie strutturali non è associata ad aumento dei marker infiammatori come pcr e il6 (che sono elevati in pazienti con precedenti cardiopatie), mentre è legata ad aumento di il8, situazione che suggerisce una reazione infiammatoria persistente e preesistente all’aritmia [18]. la presenza di una patologia neoplastica potrebbe essere in questo senso proaritmogena, in quanto è stata dimostrata la secrezione da parte di microcitomi di alcune citochine quali il tnf [19], tgf-beta 1 [20], che aumentano la fibrosi determinando incremento dell’eterogeneità della conduzione e la predisposizione alla fa [8] e infine vegf [21] che può rendere ragione dell’aumentata ipercoagulabilità che si associa alla fibrillazione atriale [22,23]. infine la presenza stessa della massa neoplastica può aver agito da spina irritativa a contatto delle strutture cardiache con proprietà elettriche/meccaniche [2]. in letteratura alcuni case report descrivono casi di fa in pazienti senza alterazioni strutturali rilevabili all’ecocardiogramma, conseguenti alla compressione esterna dell’atrio sinistro da parte di neoplasia esofagea [24] e da megaesofago, secondario ad acalasia, contenente detriti di cibo la cui rimozione ha determinato la risoluzione dell’aritmia [25]: è possibile che l’aritmia sia stata scatenata da un focus automatico sito nella parte ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)22 un complicato caso di fibrillazione atriale posteriore dell’atrio sinistro più eccitabile in seguito a stimolazione meccanica. è inoltre stato riportato un caso di fa dovuto a lipoma intrapericardico che comprimeva l’atrio sinistro [26]; in modo simile la deglutizione può essere causa di fa parossistica, dovuta alla stimolazione diretta meccanica dell’atrio sinistro dal contenuto che transita attraverso l’esofago o all’attivazione del sistema nervoso autonomo. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. bibliografia braunwald e, goldman l. primary cardiology. milano: 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3 giorni, di riferite “contrazioni addominali”; la paziente era stata inviata dal curante nel sospetto di una “stimolazione da parte del pacemaker della parete addominale”. in anamnesi patologica remota riportiamo una gravidanza, una pregressa appendicectomia, obesità, epatomegalia steatosica con pregressa storia di potus e dislipidemia. all’inizio del 2008, per intensa astenia da mesi e la presenza all’ecg di blocco di branca sinistra (bbsx) completo, la paziente era stata sottoposta a ecocardiografia con riintroduzione nel 1723 antony van leeuwenhoek, “il padre del microscopio”, colui che per primo identificò batteri, parassiti, nematodi e molto altro, scrisse una lettera a un amico riportando un disturbo caratterizzato da importanti pulsazioni a livello epigastrico e dispnea ricorrente [1] (figura 1). il medico pose diagnosi di palpitazioni ma lo studioso ne dubitò. contò le pulsazioni a livello carotideo osservando contemporaneamente i movimenti epigastrici. notò che il polso carotideo era regolare e più lento. concluse che il diaframma poteva essere la causa dei suoi sintomi. questo apparentemente rappresenta il primo caso di “mioclonie diaframmatiche” riportato in letteratura. da allora sono stati segnalati circa 90 casi, metà dei quali viene menzionato in una review del 1962 [2,3]. riportiamo in questo articolo un caso di una donna il cui unico disturbo era il movimento parossistico involontario della parete addominale. molti casi segnalati associano uno strano caso di “fascicolazioni addominali” in portatore di pacemaker abstract diaphragmatic flutter is a rarely reported disorder characterized by an abnormal diaphragmatic activity, which may be associated with respiratory symptoms (respiratory myoclonus). we describe a case of a 65-year-old patient with abnormal abdominal movements and no other symptoms. these movements resulted from rapid involuntary contractions of the diaphragm. emotional tension and anxiety were the most common precipitating factors, the etiology was unclear and several pharmacologic agents have shown to be ineffective until the flutter was suppressed with high dose of clonazepam. keywords: diaphragmatic flutter, respiratory myoclonus, clonazepam diaphragmatic flutter in a patient with a pacemaker cmi 2010; 4(suppl. 3): 67-70 1 soc medicina a ospedale cardinal massaia asl at, regione piemonte corresponding author dott. carlo bussolino cbussolino@asl.at.it caso clinico ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)68 uno strano caso di “fascicolazioni addominali” in portatore di pacemaker scontro di un quadro di cardiopatia ipocinetica dilatativa (frazione di eiezione = 30%), acinesia antero apicale e del setto posteriore, insufficienza mitralica (im) moderata, pressione arteriosa polmonare sistolica (paps) aumentata e ritardo dell’attivazione della parete laterale; la coronarografia eseguita in un secondo tempo risultò negativa. un mese dopo, per un episodio sincopale senza prodromi, la paziente veniva sottoposta all’impianto di icd biventricolare. in pronto soccorso, sulla base dell’ultima notizia anamnestica, veniva richiesta una visita cardiologica per il controllo dell’icd. con la modifica della programmazione e la verifica in scopia, il consulente cardiologo dimostrava la dislocazione dell’elettrodo sinistro in atrio destro e la presenza di mioclonie diaframmatiche intermittenti senza relazione a cattura dell’icd; tale fenomeno si manteneva con programmazione sentinella (pm completamente inibito). la paziente veniva così ricoverata in ambiente internistico per ulteriore valutazione e cure. in reparto le condizioni cliniche risultavano discrete, con assenza di segni di scompenso cardiaco o di insufficienza epatica. si rilevava la presenza di “movimenti involontari della parete addominale” senza apparente contrazione dei muscoli retti dell’addome alla palpazione. tale disturbo aumentava in presenza del “camice bianco” e subiva una netta regressione durante il sonno. a tale proposito il consulente cardiologo documentava in scopia alcuni momenti della procedura che testimoniavano un’importante diversità di frequenza delle contrazioni diaframmatiche. veniva eseguita una serie di indagini tra cui l’eeg e la tc cranio, risultate negative; l’elettromiografia (emg) dei muscoli retti dell’addome non registrava attività spontanea, pertanto si consigliava emg ad ago da effettuare presso cliniche neurologiche. la tc torace, eseguita alcuni giorni dopo, dimostrava un ispessimento eccentrico ipodenso delle pareti in corrispondenza del terzo prossimale dell’esofago per una lunghezza di almeno tre cm. tale reperto fu indagato endoscopicamente, con il riscontro di una neoformazione vegetante estesa che, all’esame istologico, risultò essere un adenocarcinoma squamoso. dopo alcuni fallimenti terapeutici, tra cui l’impiego di levosulpiride e droperidolo, le mioclonie diaframmatiche regredivano con la somministrazione di clonazepam per os a elevati dosaggi. alcuni mesi dopo veniva eseguito l’intervento di resezione del carcinoma esofageo (g2,pt3,pn0) con esofagectomia subtotale ed esofagogastroplastica e digiunostomia. si segnala infine che a fine 2008 la paziente veniva ricoverata in cardiologia per fibrillazione ventricolare interrotta dal pm; in tale sede la tc collo torace di controllo dimostrava una importante recidiva di malattia. la paziente fu affidata alle cure palliative per essere dimessa a domicilio ove si verificò l’exitus in breve tempo. discussione nel caso esposto la diagnosi di mioclonie diaframmatiche è stata eseguita visivamente in scopia dal consulente cardiologo. per indisponibilità presso la struttura non è stato utilizzata l’emg ad ago che avrebbe mostrato e soprattutto misurato l’attività diaframmatica [4]. risolvendo il disturbo diaframmatico con benzodiazepine a elevato dosaggio e ponendo diagnosi di tumore esofageo, che avrebbe recidivato in breve tempo, non si è reputato opportuno proseguire nella diagnosi delle mioclonie, considerandole come fenomeno verosimilmente paraneoplastico. figura 1 anthonie van leeuwenhoek (16321723). natuurkundige te delft (olio su tela, cm 56 x 47,5) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 69 c. bussolino, l. massarelli, v. saracco questi sono solo alcuni punti che testimoniano la complessità del quadro clinico e della diagnosi che, come in seguito discusso, non è sempre certa ma sussistono delle associazioni con patologie e/o condizioni cliniche esistenti o avvenute in anni precedenti. i disturbi della motilità diaframmatica possono essere divisi in due categorie: le clonie: rappresentate dal “singhiozzo” e y dalle mioclonie diaframmatiche, meglio conosciute in letteratura come diaphragmatic flutter [2]. quest’ultima tipologia si differenzia dalla prima per una frequenza maggiore e per l’assenza di un suono inspiratorio dovuto a una insufficiente o non sincrona apertura della glottide; le contrazioni toniche del diaf ramma: y condizioni ancora più rare associate a malattie come il tetano, la rabbia o l’avvelenamento da stricnina. le mioclonie diaframmatiche prendono vita da un’abnorme stimolazione del nervo frenico con origine dal sistema nervoso centrale o lungo il suo decorso oppure da fattori irritanti il diaframma stesso. l’encefalite presente al momento della diagnosi o pregressa anche in età infantile è una patologia frequentemente associata [5]. viene riconosciuta inoltre un’eziologia di tipo psicogeno [6,7]. linfoadenopatie mediastiniche riportate in caso di tubercolosi, cardiomegalia, fratture del processo xifoideo sono state segnalate con un coinvolgimento diaframmatico monolaterale [2]. pleuriti, peritoniti, ischemie localizzate possono determinare direttamente le contrazioni involontarie del diaframma. dalle varie eziologie riportate si evince che il coinvolgimento diaframmatico può essere bilaterale, monolaterale o alcune volte interessare aree limitate. la frequenza delle contrazioni varia da caso a caso e in differenti occasioni dello stesso caso come da noi riportato. le contrazioni sono quasi sempre aritmiche tranne alcuni rari casi di sincronia con il battito cardiaco. anche l’ampiezza e la forza delle contrazioni addominali sono caratteristiche variabili; in alcuni casi la clinica è silente e la diagnosi è eseguita solamente tramite l’ausilio dell’emg ad ago, mentre in altri provoca un movimento importante della parete addominale con una sintomatologia notevolmente invalidante. numerosi fattori possono precipitare o inibire il disturbo diaframmatico; tra i primi ricordiamo soprattutto il fattore emotivo nonché la tosse, l’inspirazione profonda, la pressione sull’addome e le mestruazioni. fattore a parte è il dormire che può essere precipitante, inibente o di nessuna influenza. inspirare profondamente, trattenere il respiro, parlare, camminare o aprire la bocca possono ridurre la frequenza delle contrazioni. la sintomatologia classica è rappresentata da movimenti parossistici della parete addominale, soprattutto dell’area epigastrica e degli spazi intercostali più bassi. la sintomatologia respiratoria è molto variabile: la tachipnea, quando presente, può essere di grado variabile fino a determinare una severa alcalosi respiratoria; nei casi più invalidanti le mioclonie sostituiscono i movimenti fisiologici del diaframma portando la frequenza respiratoria a 40-50 atti/minuto. il dolore è presente nei casi più severi, può interessare la parete addominale o quella toracica e, in questi casi, simulare un dolore di tipo cardiovascolare. vengono riportati alcuni sintomi associati quali: eruttazioni, singhiozzo, conati di vomito [8], un caso associato all’emissione di uno “stridore inspiratorio” [9], nonché flatulenza e incontinenza urinaria [10]. la diagnosi deve studiare prima di tutto le caratteristiche del flutter tramite l’elettromiografia ad ago, studio però eseguibile presso cliniche specialistiche. sono sicuramente di aiuto l’emg dei muscoli retti dell’addome e di quelli intercostali per una diagnosi di esclusione. le clonie sono visibili in scopia, come nel caso riportato, e a volte con l’ecografia. in secondo luogo è necessario ricercare l’eziologia utilizzando la rmn cerebro-midollare, nei casi in cui siano coinvolti entrambi gli emidiaframmi, o la tc torace con mezzo di contrasto, nei casi monolaterali. a completamento vanno ricordate l’eeg e l’ecg, dove a volte possono essere registrati gli spike diaframmatici [9]. l’emogasanalisi e la spirometria dovranno essere eseguite per valutare la ricaduta di tale patologia sul respiro. per quanto concerne il trattamento, le benzodiazepine e gli antiepilettici sono i farmaci più attivi. i migliori risultati si sono avuti con clonazepam per quanto riguarda la prima classe di farmaci e carbamazepina per la seconda. ricordiamo inoltre gabapentin, difenildantoina, aloperidolo e levetiracetam. i dosaggi dovrebbero essere sempre elevati raggiungendo i 6 mg/die nel caso di clonazepam o i 2.100 mg di gabapentin. nei casi più invalidanti si ricorre in ultima istanza alla frenicotomia usata in passato per la tubercolosi polmonare o nel singhiozzo ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)70 uno strano caso di “fascicolazioni addominali” in portatore di pacemaker persistente. una volta eseguita, le mioclonie scompaiono anche a mesi di distanza quando si assiste a un ritorno della funzionalità diaframmatica. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. bibliografia leuwenhoek a. de generazione animalium, et de palpitazione diaphragmatis. 1. phil tr lond 1723; 32: 438 rigatto m, de medeiros np. diaphragmatic flutter: report of a case and review of literature. 2. am j med 1962; 32: 103-9 phillips jr, eldridge fl. respiratory myoclonus (leeuwenhoek’s disease). 3. n engl j med 1973; 289: 1390-5 espay aj, fox sh. isolated diaphragmatic tremor, is there a spectrum in “respiratory myoclonus”? 4. neurology 2007; 69: 689-92 marie p, binet l, levy g. les troubles respiratoires de l’encéphalite épidémique. 5. bull et mem soc med hop 1922; 46: 1075 scharg a, lang ae. psychogenic movement disorders. 6. curr opinion neurol 2005; 18: 399404 hinson vk, haren wb. psychogenic movement disorders. 7. lancet neurol 2006; 5: 695-700 vantrappen g, decramer m, harlet r. high-frequency diaphragmatic flutter: symptoms and 8. treatment by carbamazepine. lancet 1992; 339: 265-7 cvietusa pj, nimmagadda sr, wood r, liu ah. diaphragmatic flutter presenting as inspiratory 9. stridor. chest 1995; 107: 872-5 gazulla abio j, feijòo de freixo m, val adàn p, benavente aguilar i. aspectos clínicos y 10. terapéuticos de las mioclonías diafragmáticas. neurologia 2003; 18: 473-7 clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 3 daniela adua 1, bruno gori 1, luciano stumbo 1, ester del signore 1, flavia longo 1 caso clinico descriviamo il caso di una donna di 51 anni che giunge alla nostra osservazione nel dicembre 2003 in buone condizioni generali. in anamnesi patologica remota riferisce di essere forte fumatrice (30 sigarette/die da circa vent’anni). in pieno benessere esegue rx del torace che mostra slargamento dell’ilo polmonare di destra; la successiva tc total body dimostra una neoformazione solida ilo-sottoilare destra a “colata” lungo le strutture vascolobronchiali omolaterali, infiltrante l’arteria polmonare e inglobante i bronchi lobari, con grossolane adenopatie mediastiniche bilaterali (figura 1). la fibrobroncoscopia con bal (lavaggio broncoalveolare) porta a un esame istologico deponente per carcinoma neuroendocrino a piccole cellule con il seguente quadro immunoistochmico: nse (enolasi neuronespecifica), cd56 (o ncam: molecola di terapia combinata con cisplatino, vp-16 e octreotide lar in una paziente affetta da microcitoma polmonare (sclc) abstract we report the case of a 51-year-old woman with limited small cell lung cancer (sclc). cytological diagnosis has been made by fibroscopy. chemotherapy schedule was cisplatin 30 mg/mq and vp-16 100 mg/mq days 1,2,3 q21 as first line treatment. the serum levels of cromogranine a and nse (neuron-specific enolase) were higher than normal; for this reason we prescribed, together with chemotherapy, octreotide lar 30 mg every 28 days. associated toxicity was easily manageable. subsequent thoracic and panencefalic prophylactic radiotherapy improved tumour response and quality of life. we continued octreotide lar 30 mg every 28 days even after the end of chemotherapy, as a maintenance therapy, checking periodically serum levels of nse and cromogranine a. no side effects were observed. keywords: small cell lung cancer limited stage, cromogranine a, neuron-specific enolase, octreotide, prophylactic panencefalic radiotherapy octreotide therapy in a patient with lung microcytoma cmi 2010; 4(suppl. 1): 3-7 1 reparto di oncologia medica “u.o.c. a” policlinico umberto i – università “la sapienza”, roma corresponding author dottoressa flavia longo e-mail: flavia.longo@virgilio.it perché descriviamo questo caso? il carcinoma polmonare a piccole cellule (sclc) è una patologia la cui diagnosi è molto spesso tardiva quando la malattia è in fase estesa: encefalo, ossa e surreni sono le principali localizzazioni a distanza. le opzioni terapeutiche sono limitate e il decorso della patologia è spesso rapido, con una mediana di sopravvivenza di 14-18 mesi nella patologia in fase limitata, come nel caso della nostra paziente, e 9-11 mesi in quella estesa. l’origine istologica dello sclc lo riconduce al gruppo dei nets (tumori neuroendocrini), per i quali octreotide lar si è rivelata un buon presidio terapeutico. nel nostro caso l ’utilizzo concomitante alla chemioterapia, ma soprattutto quello negli intervalli liberi da questa, ci ha consentito un buon controllo della patologia polmonare, il tutto abbinato a un controllo periodico dei caso clinico disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 4 terapia combinata con cisplatino, vp-16 e octreotide lar in una paziente affetta da microcitoma polmonare (sclc) per questo motivo si è deciso di associare la terapia con octreotide lar 30 mg im 1 fl ogni 28 giorni. avendo ottenuto una buona risposta al trattamento dopo 6 cicli di chemioterapia, e in considerazione delle buone condizioni generali, la paziente esegue radioterapia mediastinica con frazionamento convenzionale (33 sedute per un dosaggio complessivo di 60 gy) e radioterapia panencefalica profilattica (10 sedute per una dose totale di 30 gy) [1]. la tc total body post-radioterapia dimostra una stabilità (sd) delle lesioni polmonari (figura 2). a novembre 2004 una scintigrafia total body per i recettori della somatostatina (octreoscan) non mette in evidenza aree di captazione patologica del tracciante. la paziente inizia perciò uno stretto follow-up clinico strumentale con dosaggi seriati di cga e nse, mantenendo la terapia con octreotide lar al dosaggio iniziale. nel marzo 2005 una pet dimostra stabilità di malattia; parallelamente i livelli sierici della cga si mantengono nei limiti della norma. a novembre 2005 si evidenzia una ripresa di malattia con aumento volumetrico della lesione polmonare (diametro: 3 cm) e delle linfoadenopatie mediastiniche, sia di numero sia di dimensioni (diametro: 2 cm). si inizia pertanto una chemioterapia di ii linea secondo lo schema gemcitabina/ carboplatino gg 1-8 ogni 21 giorni; dato il controllo dei livelli sierici di cga (45 ng/ ml), viene mantenuta la terapia concomitante con octreotide lar. livelli sierici di enolasi neurone-specifica e cromogranina a, e a periodiche rivalutazioni radiologiche; la sopravvivenza dalla prima diagnosi è stata di 5 anni figura 1 referto tc total body pre-trattamento a. formazione espansiva solida presente a livello del segmento apico-posteriore del lobo superiore a sinistra dove è presente una piccola quota di tessuto residuo che misura 40 mm x 25 mm e si estende in senso craniocaudale per circa 15 mm (diam prec. 74 mm x 32 mm x 40 mm) b. formazioni solide di origine linfonodale a livello dell’ilo polmonare di sinistra e delle principali stazioni mediastiniche difficilmente parametrabili dal punto di vista dimensionale ba adesione alle cellule nervose), sinaptofisina e ttf1 (fattore di trascrizione della tiroide) diffusamente positivi; lca (antigene leucocitario comune umano) negativo. in considerazione della diagnosi istologica e del buon performance status (ps), nel gennaio 2004 la paziente inizia la chemioterapia secondo lo schema cddp (cisplatino) 30 mg/mq ed etoposide 100 mg/mq gg 1-2-3 ogni 21 giorni, con g-csf (fattore di crescita granulocitario) pegilato per prevenire la neutropenia febbrile. il dosaggio sierico della cromogranina a (cga) risulta pari a 510 ng/dl (valore normale < 90 ng/ml); la paziente esegue 6 cicli di terapia con un buon controllo radiologico della malattia; a giugno 2006 una tc total body mostra una risposta parziale a livello polmonare e linfonodale. la paziente inizia il follow-up clinico-strumentale con dosaggi mensili di cga e nse e periodiche valutazioni radiologiche, continuando octreotide lar come terapia di mantenimento. a gennaio 2007 una tc mostra nuovamente progressione di malattia a livello polmonare e linfonodale, con un rialzo della cga (295 ng/ml). in considerazione del buon ps si inizia un trattamento di iii linea secondo lo schema topotecan 4 mg/mq ev settimanale, proseguendo octreotide lar 30 mg im 1 fl ogni clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 5 d. adua, b. gori, l. stumbo, e. del signore, f. longo figura 2 referto tc total body post-trattamento a. al controllo la formazione espansiva solida localizzata al segmento apicale del lobo superiore del polmone di sinistra appare sostanzialmente invariata per dimensioni (dap, diametro anteroposteriore = 18 mm; dt, diametro trasverso = 30 mm) ove si eccettui la presenza nel suo contesto di una piccola area cavitata b. non è più visualizzabile il tessuto adenopatico localizzato in sede ilare sinistra; si documenta un diffuso ispessimento perivasale all’ilo sinistro 28 giorni. i controlli radiologici confermano stabilità di malattia, associata a una normalizzazione dei livelli sierici di cga. nel marzo 2008 la paziente va in progressione di malattia linfonodale a carico del tripode celiaco e a livello polmonare. le sue condizioni generali risultano sensibiltabella i classificazione di travis dei tumori neuroendocrini polmonari [2] ki67 = marker di proliferazione; n/c = rapporto nucleo/citoplasma mente deteriorate, per cui viene sospeso il trattamento chemioterapico continuando con la somministrazione mensile di octreotide lar (fino ad agosto 2008) associata a terapia medica di supporto (bsc). nel mese di novembre 2008 la paziente muore. ba classificazione del tumore tumore corrispondente caratteristiche del tumore tumore a morfologia neuroendocrina carcinoide tipico morfologia del carcinoide, fino a 2 mitosi per campo. non necrosi, ki67 basso, basso grado di malignità carcinoide atipico morfologia del carcinoide, mitosi tra 2-10 per campo, aree focali di necrosi, ki67 moderato, grado di malignità intermedio carcinomi neuroendocrini a grandi cellule morfologia neuroendocrina, basso rapporto n/c, mitosi ≥ 10 campo, ki67 moderato, grado di malignità alto microcitoma polmonare morfologia del microcitoma, isolotti irregolari di cromatina, nucleoli assenti o rari, elevato rapporto n/c, mitosi ≥ 10 per campo, ki67 elevato, grado di malignità alto carcinomi non microcitomi a differenziazione neuroendocrina carcinomi con differenziazione neuroendocrina non a piccole cellule basso rapporto n/c, cromatina finemente dispersa, nucleoli assenti, mitosi ≥ 10 per campo, ki67 elevato, grado di malignità alto iperplasia delle cellule neuroendocrine e tumourlets iperplasia delle cellule neuroendocrine associate a fibrosi e/o infiammazione e iperplasia adiacenti a un carcinoide non lesioni precancerose carcinoid tumourlets piccoli aggregati di cellule senza alcuna atipia e morfologicamente simili ai carcinoidi; non sono lo stadio iniziale del carcinoide e sono del tutto analoghe ai carcinoid tumourlets del tratto gastrointestinale iperplasia delle cellule neuroendocrine idiopatica diffusa con o senza fibrosi o occlusione delle vie aeree lesione precancerosa, tende a degenerare in carcinoide clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 6 terapia combinata con cisplatino, vp-16 e octreotide lar in una paziente affetta da microcitoma polmonare (sclc) discussione i tumori neuroendocrini polmonari (lnet) rappresentano il 2-3% delle neoplasie del polmone e sono suddivisi, secondo la classificazione di travis del 1999 (tabella i), in carcinoidi bronchiali tipici e atipici, tumori neuroendocrini a grandi cellule e carcinomi a piccole cellule (microcitomi) [2]. tale classificazione prende in considerazione criteri morfofunzionali e clinico-biologici, in particolare la sede, la popolazione cellulare di origine, il grado di differenziazione e l’indice proliferativo (ki67). i net sono un gruppo eterogeneo di tumori che prendono origine da cellule appartenenti al sistema neuroendocrino diffuso (dnes) o confinato (cnes). esse originano a loro volta da cellule staminali pluripotenti o cellule neuroendocrine differenziate, caratterizzate da un pattern istologico particolare e dalla presenza di prodotti di secrezione e di specifiche proteine citoplasmatiche. nonostante il loro comportamento clinico sia assai differente, questi tumori sono accomunati dalla presenza di recettori per la somatostatina. essi sono fisiologicamente presenti nella maggioranza della popolazione neuroendocrina normale, su cui la somatostatina svolge un’azione modulante la secrezione, l’angiogenesi, la proliferazione e la neurotrasmissione. i net possono presentare un’elevata densità recettoriale che ne consente l’individuazione tramite l’uso di analoghi radiomarcati della somatostatina [3,4]. nel gruppo dei net la cromogranina a (cga) e l’enolasi neurone-specifica (nse) rappresentano due marker importanti. la cga è un marker aspecifico la cui espressione può essere ricercata sia in circolo che sul tumore mediante tecniche immunoistochimiche. la nse è un isomero di un enzima glicolitico prodotto dalle cellule neuroendocrine, prodotto selettivamente nei tumori meno differenziati. dati clinici indicano che tale marker può correlare con la malignità e con l’estensione del tumore. analisi del caso clinico nel caso clinico descritto il dosaggio della cga è stato effettuato, oltre che nel plasma, anche sul pezzo istologico con metodica immunoistochimica. questo dosaggio è più accurato nei tumori ne caratterizzati da un’intensa attività secretoria, anche se la sensibilità e la specificità rimangono alte anche nei tumori non secernenti. è soprattutto in questo tipo di neoplasie, in cui non è quasi mai possibile fare riferimento a un marcatore specifico, che la valutazione dei livelli cga si traduce in un eccellente aiuto nella diagnosi e nel follow-up della patologia. il monitoraggio seriato dei livelli di cga ci ha permesso di seguire il decorso clinico della nostra paziente in maniera costante permettendoci di ottimizzare due aspetti: y controllare la patologia nell’intervallo di tempo tra le valutazioni radiologiche, fornendoci l’input per un intervento tempestivo in caso di sospetta progressione; y fruire di un ulteriore presidio terapeutico, octreotide, in combinazione con la chemioterapia sistemica e in monoterapia negli intervalli di follow-up che si sono susseguiti nei 5 anni di storia della nostra paziente. la sopravvivenza globale della paziente è stata di circa 5 anni, in una patologia come il microcitoma in cui la mediana di sopravvivenza è compresa tra 14 e 18 mesi nei soggetti con malattia limitata al torace e tra 9 e 11 mesi in quelli con malattia estesa (più del 70% dei pazienti). l’attenzione alla componente neuroendocrina dello sclc può rappresentare un valido elemento nella gestione di questo tipo di pazienti e fornire un possibile razionale per l’utilizzo di octreotide. per un suo tempestivo impiego è importante determinare l’elevata densità recettoriale sul campione istologico, a cui si può associare la scintigrafia con octreotide prima e durante il trattamento chemioterapico [5]. data la complessità e l’aggressività della patologia è indispensabile, per una corretta gestione del paziente, la collaborazione interdisciplinare tra specialisti: oncologo, radiologo, chirurgo toracico, anatomo-patologo, medico nucleare e radioterapista. conclusioni nel caso descritto la terapia con octreotide lar ha determinato un controllo a lungo termine della malattia, sia in monoterapia sia in associazione alla chemioterapia. la formulazione a lento rilascio consente, grazie alla presenza di microsfere di polidl-lattide-co-glicolide, di incrementare la compliance e la qualità di vita del paziente fornendo benefici sovrapponibili alla formulazione standard a vantaggio di una maggiore semplicità di utilizzo. clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 7 d. adua, b. gori, l. stumbo, e. del signore, f. longo bibliografia 1. gregor a, cull a, stephens rj, kirkpatrick ja, yarnold jr, girling dj et al. prophylactic cranial irradiation is indicated following complete response to induction therapy in small cell lung cancer: results of a multicentre randomised trial. united kingdom coordinating committee for cancer research (ukcccr) and the european organization for research and treatment of cancer (eortc). eur j cancer 1997; 33: 1752-8 2. travis wd, colby tv, corrin b, shimosato y, brambilla e. histological classification of lung and pleural tumors. histological typing 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antonino d’agostino 2, alfio todaro 2, andrea girlando 2, marcello ferrara 3, rosanna aiello 1 caso clinico terapia protratta con octretide acetato lar nel carcinoma neuroendocrino a larghe cellule del polmone alfredo butera 1 caso clinico un caso di neoplasia endocrina non funzionante del pancreas trattato con analogo della somatostatina ivan lolli1, antonio logroscino1, simona vallarelli1, maria a. monteduro2, antonella gentile1, giuseppe troccoli1 caso clinico trattamento del microcitoma del polmone con differenziazione neuroendocrina nel paziente anziano alessandra bearz 1, arben lleshi 1, lucia fratino 1, silvia venturini 1, massimiliano berretta 1, umberto tirelli 1 7 clinical management issues do l’international scale (is) ad un livello di bcr-abl del 33%: veniva posta diagnosi di leucemia mieloide cronica ph’ -, bcr-abl positiva e i dati alla diagnosi permettevano di classificare il paziente nella categoria a basso rischio secondo la valutazione prognostica sia sokal sia hasford. dopo terapia citoriduttiva con idrossiurea, il paziente, arruolato nel protocollo “gicaso clinico il caso clinico è relativo ad un uomo di 43 anni affetto da leucemia mieloide cronica (lmc) che ha ottenuto una risposta ottimale al trattamento con nilotinib impiegato in seconda linea. il paziente è giunto alla nostra osservazione nel luglio del 2004 per astenia e dolore all’ipocondrio sinistro. l’anamnesi era negativa per malattie oncoematologiche mentre l’esame obiettivo evidenziava la presenza di splenomegalia (diametro traverso della milza all’ecoaddome 18 cm). l’esame emocromocitometrico mostrava: hb 11,7 g/dl, p lts 184.000/mm 3, globuli bianchi 176.500/mm3, presenza di precursori mieloidi all’esame morfologico del sangue venoso periferico, basofili 5%, eosinofili 6%, senza blasti (tabella i e ii). l’aspirato midollare era caratterizzato da iperplasia granuloblastica in assenza di blasti. l’indagine citogenetica mostrava 25 metafasi con l’assenza del cromosoma philadelfia (ph’), mentre all’analisi molecolare il trascritto (b3a2) era quantificabile seconparametro valori rilevati valori normali wbc 176.500/ml 4.000-10.000/ml hb 11,7 g/dl 12-18 g/dl plts 184.000 mm3 150.000-400.000 tabella i. esame emocromocitometrico del paziente alla sua prima visita perché descriviamo questo caso questo caso sottolinea i benef ici di uno switch terapeutico in un paziente resistente a imatinib e conferma l ’efficacia e la sicurezza di nilotinib corresponding author dott. raffale porrini porrini_raffaele@alice.it caso clinico abstract in this article we present the case of a 43-year-old man with chronic myeloid leukemia (cml) successfully treated with nilotinib. at presentation we started him on imatinib at standard dose of 400 mg/day but after 36 months of treatment the patient didn’t achieve a molecular response. we switched him on second-generation tyrosine kinase inhibitor (tki), nilotinib, at the dose of 800 mg/day. after twelve months on nilotinib the patient obtained a complete molecular response. during treatment with nilotinib we did not observe any drug-related toxicity. keywords: chronic myeloid leukaemia; nilotinib; resistance to imatinib nilotinib therapy after resistance to imatinib cmi 2012; 6(suppl 2): 7-10 1 ematologia “sapienza” università di roma, facoltà di medicina e psicologia raffaele porrini 1, enrico montefusco 1 efficacia della terapia con nilotinib impiegato in seconda linea disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. mailto:porrini_raffaele@alice.it 8 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(suppl 2) efficacia della terapia con nilotinib impiegato in seconda linea mema cml023”, iniziava trattamento con imatinib 400 mg/die, ottenendo una remissione ematologica completa in terza settimana. a 6 e 13 mesi dall’inizio di imatinib veniva evidenziata una risposta molecolare sub-ottimale (is ratio 7%) che, in accordo con le linee guida dell’european leukemianet (eln) [1], corrisponde ad un “warning”. alla valutazione di 18 e 24 mesi, era presente   un trascritto bcr/abl con is ratio di 5,7%, (risposta sub-ottimale secondo eln), per cui la dose giornaliera di imatinib veniva incrementata a 800 mg/die. tale posologia ben tollerata, risultava invariata sino al mese +36 dall’inizio della terapia con alte dosi di imatinib, quando la strategia terapeutica era nuovamente rivalutata perché l’analisi molecolare evidenziava un  trascritto bcr/abl con una ratio del 66%. al fine di indagare su eventuali cause di risposta non ottimale, si procedeva allo screening mutazionale, veniva misurato il livello plasmatico di imatinib e analizzata la possibilità di eventuali cause di ridotta aderenza al trattamento. tali valutazioni non consentivano di acquisire elementi utili a spiegare una risposta non favorevole e il paziente era arruolato nel protocollo enact (expanding nilotinib access in clinical trials) iniziando il trattamento con nilotinib alla dose di 400 mg due volte al giorno. parametri valori (%) neutrofili 50 linfociti 10 eosinofili 6 basofili 5 metamielociti 8 mielociti 7 promielociti 5 mieloblasti 4 tabella ii. formula leucocitaria del paziente alla sua prima visita dopo 3 mesi di trattamento con nilotinib, l’analisi molecolare evidenziava un livello di trascritto b3a2 <0,1% come da risposta molecolare maggiore. a 12 mesi di trattamento, il trascritto bcr/ abl era dello 0,04%. nel novembre 2010 (+24 mesi dall’inizio della terapia con nilotinib) il paziente ottiene una risposta molecolare completa, confermata  a + 40 mesi dall’inizio del nilotinib. da sottolineare che durante la terapia con nilotinib, tuttora in corso, non sono stati osservati sintomi clinici o alterazioni di laboratorio secondari a tossicità ematologica o extraematologica. discussione la resistenza ad imatinib, come dimostrato dallo studio iris, può verificarsi nel 10-15% circa dei pazienti. in questi casi la disponibilità di nuove molecole ha permesso di ottimizzare la strategia terapeutica. in particolare nilotinib è un inibitore tirosin chinasico (tki) di seconda generazione strutturalmente derivato da imatinib ma con un’affinità di legame per bcr-abl da 20 a 30 volte superiore a causa della sua particolare conformazione biochimica, che si traduce nella formazione di legami lipofili con la “tasca chinasica”, che sono più stabili e meno soggetti a mutazioni di quelli a idrogeno, caratteristici di imatinib [6]. questa molecola ha inoltre dimostrato in vitro, con l’eccezione della mutazione t315i, attività inibitoria verso la maggioranza delle mutazioni resistenti a imatinib. l’aggiornamento 2011 dei risultati del protocollo “enact”, che valuta l’impiego del nilotinib in seconda linea in un’ampia casistica di pazienti (intolleranti, resistenti, in fase accelerata o crisi blastica), ha dimostrato, ed era un “end-point non primario”, una significativa risposta  citogenetica completa e citogenetica maggiore (rispettivamente 34% e 45% rispettivamente) ad una mediana di 18,7 mesi nella categoria dei pazienti in fase cronica resistenti o intolleranti ad imatinib. terapia dosaggio periodo risultati clinici idrossiurea 3 gr/die luglio 2004-agosto 2004 chr imatinib 400 mg/die settembre 2004-settembre 2006 chr/mmolr imatinib 800 mg/die ottobre 2006-ottobre 2007 chr/mmolr nilotinib 800 mg/die novembre 2007-marzo 2012 chr/mmolr tabella iii. evoluzione dei trattamenti terapeutici somministrati al paziente e risultati ottenuti chr = risposta ematologica completa mmolr = risposta molecolare sub-ottimale mmolr = risposta molecolare maggiore 9 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(suppl 2) r. porrini, e. montefusco la sopravvivenza globale a due anni è stata dell’87%, con una efs (event free survival) del 64%. non è stata descritta cross-intolleranza tra imatinib e nilotinib in virtù della maggiore selettività di quest’ultimo, e solo nello 0,5% dei pazienti è stata descritta tossicità extraematologica quale rush cutanei e dolori muscolari. come abbiamo documentato nel caso in esame, la risposta sub-ottimale a 24 mesi dall’inizio del trattamento con imatinib deve suggerire un attento follow-up del paziente candidato ad una elevata probabilità di non rispondere in maniera ottimale e/o di sviluppare resistenza, come già dimostrato in numerosi studi clinici. l’impiego di imatinib ad alte dosi, giustificato in passato dall’assenza di terapie alternative, non trova più attualmente indicazione, considerata la possibilità dell’impiego di tki di seconda generazione. in questi casi, come suggerito dalla letteratura e dalla storia del caso clinico descritto, è mandatario uno switch a un inibitore di ii linea quale nilotinib, che può garantire risposte citogenetiche e molecolari precoci in assenza di fenomeni di tossicità rilevanti. nel nostro paziente, nilotinib si è dimostrato efficace e rapido nel determinare una risposta ottimale. risposta ottimale (non definita precedentemente) risposta sub-ottimale fallimento warnings baseline na na na alto rischio cca/ph+ 3 mesi chr e almeno mcyr (ph+ ≤ 65%) no cyr (ph+ > 95%) 35%) no cyr (ph+ > 95%) na 12 mesi ccyr pcyr (ph+ 1-35%) 35%) < mmolr 18 mesi mmolr < mmolr < ccyr na qualsiasi momento nel corso della terapia mmolr stabile o in miglioramento perdita di mmolr mutazioni* perdita di chr perdita di ccyr mutazioni** cca/ph+ aumento nei livelli di trascritto cca/ph– tabella iv. raccomandazioni dell ’european leukemianet (eln) 2009 confrontate con quelle del 2006: valutazione complessiva della risposta ad imatinib in prima linea nella fase cronica iniziale. in grassetto le aggiunte eln 2009 cca = clonal chromosome abnormalities; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; hr = risposta ematologica; mcyr = risposta citogenetica minore; mmolr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile; pcyr = risposta citogenetica parziale * bassi livelli di insensibilità a imatinib ** alta insensibilità a imatinibbibliografia 1. baccarani m, cortes j, pane f, et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51; doi: 10.1200/jco.2009.25.0779 2. deininger mw, o’brien sg, ford jm, et al. practical management of patients with chronic myeloid leukaemia receiving imatinib. j clin oncol 2003; 21: 1637-47; doi: 10.1200/jco.2003.11.143 3. swords r, mahalingam d, padmanabhan s, et al. nilotinib: optimal therapy for patients with chronic myeloid leukaemia and resistence and intolerance to imatinib. drug des devel therapy 2009; 3: 89-101 4. tasigna®. riassunto delle caratteristiche del prodotto 5. glivec®. riassunto delle caratteristiche del prodotto 6. pinilla-ibarz j, cortes j, mauro mj. intolerance to tyrosine kinase inhibitors in chronic myeloid leukemia: definitions and clinical implications. cancer 2011; 117: 688-97; doi: 10.1002/cncr.25648 7. giles fj, o’dwyer m, swords r. class effects of tyrosine kinase inhibitors in the treatment of chronic myeloid leukaemia. leukaemia 2009; 23: 1698-707; doi: 10.1038/leu.2009.111 10 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(suppl 2) efficacia della terapia con nilotinib impiegato in seconda linea 8. weisberg e, manley p, mestan j, et al. amn107 (nilotinib): a novel and selective inhibitor of bcr-abl. br j cancer 2006; 94: 1765-9; doi: 10.1038/sj.bjc.6603170 9. kantarjian h, giles f, bhalla kn, et al. nilotinib in chronic myeloid leukemia patients in chronic phase (cmlcp) with imatinib resistance or intolerance: 2 years follow up results of a phase 2 study. blood 2008; 112: abstr 3238 nilotinib nella leucemia mieloide cronica: un approccio globale mario annunziata 1 efficacia della terapia con nilotinib impiegato in seconda linea raffaele porrini 1, enrico montefusco 1 caso clinico risposta molecolare completa indotta precocemente da nilotinib come prima linea di terapia in un paziente affetto da leucemia mieloide cronica a rischio sokal intermedio ursula sessa 1, maria celentano 1, stefano rocco 1, rossella fabbricini 1, olimpia finizio 1, vincenzo mettivier 1 caso clinico efficacia e tollerabilità di nilotinib in terza linea in un paziente anziano con lmc giovanni caocci 1, sandra atzeni 1, giorgio la nasa 1 caso clinico tollerabilità ed efficacia di nilotinib dopo 10 anni di interferone filippo russo 1 15 clinical management issues caso clinico nell’aprile del 2007, un uomo di 70 anni giungeva alla nostra osservazione per il riscontro occasionale di leucocitosi neutrofila (wbc = 17,7 x 109/l, hgb = 13,5 g/dl, plt = 230 x 109/l) e lieve splenomegalia. dopo l’esecuzione di un agoaspirato midollare e la valutazione dello striscio di sangue periferico veniva posta la diagnosi di leucemia mieloide cronica (lmc) in fase cronica, con basso score di sokal. la citogenetica classica mostrava la presenza del cromosoma philadelphia 46,xy,t(9;22)(q34;q11) nell’85% delle metafasi, con analisi molecolare positiva per breakpoint b3a2. il paziente veniva sottoposto a terapia con imatinib, 400 mg al giorno. la remissione corresponding author dott. giovanni caocci giovanni.caocci@unica.it caso clinico abstract this case report describes a 74 year old male patient with low sokal risk chronic myeloid leukemia (cml). treatment was started four years ago with imatinib, 400 mg/day. the patient achieved complete hematologic response but, after 3 months of treatment, developed grade 3 skin toxicity. imatinib was stopped and the patient was started on dasatinib, achieving complete cytogenetic and molecular response. two months later, physical examination revealed bilateral gynecomastia. after 2 years of treatment the patient presented with pleural effusion and the drug dose was reduced but, following relapse of cml, therapy was switched to nilotinib, 800 mg/day. treatment with nilotinib is currently ongoing and is well tolerated by the patient who is again in complete molecular response, with no signs of pleural effusion. considering the growing availability of new and more potent tyrosine kinase inhibitors (tki) it is important for the clinician to be aware of the possible inhibitory effects of these molecules against other members of the tyrosine kinase family. safety of tki in frail and elderly patients with cml is a fundamental goal. the results achieved in our patient show that nilotinib is safe and effective even when used as third line therapy. keywords: chronic myeloid leukemia; nilotinib; dasatinib; imatinib; safety efficacy and safety of nilotinib as third-line therapy in an elderly patient with cml cmi 2012; 6(suppl 2): 15-18 1 ematologia, dipartimento di scienze mediche, università di cagliari. ctmo ospedale binaghi, cagliari giovanni caocci 1, sandra atzeni 1, giorgio la nasa 1 efficacia e tollerabilità di nilotinib in terza linea in un paziente anziano con lmc perché descriviamo questo caso la crescente disponibilità di nuovi e più potenti tki rende mandatoria per il clinico la consapevolezza dei possibili effetti collaterali di queste molecole secondari, tra l ’altro, anche all ’azione contro altri membri della famiglia delle tirosin-chinasi. la tollerabilità dei tki nei pazienti anziani e fragili rappresenta un importante elemento da tenere in considerazione nella scelta dell ’approccio terapeutico ottimale alla lmc. il caso riporta l ’efficacia e la buona tollerabilità di nilotinib in terza linea, in un paziente di 74 anni disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. mailto:giovanni.caocci@unica.it 16 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(suppl 2) efficacia e tollerabilità di nilotinib in terza linea in un paziente anziano con lmc ematologica completa veniva ottenuta dopo 24 giorni di terapia. immediatamente prima della rivalutazione midollare pianificata dopo 3 mesi dall’inizio della terapia, il paziente sviluppava tossicità cutanea (grado 3 common toxicity criteria ctc) caratterizzata da eritema generalizzato al torace e all’inguine ed eruzione maculo-papulare associata a prurito severo (figura 1). imatinib veniva sospeso per 3 settimane, ottenendo un discreto miglioramento delle lesioni cutanee. dopo alcuni giorni dalla reintroduzione di imatinib orale (200 mg al giorno) in combinazione con gli steroidi, il paziente ripresentava una recrudescenza della tossicità cutanea (grado 3 ctc). imatinib veniva allora definitivamente interrotto figura 1. eritema maculo-papulare pruriginoso diffuso al tronco e in regione inguinale a causa del persistere dell’intolleranza non ematologica. nel mese di settembre 2007, l’emocromo evidenziava nuovamente leucocitosi (wbc = 14,8 x 109/l, hgb = 13,7 g/dl, plt = 240 x 109/l) e la rivalutazione citogenetica midollare rilevava l’80% delle metafasi con la traslocazione 46,xy,t(9;22)(q34;q11). considerando l’intolleranza del paziente a imatinib, veniva iniziata una terapia orale con dasatinib, al dosaggio di 100 mg al giorno. la risposta ematologica completa veniva raggiunta dopo 21 giorni di terapia. due mesi dopo, l’esame obiettivo evidenziava ginecomastia bilaterale, con ipertrofia di tessuto fibro-ghiandolare di consistenza elastica, concentrico all’area del capezzolo (figura 2). inoltre il paziente lamentava dolore in sede mammaria che si accentuava indossando indumenti stretti (odinomastia). la mammografia evidenziava ipertrofia fibroghiandolare bilaterale, soprattutto a carico della mammella sinistra. veniva valutato uno spettro completo ormonale che evidenziava ridotti livelli di testosterone sierico e di testosterone libero, oltre che elevati valori di 17-idrossi-progesterone (17-ohp). a questo punto veniva associata una terapia a base di tamoxifene, un modulatore selettivo dei recettori estrogenici, al dosaggio di 20 mg al giorno. dopo circa un mese di trattamento combinato, si verificava una significativa regressione della ginecomastia e dell’odinomastia. dopo 4 mesi dall’inizio di dasatinib (gennaio 2008), il paziente veniva nuovamente rivalutato a livello midollare: si evidenziava sia una risposta citogenetica completa (ccyr) sia una risposta molecolare completa (cmr). nel giugno 2008 veniva sospeso tamoxifene perché il paziente lamentava impotenza coeundi. nel giugno 2009, il paziente riferiva dispnea per modici sforzi. veniva quindi eseguito rx torace che evidenziava versamento pleurico, più accentuato a sinistra (figura 3). si introduceva quindi terapia steroidea e diuretica, ottenendo una lieve riduzione del versamento pleurico, rivalutato dopo 3 mesi, ma con persistenza della sintomatologia polmonare. considerando il persistere di una cmr veniva quindi ridotto il dosaggio di dasatinib a 50 mg/die, a partire dal settembre 2009. nel mese di ottobre 2010 si verificava un nuovo incremento del versamento pleurico, mentre la valutazione midollare evidenziava trascritto bcr/abl quantitativo = 7,5 copie bcr%abl e la ricomparsa del cromosoma philadelphia nel 20% delle metafasi. figura 2. ginecomastia bilaterale dopo due mesi dall ’inizio di dasatinib figura 3. versamento pleurico più accentuato alla base di sinistra figura 3. versamento pleurico più accentuato alla base di sinistra 17 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(suppl 2) g. caocci, s. atzeni, g. la nasa a causa del persistere dell’intolleranza non ematologica. nel mese di settembre 2007, l’emocromo evidenziava nuovamente leucocitosi (wbc = 14,8 x 109/l, hgb = 13,7 g/dl, plt = 240 x 109/l) e la rivalutazione citogenetica midollare rilevava l’80% delle metafasi con la traslocazione 46,xy,t(9;22)(q34;q11). considerando l’intolleranza del paziente a imatinib, veniva iniziata una terapia orale con dasatinib, al dosaggio di 100 mg al giorno. la risposta ematologica completa veniva raggiunta dopo 21 giorni di terapia. due mesi dopo, l’esame obiettivo evidenziava ginecomastia bilaterale, con ipertrofia di tessuto fibro-ghiandolare di consistenza elastica, concentrico all’area del capezzolo (figura 2). inoltre il paziente lamentava dolore in sede mammaria che si accentuava indossando indumenti stretti (odinomastia). la mammografia evidenziava ipertrofia fibroghiandolare bilaterale, soprattutto a carico della mammella sinistra. veniva valutato uno spettro completo ormonale che evidenziava ridotti livelli di testosterone sierico e di testosterone libero, oltre che elevati valori di 17-idrossi-progesterone (17-ohp). a questo punto veniva associata una terapia a base di tamoxifene, un modulatore selettivo dei recettori estrogenici, al dosaggio di 20 mg al giorno. dopo circa un mese di trattamento combinato, si verificava una significativa regressione della ginecomastia e dell’odinomastia. dopo 4 mesi dall’inizio di dasatinib (gennaio 2008), il paziente veniva nuovamente rivalutato a livello midollare: si evidenziava sia una risposta citogenetica completa (ccyr) sia una risposta molecolare completa (cmr). nel giugno 2008 veniva sospeso tamoxifene perché il paziente lamentava impotenza coeundi. nel giugno 2009, il paziente riferiva dispnea per modici sforzi. veniva quindi eseguito rx torace che evidenziava versamento pleurico, più accentuato a sinistra (figura 3). si introduceva quindi terapia steroidea e diuretica, ottenendo una lieve riduzione del versamento pleurico, rivalutato dopo 3 mesi, ma con persistenza della sintomatologia polmonare. considerando il persistere di una cmr veniva quindi ridotto il dosaggio di dasatinib a 50 mg/die, a partire dal settembre 2009. nel mese di ottobre 2010 si verificava un nuovo incremento del versamento pleurico, mentre la valutazione midollare evidenziava trascritto bcr/abl quantitativo = 7,5 copie bcr%abl e la ricomparsa del cromosoma philadelphia nel 20% delle metafasi. figura 2. ginecomastia bilaterale dopo due mesi dall ’inizio di dasatinib figura 3. versamento pleurico più accentuato alla base di sinistra figura 3. versamento pleurico più accentuato alla base di sinistra veniva quindi sospesa la terapia con dasatinib e iniziato nilotinib, 800 mg/die. entro 3 mesi dall’inizio della terapia il paziente conseguiva una ccyr e nuovamente la cmr. attualmente, a distanza di oltre un anno e mezzo dall’inizio di nilotinib, il paziente (74 anni) si trova in cmr persistente e presenta un’ottima tollerabilità al farmaco, con risoluzione completa del versamento pleurico. discussione il caso clinico riportato evidenzia come la possibilità di attingere a diversi tki di prima e seconda generazione consenta un corretto approccio al paziente anziano con lmc anche in caso di sviluppo di intolleranze non ematologiche o di ricaduta. d’altra parte, proprio questa crescente disponibilità di nuovi e più potenti tki rende mandatoria per il clinico la consapevolezza dei possibili effetti collaterali di queste molecole secondari, tra l’altro, anche all’azione contro altri membri della famiglia delle tirosin-chinasi. il paziente descritto ha inizialmente riportato rush cutaneo che è comunemente descritto come effetto collaterale in caso di terapia con imatinib in prima linea [1]. risulta invece interessante discutere l’eventuale meccanismo patogenetico attraverso il quale sia insorta la ginecomastia, dopo terapia con dasatinib, essendo quest’ultimo un potente inibitore non selettivo di diverse vie tirosin-chinasiche. l’incremento dei valori di 17-ohp potrebbe essere attribuibile ad un accumulo dei precursori steroidei successivo all’interferenza con enzimi chiave della cascata steroidogenica, quali la 17,20 liasi (cyp 17) o la 17 chetosteroide reduttasi [2]. la riduzione dei livelli di testosterone libero sembra essere responsabile della ginecomastia. dasatinib inoltre è un potente inibitore delle src chinasi, la cui importanza sembra essere legata alla trasduzione dell’azione del testosterone nelle cellule del sertoli [3]. infatti, studi pregressi eseguiti in vitro hanno dimostrato che dasatinib esercita un’azione inibitoria più potente su c-kit e su pdgfr-ß, con valori di ic50 di 5 e 28 nm rispettivamente, se paragonati a imatinib con valori di ic50 di 100 e 30 nm, rispettivamente [4]. c-kit, pdgfr-α e sono anche importanti segnali di modulazione nella organogenesi testicolare, nella differenziazione delle cellule di leydig, nella spermatogenesi e steroidogenesi. studi recenti hanno evidenziato una chiara relazione tra la deprivazione androgenica e la comparsa di sintomi vasomotori, osteoporosi, anemia, ginecomastia, depressione, declino cognitivo e disfunzioni sessuali oltre che endocrinometaboliche, risultando in percentuali più elevate di diabete e di infarto del miocardio [5]. dunque i pazienti con lmc dovrebbero essere valutati nel loro profilo ormonale e, in caso di anormalità nei valori ematici o sindrome da deprivazione di testosterone, seguiti con particolare attenzione in relazione alla possibile insorgenza di problemi clinici maggiori. la comparsa di versamento pleurico nel nostro paziente anziano sembra anch’essa legata alla potente azione inibitoria esercitata da dasatinib nei confronti di pdgfr-ß, anche se mancano chiare evidenze in proposito e non è stato ancora definitivamente compreso il meccanismo di azione che porta a questo frequente effetto collaterale [6]. la gestione del versamento pleurico prevede la somministrazione di terapia steroidea e diuretica. nel nostro caso ha tuttavia richiesto anche la riduzione di dosaggio di dasatinib. questo ha portato nel tempo alla ripresa della lmc, documentata dal notevole incremento logaritmico di bcr/abl e dalla perdita di rcc, con la ricomparsa delle metafasi philadelphia positive. l’introduzione di nilotinib, in terza linea di terapia nel nostro caso, si è rivelata efficace in termini di conseguimento della rmc e ottimamente tollerata dal paziente, che aveva già manifestato diversi effetti collaterali ai precedenti tki utilizzati. la tollerabilità dei tki nei pazienti anziani e fragili rappresenta un importante elemento da tenere in considerazione nella scelta dell’approccio terapeutico ottimale alla lmc. 18 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(suppl 2) efficacia e tollerabilità di nilotinib in terza linea in un paziente anziano con lmc bibliografia 1. baccarani m, saglio j, goldman j, et al. evolving concepts in the management of chronic myeloid leukemia. recommendations from an expert panel on behalf of the european leukemianet. blood 2006; 108: 1809-20; doi: 10.1182/blood-2006-02-005686 2. gambacorti-passerini c, tornaghi l, cavagnini f, et al. gynaecomastia in men with chronic myeloid leukemia after imatinib. lancet 2003; 361: 1954-6; doi: 10.1016/s0140-6736(03)13554-4 3. cheng j, watkins sc, walker wh. testosterone activates mitogen-activated protein kinase via src kinase and the epidermal growth factor receptor in sertoli cells. endocrinology 2007; 148: 2066-74; doi: 10.1210/en.2006-1465 4. walz c, sattler m. novel targeted therapies to overcome imatinib mesylate resistance in chronic myeloid leukemia (cml). critic rew oncol hematol 2006; 57: 145-64; doi: 10.1016/j. critrevonc.2005.06.007 5. sprenkle pc, fish h. pathologic effects of testosterone deprivation. curr opin urol 2007; 17: 424-30; doi: 10.1097/mou.0b013e3282f0ebef 6. kantarjian h, pasquini r, hamerschlak n, et al. dasatinib or high-dose imatinib for chronicphase chronic myeloid leukemia after failure of first-line imatinib: a randomized phase 2 trial. blood 2007; 109: 5143-50; doi: 10.1182/blood-2006-11-056028 7. breccia m, tiribelli m, alimena g. tyrosine kinase inhibitors for elderly chronic myeloid leukemia patients: a systematic review of efficacy and safety data. crit rev oncol hematol 2012; 84: 93-100; doi: 10.1016/j.critrevonc.2012.01.001 nilotinib nella leucemia mieloide cronica: un approccio globale mario annunziata 1 efficacia della terapia con nilotinib impiegato in seconda linea raffaele porrini 1, enrico montefusco 1 caso clinico risposta molecolare completa indotta precocemente da nilotinib come prima linea di terapia in un paziente affetto da leucemia mieloide cronica a rischio sokal intermedio ursula sessa 1, maria celentano 1, stefano rocco 1, rossella fabbricini 1, olimpia finizio 1, vincenzo mettivier 1 caso clinico efficacia e tollerabilità di nilotinib in terza linea in un paziente anziano con lmc giovanni caocci 1, sandra atzeni 1, giorgio la nasa 1 caso clinico tollerabilità ed efficacia di nilotinib dopo 10 anni di interferone filippo russo 1 efficacia di nilotinib in un paziente ricaduto dopo 9 anni di terapia con imatinib e in risposta citogenetica completa clinical management issues 2011; 5(suppl 3) 7 clinical management issues gica completa e citogenetica parziale. nel 2000 è passato al trattamento con imatinib al dosaggio standard di 400 mg al giorno, caso clinico nel 1995 un uomo di 45 anni è giunto alla nostra osservazione per il riscontro occasionale di leucocitosi neutrofila e piastrinosi. l’esame emocromocitometrico da noi eseguito ha confermato tali alterazioni ematologiche e in particolare ha evidenziato: hb 15,2 g/dl; plt 750 x 103/µl; gb 94 x 103/µl. dopo aver eseguito la valutazione morfologica dello striscio di sangue periferico e dell’aspirato midollare, nonché l’analisi citogenetico-molecolare, è stato possibile porre diagnosi di leucemia mieloide cronica in fase cronica (tipo di breakpoint b3a2) con sokal score basso. a questo punto il paziente ha iniziato trattamento con interferone-alfa e basse dosi di citarabina che ha proseguito per 5 anni ottenendo una risposta ematolocorresponding author dott.ssa marzia defina marziadefina@libero.it caso clinico abstract we report a case of a patient with chronic myeloid leukemia in chronic phase who was treated with interferon-alpha plus low dose of cytarabine for 5 years, achieving a partial cytogenetic response. in 2000, he started imatinib at 400 mg/day obtaining rapidly a complete cytogenetic response (ccyr) (after 6 months of treatment) and a “near” major molecular response (mmolr) with bcr-abl transcript level waving from 0.13 to 0.15% (bcr-abl/abl%) during molecular follow-up performed in the subsequent 6 years. to further improve his molecular response, we associated to tki an immune target therapy with a bcr-abl derived peptide vaccine developed by us, obtaining a mmolr, confirmed during the following 12 months from the beginning of the vaccinations. surprisingly, at 9 years from starting imatinib, we documented the loss of mmolr and ccyr. clonal evolution, kinase domain mutations and reduced drug intake were excluded, thus the patient switched to nilotinb at 400 mg/bid: after 3 months of treatment he achieved ccyr and mmolr and after 6 months we documented also a complete molecular response (cmolr). keywords: chronic myeloid leukemia; imatinib; late relapse; nilotinib efficacy of nilotinib in a patient relapse after 9 years of imatinib treatment and in stable complete cytogenetic response cmi 2011; 5(suppl 3): 7-11 1 divisione di ematologia università di siena, siena marzia defina 1 efficacia di nilotinib in un paziente ricaduto dopo 9 anni di terapia con imatinib e in risposta citogenetica completa stabile perché descriviamo questo caso per sottolineare che non sempre è possibile chiarire le cause di ricaduta citogeneticomolecolare nei pazienti in trattamento con tkis e che le ricadute tardive, anche a distanza di molti anni di trattamento e in pazienti altrimenti considerati dei “good responders” possono comunque verificarsi. da qui, l ’importanza di continuare il monitoraggio molecolare anche in quei pazienti con risposta ottimale e stabile negli anni disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. mailto:marziadefina@libero.it ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3)8 efficacia di nilotinib in un paziente ricaduto dopo 9 anni di terapia con imatinib e in risposta citogenetica completa rcc ma anche la rmm. inaspettatamente, dopo ulteriori 3 mesi di trattamento è stata documentata anche la risposta molecolare completa. nel frattempo è stato identificato un donatore hla compatibile ma per il momento, data la rapida e ottimale risposta al nilotinib, abbiamo deciso di proseguire la terapia con il tki e rilasciare il donatore. in tabella i riportiamo il riassunto della storia clinica del paziente. discussione la terapia di prima linea con imatinib determina il raggiungimento della rcc nella maggior parte dei pazienti con lmc, anche se, nonostante queste iniziali buone risposte, qualche paziente ricade. per i pazienti in fase cronica precoce la perdita della rcc è indubbiamente più frequente dopo un periodo di trattamento breve, al contrario le ricadute tardive costituiscono un evento raro. infatti l’analisi dei dati dello studio iris mostra che le rcc ottenute durante terapia con imatinib sono sostanzialmente durature con percentuali di event free survival (efs) e di overall survival (os) pari al 81% e 86% a 7 anni [2]. il trattamento con imatinib si è dimostrato altrettanto efficace nei pazienti con lmc in fase cronica tardiva dopo aver fallito la terapia con interferone-alfa, con percentuali di rcc variabili tra il 41 e il 63% [3]. come per i pazienti in fase cronica precoce, il raggiungimento di una rcc stabile in pazienti in fase cronica tardiva rappresenta il principale fattore predittivo di un outcome a lungo termine, infatti sia la progression free survival (pfs) sia la os dei pazienti in rcc rimane superiore al 90% dopo un periodo mediano di osservazione di 6 anni [4]. in effetti, le rcc ottenute in questo subset di pazienti si sono dimostrate altrettanto stabili, in quanto il 77% di essi è ottenendo, questa volta, la risposta citogenetica completa (rcc) dopo soli 6 mesi di trattamento. in aggiunta alla rcc, ha raggiunto una risposta molecolare “quasi” maggiore con valori di trascritto bcr-abl/ abl oscillanti tra 0,13 e 0,15% durante il regolare follow-up eseguito nei successivi 6 anni di terapia. per migliorare questa risposta molecolare, abbiamo tentato di aumentare il dosaggio di imatinib a 600 mg/die, ma il paziente ha mostrato scarsa tolleranza per crampi muscolari e mialgie (eventi avversi segnalati al responsabile di farmacovigilanza della struttura). pertanto, dopo 6 anni di rcc stabile, nell’ottica di ridurre ulteriormente il residuo molecolare, abbiamo aggiunto al trattamento convenzionale con imatinib una “target-therapy” immunologica con un vaccino peptidico derivato dalla proteina di fusione p210 (cmlvax100) da noi sviluppato [1]. dopo 6 vaccinazioni bisettimanali abbiamo documentato la risposta molecolare maggiore (rmm) che è stata poi confermata nei successivi 12 mesi, periodo in cui il paziente ha proseguito sia imatinib sia “boosts” di mantenimento del vaccino ogni 6 mesi. in modo del tutto inaspettato, dopo quasi 9 anni dall’inizio della terapia con imatinib, abbiamo osservato un significativo incremento del trascritto bcr-abl associato alla perdita sia della rmm sia della rcc. l’analisi citogenetica ha escluso un’evoluzione clonale della malattia, così come sono stati esclusi sia mutazioni del gene abl che una riduzione dell’assunzione e/o dell’assorbimento di imatinib con il blood level test (blt) documentando un livello plasmatico di imatinib di 1183 ng/ml. a questo punto, dopo aver attivato la ricerca di un donatore volontario hla compatibile, in quanto figlio unico e di età < 60 anni, il paziente è passato al trattamento di seconda linea con nilotinib al dosaggio di 800 mg/die e dopo 3 mesi di terapia ha ottenuto non solo la periodo trattamento risultati 1995 diagnosi di lmc in fase cronica inizia interferone alfa+ basse dosi di citarabina risposta citogenetica parziale 2000 inizia imatinib 400 mg/die rcc* dopo 6 mesi risposta molecolare “quasi maggiore” 2006 imatinib 400 mg/die + vaccinoterapia con cmlvax100 (vaccinazioni bisettimanali) rmm° 2007 imatinib 400 mg/die + boosts di mantenimento del vaccino ogni 6 mesi mantenimento della rmm fine 2008 perdita della rmm e della rcc → inizia nilotinib 800 mg/die rcc e rmm dopo 3 mesi rmc# dopo 6 mesi tabella i riassunto della storia clinica del paziente * risposta citogenetica completa ° risposta molecolare maggiore # risposta molecolare completa ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3) 9 m. defina [6] rappresenta un fattore predittivo di una rcc più duratura. un altro aspetto da considerare è la non chiara causa della ricaduta; infatti la persistenza della malattia molecolare, unitamente alla prolungata esposizione a imatinib, avrebbero potuto favorire lo sviluppo di mutazioni responsabili di resistenza acquisita, ma in realtà queste ultime, al momento della documentata perdita della rcc, non sono state evidenziate. un’altra causa di progressione avrebbe potuto essere la ridotta compliance a imatinib dopo un lungo periodo di trattamento, come già riportato in letteratura [7]; in realtà nel nostro caso questa evidenza è stata esclusa avendo documentato un livello plasmatico di imatinib congruo rispetto al dosaggio giornaliero di 400 mg, e avendo così escluso anche un ridotto assorbimento del farmaco. da ultimo, è interessante considerare e analizzare la rapida e ottimale risposta a nilotinib, ragione per cui abbiamo deciso di proseguire con questa opzione terapeutica preferendola al trapianto mud, anche in considerazione dell’età ormai al limite del paziente (59 anni). domande da porsi y quale è l ’outcome dei pazienti trattati con nilotinib in seconda linea? y quali fattori hanno influenzato maggiormente la perdita della rcc nel nostro caso? ancora in rcc dopo 6 anni di terapia con imatinib; possiamo aggiungere inoltre che, come nei pazienti in fase cronica precoce, il tasso di risposte non tende ad aumentare nel tempo, bensì a ridursi [4]. un altro aspetto da considerare è il tempo di raggiungimento della rcc perché, come nei pazienti in fase cronica precoce, anche in quelli in fase cronica tardiva l’ottenimento della rcc a 12 mesi dall’inizio del trattamento con imatinib correla significativamente con la pfs e la os, in particolare i tassi di pfs e os stimati a 6 anni sono del 88% e 92% per i pazienti con rcc a 12 mesi rispetto a 36% e 63% per quelli non in rcc [2]. oltre a raggiungere la rcc, i pazienti in fase cronica tardiva possono ottenere con imatinib anche la rmm, infatti le percentuali di rmm in questo subset di pazienti vanno dal 60% al 74%, anche se, paragonati all’altro gruppo di pazienti (fase cronica precoce), una più elevata percentuale di casi in rcc stabile non ottiene la rmm (38% versus 7%) [5]. basandoci su tutti questi dati, possiamo ora inquadrare il nostro caso clinico. innanzitutto, partiamo dal dato che il paziente ha ottenuto rapidamente (in 6 mesi) la rcc con imatinib, mantenendo tale risposta per un lungo periodo e avendo, quindi, scarsa probabilità di andare incontro a progressione di malattia [2,4]. d’altra parte, però, il paziente ha raggiunto la rmm solo dopo 7 anni di trattamento con imatinib e apparentemente solo dopo l’aggiunta della vaccinoterapia, mentre sappiamo che nei pazienti in fase cronica tardiva l’ottenimento della rmm al momento della prima rcc figura 1 risposte citogenetiche maggiori (mcyr) e risposte citogenetiche complete (ccyr) nei pazienti con followup minimo di 24 mesi (modificata da [8]) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3)10 efficacia di nilotinib in un paziente ricaduto dopo 9 anni di terapia con imatinib e in risposta citogenetica completa figura 2 curva di os a 24 mesi (modificata da [8]) risposte alle domande y l’analisi del follow-up a 24 mesi dei pazienti in trattamento con nilotinib in seconda linea [8] mostra che la percentuale di rcc è pari al 44%, e in particolare al 41% (figura 1) considerando solo il gruppo di pazienti resistenti ad imatinib, con rcc che risultano, inoltre, durature, in quanto il 84% dei pazienti mantiene tale risposta dopo 24 mesi di trattamento. per quanto riguarda invece la risposta molecolare, le percentuali di rmm si attestano attorno al 28%, con una os stimata a 24 mesi del 87% (figura 2). visti questi dati incoraggianti, abbiamo preferito, nel nostro caso, continuare il trattamento con il nilotinib piuttosto che avviare il paziente al trapianto mud. y nonostante la rcc sia stata ottenuta rapidamente e sia stata sempre confermata durante i primi 6 anni di trattamento con imatinib, il mancato raggiungimento della rmm in tempi rapidi avrebbe potuto predire la successiva, anche se tardiva, perdita della rcc. questo caso conferma quindi l ’importanza di ottenere in tempi rapidi una risposta molecolare maggiore. bibliografia 1. bocchia m, defina m, ippoliti m, amabile m, breccia m, iuliano f et al. bcr-abl derived peptide vaccine in chronic myeloid leukemia patients with molecular minimal residual disease during imatinib: interim analysis of a phase 2 multicenter gimema cml working party trial. bood (ash annual meeting abstracts) 2009; 114: 648 2. hochhaus a, o’brien sg, guilhot f, druker bj, branford s, foroni l et al. six-year follow-up of patients receiving imatinib for the first-line treatment of chronic myeloid leukemia. leukemia 2009; 23: 1054-61 3. kantarjian hm, o’brien s, cortes j, giles f, shan j, rios mb et al. survival advantage with imatinib mesylate therapy in chronic-phase chronic myelogenous leukemia (cml-cp) after ifn-alpha failure and in late cml-cp, comparison with historical controls. clin cancer res 2004; 10: 68-75 4. palandri f, iacobucci i, martinelli g, amabile m, poerio a, testoni n et al. long-term outcome of complete cytogenetic responders after imatinib 400 mg in late chronic phase, philadelphiapositive chronic myeloid leukemia: the gimema working party on cml. j clin oncol 2008; 26: 106-11 5. palandri f, iacobucci i, quarantelli f, castagnetti f, cilloni d, baccarani m et al. gimema working party on cml. long-term molecular response to imatinib in patients with chronic myeloid leukemia: comparison between complete cytogenetic responders treated in early and late chronic phase. haematologica 2007; 92: 1579-80 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3) 11 m. defina 6. iacobucci i, saglio g, rosti g, testoni n, pane f, amabile m et al. achieving a major molecular response at the time of a complete cytogenetic response (ccgr) predicts a better duration of ccgr in imatinib-treated chronic myeloid leukemia patients. clin cancer res 2006; 12: 3037-42 7. noens l, van lierde na, de bock r, verhoef g, zachée p, berneman z et al. prevalence, determinants, and outcomes of non adherence to imatinib therapy in patients with chronic myeloid leukemia: the adagio study. blood 2009; 113: 5401-11 8. kantarjian hm, giles fj, bhalla kn, pinilla-ibarz j, larson ra, gattermann n et al. nilotinib is effective in patients with chronic myeloid leukemia in chronic phase after imatinib resistance or intolerance: 24-month follow-up results. blood 2011; 117: 1141-5 quesiti terapeutici in corso di leucemia mieloide cronica bruno martino 1 efficacia di nilotinib in un paziente ricaduto dopo 9 anni di terapia con imatinib e in risposta citogenetica completa stabile marzia defina 1 efficacia e sicurezza di nilotinib, dopo risposta sub-ottimale a imatinib, in paziente con leucemia mieloide cronica e tachicardia parossistica sopraventricolare stefana impera 1, ugo consoli 1, giuseppina uccello 1, patrizia guglielmo 1 differente risposta a imatinib e nilotinib in relazione al tempo di somministrazione paolo danise 1 rapida e duratura risposta molecolare con nilotinib in una paziente in risposta sub-ottimale a imatinib mario annunziata 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5) clinical management issues 23 durante il primo mese di trattamento (aprile 2008), però, la paziente presenta neutropenia di grado 3 (cioè con absolute neutrophil count o anc < 1.000 μl), per cui il trattamento con imatinib viene interrotto. al recupero ematologico dopo una settimana di sospensione viene ripreso il trattamento con imatinib allo stesso dosaggio di 400 mg/ die (primo episodio di tossicità ematologica di grado 3). viene effettuato il monitoraggio della risposta ematologica, citogenetica e molecolare secondo le raccomandazioni dell’european antonella russo rossi 1 caso clinico nel febbraio 2008 una donna di 30 anni si presenta alla nostra attenzione per riscontro di leucocitosi e splenomegalia. all’esame emocromocitometrico presenta: wbc 161.000/μl, hb 10,4 g/dl, plt 543.000/μl. nell’anamnesi ha familiarità per patologie neoplastiche e assenza di altre comorbilità. alla paziente viene posta diagnosi di leucemia mieloide cronica (lmc) philadelphia-positiva (ph+) (b3a2) con cariotipo 46, xx, t(9;22) (q34;q11); rischio alto calcolato con il sokal score. la valutazione molecolare quantitativa (real-time reverse-transcription polymerase chain reaction = qrt-pcr) dà un risultato di 48,839 (copie di bcr-abl/ abl x 100) secondo l’international scale (is).viene effettuata la tipizzazione hla ma la paziente non ha un donatore familiare hla compatibile. a marzo 2008 inizia la terapia di prima linea con imatinib 400 mg/die. terapia con nilotinib dopo resistenza e intolleranza a imatinib in paziente con lmc e trisomia del cromosoma 8 abstract in this article is presented the case of a 30-year-old woman with chronic myeloid leukaemia (cml) treated with imatinib for 15 months, and then with nilotinib as second-line therapy. two episodes of grade 3 neutropenia, the detection of the trisomy of chromosome 8 and the failed achievement of a major molecular response (mmolr) in 15 months led to the switch to nilotinib. with nilotinib the patient obtained the lack of the genetic anomaly in 3 months and a complete molecular response (cmolr) in 6 months, all confirmed at 9 months. no haematologic or extrahaematologic adverse events were detected with this second-line agent. keywords: chronic myeloid leukemia, nilotinib, intolerance to imatinib, neutropenia imatinibrelated nilotinib therapy after resistance and intolerance to imatinib in cml patient with trisomy of the chromosome 8 cmi 2010; 4(suppl. 5): 23-27 1 uo ematologia con trapianto, bari corresponding author dott.ssa antonella russo rossi antorussorossi@libero.it caso clinico perché descriviamo questo caso? per conoscere le possibilità terapeutiche della lmc in caso di intolleranza a imatinib e per valutare gli effetti di uno switch terapeutico a un agente di seconda linea in tempistiche diverse da quelle raccomandate disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5)24 terapia con nilotinib dopo resistenza e intolleranza a imatinib in paziente con lmc e trisomia del cromosoma 8 al sesto mese (settembre 2008), la paziente presenta una risposta ematologica completa e una risposta citogenetica parziale (rcyp) con 7 metafasi ph+ su 20 analizzate. la valutazione molecolare quantitativa mediante qrt-pcr dà un risultato di 2,568 (copie di bcr-abl/abl x 100) secondo l’international scale (is). al dodicesimo mese di trattamento (marzo 2009) la paziente raggiunge la risposta citogenetica completa (ccyr), ma l’analisi del cariotipo rivela un’anomalia citogenetica aggiuntiva (aca), cioè la trisomia del cromoleukemianet del 2006 [1] e al terzo mese di terapia (giugno 2008) la paziente ottiene la risposta ematologica completa e una risposta citogenetica minore (con 10 metafasi ph+ su 20 analizzate). il mese successivo (luglio 2008), per la ricomparsa della tossicità ematologica (neutropenia di grado 3) la paziente necessita di un’ulteriore sospensione di imatinib. al recupero ematologico dopo una settimana viene ripreso il trattamento con imatinib allo stesso dosaggio di 400 mg/die (secondo episodio di tossicità ematologica di grado 3). tabella i raccomandazioni dell ’european leukemianet del 2009, confrontate con quelle del 2006 [1]: valutazione complessiva della risposta a imatinib in prima linea nella fase cronica iniziale. in grassetto le aggiunte eln 2009. modificato da [2] aca = additional chromosome abnormalities; cca = clonal chromosome abnormalities; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; hr = risposta ematologica; mcyr = risposta citogenetica minore; mmolr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile; pcyr = risposta citogenetica parziale risposta ottimale (non definita precedentemente) risposta sub-ottimale fallimento warning baseline na na na alto rischio cca/ph+ (era anche del9q+ e aca in cellule ph+) 3 mesi chr e almeno mcyr (ph+ ≤ 65%) no cyr (ph+ > 95%) (era < chr) < chr (era no hr) na 6 mesi almeno pcyr (ph+ ≤ 35%) < pcyr (ph+ > 35%) no cyr (ph+ > 95%) (era anche < chr) na 12 mesi ccyr pcyr (ph+ 1–35%) < pcyr (ph+ > 35%) < mmolr 18 mesi mmolr < mmolr < ccyr na qualsiasi momento durante la terapia mmolr stabile o in via di miglioramento perdita di mmolr mutazioni (era anche aca in cellule ph+) perdita di chr/ccyr mutazioni cca in cellule ph+ un aumento nei livelli di trascritto cca in cellule ph– figura 1 cariotipo della paziente effettuato a 12 mesi dall ’inizio del trattamento con imatinib: in questa metafase è possibile notare la trisomia del cromosoma 8 1 2 3 4 5 1211109876 181716151413 22212019 x y ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5) 25 a. russo rossi lisi mutazionale che non evidenzia alcuna mutazione. dopo 16 mesi di trattamento con imatinib abbiamo considerato la risposta della nostra paziente come sub-ottimale (aca+, no mmolr a 12 e a 15 mesi) e non potendo effettuare una dose escalation di imatinib per la persistente neutropenia di grado 1-2 e due episodi di neutropenia di grado 3, nel luglio 2009 abbiamo deciso di passare al trattamento di seconda linea con nilotinib 400 mg bid. nell’ottobre 2009 (3° mese) la paziente presenta una risposta citogenetica completa e non è più evidenziabile l’anomalia citogenetica precedentemente riscontrata nel clone ph-. inoltre alla valutazione molecolare quantitativa (qrt-pcr) e semi-quantitativa (nested pcr) si evidenzia una risposta molecolare maggiore (qrt-pcr = 0,030, ma positività alla nested pcr). dopo 6 mesi, nel gennaio 2010, l’analisi citogenetica conferma la scomparsa soma 8 in 4/20 metafasi analizzate (figura 1), tutte metafasi ph-; non presenta ancora la risposta molecolare maggiore (mmolr) (qrt-pcr = 0,622). durante questi 12 mesi la paziente continua la terapia con imatinib pur presentando neutropenia di grado 1-2. considerando la giovane età della paziente, la comparsa di un clone aggiuntivo nelle cellule ph-negative (definite warning nelle eln 2006 e del 2009, v. tabella i), e il mancato raggiungimento della risposta molecolare maggiore al 12° mese (che oggi è inserito come warning nelle raccomandazioni eln 2009), a quindici mesi dall’inizio del trattamento (giugno 2009) viene fatta una nuova valutazione midollare. l’analisi del cariotipo conferma la ccyr e l’anomalia citogenetica aggiuntiva, cioè la trisomia del cromosoma 8 in 5/20 metafasi analizzate. la paziente non raggiunge la risposta molecolare maggiore (mmolr) (qrt-pcr = 0,552). viene effettuata l’anatabella ii schema terapeutico della paziente ed effetti positivi e negativi provocati ║= sospensione del trattamento per una settimana; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cmolr = risposta molecolare completa; cr = cromosoma; mcyr = risposta citogenetica minore; mmolr = risposta molecolare maggiore; pcyr = risposta citogenetica parziale; ph = cromosoma philadelphia figura 2 andamento della risposta molecolare maggiore secondo i risultati ottenuti con la qrt-pcr: la mmolr è stata ottenuta soltanto dopo l ’introduzione in terapia di nilotinib (freccia rossa) imatinib imatinib imatinib nilotinib tempo 1 mese 3 mesi 11 mesi 9 mesi effetti positivi y chr dopo 3 mesi y mcyr dopo 3 mesi con 10/20 metafasi ph+ y pcyr dopo 6 mesi con 7/20 metafasi ph+ y ccyr dopo 12 mesi y analisi mutazionale negativa dopo 15 mesi y mantenimento della ccyr dopo 3 mesi y scomparsa della trisomia dopo 3 mesi (conferma dopo 6 e dopo 9) y mmolr dopo 3 mesi y cmolr dopo 6 mesi e negatività alla nested pcr y cmolr confermata a 9 mesi e negatività alla nested pcr y assenza di tossicità ematologica o extraematologica effetti negativi tossicità ematologica di grado 3 (neutropenia) tossicità ematologica di grado 3 (neutropenia) y neutropenia di grado 1-2 y comparsa di trisomia del cr 8 dopo 12 mesi (4/20 metafasi) y persistenza della trisomia dopo 15 mesi (5/20 metafasi) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5)26 terapia con nilotinib dopo resistenza e intolleranza a imatinib in paziente con lmc e trisomia del cromosoma 8 vista l’assenza di comorbilità in anamnesi e lo screening mutazionale negativo per la ricerca di mutazioni, la paziente, anche se prima del 18° mese, ha iniziato la terapia con nilotinib al dosaggio di 400 mg bid. nilotinib è un inibitore di seconda generazione con una affinità di legame per il dominio chinasico di bcr-abl da 30 a 50 volte superiore rispetto a imatinib. studi clinici di fase ii hanno dimostrato un’elevata attività di nilotinib nei pazienti resistenti o intolleranti a imatinib con il raggiungimento di una rapida e stabile risposta citogenetica e molecolare [6,7]. non è descritta una cross-intolleranza tra imatinib e nilotinib in virtù della maggiore selettività di quest’ultimo e in circa il 10% (vs 20%) dei pazienti è descritta tossicità ematologica quale neutropenia e trombocitopenia [8]. la tossicità extra-ematologica di nilotinib è di modesta entità e spesso transitoria (cefalea, rash cutaneo, nausea, incremento sierico di bilirubina, glucosio e lipasi). nel nostro caso clinico, alla valutazione midollare del 3° mese di terapia con nilotinib abbiamo ottenuto una ccyr e la non evidenza della trisomia del cromosoma 8 nel clone phprecedentemente rilevata. la paziente ha inoltre raggiunto la mmolr (qrt-pcr = 0,03 con positività alla nested pcr). la trisomia del cromosoma 8 generalmente si osserva nelle mielodisplasie e nelle leucemie acute secondarie a mielodisplasie (mds); solo pochi casi di pazienti affetti da lmc sviluppano una mds probabilmente, secondo quanto ipotizzato da alcuni autori, a seguito di un danno di una cellula staminale diversa da quella della lmc precedente all’inizio del trattamento con imatinib [9-11]. in alcuni lavori è stata riportata la comparsa di aca come la trisomia del cromosoma 8 nel clone phdurante la terapia con imatinib, ma il significato clinico di queste anomalie citogenetiche non è noto [12]. dopo 6 mesi di trattamento con nilotinib la paziente ha confermato la risposta citogenetica completa e migliorato la risposta molecolare fino a raggiungere la negatività alla nested pcr confermata anche all’ultima valutazione midollare del 9° mese di trattamento (aprile 2010). in conclusione, nel caso della nostra paziente la decisione di effettuare uno switch verso nilotinib anche prima della tempistica proposta dalle raccomandazioni eln ha consentito, in assenza di tossicità ematolodell’anomalia del cromosoma 8; l’analisi molecolare dimostra una ulteriore riduzione del trascritto (negatività alla nested pcr). dopo 9 mesi di terapia con nilotinib, nell’aprile 2010, persiste ccyr e l’analisi molecolare conferma la negatività alla nested pcr (tabella ii, figura 2). discussione benché la terapia con imatinib sia generalmente ben tollerata e le reazioni avverse più comuni (quali edema, nausea e vomito, crampi muscolari e rash cutaneo – tossicità extra-ematologica) si osservino nei pazienti che necessitano di dosaggi più elevati, la tossicità ematologica da imatinib è invece abbastanza frequente. infatti la neutropenia riscontrata nel nostro caso è riportata in circa il 27% dei pazienti, mentre il 19%  va incontro a  piastrinopenia [3]. tutti questi eventi avversi sono generalmente reversibili dopo riduzione del dosaggio e/o dopo la temporanea sospensione del trattamento. solo rari casi richiedono l’interruzione definitiva. la nostra paziente ha effettuato i controlli e il monitoraggio seguendo la tempistica delle eln 2006 [1] raggiungendo una risposta ematologica e citogenetica al 3°, al 6° e al 12° mese. al 12° mese, però, pur avendo raggiunto la risposta citogenetica completa (ccyr), ci siamo trovati di fronte a tre warning: y rischio sokal alto; y la comparsa di una anomalia citogenetica aggiuntiva (aca), quale la trisomia del cromosoma 8, nel clone ph-; y il non raggiungimento della risposta molecolare maggiore (mmolr) al 12° mese. questo ci ha portato a effettuare un monitoraggio più stretto e a ripetere una valutazione midollare e quindi citogenetica dopo tre mesi (15° mese). la rivalutazione midollare ha confermato la ccyr, l’aca nel clone ph-, e una risposta molecolare stabile ma non maggiore. a questo punto, non potendo incrementare il dosaggio di imatinib per la ricorrente tossicità ematologica (neutropenia g3), e facendo riferimento ai dati di letteratura sull’importanza del precoce  raggiungimento della mmolr insieme alla ccyr negli outcome a lungotermine (efs, pfs) [4,5], abbiamo avviato la paziente al trattamento con un inibitore delle tirosin-chinasi di seconda generazione. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5) 27 a. russo rossi gia e/o extraematologica, di ottimizzare la risposta con il raggiungimento della risposta molecolare fino alla risposta molecolare completa e di eradicare il clone anomalo bibliografia 1. baccarani m, saglio g, goldman j, hochhaus a, simonsson b, appelbaum f et al. evolving concepts in the management of chronic myeloid leukemia: recommendations from an expert panel on behalf of the european leukemianet. blood 2006; 108: 1809-20 2. baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, saglio g, apperley j et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51 3. deininger mw, o’brien sg, ford jm, druker bj. practical management of patients with chronic myeloid leukemia receiving imatinib. j clin oncol 2003; 21: 1637-47 4. druker bj, guilhot f, o’brien sg, gathmann i, kantarjian h, gattermann n et al; iris investigators. five-year follow-up of patients receiving imatinib for chronic myeloid leukemia. n engl j med 2006; 355: 2408-17 5. iacobucci i, saglio g, rosti g, testoni n, pane f, amabile m et al; gimema working party on chronic myeloid leukemia. achieving a major molecular response at the time of a complete cytogenetic response (ccgr) predicts a better duration of ccgr in imatinib-treated chronic myeloid leukemia patients. clin cancer res 2006; 12: 3037-42 6. kantarjian hm, giles f, gattermann n, bhalla k, alimena g, palandri f et al. nilotinib (formerly amn107), a highly selective bcr-abl tyrosine kinase inhibitor, is effective in patients with philadelphia chromosome-positive chronic myelogenous leukemia in chronic phase following imatinib resistance and intolerance. blood 2007; 110: 3540-6 7. swords r, mahalingam d, padmanabhan s, carew j, giles f. nilotinib: optimal therapy for patients with chronic myeloid leukemia and resistance or intolerance to imatinib. drug des devel ther 2009; 3: 89-101 8. giles fj, o’dwyer m, swords r. class effects of tyrosine kinase inhibitors in the treatment of chronic myeloid leukemia. leukemia 2009; 23: 1698-1707 9. abruzzese e, gozzetti a, galimberti s, trawinska mm, caravita t, siniscalchi a et al. characterization of ph-negative abnormal clones emerging during imatinib therapy. cancer 2007; 109: 2466-72 10. andersen mk, pedersen-bjergaard j, kjeldsen l, dufva ih, brøndum-nielsen k. clonal phnegative hematopoiesis in cml after therapy with imatinib mesylate is frequently characterized by trisomy 8. leukemia 2002; 16: 1390-3 11. medina 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al momento del ricovero riferiva totale astensione alcolica da circa cinque anni. tre anni fa era stato sottoposto a egds (esofagogastroduodenoscopia) in cui erano già presenti segni di ipertensione portale (varici esofagee f1 senza segni rossi). circa un anno fa aveva effettuato ecografia dell’addome in cui si rilevava fegato bozzuto con sottile falda ascitica periepatica. negli ultimi mesi il quadro clinico aveva subito un’evoluzione peggiorativa con scadimento delle condizioni generali, comparsa di ittero, edemi declivi e progressiva tensione addominale per ascite. veniva impostata e progressivamente incrementata una terapia diuretica. giunto alla nostra osservazione, il paziente presentava ascite tesa (grado iii) nonostante la terapia con furosemide 250 mg/die e canrenoato 200 mg/die. loris varvello 1, celeste arnò 1, angelo bosio 1, flavio cerrato 1, gabriele monaco 1, claudio pascale 1 introduzione l’ascite refrattaria è una condizione clinica di ascite complicata nella quale il versamento peritoneale non risponde alla restrizione dell’introduzione di sodio e alla somministrazione di dosi massimali di diuretici (ascite resistente), ovvero sviluppa effetti collaterali di entità tale da precludere la possibilità di somministrazione di dosi efficaci di terapia diuretica (ascite intrattabile) [1]. nello sviluppo della patologia entrano in gioco dinamiche fisiopatologiche complesse in cui la deplezione di volume del compartimento vascolare centrale determina la stimolazione del sistema renina angiotensina aldosterone (raa) per ipovolemia, ipoperfusione renale e increzione di ormone antidiuretico (adh) per stimolazione non osmotica da parte di barocettori centrali atriali, aortici, carotidei [2]. risulta pertanto una ritenzione di acqua e sodio che si accentua con la progressione di malattia per riduzione del carico filtrato ed esaltato riassorbimento a livello del tubulo contorto prossimale [3]. un caso di ascite refrattaria abstract we describe a case of patient with alcoholic cirrhosis and severe functional hepatic impairment (child c), developing in the last months renal impairment too and ingravescent, refractory ascites, despite high-dose diuretics. the patient was treated with intravenous albumin and, at last, weekly paracentesis. in this report we evaluate alternative therapeutic options (transjugular inrtahepatic protosystemic shunt, orthotopic liver transplantation) when frequent paracentesis are needed. keywords: hepatic cirrhosis, refractory ascites, hepatorenal syndrome, paracentesis, albumin a case of refractory ascites cmi 2010; 4(suppl. 3): 31-35 1 sc medicina interna. presidio ospedaliero cottolengo. torino corresponding author dott. loris varvello loris.varvello@tin.it caso clinico ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)32 un caso di ascite refrattaria agli esami ematochimici era comparsa anemizzazione e piastrinopenia (hb = 9,8 mg/ dl e plts = 88.000/mm3) e deterioramento della funzionalità renale (creatinemia = 1,9 mg/dl) non presente in precedenza, con sedimento urinario indenne. si evidenziavano inoltre una compromissione della capacità di meq (circa 5,2 grammi di sale) e restrizione idrica a circa 1.000 ml/die. tuttavia la tensione addominale accusata dal paziente e la mancata risposta clinica (incremento ponderale di circa 1 kg in tre giorni) rendevano necessaria l’effettuazione di paracentesi evacuativa. venivano estratti circa 7 litri di liquido siero ematico con caratteristiche di trasudato (tabella i). durante e dopo paracentesi veniva infusa albumina 20% 50 ml 6 flaconi (circa 8 g per litro di liquido ascitico evacuato) e nei due giorni successivi proseguiva l’infusione di albumina 20 g/die. il paziente manteneva una sostanziale stabilità emodinamica (pressione arteriosa di 100/65 mmhg; frequenza cardiaca di 64 bpm) e si aveva una modesta riduzione dei valori di creatininemia (1,4 mg/dl). tuttavia la situazione clinica non mostrava un miglioramento significativo: persisteva la necessità di paracentesi circa settimanali, con estrazione di 4-6 litri/caduna. a seguito di un nuovo e stabile incremento dei valori della creatininemia (2,0 mg/dl) veniva sospesa la terapia diuretica e veniva infusa albumina 20 g/100 ml (40 g/die), onde mantenere valori adeguati di pressione venosa centrale (pvc = 5-15 cm di h2o) con associazione di terlipressina 1 mg ogni sei ore ed effettuazione di paracentesi per controllo dell’ascite. in quinta giornata si verificava ipotensione non rispondente alla volemizzazione, con comparsa di dolore precordiale e ischemia miocardica all’elettrocardiogramma. seguiva un progressivo peggioramento del quadro emodinamico, causa di ipoperfusione epatica, renale, sistemica da cui acidosi lattica, con insufficienza multiorgano e decesso del paziente. discussione la revisione dei dosaggi della terapia diuretica effettuata all’ingresso in reparto, rispetto quanto eseguito a domicilio, seguiva le indicazioni dell’international ascites club del 2003 circa il rapporto tra diuretico dell’ansa e antialdosteronico [4]. in particolare il dosaggio dell’antialdosteronico deve essere proporzionale allo stato di iperaldosteronismo [5], eventualmente determinabile in termini di attività reninica plasmatica e aldosterone plasmatico [3,4], che sono incrementati già in fase preascitica [3]. il dosaggio utile di spironolattone è compreso tra 100-400 mg al dì, in relazione all’andamento clinico del paziente (regressione di ascite ed edemi) e in assenza di complicanze (sviluppo di encefafigura 1 ecografia dell ’addome. fegato disomogeneo ed abbondante versamento ascitico (lato sinistro), cospicua splenomegalia (lato destro) figura 2 egds che evidenzia segni di ipertensione portale con varici esofagee (lato sinistro) e severa gastropatia congestizia (lato destro) sintesi epatica (inr, international normalized ratio = 1,85; albumina = 2,65 g/dl) e marcato incremento della bilirubinemia in entrambe le frazioni (bilirubina totale = 9,8 mg/dl). veniva effettuata ecografia dell’addome (figura 1) che confermava la presenza di un fegato cirrotico senza lesioni focali; la vena porta e le vene sovraepatiche apparivano pervie; i reni avevano dimensioni normali e le vie escretrici non erano dilatate. una egds evidenziava la presenza di varici esofagee f2 blu con segni rossi ++ e una gastropatia congestizia severa (figura 2). inoltre veniva effettuata una valutazione cardiologica: all’ecg vi era ritmo sinusale con frequenza 60 bpm e bigeminismo ventricolare e all’ecocardiogramma si dimostrava un ventricolo sinistro con buona frazione di eiezione e normale cinesi segmentaria (figura 3). veniva reimpostata la terapia diuretica, con furosemide 160 mg/die e canrenoato 400 mg/die, associata a dieta iposodica 90 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 33 l. varvello, c. arnò, a. bosio, f. cerrato, g. monaco, c. pascale lopatia, incremento dei valori di creatininemia, alterazioni elettrolitiche) [4]. in corso di terapia diuretica in paziente cirrotico con ascite va posta particolare attenzione all’andamento degli elettroliti. una temibile complicanza è rappresentata dall’insorgenza di iponatremia, che si sviluppa in un paziente con pool di sodio aumentato. è dovuta a incapacità del rene di eliminare acqua libera. in caso di iponatremia lieve-moderata (concentrazione sierica di na+ > 130 mmol/l) può essere proseguita terapia diuretica, in associazione con restrizione idrica [3]. in presenza di iponatremia grave (na+ < 120 meq/l) o sintomatica occorre sospendere terapia diuretica ed effettuare espansione dei volumi plasmatici [4]. gli obiettivi di una terapia diuretica in un paziente cirrotico con ascite debbono inoltre tenere conto di un fondamentale presupposto fisiopatologico onde evitare di provocare una deplezione dei volumi plasmatici: la velocità massima di riassorbimento del liquido ascitico è di circa 700-900 ml al giorno [6]. nel caso in esame, inoltre, l’incremento dei valori di creatininemia, rispetto a precedenti controlli, suggeriva la possibilità di un quadro di insufficienza renale ipovolemica che consigliava una rivalutazione dell’impiego del diuretico dell’ansa [2]. nei pazienti con cirrosi epatica si definisce “insufficienza renale” un incremento dei valori di creatininemia superiore a 1,5 mg/dl [2]. l’insufficienza renale in corso di cirrosi epatica riconosce come cause la sindrome epato-renale e l’ipovolemia, accomunate da un sedimento urinario indenne, le nefropatie parenchimali e indotte da farmaci, che presentano sedimento urinario alterato [2]. la forma prerenale-ipovolemica viene corretta dall’espansione dei volumi plasmatici, mentre la sindrome epatorenale non viene corretta con sola sospensione della terapia diuretica ed espansione volumetrica [2]. nel caso descritto, durante la degenza l’esecuzione della paracentesi evacuativa si rendeva necessaria al fine di controllare la sintomatologia del paziente, caratterizzata da importante tensione addominale. la precoce ricomparsa di ascite dopo sua mobilizzazione è un criterio soddisfacente la definizione di refrattarietà dell’ascite [4]. il decremento dei valori di creatininemia ottenuto con l’impiego di infusione di albumina in corso e dopo paracentesi al fine di prevenire la disfunzione emodinamica post paracentesi da ipovolemia [7], confermava paziente in esame. applicando la classificazione secondo child-turcotte-pugh il paziente totalizzava un punteggio di 11, che lo poneva in classe c, ossia con una mortalità parametro esiti proteine 14 g/l leucociti 200/mm3 albumina siero/liquido ascitico (saag) 1,25 g/l glucosio 106 mg/dl ldh 94 u/l amilasi 16 u/l citologico negativo colturale per aerobi negativo colturale per anaerobi negativo tabella i caratteristiche fisicochimiche e biologiche del liquido ascitico estratto figura 3 ecocardiogramma che evidenzia buona frazione di eiezione (67%) del ventricolo sinistro (lato sinistro) e normale cinesi segmentaria (lato destro) l’indicazione a un adeguato riempimento volumetrico. la necessità di paracentesi ripetute imponeva la valutazione di possibili opzioni alternative di trattamento: transjugular intrahepatic portosystemic shunt (tips) e trapianto epatico ortotopico (olt). preliminarmente a tali valutazioni era opportuno effettuare una buona stratificazione prognostica del valore di inr 1,85 valore di bilirubina 9,8 mg/dl valore di creatinemia 1,4 mg/dl dialisi almeno due volte nell’ultima settimana no punteggio meld 25 tabella ii determinazione del punteggio meld del paziente in esame, integrando i parametri di inr (international normalized ratio), bilirubina, creatininemia [9] a un anno pari al 50% [8]. la grave compromissione di questo paziente risultava assai più evidente andando a determinare il model for end-stage liver disease score (meld score) [9]. tale punteggio deriva dall’integrazione dei valori dell’international normalized ratio (inr) per il tempo di protrombina (indice di sintesi epatica), della ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)34 un caso di ascite refrattaria bilirubina totale (parametro di funzionalità epatocitaria complessa) e della creatinina sierica (indice di funzionalità renale). il paziente in esame totalizzava un punteggio di 25 (tabella ii), determinante una mortalità a tre mesi del 76% (tabella iii) [9]. il tips è un’opzione di trattamento dell’ascite recidivante da considerare allorché la frequenza di paracentesi necessarie a controllare l’ascite diviene inaccettabile. un criterio può essere quello di proporre il tips quando il numero di paracentesi è superiore a tre al mese [10]. posto a confronto con la paracentesi evacuativa il tips è indubbiamente efficace nel controllo del versamento ascitico, ma i suoi effetti sulla sopravvivenza permangono contraddittori [11-13]. si associa a episodi severi di encefalopatia epatica più frequenti [11,12], ma a una minore incidenza di sindrome epatorenale [11]. il paziente in esame presentava almeno due controindicazioni relative al tips: l’elevato punteggio di child e i valori di bilirubinemia molto aumentati. il trapianto epatico è l’unico trattamento che ha sicuramente un impatto positivo sulla sopravvivenza, ma il paziente cirrotico con ascite refrattaria ha spesso mortalità in lista di attesa di trapianto. la presenza di ascite refrattaria è un fattore prognostico negativo anche per il trapianto: il paziente ascitico ha maggiore rischio di sviluppare infezione (peritonite batterica spontanea) e insufficienza renale nel primo periodo post trapianto [14]. inoltre, avendo il paziente un età di 64 anni, si pone al limite delle possibilità attuali di inserimento in lista di trapianto epatico; nel 2003 tra le sue raccomandazioni circa il trapianto di fegato non urgente dell’adulto la commissione di studio dell’aisf (associazione italiana per lo studio del fegato) ha ritenuto che in relazione alla situazione italiana il limite di età per il trapianto epatico possa essere sino a un massimo di 65 anni, purché in assenza di significative comorbilità. durante la degenza, però, il paziente andava incontro a incremento stabile dei valori della creatininemia che non rispondeva alla sospensione della terapia diuretica, all’espansione dei volumi plasmatici attuata mediante albumina e alla azione vasocostrittrice di terlipressina [15,16]. il quadro clinico di sindrome epatorenale che si veniva a configurare comprometteva ulteriormente una situazione clinica già grave. la complessità fisiopatologica di tale quadro è evidenziata dai molteplici approcci terapeutici descritti in letteratura, con presidi farmacologici diversi: terlipressina [15,17], noradrenalina [18], midodrina e octreotide [19], accomunati da una prognosi a breve-medio termine assai compromessa. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. bibliografia arroyo v, ginès p, gerbes al, dudley fj, gentilini p, laffi g et al. definition and diagnostic 1. criteria of refractory ascites and hepatorenl syndrome in cirrhosis. international ascites club. hepatology 1996; 23: 164-76 ginès p, schrier rw. renal failure in cirrhosis. 2. n engl j med 2009; 361: 1279-90 pedretti g. l’apporto di sodio e acqua nel cirrotico con ascite. basi fisiopatologiche di un corretto 3. comportamento clinico. ital j med 2007; 3: 1-4 moore kp, wong f, ginès p, bernardi m, ochs a, salerno f et al. the management of ascites 4. in cirrhosis: report on the consensus conference of the international ascites club. hepatology 2003; 38: 258-66 bernardi m, servadei d, trevisani f, rusticali ag, gasbarrini g. importance of plasma 5. aldosterone concentration on the natriuretic effect of spironolactone in patients with liver cirrhosis and ascites. digestion 1985; 31: 189-93 sherlock s, dooley j. diseases of the liver and biliary system. oxford: blackwell scientific 6. publication, 1993 tabella iii mortalità a tre mesi del paziente ospedalizzato per end-stage liverdisease sulla base del punteggio meld [9] meld < 9 10-19 20-29 30-39 > 40 ospedalizzato 4% 27% 76% 83% 100% ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 35 l. varvello, c. arnò, a. bosio, f. cerrato, g. monaco, c. pascale ginès p, fernandez-esparrach g, monescillo a, villa c, domenech e, abecasis r et al. 7. randomized trial comparing albumin, dextran 70, and polygeline in cirrhotic patients with ascites treated by paracentesis. gastroenterology 1996; 111: 1002-10 d’amico g, garcia-tsao g, pagliaro l. natural history and prognostic indicators of survival 8. in cirrhosis: a systematic review of 118 studies. j hepatol 2006; 44: 217-31 kamath ps, wiesner rh, malinchoc m, kreumers w, therneau tm, kosberg cl et al. a model 9. to predict survival in patients with end-stage liver disease. hepatology 2001; 33: 464-70 rossle m, ochs a, gulberg v, siegerstetter v, holl j, deibert p et al. a 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midodrine and octeotide. hepatology 1999; 29: 1690-7 23 clinical management issues durante il ricovero inizialmente era stata impiegata terapia citoriduttiva con citarabina in infusione continua e idrossiurea per os, che avevano portato a una progressiva riduzione della leucocitosi, indi si era passati a trattamento con imatinib, inibitore delle tirosin-chinasi (tki), al dosaggio di 400 mg/die. caso clinico nel marzo 2011 viene riferito presso il nostro centro un ragazzo egiziano di 22 anni affetto da leucemia mieloide cronica diagnosticata nel settembre dell’anno precedente presso un altro ospedale. il paziente era stato ricoverato per priapismo secondario a leucocitosi severa (gb 318.000/mm3) e anemia normocromicanormocitica (hb 11 g/dl). all’esame obiettivo era presente splenomegalia, con volume della milza che, all’ecografia, misurava 180 mm x 70 mm. la valutazione morfologica e citogenetico-molecolare su sangue midollare concludeva per leucemia mieloide cronica ph+. l’alterazione citogenetica era presente nella totalità delle metafasi analizzate e il trascritto di fusione era risultato essere b2a2. sulla scorta dei dati clinico-laboratoristici il rischio sokal era risultato intermedio. perché descriviamo questo caso per mostrare come nei pazienti con risposta sub-ottimale a imatinib, lo switch precoce a un inibitore delle tirosin-chinasi (tki) di seconda generazione permetta di ottenere rapidamente ottime risposte con un conseguente miglioramento sia della overall survival (os) sia della event free survival (efs) corresponding authordott.ssa alessandra iurlo aiurlo@policlinico.mi.it caso clinico abstract we report a case of excellent response to nilotinib in a 22 years old man with chronic myeloid leukemia in suboptimal response to imatinib. after diagnosis he started cytoreductive therapy with cytarabine and hydroxyurea, then he begun therapy with imatinib 400 mg/day. after 3 months of treatment, he obtained a complete hematologic response (chr) and a minor cytogenetic response (minor cyr). at 6 months chr was confirmed, but bone marrow analysis showed increasing number of ph+ cells (minimal cyr) and non significant reduction of bcrabl levels. according to eln (european leukemianet) guidelines, this is considered a suboptimal response. clonal evolution, kinase domain mutations and reduced drug intake were excluded, thus we decided to early switch to nilotinib at 400 mg/bid. after 3 months of treatment we obtained a complete cytogenetic response (ccyr) and a strong reduction of bcr-abl transcript, almost reaching a major molecular response (mmr). keywords: chronic myeloid leukemia; early switch; nilotinib early switch to nilotinib in a case of non-optimal response to imatinib cmi 2011; 5(suppl 6): 23-26 1 divisione di ematologiafondazione ca’ granda, ospedale policlinico, università di milano alessandra iurlo 1, tommaso radice 1, chiara de philippis 1, manuela zappa 1, mauro pomati 1, agostino cortelezzi 1 switch precoce a nilotinib in un caso di risposta non ottimale a imatinib disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. 24 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) switch precoce a nilotinib in un caso di risposta non ottimale a imatinib a 3 mesi dall’inizio di tale terapia è stata eseguita una nuova valutazione midollare che ha mostrato l’ottenimento di una ccyr [50/50] e un netto decremento del trascritto di fusione (0,96% is), trascritto che è risultato ulteriormente ridotto a un controllo successivo (0,13% is). discussione l e raccomandazioni dell’european leukemia net (eln) [1] e dell’european society for medical oncology (esmo) [2] hanno introdotto nel 2009 il concetto di risposta sub-ottimale, riconoscendo una classe di pazienti nei quali l’outcome potrebbe non essere favorevole come per i pazienti ottimali. d’altra parte il valore predittivo che l’ottenimento della ccyr ha sull’outcome era già stato ampiamente dimostrato nello studio iris; infatti, nei pazienti che avevano ottenuto la ccyr, la overall survival (os) e la event free survival (efs) risultavano essere rispettivamente del 86% e 81% a 7 anni [3]. tale aspetto è stato in seguito confermato anche in pazienti in fase cronica tardiva [4], diventando quindi una pietra miliare nel trattamento dei pazienti con lmc. più recentemente particolare enfasi è stata data al timing dell’ottenimento della risposta citogenetica completa, in quanto la probabilità di raggiungerla si riduce progressivamente nel tempo [5,6,7]. come illustrato nella tabella ii, infatti, la percentuale di pazienti che raggiungono la ccyr non avendola ancora ottenuta a 3, 6, 12 mesi decresce in maniera statisticamente significativa (75% vs 57% vs 42%, p = 0,002). nello stesso studio è anche emerso che il conseguimento della ccyr impatta sulla probabilità di ottenere risposta molecolare maggiore (mmr), e anche in questo caso la differenza è statisticamente significativa (62% vs 43% vs 31%, p = 0,004). è inoltre da sottolineare che le risposte a 3 o 6 mesi hanno un valore predittivo qualitativamente differente da quelle ottenute a 12 domande da porsi y qual è il significato dell ’ottenimento della ccyr? y come il timing di raggiungimento della ccyr influenza la os e la efs? y che correlazione c’è tra ottenimento della ccyr e della mmr? periodo evento risultati settembre 2010 diagnosi lmc (rischio intermedio secondo sokal) inizia imatinib 400 mg/die ottobre 2010 follow-up mese +1 risposta ematologica completa dicembre 2010 follow-up mese +3 risposta citogenetica minore q-rt-pcr 62% marzo 2011 follow-up mese +6 risposta citogenetica minima q-rt-pcr 35,61% giugno 2011 follow-up mese +9 ricerca mutazioni puntiformi switch a nilotinib 800 mg/die q-rt-pcr 20,16% assenti ottobre 2011 follow-up mese +3 risposta citogenetica completa q-rt-pcr 0,961% dicembre 2011 ultimo monitoraggio molecolare q-rt-pcr 0,1321% tabella i. sintesi della storia clinica del paziente outcome dei pazienti (%) mesi di trattamento n (%) in ccyr n (%) non in ccyr ccyr mmr evento 3 143 (56) 109 (43) 75 62 23 6 190 (79) 47 (20) 57 43 34 12 200 (85) 26 (12) 42 31 38 p 0,002 0,004 0,16 tabella ii. outcome dei pazienti in relazione alla ccyr ottenuta o meno a specifici timepoints durante terapia con imatinib (modificato da [6]) alla rivalutazione a 3 mesi dall’inizio della terapia con tki, era stata ottenuta, oltre alla risposta ematologica completa (chr), una risposta citogenetica minore (minor cyr) con il 65% di metafasi ph+. il numero di copie di trascritto ibrido normalizzato rispetto al controllo ed espresso in percentuale secondo scala internazionale (is) era del 62%; veniva quindi mantenuta la terapia con imatinib senza particolari effetti collaterali. alla rivalutazione a 6 mesi si manteneva la chr, ma l’analisi citogenetica mostrava il cromosoma ph+ nell’86% delle metafasi (minimal cyr). in accordo con le raccomandazioni dell’european leukemianet la risposta era dunque da considerarsi subottimale. l’analisi molecolare evidenziava un trascritto pari al 35,61% is. il paziente veniva inviato presso il nostro centro e, in considerazione dei dati sopra riportati, si provvedeva ad attivare la ricerca mud (matched unrelated donor) in quanto non era possibile verificare con certezza la completa compatibilità hla con la sorella (il test era stato eseguito fuori italia con una tecnica a bassa risoluzione) e ci si riservava di attendere una nuova rivalutazione molecolare prima di decidere eventuali cambiamenti terapeutici. a 9 mesi, come riassunto nella tabella i, non era ancora stato ottenuto un miglioramento significativo della risposta molecolare. nell’ipotesi di resistenza veniva eseguita la ricerca di mutazioni puntiformi, risultate assenti, e modificato l’approccio terapeutico, sostituendo imatinib con nilotinib al dosaggio di 400 mg per  2/die. 25 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) a. iurlo, t. radice, c. de philippis, m. zappa, m. pomati, a. cortellezzi risultati ancora più incoraggianti sono riportati nei pazienti trattati in prima linea con nilotinib [9,12,13]. nel nostro caso abbiamo osservato, a distanza di soli 3 mesi dall’inizio del trattamento con nilotinib, l’ottenimento di ccyr e una drammatica riduzione del trascritto di fusione che è passato dal 20,16% allo 0,96% (is). tale evento è risultato ancora più evidente all’ultimo controllo effettuato, quando il valore ottenuto è stato di 0,13% (is). il farmaco, peraltro ben tollerato, non ha causato alterazioni biochimiche ed elettrocardiografiche e, al momento, visti gli ottimi risultati ottenuti, l’opzione trapiantologica è stata accantonata. nell’ambito del continuo evolversi dello scenario terapeutico, sarebbe auspicabile che i pazienti in risposta sub-ottimale usufruiscano precocemente di uno switch a tki di seconda generazione, farmaci che permettono di ottenere risposte sempre più precoci e più profonde. punti chiave y nei casi di risposta sub-ottimale è consigliabile un cambio precoce di terapia y nilotinib si conferma essere un potente e selettivo inibitore di bcr-abl o 18 mesi. uno studio dell’m.d. anderson cancer center su 281 pazienti in fase cronica ha infatti dimostrato una notevole differenza in termini di efs e treatment free survival (tfs) a 4 anni tra i pazienti definiti ottimali e sub-ottimali (tabella iii) [8]. nel caso riportato, a 6 mesi dall’inizio della terapia con imatinib, era stata riscontrata una minimal cyr e il paziente era quindi stato considerato in risposta sub-ottimale. pazienti con tale risposta rappresentano una sfida dal punto di vista terapeutico e in letteratura ci sono ancora pochi dati derivanti da trials clinici che indichino quale sia la strategia migliore da seguire in questi casi [8]. le opzioni terapeutiche nel subset dei pazienti sub-ottimali contemplano l’incremento del dosaggio di imatinib o lo switch terapeutico a tki di ii generazione. recentemente lo studio enestnd ha dimostrato che l’incremento del dosaggio di imatinib può non essere una valida opzione terapeutica in quanto i pazienti trattati con la dose escalation non avevano ottenuto alcun miglioramento nel 57% dei casi [9,10]. a questo punto, dopo esserci accertati della corretta assunzione del farmaco e in considerazione anche della giovane età del paziente, abbiamo optato per uno switch a tki di seconda generazione con nilotinib, un potente inibitore selettivo di bcr-abl che presenta una migliore specificità rispetto a imatinib [11]. l’utilizzo di tale farmaco trova impiego nei casi resistenti o intolleranti a imatinib e, più recentemente, anche come trattamento di prima linea. la mcyr e la ccyr nei pazienti trattati in seconda linea con nilotinib viene ottenuta rispettivamente nel 59% e nel 44% dei casi, con una os a 24 mesi dell’87%. tale dato è da riferirsi ai pazienti che, in terapia con imatinib, non avevano perso la risposta ematologica ma presentavano intolleranza/resistenza [11]. probabilità di raggiungere i risultati indicati (%) outcome efs 4 anni tfs 4 anni ccyr mai raggiunta mmr mai raggiunta trasformazione risposta opt sub-opt opt sub-opt opt sub-opt opt sub-opt opt sub-opt mesi di trattamento 6 mesi 93 45 95 60 97 30 80 0 6 30 12 mesi 96 87 96 93 72 18 82 39 5 5 18 mesi nd nd nd nd na na na 66 4 5 tabella iii. outcomes a lungo termine in relazione alla risposta a imatinib (ottimale vs sub-ottimale) o alla mmr a 6,12 e 18 mesi (modificato da [8]) ccyr = complete cytogenetic response mmr = major molecular response efs = event free survival na = non applicabile nd = non disponibile opt = ottimale sub-opt = sub-ottimale tfs = treatment free survival a 3 mesi dall’inizio di tale terapia è stata eseguita una nuova valutazione midollare che ha mostrato l’ottenimento di una ccyr [50/50] e un netto decremento del trascritto di fusione (0,96% is), trascritto che è risultato ulteriormente ridotto a un controllo successivo (0,13% is). discussione l e raccomandazioni dell’european leukemia net (eln) [1] e dell’european society for medical oncology (esmo) [2] hanno introdotto nel 2009 il concetto di risposta sub-ottimale, riconoscendo una classe di pazienti nei quali l’outcome potrebbe non essere favorevole come per i pazienti ottimali. d’altra parte il valore predittivo che l’ottenimento della ccyr ha sull’outcome era già stato ampiamente dimostrato nello studio iris; infatti, nei pazienti che avevano ottenuto la ccyr, la overall survival (os) e la event free survival (efs) risultavano essere rispettivamente del 86% e 81% a 7 anni [3]. tale aspetto è stato in seguito confermato anche in pazienti in fase cronica tardiva [4], diventando quindi una pietra miliare nel trattamento dei pazienti con lmc. più recentemente particolare enfasi è stata data al timing dell’ottenimento della risposta citogenetica completa, in quanto la probabilità di raggiungerla si riduce progressivamente nel tempo [5,6,7]. come illustrato nella tabella ii, infatti, la percentuale di pazienti che raggiungono la ccyr non avendola ancora ottenuta a 3, 6, 12 mesi decresce in maniera statisticamente significativa (75% vs 57% vs 42%, p = 0,002). nello stesso studio è anche emerso che il conseguimento della ccyr impatta sulla probabilità di ottenere risposta molecolare maggiore (mmr), e anche in questo caso la differenza è statisticamente significativa (62% vs 43% vs 31%, p = 0,004). è inoltre da sottolineare che le risposte a 3 o 6 mesi hanno un valore predittivo qualitativamente differente da quelle ottenute a 12 domande da porsi y qual è il significato dell ’ottenimento della ccyr? y come il timing di raggiungimento della ccyr influenza la os e la efs? y che correlazione c’è tra ottenimento della ccyr e della mmr? periodo evento risultati settembre 2010 diagnosi lmc (rischio intermedio secondo sokal) inizia imatinib 400 mg/die ottobre 2010 follow-up mese +1 risposta ematologica completa dicembre 2010 follow-up mese +3 risposta citogenetica minore q-rt-pcr 62% marzo 2011 follow-up mese +6 risposta citogenetica minima q-rt-pcr 35,61% giugno 2011 follow-up mese +9 ricerca mutazioni puntiformi switch a nilotinib 800 mg/die q-rt-pcr 20,16% assenti ottobre 2011 follow-up mese +3 risposta citogenetica completa q-rt-pcr 0,961% dicembre 2011 ultimo monitoraggio molecolare q-rt-pcr 0,1321% tabella i. sintesi della storia clinica del paziente outcome dei pazienti (%) mesi di trattamento n (%) in ccyr n (%) non in ccyr ccyr mmr evento 3 143 (56) 109 (43) 75 62 23 6 190 (79) 47 (20) 57 43 34 12 200 (85) 26 (12) 42 31 38 p 0,002 0,004 0,16 tabella ii. outcome dei pazienti in relazione alla ccyr ottenuta o meno a specifici timepoints durante terapia con imatinib (modificato da [6]) 26 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) switch precoce a nilotinib in un caso di risposta non ottimale a imatinib bibliografia 1. baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, saglio g, apperley j et al. chronic myeloid leukemia. an update of concepts and management recommendations of european leukemia net. j clin oncol 2009; 27: 1-11 2. baccarani m, dreyling m. chronic myelogenous leukemia: esmo clinical recommendations for diagnosis, treatment and follow-up. ann oncol2009; 20 (suppl 4): 105-7 3. druker bj, guilhot f, o’brien sg, gathmann i, kantarjian h, gattermann n et al. five-years follow-up of patients receiving imatinib for chronic myeloid leukemia. n engl j med2006; 355: 2408-17 4. palandri f, iacobucci i, martinelli g, amabile m, poerio a, testoni n et al. longterm outcome of complete cytogenetic responders after 400 mg in late chronic phase, philadelphia positive chronic myeloid leukemia: the gimema working party on cml. j clin oncol 2008; 26: 106-11 5. cortes je. not only response but early response to tyrosine kinase inhibitors in chronic myeloid leukemia. j clin oncol 2011; 26: 1-2 6. quintàs-cardama a, kantarjian h, jones d, shan j, borthakur g, thomas d et al. delayed achievement of cytogenetic and molecular response is associated with increased risk of progression among patients with chronic myeloid leukemia in early chronic phase receiving high-dose or standard-dose imatinib therapy. blood2009; 113: 6315-21 7. jabbour e, kantarjian h, o’brien s, shan j, quintàs-cardama a, faderl s et al. the achievement of an early complete cytogenetic response is a major determinant for outcome in patient with tyrosine kinase inhibitors. blood 2011; 118: 4541-6 8. jabbour e, saglio g, hughes tp, kantarjian h. suboptimal responses in chronic myeloid leukemia. cancer 2011. doi: 10.1002/cncr.26391 9. kantarjan hm, hochhaus a, saglio g, de souza c, flinn iw, stenke l et al. nilotinib versus imatinib for the treatment of patients with newly diagnoser chronic phase, philadelphia chromosome-positive, chronic myeloid leukaemia: 24-month minimum follow-up of the phase 3 randomised enestnd trial. lancet oncol 2011; 12: 841-51 10. saglio g, hochhaus a, guilhot f, gattermann n, wang mc, de souza c et al. nilotinib is associated with fewer treatment failures and suboptimal responses vs imatinib in patients with newly diagnosed ph+ chronic myeloid leukemia in chronic phase (cml-cp): results from enestnd. haematologica 2011; 96(s2): 58-59 abstract 155 11. kantarjian hm, giles fj, bhalla kn, pinilla-ibarz j, larson ra, gottermann n et al. nilotinib is effective in patients with chronic myeloid leukemia in chronic phase after imatinib resistance or intollerance: 24-mounth follow-up results. blood 2011; 117: 1141-5 12. rosti g, castagnetti f, palandri f, breccia m, levato l, gugliotta g et al. nilotinib for the frontline tratment of ph+ chronic myeloid leukemia. blood 2009; 114: 4933-8 13. cortes j, o’brien s, jones d, ferrajoli a, konopleva m, borthakur g et al. efficacy of nilotinib (formerly amn107) in patients with newly diagnosed, previously untreated philadelphia chromosome (ph)-positive chronic myelogenous leukemia in early chronic phase (cmlcp). blood 2008; 112:170 abstract 446 importanza della comorbidità e utilità dell’“early shift” terapeutico nella gestione del paziente con lmc fabio stagno 1 efficacia di nilotinib come terza linea di terapia in un paziente con leucemia mieloide cronica di lunga durata e possibile controindicazione cardiologica ester maria orlandi 1, sara redaelli 2 efficacia di uno switch precoce a nilotinib in paziente affetto da leucemia mieloide cronica in risposta non ottimale a imatinib ferdinando porretto 1 nilotinib è efficace e ben tollerato in pazienti con comorbidità multiple carmen fava 1, marco fizzotti 2, giuseppe saglio 1, giovanna rege-cambrin 1 switch precoce a nilotinib in un caso di risposta non ottimale a imatinib alessandra iurlo 1, tommaso radice 1, chiara de philippis 1, manuela zappa 1, mauro pomati 1, agostino cortelezzi 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1) 3 clinical management issues del mediastino. nulla da segnalare a livello di fegato, milza, pancreas e reni. in sede pelvica presenza di un processo espansivo solido, disomogeneo dopo infusione del mezzo di contrasto, a contorni lobulati del diamecaso clinico il caso clinico in esame riguarda un uomo di 51 anni, con anamnesi negativa per patologia degna di nota, che viene ricoverato alla fine del mese di ottobre 2006 per crisi lipotimica e dolore addominale insorto da alcune ore. all’esame clinico presenta addome teso, trattabile, diffusamente dolente alla palpazione, con dolenzia più accentuata ai quadranti inferiori, peristalsi presente. il paziente risulta lievemente ipoteso (pa 90/60 mmhg) e all’ecg viene riscontrato ritmo sinusale regolare e fc = 90 bpm. gli esami di laboratorio risultano nei limiti della norma a eccezione di una moderata anemia normocromica.ves 24, markers tumorali: cea e ca 19.9 nella norma. dopo esame ecografico dell’addome con riscontro di versamento endoaddominale, l’esame tc toraco-addominale, eseguito in urgenza, evidenzia: non lesioni infiltrative del parenchima polmonare né adenopatie corresponding author dott. ivan lolli ivanlolli1@tin.it caso clinico abstract the management of gastrointestinal stromal tumours (gists) has evolved rapidly since imatinib was introduced. surgery remains the first-line treatment for localised, primary gist, but the risk for local or metastatic relapse of disease is very high. prognostic assessment is a critical part of developing a treatment strategy. perforation or rupture of a gist to the abdominal cavity has a very high risk for recurrence. we described the case of a 51-year-old man with a haemoperitoneum caused by a ruptured primary gist of the small intestine. after complete surgical resection, imatinib given for two years as adjuvant therapy achieved no disease progression after prolonged follow-up. keywords: ruptured gastrointestinal stromal tumour (gist ), small intestine, adjuvant imatinib a ruptured gastrointestinal stromal tumour of the small intestine: a case report cmi 2011; 5(suppl.1): 3-9 1 oncologia medica, irccs saverio de bellis, castellana grotte (ba) 2 chirurgia generale c. righetti, policlinico bari 3 anatomia patologica, policlinico bari 4 radiologia, irccs saverio de bellis, castellana grotte (ba) 5 gastroenterologia, irccs saverio de bellis, castellana grotte (ba) ivan lolli 1, sergio diotaiuti 2, silvana russo 3, giovanna a. campanella 1, nicola giampaolo 3, gioacchino leandro 5, vincenzo defilippis 1 un caso di tumore stromale gastrointestinale del piccolo intestino complicato da rottura tumorale perché descriviamo questo caso per evidenziare l ’importanza di un’attenta analisi dei parametri prognostici di stratificazione del rischio e dei fattori predittivi di risposta alla terapia al fine di individualizzare il decorso clinico della malattia e personalizzare il trattamento mediante imatinib in adiuvante. infatti, il decorso clinico dei gist, relativamente indolente, è difficilmente prevedibile nel singolo paziente, anche dopo chirurgia radicale con margini negativi, a causa dell ’elevata tendenza alla recidiva locale e alla metastatizzazione di tali tumori disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1)4 un caso di tumore stromale gastrointestinale del piccolo intestino complicato da rottura tumorale ne anse del tenue con presenza di livelli idroaerei, assenza di segni di pneumoperitoneo) e a procedere a intervento chirurgico d’urgenza. effettuata una laparotomia mediana, l’esplorazione chirurgica evidenzia presenza di abbondante quantità di sangue libero in addome. dopo toilette, la fonte del sanguinamento è individuata in una voluminosa neoplasia di circa 10 cm di diametro localizzata a livello del digiuno, circa 1 metro a valle del treitz, plurilobata, con profonda soluzione di continuo sulla superficie, in corrispondenza della quale sono presenti segni di recente sanguinamento. l’ansa interessata, a seguito dell’intima adesione tra la neoplasia e il peritoneo prevescicale e parieto-colico sinistro, appare fissa nella pelvi e angolata, con dilatazione dei tratti a monte. effettuata la lisi aderenziale, la neoplasia si rivela originare dallo strato più superficiale della parete digiunale con la quale è in continuità per mezzo di un breve peduncolo. si decide, pertanto, verificata la buona pervietà del lume, di eseguire resezione tangenziale meccanica. risultando negativa l’esplorazione dei restanti visceri addominali, l’intervento è concluso con il perfezionamento dell’emostasi ed è ritenuto r1 a seguito della rottura della neoplasia. diagnosi clinica: occlusione intestinale ed y emoperitoneo da rottura di voluminosa neoplasia digiunale (probabile gist). referto istopatologico: reperto macroy scopico costituito da neoformazione di 10 × 7 × 4 cm a contorni policiclici, di colorito grigio con screziatura rossastra in superficie ed ancor più in sezione con importanti aspetti emorragici e necrotici. diagnosi istopatologica: tumore stromale y gastrointestinale (gist) con prevalenti aspetti fusati, a rischio intermedio (localizzazione nel piccolo intestino, fino a 5 mitosi/50 campi a forte ingrandimento, diametro della neoplasia fino a 10 cm) [1]. sulla base della rottura tumorale, il paziente diventa ad alto rischio. il patologo segnala come la presenza d’importanti aspetti necrotico-emorragici, evidenti anche a livello dei margini di resezione, non consente un giudizio di certezza sulla radicalità dell’intervento chirurgico. immunofenotipo della popolazione neoy plastica: positivo per cd117 e, focalmente, per actina del muscolo liscio; negativo per cd34, proteina s-100, hmb-45, desmina e citocheratina ae1-ae3. la frazione proliferante (ki-67) è pari al 5%. tro massimo di circa 8 × 7 cm, a verosimile partenza da un’ansa ileale che appare substenotica con discreta dilatazione a monte. vescica regolare. abbondante versamento in cavità addominale (figura 1). il paziente viene sottoposto a valutazione endoscopica del colon risultata nella norma. il peggioramento delle condizioni cliniche generali con anemizzazione progressiva (hb figura 1 referto tc multistrato in cui si evidenzia, in sede pelvica, espanso solido e disomogeneo con aree colliquative contestuali associato a falda fluida contigua figura 2 referto pet-tc che evidenzia l ’accumulo del radiofarmaco in sede parietoaddominale da 11,5 a 9,2 g/dl nei controlli successivi), addome globoso e dolente su tutti i quadranti, alvo chiuso a feci e gas, induce ad eseguire rx diretta addome (sovradistensione di alcu©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1) 5 i. lolli, s. diotaiuti, s. russo, g. a. campanella, n. giampaolo, g. leandro, v. defilippis me di prima istanza per rilevare la presenza di falde fluide nella cavità peritoneale. è una metodica dotata di elevata sensibilità ma la stima dell’entità del versamento peritoneale, importante ai fini della scelta terapeutica, è spesso difficile e soggettiva. la tomografia computerizzata (tc) è la metodica di imaging dotata di maggiore affidabilità nella ricerca di versamenti e nella valutazione di parenchimi, organi cavi, mesentere e vasi. la tc multistrato, per la migliore qualità delle immagini e la possibilità di ricostruzioni tridimensionali, riveste un ruolo di fondamentale importanza nell’identificazione e nella stadiazione dei gist, permettendo di definire con precisione volume e rapporti con gli organi vicini e di individuare eventuali localizzazioni a distanza. gli oncogeni responsabili dello sviluppo dei gist, che, a seguito di mutazioni primarie, diventano costitutivamente attivi sono c-kit (recettore cd117) nell’80% dei casi e, in minor misura, pdgfra (platelet derived growth factor receptor alpha) nel 5-10%. le mutazioni di kit interessano in ordine decrescente di frequenza l’esone 11 (80%), l’esone 9 (10%), l’esone 13 (2%) e l’esone 17 (0,5%); quelle del gene pdgfra, l’esone 18 (80%) e, in una quota minore, l’esone 12 o 14. entrambe comportano attivazione costitutiva del recettore con aumento dell’attività proliferativa e della crescita tumorale. le mutazioni di kit e pdgfra sono mutuamente esclusive e l’attivazione di un gene sembra escludere quella dell’altro. in circa il 10% dei casi di gist non sono presenti mutazioni né di kit, né di pdgfra (gist wild-type) [1]. l’evoluzione clinica di tali neoplasie, radio e chemioresistenti, si caratterizza per una recidività correlata all’indice mitotico e alle dimensioni iniziali, con tendenza alla diffusione che si verifica elettivamente a livello peritoneale ed epatico. la chirurgia completa, senza dissezione dei linfonodi clinicamente negativi, rappresenta il trattamento principale per i gist localizzati ed è l’unica terapia che ha dimostrato un impatto sulla sopravvivenza a lungo termine. l’obiettivo della chirurgia è la rimozione completa del tumore (da evitare la rottura e la disseminazione intraperitoneale), con margini di resezione microscopicamente indenni (r0). il conseguimento di questo risultato rappresenta un importante fattore prognostico che è significativo ai fini della sopravvivenza (mediana di 46 mesi, in caso di resezione completa, contro mediana di 10 mesi, in caso di resezione incompleta-r2) analisi mutazionale: presenza di mutay zione dell’esone 11 (del 560-571) del gene c-kit valutata mediante pcr e sequenziamento diretto, nessuna mutazione degli esoni 9, 13, 17 e del gene pdgfr-alfa. il paziente inizia il trattamento in adiuy vante con imatinib mesilato alla dose di 400 mg/die. la dimissione del paziente avviene in dodicesima giornata dall’intervento, dopo un decorso postoperatorio privo di complicanze. la stadiazione successiva con tc total body risulta negativa per localizzazioni a distanza e la pet globale corporea eseguita in data 11.12.06 non evidenzia patologico accumulo del radiofarmaco a eccezione di un’area a livello parieto-addominale, in sede sottoxifoidea, da riferire a esito del recente intervento chirurgico (figura 2). discussione i tumori stromali gastrointestinali (gist) sono i più comuni tumori mesenchimali del tratto gastrointestinale (gi). trattasi di neoplasie rare (1,5 casi/100.000 persone/anno) che possono insorgere in qualsiasi tratto del canale alimentare, dalla metà distale dell’esofago alla regione ano-rettale. sedi comuni sono lo stomaco (60%), il piccolo intestino (digiuno e ileo, 30%) e, in minor misura, il duodeno (5 %), il colon-retto (<5 %), l’esofago, l’omento, il mesentere e il retro-peritoneo (< 1%) [2]. la presentazione clinica dei pazienti con gist varia notevolmente in rapporto alla sede anatomica, all’estensione e all’aggressività della malattia. in genere, i sintomi e i segni più comuni, ma spesso tardivi, sono: dolori addominali, sanguinamento gastrointestinale, anemia e presenza di una massa palpabile. una quota rilevante di pazienti, circa il 30%, è asintomatica alla diagnosi e tale rimane per gran parte del decorso clinico della malattia [3]. sviluppandosi dalla parete degli organi gastroenterici, i gist tipicamente formano masse di dimensioni variabili che, accrescendosi nella cavità addominale possono complicarsi determinando, come nel nostro caso, emorragie peritoneali, dolore addominale e anemizzazione. tali evenienze sono infrequenti ma, quando si verificano, rendono necessario ricorrere a una chirurgia d’urgenza [4,5]. più frequentemente il sanguinamento si verifica all’interno del lume intestinale con comparsa di melena, ematemesi e anemia. l’ecografia è, in genere, l’esa©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1)6 un caso di tumore stromale gastrointestinale del piccolo intestino complicato da rottura tumorale (a parità di dimensioni e indice mitotico la sede gastrica si caratterizza per un comportamento clinico meno aggressivo, rispetto al piccolo intestino). in questa classificazione di rischio vengono considerati 2 parametri per l’indice mitotico (≤ 5/50 hpf e > 5/50 hpf), 4 classi per la dimensione del tumore (≤ 2cm, > 2 ma ≤ 5cm, > 5 ma ≤ 10 cm e > 10 cm) e 4 localizzazioni per la sede tumorale (gastrica, duodenale, digiuno/ileo e retto) (tabella ii). agli estremi troviamo neoplasie a basso indice mitotico (< 5/50 hpf), piccole dimensioni (< 5 cm) e localizzazione gastrica, con percentuale di progressione di malattia e metastatizzazione < 5%, e neoplasie ad alto indice mitotico (> 5/50 hpf), grandi dimensioni (> 10 cm) e localizzazione digiuno ileale la cui percentuale di progressione e metastatizzazione è del 90% [1]. la stratificazione del rischio, sia secondo fletcher che miettinen, per dimensione, sede e indice mitotico, collocava il gist del nostro paziente nella classe a rischio intermedio di comportamento maligno, ma la rottura spontanea del tumore, che si era verificata con lo spandimento emorragico in peritoneo, induceva a considerare la neoplasia ad alto rischio di recidiva. la rottura della neo plasia, spontanea o nel corso di manovre chirurgiche, infatti, per la elevata possibilità di impianti tumorali intra-addominali è considerata fattore prognostico negativo per la recidiva e la diffusione peritoneale. la complicanza appare influenzare la sopravvivenza indipendentemente dalle dimensioni del tumore e dalla conta mitotica e comporta l’annullamento del vantaggio di sopravvivenza conferito dalla resezione completa (il decorso clinico e la sopravvivenza dei pazienti con rottura tumorale tendono a uniformarsi a quelli dei casi di gist non completamente resecati) (tabella [6]. dopo la chirurgia, la recidiva è un fenomeno frequente (sopravvivenza libera da recidiva, rfs, del 63% a 5 anni per i gist ad alto rischio completamente resecati), con un tempo mediano alla ricorrenza compreso tra 7 mesi e 2 anni [7]. un aspetto chiave nell’inquadramento del paziente è, pertanto, la valutazione del rischio di recidiva. a tale scopo sono stati analizzati vari aspetti istopatologici e clinici utili per un giudizio prognostico e per una terapia mirata. la classificazione proposta da fletcher nel 2002 individuava nelle dimensioni tumorali e nell’indice mitotico i più rilevanti fattori per la stratificazione del rischio dopo chirurgia dei pazienti affetti da gist con malattia localizzata e resecabili (tabella i). si distinguevano 4 categorie di pazienti: a rischio molto basso (diametro tumorale < 2 cm e < 5 mitosi/50 campi ad alto ingrandimento – hpf), basso (diametro 2-5 cm e < 5 mitosi/50 hpf), intermedio (diametro ≤ 5 cm e 6-10 mitosi/50 hpf oppure 5-10 cm e ≤ 5 mitosi/50 hpf) e alto (diametro > 5 cm e > 5 mitosi/50 hpf, oppure diametro > 10 cm indipendentemente dall’indice mitotico, oppure > 10 mitosi/50 hpf indipendentemente dalle dimensioni) [8]. nel 2006 miettinen e lasota, per una più corretta stima del rischio di ricaduta associato ai gist, estendevano i criteri prognostici associando alle dimensioni e all’indice mitotico la sede di insorgenza della neoplasia dimensioni del tumore (cm) conta mitotica (hpf) < 5/50 hpf 5-10/50 hpf > 10/50 hpf < 2 molto basso moderato alto 2-5 basso moderato alto 5-10 moderato alto alto > 10 alto alto alto tabella i rischio di recidiva in base a dimensioni del tumore e conta mitotica. modificata da [8] tabella ii rischio di recidiva in base alla localizzazione. modificato da [9] * da notare che in letteratura sono pochi i casi riportati con tali caratteristiche ° nessun tumore di tale categoria è stato incluso nello studio. da notare che i gist del piccolo intestino e gli altri gist dell’area intestinale mostrano una prognosi molto meno favorevole rispetto ai gist gastrici # questi gruppi sono stati riuniti a causa del basso numero di casi nei singoli gruppi conta mitotica dimensione (cm) rischio di progressione (rischio di metastasi) stomaco digiuno e ileo duodeno retto ≤ 5/50 hpf ≤ 2 0% (nessuno) 0% (nessuno) 0% (nessuno) 0% (nessuno) 2-5 1,9% (molto basso) 4,3% (basso) 8,3% (basso) 8,5% (basso) 5-10 3,6% (basso) 24% (moderato) 34% (alto)# 57% (alto)# > 10 12% (moderato) 52% (alto) 34% (alto)# 57% (alto)# > 5/50 hpf ≤ 2 0%* 50%* ° 54% (alto) 2-5 16% (moderato) 73% (alto) 50% (alto) 52% (alto) 5-10 55% (alto) 85% (alto) 86% (alto)# 71% (alto)# > 10 86% (alto) 90% (alto) 86% (alto)# 71% (alto)# ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1) 7 i. lolli, s. diotaiuti, s. russo, g. a. campanella, n. giampaolo, g. leandro, v. defilippis le mutazioni di kit a carico dell’esone 11 hanno una buona risposta alla terapia in oltre l’80% dei casi, le mutazioni a carico dell’esone 9 presentano una risposta intermedia, mentre le mutazioni dell’esone 13 e 17 sono associate a scarsa risposta. le mutazioni di pdgfr esone 18 sono sensibili al farmaco ma la più comune mutazione di questo esone, a carico del codone d842v, è associata a resistenza e cattiva risposta. i gist wild-type presentano in genere una scarsa risposta alla terapia. nel febbraio 2007 il paziente iniziava la terapia adiuvante con imatinib mesilato somministrato al dosaggio di 400 mg/die per due anni previa acquisizione del consenso informato scritto e dell’autorizzazione per l’uso off-label del farmaco (essendo imatinib indicato fino a quel momento solo nel trattamento della malattia non resecabile o metastatica). la durata della terapia per 24 mesi è stato il risultato di una decisione condivisa con il paziente, un compromesso tra la stima del rischio della malattia e la disponibilità a sottoporsi a una terapia in via di validazione. a consentire il completamento della durata programmata della terapia ha contribuito, d’altro canto, la buona tollerabilità del trattamento con imatinib. non si è verificata, infatti, tossicità di nessun grado, ematologica, gastrointestinale, del sistema epatobiliare o dell’apparato muscolo-scheletrico. gli effetti collaterali più comuni sono stati la comparsa di un modesto edema perimalleolare e periorbitale, ben controllato da una terapia diuretica a basso dosaggio e una moderata fatigue, più accentuata nelle prime settimane di trattamento che, comunque, non ha impedito lo svolgimento dell’abituale attività lavorativa. altro disturbo riferito è stata la saltuaria insorgenza durante la notte e, soprattutto, in seguito a esercizio fisico, di crampi muscolari agli arti inferiori che haniii) [10]. la rottura del tumore prima o durante l’intervento chirurgico con emorragia intraperitoneale è, inoltre, uno dei criteri che definisce l’alto rischio, insieme alle dimensioni tumorali ≥ 10 cm e alla presenza di metastasi peritoneali in numero < 5, dei 107 pazienti valutati nello studio z9000 dell’american college of surgeons oncology group (acosog). in questo studio multicentrico di fase ii, presentato inizialmente al “asco annual meeting 2005” [12], la somministrazione di imatinib in adiuvante entro 12 settimane dalla chirurgia completa, alla dose di 400 mg/die per un anno, era ben tollerata e determinava un prolungamento della sopravvivenza libera da recidiva (rfs) e di quella globale (os) rispetto ai controllo storico. l’os a 1, 2 e 3 anni era rispettivamente del 99%, 97% e 97% e la rfs a 1, 2 e 3 anni era rispettivamente del 94%, 73% e 61%. la os mediana del controllo storico (sottogruppo di pazienti con gist > 10 cm) era di 2 anni [13]. nei pazienti con malattia locale avanzata non operabile e nei pazienti con metastasi, imatinib, inibitore selettivo delle tirosin chinasi c-kit e pdgfra, ha rivoluzionato il paradigma di trattamento dei gist, e rappresenta oggi la terapia standard in grado di determinare incremento della sopravvivenza mediana da 10-12 mesi a 57 mesi. il successo terapeutico nelle fasi avanzate di malattia e la prospettiva, dai dati emergenti dalla letteratura [14], di poter offrire al nostro paziente ad alto rischio benefici clinici significativi derivati dalla riduzione della probabilità di ripresa di malattia, ha costituito il razionale per avviare la terapia con imatinib mesilato in adiuvante. altri elementi sono stati considerati nella decisione terapeutica. in primo luogo la mancanza di informazioni circa la radicalità dell’intervento per l’impossibilità, come segnalato dal patologo, di stabilire l’integrità del margine di resezione chirurgica a causa degli importanti aspetti necroticoemorragici della neoplasia presenti anche a tale livello. l’altro elemento preso in considerazione è stato il risultato dell’analisi mutazionale del gene c-kit che evidenziava una mutazione (del 560-57) a carico dell’esone 11. il tipo di mutazione di kit o di pdgfra, oltre a un possibile valore prognostico (mutazioni puntiformi, inserzioni e le duplicazioni a livello esone 11 = prognosi favorevole; delezione codone 557-558 stesso esone = prognosi sfavorevole), è fattore predittivo di risposta alla terapia con imatinib [15,16]. categoria di rischio dimensioni tumore (cm) indice mitotico (50/hpf) sede primaria del tumore molto basso < 2 ≤ 5 qualsiasi basso 2,1-5 ≤ 5 qualsiasi intermedio 2,1-5 < 5 5,1-10 > 5 6-10 ≤ 5 gastrico qualsiasi gastrico alto qualsiasi > 10 qualsiasi > 5 2,1-5 5,1-10 qualsiasi qualsiasi > 10 > 5 > 5 ≤ 5 rottura tumorale qualsiasi qualsiasi qualsiasi non gastrico non gastrico tabella iii classificazione per la selezione di pazienti con gist eleggibili per la terapia adiuvante. modificata da [11] ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1)8 un caso di tumore stromale gastrointestinale del piccolo intestino complicato da rottura tumorale tinib in adiuvante è stato approvato per i gist dal u.s.federal drug administration (fda) nel dicembre 2008, e dall’european medicine agency (ema) nel maggio 2009. il trattamento con imatinib per almeno un anno è incluso nelle linee guida aggiornate al 2010 dell’esmo [18] e dell’nccn (national comprehensive cancer network) [19] come opzione terapeutica alternativa all’osservazione nei pazienti a rischio intermedio ed alto, dopo resezione chirurgica completa. nelle stesse linee guida è riportato che la rottura del tumore, sia spontanea sia al momento della resezione chirurgica, dovrebbe essere segnalata, poiché denota un aumento di rischio, indipendentemente dagli altri fattori prognostici. in tali casi, essendo prevedibile una contaminazione del peritoneo, si dovrebbe assumere la presenza di malattia occulta a tale livello. questo porrebbe il paziente ad alto rischio di ripresa di malattia. pertanto questi casi sarebbero candidati alla terapia adiuvante. i risultati degli studi ssg/aio (pazienti ad alto rischio, imatinib 400 mg/die per un anno vs tre anni, obiettivo primario rfs) ed eortc 62024 (pazienti a rischio intermedio-alto, imatinib 400 mg/die per 2 anni vs osservazione, obiettivo primario os) renderanno disponibili ulteriori dati per stabilire la durata ottimale della terapia adiuvante e la sua capacità di impatto sulla sopravvivenza globale. no tratto beneficio dalla somministrazione di integratori di calcio e magnesio. il follow-up è stato condotto con esami ematochimici, radiografia torace, tc addome ogni tre mesi per i primi due anni e programmato con gli stessi esami ogni sei mesi per i successivi tre anni ed annualmente dopo i cinque anni. a 51 mesi dall’intervento chirurgico ed a 23 mesi dal termine del trattamento adiuvante il paziente è libero da malattia. conclusioni nel 2007 lo studio z9001 dell’american c o l l e g e o f s u r g e o n s o n c o l o g y g r o u p (acoso g) è stato il pr imo tr ial a dimostrare che imatinib, al dosaggio di 400 mg/die per un anno, in pazienti con gist localizzato di dimensioni ≥ 3 cm trattato con resezione chirurgica completa, migliora in maniera significativa la sopravvivenza libera da recidiva (rfs), rispetto al placebo con un vantaggio assoluto del 15% (98% vs 83%; p < 0,0001) [17]. la terapia adiuvante è stata in grado di ridurre il rischio di ricaduta a un anno dell’89%. non si è evidenziata alcuna differenza di sopravvivenza tra i 2 gruppi probabilmente a causa del limitato periodo di follow-up (19,7 mesi) e del consentito cross-over a imatinib in caso di recidiva nel gruppo placebo. in base a tali risultati il trattamento con imatemi aperti della terapia adiuvante durata ottimale del trattamento y selezione dei pazienti candidati a terapia adiuvante y dose del farmaco da utilizzare in relazione al profilo molecolare y previene o semplicemente ritarda la recidiva? y migliorerà la sopravvivenza a lungo termine? y bibliografia miettinen m, lasota j. gastrointestinal stromal tumors. review on morphology, molecular 1. pathology, prognosis and different diagnosis. arch pathol lab med 2006; 130: 1466-78 miettinen m, lasota j. gastrointestinal stromal tumors (gists): definition, occurence,pathol2. ogy,differential diagnosis and molecular genetics. pol j pathol 2003; 54: 3-24 kats sc, dematteo rp. gastrointestinal stromal tumors and leiomyosarcomas. 3. j surg oncol 2008; 97: 350-9 hirasaki s, fujita k, matsubara m, kanzaki h, yamane h, okuda m et al. a ruptured large 4. extraluminal ileal gastrointestinal stromal tumor causing hemoperitoneum. world j gastroenterol 2008; 14: 2928-31 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1) 9 i. lolli, s. diotaiuti, s. russo, g. a. campanella, n. giampaolo, g. leandro, v. defilippis jacobs k, de gheldere c, vancclooster p. a ruptured gastrointestinal stromal tumor of the 5. trasverse mesocolon: a case report. acta chir belg 2006; 106: 218-21 dematteo rp, lewis jj, leung d, mudan ss, woodruff jm, brennan mf. two hundred 6. gastrointestinal stromal tumors. recurrence patterns and prognostic factors for survival. ann surg 2000; 231: 51-8 dematteo rp, gold js, saran l, gönen m, liau kh, maki rg et al. tumor mitotic rate, size, 7. and location independently predict recurrence after resection of primary gastrointestinal stromal tumor (gist). cancer 2008; 112; 608-15 fletcher cd, berman jj, corless c, gorstein f, lasota j, longley bj et al. diagnosis of 8. gastrointestinal stromal tumors: a consensus approach. hum pathol 2002; 33: 459-65 miettinen 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high risk of recurrence: the u.s. intergroup phase ii trial acosog z9000. data presented at the 2008 asco gastrointestinal cancers symposium. orlando, 2008 nilsson b, sjolund k, kindblom lg, meis-kindblom jm, bumming p, nilsson o et al. adjuvant 14. imatinib treatment improves recurrence-free survival in patients with high-risk gastrointestinal stromal tumours (gist). british journal of cancer 2007; 96: 1656-8 heinrich mc, corless cl, demetri gd, blanke cd, von mehren m, joensuu h et al. kinase 15. mutation and imatinib response in patients with metastatic gastrointestinal stromal tumor. j clin oncol 2003; 21: 4342-9 rutkowski p, debiec-rychter m, nowecki zi, wozniak a, michej w, limon j. different factors 16. are responsible for predicting relapses after primary tumors resection and for imatinib treatment outcomes in gastrointestinal stromal tumors. med sci monit 2007; 13: 515-22 dematteo rp, ballman kv, antonescu cr, maki rg, pisters pw, demetri gd et al.; american 17. college of 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dose di imatinib a 800 mg nel paziente con gist in progressione con dosaggio standard: caso clinico giuseppe naso 1, enrico cortesi 1 clinical management issues 2010; 4(suppl. 4) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 23 sulodexide. la risposta in profilassi e terapia alla disfunzione endoteliale l’origine biologica, le caratteristiche farmacocinetiche e dinamiche, il meccanismo d’azione di sulodexide ne fanno il prototipo del farmaco potenzialmente attivo sulla disfunzione endoteliale di cui potrebbe rappresentare la risposta. efficacia clinica in ambito vascolare efficacia clinica nella patologia venosa cronica in italia sulodexide, farmaco attualmente in classe c, è indicato nel trattamento delle ulcere venose croniche correlate a insufficienza venosa cronica. i principali disturbi vascolari che interessano i vasi venosi superficiali degli arti inferiori sono riconducibili all’insufficienza venosa cronica e comportano quadri clinici e funzionali di diversa gravità a partire dalla presenza di teleangiectasie asintomatiche fino ad arrivare all’ulcerazione della cute. l’incidenza di malattia venosa cronica degli arti inferiori varia a seconda dei criteri utilizzati per definirla e a seconda delle popolazioni analizzate. nello studio epidemiologico di framingham l’incidenza annua di vene varicose era del 2,6% nelle femmine e nell’1,9% nei maschi, con un incremento età dipendente [bergan, 2006]. ulcere venose sono presenti nell’1% della popolazione generale ma arrivano a una prevalenza del 6% negli ultrasessantacinquenni [kukharzewskyi, 2003]. il costo del trattamento della malattia venosa cronica e in particolare delle ulcere venose è molto elevato, potendo arrivare al 3% della spesa sanitaria totale nei paesi economicamente sviluppati [bergan, luca masotti 1 y fattori genetici y sesso femminile (progesterone) y gravidanza y età avanzata y obesità y prolungata stazione eretta y altezza elevata tabella i fattori di rischio per malattia venosa cronica [bergan, 2006] abstract endothelial dysfunction plays the key role in the development of cardiovascular system disorders. sulodexide, decreasing oxidative stress and stabilizing endothelial cells, has protective properties on endothelial dysfunction. the article describes the role of sulodexide both in prophylaxis and therapy of venous and arterial diseases, underlining its clinical efficacy as demonstrated in clinical trials. besides, the article describes its role in the management of some other diseases, like diabetic nephropathy, diabetic foot, tinnitus, or hemorrhoids. keywords: sulodexide, venous diseases, therapy, prophylaxis, clinical efficacy sulodexide. prophylactic and therapy response to endothelial dysfunction cmi 2010; 4(suppl. 4): 23-32 1 dirigente medico medicina interna, ospedale di cecina, livorno, professore a contratto, università di siena disclosure il presente supplemento è stato realizzato grazie al contributo di alfa wasserman clinical management issues 2010; 4(suppl. 4) ©seed tutti i diritti riservati 24 sulodexide. la risposta in profilassi e terapia alla disfunzione endoteliale 2006]. le tabelle i e ii riportano rispettivamente i fattori di rischio per lo sviluppo di malattia venosa cronica e l’eziologia delle ulcere degli arti inferiori, principale manifestazione della malattia venosa cronica. con cui si instaura l’ipertensione venosa sono legati principalmente all’incompetenza valvolare; i fattori eziologici che conducono a tale disfunzione sono in parte ancora da chiarire, ma numerose evidenze sostengono che la disfunzione endoteliale, conseguente a squilibri di tipo immunologico, emoreologico e coagulativo, sia alla base del loro sviluppo [nicolaides, 2005]. la figura 1 illustra il meccanismo patogenetico che sottende alla malattia venosa cronica degli arti inferiori [bergan, 2006]. il processo patologico all’origine dell’insufficienza venosa cronica (ivc) può comportare quadri clinici e funzionali di diversa gravità. da un punto di vista clinico la gravità della flebopatia cronica può essere valutata in modo standardizzato secondo la classificazione ceap (clinica, eziologica, anatomica, patofisiologica), messa a punto da un gruppo internazionale di specialisti nel 1994 e successivamente modificata [porter, 1995; eklöf, 2004]. la tabella iii riporta la nuova classificazione ceap. negli ultimi anni l’attenzione è stata focalizzata sul fatto che i meccanismi che sono alla base dello sviluppo di flebopatie croniche a carico dei vasi venosi superficiali sembrerebbero in parte gli stessi che danno inizio allo sviluppo di patologie a carico dei vasi venosi profondi e dei vasi arteriosi. alla base della sintomatologia manifestata, soprattutto dolore e pesantezza degli arti inferiori, vi sono due fenomeni: la tensione della parete vasale, dovuta come evidenziato in precedenza a insufficienza valvolare, e ipossia della tonaca media a causa di alterazioni dei vasa vasorum (sistema di piccoli vasi che portano ossigeno e sostanze nutrienti infiltrati nella tonaca avventizia dei vasi di grosso calibro). anche la sindrome delle gambe senza riposo e i crampi che compaiono in situazioni di riposo possono essere correlati a condizioni di ipossia della tonaca media, ma più specificamente possono essere associati a disturbi di ordine emoreologico. infatti fra i pazienti con disturbi venosi sono risultati altamente prevalenti fenomeni di iperviscosità ematica e di ridotta deformabilità eritrocitaria che sembrano peggiorare la circolazione dei vasa vasorum [bergan, 2006]. il processo infiammatorio endoteliale contribuirebbe al rimodellamento valvolare e della parete venosa e in ultima analisi conduce all’incompetenza valvolare e allo sviluppo delle vene varicose. i leucociti che si accumulano nella parete vasale (monociti e macrofagi tissutali) giocano un ruolo figura 1 fisiopatologia della malattia venosa cronica [bergan, 2006] y vascolari y venose 80-85% y arteriose y vasculiti y linfatiche y neuropatiche (diabete, neuropatia periferica) y ematologiche (policitemia, sickle cell anemia) y traumatiche (ustioni, freddo, radiazioni, ecc.) y neoplastiche y altre cause (pioderma gangrenoso, sarcoidosi, ulcere trofiche) tabella ii eziologia dell ’ulcera venosa [simon, 2004] l’80-85% delle ulcere agli arti inferiori è di origine venosa [simon, 2004]. da non trascurare comunque il polimorfismo genetico [zamboni, 2007]. di fondamentale importanza per lo sviluppo della malattia venosa cronica è la presenza di ipertensione venosa. i meccanismi fattori di rischio per malattia venosa ipertensione venosa dilatazione venosa distorsione valvolare infiammazione alterato shear stress modificazioni valvolari e della parete venosa reflusso cronico ipertensione capillare leakage capillare edema infiammazione ulcera venosa modificazioni cutanee clinical management issues 2010; 4(suppl. 4) ©seed tutti i diritti riservati 25 l. masotti tabella iii classificazione clinica ceap (c 0-6) delle flebopatie croniche derivanti da insufficienza venosa [eklöf, 2004] classe caratteristiche 0 assenza di segni clinici visibili o palpabili di malattia venosa a asintomatico s sintomatico 1 presenza di teleangiectasie o vene reticolari 2 presenza di vene venose 3 presenza di edema 4 turbe trofiche di origine venosa: pigmentazione, eczema, piodermite 5 come classe 4 con ulcere cicatrizzate 6 come classe 4 con ulcere in fase attiva fondamentale nel rimodellamento vasale. il loro accumulo in tale sede conduce alla produzione di metallo proteinasi e citochine infiammatorie espressione della disfunzione endoteliale che si associa a fibrosi del derma [nicolaides, 2005]. tradizionalmente l’ulcera venosa (uv ) su base cronica è trattata con medicazioni locali e terapia elastocompressiva; il frequente fallimento di tale approccio ha indotto molti medici e ricercatori ad affiancare terapie sistemiche ai trattamenti tradizionali [simon, 2004; porter, 1995]. l’efficacia di sulodexide nella cura dell’ulcera venosa è stata valutata da un trial condotto da coccheri e colleghi su 230 pazienti con ulcere croniche agli arti inferiori, di diametro non inferiore ai 2 cm [coccheri, 2002b]. il farmaco è stato somministrato per via intramuscolare nei primi 20 giorni (60 mg/die) e per via orale nei successivi 70 giorni (100 mg/die) in associazione alla terapia elastocompressiva standard in paragone a pazienti trattati con sola terapia standard (controllo). la completa guarigione dopo tre mesi di trattamento è stata rilevata nel 52,5% dei pazienti trattati con sulodexide e nel 32,7% di quelli di controllo. il profilo di tollerabilità del farmaco è risultato simile a quello del placebo. i dati ottenuti in questo trial concordano con quelli risultanti da uno studio precedente, in cui 94 pazienti trattati con terapie standard sono stati randomizzati a ricevere sulodexide o placebo [scondotto, 1999]. al termine dei 2 mesi di trattamento previsti dallo studio l’ulcera risultava completamente guarita nel 36% dei pazienti controllo e nel 58% dei pazienti trattati (figura 2). risultati analoghi sono stati recentemente pubblicati da apollonio e colleghi [apollonio, 2008]. l’efficacia del trattamento delle ulcere venose croniche con sulodexide è stato riconosciuto anche da linee guida internazionali [nelson, 2008]. efficacia clinica nella trombosi venosa profonda e nella re-trombosi sulodexide è stato valutato nei pazienti con trombosi venosa profonda. il trattamento con sulodexide iniziato dopo 6 mesi di trattamento anticoagulante orale e protratto per 24 mesi riduce di circa 2 volte e mezzo il rischio di recidiva di trombosi venosa profonda (tvp) rispetto a placebo (7,4% nel gruppo trattato con sulodexide, sonografia venosa, di recidive di episodi di tromboembolismo venoso (tvp ± embolia polmonare) con notevole riduzione nei costi nel gruppo trattato con sulodexide [lasierra cirujeda, 2006]. efficacia clinica nella patologia vascolare arteriosa periferica l’arteriopatia obliterante cronica periferica degli arti inferiori (aoai) interessa il 12-14% della popolazione generale e la prevalenza è superiore al 20% nella popolazione ultrasettantacinquenne [shammas, 2007]. figura 2 efficacia di sulodexide nel trattamento delle ulcere venose [scondotto, 1999] 0 0,2 0,4 0,6 1 1,2 6040200 p ro p o rz io n e d i u lc e re v e n o s e n o n g u a ri te tempo (giorni) placebo sulodexide 0,8 10 30 50 17,9% nel gruppo placebo, p < 0,05) [errichi, 2004]. confrontato con acenocumarolo in profilassi secondaria della tvp, sulodexide dimostra significativamente minori effetti collaterali emorragici, mentre non sembrano esserci differenze significative in termini di percentuali di ricanalizzazione all’ultraclinical management issues 2010; 4(suppl. 4) ©seed tutti i diritti riservati 26 sulodexide. la risposta in profilassi e terapia alla disfunzione endoteliale la aoai costituisce una delle principali manifestazioni della patologia aterosclerotica. i pazienti sintomatici sono circa un quarto di questa popolazione, con una prevalenza nettamente superiore per il sesso maschile (prevalenza e incidenza doppia). dei pazienti sintomatici a 5-10 anni di distanza il 70% presenta un quadro invariato, il 25% circa ha una progressione di malattia e/o richiede intervento medico e/o chirurgico, il 5% circa presenta una progressione di malattia che conduce all’amputazione [sobel, 2008]. la mortalità dei pazienti con aoai è elevata ed è determinata principalmente dalla comorbilità cardiovascolare presente, in particolare cardiopatia ischemica e malattia cerebrovascolare. il rischio relativo di morte nei pazienti con aoai è tre volte superiore rispetto ai soggetti di pari età e sesso non affetti da aoai se vengono considerate tutte le cause di mortalità e di sei volte circa superiore se vengono considerate le cause cardiovascolari di mortalità. i pazienti con aoai hanno un rischio di eventi coronarici a 10 anni > 20% rispetto a soggetti di pari età e sesso senza arteriopatia periferica. in italia dati molto importanti sono emersi pochi anni fa dallo studio peripheral arteriopathy and cardiovascular events (pace), condotto su circa 4.000 pazienti afferenti ad ambulatori di medicina generale di età compresa tra 40 e 80 anni [brevetti, 2007]. questo studio ha mostrato che l’incidenza di claudicatio intermittens è dell’1,6% sul totale dei pazienti (2,4% nei maschi e 1,0% nelle femmine). il 44% dei pazienti di questo studio ignorava di essere affetto da aoai. il 34% dei pazienti aveva già avuto un evento cardiovascolare. i pazienti con claudicatio al follow-up presentarono una mortalità 4 volte maggiore per tutte le cause e 8 volte maggiore per cause cardiovascolari [brevetti, 2007]. il corretto management dell’aoai ha molteplici scopi: ridurre la mortalità cardiovascolare, migliorare la qualità della vita in pazienti con claudicatio severa, ridurre la possibilità di amputazioni in soggetti con ischemia critica che si manifesta con dolore a riposo e ulcerazioni [shammas, 2007; sobel, 2008]. importanti fattori di rischio modificabili sono rappresentati da: fumo di sigaretta, obesità, ipertensione arteriosa, dislipidemia e diabete mellito. nello studio pace il 65% dei pazienti era fumatore, il 70% ipercolesterolemico, l’80% iperteso e il 50% circa diabetico [brevetti, 2007]. l’aoai viene clinicamente suddivisa in: y aoai asintomatica (stadio i leriche fontaine): sospettata durante l’esame obiettivo mediante l’ankle-brachial pressure index (abpi), ossia il rapporto tra pressione arteriosa sistolica all’arto inferiore e pressione arteriosa sistolica all’arto superiore. un valore < 0,9 è indice di aoai (0,9-0,7 lieve; 0,69-0,5 moderata; < 0,5 severa) [al-qaisi, 2008]; y claudicatio intermittens (stadio ii leriche fontaine): rappresenta la dolorabilità che subentra agli arti inferiori durante il cammino e si risolve dopo pochi minuti di riposo e costituisce il sintomo più frequente dell’aoai; y ischemia critica cronica (stadio iii-iv leriche fontaine): rappresenta la condizione di dolore a riposo con o senza ulcerazione con o senza necrosi tissutale; y ischemia critica acuta: è la condizione acuta di ischemia all’arto o agli arti inferiori dovuta allo sviluppo di trombosi e/o embolia su una condizione cronica di aoai. si caratterizza per il dolore acuto e l’assenza di polso arterioso. la tabella iv riassume la classificazione di leriche fontaine. nel già citato studio pace il 22% dei pazienti presentava abpi < 0,5, il 25% abpi 0,50-0,69, il 57% abpi > 0,7 [brevetti, 2007]. i principi di terapia dell’aoai sono rappresentati fondamentalmente dall’eliminazione-correzione/cura dei fattori di rischio (esercizio fisico, cessazione del fumo di sigaretta, modificazioni dietetiche e adeguato stile di vita, antidiabetici, antipertensivi, statine), dal trattamento antitrombotico e vasodilatatore e dagli interventi di rivascolarizzazione chirurgica nei soggetti in classe r-b iii-vi. nei soggetti con aoai severa non responsivi alla terapia o con progressione severa di malattia l’amputazione rappresenta un’inevitabile soluzione [shammas, 2007; sobel, 2008]. tra i farmaci utilizzabili nella aoai vengono raccomandati gli antiaggreganti piastrinici (acido acetilsalicilico, 75-100 mg/die: raccomandazione 1b; clopidogrel o ticlopidina: raccomandazione 2b) e cilostazolo (raccomandazione 1a nel tabella iv classificazione di leriche fontaine acd = distanza assoluta di claudicazione stadio i preclinico o asintomatico stadio ii iia iib claudicazione intermittente acd >150-200 m acd <150 m stadio iii dolori a riposo stadio iv lesioni trofiche e gangrena clinical management issues 2010; 4(suppl. 4) ©seed tutti i diritti riservati 27 l. masotti paziente con claudicatio moderato-severa non rispondente all’esercizio fisico). gli anticoagulanti orali vengono raccomandati nel paziente con aoai che sviluppa ischemia acuta per trombosi o embolia dopo adeguata embolectomia chirurgica [sobel, 2008]. nonostante questi farmaci siano attualmente raccomandati da linee guida internazionali, molti altri farmaci sono stati valutati nella aoai quali sulodexide, pentossifillina, ginkgo biloba, policosanolo, naftidrofuril, buflomedil, levocarnitina, arginina, prostaglandine, glutatione, fattori di crescita per fibroblasti e cellule endoteliali [ jacoby, 2004]. l’efficacia di sulodexide nel trattamento dell’aoai è stata dimostrata da una metanalisi di gaddi e colleghi effettuata su 19 trial clinici condotti dal 1981 al 1993 e coinvolgenti un totale di circa 430 pazienti trattati confrontati con altrettanti pazienti affetti da aoai e sottoposti a placebo (età media del totale dei pazienti: 57,68 anni; range 22-82). in questi trial, in cui lo schema terapeutico era di 300-600 unità lipasemiche per via im o ev per 15-20 giorni seguiti da 150 unità lipasemiche per via orale x 3 volte/die o 250 x 2 volte/die per 2-6 mesi, sulodexide ha dimostrato di migliorare significativamente la distanza di cammino e la distanza di cammino libera da dolore (incremento del 36%) (figura 3), oltre a migliorare significativamente parametri emoreologici evidenziati da riduzione dei livelli di fibrinogenemia (figura 4), dei livelli di trigliceridi (riduzione del 28%), dei livelli di hdl colesterolo (incremento del 25% circa), e ridurre la viscosità ematica [gaddi, 1996]. un successivo studio di coccheri e colleghi che ha coinvolto 286 pazienti con claudicatio intermittens in stadio ii leriche fontaine, randomizzati a ricevere sulodexide (60 mg/die im per i primi 20 giorni e 100 mg/die per os per i successivi sei mesi) o placebo, ha dimostrato che l’aumento della distanza percorsa a piedi (walking performance) è risultato significativamente maggiore in seguito a trattamento con sulodexide rispetto a placebo: il 24% circa vs il 9% circa dei pazienti ha raddoppiato la distanza percorsa senza dolore (endpoint primario dello studio) e il 26% circa dei pazienti trattati con sulodexide vs il 6% circa dei pazienti trattati con placebo dei pazienti ha raddoppiato la massima distanza percorsa [coccheri, 2002]. in termini pratici i pazienti trattati con sulodexide hanno aumentato di circa 83 m la distanza di efficacia clinica nella nefropatia diabetica la nefropatia diabetica rappresenta una delle principali complicanze del diabete mellito, sia di tipo i sia di tipo ii. dal 20% figura 3 effetto di sulodexide sulla distanza di cammino libera da dolore nella arteriopatia obliterante degli arti inferiori [gaddi, 1996] figura 4 effetto di sulodexide sui valori di fibrinogeno in pazienti con arteriopatia obliterante degli arti inferiori [gaddi, 1996] 0 50 100 150 250 350 9080400 d is ta n za d i c a m m in o (m e tr i) tempo (giorni) placebo sulodexide 200 20 60 300 280 280 290 300 330 360 70400 fi b ri n o g e n o (m g /d ) tempo (giorni) placebo sulodexide 310 20 60 350 320 340 cammino libera da dolore contro 36 metri dei pazienti in trattamento con placebo (p = 0,001) [coccheri, 2002a]. in conclusione, le evidenze scientifiche in nostro possesso dimostrano che sulodexide migliora la sintomatologia e la qualità di vita dei pazienti aoai. clinical management issues 2010; 4(suppl. 4) ©seed tutti i diritti riservati 28 sulodexide. la risposta in profilassi e terapia alla disfunzione endoteliale al 40% dei pazienti diabetici sviluppa nefropatia diabetica. considerando che attualmente ci sono nel mondo circa 170 milioni di diabetici e che nel 2030 lo scenario potrebbe essere di 360 milioni, incremento dovuto soprattutto all’aumento dei diabetici tipo ii, è possibile comprendere come molti sforzi siano indirizzati alla prevenzione della nefropatia diabetica e della sua progressione in insufficienza renale conclamata. la nefropatia diabetica è attualmente in italia la principale causa che conduce all’insufficienza renale cronica e terminale e quindi alla dialisi. la nefropatia diabetica è considerata una complicanza microvascolare del diabete mellito [dronavalli, 2008; schena, 2005]. nonostante sia fondamentale il ruolo della predisposizione genetica allo sviluppo della nefropatia diabetica, essa non si manifesta in assenza di iperglicemia, che pertanto ne rappresenta una conditio sine qua non [schena, 2005]. il ruolo dell’iperglicemia nella nefropatia diabetica è mediato da un aumento della pressione intraglomerulare, dall’attivazione del sistema renina-angiotensina, dalla glicosilazione di proteine plasmatiche e tissutali con lo sviluppo di prodotti di glicosilazione avanzata, dall’attivazione della via dei polioli e della protein chinasi c. ciò conduce a un ispessimento della membrana basale glomerulare (mbg) che in ultima analisi porta a un’alterazione della sua perm-selettività, un aumento della matrice mesangiale e interstiziale e infine glomerulosclerosi e fibrosi tubulo-interstiziale [società italiana nefrologia, 2003; dronavalli, 2008; schena, 2005]. l’alterazione qualitativa e quantitativa dei gags a livello glomerulare è stata ampiamente dimostrata e potrebbe rappresentare uno dei principali meccanismi dell’alterazione della permeabilità della mbg che in ultima analisi conduce all’albuminuria [lewis, 2008]. in particolare è stata evidenziata una riduzione nella quantità di eparan solfato nella mbg dei pazienti con nefropatia diabetica, ciò determinando una riduzione della carica negativa della stessa che in condizioni fisiologiche è fondamentale per trattenere le proteine [lewis, 2008]. le fasi della nefropatia diabetica sono distinguibili e i meccanismi patogenetici alla base della nef ropatia diabetica sono molteplici. la microalbuminuria rappresenta il principale marker di nefropatia diabetica e si associa a elevato rischio cardiovascolare. essa rappresenta il primo stadio di malattia ed è definita da escrezione urinaria di albumina compresa tra 20 e 200 µg/min in un campione di urine fresche dopo la notte o da escrezione di albumina compresa tra 30 e 300 mg/24 ore (nefropatia incipiente). la fase della macroalbuminuria è definita come l’escrezione urinaria di albumina > 200 µg/min o > 300 mg/24 ore (nefropatia conclamata). una volta instauratasi la macroalbuminuria, il filtrato glomerulare si riduce di 10-12 ml (min/anno; il 10-50% dei pazienti diabetici macroalbuminurici evolverà in insufficienza renale cronica che può esitare in insufficienza renale terminale richiedente dialisi o trapianto [società italiana nefrologia, 2003; dronavalli, 2008; schena, 2005]. l’approccio terapeutico alla nefropatia è molteplice. uno dei principali aspetti è il controllo della pressione arteriosa mediante farmaci ace-inibitori o inibitori del recettore dell’angiotensina (sartani) [società italiana nefrologia, 2003; dronavalli, 2008; schena, 2005]. purtuttavia trial clinici dimostrano che, nonostante lo stretto controllo clinico e l’efficacia di tali farmaci, una discreta percentuale di pazienti con nefropatia diabetica evolve in insufficienza renale cronica e molti di questi in insufficienza renale cronica terminale richiedente trattamento dialitico [burnier, 2006]. da ciò deriva l’esigenza di studiare l’efficacia di nuovi farmaci o farmaci con differente meccanismo d’azione per impedire l’evoluzione in insufficienza renale. negli ultimi anni numerose evidenze scientifiche dimostrano il ruolo di sulodexide come farmaco potenzialmente efficace nella prevenzione della progressione della nefropatia diabetica dalla fase iniziale all’insufficienza renale conclamata [cortinovis, 2008]. studi sperimentali condotti su ratti diabetici hanno dimostrato che la somministrazione di eparina e gags previene le alterazioni della mbg e della sua carica elettrica con conseguente prevenzione dello sviluppo di microalbuminuria [gambaro, 1992]. studi più recenti hanno dimostrato che la somministrazione di gags di origine esogena può prevenire o riparare parzialmente le lesioni endoteliali osservate a livello del glicocalice della mbg [mochizuki, 2003] e ridurre la permeabilità proteica anche negli uomini. alcuni studi hanno dimostrato che la somministrazione di sulodexide riduce la presenza di albumina nelle urine in pazienti clinical management issues 2010; 4(suppl. 4) ©seed tutti i diritti riservati 29 l. masotti con diabete di tipo 1 e 2 e che l’effetto persiste per alcune settimane dopo l’interruzione del trattamento [skrha, 1997; velussi, 1996; solini, 1997]. dedov e colleghi hanno dimostrato che la somministrazione di 600 unità lipasemiche per 5 giorni a settimana per 3 settimane consecutive di sulodexide in diabetici insulino-dipendenti micro e macroalbuminurici, riduceva in maniera statisticamente significativa l’ecrezione renale di albumina in particolare nei microalbuminurici; in questi ultimi l’effetto della riduzione nell’escrezione di albumina si protraeva anche a sei settimane [dedov, 1997]. l’effetto di sulodexide, somministrato a diversi dosaggi, sul tasso di escrezione di albumina è stato indagato in un trial condotto su pazienti diabetici con micro e macroalbuminuria (di.n.a.s. randomized trial) [gambaro, 2002]. il disegno dello studio prevedeva la suddivisione di circa 220 pazienti in 4 gruppi ciascuno di circa 55 pazienti riceventi rispettivamente placebo, sulodexide 50 mg/ die, 100 mg/die o 200 mg/die per 4 mesi (t0  t4) e seguiti per un follow-up di ulteriori 4 mesi (t4  t8). lo studio ha dimostrato che l’escrezione urinaria dell’albumina si riduce durante il trattamento con sulodexide in misura concentrazione-dipendente nelle percentuali del 30%, 49% e 74% rispettivamente per dosi di 50, 100 e 200 mg di sulodexide e alla fine del follow-up l’escrezione urinaria di albumina risulta nuovamente aumentata, rimanendo comunque a livelli inferiori rispetto al pre-trattamento e soprattutto riducendosi del 62% nei pazienti in trattamento con sulodexide 200 mg/die (figura 5) [gambaro, 2002]. risultati simili sono stati ottenuti da achour e colleghi che hanno confrontato la concentrazione di albumina nelle urine di 30 pazienti trattati con sulodexide orale al dosaggio di 50 mg per 12 mesi rispetto a quella rilevata in 30 pazienti diabetici di controllo: nel gruppo di controllo l’escrezione urinaria di albumina è risultata aumentare di circa il 20% (19,1%) e 30% (29,4%) rispettivamente dopo 6 e dopo 12 mesi; l’escrezione urinaria di albumina è invece risultata ridotta di circa il 40% (38,1%) e del 60% circa (59,8%) rispettivamente dopo 6 mesi e 12 mesi di trattamento con sulodexide [achour, 2005]. un recente studio pilota multicentrico randomizzato in doppio cieco effettuato negli usa ha valutato l’efficacia renoprotettiva di sulodexide in circa 150 pazienti con diabete mellito tipo 2 microalbuminurici già in trattamento con ace-inibitori o inibitori del recettore dell’angiotensina (cosiddetti sartani) a dosaggio pieno raccomandato dalla food and drug administration (fda) e con valori di pressione arteriosa stabili e inferiori o uguali a 150/90 mmhg. i pazienti sono stati suddivisi in tre gruppi randomizzati a ricevere placebo, sulodexide 200 mg per os o 400 mg per os per 6 mesi e successivamente seguiti per un follow-up di 8 settimane. l’endpoint primario era rappresentato dalla normalizzazione dell’escrezione urinaria di albumina (pazienti divenuti normoalbuminurici) in associazione a una riduzione di almeno il 25% dell’escrezione urinaria di albumina o una riduzione del 50% dell’escrezione urinaria di albumina. l’endpoint primario composito dopo 6 mesi di trattamento è stato raggiunto nel 15% circa dei pazienti assegnati al gruppo placebo, nel 33% circa dei pazienti in trattamento con sulodexide 200 mg e nel 18% circa dei pazienti in trattamento con sulodexide 400 mg. dopo 8 settimane di follow-up in wash out la persistenza dell’endpoint primario si è verificata nel 17% circa dei pazienti in trattamento con sulodexide (200 mg o 400 mg considerati insieme) contro l’8% circa del gruppo placebo [lambers heerspink, 2008]. derivato dal di.n.a.s. e dal sopra descritto studio multicentrico è il disegno di alcuni trial multicentrici randomizzati controllati finalizzati alla dimostrazione del ruolo renoprotettivo di sulodexide in pazienti con nefropatia diabetica incipiente (sunmicro-trial) e conclamata (sun-overttrial) e ipertesi in trattamento completo con ace-inibitori e/o sartani i cui risultati 0 10 20 30 60 80 2001000 r id u zi o n e a lb u m in u ri a (% ) dosaggio sulodexide (mg/die) risposta a 8 mesi risposta a 4 mesi 40 50 150 50 70 figura 5 curve dose risposta di sulodexide nel trattamento della nefropatia diabetica [gambaro, 2002] clinical management issues 2010; 4(suppl. 4) ©seed tutti i diritti riservati 30 sulodexide. la risposta in profilassi e terapia alla disfunzione endoteliale sono in fase di pubblicazione [lambers heerspink, 2007]. efficacia clinica di sulodexide in altre patologie vascolari piede diabetico in uno studio sulodexide è stato valutato nel trattamento della sindrome da piede diabetico. sulodexide aggiunto alla terapia standard con insulina ha indotto la guarigione del 92% delle ulcere dopo una media di 46,4 giorni. nel gruppo di controllo (insulina + placebo) la guarigione si è verificata nell’83% dei pazienti dopo una media di 63 giorni [koblik, 2001]. cerebrovasculopatie l’efficacia di sulodexide nei pazienti con demenza vascolare si esplica in termini di miglioramento clinico e dei parametri emoreologici e coagulativi. 86 pazienti anziani affetti da demenza vascolare sono stati suddivisi in due gruppi e randomizzati a ricevere sulodexide 100 unità lipasemiche/die (46 pazienti) o pentossifillina 1.200 mg/die (40 pazienti) per 6 mesi. la concentrazione plasmatica di fibrinogeno è risultata diminuita in entrambi i gruppi, ma la riduzione è stata più rapida nel gruppo trattato con sulodexide fra i pazienti con elevati (≥ 350 mg/dl) valori basali di fibrinogeno. fra i soggetti randomizzati a ricevere sulodexide è stata anche rilevata una significativa riduzione dell’antigene del fattore vii della coagulazione e un miglioramento della scala di valutazione per la demenza gottfries brane steen (gbs) rating scale [parnetti, 1997]. emorroidi un recente studio su circa 60 pazienti, di età compresa tra 30 e 87 anni, affetti da emorroidi di grado ii sintomatiche ha dimostrato che un trattamento di 25 giorni con sulodexide 250 unità lipasemiche/die migliora in maniera statisticamente significativa il prurito anale, il dolore, il sanguinamento, l’edema, la trombosi emorroidaria e la qualità di vita dei pazienti rispetto al periodo precedente al trattamento [lizza, 2009]. vertigini vascolari e tinnito l’utilizzo di sulodexide in alcune patologie vestibolari di origine vascolare sta avendo un sempre maggior interesse, come testimoniano due recenti lavori. nel primo, panu e colleghi hanno mostrato come sulodexide possa essere efficace nel trattamento di pazienti affetti da vertigine di origine vascolare, grazie alla capacità di ridurre sintomi e grado di handicap [panu, 2008]. nel secondo neri e colleghi hanno recentemente evidenziato che sulodexide migliora il tinnito di origine centrale e sensoriale quando associato a melatonina rispetto alla sola somministrazione di melatonina [neri, 2009]. bibliografia y achour a, kacem m, dibej k, skhiri h, bouraoui s, el may m (2005). one year course of oral sulodexide in the management of diabetic nephropathy. j nephrol; 18: 568-74 y al-qaisi m, kharbanda rk, mittal tk, donald ae (2008). measurement of endothelial function and its clinical utility for cardiovascular risk. vasc health risk manag; 4: 647-52 y apollonio a, mosti g, ricci e (2008). microcircolo e ulcere venose. acta vulnologica; 6: 125-32 y bergan jj, schmid-schormbein gw, coleridge smith pd, nicolaides an, boisseau mr, eklöf b (2006). chronic venous disease. n eng j med; 355: 488-98 y brevetti b, oliva g, sirico g, giugliano g, chiarello m (2007). la claudicatio intermittens in italia. lo studio peripheral arteriopathy and cardiovascular events (pace). g ital cardiol; 8: 34-42 y burnier m, zanghi a (2006). 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solini a, vergnani l, ricci f, crepaldi g (1997). glycosaminoglycans delay the progression of nephropathy in niddm. diabetes care; 20: 819-23 y velussi m, cernigoi am, dapas f, de monte a (1996). glycosaminoglycan oral therapy reduces microalbuminuria, blood fibrinogen levels and limb arteriopathy clinical signs in patients with non-insulin dependent diabetes mellitus. diab nutr metab; 9: 53-8 y zamboni p, gemmati d (2007). clinical implications of a gene polymorphisms in venous leg ulcer: a model of tissue injury and reparative process. thromb haemost; 98: 131-7 introduzione fisopatologia endoteliale, glicosoamminoglicani e glicocalice sulodexide. farmacocinetica, farmacodinamica e meccanismo d’azione sulodexide. la risposta in profilassi e terapia alla disfunzione endoteliale conclusioni 7 clinical management issues allo striscio, presenza di precursori della granulopoiesi. nel sospetto di malattia mieloproliferativa, veniva effettuato aspirato midollare, caso clinico nel febbraio 2007 giungeva alla nostra osservazione un uomo di 44 anni, che presentava da circa un mese sintomatologia caratterizzata da febbricola, sensazione di peso post-prandiale, astenia e calo ponderale. all’esame obiettivo si documentava marcata splenomegalia (20 cm dall’arcata costale sinistra) ed epatomegalia (8 cm dall’arcata costale destra); gli esami ematochimici risultavano tutti nella norma (funzionalità epatica e renale e indagini virali), eccetto un notevole incremento dell’ldh (2071 u/l). le indagini strumentali (ecografia addome e rx torace) confermavano i reperti evidenziati all’esame obiettivo. all’esame emocromocitometrico, si rilevava lieve anemia (hb 12,9 g/dl) e importante leucocitosi (gb 143.000/mm3) con, perché descriviamo questo caso questo caso sottolinea l ’efficacia e la tollerabilità di nilotinib, anche in pazienti lmc con caratteristiche prognostiche sfavorevoli e in fallimento terapeutico dopo alte dosi di imatinib e testimonia inoltre l ’assenza di tossicità crociata tra nilotinib e imatinib. da qui l ’importanza dell ’impiego clinico dei criteri eln [2], valido supporto per individuare i pazienti in cui sia necessario uno switch precoce, sia nei casi di resistenza sia di intolleranza a imatinib corresponding author dott.ssa sabina russo sabinarusso@tiscali.it caso clinico abstract this article describes the case of a 44 year old man, at high-risk according to the sokal index, after cml ph+ diagnosis, started imatinib at the standard dose (400 mg/day). initially he reached optimal response, but at month 12, because of a loss of cytogenetic response, he was documented as a treatment failure. the mutational screening revealed no mutations and the blood level testing (blt) showed values of lower limits, therefore he increased imatinib to 800 mg/day. this therapeutic choice did not result in the achievement of an optimal response and the imatinib compliance was deteriorated. so, after nearly 12 months of treatment with high dose imatinib, we considered the treatment as a failure, and he switched to nilotinib, at the dose of 800 mg/ day. after only 3 months of treatment, he reached complete cytogenetic response (ccyr) and major molecular response (mmolr), which the patient continues to maintain, as documented by the recent evaluation at month 30. keywords: cml; high dose imatinib; nilotinib efficacy of nilotinib in a young patient with high sokal risk cml ph+ in treatment failure after high dose imatinib cmi 2011; 5(suppl 5): 7-14 1 divisione di ematologia, aou “g. martino” policlinico universitario di messina sabina russo 1, giuseppa penna 1, arianna d’angelo 1, alessandro allegra 1, andrea alonci 1, caterina musolino 1 efficacia di nilotinib in un giovane paziente affetto da lmc ad alto rischio sokal in fallimento terapeutico dopo imatinib ad alte dosi disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. 8 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) efficacia di nilotinib in un giovane paziente affetto da lmc ad alto rischio sokal in fallimento terapeutico con idrossiurea, con progressivo decremento dei globuli bianchi (gb 15.530/mm3 dopo 25 giorni di idrossiurea) e nel marzo 2007 veniva intrapresa terapia specifica con imatinib (im), inibitore delle tirosin chinasi, al dosaggio standard di 400 mg/die. dopo un mese di trattamento con im, alla 5a settimana si documentava remissione ematologica completa (chr) e all’esame obiettivo scomparsa dell’organomegalia (fegato e milza non più palpabili); durante il primo mese di trattamento non era comparso nessun effetto collaterale. la rivalutazione di malattia effettuata dopo 3 mesi di terapia documentava una risposta ottimale secondo le raccomandazioni dell’european leukemianet 2006 [1], poiché si evidenziava chr, risposta citogenetica completa (ccgr) e notevole decremento del trascritto molecolare (bcr-abl% = 1,90). il paziente proseguiva il trattamento e al 4° mese si documentava reazione avversa non ematologica di grado ii (diarrea). veniva sospeso il trattamento per circa sette giorni, come da raccomandazioni, ma subito dopo, per febbre da non correlare al trattamento, proseguiva interruzione del trattamento per altri 10 giorni. la rivalutazione al 6° mese documentava persistenza della chr e ccgr, tuttavia all’analisi quantitativa si evidenziava incremento del trascritto molecolare rispetto al 3° mese (bcr-abl% = 4,5). attribuendo che all’esame morfologico documentava ipercellularità con iperplasia della serie granulocitaria;a carico della stessa serieincremento degli elementi più immaturi (mielociti e promielociti 30%), note di lieve ipoplasia della serie eritroide; ipermegacariocitosi. all’indagine di citogenetica convenzionale risultava positività per la presenza del cromosoma ph nel 100% delle metafasi analizzate senza alterazioni citogenetiche aggiuntive (aca). le indagini di biologia molecolare in rt-pcr mostravano il riarrangiamento per il gene di fusione ibrido con giunzione di tipo b3a2 codificante per una proteina di tipo p210 con un rapporto di bcr-abl% pari a 95,92 (tabella i). pertanto veniva posta diagnosi di leucemia mieloide cronica ph+ in fase cronica, con rischio sokal alto (1,78). dal punto di vista anamnestico è importante sottolineare che il paziente presentava turbe caratteriali che lo rendevano poco collaborante, tanto da far ipotizzare una scarsa aderenza al trattamento, dato da tenere in considerazione soprattutto per quanto riguarda la valutazione dell’efficacia del trattamento con imatinib, come vedremo. trattamento per l’importante leucocitosi, veniva inizialmente intrapresa terapia citoriduttiva esame risultato esame obiettivo y epatomegalia: 8 cm dall’arcata costale y splenomegalia: 20 cm dall’arcata costale esame emocromo gr: 3.940.0000/mm3; hb: 12,9 gr/dl; plt: 267.000/mm3; gb: 143.000/mm3 (n: 37%; e: 1%; b: 4%; promielociti: 12%; mielociti 21%; metamielociti: 18%; blasti: 7%) esami ematochimici y funzionalità epatica e renale nella norma y esami virologici: markers epatite b e c: negativi; hiv: negativo y ldh: 2071 u/l analisi morfologica su sangue midollare y aspirato con discreto numero di frustoli, ipercellulare y iperplasia della serie granulocitaria rappresentata in tutte le fasi di maturazione, con incremento degli elementi più immaturi (mielociti e promielociti 30%). a carico della stessa serie, note di atipia y lieve ipoplasia della serie eritroide y ipermegacariocitosi cariotipo su sangue midollare cariotipo: 46,xy t(9;22) (q34;q11) (100% metafasi positive per ph+) fish su sangue midollare fish (bm): 95% dei nuclei positivi per bcr/abl analisi molecolare qualitativa su sangue midollare p210 (b3a2) analisi molecolare quantitativa su sangue midollare bcr-abl/abl: 95,92% tabella i. prospetto riassuntivo degli esami del paziente all ’esordio 9 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) s. russo, g. penna, a. d’angelo, a. allegra, a. alonci, c. musolino l’incremento del trascritto alla sospensione del trattamento, si decideva di proseguire con la stessa terapia. la rivalutazione al 9° mese documentava persistenza della chr e, all’analisi molecolare su sangue periferico, decremento del trascritto (bcr-abl% = 1,8); pertanto si proseguiva il trattamento. durante il successivo trimestre non si rendeva necessaria alcuna sospensione della somministrazione di imatinib, tuttavia alla rivalutazione effettuata al 12° mese, nel marzo 2008, si documentava un notevole incremento del trascritto molecolare (bcr-abl% = 13,58) e una perdita della ccgr (ph+ = 30%) rispetto alla rivalutazione precedente, mentre veniva mantenuta la chr. pertanto secondo le raccomandazioni dell’eln 2006, la risposta del nostro paziente era da considerarsi un fallimento terapeutico, per perdita della risposta citogenetica. veniva pertanto avviato lo studio molecolare per la ricerca di mutazioni bcr-abl, che non evidenziava mutazioni del dominio tirosin chinasico dell’oncoproteina. secondo le raccomandazioni dell’eln 2006, ancora in vigore nel 2008, dopo fallimento del trattamento di prima linea le opzioni terapeutiche erano lo switch a inibitore di seconda generazione, l’incremento della dose di imatinib in pazienti che non avevano dimostrato intolleranza al farmaco o l’avvio del paziente al trapianto allogenico di midollo osseo. lo studio hla dei 5 fratelli del paziente consentiva di trovare due fratelli compatibili, tuttavia il paziente rifiutava questa opzione terapeutica e anche la valutazione psichiatrica in quel momento sconsigliava questa scelta terapeutica. in considerazione della sostanziale buona tollerabilità del paziente all’im nei 12 mesi di trattamento in prima linea, si decideva di vagliare l’ipotesi della dose escalation, previa esecuzione del blood level testing (blt). venivano pertanto effettuati due prelievi a distanza di un mese che hanno documentato rispettivamente i seguenti dosaggi di imatinib: 900 e 1008 ng/ml, valori ai limiti inferiori (valore soglia 1000 ng/ml). nel marzo 2009 veniva pertanto intrapreso trattamento con im ad alte dosi (800 mg/die). dopo una iniziale risposta al trattamento con alte dosi di imatinib (notevole decremento del trascritto molecolare dopo 3 mesi di trattamento), dopo 5 mesi, per insorgenza di reazione avversa non ematologica di grado ii (edemi), si sospendeva il trattamento per circa 2 settimane, con ripercussione sul dato della molecolare al 6° mese di trattamento, per notevole incremento del trascritto molecolare bcr-abl = 15,7%. persistevano invece la pcgr (ph+ 30%) e la chr. in questa circostanza si sospettava comunque una scarsa aderenza al trattamento, poiché il paziente appariva poco compliante. dopo 9 mesi di trattamento con im ad alte dosi, il paziente rifiutava la valutazione su sangue midollare, per cui si procedeva a valutazione molecolare solo su sangue periferico, che documentava decremento del trascritto molecolare (bcr-abl = 6,7%); si proseguiva quindi il trattamento e si rimandava eventuale switch terapeutico alla rivalutazione del trimestre successivo. durante il successivo trimestre il paziente lamentava saltuariamente l’insorgenza di disturbi quali edemi, diarrea e crampi muscolari agli arti inferiori. tuttavia l’entità dei disturbi non richiedeva interruzione del trattamento, ma faceva ipotizzare una scarsa aderenza al trattamento da parte del paziente. alla luce di tale ipotesi, si decideva di anticipare la rivalutazione di un mese. pertanto, dopo 23 mesi complessivi dall’inizio del trattamento con im, 12 mesi al dosaggio standard (400 mg/die) e i successivi 11 mesi ad alte dosi (800 mg/die), nel marzo 2009 la rivalutazione di malattia documentava un fallimento terapeutico per perdita totale della risposta citogenetica, positività della ricerca del cromosoma philadelphia nel 100% delle metafasi analizzate, senza aca, e un notevole incremento del trascritto molecolare a valori sovrapponibili a quelli dell’esordio (bcr-ablis = 90,2%). persisteva tuttavia la chr, anche se lo studio morfofigura 1. andamento della risposta molecolare a imatinib secondo i risultati ottenuti con la qrt-pcr: la risposta molecolare non viene mai raggiunta in 23 mesi di trattamento, dapprima alla dose standard e successivamente alle alte dosi 10 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) efficacia di nilotinib in un giovane paziente affetto da lmc ad alto rischio sokal in fallimento terapeutico logico su sangue midollare documentava un incremento delle forme più immature della serie mieloide (figura 1). clinicamente si rilevava solo lieve incremento volumetrico della milza (2 cm dall’arcata costale). veniva avviato, ancora una volta, lo screening mutazionale che dava esito negativo per la ricerca di mutazioni del dominio chinasico. alla luce di tale dato, si decideva per una radicale modifica dell’approccio terapeutico, per cui, esclusa l’opzione trapiantologica per volere del paziente, veniva avviato il trattamento con inibitore di seconda generazione, nilotinib (nil), al dosaggio standard di 400 mg 2 volte/die. da subito la scelta terapeutica si è rivelata efficace: già dopo 3 settimane la milza non era più palpabile e al 3° mese di rivalutazione veniva raggiunta la ccgr e la mmr, quest’ultima mai raggiunta in 23 mesi di trattamento con im. nel corso dell’ultima rivalutazione, effettuata nel settembre 2011, al 30° mese dall’inizio dell’inibitore di ii generazione, l’analisi molecolare quantitativa evidenziava il seguente trascritto: bcr-ablis= 0,00003% con persistenza della risposte chr e ccgr (figura 2). si sottolinea, inoltre l’assenza di effetti collaterali durante tutto il corso del trattamento con nil. il nostro paziente rispondeva pertanto ai criteri di risposta ottimale al secondo inibitore, in base alle raccomandazioni dell’eln 2009 [2] (tabella ii), e in atto prosegue il trattamento con buona aderenza e tollerabilità al trattamento. considerazioni cliniche l’introduzione di im nel trattamento della lmc ph+ ha radicalmente modificato lo scenario terapeutico di una malattia che, fino al decennio scorso, si concludeva inevitabilmente con la trasformazione in crisi blastica, consentendo nella maggior parte dei casi il raggiungimento di una risposta al trattamento stabile e duratura. tuttavia non bisogna dimenticare che questo farmaco necessita un’assunzione indefinita poiché si è dimostrato capace di curare, ma non guarire, i pazienti affetti da lmc ph+, e inoltre la gestione del monitoraggio della risposta al trattamento è molto complessa e necessita di un’attenta valutazione, in modo da garantire un risultato ottimale della terapia in termini di efficacia e gestione degli effetti collaterali. dopo l’introduzione degli inibitori delle tirosin chinasi di seconda generazione, nilotinib e dasatinib, appare di fondamentale importanza riconoscere precocemente i pazienti in cui il trattamento con im non ha un’efficacia ottimale e che sono quindi candidati ad alternative terapeutiche, poiché non bisogna dimenticare che le risposte agli figura 2. andamento della risposta molecolare a nilotinib secondo i risultati ottenuti con la qrt-pcr: la risposta molecolare viene raggiunta dopo solo tre mesi di trattamento tempo risposta ottimale risposta subottimale fallimento warnings diagnosi na na na resistenza ematologica a im mutazioni cca in cellule ph+ (evoluzione clonale) 3 mesi pcyr mcyr no cyr nuova mutazione mcyr 6 mesi ccyr pcyr < mcyr nuova mutazione mcyr 12 mesi mmr < mmr < pcyr nuova mutazione tabella ii. raccomandazioni dell ’european leukemianet 2009 [2]. definizione provvisoria della risposta all ’inibitore di seconda generazione tkis, dasatinib e nilotinib, come seconda linea di trattamento in pazienti affetti da lmc in fase cronica resistenti a imatinib aca = additional chromosome abnormalities; cca = clonal chromosome abnormalities; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; hr = risposta ematologica; im = imatinib; mcyr = risposta citogenetica minore; mmr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile; pcyr = risposta citogenetica parziale 11 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) s. russo, g. penna, a. d’angelo, a. allegra, a. alonci, c. musolino inibitori delle tirosin chinasi sono tanto più efficaci e durature quanto più precocemente raggiunte [3,4]. da qui l’importanza di attenersi alle raccomandazioni dell’european leukemianet (eln), per la loro attendibilità come guida nel monitoraggio del trattamento della lmc e della definizione della risposta [1,2]. nel caso clinico illustrato il paziente è stato sottoposto ai controlli ematologici, citogenetici e molecolari previsti, che hanno documentato come, dopo una iniziale risposta ottimale, con risposta citogenetica completa raggiunta al 3° mese e mantenuta anche al 6° mese, si sia avuto un fallimento terapeutico, per perdita al 12° mese della risposta citogenetica precedentemente raggiunta. tra le strategie terapeutiche possibili in caso di fallimento con im nei pazienti ad alto rischio sokal [5], potevamo scegliere tra tre opzioni: l’allotrapianto, il passaggio ad inibitore di ii generazione, (nel marzo 2008 in italia era in commercio solo dasatinib) e le alte dosi di imatinib. prima di effettuare la nostra scelta terapeutica abbiamo condotto indagini più approfondite per comprendere le cause della resistenza al trattamento con im mediante analisi mutazionale e lo studio delle concentrazioni plasmatiche di imatinib. per quanto riguarda l’analisi mutazionale, nell’era degli inibitori di seconda generazione è ormai un esame indispensabile, infatti è stato riscontrato che l’incidenza di resistenza a imatinib dovuta a mutazioni in fase cronica costituisce circa il 40-50%, e risulta più elevata in caso di resistenza secondaria (> 50%) che primaria e in fase avanzata rispetto alla fase cronica. a tutt’oggi, sono state identificate circa 90-100 mutazioni ed è noto l’ic50 di ogni mutazione. di tali mutazioni, alcune riducono l’affinità di legame per imatinib, ma rispondono all’incremento di dose del farmaco, altre conferiscono una resistenza completa alla terapia con imatinib, eccetto la mutazione t315i, che non risponde a nessun inibitore delle tirosin chinasi attualmente disponibile; alcune di queste mutazioni, invece, rispondono ai nuovi inibitori [6,7,8]. in particolare, in una recente pubblicazione è stato dimostrato che solo le mutazioni del p-loop e la mutazione del t315i sono clinicamente rilevanti e quindi in grado di avere un impatto su os (overall survival) e pfs (progression free survival) [9,10]. da qui la necessità di effettuare l’analisi mutazionale per individuare precocemente possibili mutazioni causa di resistenza [11]. secondo le nuove linee guida, lo screening mutazionale va riservato ai pazienti in risposta sub-ottimale e in fallimento terapeutico, nei casi di incremento della ratio di 1 o 2 log o, secondo dati di letteratura più recenti, in tutti quei casi in cui non viene raggiunta la risposta molecolare maggiore, pur avendo ottenuto la risposta citogenetica completa [12,13]. per quanto riguarda il blood level testing (blt), tale indagine è un esame per la determinazione della concentrazione plasmatica di im, utile perché studi di farmacocinetica hanno dimostrato che, alla dose standard raccomandata di im, la concentrazione plasmatica minima di imatinib è approssimativamente 1.000 ng/ml. in atto infatti, secondo dati di letteratura, la concentrazione plasmatica di 1.002-1.009 ng/ml correla con la ccr e mmr [14], pertanto al di sotto di tale valore è giustificato un incremento di dose in caso di resistenza al trattamento, in pazienti con buona tolleranza al farmaco. nel caso del nostro paziente, lo studio mutazionale non evidenziava mutazioni, mentre il blt effettuato su due campioni, a distanza di circa un mese, risultava ai limiti inferiori: appariva quindi giustificato il tentativo della dose escalation di im a 800 mg/die, anche in considerazione della discreta tollerabilità al farmaco dimostrata dal paziente nei 12 mesi di trattamento precedente. come emerge dall’analisi di due importanti studi, l’iris [15] e quello del m. d. anderson cancer center [16], la dose escalation era da considerarsi una concreta strategia terapeutica in grado di migliorare le risposte ottenute con il dosaggio standard di im. si deve tuttavia sottolineare che, secondo i più recenti dati di letteratura, sebbene l’incremento di dose sembri essere efficace nel breve periodo, alcuni importanti esperti come jabbour e kantarjian mettono in dubbio la capacità di questa strategia terapeutica di mantenere a lungo termine la risposta ottenuta, con conseguente impatto sull’outcome a lungo termine del paziente [17]. a tal riguardo, dati di efficacia sulla dose escalation di im sono stati presentati al recente congresso dell’european hematology association (eha, giugno 2011). in particolare, lo studio re-nice ha documentato, nei pazienti sub-ottimali, la superiorità dell’inibitore di seconda generazione nilotinib rispetto a imatinib in termini di percentuali di raggiungimento della risposta molecolare e della precocità nel raggiungimento della stessa [18]; e sempre per quanto riguarda i pazienti sub-ottimali è 12 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) efficacia di nilotinib in un giovane paziente affetto da lmc ad alto rischio sokal in fallimento terapeutico stato presentato un poster della sottoanalisi dello studio enestnd, in cui veniva sottolineato come, nel 60% dei casi, l’incremento di dose di imatinib non determini miglioramento in termini di efficacia, rispetto alla dose standard [19]. in accordo con questi studi, anche nel caso da noi riportato, l’opzione terapeutica dell’incremento di dose di im, non solo non ha permesso di modificare significativamente la risposta, ma a causa di una maggiore tossicità, ha probabilmente determinato una scarsa compliance da parte del paziente. ritornando dunque al caso del nostro paziente, dopo il fallimento terapeutico delle alte dosi di imatinib, si imponeva una nuova strategia terapeutica. esclusa la presenza di mutazioni e in assenza di comorbilità in grado di condizionare la nostra scelta, abbiamo intrapreso il trattamento con inibitore di ii generazione, nilotinib, al dosaggio standard di 400 mg/due volte al giorno. nilotinib è un inibitore delle tirosin chinasi di seconda generazione, la cui struttura molecolare deriva da quella di imatinib; come tale nilotinib si lega solo alla conformazione chiusa di bcr-abl, da qui l’estrema specificità, come per imatinib, per un numero molto limitato di tirosin chinasi (abl, c-kit, pdgfr) rispetto ad altri inibitori delle tirosin chinasi che, legandosi alla conformazione aperta, risultano meno selettivi. tuttavia proprio per alcune peculiari caratteristiche strutturali diverse da imatinib e la conseguente maggiore affinità alla tasca di legame del dominio chinasico, che conferisce stabilità al legame, nilotinib presenta una selettività maggiore per abl (minore per c-kit e pdgfr), maggiore potenza (circa 30 volte più potente di imatinib), minore mutagenicità (i legami a idrogeno tipici di imatinib sono sostituiti da interazioni lipofiliche, ciò rende la tasca apparentemente meno soggetta a mutazioni), un ottimale profilo di tollerabilità (perché agisce solo su pochi bersagli e non coinvolge altre molecole causa dell’insorgenza di reazioni avverse) e assenza di cross-intolleranza con imatinib [20-22]. queste caratteristiche di maggiore specificità, selettività e potenza si traducono in una miglior efficacia clinica di nilotinib rispetto a imatinib. infatti, come documentato da importanti e recenti studi di efficacia su un’ampia corte di pazienti, tra cui i recenti trials di fase ii [23] sull’efficacia di nil in seconda linea e il più importante studio sulla sicurezza di nil, lo studio enact [24], questo farmaco ha dimostrato di essere capace di superare la resistenza a imatinib, in tutte le fasi della lmc (cronica, accelerata e blastica), sia in presenza sia in assenza di mutazioni sensibili. ciò, come documentato dai risultati di questi studi, ha consentito il raggiungimento di risposte stabili anche in pazienti considerati difficili perché, ad esempio, in fallimento terapeutico dopo molte linee terapeutiche e in pazienti anziani, e inoltre grazie alla sua selettività ha dimostrato un ottimo profilo di sicurezza. anche per quanto riguarda l’impiego di nil in prima linea, lo studio enestnd [25] e lo studio tutto italiano 0307 del gruppo gimema [26] hanno decretato la superiorità di nilotinib rispetto a imatinib, sia in termini di profondità e di stabilità della risposta ottenuta sia in termini di sicurezza. questi dati hanno certamente contribuito all’approvazione dell’impiego di nil in prima linea. concludendo, nel caso clinico descritto, la nostra scelta è stata premiata dall’eccellente risposta ottenuta dal paziente che, già al 3° mese di trattamento, aveva raggiunto l’importante traguardo della risposta molecolare maggiore (mmr), risposta che non era stata mai raggiunta, in 23 mesi di trattamento con im. inoltre in termini di tollerabilità, il nostro paziente non ha mai dovuto interrompere il trattamento. ad oggi il nostro paziente mantiene la risposta raggiunta. l’ultima rivalutazione effettuata nel settembre 2011, al 30° mese di trattamento con nilotinib, conferma una risposta stabile e duratura, anzi evidenzia sempre un progressivo decremento del trascritto molecolare. certamente questa nostra esperienza testimonia l’importanza dell’applicazione delle linee guida dell’eln, in grado di individuare pazienti in risposta sub-ottimale, failure o con warnings, che necessitano di strategie terapeutiche diverse. da tutto ciò deriva l’importanza dello switch precoce agli inibitori di seconda generazione in caso di resistenza o intolleranza a imatinib, proprio per l’impatto che il raggiungimento di una precoce risposta molecolare ha sull’outcome a lungo termine dei pazienti, come dimostrato dagli studi di brandford [27]. punti chiave del caso dose escalation di imatinib in alcuni pazienti la dose escalation di imatinib si è dimostrata efficace inizialmente nel migliorare alcune risposte ottenute con il dosaggio standard di imatinib in prima linea [15, 16]; tuttavia non sembra in grado di mantenere queste risposte nel tempo. alla luce dei dati di efficacia e tollerabilità dimostrate dagli inibitori di ii generazione, in caso di resistenza al trattamento appare giustificato uno switch precoce al secondo inibitore, rispetto all ’incremento di dose di imatinib, riservando quest’ultima opzione solo ad uno specifico subset di pazienti [17]. pertanto si conclude che l ’incremento di dose di imatinib è un’opzione terapeutica non più indicata, e a tal riguardo le raccomandazioni dell ’eln saranno aggiornate. ruolo del blt (blood level test) ad oggi in letteratura non vi è alcuna evidenzia clinica che una bassa concentrazione plasmatica di imatinib possa correlare con un’inefficacia terapeutica; inoltre, in caso di valori superiori a 1.000 ng/ml, non vi sono dati in grado di predire l ’efficacia terapeutica delle alte dosi di imatinib in caso di resistenza al dosaggio standard. infatti, alcuni studiosi si sono interrogati sull ’effettivo peso che il blt possa avere nei pazienti in fallimento terapeutico [28]. in attesa di aggiornamenti sull ’adeguata interpretazione clinica dei risultati del blt, riportiamo quindi le indicazioni in atto riservate per questo test: y risposta non soddisfacente al trattamento; y sospetta non aderenza; y sospetta interazione farmacologica; y in caso di severi effetti collaterali per valutare dunque eventuale sovraddosaggio causa dell ’insorgenza degli aventi avversi. 13 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) s. russo, g. penna, a. d’angelo, a. allegra, a. alonci, c. musolino cacia di nil in seconda linea e il più importante studio sulla sicurezza di nil, lo studio enact [24], questo farmaco ha dimostrato di essere capace di superare la resistenza a imatinib, in tutte le fasi della lmc (cronica, accelerata e blastica), sia in presenza sia in assenza di mutazioni sensibili. ciò, come documentato dai risultati di questi studi, ha consentito il raggiungimento di risposte stabili anche in pazienti considerati difficili perché, ad esempio, in fallimento terapeutico dopo molte linee terapeutiche e in pazienti anziani, e inoltre grazie alla sua selettività ha dimostrato un ottimo profilo di sicurezza. anche per quanto riguarda l’impiego di nil in prima linea, lo studio enestnd [25] e lo studio tutto italiano 0307 del gruppo gimema [26] hanno decretato la superiorità di nilotinib rispetto a imatinib, sia in termini di profondità e di stabilità della risposta ottenuta sia in termini di sicurezza. questi dati hanno certamente contribuito all’approvazione dell’impiego di nil in prima linea. concludendo, nel caso clinico descritto, la nostra scelta è stata premiata dall’eccellente risposta ottenuta dal paziente che, già al 3° mese di trattamento, aveva raggiunto l’importante traguardo della risposta molecolare maggiore (mmr), risposta che non era stata mai raggiunta, in 23 mesi di trattamento con im. inoltre in termini di tollerabilità, il nostro paziente non ha mai dovuto interrompere il trattamento. ad oggi il nostro paziente mantiene la risposta raggiunta. l’ultima rivalutazione effettuata nel settembre 2011, al 30° mese di trattamento con nilotinib, conferma una risposta stabile e duratura, anzi evidenzia sempre un progressivo decremento del trascritto molecolare. certamente questa nostra esperienza testimonia l’importanza dell’applicazione delle linee guida dell’eln, in grado di individuare pazienti in risposta sub-ottimale, failure o con warnings, che necessitano di strategie terapeutiche diverse. da tutto ciò deriva l’importanza dello switch precoce agli inibitori di seconda generazione in caso di resistenza o intolleranza a imatinib, proprio per l’impatto che il raggiungimento di una precoce risposta molecolare ha sull’outcome a lungo termine dei pazienti, come dimostrato dagli studi di brandford [27]. punti chiave del caso dose escalation di imatinib in alcuni pazienti la dose escalation di imatinib si è dimostrata efficace inizialmente nel migliorare alcune risposte ottenute con il dosaggio standard di imatinib in prima linea [15, 16]; tuttavia non sembra in grado di mantenere queste risposte nel tempo. alla luce dei dati di efficacia e tollerabilità dimostrate dagli inibitori di ii generazione, in caso di resistenza al trattamento appare giustificato uno switch precoce al secondo inibitore, rispetto all ’incremento di dose di imatinib, riservando quest’ultima opzione solo ad uno specifico subset di pazienti [17]. pertanto si conclude che l ’incremento di dose di imatinib è un’opzione terapeutica non più indicata, e a tal riguardo le raccomandazioni dell ’eln saranno aggiornate. ruolo del blt (blood level test) ad oggi in letteratura non vi è alcuna evidenzia clinica che una bassa concentrazione plasmatica di imatinib possa correlare con un’inefficacia terapeutica; inoltre, in caso di valori superiori a 1.000 ng/ml, non vi sono dati in grado di predire l ’efficacia terapeutica delle alte dosi di imatinib in caso di resistenza al dosaggio standard. infatti, alcuni studiosi si sono interrogati sull ’effettivo peso che il blt possa avere nei pazienti in fallimento terapeutico [28]. in attesa di aggiornamenti sull ’adeguata interpretazione clinica dei risultati del blt, riportiamo quindi le indicazioni in atto riservate per questo test: y risposta non soddisfacente al trattamento; y sospetta non aderenza; y sospetta interazione farmacologica; y in caso di severi effetti collaterali per valutare dunque eventuale sovraddosaggio causa dell ’insorgenza degli aventi avversi. bibliografia 1. baccarani m, saglio g, goldman j, hochhaus a, simonsson b, appelbaum f, et al. european leukemianet. evolving concepts in the management of chronic myeloid leukemia; recommendations from an expert panel on behalf of the european leukemianet. blood 2006; 108: 1809-20 2. baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, saglio g, hochhaus a, et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-5 3. druker bj, guilhot f, o’brien sg, gathmann i, kantarjian h, gattermann n, et al; iris investigators. five-year follow-up of patients receiving imatinib for chronic myeloid leukemia. n engl j med 2006; 355: 2408-17 4. iacobucci i, saglio g, rosti g, testoni n, pane f, amabile m, et al; gimema working party on chronic myeloid leukemia. achieving a major molecular response at the time of complete cytogenetic response (ccgr) predicts a better duration of ccgr in imatinib-treated 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efficacia di nilotinib in un giovane paziente affetto da lmc ad alto rischio sokal in fallimento terapeutico analysis from the french intergroup of cml (fi (phi)-lmc group). leukemia 2006; 20: 1061-6 10. chu s, xu h, shah np, snyder ds, forman sj, sawyers cl, et al. detection of bcr-abl kinase mutations in cd34+ cells from chronic myelogenous leukemia patients in complete cytogenetic remission on imatinib mesylate treatment. blood 2005; 105: 2093-8 11. o’hare t, eide ca, deininger mw. bcr-abl kinase domain mutations, drug resistance, and the road to a cure for chronic myeloid leukemia. blood 2007; 110: 2242-9 12. soverini s, colarossi s, gnani a, rosti g, castagnetti f, poerio, et al. contribution of abl kinase domain mutations to imatinib resistance in different subsets of philadelphia-positive patients: by the gimema working party on chronic myeloid leukemia. clin cancer res 2006; 12: 7374-9 13. picard s, titier k, etienne g, teilhet e, ducint d, bernard ma, et al. trough imatinib plasma levels are associated with both cytogentic and molecular responses to standard-dose imatinib in chronic myeloid leukemia. blood 2007; 109: 3496-9 14. larson ra, druker bj, guilhot f, o’brien sg, riviere gj, krahnke t, et al; iris study group. imatinib pharmacokinetics and its correlation with response and safety in chronic-phase chronic myeloid leukemia: a subanalysis of the iris study. blood 2008; 111: 4022-8 15. kantarjian h m, larson ra, guilhot f, o’brien sg, mone m, rudoltz m, et al; international randomized study of interferon vs sti571 (iris) investigators. efficacy of imatinib dose escalation in patients with chronic myeloid leukemia in chronic phase. cancer 2009; 115: 55160 16. jabbour e, kantarjian h, jones d, shan j, o’brien s, reddy n, et al. imatinib mesylate dose escalation is associated with durable responses in patients with chronic myeloid leukemia after cytogenetic failure on standard-dose imatinib therapy. blood 2009; 113: 2154-60 17. jabbour e, cortes j, 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paziente in risposta non ottimale dopo terapia con imatinib a fronte di una ridotta compliance al nuovo farmaco francesca sassolini 1 caso clinico risposta molecolare completa indotta da nilotinib come terza linea di terapia in paziente affetta da leucemia mieloide cronica con mutazione f317l del dominio chinasico di bcr/abl maria iovine 1, mario troiano 1, giuseppe monaco 1, antonio abbadessa 1 caso clinico efficacia di nilotinib nel trattamento della lmc in fase cronica tardiva intollerante a imatinib e resistente a dasatinib emilio usala 1 ©seed tutti i diritti riservati 3 clinical management issues 1 sezione di ematologia, dipartimento di biomedicina clinica e molecolare, ospedale ferrarotto, aou policlinico vittorio emanuele, catania con i tki: la contemporanea presenza di comorbidità e l’utilità dell’“early shift” terapeutico. per quanto attiene alla prima tematica è opportuno ricordare come sempre più pazienti affetti da lmc si presenteranno alla nostra attenzione con una o spesso più comorbidità (diabete, cardiopatia ischemica, insufficienza renale, ecc.). diverrà pertanto di fondamentale importanza un corretto inquadramento clinico generale del paziente che non dovrà essere disgiunto dalla valutazione del rischio oncologico connesso alla sua lmc. i pazienti dovranno quindi essere strettamente monitorati per le loro comorbidità, e tuttavia queste, nella maggior parte dei casi, e per i dati disponibili in letteratura, non sono ostative al trattamento con i tki di seconda generazione, essendo in grado di mostrare la loro efficacia e tollerabilità [4-9]. il secondo aspetto evidenziato riguarda l’importanza della risposta clinica secondo i criteri eln, e dimostra come, in caso di risposta subottimale, un cambio ragionato e precoce di strategia terapeutica possa consentire di ottimizzare la risposta al trattamento. i casi clinici descritti dimostrano inoltre come sia di estrema importanza identificare per tempo il paziente subottimale di tipo citogenetico, in quanto portatore di una prognosi meno favorevole. in quest’ottica, le esperienze riportate e i dati più recenti della letteratura [10,11] suggerirebbero l’adozione di una strategia terapeutica di “early switch” ogniqualvolta necessario. fabio stagno 1 importanza della comorbidità e utilità dell’“early shift” terapeutico nella gestione del paziente con lmc editoriale corresponding author dott. fabio stagno fsematol@tiscali.it introduzione l’introduzione nell’armamentario terapeutico della leucemia mieloide cronica (lmc) degli inibitori delle tirosin kinasi (tki) non ha soltanto modificato il decorso naturale dell’emopatia ma anche rivoluzionato l’approccio terapeutico dell’ematologo clinico. da un’emopatia neoplastica invariabilmente fatale si è andati incontro ad una mediana di sopravvivenza, lmc – correlata, stimata intorno ai 20 anni, con conseguente incremento della prevalenza della patologia stessa [1]. questo ha comportato sia un nuovo approccio terapeutico, sfociato nei criteri dell’european leukemianet (eln) [2,3], che una maggiore attenzione alle tossicità comportate, a breve e lungo termine, dal trattamento con i tki. infatti, oggi, la prevenzione, il riscontro e il trattamento degli effetti collaterali sono uno dei maggiori fattori nel determinare sia il miglioramento della qualità di vita del paziente affetto da lmc sia la sua aderenza nel lungo termine alla terapia con i tki. inoltre, come nuova grande sfida per l’ematologo è sorta la gestione delle comorbidità del paziente (già presenti e/o subentranti) a causa della sua maggiore sopravvivenza a lungo termine. tutte queste nuove problematiche rendono oggi più complessa la gestione e il trattamento del paziente affetto da lmc. in questo numero di clinical management issues i diversi autori sottolineano due tematiche emergenti nell’ambito del trattamento disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. 4 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) editoriale bibliografia 1. deininger m, o’brien sg, guilhot f, goldman jm, hocchaus a, hughes tp et al. international randomized study of interferon vs sti571 (iris) 8-year follow up: sustained survival and low risk for progression or events in patients with newly diagnosed chronic myeloid leukemia in chronic phase (cml-cp) treated with imatinib. blood (ash annual meeting abstracts) 2009; 114: abstract 1126 2. baccarani m, saglio g, goldman j, hocchaus a, simonsson b, appelbaum f et al. evolving concepts in the management of chronic myeloid leukemia: recommendations from an expert panel on behalf of the european leukemianet. blood 2006; 108: 1809-20 3. baccarani m, cortes j, pane, f, niederwieser d, saglio g, apperley j et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51 4. jabbour e, deininger m, hocchaus a. management of adverse events associated with tyrosine kinase inhibitors in the treatment 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abstract 783 importanza della comorbidità e utilità dell’“early shift” terapeutico nella gestione del paziente con lmc fabio stagno 1 efficacia di nilotinib come terza linea di terapia in un paziente con leucemia mieloide cronica di lunga durata e possibile controindicazione cardiologica ester maria orlandi 1, sara redaelli 2 efficacia di uno switch precoce a nilotinib in paziente affetto da leucemia mieloide cronica in risposta non ottimale a imatinib ferdinando porretto 1 nilotinib è efficace e ben tollerato in pazienti con comorbidità multiple carmen fava 1, marco fizzotti 2, giuseppe saglio 1, giovanna rege-cambrin 1 switch precoce a nilotinib in un caso di risposta non ottimale a imatinib alessandra iurlo 1, tommaso radice 1, chiara de philippis 1, manuela zappa 1, mauro pomati 1, agostino cortelezzi 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2) clinical management issues 17 mario annunziata 1 caso clinico nell’ottobre 2008 una paziente di 52 anni si reca presso il nostro ambulatorio di ematologia per comparsa agli esami di routine di leucocitosi e piastrinosi. in anamnesi patologica remota è presente stenosi mitralica conseguente a malattia reumatica insorta all’età di 19 anni; all’età di 20 anni il soggetto ha subito un intervento chirurgico di sostituzione della valvola mitralica con valvola meccanica ed è attualmente riscontrabile una residua ipertensione polmonare di grado severo. la paziente è in trattamento con warfarin, furosemide, digossina e beta bloccanti. inoltre da oltre 10 anni è in trattamento con inibitori di pompa (omeprazolo) per reflusso gastroesofageo. terapia con nilotinib in una paziente affetta da leucemia mieloide cronica intollerante a imatinib e ipertensione polmonare severa abstract imatinib mesylate is a tyrosine kinase inhibitor that has significant efficacy in the treatment of chronic myelogenous leukemia. in general, hematologic and extrahematologic side effects of imatinib therapy are mild to moderate, with the large majority of patients tolerating prolonged periods of therapy. however, a minority of patients are completely intolerant of therapy, while others are able to remain on therapy despite significant side effects. here, we describe a chronic phase cml patient with pulmonary arterial hypertension, mechanical hearth valve, who experienced extrahematologic adverse event (persistent grade iii cutaneous rash, despite two discontinuations of imatinib and using of steroid). necessitating switch to one of new tyrosine kinase inhibitors, nilotinib, has resulted in complete cytogenetic response and major molecular response, after 3 and 6 months, respectively. no cross-intolerance with imatinib was observed during nilotinib therapy. besides, this clinical case suggests that warfarin and nilotinib can be used concurrently without the risk of increased anticoagulant effect. keywords: chronic myeloid leukemia, imatinib, nilotinib, extrahematologic toxicity, pulmonary severe hypertension nilotinib therapy in an imatinib intolerant chronic myeloid leukemia patient with pulmonary severe hypertension cmi 2010; 4(suppl. 2): 17-20 1 divisione di ematologia con trapianto, azienda ospedaliera cardarelli, napoli corresponding author mario annunziata annunziatam@libero.it perché descriviamo questo caso? la tossicità cutanea da imatinib di grado y 3-4 è un evento raro che si presenta con quadri clinici estremamente variabili in letteratura sono riportati pochi dati y concernenti la contemporanea somministrazione di nilotinib e altri farmaci, in particolare warfarin caso clinico l’esame obiettivo risulta negativo per epatomegalia e linfoadenomegalie, mentre la milza è palpabile a 2 cm dall’arco costale. vengono eseguiti esami di laboratorio che confermano la leucocitosi e la trombocitosi (wbc 58.900/mm3 con il 12% di elementi immaturi allo striscio di sangue periferico, disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2)18 terapia con nilotinib in una paziente affetta da lmc intollerante a imatinib e ipertensione polmonare plt 938.000/mm3, hb 12,6 g/dl); quindi si pratica l’aspirato midollare e viene avviata terapia con idrossiurea in attesa delle indagini di citogenetica e biologia molecolare. sulla base del risultato della citogenetica (46 xy; t(9;22) in tutte le 25 metafasi analizzate) e di biologia molecolare (presenza di trascritto ibrido bcr-abl p210), viene posta diagnosi di leucemia mieloide cronica in fase cronica (rischio sokal alto, pari a 0,94; euroscore 1,161) e iniziata terapia con imatinib 400 mg/die; prosegue la terapia cardiologica in corso. la paziente tollera bene la terapia con imatinib, e ottiene la remissione ematologica completa alla ventesima giornata. lamenta effetti collaterali di grado non superiore a ii, quali edemi periorbitali, crampi muscolari in particolare agli arti inferiori, dolori articolari e modesto incremento ponderale. prosegue terapia con imatinib 400 mg/die fino ai primi di dicembre 2008, quando compare rash cutaneo, pruriginoso, dapprima al tronco, poi al volto e infine agli arti superiori e inferiori. gli esami di laboratorio sono nella norma con l’eccezione di una modesta eosinofilia relativa (8% di eosinofili); risultano negativi anche l’esame parassitologico delle feci, la coprocoltura e l’ecografia addome; il rash viene quindi valutato quale effetto collaterale (tossicità cutanea di grado iii), per cui imatinib viene sospeso temporaneamente e si instaura terapia con antistaminici e steroidi a basse dosi. dopo circa 2 settimane la paziente non lamenta più alcuna sintomatologia e il rash è completamente regredito. viene reintrodotto imatinib alla dose di 200 mg/die per 2 settimane, quindi per assenza di fenomeni viene aumentato a 300 mg/die. ma dopo pochi giorni a tale dose compare nuovamente il rash cutaneo con prurito esteso al tronco a tronco e volto; si sospende nuovamente imatinib, si somministrano antistaminico e steroidi, e, alla scomparsa del rash, si reintroduce imatinib alla dose di 200 mg/die, senza sospendere antistaminico e steroide. ma il rash si ripresenta, con prurito in incremento, per cui si decide l’interruzione definitiva della terapia con imatinib. la sintomatologia regredisce nuovamente dopo pochi giorni di terapia steroidea a basso dosaggio; viene eseguita nuova valutazione cardiologica (ecg + ecocardiogramma), che risulta immodificata rispetto ai precedenti controlli: ritmo sinusale, ipertensione polmonare di grado severo con normale contrattilità del ventricolo sx, fe 55%, protesi meccanica mitralica normofunzionante; persiste la remissione ematologica completa. la scelta di una seconda linea di terapia per la leucemia mieloide cronica ricade sull’utilizzo di un inibitore di tirosin chinasi (tki) di seconda generazione, essendo scartata ogni procedura trapiantologica in considerazione della mancanza di un donatore familiare hla compatibile, dell’età della paziente, delle importanti comorbidità, della rapida risposta ematologica a imatinib, seppur gravata da tossicità extraematologica. l’opzione terapeutica è nilotinib, per cui, nel febbraio 2009, la paziente inizia terapia con nilotinib 200 mg x 2 al dì per 1 settimana, e in 3 settimane raggiunge il dosaggio ottimale di 400 mg x due volte al dì. prosegue immodificata la terapia cardiologica in atto. la paziente tollera bene la terapia; non è presente alcuna tossicità ematologica; a 2 settimane dall’inizio di nilotinib compare un modesto prurito diffuso che, senza alcuna lesione cutanea, scompare dopo circa 2 settimane nonostante non venga modificato il dosaggio dell’inibitore né vengano introdotti altri farmaci. nel giugno 2009, a 3 mesi dall’inizio di nilotinib, viene eseguito l’aspirato midollare di controllo che evidenzia remissione citogenetica completa (nessuna metafase ph positiva su 20 analizzate), ma assenza di risposta molecolare maggiore (rapporto bcr-abl/ abl 1,9 secondo international scale). nel settembre 2009, al controllo a 6 mesi dall’inizio della terapia in corso, viene eseguito ulteriore aspirato midollare che conferma la remissione citogenetica completa e attesta anche la remissione molecolare maggiore (bcr-abl/abl is 0,1). ad oggi, a 11 mesi dall’inizio, la paziente prosegue la terapia con nilotinib 400 mg due volte al dì; non presenta tossicità ematologica né extraematologica; tutti i parametri di laboratorio eseguiti risultano nella norma, compreso inr che non ha mai necessitato di significativi aggiustamenti posologici di warfarin. anche gli indici di funzionalità cardiaca, costantemente monitorati, non hanno subito alcuna variazione. discussione circa il 30-35% dei pazienti affetti da leucemia mieloide cronica in fase cronica in trattamento con imatinib è costretto a sospendere la terapia; nella maggior parte dei casi questo è dovuto a resistenza, molto più raramente a tossicità; negli studi clinici la sospensione definitiva del farmaco per eventi avversi è stimata pari a 1% tra i pazienti in fase cronica [1]. la tossicità cu©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2) 19 m. annunziata tanea di ogni grado è circa del 40%, per il grado iii o superiore, come nel caso clinico descritto, è stimata essere intorno al 2% [2]. la forma più frequente di reazione cutanea da imatinib è il rash accompagnato da prurito, generalmente limitato al tronco e agli arti, con aspetto di tipo maculo-papulare; più raramente è interessato il volto. la maggior parte dei casi sono forme autolimitanti che non richiedono alcun supporto terapeutico ulteriore ma che in rarissime occasioni possono dare esito a manifestazioni più gravi quali la sindrome di steven-johnson, necrolisi tossica, o pemfigo [3]. nel caso clinico descritto la reazione cutanea è stata di iii grado, invalidante per la paziente in particolare per la presenza di lesioni maculo-papulari al volto e per il prurito intenso; si è poi ripresentata di grado elevato per due volte dopo la sospensione di imatinib a dispetto della terapia steroidea sistemica e ha reso necessaria l’interruzione definitiva del farmaco. la scelta della terapia di seconda linea è ricaduta su un inibitore di tk di seconda generazione [4], essendo sconsigliata per questa paziente la procedura trapiantologica, per mancanza di un donatore familiare hla compatibile, ma anche per l’età della paziente (52 anni), per le importanti comorbidità presenti (paziente portatrice di valvola meccanica, ipertensione polmonare di grado severo) che rendevano inaccettabile il rischio correlato al trapianto [5]. la paziente inoltre ha risposto in maniera rapida a imatinib, ottenendo una risposta ematologica in soli 20 giorni di terapia. nel gennaio 2009, al momento dello switch terapeutico, erano presenti in commercio entrambi gli inibitori di tk di seconda generazione, dasatinib e nilotinib, con l’indicazione per entrambi in seconda linea per pazienti affetti da lmc resistenti o intolleranti a imatinib. nel caso di resistenza primitiva o secondaria il principale criterio di scelta di un secondo inibitore è costituito dalla presenza di mutazioni puntiformi del trascritto ibrido e dalla sensibilità all’inibitore [6]. tale criterio non è stato ovviamente dirimente nel caso clinico in questione. il principale fattore che ha inciso sulla scelta di nilotinib quale secondo inibitore è stata la presenza di ipertensione di grado severo dell’arteria polmonare; anche se questo specifico evento non è descritto nei vari trial di pazienti con dasatinib [7], il rischio di versamento pleurico/edema polmonare di grado severo, sebbene valutato essere estremamente basso, non era accettabile in questa paziente con deficit di funzionalità cardiocircolatoria. la necessità della paziente di utilizzare warfarin avrebbe potuto controindicare l’uso di alcuni inibitori di tk. gli inibitori di tk, infatti, inibiscono l’isoenzima cyp2c9, che a sua volta metabolizza il warfarin, con problemi di alterate concentrazioni plasmatiche dell’anticoagulante e in ultima analisi di inr. per questo motivo sia durante la somministrazione di imatinib sia di nilotinib successivamente, è stato monitorato il valore di inr in maniera costante, ma non si sono mai verificati alterazioni tali da richiedere drastici cambiamenti di dose di warfarin. ciò è stato confermato da un recente studio con nilotinib sull’interazione tra il farmaco e warfarin. tale studio ha dimostrato che l’inibizione del cyp2c9 in vitro non viene riscontrata nell’uomo. pertanto è consentita la terapia concomitante con nilotinib e warfarin [8]. il rischio di tossicità crociata tra imatinib e nilotinib è estremamente basso; in particolare, in nessuno tra i pazienti che avevano sperimentato tossicità cutanea di grado iii/iv in corso di imatinib è stata riscontrata tossicità cutanea durante terapia con nilotinib [9]. la risposta alla terapia con nilotinib è stata buona, avendo raggiunto la risposta citogenetica completa dopo soli 3 mesi di trattamento e la risposta molecolare maggiore al 6° mese dall’inizio di nilotinib, che fa prevedere un outcome favorevole per questa paziente [4-10]. tabella i percorso terapeutico della paziente: eventi e relativi aggiustamenti della terapia farmacologica data evento terapia ottobre 2008 diagnosi di lmc idrossiurea, poi imatinib 400 mg/die dicembre 2008 tossicità cutanea grado iii sospende imatinib antistaminici + steroidi dicembre 2008 risoluzione tossicità riprende imatinib 300 mg gennaio 2009 tossicità cutanea grado iii sospende imatinib febbraio 2009 inizia nilotinib 400 mg x 2/die giugno 2009 (+ 3 mesi) risposta citogenetica completa prosegue nilotinib 400 mg x 2/die settembre 2009 (+ 6 mesi) risposta molecolare maggiore prosegue nilotinib 400 mg x 2/die ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 2)20 terapia con nilotinib in una paziente affetta da lmc intollerante a imatinib e ipertensione polmonare bibligrafia druker bj, guilhot f, o’brien sg, gathmann i, kantarjian h, gattermann n et al. five year 1. follow-up of patients receiving imatinib for chronic myeloid leukaemia. n engl j med 2006; 355: 2408-17 kantarjian h, o’brien s, talpaz m, borthakur g, ravandi f, faderl s et al. outcome of patients 2. with philadelphia chromosome positive chronic myeloid leukaemia post imatinib mesylate failure. cancer 2007; 109: 1556-60 deininger mw, o’brien s, ford jm, druker bj. practical management of patients with chronic 3. myeloid leukemia receiving imatinib. j clin oncol 2003; 21: 1637-47 baccarani m, saglio g, goldman j, hochhaus a, simonsson b, appelbaum f et al. evolving 4. concepts in the management of chronic myeloid leukaemia. raccomendations from an expert panel on behalf of the european leukemianet. blood 2006; 108: 1809-20 gratwohl a, hermans j, goldman jm, arcese w, carreras e, devergie a et al. risk 5. assessment for patients with chronic myeloid leukaemia before allogeneic blood or marrow transplantation. chronic leukemia working party of the european group for blood and marrow transplantation. lancet 1998; 352: 1087-92 jabbour e, hochhaus a, cortes j, la rosée p. choosing the best treatment strategy for chronic 6. myeloid leukemia patients resistant to imatinib: weighing the efficacy and safety of individual drugs with bcr-abl mutations and patient history. leukemia 2010; 24: 6-12 hochhaus a, baccarani m, deininger m, apperley jf, lipton jh, goldberg sl et al. dasatinib 7. induces durable cytogenetic responses in patients with chronic myelogenous leukemia in chronic phase with resistance or intolerance to imatinib. leukemia 2008; 22: 1200-6 yin o, gallagher n, fischer d, zhao l, zhou w, golor g et al. no inibition of warfarin 8. pharmacokinetics and pharmacodynamics of nilotinib in human subjects. haematologica 2009; 94(s2): 345-6 jabbour e, kantarjian h, baccarani m, le coutre p, haque a, gallagher n et al. minimal 9. cross-intolerance between nilotinib and imatinib in patients with imatinib-intolerant chronic myeloid leukemia in chronic phase (cml-cp) or accelerated phase (cml-ap). blood 2008; 112: abstract 3215 tam cs10. , kantarjian h, garcia-manero g, borthakur g, o’brien s, ravandi f et al. failure to achieve a major cytogenetic response by 12 months defines inadequate response in patients receiving nilotinib or dasatinib as second or subsequent line therapy for chronic myeloid leukemia. blood 2008; 112: 516-8 punti chiave in caso di tossicità extraematologica agli inibitori di tk di grado superiore a 2 è consigliabile y sospendere la terapia fino a quando la tossicità non sia del tutto risolta o sia almeno di grado i. quindi riprendere la terapia a dose ridotta aumentando progressivamente il dosaggio fino a quello ottimale. la terapia sintomatica o di supporto, come gli steroidi e gli antistaminici nel caso clinico in questione, può essere somministrata contemporaneamente. in caso di comparsa di tossicità per 2 volte consecutive, della stessa intensità o superiore, è consigliabile interrompere definitivamente il trattamento e passare a un inibitore di seconda generazione i fattori da prendere in considerazione per la scelta di un secondo inibitore di tk sono nuy merosi: innanzitutto la presenza di mutazioni puntiformi di bcr-abl, e la loro sensibilità agli inibitori di tk, quindi l ’eventuale precedente tossicità a imatinib e la cross reattività con i nuovi inibitori, infine le eventuali patologie concomitanti (patologie cardiopolmonari, diabete, pancreatiti in particolare) e gli altri farmaci assunti dal paziente l’interazione tra inibitori di tk di seconda generazione e altri farmaci assunti dal paziente y deve essere strettamente monitorata anche perché questi dati sono al momento esigui; ad esempio nel nostro caso è stata effettuata una frequente valutazione dell ’inr perché la paziente era anche in trattamento con warfarin. tuttavia, come riportato nel recente aggiornamento del riassunto delle caratteristiche di prodotto di nilotinib, questo inibitore della tk bcrabl ha dimostrato di non comportare alcuna interazione a livello clinico con warfarin ottimizzazione della dose di imatinib a seguito della progressione della malattia in un paziente con gist metastatico clinical management issues 2011; 5(suppl 4) 3 clinical management issues nale (gist) di ansa del tenue ad alto rischio. le indagini immunofenotipiche evidenziano l’espressione delle molecole kit-cd117, mentre la desmina non è espressa e mib-1 (indice proliferativo) è positivo al 6%. a ulteriori indagini di imaging il paziente è risultato non metastatico ed è stato sottocaso clinico il nostro caso clinico riguarda un paziente di 68 anni. ha svolto il servizio di leva. non fuma, nega allergie a farmaci e alimenti, riferisce saltuaria nicturia e dieta ipocalorica per sovrappeso. i genitori sono deceduti per cause cardiorespiratorie. a 50 anni, a seguito della diagnosi di calcolosi renale sinistra, è stato sottoposto a litotripsia ed è avvenuto il riscontro ecotomografico di fibroleioma prostatico. nel mese di giugno 2006 il paziente si reca in pronto soccorso per la comparsa improvvisa di intense algie addominali. esegue un’ecotomografia addominale, che mostra una neoformazione proliferativa ileale extraluminale di 10 × 5 cm, per cui è sottoposto a intervento chirurgico di resezione ileale con diagnosi di tumore di stroma gastrointesticorresponding author dott.ssa mariangela parodi mariangelaparodi@asl3.liguria.it caso clinico abstract here we report a case of a man affected by metastatic gist since march 2007. his oncologic history began in 2006 when he was submitted to ileal resection and diagnosis of abdominal gist was made. he was free of disease at radiologic controls until march 2007, when peritoneal nodules were shown. he started imatinib as first line therapy at standard dose of 400 mg/day and he reached a partial response at 6 months according to response evaluation criteria in solid tumors (recist). after 24 months he performed ct scan that showed progression disease. for this reason he increased imatinib dose to 800 mg/day. imatinib was safely administered and radiologic analysis performed at 3 and 6 months demonstrated stable disease according to recist. the patient is continuing oral therapy with imatinib at 800 mg/day and the disease is still stable. keywords: metastatic gist; imatinib; recist imatinib dose optimisation following the disease progression in a patient with metastatic gist cmi 2011; 5(suppl 4): 3-6 1 uos oncologia medica, ospedale p.a. micone, genova sestri ponente mariangela parodi 1, monica boitano 1, luciano canobbio 1 ottimizzazione della dose di imatinib a seguito della progressione della malattia in un paziente con gist metastatico perché descriviamo questo caso questo caso clinico conferma i dati secondo cui l ’aumento della posologia di imatinib a 800 mg/die nei pazienti adulti con tumori stromali del tratto gastrointestinale (gist) maligni non operabili e/o metastatici positivi a kit (cd117) e in progressione al trattamento convenzionale determina controllo della malattia disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 4)4 ottimizzazione della dose di imatinib a seguito della progressione della malattia in un paziente con gist metastatico domande da porsi y a seguito di una progressione di malattia a dosi convenzionali con imatinib, qual è la strategia terapeutica? y qual è il profilo di tollerabilità di imatinib? discussione e conclusioni i gist sono i più frequenti tumori mesenchimali del tratto gastrointestinale. sono caratterizzati nel 95% dei casi da un’alterazione molecolare di una proteina, c-kit tirosinchinasi (cd117) transmembrana, responsabile di un’incontrollata proliferazione cellulare [1-4]. imatinib è un farmaco a “bersaglio molecolare mirato” in grado di inibire cd117 [5]. è indicato come trattamento adiuvante nei gist operati a rischio significativo di ricaduta e nei casi avanzati non operabili e/o metastatici a dosi di 400 e 800 mg/die. la posologia ottimale di imatinib nei pazienti con malattia estesa è stata argomento di numerosi studi [6-10]. le linee guida concordano nell’indicare imatinib 400 mg/die come dose iniziale ottimale nella maggior parte dei pazienti, con possibilità, in coloro che esprimono mutazione nell’esone 9 di kit, di iniziare con 800 mg/die. tale dosaggio ha infatti dimostrato di migliorare la sopravvivenza libera da progressione in questa categoria di pazienti. in generale il trattamento dovrebbe essere continuato per un periodo indefinito in quanto l’interruzione dell’assunzione generalmente è seguito da progressione del tumore. nei casi di progressione del tumore in pazienti in trattamento con imatinib 400 mg/die vi è accordo, in assenza di controindicazioni cliniche, nell’aumentare la dose del farmaco a 800 mg/die [11]. l’efficacia della strategia terapeutica è stata evidenziata nello studio eortc-isg-agitg, in cui 133 dei 247 pazienti in progressione di malattia nonostante il trattamento con imatinib 400 mg/ die, sono passati a imatinib al dosaggio di 800 mg/die. in questi pazienti è stato evidenziato un controllo di malattia nel 29% dei casi, una pfs media di 11,5 settimane e circa 18% dei pazienti ancora in vita e senza progressione di malattia a un anno dall’incremento della dose [12]. posto a regolari controlli clinico-strumentali in assenza a suo tempo di un trattamento indicato nel setting adiuvante. nel mese di marzo 2007 il paziente esegue una tac torace-addome che evidenzia la comparsa di tre noduli addominali peritoneali di diametro variabile tra 1,5 e 3 cm, che sono confermati a una successiva pet. il quadro depone per progressione di malattia: lo stadio è metastatico e non operabile. il paziente è in buone condizioni generali: è asintomatico, alvo e diuresi sono regolari. gli esami ematici sono nella norma e non esistono comorbilità limitanti alcun trattamento, per cui si avvia a terapia medica di prima linea con imatinib 400 mg/die. imatinib risulta soggettivamente discretamente tollerato per coliche addominali di grado 1 e diarrea di grado 1 secondo i criteri di tossicità della scala ecog (evento ritenuto di correlazione sospetta con il farmaco e debitamente segnalato al responsabile di farmacovigilanza della struttura sanitaria di appartenenza). prosegue il follow-up clinico strumentale trimestrale. la rivalutazione strumentale dopo sei mesi mostra i noduli addominali ridotti a 1-2 cm di diametro massimo, quindi una risposta parziale secondo i criteri di valutazione della risposta recist. il paziente prosegue il trattamento con imatinib 400 mg/die. nel mese di maggio 2009 a una tac torace-addome risulta una progressione di malattia: i noduli preesistenti sono aumentati di dimensione, raggiungendo un diametro variabile tra 4 e 6 cm. il paziente continua a essere asintomatico tranne per la diarrea di grado 1. si concorda con il paziente di proseguire il trattamento con imatinib alla dose di 600 mg/die e, se la tollerabilità al trattamento è conservata, dopo un periodo di osservazione clinica di aumentare la dose a 800 mg/die. quindi a luglio 2009 il paziente inizia il trattamento con imatinib a 800 mg/die. i controlli strumentali a 3 e 6 mesi documentano la stabilità di malattia. episodi intermittenti di coliche addominali e diarrea di grado 1 risultano essere gli effetti collaterali indotti dalla terapia a 800 mg/die. il paziente è tuttora in buone condizioni cliniche e continua il trattamento con imatinib a 800 mg/die. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 4) 5 m. parodi, m. boitano, l. canobbio linea, oltre a essere supportata da diverse evidenze sperimentali, ha avuto esito positivo anche nel paziente oggetto del presente caso clinico il quale, in seguito a progressione di malattia nonostante il trattamento con imatinib 400 mg/die, è passato al dosaggio di 800 mg/die e si trova a oggi, dopo circa 2 anni di trattamento, in buone condizioni cliniche. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. nel complesso l’incremento di dose risulta ben tollerato. è stato infatti riscontrato solo un lieve aumento della frequenza di anemia e astenia mentre le altre tossicità sono rimaste invariate [12]. lo studio clinico valutava il confronto tra 400 mg/die e 800 mg/die e ha dimostrato nessun vantaggio in termini di sopravvivenza nel braccio 800 mg/die. l’approccio terapeutico ottimale pertanto prevede l’inizio del trattamento con imatinib a 400 mg/die con successivo incremento a 800 mg/die in caso di progressione di malattia e buona tolleranza al farmaco. tale strategia terapeutica, che permette di sfruttare l’efficacia clinica di imatinib ritardando il passaggio a un farmaco di seconda risposte ai quesiti emersi y in seguito a progressione di malattia con il trattamento a dosi convenzionali di imatinib prima di passare ad altre strategie terapeutiche le linee guida sono concordi nell ’aumentare il dosaggio a 800 mg/die y in seguito a esposizione a 400 mg/die, l ’incremento di dose di imatinib a 800 mg/die risulta ben tollerato con un aumento minimo o nullo della tossicità bibliografia 1. joensuu h, roberts pj, sirlomo-rikala m, anderson lc, tervahartiala p, tuveson d et al. 1. effect of the tyrosine kinase inhibitor sti571 in a patient with a metastatic gastrointestinal tumor. n eng j med 2001; 344: 1052-6 2. joensuu h, fletcher c, dimitrijevic s, silberman s, roberts p, demetri g. management of 2. malignant gastrointestinal stromal tumors. lancet oncol2002; 3: 655-64 3. dematteo rp, lewis jj, leung d, mudan ss, woodruff jm, brennan mf. two hundred 3. gastrointestinal stromal tumors: recurrence patterns and prognostic factors for survival. am surg 2000; 231: 51-8 4. miettinen m, lasota j. gastrointestinal stromal tumors definition, clinical, histological, 4. immunohistochemical features and differential diagnosis. virchows arch 2001; 438: 1-12 5. rubin bp, heinrich mc, corless cl. gastrointestinal stromal tumor.5. lancet 2007; 369: 1731-41 6. george d, demetri g, charles d. efficacy and safety of imatinib mesyate in advanced 6. gastrointestinal stromal tumors. n engl j med 2002; 347: 472-80 7. van oosterom at, judson i, verweij j, stroobants s, donato di paola e, dimitrijevic s et al; 7. european organisation for research and treatment of cancer soft tissue and bone sarcoma group. safety and efficacy of imatinib (sti571) in metastatic gastrointestinal tumors. a phase i study. lancet 2001; 358: 1421-3 8. demetri gd, von mehren m, blanke cd, van den abbeele ad, eisenberg b, roberts pj et 8. al. efficacy and safety of imatinib mesylate in advanced gastrointestinal stromal tumors. n engl j med 2002; 347: 472-80 9. blanke cd, rankin c, demetri d, ryan cw, von mehren m, benjamin rs et al. phase iii 9. randomized intergroup trial assessing imatinib mesylate at two dose levels in patients with unresectable or metastatic gastrointestinal tumors expressing the kit receptor tyrosine kinase: s0033. j clin oncol 2008; 26: 626-32 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 4)6 ottimizzazione della dose di imatinib a seguito della progressione della malattia in un paziente con gist metastatico 10. verweij j, casali pg, zalcberg j, lecesne a, reichardt p, blay jy et al. progression-free 10. survival in gastrointestinal stromal tumours with high-dose imatinib: randomised trial. lancet 2004; 364: 1127-34 11. casali pg, blay jy. on behalf of the esmo/conticanet/eurobonet consensus panel of experts. gatrointestinal stromal tumours: esmo clinical practice guidelines for diagnosis, treatment and follow-up. ann oncol 2010; 21 (suppl5): v98-v102 12. zalcberg jr, verweij, casali pg, le cesne a, reichardt p, blay jy et al; eortc soft tissue 11. and bone sarcoma group, the italian sarcoma group; australasian gastrointestinal trials group. outcome of patients with advanced gastrointestinal stromal tumors crossing-over to a daily imatinib dose if 800 mg after progression on 400 mg. eur j cancer 2005; 41: 1751-7 ottimizzazione della dose di imatinib a seguito della progressione della malattia in un paziente con gist metastatico mariangela parodi 1, monica boitano 1, luciano canobbio 1 caso clinico imatinib adiuvante in paziente con gist ad alto rischio di comportamento maligno definito in base a parametri clinici, istologici e genotipo tumorale patrizia lista 1, agostino ponzetti 1 caso clinico considerazioni sull’appropriatezza della durata della terapia adiuvante con imatinib in un paziente con gist ad alto rischio: la migliore scelta nell’anno 2010 lucia tozzi 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 35 clinical management issues derale di 5 kg. circa 10 giorni prima della visita in ospedale era comparsa una tumefazione sottomandibolare destra di dimensioni ingravescenti fino a 3 cm di diametro, dura, ipomobile e poco dolente. l’ecografia del collo eseguita ambulatorialmente attribuiva la lesione a pacchetto linfonodale di aspetto reattivo, senza immagini riferibili a scialolitiasi. su indicazione del medico di famiglia, il paziente aveva quindi avviato un trattamento antibiotico empirico con 2 g/die di amoxicillina/acido clavulanico per os, senza ottenere però alcun miglioramento clinico. l’andamento della febbre era da una settimana di tipo intermittente, con puntate fino a 40 °c precedute da brivido scuotente e discretamente responsiva al paracetamolo. alla visita di ingresso il paziente era febbrile (temperatura = 38 °c), intensamente astenico ma vigile e orientato. la cute era calda e ben perfusa, integra in tutte le sedi esplorate. i valori di pressione arteriosa caso clinico il signor cp giungeva alla nostra osservazione in pronto soccorso lo scorso autunno per febbre persistente da una settimana. si trattava di un impiegato cinquantatreenne, residente sulla collina torinese, che aveva da sempre goduto di ottima salute: infatti l’anamnesi patologica era praticamente muta a parte una pregressa reazione allergica ai chinolonici. in particolare, non emergevano fattori di rischio cardiovascolare né abitudini voluttuarie, e lo stile di vita prevedeva un’alimentazione varia e una modica attività fisica quotidiana. la storia clinica del nostro paziente iniziava nei primi giorni di settembre, con la comparsa di insolita astenia e f requente febbricola prevalentemente serotina con puntate massime a 37,5 °c. veniva inoltre riferita una concomitante e cospicua riduzione dell’apporto alimentare con calo poncorresponding author dott.ssa laura perazzolo laura.perazzolo@tin.it caso clinico abstract a 53-year-old man arrives in emergency room for fever, asthenia and weight loss. few days before the visit, he was treated with amoxicillin/clavulanic acid for a hard and not much sore submandibular swelling, with no result. both ultrasound and ct showed the presence of colliquative multiple nodes, as well as multiple areas of hypoechoic nodules in the liver and spleen, granulomas related to pathognomonics of the hepatosplenic form of disease. in spite of a silent medical history and the lack of exposure to animal or insects, he resulted positive to igm anti-bartonella, and the diagnosis of cat scratch disease was confirmed by biopsy. we decided to treat with an association of ertapenem 1g/day and teicoplanin 600 mg/day for 3 weeks, and thus we obtained the recovery. the case report is of particular interest because of the lack of guidelines, the unusual manifestation of the disease and the singular associations of drugs administered. keywords: cat scratch disease, multiple adenopathy, unknown fever an unusual case of cat scratch disease cmi 2011; 5(suppl 2): 35-40 1 medicina interna e dea ‒ ospedale santa croce, moncalieri laura perazzolo 1, claudio marengo 1, manuela quario 1 un caso atipico di malattia da graffio di gatto ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)36 un caso atipico di malattia da graffio di gatto pcr = 12 mg/dl; fibrinogeno = 800 mg/dl) e di ldh (600 ui/l). si notava inoltre un lieve rialzo delle transaminasi (ast = 53 ui/l; alt = 111 ui/l). la funzione renale era conservata, così come i restanti parametri emocoagulativi e l’assetto degli elettroliti. il test rapido della mononucleosi risultava negativo, l’rx del torace era del tutto nella norma e allo striscio ematico periferico non veniva osservato nulla di rilevante. si decideva quindi di avviare un secondo ciclo antibiotico empirico, previa raccolta di campioni per emocoltura e urocoltura (il cui esito sarà negativo), con claritromicina ev 500 mg/bid. le ulteriori indagini sierologiche effettuate durante il ricovero in medicina interna dimostravano iperferritinemia (600 mg/dl), quadro proteico normale, protidosintesi conservata, marcatori tumorali negativi, ves = 130 sec, procalcitonina nei limiti di norma. sono risultate negative le sierologie per il virus di epstein-barr, toxoplasma, citomegalovirus, hiv, brucella, tbc, leishmania e rosolia. la tc del collo con mdc confermava la natura linfonodale della tumefazione sottomandibolare destra, all’interno della quale si osservavano multiple aree colliquate (figura 1). l’esame esteso al torace e all’addome rivelava la presenza di multiple linfoadenopatie in sede mediastinica, ilare epatica, lomboaortica, interportocavale e mesenterica. il fegato e la milza presentavano aspetto disomogeneo per presenza di numerose aree nodulari ipodense del diametro massimo di 10 mm, di incerta interpretazione (figura 2). inoltre, in stretta continuità con la testa del pancreas, veniva descritta una formazione ovalare solida di 21 mm × 28 mm, anch’essa di dubbia natura (figura 3). l’iter diagnostico procedeva a questo punto con biopsia chirurgica del pacchetto linfonodale sottomandibolare: l’esame istologico erano = 130/95 mmhg in clinostatismo e ortostatismo, la frequenza cardiaca = 100 bpm, la saturazione = 99% in aria ambiente, la frequenza respiratoria = 18 atti al minuto. l’esame obiettivo cardiaco evidenziava toni ritmici e validi, con pause apparentemente libere; all’auscultazione del torace si apprezzavano normofonesi plessica e murmure diffuso senza rumori aggiunti. alla palpazione l’addome era piano, trattabile, non dolorabile, con peristalsi valida; il fegato era nei limiti mentre era palpabile il polo splenico inferiore. non erano visibili edemi, l’obiettività neurologica era del tutto nella norma. anche il cavo orale era privo di lesioni, con faringe lievemente iperemica. alla palpazione del collo si apprezzavano a sinistra multipli linfonodi laterocervicali e sottomandibolari mobili, di dimensioni inferiori a 1 cm, mentre a destra era facilmente palpabile la tumefazione di circa 3 cm, di consistenza duro-elastica e apparentemente adesa ai piani profondi, priva di segni di flogosi circostanti. i primi esami ematochimici evidenziavano leucocitosi neutrofila con elevazione degli indici di flogosi acuta (wbc = 12.000/ml; figura 1 tc del collo con mdc. si possono notare multiple aree colliquate (freccia) all ’interno del pacchetto linfonodale, responsabili della tumefazione sottomandibolare figura 2 tc torace e addome da cui si nota la presenza di multiple aree nodulari ipodense (frecce) nel fegato e nella milza ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 37 l. perazzolo, c. marengo, m. quario petente [1]. tuttavia il percorso clinico nel nostro caso è stato notevolmente complicato (e rallentato) dalla completa assenza di dati anamnestici. il patogeno bartonella henselae (bh), identificata nei primi anni ’90 e denominata inizialmente rochalimaea henselae [2], è responsabile del 95% dei casi di malattia da graffio di gatto (csd) nell’uomo [3,4]. alcuni punti nella patogenesi di questa malattia restano da chiarire, ma è ben noto come il gatto sia il più frequente serbatoio naturale di bh, bacillo gram negativo che si moltiplica negli eritrociti dell’animale [5]. la maggior parte delle evidenze correla quindi la csd all’esposizione a graffio o morso di gatto, a sua volta infettato da una pulce denominata ctenocephalides felis, che gioca un ruolo chiave anche nella trasmissione della bh da gatto a gatto [6]. meno frequente è la possibilità di infezione diretta dalla pulce all’uomo, mentre non sono note modalità alternative di contagio (es. graffio con oggetti contaminati) [7]; è ragionevole interpretare la lesione similpustolosa descritta in seconda battuta dal nostro paziente, e non più visibile al momento della prima visita, come esito di contatto con il parassita ematofago [8,9]. il periodo dell’anno in cui il signor cp si è ammalato è in accordo con la letteratura descriveva a livello macroscopico un quadro di linfadenite granulomatosa necrotizzante con infiltrazione granulocitaria, altamente suggestiva per malattia da graffio di gatto (csd). la diagnosi veniva poco dopo confermata dal riscontro di franca positività per igm anti-bartonella. l’ecocardiogramma escludeva vegetazioni endocarditiche valvolari. nuovamente interrogato per ulteriore ragguaglio anamnestico, il paziente negava ogni contatto con qualsiasi animale domestico o selvatico, ma ricordava la comparsa di una lesione pustolosa della guancia destra, da lui attribuita a foruncolo, circa una settimana prima della comparsa dei sintomi, a risoluzione spontanea completa. poiché durante il ricovero le condizioni erano ulteriormente scadute e poiché la febbre persistente e la mancata discesa dei parametri di infiammazioni dichiaravano inefficaci sia la seconda linea di terapia antibiotica (claritromicina 500 mg/bid per 5 giorni) sia la terza (ceftriaxone ev 2 g/die per 6 giorni), alla luce della diagnosi acquisita si decideva di trattare il paziente con teicoplanina 600 mg/die ev associata a ertapenem ev 1 g/die. il trattamento, protratto per 3 settimane in regime di day hospital, portava a un notevole miglioramento delle condizioni generali, con graduale riduzione delle adenopatie periferiche fino a completa scomparsa. anche i parametri laboratoristici si sono via via normalizzati e il paziente ha ripreso le normali attività quotidiane. il secondo dosaggio degli anticorpi antibartonella eseguito a 3 mesi ha dimostrato completa sieroconversione. discussione il signor cp era affetto da una patologia di per sé benigna, a risoluzione spontanea e di facile diagnosi nell’ospite immunocomfigura 3 tc addome che fa rilevare una formazione ovalare solida in stretta continuità con la testa del pancreas (frecce) quali sono le peculiarità di questo caso? esse consistono: nella dimostrazione di una infrequente modalità di contagio; y in una presentazione di malattia decisamente atipica per un sogy getto sano; nella scelta di uno schema terapeutico non in linea con le raccomany dazioni della letteratura, ma rivelatosi vincente. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)38 un caso atipico di malattia da graffio di gatto la diagnosi a quali ipotesi diagnostiche è necessario pensare in un caso come questo? la csd si pone in diagnosi differenziale con altre numerose patologie, riassunte nella tabella i. per stabilire la diagnosi di csd vengono proposti alcuni criteri: ne sono necessari 3 su 4 per identificare la malattia [18]: dato anamnestico di contatto con animale y (indipendentemente dalla presenza di una lesione cutanea da inoculazione); sierologia negativa per altri patogeni coy munemente responsabili di adenopatie; sierologia positiva per bh con metodo y immunoenzimatico (eia) o indiretto a fluorescenza (ifa); reperto istologico di flogosi granulomatoy sa necrotizzante coerente con csd. la terapia i dati sull’utilizzo di antibiotici nel trattamento della csd derivano principalmente da case report o da piccoli trial, pertanto non esistono linee guida univoche che indichino uno schema di trattamento ottimale. uno studio retrospettivo condotto nei primi anni ’90 ha dimostrato l’efficacia di rifampicina, ciprofloxacina, trimetoprim/ sulfametossazolo e gentamicina in termini di riduzione di giorni di malattia nei soggetti trattati rispetto ai non trattati [19]. un altro trial prospettico randomizzato controllato condotto su 29 pazienti immunocompetenti (bambini e adulti) con presentazione tipica di malattia ha invece testato l’efficacia di azitromicina in termini di riduzione di volume delle adenopatie periferiche. non è stata dimostrata alcuna efficacia di questo antibiotico nel trattamento di forme complicate di csd, né per prevenirne l’evoluzione da forma semplice a disseminata [20]. le raccomandazioni della letteratura più recente in materia di trattamento possono essere così riassunte: nelle presentazioni tipiche di csd sia y nel bambino sia nell’adulto non si ritiene indicato il trattamento antibiotico; in caso di linfoadenopatia estesa può essey re considerato l’utilizzo di azitromicina: nell’adulto: 500 mg per os il primo y giorno, seguito da 250 mg per os dai giorni 2 a 5 in dose singola giornaliera; che indica nell’autunno e nell’inverno le stagioni di picco massimo di malattia, la cui prevalenza e incidenza in italia e nel mondo (a parte il nord america, area in assoluto di maggiore incidenza) è di 9-10 casi/100.000 all’anno [10]. la malattia la fascia di età a cui appartiene il nostro paziente non è la più frequentemente colpita da csd: infatti la maggior parte dei soggetti immunocompetenti affetti ha un’età inferiore a 20 anni, sebbene uno studio israeliano nel 2005 abbia dimostrato un’incidenza di circa il 6% tra persone sane ultrasessantenni [11]. è ben noto come la presentazione clinica di malattia sia molto diversa in base allo stato immunitario dell’ospite. la manifestazione classica nell’immunocompetente prevede, 3-10 giorni dopo il graffio, la comparsa di una lesione cutanea pustolosa, papulosa o vescicolosa, che può persistere per giorni o settimane, guarendo senza lasciare cicatrici. come già detto, nel nostro caso viene descritta una formazione cutanea con tali caratteristiche ma non ascrivibile a graffio. patognomonica di csd è la linfoadenopatia singola locoregionale prossimale al sito di inoculo del patogeno, che compare di solito entro due settimane dal contatto con l’animale. i linfonodi interessati sono localizzati prevalentemente nel collo, incavo ascellare e arti inferiori, in quanto sedi più comuni di graffio o morso; hanno generalmente un diametro di 1-5 cm e appaiono arrossati e dolenti. in una bassa percentuale di casi (1015%) si osserva l’evoluzione suppurativa dei linfonodi, mentre la maggior parte di essi regredisce spontaneamente entro 2-6 mesi [12]. frequenti sintomi aggiuntivi sono costituiti da febbricola, malessere, cefalea, anoressia, faringodinia e poliartralgie. il nostro paziente, nonostante la storia anmnestica muta e il buon stato globale di salute, rientrava nel 5-14% di casi di affetti da csd severa, a interessamento multiorganico. in queste forme atipiche, in genere osservabili in soggetti defedati, gli organi più frequentemente coinvolti sono fegato, milza, occhio, cuore, osso e snc [13-17]. patognomonico della csd severa è il riscontro radiologico di lesioni ipodense a carico di fegato e milza riferibili a granulomi necrotizzanti (figure 2 e 3). la funzione epatica è in genere ben conservata, mentre tipica è l’elevazione degli indici di infiammazione sistemica. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 39 l. perazzolo, c. marengo, m. quario con gentamicina o trimetoprim-sulfametossazolo) [22]. la durata ottimale del trattamento non è del tutto chiara ma la maggior parte degli studi la indica non inferiore a 14 giorni nelle forme epatospleniche e 4-6 settimane in caso di coinvolgimento neurologico. lo schema di terapia da noi utilizzato, un’associazione di ertapenem e teicoplanina, si presta senz’altro a critiche, prima fra tutte l’impossibilità di confronto con la letteratura in termini di efficacia. ricordiamo che il paziente, allergico ai chinolonici, era stato precedentemente trattato con alcune tra le classi antibiotiche più spesso raccomandate (amoxicillina/acido clavulanico, claritromicina, ceftriaxone) senza alcun risultato apprezzabile. il problema urgente di aggredire lesioni intra-addominali necrotizzanti ha indirizzato la scelta del carbapenemico. l’aggiunta, probabilmente ridondante, di teicoplanina (antibiotico a spettro d’azione prevalente su batteri gram positivi) ha comunque garantito una più ampia copertura antibatterica in un paziente a questo punto defedato e persistentemente febbrile. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. nel bambino: 10 mg/kg per os il primo y giorno, seguito da 5 mg/kg nei giorni 2-5 (raccomandazione bi) [4]; nei pazienti intolleranti all’azitromicina y regimi alternativi comunemente usati sono: claritromicina (15-20 mg/kg divisi in y 2 dosi se peso < 45,5 kg, o 500 mg/bid per pazienti di peso > 45,5 kg); rifampicina (bambini: 10 mg/kg bid; y adulti: 300 mg/bid); trimetoprim-sulfametossazolo (nei y bambini: trimetoprim 8 mg/kg al giorno + sulfametossazolo 40 mg/kg al giorno, suddiviso in due dosi; adulti: una compressa bid); ciprofloxacina (per i pazienti > 17 anni y di età, 500 mg/bid); nelle forme complicate sia epatospleniche y sia neurologiche i pochi dati disponibili in letteratura propendono per utilizzare sempre antibiotici. in particolare nell’adulto: doxiciclina 100 mg/bid per os per 4-6 y settimane; rifampicina 300 mg/bid per os per 4-6 y settimane [21]. anche un piccolo trial condotto su 19 bambini con manifestazioni epatospleniche ha dimostrato l’efficacia di rifampicina al dosaggio di 20 mg/kg al giorno per 14 giorni (somministrata da sola o in combinazione malattie infettive batteriche streptococchi, stafilococchi, malattia da graffio di gatto, brucellosi, tularemia, peste, tubercolosi, sifilide, difterite, lebbra virali virus di epstein-barr, citomegalovirus, herpes, rosolia, morbillo, adenovirus, hiv fungine istoplasmosi, coccidiodomicosi, paracoccidiodomicosi parassitarie toxoplasmosi, leishmaniosi, tripanosomiasi, filariosi malattie immunologiche artrite reumatoide, connettivite mista, lupus eritematoso sistemico, sindrome di sjögren, malattia da siero, ipersensibilità da farmaci, graft versus host disease malattie maligne ematologiche linfoma di hodgkin, linfoma non-hodgkin, leucemia linfoblastica acuta, leucemia linfatica cronica, istiocitosi maligna, amiloidosi metastatiche da numerose sedi primitive malattie da accumulo di lipidi gaucher, niemann-pick, fabry, tangier altro malattia di castelman, sarcoidosi, granulomatosi linfomatoide, malattia di kawasaki, istiocitosi x, febbre mediterranea familiare, pseudotumore infiammatorio del linfonodo tabella i diagnosi differenziali per la malattia da graffio di gatto ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)40 un caso atipico di malattia da graffio di gatto bibliografia bass jw, vincent jm, person da. the expanding spectrum of bartonella infections: cat-scratch 1. disease. pediatr infect dis j 1997; 16: 163-79 wear dj, margileth am, hadfield tl, fischer gw. cat scratch disease: a bacterial infection. 2. science 1983; 221: 1403-5 regnery rl, olson jg, perkins ba, bibb w. serological response to “rochalimaea henselae” 3. antigen in suspected cat-scratch disease. lancet 1992; 339: 1443-5 rolain jm, brouqui p, koehler je, maguina c, dolan mj, raoult d. recommendations for 4. treatment of human infections caused by bartonella species. antimicrob agents chemother 2004; 48: 1921-33 jacomo v, kelly pj, raoult d. natural history of bartonella infections (an exception to koch’s 5. postulate). clin diagn lab immunol 2002; 9: 8-18 dehio c. molecular and cellular basis of bartonella pathogenesis. 6. annu rev microbiol 2004; 58: 365-90 mosbacher m, elliott sp, shehab z, pinnas jl, klotz jh, klotz sa. cat scratch disease and 7. arthropod vectors: more to it than a scratch? j am board fam med 2010; 23: 685-6 koehler je, glaser ca, tappero jw. rochalimaea henselae infection. a new zoonosis with the 8. domestic cat as reservoir. jama 1994; 271: 531-5 chomel bb. experimental transmission of bartonella henselae by the cat flea. 9. j clin microbiol 1996; 34: 1952-6 windsor jj. cat-scratch disease: epidemiology, aetiology and treatment. 10. br j biomed sci 2001; 58: 101-10 ben-ami r, ephros m, avidor b, katchman e, varon m, leibowitz c et al. cat-scratch disease 11. in elderly patients. clin infect dis 2005; 41: 969-74 ridder gj, boedeker cc, technau-ihling k, sander a. cat-scratch disease: otolaryngologic 12. manifestations and management. otolaryngol head neck surg 2005; 132: 353-8 curi al, machado d, heringer g, campos wr, lamas c, rozental t. cat-scratch disease: 13. ocular manifestations and visual outcome. int ophthalmol 2010; 30: 553-8 suhler eb, lauer ak, rosenbaum jt. prevalence of serologic evidence of cat scratch disease in 14. patients with neuroretinitis. ophthalmology 2000; 107: 871-6 baylor p, garoufi a, karpathios t, lutz j, mogelof j, moseley d. transverse myelitis in 2 patients 15. with bartonella henselae infection (cat scratch disease). clin infect dis 2007; 45: e42-e45 maman e, bickels j, ephros m, paran d, comaneshter d, metzkor-cotter e. musculoskeletal 16. manifestations of cat scratch disease. clin infect dis 2007; 45: 1535-40 hajjaji n, hocqueloux l, kerdraon r, bret l. bone infection in cat-scratch disease: a review 17. of the literature. j infect 2007; 54: 417-21 margileth am. recent advances in diagnosis and treatment of cat scratch disease. 18. curr infect dis rep 2000; 2: 141-6 margileth am. antibiotic therapy for cat-scratch disease: clinical study of therapeutic outcome 19. in 268 patients and a review of the literature. pediatr infect dis j 1992; 11: 474-8 bass jw, freitas bc, freitas ad, sisler cl, chan ds, vincent jm. prospective randomized 20. double blind placebo-controlled evaluation of azithromycin for treatment of cat-scratch disease. pediatr infect dis j 1998; 17: 447-52 reed jb, scales dk, wong mt, lattuada cp jr. bartonella henselae neuroretinitis in cat scratch 21. disease. diagnosis, management, and sequelae. ophthalmology 1998; 105: 459-66 arisoy es, correa ag, wagner ml, kaplan sl. hepatosplenic cat-scratch disease in children: 22. selected clinical features and treatment. clin infect dis 1999; 28: 778-84 efficacia di uno switch precoce a nilotinib in paziente affetto da leucemia mieloide cronica 11 clinical management issues introduzione l’avvento degli inibitori della tirosin-chinasi (tki) nella terapia della leucemia mieloide cronica (lmc) ha rappresentato una vera e propria rivoluzione nel trattamento di questa patologia, modificandone radicalmente sia la storia naturale sia la qualità e le aspettative di vita dei pazienti. infatti, secondo i dati dello studio iris [1], i pazienti trattati con imatinib che ottengono una remissione citogenetica completa (ccyr) presentano una overall survival (os) e una event free survival (efs) a 8 anni dell’85 e dell’81% rispettivamente. nel 2006 e nel 2009 l’european leukemianet (eln) ha definito i criteri di risposta dei pazienti affetti da lmc in trattamento con imatinib, classificandoli in risposta ottimale, sub-ottimale e fallimento, così come riportato in tabella i [2,3]. una particolare attenzione deve essere riservata a quei pazienti cosiddetti “sub-ottimali” che, per definizione, “possono ancora avere un sostanziale beneficio dal continuare la terapia con imatinib, ma il cui outcome a lungo termine può non essere favorevole”. caso clinico il caso clinico che illustriamo riguarda un paziente affetto da lmc inizialmente avviato a terapia con imatinib che, al sesto perché descriviamo questo caso per sottolineare l ’importanza dell ’attenta valutazione della risposta clinicocitogenetico-molecolare secondo i criteri eln e per confermare la necessità di effettuare uno screening mutazionale nei pazienti sub-ottimali, in modo da poter mettere in atto un precoce cambio di strategia terapeutica per ottimizzare la risposta al trattamento corresponding authordott. ferdinando porretto fporretto@alice.it caso clinico abstract we report a case of a patient with chronic myeloid leukemia in chronic phase who was treated with imatinib as first line therapy. he showed a suboptimal response by 2006 eln criteria after six months, for this reason we performed a mutational analysis that showed the mutation f486s. due to this finding we made an early switch to nilotinib (nil); patients started nil at 300 bid mg/day obtaining at six month a complete cytogenetic response (ccyr) and a mmolr (rq-pcr ratio bcr-abl1/abl1%is: 0.05). the patient is now on 24 months nil treatment showing a rq-pcr ratio bcr-abl1/abl1%is: 0.004. keywords: sub-optimal responder; nilotinib; imatinib; bcr-abl mutations nilotinib early switch efficacy in non-optimal responder cml patient after first line imatinib treatment. cmi 2011; 5(suppl 6): 11-16 1 uo oncoematologia e tmo, dip. oncologico la maddalena, palermo ferdinando porretto 1 efficacia di uno switch precoce a nilotinib in paziente affetto da leucemia mieloide cronica in risposta non ottimale a imatinib disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. 12 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) efficacia di uno switch precoce a nilotinib in paziente affetto da leucemia mieloide cronica dolore gravativo in ipocondrio sinistro. inoltre, all’esame emocromocitometrico, era stata riscontrata leucocitosi, con i seguenti valori: gb 262.100/mm3 (neutrofili 72%, basofili 5%, eosinofili 1%, linfociti 3%, metamielociti   + mielociti 19%, blasti mieloidi mese di trattamento, ha fatto registrare una risposta sub-ottimale. il paziente era giunto alla nostra osservazione nel marzo 2009, all’età di 32 anni, in seguito alla comparsa di sintomatologia caratterizzata da astenia, facile affaticabilità e risposta ottimale (non definita precedentemente) risposta subottimale fallimento warnings baseline na na na alto rischio cca/ph+ 3 mesi chr e almeno mcyr (ph+ ≤ 65%) no cyr (ph+ > 95%) 35%) no cyr (ph+ > 95%) na 12 mesi ccyr pcyr (ph+ 1-35%) 35%) < mmolr 18 mesi mmolr < mmolr < ccyr na qualsiasi momento nel corso della terapia mmolr stabile o in miglioramento perdita di mmolr mutazioni* perdita di chr perdita di ccyr mutazioni** cca/ph+ aumento nei livelli di trascritto cca/ph– tabella i. raccomandazioni dell ’european leukemianet (eln) 2009 confrontate con quelle del 2006 (in grassetto le aggiunte eln 2009) cca = clonal chromosome abnormalities; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; hr = risposta ematologica; mcyr = risposta citogenetica minore; mmolr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile; pcyr = risposta citogenetica parziale * bassi livelli di insensibilità a imatinib ** alta insensibilità a imatinib 1%), plt 175.000/mm3, hb 9,6 gr/dl. l’esame obiettivo attestava splenomegalia, con milza a 8 cm dall’arcata costale. l’analisi citogenetica indicava un cariotipo 46 xy t(9;22), senza anomalie aggiuntive. le indagini di biologia molecolare in rt-pcr (real-time pcr) e in rq-pcr (real-time quantitative pcr) mostravano, rispettivamente, un trascritto b3a2 e un rapporto bcr-abl1/abl1%   secondo is di 207,385. in base a questi riscontri, si poneva quindi diagnosi di lmc in fase cronica, con rischio sokal basso (0,72) e il paziente veniva avviato a citoriduzione con idrossiurea 40 mg/ kg. successivamente si iniziava la terapia con imatinib al dosaggio di 400 mg/die. durante le prime settimane di trattamento non si registrava alcun evento avverso. la remissione ematologica completa (chr) è stata registrata in 3a settimana. alla valutazione al terzo mese non compariva però nessuna risposta citogenetica (ph+ 100%). secondo i criteri eln 2006 [1], ancora vigenti nel giugno 2009, il paziente era da considerarsi in risposta ottimale e quindi ha continuato la terapia con imatinib 400 mg/die. alla rivalutazione al sesto mese di trattamento il paziente era sempre in remissione ematologica completa, ma con una risposta citogenetica meno che parziale (ph+ 45%). a questo punto il paziente risultava in una condizione di risposta sub-ottimale, sempre in assenza di eventi avversi, con una riferita buona compliance al trattamento e senza l’assunzione contemporanea di altri farmaci: si decideva pertanto di effettuare uno screening mutazionale che evidenziava una mutazione f486s (tabella ii). poiché la mutazione evidenziata risulta in vitro resistente a imatinib ma sensibile a nilotinib [4], si decideva di interrompere la terapia con imatinib e avviare il paziente a terapia con nilotinib, al dosaggio di 300 mg/ bid. nella scelta del tki di seconda generazione riveste un ruolo importante la ricerca di mutazioni puntiformi del dominio chinasico di bcr-abl, in quanto tali mutazioni possono influenzare la risposta terapeutica del paziente. in tabella iii si riportano le mutazioni correlate con una resistenza a nilotinib o dasatinib riscontrate in vivo [5,6]. inoltre, in considerazione della giovane età, del basso ebmt score [7] e della mancanza di donatori di cellule staminali emopoietiche hla compatibili nella famiglia, nilotinib [5] dasatinib [6] t315i t315i y253h t315a e255v v299l e255k f317l f359v f317i f359c f317v f317c tabella iii. tki di ii generazione e mutazioni: quali le resistenze tabella iii. tki di ii generazione e mutazioni: quali le resistenze valori di ic50 (wt = 1) bosutinib imatinib dasatinib nilotinib parental 38,31 10,78 > 50 38,43 wt 1 1 1 1 p-loop l248v 2,97 3,54 5,11 2,80 g250e 4,31 6,86 4,45 4,56 q252h 0,81 1,39 3,05 2,64 y253f 0,96 3,58 1,58 3,23 e255k 9,47 6,02 5,61 6,69 e255v 5,53 16,99 3,44 10,31 c-elica d276g 0.60 2,18 1,44 2,00 e279k 0,95 3,55 1,64 2,05 regione di legame per atp v299l 26,10 1,54 8,65 1,34 t315i 45,42 17,50 75,03 39,41 f317l 2,42 2,60 4,46 2,22 sh2-contact m351t 0,70 1,76 0,88 0,44 regione di legame per il substrato f359v 0,93 2,86 1,49 5,16 a-loop l384m 0,47 1,28 2,21 2,33 h396p 0,43 2,43 1,07 2,41 h396r 0,81 3,91 1,63 3,10 g398r 1,16 0,35 0,69 0,49 lobo c terminale f486s 2,31 8,10 3,04 1,85 tabella ii. valori di ic50 per imatinib, bosutinib, nilotinib e dasatinib verso mutazioni di bcr/ abl [4] ■ ≤ 2 (sensibile) ■ 2,01-4 (moderatamente resistente) ■ 4,01-10 (resistente) ■ > 10 (altamente resistente) 13 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) f. porretto è stata avviata, secondo le raccomandazioni eln 2009 [3], la ricerca di un donatore di cellule staminali emopoietiche tramite il registro nazionale. a 3 mesi dall’inizio della terapia con nilotinib è stata registrata una risposta citogenetica completa, con 46 xy [20 cell] e, a 6 mesi, una risposta molecolare maggiore, con un rapporto bcr-abl1/abl1%is di 0,05; il paziente risultava quindi in risposta ottimale secondo i criteri provvisori di valutazione di risposta alla terapia con tki di ii linea elaborati dall’eln nel 2009 [3]. attualmente il paziente è al 24° mese di trattamento con nilotinib al dosaggio di 300 mg/bid e mantiene la risposta citogenetica completa, con ratio bcr-abl1/abl1%is di 0,004. non sono stati registrati eventi avversi ematologici ed extraematologici di grado superiore a 2 e il trattamento non è mai stato interrotto o ridotto. discussione da questo caso clinico emergono dei punti cruciali di discussione che devono essere presi in considerazione nel trattamento del paziente affetto da lmc. la terapia di prima linea con imatinib determina il raggiungimento di una risposta “ottimale” nella maggior parte dei casi, purtuttavia i pazienti in risposta sub-ottimale rappresentano una categoria non omogenea domande da porsi y quali fattori hanno influenzato la risposta alla i linea di terapia? y qual è l ’outcome dei pazienti in risposta sub-ottimale a imatinib in i linea? 1%), plt 175.000/mm3, hb 9,6 gr/dl. l’esame obiettivo attestava splenomegalia, con milza a 8 cm dall’arcata costale. l’analisi citogenetica indicava un cariotipo 46 xy t(9;22), senza anomalie aggiuntive. le indagini di biologia molecolare in rt-pcr (real-time pcr) e in rq-pcr (real-time quantitative pcr) mostravano, rispettivamente, un trascritto b3a2 e un rapporto bcr-abl1/abl1%   secondo is di 207,385. in base a questi riscontri, si poneva quindi diagnosi di lmc in fase cronica, con rischio sokal basso (0,72) e il paziente veniva avviato a citoriduzione con idrossiurea 40 mg/ kg. successivamente si iniziava la terapia con imatinib al dosaggio di 400 mg/die. durante le prime settimane di trattamento non si registrava alcun evento avverso. la remissione ematologica completa (chr) è stata registrata in 3a settimana. alla valutazione al terzo mese non compariva però nessuna risposta citogenetica (ph+ 100%). secondo i criteri eln 2006 [1], ancora vigenti nel giugno 2009, il paziente era da considerarsi in risposta ottimale e quindi ha continuato la terapia con imatinib 400 mg/die. alla rivalutazione al sesto mese di trattamento il paziente era sempre in remissione ematologica completa, ma con una risposta citogenetica meno che parziale (ph+ 45%). a questo punto il paziente risultava in una condizione di risposta sub-ottimale, sempre in assenza di eventi avversi, con una riferita buona compliance al trattamento e senza l’assunzione contemporanea di altri farmaci: si decideva pertanto di effettuare uno screening mutazionale che evidenziava una mutazione f486s (tabella ii). poiché la mutazione evidenziata risulta in vitro resistente a imatinib ma sensibile a nilotinib [4], si decideva di interrompere la terapia con imatinib e avviare il paziente a terapia con nilotinib, al dosaggio di 300 mg/ bid. nella scelta del tki di seconda generazione riveste un ruolo importante la ricerca di mutazioni puntiformi del dominio chinasico di bcr-abl, in quanto tali mutazioni possono influenzare la risposta terapeutica del paziente. in tabella iii si riportano le mutazioni correlate con una resistenza a nilotinib o dasatinib riscontrate in vivo [5,6]. inoltre, in considerazione della giovane età, del basso ebmt score [7] e della mancanza di donatori di cellule staminali emopoietiche hla compatibili nella famiglia, nilotinib [5] dasatinib [6] t315i t315i y253h t315a e255v v299l e255k f317l f359v f317i f359c f317v f317c tabella iii. tki di ii generazione e mutazioni: quali le resistenze tabella iii. tki di ii generazione e mutazioni: quali le resistenze valori di ic50 (wt = 1) bosutinib imatinib dasatinib nilotinib parental 38,31 10,78 > 50 38,43 wt 1 1 1 1 p-loop l248v 2,97 3,54 5,11 2,80 g250e 4,31 6,86 4,45 4,56 q252h 0,81 1,39 3,05 2,64 y253f 0,96 3,58 1,58 3,23 e255k 9,47 6,02 5,61 6,69 e255v 5,53 16,99 3,44 10,31 c-elica d276g 0.60 2,18 1,44 2,00 e279k 0,95 3,55 1,64 2,05 regione di legame per atp v299l 26,10 1,54 8,65 1,34 t315i 45,42 17,50 75,03 39,41 f317l 2,42 2,60 4,46 2,22 sh2-contact m351t 0,70 1,76 0,88 0,44 regione di legame per il substrato f359v 0,93 2,86 1,49 5,16 a-loop l384m 0,47 1,28 2,21 2,33 h396p 0,43 2,43 1,07 2,41 h396r 0,81 3,91 1,63 3,10 g398r 1,16 0,35 0,69 0,49 lobo c terminale f486s 2,31 8,10 3,04 1,85 tabella ii. valori di ic50 per imatinib, bosutinib, nilotinib e dasatinib verso mutazioni di bcr/ abl [4] ■ ≤ 2 (sensibile) ■ 2,01-4 (moderatamente resistente) ■ 4,01-10 (resistente) ■ > 10 (altamente resistente) 14 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) efficacia di uno switch precoce a nilotinib in paziente affetto da leucemia mieloide cronica ne deriva che l’identificazione precoce del paziente in risposta sub-ottimale e delle cause che l’hanno determinata può permettere una attenta valutazione delle scelte terapeutiche e quindi un eventuale precoce cambio di strategia. è indubbio che le mutazioni non rappresentino l’unico meccanismo di resistenza; tuttavia la necessità di uno screening mutazionale è rafforzata dall’evidenza dell’analisi dell’esperienza gimema su 1.439 pazienti con un follow-up di 7 anni. in questa casistica, la risposta sub-ottimale è associata a presenza di mutazioni nel 10% dei casi [8]. nello specifico del caso riportato, lo screening ha mostrato una mutazione sensibile in vitro a nilotinib, indirizzando la nostra figura 1. risposta sub-ottimale a 6 e 12 mesi. esperienza hammersmith hospital [9] a = fallimento a 3, 6, 12 o 18 mesi b = fallimento + sub-ottimale a 3, 6 o 12 mesi figura 2. risposta subottimale a 12 mesi. esperienza gimema [10] a = efs in relazione alla risposta a 12 mesi b = ffs (failure free survival) in relazione alla risposta a 12 mesi figura 3. risposta sub-ottimale a 6 e 12 mesi. esperienza md anderson [11] a = efs a 6 mesi b = efs a 12 mesi che pone specifici problemi di gestione clinica. nell’esperienza del gimema working party [8], i pazienti in risposta sub-ottimale sono circa il 15% dei casi. tali pazienti, secondo le raccomandazioni eln 2009 [3], “possono ancora avere un sostanziale beneficio dal continuare la terapia con imatinib, ma l’outcome a lungo termine può non essere favorevole”. inoltre, anche se con le dovute diversità, le esperienze dell’hammersmith hospital [9], del gimema [10] e dell’md anderson cancer center [11] hanno fatto emergere evidenti differenze per quanto riguarda l’outcome dei pazienti in risposta ottimale, rispetto a quelli in risposta sub-ottimale (figure 1-3). 15 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) f. porretto per una più precoce valutazione dell’eventuale cambio di strategia terapeutica. nel sottolineare la necessità di uno stretto monitoraggio della risposta clinico/molecolare in questi pazienti, considerata la supposta instabilità genomica, va valutata la possibilità di un trapianto di cellule staminali emopoietiche da donatore hla identico, come ulteriore eventuale strategia terapeutica in pazienti giovani con ebmt score basso [7] e con basso comorbidity index [12]. bibliografia 1. deininger m, o’brien sg, guilhot f, goldman jm, hochhaus a, hughes tp et al. international randomized study of interferon vs sti571 (iris) 8-year follow up: sustained survival and low risk for progression or events in patients with newly diagnosed chronic myeloid leukemia in chronic phase (cml-cp) treated with imatinib. blood (ash annual meeting abstracts) 2009; 114: abstract 1126 2. baccarani m, saglio g, goldman j, hochhaus a, simonsson b, appelbaum f et al. evolving concepts in the management of chronic myeloid leukemia: recommendations from an expert panel on behalf of the european leukemianet. blood 2006; 108: 1809-20 3. baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, saglio g, apperley j et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51 4. redaelli s, piazza r, rostagno r, magistroni v, perini p, marega m et al. activity of bosutinib, dasatinib, and nilotinib against 18 imatinib-resistant bcr/abl mutants. j clin oncol 2009; 27: 469-71 5. shah np, skaggs bj, branford s, hughes tp, nicoll jm, paquette rl, et al. sequential abl 3. kinase inhibitor therapy selects for compound drug-resistant bcr-abl mutations with altered oncogenic potency. j clin invest 2007; 117: 2562-9 6. soverini s, colarossi s, gnani a, castagnetti f, rosti g, bosi c, et al. resistance to dasatinib 2. in philadelphia-positive leukemia patients and the presence or the selection of mutations at residues 315 and 317 in the bcr-abl kinase domain. haematologica 2007; 92: 401-4 ne deriva che l’identificazione precoce del paziente in risposta sub-ottimale e delle cause che l’hanno determinata può permettere una attenta valutazione delle scelte terapeutiche e quindi un eventuale precoce cambio di strategia. è indubbio che le mutazioni non rappresentino l’unico meccanismo di resistenza; tuttavia la necessità di uno screening mutazionale è rafforzata dall’evidenza dell’analisi dell’esperienza gimema su 1.439 pazienti con un follow-up di 7 anni. in questa casistica, la risposta sub-ottimale è associata a presenza di mutazioni nel 10% dei casi [8]. nello specifico del caso riportato, lo screening ha mostrato una mutazione sensibile in vitro a nilotinib, indirizzando la nostra figura 1. risposta sub-ottimale a 6 e 12 mesi. esperienza hammersmith hospital [9] a = fallimento a 3, 6, 12 o 18 mesi b = fallimento + sub-ottimale a 3, 6 o 12 mesi figura 2. risposta subottimale a 12 mesi. esperienza gimema [10] a = efs in relazione alla risposta a 12 mesi b = ffs (failure free survival) in relazione alla risposta a 12 mesi figura 3. risposta sub-ottimale a 6 e 12 mesi. esperienza md anderson [11] a = efs a 6 mesi b = efs a 12 mesi scelta verso il passaggio a un inibitore di ii generazione. va inoltre considerato che, all’epoca della prima valutazione dopo 3 mesi di terapia con imatinib “vigevano” ancora i criteri eln 2006, per cui il paziente, in remissione ematologica completa ma senza nessuna risposta citogenetica (ph+ 100%), ha proseguito la terapia con imatinib. è indubbio che, se fossero state disponibili le successive raccomandazioni eln, pubblicate però nel dicembre 2009, avremmo optato 16 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 6) efficacia di uno switch precoce a nilotinib in paziente affetto da leucemia mieloide cronica 7. gratwohl a. the ebmt risk score (european group for blood and marrow transplantation score). bone marrow transplant 2011. doi:10.1038/bmt.2011.110 8. soverini s, gnani a, de benedittis c, castagnetti f, gugliotta g, breccia m et al. bcr-abl kinase domain mutations in imatinib and in secondgeneration tyrosine kinase inhibitor eras: a review of seven years of mutation analysis by the gimema cml working party. haematologica 2011; 96(s2): abstract 0486 9. marin d, milojkovic d, olavarria e, khorashad js, de lavallade h, reid ag et al. european leukemianet criteria for failure or suboptimal response reliably identify patients with cml in early chronic phase treated with imatinib whose eventual outcome is poor. blood 2008; 112: 4437-44 10. castagnetti f, gugliotta g, palandri f, breccia m, amabile m, iacobucci i et al. chronic myeloid leukemia (cml) patients with “suboptimal” response to imatinib (im) according to european leukemianet criteria have a poorer outcome with respect to “optimal” responders: a gimema cml working party analysis. poster presentation, 51st ash annual meeting, 2009 11. alvarado y, kantarjian h, o’brien s, faderl s, borthakur g, burger j et al. significance of suboptimal response to imatinib, as defined by the european leukemianet, in the long-term outcome of patients with early chronic myeloid leukemia in chronic phase. cancer 2009; 115: 3709-18 12. sorror ml, giralt s, sandmaier bm, de lima m, shahjahan m, maloney dg et al. hematopoietic cell transplantation specific comorbidity index as an outcome predictor for patients with acute myeloid leukemia in first remission: combined fhcrc and mdacc experiences. blood 2007; 110: 4606-13 importanza della comorbidità e utilità dell’“early shift” terapeutico nella gestione del paziente con lmc fabio stagno 1 efficacia di nilotinib come terza linea di terapia in un paziente con leucemia mieloide cronica di lunga durata e possibile controindicazione cardiologica ester maria orlandi 1, sara redaelli 2 efficacia di uno switch precoce a nilotinib in paziente affetto da leucemia mieloide cronica in risposta non ottimale a imatinib ferdinando porretto 1 nilotinib è efficace e ben tollerato in pazienti con comorbidità multiple carmen fava 1, marco fizzotti 2, giuseppe saglio 1, giovanna rege-cambrin 1 switch precoce a nilotinib in un caso di risposta non ottimale a imatinib alessandra iurlo 1, tommaso radice 1, chiara de philippis 1, manuela zappa 1, mauro pomati 1, agostino cortelezzi 1 clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 27 alessandra bearz 1, arben lleshi 1, lucia fratino 1, silvia venturini 1, massimiliano berretta 1, umberto tirelli 1 caso clinico in ottobre 2007 un paziente di sesso maschile, lg, di 80 anni, giungeva alla nostra attenzione con una storia di due mesi di tosse, dispnea ingravescente e astenia; non c’era stato calo ponderale. dall’anamnesi patologica emergevano svariate comorbilità: diabete insulino dipendente dal 1971; bpco e cardiopatia ipertensiva con tachiaritmia sinusale dal 2000. nel 2003 c’era stato un episodio di ischemia cerebrale transitorio, risolto senza sequele. il paziente era un attivo fumatore, con una storia di 20 sigarette/die dall’età di 16 anni; non consumava bevande alcoliche se non occasionalmente. l’anamnesi familiare era negativa per neoplasie. l’esame obiettivo evidenziava un lieve soffio verosimilmente da insufficienza mitralica e performance status (ps) pari a 2. le prove di funzionalità respiratoria evidenziavano un severo deficit ostruttivo con fev1 pari a 1,55 l (50% del volume predetto, 3,7 l). il paziente veniva studiato con rx del torace, che evidenziava ipodiafania del lobo superiore trattamento del microcitoma del polmone con differenziazione neuroendocrina nel paziente anziano abstract we describe the case of a 80-year-old patient with lung microcytoma and comorbidity (diabetes, copd and hypertensive cardiomiopaty). to manage the complexity of the elderly patient with comorbidity, he was evaluated by a comprehensive geriatric assessment (cga). radiotherapy and chemotherapy were excluded because of the low performance status of the patient. a treatment with octerotide lar was administered, allowing a good clinical benefit. keywords: lung microcytoma, octreotide, comprehensive geriatric assessment (cga), elderly patient treatment of lung microcytoma with neuroendocrine differentiation in elderly patient cmi 2010; 4(suppl. 1): 27-31 1 cro-irccs, aviano (pn) corresponding author dottoressa alessandra bearz e-mail: abearz@cro.it caso clinico del polmone sinistro (figura 1); la tomografia assiale computerizzata di torace, addome e cervello confermava l’atelettasia del lobo superiore di sinistra, null’altro degno di nota in altri distretti. la broncoscopia evidenziava una vegetazione tumorale facilmente sanguinante e ostruente il lume del bronco superiore di sinistra; e la biopsia di tale vegetazione poneva diagnosi di tumore a piccole cellule neuroendocrino, poco differenziato, g3. l’analisi immunoistochimica rivelava perché descriviamo questo caso? a causa dell ’invecchiamento complessivo della popolazione e dell ’aumento dell ’aspettativa di vita, anche in ambito oncologico diventa sempre più frequente dover assistere pazienti anziani con comorbilità. in questi casi, in cui chemioterapia e radioterapia possono rivelarsi troppo aggressive, gli analoghi della somatostatina possono rappresentare un’opzione alternativa disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 28 trattamento del microcitoma del polmone con differenziazione neuroendocrina nel paziente anziano positività per sinaptofisina e cromogranina e negatività per ckae1/ae3. il paziente veniva quindi sottoposto a scintigrafia con octreotide marcato con 111indio (octreoscan, spect), che evidenziava due accumuli di tracciante all’emitorace di sinistra, rispettivamente al lobo superiore e in regione ilare di sinistra. la tc cerebrale e addominale risultavano negative, la scintigrafia ossea evidenziava deboli captazioni a carico di d11, d12 e l5, più probabilmente compatibili con patologia infiammatoria degenerativa che con localizzazioni neoplastiche. gli esami di laboratorio evidenziavano: y lieve anemia, emoglobina: 10 g/dl (valori di laboratorio normali: 13-17 g/dl); y lieve rialzo della creatininemia: 1,7 mg/dl (valori normali: 0,6-1,3 mg/dl); y lieve iperglicemia: 126 g/dl (valori normali: 70-110 mg/dl). nessun marcatore tumorale era risultato alterato e la cromogranina era risultata negativa; la lattico deidrogenasi era elevata, pari a 557 iu/ml (valori normali: 230-460 iu/ml). la diagnosi finale era compatibile pertanto con neoplasia del polmone a piccole cellule con differenziazione neuroendocrina con interessamento del polmone sinistro e della regione linfonodale ilare omolaterale, t4n1m0 secondo la classificazione tnm (tumour nodes metastases), con t4 dato dall’atelettasia. il paziente veniva sottoposto anche a valutazione geriatriva multidimensionale e classificato fragile, per le comorbilità, l’età e l’anemia. trattamento date le condizioni cliniche e l’età avevamo tre possibilità terapeutiche: solo terapia di supporto; solo radioterapia; terapia sistemica. la chirurgia veniva esclusa per l’elevata possibilità di diffusione sistemica del microcitoma, oltre che per l’età e la fragilità del paziente nonché la compromessa funzionalità ventilatoria. per queste stessa ragione era stata esclusa l’ipotesi della radioterapia. la terapia sistemica standard prevede il trattamento con platino ed etoposide, che in un paziente sopra i 70 anni è proponibile solo se a dosi ridotte, adattate per età, e se il paziente è in ottime condizioni generali (fit); d’altra parte il paziente rifiutava il trattamento con chemioterapia. ciò nonostante, data la sintomaticità, decidemmo comunque di trattare il paziente. sulla base della positività neuroendocrina della malattia alla spect, decidemmo di iniziare, a partire da novembre 2007, la terapia con analogo della somatostatina (octreotide a lento rilascio, 30 mg im ogni 28 giorni). il paziente riportava già dopo un mese un beneficio sintomatico per riduzione della dispnea, dell’astenia e della tosse. dopo due mesi, alla radiografia del torace si evidenziava una risoluzione completa dell’atelettasia del polmone di sinistra (in figura 2 è riportata la radiografia del torace dopo tre mesi di trattamento con octreotide). il trattamento con octreotide è proseguito senza alcun effetto collaterale fino a giugno 2009, quando vi è stata un’evidenza di progressione della neoplasia per nuova ricomparsa di parziale atelettasia del polmone di sinistra. con il trattamento con octreotide si è ottenuto un beneficio clinico in termini sia radiologici che di qualità di vita, per 19 mesi. domande da porsi y qual è il ruolo del trattamento con inibitori della somatostatina nei casi di tumore del polmone a piccole cellule con caratteristiche neuroendocrine? y qual è il ruolo dell ’inquadramento geriatrico in oncologia? discussione i tumori neuroendocrini del polmone condividono molte caratteristiche morfologiche figura 1 rx del torace alla diagnosi clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 29 a. bearz, a. lleshi, l. fratino, s. venturini, m. berretta, u. tirelli e cliniche dei tumori neuroendocrini di altri organi. i tumori neuroendocrini (net) del polmone non sono un’unica entità, ma costituiscono uno spettro di lesioni variamente differenziate associate a caratteristiche patologiche e comportamento clinico più o meno aggressivo. i carcinoidi tipici e atipici sono le varianti meglio differenziate, mentre le forme meno differenziate sono il carcinoma neuroendocrino a grandi cellule e il microcitoma [1,2]. chiaramente l’impatto sulla prognosi del paziente è diversa, e può variare da un andamento indolente nelle forme più differenziate (carcinoide tipico e atipico), all’aggressività delle forme meno differenziate, quali il tumore a grandi cellule e il tumore a piccole cellule. il tumore a piccole cellule, o microcitoma, cresce spesso rapidamente nelle vie respiratorie principali ed è considerato la variante anaplastica dei net del polmone. il fattore di trascrizione tiroideo 1 (ttf-1) è di solito positivo sia nei tumori a piccole cellule che nelle neoplasie a grandi cellule. le cheratine ad alto peso molecolare solitamente non sono presenti nel microcitoma, in contrasto con quanto accade in altri carcinomi non neuroendocrini [3]. studi in vitro hanno dimostrato l’overespressione anche dei recettori per la somatostatina (sst) nei tumori neuroendocrini del polmone [4]. la loro presenza è stata occasionalmente dimostrata anche in vivo nei tumori microcitomi [5,6]. l’attività della somatostatina è dovuta alla sua interazione con la famiglia di recettori di transmembrana, la famiglia sst, che comprende cinque diverse proteine (da sst1 a sst5). di recente sono stati scoperti alcuni peptidi quali lanreotide e octreotide, con elevata affinità di legame ai recettori sst e attività simile alla somatostatina. la somministrazione cronica di questi analoghi della somatostatina a lento rilascio può avere – come già dimostrato in vitro – un’attività antiproliferativa nei tumori neuroendocrini, con controllo della crescita tumorale [7,8]. i trattamenti standard per le forme di microcitoma del polmone limitate al torace rimangono la radioterapia, possibilmente erogata all’inizio del trattamento, e la chemioterapia a base di cisplatino ed etoposide [9]. nonostante queste opzioni, la prognosi rimane molto severa: sebbene le risposte iniziali siano ottenute nel 70-90% dei pazienti, la maggior parte dei soggetti va incontro a ricaduta. la sopravvivenza a 5 anni è pari al 4,8% nei pazienti con microcitoma, e per quelli con malattia limitata al torace è pari al 20-25%. come già accennato, la terapia sistemica in un paziente con microcitoma del polmone ed età superiore ai 70 anni è proponibile solo se a dosi ridotte, adattate per età, con l’utilizzo di carboplatino anziché di cisplatino, e se il paziente è in ottime condizioni generali (fit) [10]. nelle forme a differenziazione neuroendocrina, gli analoghi della somatostatina potrebbero aggiungersi alle forme di trattamento standard allo scopo di migliorare la prognosi ancora molto severa di questa patologia, in particolare anche nei pazienti più fragili quali quelli con età avanzata o a cattivo performance status. poiché la popolazione anziana è altamente eterogenea e poco descritta dai soli criteri cronologici, i pazienti anziani oncologici dovrebbero sempre essere studiati mediante una valutazione geriatrica multidimensionale (vgm), al fine di classificare i pazienti per individuare il trattamento più adeguato [11]. la vgm è uno strumento per valutare lo stato dei pazienti anziani affetti da neoplasia, mediante l’applicazione di alcune scale di valutazione validate, comprendenti scale sulle attività giornaliere (activities of daily living – adl, instrumental activity of daily living – iadl) e scale cognitive (mini-mental state examination – mmse; cumulative illness rating scale for geriatrics – cirs-g). in questo modo è possibile scegliere un trattamento più o meno aggressivo tenendo conto non solo di età e tipo di tumore, ma anche di tutte le altre variabili che caratterizzano il paziente anziano [12]. negli studi clinici pubblicati in letteratura sono molto raramente inclusi i pazienti anziani (spesso proprio i criteri di selezione figura 2 rx del paziente dopo tre mesi di trattamento con octreotide clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 30 trattamento del microcitoma del polmone con differenziazione neuroendocrina nel paziente anziano dei pazienti ne prevedono esplicitamente l’esclusione) e anche negli studi clinici specificatamente condotti sulla popolazione geriatrica i soggetti sono scelti con buon ps e poche morbilità, ovvero fit [10]. la valutazione geriatrica multidimensionale ha pertanto lo scopo di orientare le scelte terapeutiche in tutte le tipologie di anziani, anche i più fragili, con la minore tossicità possibile. esame del caso clinico il caso clinico ci ha portato a trattare un paziente oncologico, fortemente sintomatico per dispnea, anziano, e con molte comorbilità. la diagnosi è stata di microcitoma limitato al polmone, con differenziazione neuroendocrina. in base ai criteri della valutazione geriatrica multidimensionale il paziente veniva definito fragile e pertanto inadatto a un programma di trattamento chemioterapico a base di platino ed etoposide, quale trattamento standard per microcitoma del polmone. il paziente peraltro rifiutava l’opzione della chemioterapia. la radioterapia come opzione terapeutica veniva scartata per la presenza di atelettasia del polmone, e per severa bpco concomitante. in letteratura non ci sono casi riportati di efficacia di trattamento di pazienti con microcitoma con analoghi della somatostatina; vengono tuttavia riferite possibilità di riduzione della crescita tumorale di cellule net in vitro. nel caso osservato, in cui le opzioni terapeutiche risultavano piuttosto scarse, si è scelto il trattamento con analoghi della somatostatina allo scopo di controllare la malattia, senza rischio di peggiorare le condizioni di un paziente già fragile di partenza. il trattamento è stato efficace, permettendo un controllo della malattia, e soprattutto un’ottima qualità della vita per un lungo periodo (19 mesi). bibliografia 1. righi l, volante m, rapa i, scagliotti gv, papotti m. neuro-endocrine tumours of the lung. a review of relevant oathological and molecular data. virchows arch 2007; 451: s51-90 2. gustafsson bi, kidd m, chan a, malfertheiner mv, modlin im. bronchopulmonary neuroendocrine tumours. cancer 2008, 113: 5-21 3. viberti l, bongiovanni m, croce s, bussolati g. 34betae12 cytokeratin immunodetection in the differential diagnosis of small cell tumors of lung. int j surg pathol 2000; 8: 317-22 4. guillermet j, saint-laurent n, rochaix p, cuvillier o, levade t, schally av et al. somatostatin receptor subtype 2 sensitizes human pancreatic cancer cells to death ligand-induced apoptosis. proc 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valutazione prospettica degli outcome clinici tabella i vantaggi della valutazione multidimensionale geriatrica nei soggetti anziani con patologie oncologiche [12] risposte alle domande emerse nel corso del caso clinico y il ruolo dell ’inquadramento geriatrico di un paziente anziano oncologico è fondamentale per poter scegliere il trattamento più adatto tenendo conto non solo del tumore ma anche delle caratteristiche del paziente y il trattamento del microcitoma del polmone con analoghi della somatostatina può essere efficace e sarebbero utili studi prospettici ampi per averne una conferma e per capire in quale setting di pazienti possa essere applicato clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 31 a. bearz, a. lleshi, l. fratino, s. venturini, m. berretta, u. tirelli 7. oberg k. chemotherapy and biotherapy in the treatment of neuroendocrine tumours. ann oncol 2001; 12: s1111-4 8. kidd m, drozdov i, joseph r, pfragner r, culler m, modlin i. 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cancer 2003; 39: 870-80 terapia con octreotide in una paziente affetta da microcitoma polmonare (sclc) daniela adua1, bruno gori1, luciano stumbo1, ester del signore1, flavia longo1 caso clinico efficacia della terapia con analoghi della somatostatina sulla sopravvivenza e qualità di vita in una paziente “frail” con net scarsamente differenziato delle vie biliari marco alì 1, antonino d’agostino 2, alfio todaro 2, andrea girlando 2, marcello ferrara 3, rosanna aiello 1 caso clinico terapia protratta con octretide acetato lar nel carcinoma neuroendocrino a larghe cellule del polmone alfredo butera 1 caso clinico un caso di neoplasia endocrina non funzionante del pancreas trattato con analogo della somatostatina ivan lolli1, antonio logroscino1, simona vallarelli1, maria a. monteduro2, antonella gentile1, giuseppe troccoli1 caso clinico trattamento del microcitoma del polmone con differenziazione neuroendocrina nel paziente anziano alessandra bearz 1, arben lleshi 1, lucia fratino 1, silvia venturini 1, massimiliano berretta 1, umberto tirelli 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 4) 13 clinical management issues vento chirurgico di resezione ileale [1-4]. il segmento di intestino tenue asportato, 35 cm, era sede a circa 8,5 cm da uno dei margini di una formazione del diametro di circa 7 cm a estensione transmurale, ulcerata sul versante luminale, infiltrante il tessuto adiposo mesenteriale, istologicamente corrispondente a un tumore stromale gastrointestinale a cellule fusate descrizione del caso il caso clinico riguarda un paziente di sesso maschile di 71 anni, non fumatore, affetto da diabete mellito in trattamento con antidiabetici orali da circa un decennio e in buon compenso. nel luglio del 2009, per la comparsa di algie addominali diffuse a carattere crampiforme, senza alterazione dell’alvo, il paziente viene inviato dal medico curante presso il nostro ospedale per una visita chirurgica. gli esami ematochimici evidenziavano un’anemizzazione (hb = 8,6 g/dl), mentre gli esami strumentali mostravano una neoformazione a carico dell’intestino tenue con un importante enhancement in fase arteriosa alla tac. dopo gli accertamenti pre-operatori di routine, tra cui, appunto, la tac, il paziente è stato sottoposto, in data 29-7-2009, a intercorresponding author dott.ssa lucia tozzi luciatozzi@live.it caso clinico abstract we report a case of a patient with histopathologically diagnosed gist who had undergone complete tumor resection for primary localized lesion. the patient has received adjuvant imatinib treatment for at least two years. studies have shown an improvement in rfs with 1 year of adjuvant imatinib, there is no consensus on the appropriate duration of adjuvant. the 2 year rfs rate in acosog z9000 was 73%, significantly lower than the 1 year rfs rate of 94%. these findings indicate that 1 year of adjuvant is likely to be insufficient, this implies that an extended duration of adjuvant prolongs rfs in patients with high risk of recurrence. the efficacy of re-challenge with imatinib in the subjects who developed recurrence after drug discontinuation indicates that it was probably due to insufficient treatment duration rather than resistence to imatinib. waiting the results of phase iii trial ssgxviii/aio about 3 years of treatment with imatinib we conclude that the better choice, for the year 2010, was to treat patient for at least two years. keywords: gist; adjuvant treatment; imatinib appropriate durations of adjuvant imatinib in patients with high-risk gastrointestinal stromal tumor (gist) the better choice, for the year 2010 cmi 2011; 5(suppl 4): 13-16 1 irccs casa sollievo della sofferenza – unità operativa complessa di oncologia, san giovanni rotondo (fg) lucia tozzi 1 considerazioni sull’appropriatezza della durata della terapia adiuvante con imatinib in un paziente con gist ad alto rischio: la migliore scelta nell’anno 2010 perché descriviamo questo caso in merito alla durata del trattamento adiuvante con imatinib fino alla recente pubblicazione dei risultati dello studio clinico scandinavo/tedesco di fase iii ssgxviii/aio, non vi erano certezze assolute e nemmeno unanime consenso disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 4)14 considerazioni sull’appropriatezza della durata della terapia adiuvante con imatinib in un paziente con gist ed epitelioidi con un indice mitotico di 12m:50hpf. i margini chirurgici erano esenti da neoplasia. immunofenotipo: vimentina +, cd34 negativo, cd117 positivo, desmina negativa, alfa-sma ++, ema +, sinaptofisina negativa, proteina 100 negativa, cromogranina negativa. analisi mutazionale: mutazione a carico dell’esone 11. in base alla classificazione di miettinen il paziente è stato inquadrato come gist del tenue ad alto rischio di ricaduta [5]. il decorso post-operatorio è stato regolare e al momento della dimissione il paziente era apiretico, canalizzato e si alimentava regolarmente. dopo l’intervento vi era stata una buona ripresa delle condizioni generali e in data 19-08-2009 il paziente iniziava l’assunzione di imatinib 400 mg/ die e prosegue tuttora il trattamento [6-9]. a ogni visita mensile, oltre all’esame fisico, il paziente effettuava esami ematochimici, tra cui emocromo con formula leucocitaria, creatinina, azotemia, got, gpt, fosfatasi alcalina. la tossicità è stata monitorata in accordo al ctcae (national cancer institute common terminology criteria), non si è evidenziata alcuna significativa tossicità e il paziente ha osservato la prescrizione senza particolari difficoltà. dopo un anno di trattamento il paziente è stato informato dei risultati incoraggianti nel proseguire la terapia per almeno due anni e di comune accordo si è deciso di prolungare il trattamento. il follow-up è stato regolare e l’ultima tac, effettuata il 03-06-2011, mostra che il paziente è tuttora libero da malattia. domande da porsi y qual è la durata ottimale del trattamento adiuvante con imatinib? y imatinib adiuvante influenzerà la risposta al farmaco una volta che questo venga reintrodotto nella fase metastatica? discussione e conclusioni l’efficacia di imatinib in adiuvante per un anno è stata validata dai risultati dello studio clinico acosog z9001, che hanno dimostrato un significativo miglioramento nella sopravvivenza libera da recidiva (rfs) nei pazienti con gist localizzato superiore di 3 cm e hanno portato, nel dicembre 2008, all’approvazione da parte dell’fda dell’utilizzo di imatinib in adiuvante [10]. successivamente anche l’emea ha dato parere positivo all’indicazione per uso adiuvante di imatinib in pazienti adulti con rischio significativo di recidiva dopo chirurgia nei gist kit-positivi. i pazienti con rischio basso o molto basso non sono candidati alla terapia adiuvante. non vi erano, tuttavia, indicazioni certe sulla durata del trattamento. la decisione, condivisa con il paziente, di estendere il trattamento almeno per due anni era stata suffragata da considerazioni indirette ricavate dalla letteratura. difatti il rfs rate nello studio acosog z9000 era al secondo anno del 73%, notevolmente più basso rispetto al primo anno (94%), ciò indicava che un anno di terapia adiuvante con imatinib è praticamente insufficiente e suggeriva che l’estensione della durata della terapia adiuvante prolunga l’rfs in pazienti ad alto rischio di recidiva [6,11]. l’efficacia della re-challenge con imatinib in soggetti che sviluppano recidiva dopo l’interruzione del farmaco, indica infatti che la ripresa di malattia è probabilmente dovuta all’insufficiente durata del trattamento piuttosto che alla resistenza a imatinib. anche le linee guida del national comprehensive cancer network già nel 2009 [12] suggerivano che la durata della terapia adiuvante dovrebbe essere ≥ 12 mesi nei pazienti con rischio intermedio o alto di ricaduta e che i pazienti con elevato rischio potevano necessitare di un periodo più lungo di trattamento. possiamo concludere che la migliore scelta terapeutica, per l’anno 2010, era figura 1 disegno dello studio ssgxviii/aio [13] ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 4) 15 l. tozzi pertanto quella di trattare il paziente per almeno due anni. attualmente abbiamo delle chiare indicazioni sulla durata ottimale del trattamento adiuvante dai risultati dello studio clinico scandinavo/tedesco di fase iii ssgxviii/ aio che sono stati presentati all’asco nel giugno 2011 a chicago [13]. questo studio ha analizzato i pazienti con gist ad alto rischio di recidiva trattati per 1 anno con terapia adiuvante versus i pazienti trattati per 3 anni (figura 1). obiettivo primario dello studio era valutare la rfs (recurrencefree survival), cioè il periodo di tempo dalla randomizzazione alla comparsa di recidiva di malattia o morte. dal 2004 al 2008, 400 pazienti sono stati inclusi nello studio e sono stati trattati con 400 mg/die di imatinib; il figura 3 sopravvivenza globale dopo 1 anno vs 3 anni di terapia adiuvante con imatinib [13] figura 2 rfs dopo 1 anno vs 3 anni di terapia adiuvante con imatinib [13] follow-up mediano è stato di 54 mesi (quasi 4 anni e mezzo). i risultati mostrano che dopo cinque anni il 66% dei pazienti trattati con imatinib per 3 anni è rimasto libero da recidiva rispetto al 48% che aveva ricevuto imatinib per 1 solo anno, con un chiaro vantaggio per la terapia adiuvante condotta per 3 anni (figura 2). inoltre, osservando anche il dato di sopravvivenza globale (endpoint secondario), emerge un vantaggio per il 92% dei pazienti trattati con imatinib adiuvante per 3 anni, rispetto all’82% che aveva ricevuto imatinib in adiuvante per 1 solo anno (figura 3). i risultati finali di questo studio indicano, quindi, un nuovo standard di 3 anni per la terapia con imatinib adiuvante nei pazienti con gist ad alto rischio di recidiva. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 4)16 considerazioni sull’appropriatezza della durata della terapia adiuvante con imatinib in un paziente con gist references 1. casali pg, blay jy; esmo/conticanet/eurobonet consensus panel of experts. gastrointestinal stromal tumours: esmo clinical practice guidelines for diagnosis treatment and follow-up. ann oncol 2010; suppl 5: v98-102 2. dematteo rp, lewis jj, leung d, mudan ss, woodruff jm, brennan mf. two hundred gastrointestinal stromal tumors: recurrence patterns and prognostic factors for survival ann surg 2000; 231: 51-8 3. bucher p, egger jf, gervaz p, ris f, weintraub d, villiger p et al. an audit of surgical management of gastrointestinal stromal tumours (gist). eur j surg oncol 2006; 32: 310-4 4. langer c, gunawan b, schuler p, huber w, fuzesi l, becker h. prognostic factors influencing surgical management and outcome of gastrointestinal stromal tumours. br j surg 2003; 90: 332-9 5. miettinen m, lasota j. gastrointestinal stromal tumors: 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avanzata nel paziente trattato per recidiva dopo aver eseguito la terapia adiuvante ottimizzazione della dose di imatinib a seguito della progressione della malattia in un paziente con gist metastatico mariangela parodi 1, monica boitano 1, luciano canobbio 1 caso clinico imatinib adiuvante in paziente con gist ad alto rischio di comportamento maligno definito in base a parametri clinici, istologici e genotipo tumorale patrizia lista 1, agostino ponzetti 1 caso clinico considerazioni sull’appropriatezza della durata della terapia adiuvante con imatinib in un paziente con gist ad alto rischio: la migliore scelta nell’anno 2010 lucia tozzi 1 cmi 2013;7(suppl 1)3-7.html utilizzazione di nilotinib nella pratica clinica: monitoraggio dell’efficacia e della tollerabilità giorgina specchia 1 1 dipartimento dell'emergenza e dei trapianti di organi, u.o. ematologia con trapianto, bari editoriale corresponding author prof.ssa giorgina specchia giorgina.specchia@uniba.it   l’introduzione degli inibitori delle tirosin-chinasi (tki) nel trattamento della lmc ha profondamente modificato la sopravvivenza e la qualità di vita dei pazienti; imatinib è stato il primo attore della “rivoluzione” della storia naturale di tale patologia. infatti grazie alla sua selettiva inibizione del dominio tirosin-chinasico inibisce la proliferazione di bcr-abl e induce l’apoptosi delle cellule ph+. lo studio iris, arrivato ormai a 10 anni di follow up, ha sancito l’efficacia indiscutibile di questo inibitore di prima generazione in termini di risposta citogenetica e risposta molecolare e ha consentito di acquisire informazioni importanti sulla resistenza (mutazioni, ecc.), sulla tollerabilità e sul management degli effetti collaterali [1,2]. sia lo studio iris che altri trial clinici con imatinib in prima linea a dose standard o ad alte dosi hanno poi fornito le basi per definire le prime raccomandazioni eln 2006 e le successive 2009 relativamente alla tipologia di risposta (ottimale, subottimale e failure) e ai diversi timing della stessa [3,4]. un’altra informazione rilevante derivata dall’uso di imatinib è stata quella di dimostrare che le risposte citogenetiche e molecolari precoci sono predittive dell’outcome e quindi della pfs (progression free survival) e della os (overall survival) a lungo termine [5]. tuttavia, da tutti gli studi emerge anche che, nel tempo, durante il trattamento con imatinib, una quota variabile dei pazienti (45-50%) sviluppa resistenza o intolleranza di diverso grado. è noto che i numerosi meccanismi di resistenza possono essere distinti in due tipi: 1) meccanismi bcr-abl dipendenti, quando le cellule resistenti al farmaco dimostrano un’elevata attività tirosinchinasica per: amplificazione genica, overespressione della p-glicoproteina, sequestro di bcr-abl nel citoplasma, evoluzione citogenetica clonale, overespressione della α1-glicoproteina acida, mutazioni puntiformi. 2) meccanismi bcr-abl indipendenti, quando invece le cellule resistenti acquisiscono resistenza per altri eventi biologici: acquisizione di eventi oncogenici aggiuntivi oppure attivazione di percorsi di trasduzione del segnale alternativi, che rendono la crescita delle cellule leucemiche ph+ indipendenti dall’attività tirosin-chinasica di bcr-abl. nonostante diversi siano i meccanismi che possono intervenire nella resistenza a imatinib, le mutazioni puntiformi sono quelle più frequentemente descritte, forse perché più facilmente identificabili; infatti la valutazione dello status mutazionale di un paziente che abbia una resistenza (failure) o una risposta subottimale a imatinib è entrato nella pratica clinica poiché tale informazione può fornire spesso un contributo prezioso per una più razionale e mirata gestione terapeutica dei pazienti soprattutto dopo l’avvento di altri tki. lo sviluppo, dopo il 2003, degli inibitori tk di seconda generazione (nilotinib e dasatinib), dotati di maggiore selettività per il dominio tirosinchinasico e quindi molto più potenti di imatinib, sia in vitro (linee cellulari) sia in vivo (seconda linea) [6], ha consentito di recuperare i pazienti che sviluppano resistenza o presentano intolleranza a imatinib. diversi studi clinici hanno dimostrato che l’utilizzazione di tali inibitori consente di riottenere remissioni citogenetiche e molecolari sia nei pazienti resistenti sia in quelli intolleranti e che tanto minore è il tempo intercorrente fra l’insorgenza della resistenza o intolleranza e lo switch terapeutico, migliore è la risposta alla terapia di seconda linea [7]. lo studio enact, ad esempio, che prevedeva l’utilizzo di nilotinib al dosaggio di 400 mg bid in pazienti con lmc in fase cronica o accelerata resistenti a terapia con imatinib ha dimostrato una efficacia significativa, con il raggiungimento della risposta citogenetica maggiore e della risposta citogenetica completa nel 45% e 34% dei pazienti rispettivamente; queste risposte sono state più rapide (entro il 6° mese di trattamento) e in proporzioni maggiori nei pazienti con risposta subottimale a imatinib (75% e 50%). dopo 18 mesi di trattamento la pfs è stata dell’80%, con una bassissima tossicità ematologica ed extraematologica di grado 3-4 [8]. i pazienti che per intolleranza a imatinib determinata da effetti collaterali quali ritenzione idrica (edemi periorbitari e aumento ponderale), alvo irregolare, alopecia, rash cutanei, crampi muscolari, neutropenia, ecc, hanno ricevuto terapia con nilotinib, non hanno presentato cross intolleranza e quindi il management anche dei pazienti anziani e con altre comorbidità è stato abbastanza agevole. non deve essere sottovalutata però la possibile cardiotossicità dei tki sia di 1° sia di 2° generazione, anche se su ampie casistiche è stato evidenziato che la tossicità cardiologica è un evento possibile ma molto raro [9-13]. un’altra delle problematiche da valutare soprattutto nei pazienti anziani è rappresentata dalla frequente presenza di diverse patologie concomitanti (diabete, cardiopatie, patologie polmonari, ecc.) e di eventuali altre terapie già assunte dal paziente per le possibili interazioni farmacologiche con i tki. sono stati condotti diversi studi di farmacocinetica che, partendo da valutazioni in vitro, ci hanno indicato i meccanismi con cui i tki agiscono, attraverso metabolismo da parte del citocromo epatico p450 3a4. questa via metabolica infatti è comune a diversi altri farmaci che possono interferire come induttori, competitori o inibitori, incrementando o riducendo la quantità di tki inattivo. in caso di altre terapie concomitanti è necessario uno stretto monitoraggio del paziente, che potrebbe richiedere un aggiustamento posologico della terapia in rapporto alle potenziali interazioni farmacologiche; molte conoscenze su tali interazioni derivano anche da sub-analisi nell’ambito di studi clinici. informazioni sulla safety dei farmaci e sulla gestione degli effetti collaterali provengono sia dagli studi clinici sia da una lunga esperienza di pratica clinica ormai acquisita negli anni; conoscere gli effetti collaterali e la loro gestione è oggi fondamentale per la scelta del trattamento “disease and patient oriented” alla luce anche della disponibilità dei diversi tki. di rilevanza attuale sono soprattutto i dati di efficacia ottenuti dagli studi di nilotinib in prima linea, che hanno dimostrato che nilotinib rispetto a imatinib induce risposte molecolari più rapide e profonde. lo studio registrativo enestnd infatti, nel follow up a 36 mesi ha evidenziato un notevole vantaggio in termini di risposte molecolari maggiori e profonde nel braccio sperimentale con nilotinib 300 mg bid rispetto a imatinib: mmr 73% vs 53%; mr4 50% vs 26% e mr4.5 32% vs 15% rispettivamente [14]. diversi studi hanno dimostrato il valore prognostico, in termini di sopravvivenza, dell’ottenimento di una risposta molecolare rapida e profonda in corso di terapia con i tki. in particolare è stato osservato che ottenere a tre mesi di trattamento una riduzione del trascritto molecolare fino al 10% correla positivamente con la os, pfs e con la possibilità di mantenere nel tempo risposte citogenetiche complete [15,16]. questo importante cut off del 10% a 3 mesi e il suo valore prognostico è stato valutato anche per i pazienti dello studio registrativo enestnd, confermando che il raggiungimento di un trascritto inferiore al 10% a 3 mesi e inferiore all’1% a 6 mesi si traduce in un vantaggio in termini di sopravvivenza e anche in termini di incidenza cumulativa di risposte molecolari maggiori e profonde a 4.5 log a lungo termine fino a 48 mesi. il dato interessante è che a 3 mesi il 90,7% dei pazienti in trattamento con nilotinib 300 mg bid ha raggiunto un trascritto molecolare inferiore al 10% e il 56.2% ha ottenuto un trascritto inferiore all’1%, mentre nel braccio di trattamento con imatinib questa quota di pazienti si riduce al 66,7% e al 16,3% rispettivamente [14,17]. a questi dati se ne aggiunge un altro di non minore rilevanza nella storia della lmc, ossia la riduzione del rischio di progressioni in fasi avanzate di malattia (fase accelerata e fase blastica). nello studio enestnd lo 0,7% dei pazienti nel braccio nilotinib a 300mg/bid vs 4,2% dei pazienti nel braccio imatinib progredisce nei primi due anni di terapia in fasi avanzate di malattia e nessuna evoluzione si è osservata fra il secondo e il terzo anno di trattamento [14]. in tutti gli studi viene confermata la rilevanza dello stretto monitoraggio citogenetico e molecolare in accordo alle raccomandazioni (eln2009, esmo e le ultimissime eln 2013) in termini sia di timing che di qualità/quantità delle risposte per predire la pfs e la os. vista l’importanza del monitoraggio molecolare nella decisione clinica, è fondamentale non solo avvalersi di un’accurata rt-pcr quantitativa ma anche di un’analisi standardizzata secondo la scala internazionale (is) e adottata nei diversi laboratori che utilizzano tecniche e processi standardizzati. in italia, grazie al progetto labnet, è possibile avere una uniformità nella qualità dei dati molecolari e nella valutazione della presenza in alcuni casi di specifiche mutazioni responsabili della resistenza. oggi l’obiettivo più ambizioso nell’era dell’uso dei tki di 2° generazione in prima linea nel trattamento dei pazienti con lmc è rappresentato dal “path to cure” cioè la possibilità di interrompere il trattamento, sempre nell’ambito però di studi clinici prospettici controllati, nei pazienti che hanno raggiunto una risposta molecolare definita come mr4,0 e/o mr4,5 e che hanno mantenuto per almeno 24 mesi. diversi trials nel mondo sono stati avviati per valutare la reale possibilità di discontinuare il trattamento soprattutto nei pazienti giovani. i casi riportati in questo numero di clinical management issues sono un esempio di quanto spesso ci troviamo ad affrontare nella reale pratica clinica, utilizzando però anche le informazioni derivate dai numerosi trials clinici e applicando le raccomandazioni eln. il caso della dottoressa roncoroni e il caso della dottoressa tomaselli sono di particolare interesse in quanto descrivono rispettivamente il difficile management di un paziente di 75 anni e di un paziente di 64 anni “fragili” con numerose comorbidità (diabete, ipertensione arteriosa, dislipidemia, bpco e cardiopatia ischemica) che necessitano di diversi trattamenti farmacologici con possibili interazioni farmacologiche. il buon management clinico ha consentito di modulare e/o modificare le terapie per le comorbidità anche in rapporto alle interazioni farmacologiche con gli inibitori delle tirosin-chinasi e anche per altri eventi clinici severi (edema polmonare) e di garantire al paziente il trattamento con nilotinib per il raggiungimento di una risposta ottimale senza tossicità rilevanti. inoltre emerge come sia necessario interagire con gli altri specialisti (cardiologi, diabetologi) per il management clinico-terapeutico delle comorbidità. il caso del dottor pietrantuono riporta invece una paziente con una storia di 10 anni di lmc trattata prima con imatinib a dose standard, e poi con dosi elevate di imatinib per assenza di risposta citogenetica. successivamente nell’ambito di uno studio clinico è stata trattata con nilotinib e poi, per sviluppo di resistenza e sulla base dei risultati dell’analisi mutazionale, con dasatinib ma per la perdita successiva della risposta ematologica e la presenza di una nuova mutazione è stato ripreso nilotinib in quarta linea. questo “percorso razionale” di trattamento in rapporto al monitoraggio molecolare e ai risultati dell’analisi mutazionale è un valido modello di come monitorare un paziente con lmc e di continuare il trattamento con i tki. nel caso della dottoressa russo rossi viene descritto un paziente trattato nella pratica clinica con nilotinib in prima linea al dosaggio di 600 mg/die e giunto a un follow up di 12 mesi. già dopo i primi tre mesi di trattamento il paziente ha raggiunto una risposta citogenetica completa (ccr) e un valore di trascritto bcr-abl/abl pari a 0,749 is quantificabile secondo rt-pcr quantitativa non solo inferiore al 10% ma anche inferiore all’1% rispetto alla quantità di trascritto alla diagnosi. il paziente ha poi proseguito con una costante riduzione del trascritto molecolare nel tempo raggiungendo, dopo 12 mesi di trattamento, una risposta molecolare profonda (mr4). in questo paziente trattato in prima linea con nilotinib, al di fuori di trial clinici, si evidenzia come una risposta precoce (3° mese) e profonda (inferiore all’1%) continui al 12° mese con una mr4 e con una buona tollerabilità, quindi con una buona qualità della vita del paziente. inoltre si conferma il ruolo rilevante della disponibilità di un laboratorio accreditato labnet che produce dati standardizzati e riproducibili. i dati degli studi e le landmark analysis presentate ad oggi confermano il valore prognostico di risposte precoci e profonde per l’outcome del paziente a lungo termine aprendo la possibilità ad interrompere il trattamento una volta ottenute risposte complete e durature. i quattro casi riportati sono di particolare interesse sia perché riportano l’esperienza sul management terapeutico a volte non semplice per la presenza di certe comorbidità, sia perché dimostrano come lo stretto monitoraggio citogenetico-molecolare-mutazionale si traduca in un vantaggio importante sulla durata e qualità della vita dei pazienti. bibliografia 1. deininger m, o’brien sg, guilhot f, et al. international randomized study of interferon vs sti571 (iris) 8-year follow up: sustained survival and low risk for progression or events in patients with newly diagnosed chronic myeloid leukemia in chronic phase (cml-cp) treated with imatinib. 51st ash annual meeting and exposition, new orleans, la, december 5-8, 2009 (abstr 1126) 2. hochhaus a, o’brien sg, guilhot f, et al; iris investigators. six-year follow up of patient receiving imatinib for the first-line treatment of 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si tratti di una forma secondaria (amiloidosi aa, che si osserva in patologie infiammatorie, autoimmuni, infettive o neoplastiche) o di una forma primitiva, spesso associata al mieloma multiplo soprattutto di tipo micromolecolare, detta al (amiloide a catene leggere) perché le fibrille sono formate dal frammento n-terminale di una catena leggera immunoglobulinica monoclonale, prodotta da un clone plasmacellulare neoplastico; l’amiloidosi da catene leggere (al) è la forma più comune di amiloidosi sistemica nei paesi occidentali, con un’incidenza stimata di 0,9 per 100.000 persone-anno [3]. le stesse caratteristiche molecolari delle catene leggere amiloidogeniche sono, almeno in parte, responsabili del tropismo d’organo dei depositi d’amiloide e, per la loro variabilità (sono infatti costituite dalla porzione variabile della catena leggera immunoglobulinica) determinano manifestazioni sintomatologiche e cliniche multiformi e peculiari a seconda dei tessuti e degli organi interessati [1]. introduzione amiloidosi sistemica l’amiloidosi è una patologia sistemica o localizzata, caratterizzata da accumulo extracellulare di amiloide, sostanza proteica fibrillare omogenea e amorfa al microscopio ottico. dopo colorazione con rosso congo al microscopio a luce polarizzata, a causa della sua struttura fibrillare, appare birifrangente assumendo un colore “verde mela” [1]. mentre la deposizione localizzata di sostanza amiloide gioca un importante ruolo patogenetico nell’evoluzione di gravi patologie quali il morbo di alzheimer (placche contenenti beta-proteina) e il diabete mellito (presenza di amilina nelle isole del langerhans), nelle forme sistemiche vengono coinvolti più organi. i tipi principali sono quattro [2]: amiloidosi attr; y amiloidosi abeta2m; y amiloidosi aa; y amiloidosi al. y corresponding author dott.ssa erica delsignore eridelsi@tiscali.it caso clinico abstract a 72-year-old woman was admitted to our department for syncopes, diarrhoea, and weight loss. we suspected the diagnosis of systemic amyloidosis after the detection of macroglossia and periorbital purpura, despite the biopsy of the previous year, that resulted negative for amyloid substance. we confirmed the diagnosis after the histological evidence of deposits of amyloid in bone marrow and the clinical evidence of pneumatosis of bladder wall. chemotherapy improved only temporarily clinical condition. keywords: amyloidosis, pneumatosis of bladder wall, λ chains, k chains systemic amyloidosis and pneumatosis of bladder wall cmi 2011; 5(suppl 2): 47-54 1 sc medicina interna. ospedale s. andrea, vercelli 2 sc anatomia patologica. ospedale s. andrea, vercelli 3 sc laboratorio analisi. ospedale s. andrea, vercelli 4 sc radiologia. ospedale s. andrea, vercelli erica delsignore 1, luciano bellan 1, maria cristina bertoncelli 1, roberto cantone 1, margherita francese 1, luigi olivetto 1, annamaria varese 1, paola migliora 2, giovanna patrucco 3, riccardo vigone 4 amiloidosi sistemica e pneumatosi vescicale ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)48 amiloidosi sistemica e pneumatosi vescicale nell’eziologia infettiva, tra i patogeni chiamati in causa più frequentemente si trovano: escherichia coli, klebsiella pneumoniae, aerobacter aerogenes, staphylococcus aureus, proteus, clostridium perfringens, candida albicans [8]. il meccanismo di formazione del gas nella parete della vescica è controverso; nel diabetico scompensato è attribuito all’iperglicemia e alla glicosuria che inducono proliferazione di batteri fermentanti il glucosio, con formazione di co2; nei non diabetici possono costituire un substrato per la produzione di gas il lattulosio urinario e le proteine dei tessuti necrotici [5,7]. manovre strumentali quali la cistoscopia a elevata pressione di irrigazione, contemporaneamente alla presenza di un’area di resistenza ridotta di parete, quindi più sensibile a traumi, potrebbero creare soluzioni di continuo e causare infiltrazione di aria nella parete vescicale [9]. contribuiscono poi al passaggio di gas nella parete del viscere l’infiammazione locale e l’aumento della pressione endoluminale dovuta a processi ostruttivi, che provocano necrosi tissutale su base ischemica, buon terreno di coltura per batteri produttori di gas. caso clinico la signora g. di 72 anni veniva ricoverata il 13/01/2010 presso la nostra soc (struttura operativa complessa) per sincopi recidivanti, calo ponderale di circa 50 kg nell’ultimo anno e diarrea cronica protratta da 18 mesi e peggiorata nelle ultime settimane. nel 2009 era stata indagata con colonscopia il cui unico reperto era di diverticolosi intestinale; una recente esofago-gastro-duodenoscopia (egds) mostrava un quadro endoscopico nella norma. all’anamnesi remota la paziente riferiva istero-annessiectomia a 47 anni per fibromatosi uterina, exeresi di lipoma cervicale; ipertensione arteriosa anamnestica ormai non trattata per costante riscontro, durante tutta la degenza, di ridotti valori tensivi; polineuropatia sensitivo-motoria; sindrome dell’intestino irritabile nota da anni, ma aggravatasi nell’ultimo anno, dalla morte del coniuge. al momento del ricovero (13/01/2010) la paziente presentava scadimento delle condizioni generali, peso = 55 kg, pressione arteriosa (pa) = 105/60 mmhg, attività pneumatosi cistica vescicale la pneumatosi cistica vescicale (pcv ) è una rara condizione, descritta per la prima volta nel 1882 da keyes e caratterizzata dalla presenza di bolle di gas nella parete del viscere [4]. l’eziologia può essere traumatica, infettiva o ricondotta a fistole vescico-intestinali, vescico-vaginali o vescico-cutanee. situazioni predisponenti sono il diabete mellito (presente in almeno il 50% dei pazienti con pcv ), la vescica neurologica, la nefrolitiasi, l’alcolismo, la malnutrizione, le malattie ematologiche e altre condizioni debilitanti [5-7]. altre situazioni che sono state associate alla pcv includono l’insufficienza renale terminale, il trapianto renale, l’infarto renale, il lupus eritematoso sistemico e l’utilizzo di agenti immunosoppressori quali ciclofosfamide e corticosteroidi [6]. parametri risultati valori normali wbc 13.570/mm3 4.500-11.000/mm3 hb 12,4 g/dl 11,5-15,5 g/dl plts 175.000/mm3 130.000-400.000/mm3 neutrofili 96% linfociti 2% monociti 1% creatinina 1,55 mg/dl 0,6-1,1 mg/dl na+ 143 mmol/l 135-145 mmol/l k+ 3,3 mmol/l 3,5-4,5 mmol/l ca++ 9,3 mg/dl 8,5-10,5 mg/dl cl101 mmol/l 100-108 mmol/l proteinuria delle 24 ore 1.000 mg/die < 150 mg/die sodiuria 139 mmol/24 ore 40-220 mmol/24 ore potassiuria 47 mmol/24 ore 20-125 mmol/24 ore bilirubina totale 0,3 mg/dl < 1 mg/dl ast 10 u/l 8-37 u/l alt 20 u/l 10-65 u/l ggt 11 u/l 5-70 u/l fosfatasi alcalina 71 u/l 40-150 u/l lipasi 72 u/l 114-286 u/l proteine totali 49 g/l 64-83 g/l albuminemia 24,4 g/l 33,6-52,8 g/l probnp 8.295 ng/l 0-85 ng/l troponina 0,1 ng/ml 0-0,05 ng/ml pcr 3,0 mg/l < 8 mg/l fattore reumatoide 8,0 ui/ml < 20 ui/ml tsh 1,57 μui/ml 0.4-4 μui/ml pth 5,2 pmol/l 0,9-8 pmol/l prl 116 ng/ml 1,9-25 ng/ml cortisolo 455 nmol/l 138 -690 nmol/l elastasi fecale 187 μg/g di feci ≥ 200 μg/g di feci tabella i risultati degli esami di laboratorio effettuati alla paziente al momento del ricovero alt = alanina aminotransferasi; ast = aspartato aminotransferasi; ggt = gamma glutamiltransferasi; hb = emoglobina; pcr = proteina reattiva; plts = piastrine; prl = prolattina; probnp = pro-brain natriuretic peptide; pth = paratormone; tsh = ormone tireostimolante; wbc = globuli bianchi ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 49 e. delsignore, l. bellan, m. c. bertoncelli, r. cantone, m. francese, l. olivetto et al e si evidenziava un blocco atrio-ventricolare (bav ) di i grado, con sovraccarico ventricolare sinistro e bassi complessi nelle derivazioni periferiche. l’ecg secondo holter mostrava un ritmo sinusale con trend della frequenza cardiaca piatto, battiti extrasistolici sopraventricolari (besv ) isolati e alcuni battiti condotti con blocco di branca sinistra (bbsx); non erano rilevate pause patologiche. all’rx torace non sono state evidenziate lesioni pleuroparenchimali con carattericardiaca valida, ritmica, frequenza cardiaca (fc) = 60 battiti/min, pause apparentemente libere, murmure vescicolare presente ubiquitariamente, addome lievemente globoso, trattabile non dolente né dolorabile alla palpazione superficiale e profonda, organi splancnici non apprezzabili, edemi declivi improntabili con fovea, porpora periorbitaria e macroglossia. venivano dunque eseguiti alcuni esami di laboratorio, da cui si ottenevano i risultati elencati in tabella i. l’elettroforesi sieroproteica, oltre all’ipoalbuminemia (tabella i), rilevava anche ipogammaglobulinemia, a seguito della quale si decideva di eseguire il dosaggio delle immunoglobuline sieriche (igg, iga, igm) e delle catene leggere libere. mentre le prime risultavano nella norma, le catene k libere apparivano lievemente sopra i limiti della norma (23 mg/l per range della norma = 3,3-19,4) e le catene λ libere mostravano un netto aumento (191 mg/l per valori normali = 5,71-26,3). risultavano inoltre alterati il rapporto k/λ = 0,12 (vn = 0,26-1,65) e la β2-microglobulina = 4,8 mg/l (vn = 0,8-2,4), mentre si rivelava assente la proteinuria di bence-jones. gli elevati valori di probnp (pro-brain natriuretic peptide) e troponina suggerivano un coinvolgimento cardiaco. la ricerca per i marker cea, ca 19.9, alfafetoproteina, ca 15.3 risultava negativa; anche i valori di β2-glicoproteina 1 igg e igm e degli anticorpi anti-cardiolipina apparivano nella norma. diversi anticorpi cercati risultavano assenti o comunque nel range della normalità: lac (anticorpi lupici); y anti-gliadina; y anti-transglutaminasi; y anti-endomisio; y ena (anti-antigeni nucleari estraibili); y ana (anticorpi anti-nucleari); y anti-hiv. y il toxo test era negativo per infezioni in atto o pregresse, mentre la ricerca per gli anticorpi anti-cmv (anti-citomegalovirus) rivelava una pregressa infezione. l’urinocoltura risultava positiva per e. coli, mentre si rivelavano negativi gli esami coproparassitologico e coprocolturale; il basso valore di elastasi fecale (tabella i) indicava insufficienza esocrina moderata. la ricerca di grassi fecali risultava negativa. all’elettrocardiogramma (ecg) il ritmo sinusale risultava alla frequenza di 55 bpm, figura 1 esame istologico effettuato sulla paziente: la colorazione con rosso congo mostra depositi midollari di sostanza amiloide intracitoplasmatica. depositi a livello del midollo osseo sono dimostrabili solo nel 30% dei casi figura 2 esame istologico effettuato sulla paziente: sono visibili catene leggere λ a espressione intracitoplasmatica stiche radiologiche di evolutività e l’ombra cardiaca è risultata nei limiti. all’ecocardiogramma sono state trovate: marcata ipertrofia ventricolare sinistra, aumentata ecoriflettenza a vetro smerigliato, ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)50 amiloidosi sistemica e pneumatosi vescicale traed extraepatiche e il dotto di wirsung non erano dilatati, ma si evidenziava una piccola falda liquida epato-pancreatica. la colecisti appariva normodistesa, e presentava numerosi calcoli, uno dei quali localizzato in sede infundibolare. la tc encefalo eseguita il 22/01/10 non evidenziava segni di espansi né accumuli anomali del liquido di contrasto. le strutture della linea sagittale mediana risultavano in asse. la tc torace e addome con mdc effettuata il 22/01/10 rivelava addensamenti polmonari flogistici al segmento posteriore del lobo inferiore destro, al segmento postero-basale controlaterale e in sede paraortica; vi era una minima quantità di liquido pericardico. si evidenziavano inoltre ipodensità dei tessuti lassi, come nei quadri disprotidemici, minima falda liquida periepatica, perisplenica e pericolecistica, fegato regolare per forma e dimensioni con formazione angiomatosa al passaggio vi-vii segmento in sottoglissoniana, analoga formazione in retrocavale al vi segmento e falda aerea in corrispondenza delle pareti vescicali riferita a pneumatosi cistica. dalla enterotc si scopriva un tenue e diffuso ispessimento delle pareti del piccolo intestino con aumento dell’enhancement dopo somministrazione di mdc per possibile accumulo parietale di amiloide. si decideva di trattare la polmonite a focolai multipli con la combinazione di antibiotici levofloxacina + tazobactam/piperacillina e si otteneva in questo modo una completa guarigione. per la comparsa di ritenzione urinaria, secondaria a vescica neurologica, la paziente veniva sottoposta a visita urologica, con conferma ecografica del quadro di enfisema vescicale («bolle aeree ai quadranti superiori delle pareti vescicale, della cupola e intramurali») già evidenziato dall’indagine tc, e a posizionamento di catetere vescicale (figura 3). veniva posta l’indicazione a effettuare biopsia vescicale, poi mai eseguita per la contemporanea presenza di infezione delle vie respiratorie e per lo scadimento generale delle condizioni della paziente. si arrivava pertanto alla diagnosi di amiloidosi sistemica al con pneumatosi vescicale associata. come raccomandato dalle linee guida per la terapia dell’amiloidosi sistemica al, alla paziente è stata attribuita una classe di rischio elevato, per essere inclusi nella quale è sufficiente che sia soddisfatta una delle seguenti condizioni [10]: atrio sinistro moderatamente dilatato, versamento pericardico circonferenziale di lieve entità senza segni di impegno, lieve insufficienza mitralica e tricuspidalica. la presenza di catene leggere libere, in assenza di picchi dimostrabili all’elettroforesi sieroproteica, è stata indagata con biopsia osteomidollare e mieloaspirato: il primo esame ha rivelato un midollo normocellulare con plasmocitosi interstiziale del 15%, con espressione esclusiva di catene leggere λ e focali depositi di sostanza amiloide (figure 1 e 2). dalla citofluorimetria è emerso un quadro di midollo normomaturante senza alterazioni immunofenotipiche, mancata evidenza di popolazione b clonale e presenza di quota plasmacellulare dell’1,7%. l’anno precedente alla paziente era stato già posto il sospetto di tale patologia in altra sede, ma la biopsia del grasso periombelicale allora eseguita aveva dato esito negativo per la ricerca di sostanza amiloide, quindi questa ipotesi era stata abbandonata. per l’improvviso presentarsi di algia addominale di modica entità è stata eseguita rx diretta addome con evidenza di sottile banda aerea disposta a semicerchio in regione ipogastrica con sospetto di lesione occupante spazio in regione pelvica o possibile falda di perforazione retroperitoneale. c’era però un’evidente discrepanza tra quadro radiologico e obiettività di addome trattabile, senza aggravamento alla palpazione della dolenzia spontanea, con presenza di peristalsi. si decideva allora di effettuare una risonanza magnetica al pancreas, che però non metteva in luce significative alterazioni morfologiche e di segnale; le vie biliari infigura 3 falda aerea in corrispondenza delle pareti vescicali riferita a pneumatosi cistica ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 51 e. delsignore, l. bellan, m. c. bertoncelli, r. cantone, m. francese, l. olivetto et al zione: epatomegalia, splenomegalia, diarrea e sindrome da malassorbimento, porpora cutanea, macroglossia, emorragie cutanee e mucose, insufficienza renale o glomerulonefrite, trombosi della vena renale, sincopi e ipotensione, scompenso cardiaco congestizio e neuropatia periferica [3]. tale variabilità di sintomatologia è dovuta alle caratteristiche molecolari delle catene leggere amiloidogeniche presenti. la diagnosi si basa sull’osser vazione dell’accumulo di sostanza amiloide negli organi bersaglio o più comunemente nel grasso periombelicale o a livello rettale, mentre depositi a livello del midollo osseo sono dimostrabili solo nel 30% dei casi [3]. la dimostrazione di sostanza amiloide in un sito sommata al coinvolgimento clinico di altri organi è sufficiente a porre diagnosi di amiloidosi sistemica [2]. il successivo passo, la determinazione cioè del tipo di amiloide, indirizza la terapia: spesso già le caratteristiche cliniche possono orientare verso l’una o l’altra forma di amiloidosi sistemica, ma una diagnosi certa si ottiene saggiando con tecniche di immunoistochimica e con antisieri anti-catene k e λ i frammenti bioptici degli organi coinvolti [2]. il dosaggio immunonefelometrico delle catene leggere libere e del loro rapporto costituisce un utile strumento di conferma biochimica in affiancamento all’immunofissazione elettroforetica nella diagnosi di amiloidosi al primitiva o associata a discrasie plasmacellulari [11]. in pazienti con amiloidosi sistemica al dovrebbe essere evidenziabile una discrasia plasmacellulare monoclonale con overproduzione di catene leggere k o, più frequentemente, λ nel midollo osseo, nel sangue o nelle urine; approssimativamente nel 1015% dei pazienti l’amiloidosi sistemica al è associata al mieloma multiplo [12] e non sempre la distinzione tra la forma primitiva e quella secondaria è di facile attuazione, soprattutto nei casi di amiloidosi associata a mieloma micromolecolare [13]. l’attuale razionale terapeutico alle amiloidosi sistemiche è basato sulla possibilità di regressione della disfunzione d’organo qualora i depositi di amiloide vengano riassorbiti e la sintesi del precursore amiloidogenico ridotta o annullata. pertanto, al momento attuale, la terapia dell’amiloidosi al consiste nell’eradicazione del clone plasmacellulare produttore e nella conseguente rapida riduzione delle catene leggere circolanti [10]. nt-probnp ( y n-terminal pro-brain natriuretic peptide) > 332 ng/l (o bnp superiore al limite di riferimento) e ctni (troponina i cardiaca) > 0,1 ng/ml o ctnt (troponina t cardiaca) > 0,035 ng/ml; aritmie ventricolari ripetitive all’ecg diy namico secondo holter non corrette dal trattamento con amiodarone; performance status (ecog) ≥ 3, a meno y che non sia determinata da interessamento del sistema nervoso periferico. nel nostro caso erano soddisfatte due condizioni su tre. come da protocollo, in quanto paziente ad alto rischio con amiloidosi sistemica, è stata trattata con terapia attenuata con melfalan e desametasone (mdex-a). lo scadimento progressivo delle condizioni generali della paziente, legato a grave anoressia, nausea, vomito e sintomi dispeptici persistenti, rendeva necessario un supporto nutrizionale integrativo parenterale. alla luce della diagnosi di amiloidosi con verosimile coinvolgimento sistemico, alla risoluzione della polmonite a focolai multipli, dal 2/02 al 5/02/10 veniva trattata con ciclo di melfalan e desametasone (melfalan 0,22 mg/kg/die per os e desametasone 20 mg/die nei giorni nei giorni 1-4 [10]). a fronte di un iniziale miglioramento soggettivo, con riduzione di diarrea, nausea e vomito, si è assistito però a un peggioramento del quadro laboratoristico con aumento di probnp (22.987 ng/l), di troponina (0,21 ng/ml), delle catene leggere libere plasmatiche (catene k libere = 19 mg/l e catene λ 215 mg/l) e comparsa della proteinuria di bence-jones. un rx addome in bianco eseguito il 14/03 non dimostrava falde aeree subfreniche, né sovradistensione gassosa intestinale, né immagini di livelli idro-aerei. dal 2/03 al 5/03/10 è stato effettuato il secondo ciclo di melfalan (con adeguamento posologico alla conta dei neutrofili e delle piastrine effettuata 14 giorni dopo il primo ciclo secondo le linee guida 2009) e desametasone (8 mg + 4 mg + 8 mg/die ev) [10]. successivamente la paziente è andata incontro a un rapido peggioramento clinico fino all’exitus. discussione nell’amiloidosi sistemica, oltre ai sintomi costituzionali di accompagnamento, possono essere presenti in diverso grado e combina©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)52 amiloidosi sistemica e pneumatosi vescicale il successo nel trattamento dipende dalla diagnosi precoce e dalla correzione delle cause sottostanti (es. iperglicemia), mentre la terapia chirurgica viene considerata in seguito al fallimento del trattamento medico conservativo o al presentarsi di complicanze, come la peritonite, lo pneumoperitoneo o la formazione di ascessi perivescicali [6]. la prognosi può essere favorevole nei casi precocemente diagnosticati e trattati, mentre può essere fatale per comparsa di sepsi grave soprattutto nei pazienti immunocompromessi [6]. nel caso clinico in esame la principale difficoltà incontrata nel raggiungere la diagnosi è stata l’eterogenea presentazione clinica, legata alla localizzazione sistemica della sostanza amiloide: essa può essere infatti considerata l’emblema della patologia internistica e della sua complessità. manifestazioni così varie però mimano una polipatologia rischiando di far attribuire i sintomi accusati e i segni correlati ad altrettante malattie che coesisterebbero nello stesso malato (malassorbimento, disturbi del ritmo, cardiopatia ipertensiva, ecc.). riepilogando, i nostri reperti erano i seguenti: bom positiva per presenza di sostanza y amiloide, con reperto di catene λ intracitoplasmatiche; presenza di catene leggere libere sieriche y con rapporto k/λ alterato; evidenza clinica/strumentale di coinvoly gimento multiorganico: cuore (ecg, ecocardiogramma, ecg y secondo holter); rene (sindrome nefrosica con proteinuy ria > 0,5 g/die); macroglossia; y cute (porpora periorbitaria); y intestino (sindrome da malassorbimeny to con diarrea cronica e quadro radiologico compatibile con deposizione di amiloide nella parete del piccolo intestino all’enterotc); sistema nervoso periferico e autonomo y (neuropatia periferica, sincopi, ipotensione ortostatica). nella diagnosi di amiloidosi sistemica è raccomandata la dimostrazione della sostanza amiloide in due differenti organi o tessuti: per questa dimostrazione è sufficiente avere la conferma istologica di un sito (come il midollo osseo, la pelle o il retto) e il coinvolgimento clinico di un altro sito (come le linee guida 2009 redatte dalla società italiana per l’amiloidosi riconoscono come punti cardine la suddivisione in classi di rischio (rischio basso, intermedio e alto) basata su indici di funzione miocardica (troponina i, nt-probnp), la valutazione ematologica della risposta alla terapia basata sulla concentrazione delle catene leggere libere circolanti e la valutazione della risposta cardiaca basata sulle variazioni di nt-probnp [10]. su tali elementi si basano quindi le decisioni terapeutiche con scelta di agenti chemioterapici via via diversi a seconda della classe di rischio attribuita al paziente: melfalan 200 mg/m2 seguito da eventuale trapianto autologo di cellule staminali nella classe a basso rischio, melfalan/desametasone nei pazienti a rischio intermedio di età > 60 anni o cdta (acido 1,2-cicloesandiamminotetracetico) nei pazienti a rischio intermedio di età < 60 anni, mentre la terapia attenuata con melfalan e prednisone è oggi riservata principalmente ai pazienti a cattiva prognosi e con scarso performance status. nuove prospettive terapeutiche prevedono poi l’utilizzo di associazioni di bortezomib e desametasone o lenalidomide e desametasone nei pazienti refrattari alla terapia di prima linea [10]. la sintomatologia della pcv, invece, è solitamente indistinguibile da quella che si osserva nelle infezioni delle basse vie urinarie (disuria, macroematuria, dolore ipogastrico) ed è spesso modesta: pertanto la diagnosi viene fatta casualmente con una radiografia diretta dell’addome che mostra presenza di gas libero nella piccola pelvi [6]. questa entità clinica può presentare facilmente reperti aspecifici, ma segni di alterazione delle condizioni generali in un paziente diabetico con infezione delle vie urinarie in corso dovrebbero indurre all’esecuzione di una radiografia diretta dell’addome [14]. l’ecografia mostra ispessimento della parete vescicale associato a irregolarità ecogena con ombre posteriori irregolari, caratteristiche delle bolle di gas. la tc è la migliore tecnica di imaging: localizza accuratamente il gas che appare come un anello che circonda parzialmente o totalmente il viscere e può essere repertato anche nel lume e in sede extravescicale [14]. il trattamento appropriato comprende terapia antibiotica ad ampio spettro e il posizionamento di catetere vescicale che permetta il collabimento delle pareti infiltrate dal gas. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 53 e. delsignore, l. bellan, m. c. bertoncelli, r. cantone, m. francese, l. olivetto et al è poi importante ricordare che anche le forme di amiloidosi sistemica secondarie a mgus (monoclonal gammopathy of undetermined significance, discrasia presente nel 3% delle persone > 70 anni) o a mieloma multiplo non necessariamente sono di tipo al, ma soprattutto aa e che l’amiloidosi sistemica senile ssa può occorrere associata incidentalmente a una mgus [2,16]. è stata inoltre d’aiuto per la conferma laboratoristica la recente introduzione del dosaggio delle catene leggere libere con immunonefelometria, che ha per esse una sensibilità 10 volte maggiore rispetto all’immunoelettroforesi. poiché il dosaggio delle catene leggere libere è quantitativo, la nuova metodica è utile non solo per la diagnosi, identificando frammenti di catene leggere delle ig di natura monoclonale sia k sia λ, ma anche per seguire la progressione della malattia e la risposta al trattamento [12]. il caso di amiloidosi qui descritto ci ha colpito particolarmente anche per l’associazione con un altro raro reperto, cioè la pneumatosi vescicale: le scadute condizioni generali non hanno consentito l’esecuzione di una biopsia vescicale che potesse dimostrare la presenza di sostanza amiloide anche all’interno della parete del viscere, ma riteniamo con buona probabilità che questa possa esserne la causa. dai dati della letteratura emerge un solo caso, alla consultazione di pubmed, in cui l’amiloidosi sia stata dimostrata causa di pneumatosi cistica vescicale [17]. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. sindrome nefrosica, epatomegalia, macroglossia o cardiomiopatia) [2]. poteva facilmente indurre in errore una precedente biopsia di grasso periombelicale risultata negativa. sono stati invece i dati obiettivi di macroglossia (tipica e presente solo nell’amiloidosi al) e porpora periorbitaria, a dispetto dell’iniziale esclusione laboratoristica della patologia, a essere fortemente indicative incoraggiandoci a proseguire la ricerca, ricordandoci ancora una volta l’importanza della clinica. è infatti la clinica a dover guidare il nostro iter diagnostico e a far scegliere gli accertamenti strumentali il cui compito è invece quello di confermare o escludere. un forte sospetto clinico dovrebbe sempre incoraggiarci nella nostra ricerca, anche a dispetto di accertamenti diagnostici inizialmente negativi. il secondo ostacolo che abbiamo incontrato è stato la diagnosi differenziale tra le varie forme di amiloidosi sistemica, soprattutto tra la forma primitiva e la forma associata a mieloma multiplo, in particolare nella varietà smoldering, nella quale l’amiloidosi a catene leggere può decorrere anche in forma asintomatica in circa il 2% dei casi: la diagnosi differenziale non è sempre facile e si basa sulla dimostrazione della deposizione di sostanza amiloide nei tessuti con varie colorazioni, microscopio elettronico e a luce polarizzata e sull’applicazione nei tessuti infiltrati di antisieri anti-catene k e λ [2,15]. il dato tc di probabile deposizione di sostanza amiloide a livello della parete del piccolo intestino entrava in diagnosi differenziale con linfoma intestinale, ma differiva da questo per la diffusa deposizione e per la dimostrazione di amiloidosi al, mentre nel linfoma intestinale l’amiloidosi sarebbe stata secondaria a patologia neoplastico/infiammatoria e quindi di tipo aa. bibliografia rugarli c, caligaris cappio f, cantalamessa l, cappelli g, cappellini md, cavallo perin p 1. et al. medicina interna sistematica. milano: elsevier masson, 2005; v edizione hazenberg bp, van gameren ii, bijzet j, jager pl, van rijswijk mh. diagnostic and therapeutic 2. approach of systemic amyloidosis. neth j med 2004; 62: 121-8 castoldi g, liso v. malattie del sangue e degli organi ematopoietici. milano: mcgraw-hill, 3. 2001, iii edizione keyes el. pneumo-uria. 4. med news 1882; 41: 675-8 leclercq p, hanssen m, borgoens p, bruyère pj, lancellotti p. emphysematous cystitis. 5. cmaj 2008; 178: 836 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)54 amiloidosi sistemica e pneumatosi vescicale kelesidis t, osman s, tsiodras s. emphysematous cystitis in the absence of known risk factors: 6. an unusual clinical entity. south med j 2009; 102: 942-6 meira c, jerónimo a, oliveira c, amaro a, granja c. emphysematous cystitis. 7. braz j infect dis 2008; 12: 552-4 kuo cy, lin cy, chen tc, lin wr, lu pl, tsai jj et al. clinical features and prognostic factors 8. of emphysematous urinary tract infection j microbiol immunol infect 2009; 42: 393-400 kravchick s, cytron s, lobik l, altshuler a, kravchenko y, ben-dor d. clot retention and 9. spontaneous rupture with secondary pneumatosis of bladder wall following routine cystoscopy. pathol oncol res 2001; 7: 301-2 società italiana per l’amiloidosi, centro per lo studio e la cura delle amiloidosi sistemiche. 10. terapia dell’amiloidosi al sistemica. linee guida 2009. disponibile all’indirizzo: http://www. amiloidosi.it/docs/linee-guida-2009.pdf (ultimo accesso febbraio 2011) levinson ss. kappa/lambda index for confirming urinary free light chain in amyloidosis al 11. and other plasma cell dyscrasias. clin chem 1991; 37: 1122-6 sanchorawala v. light-chain (al) amyloidosis: diagnosis and treatment. 12. clin j am soc nephrol 2006; 1: 1331-41 parenti g, pacetti e, benedetti e, rossi pc. a case of amyloidosis associated with a solitary 13. micromolecular plasmocytoma. minerva med 1987; 78: 489-92 perlemoine c, neau d, ragnaud jm, gin h, sahnoun a, pariente jl et al. emphysematous 14. cystitis. diabetes metab 2004; 30: 377-9 gertz ma, comenzo r, falk rh, fermand jp, hazenberg bp, hawkins pn et al. definition 15. of organ involvement and treatment response in immunoglobulin light chain amyloidosis (al): a consensus opinion from the 10th international symposium on amyloid and amyloidosis, tours, france, 18-22 april 2004. am j hematol 2005; 79: 319-28 siragusa s, morice w, gertz ma, kyle ra, greipp pr, lust ja et al. asymptomatic 16. immunoglobulin light chain amyloidosis (al) at the time of diagnostic bone marrow biopsy in newly diagnosed patients with multiple myeloma and smoldering myeloma. a series of 144 cases and a review of litterature. ann hematol 2011; 90: 101-6 oka h, hatayama t, taki y, hida s, ueyama h, komatz y et al. a case of emphysematous 17. cystitis with familial amyloidosis. hinyokika kiyo 1991; 37: 759-63 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 81 clinical management issues le inchieste dell’internista: “il feocromocitoma fantasma” mai un esame più approfondito, la pressione misurata solo quando proprio non poteva farne a meno, farmaci neanche a parlarne… questa volta però si era fatto incastrare. in tarda serata l’epistassi era sotto controllo, la pressione non ancora ed egli finì nel braccio uomini della divisione di medicina interna: la faccenda era ingarbugliata, una brutta gatta da pelare… un caso per gli internisti. indagini preliminari da un accurato interrogatorio emersero alcuni indizi interessanti: sovrappeso dall’età adolescenziale; y pregresso intervento di ablazione di lipoy ma sottocutaneo al cuoio capelluto; nessuna terapia farmacologica; y familiarità positiva per: y ipertensione arteriosa in età giovanile y (padre, fratello, nonni, zii paterni); lipomi sottocutanei; y figli: nessuno. y stefano giordanetti 1, giancarlo vallese 2, giovanni bertinieri 1 introduzione spesso l’indagine medica si dipana come un’investigazione poliziesca e le procedure metodologiche possono rivelare analogie sorprendenti. seguiremo passo passo una di queste “indagini”, leggendola secondo i registri della letteratura “gialla”: non un caso clinico presentato in maniera classica, piuttosto un divertissement per addetti ai lavori con spunti di riflessione interessanti, non soltanto clinici. il caso hk, 58 anni, si rivolge al dipartimento di emergenza un pomeriggio di due anni fa: sanguina dal naso e l’epistassi sembra incontrollabile. l’ipertensione arteriosa, pure: 190/110 mmhg. la frequenza cardiaca è di 84 bpm, ritmo sinusale. iperteso da anni, fin da quando frequentava la scuola media, era sempre riuscito a sfuggire ai controlli medici: abstract a 58-year-old man presented with uncontrolled hypertension, elevated norepinephrine and dopamine but normal epinephrine levels. computed tomography revealed a renal mass. the presence of a pheochromocytoma was excluded. elevated catecholamines were finally diagnosed as due to sympathetic hyperactivity in the setting of obstructive sleep apnoea. renal mass was treated as benign. the case will be presented as a detective-story, disclosing intriguing similarities between medical and police investigations. keywords: pheochromocytoma, pseudopheochromocytoma, catecholamine incretion, lipoma, obstructive sleep apnoea syndrome internal medicine investigations in: “ the ghost pheochromocytoma” cmi 2011; 5(suppl 2): 81-88 1 divisione di medicina interna, ospedale degli infermi, biella 2 divisione di pneumologia, ospedale degli infermi, biella corresponding author dott. stefano giordanetti stefano.giordanetti@teletu.it caso clinico ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)82 le inchieste dell’internista: “il feocromocitoma fantasma” non è superfluo ricordare che le indagini non vanno mai fatte “a tappeto”, ma devono essere motivate da un’accurata valutazione preliminare. l’approccio “siete tutti sospettabili” fa perdere tempo e risorse e non porta da nessuna parte… e poi non è da internisti seri. l’ipertensione secondaria va sospettata in presenza di: ipertensione ad esordio giovanile e/o icy tus precoce; familiarità per ipertensione arteriosa o y accidente cerebrovascolare in giovane età (< 40 anni); ipertensione in pazienti con incidentaloy ma surrenalico; ipertensione di 2°-3° grado alla diagnosi y o resistente a terapia multifarmacologica: 3 farmaci a dosaggio pieno, incluso un diuretico; ipertensione + ipokaliemia spontanea o y provocata da diuretici. il nostro paziente presentava tre elementi sospetti: esordio giovanile, familiarità e una modesta ipokaliemia (tabella i). procedemmo nell’indagine: ipertensione nefroparenchimale e nefroy vascolare: escluse alla luce di eco-doppler delle arterie renali, ecotomografia dei reni ed esami di funzionalità renale nella norma; coartazione aortica: normale rapporto y abi (ankle-brachial index) e normotrofia degli arti inferiori. restava da indagare l’ipertensione su base endocrina: iperaldosteronismo primitivo; y sindrome di cushing; y feocromocitoma. y partimmo con le indagini di screening: y plasma renin activity (pra)/aldosterone sierico per escludere ipertensione da eccesso di mineralcorticoidi; calcemia, tsh ( y thyroid-stimulating hormone). i reperti risultarono nella norma. passammo alle indagini indicate in casi selezionati (anamnesi od obiettività sospette): metanefrine (1° scelta) o catecolamine y urinarie/24 h per escludere ipertensione da feocromocitoma; testosterone o deidroepiandrosterone soly fato (dhea-s); test di nugent (cortisolo sierico h 8 dopo y desametasone 1 mg h 23) o cortisoluria/24 ai rilevamenti antropometrici e all’esame obiettivo rilevammo: altezza = 170 cm; y peso = 90 kg; y bmi = 31 (obesità i grado); y circonferenza vita = 110 cm ( y cut-off secondo le linee guida ncep atp iii: 102 cm); lipomi sottocutanei: dorsale e al cuoio y capelluto. non occorrevano letture lombrosiane negli anni di università per farci insospettire dalla familiarità... per la deformazione professionale degli internisti, ci lasciammo subito solleticare dall’idea di avere per le mani un caso di ipertensione arteriosa secondaria, forse anche una qualche sindrome ereditaria. l’inchiesta muove i primi passi siccome bisogna sempre procedere con metodo, per prima cosa indagammo il nostro paziente per eventuali danni d’organo dovuti all’ipertensione: nefropatia: creatininemia, azotemia, gfr y calcolato, clearance della creatinina normali; proteinuria spot = 20 mg/dl (range di normalità < 20 mg/dl), proteinuria/24 h = 760 mg (range di normalità 0-195 mg); retinopatia: y fundus oculi normale; cardiopatia ipertensiva: all’ecocolordopy pler cardiaco viene evidenziata ipertrofia concentrica del ventricolo sinistro. parametro risultato valori normali potassiemia 3,40 meq/l 3,50-5,10 meq/l calcemia 4,7 meq/l 4,3-5,1 meq/l glicemia a digiuno 104 mg/dl 70-110 mg/dl colesterolo ldl 116 mg/dl < 130 mg/dl colesterolo hdl 34 mg/dl 46-65 mg/dl insulinemia a digiuno 15,90 µui/ml 3,0-30 µui/ml paratormone 65,70 pg/ml 10-95 pg/ml calcitonina 65,90 pg/ml 10-95 pg/ml s-cromogranina a 39,1 ng/ml < 100 ng/ml tabella i profilo ematochimico del paziente il nostro paziente presentava danno d’organo renale e cardiopatia ipertensiva. eravamo autorizzati a indagare un’ipertensione secondaria. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 83 s. giordanetti, g. vallese, g. bertinieri incremento più marcato a carico della produzione di noradrenalina che si avvicina ai livelli dell’adrenalina oppure da feocromocitomi extrasurrenalici (paragangliomi), più frequentemente nei gangli dell’ortosimpatico, a prevalente produzione di noradrenalina, con o senza dopamina. con le eccezioni di: tumori surreno-midollari con produzione di noradrenalina nettamente superiore all’adrenalina, tumori extrasurrenalici familiari secernenti adrenalina, tumori secernenti esclusivamente metaboliti delle catecolamine (dopamina, metanefrina, ecc.). le indagini si focalizzarono sulla localizzazione del ricercato: l’ecografia dell’addome rivelò steatosi y epatica e reperti di normalità a carico di reni e surreni; l’ecografia della tiroide (un eccesso di zelo y che non si rivelò vano) mise in luce uno struma multinodulare (normofunzionante); tac addome (senza mdc iodato per scony giurare crisi adrenergiche nel sospetto di feocromocitoma): «i surreni conservano fisiologici profili e dimensioni. al rene sinistro […] lesione nodulare esofitica a margini netti di 19 mm con valori di densità solida». il caso si faceva intrigante: l’imaging negativa a carico dei surreni e la prevalenza di noradrenalina ci indirizzavano verso un feocromocitoma extrasurrenalico, mentre la familiarità per ipertensione giovanile e lipoh per escludere ipertensione da eccesso di glucocorticoidi (cushing). il sistema renina-angiotensina-aldosterone (raa) era normofunzionante: aldosterone sierico= 137 pg/ml (range di y normalità 70-350 pg/ml); aldosterone urinario/24 h = 40,3 μg/24 h y (range di normalità 3,0-33 μg/24 h); aldosterone urinario = 10,6 μg/l. y il test di nugent risultò negativo: la risposta alla soppressione con desametasone a basse dosi escludeva la produzione afinalistica di glucocorticoidi. dati interessanti emersero dal dosaggio delle catecolamine: il paziente presentava un’iperproduzione specificamente di dopamina e noradrenalina, mentre l’adrenalina era normale (tabella ii). gli elementi in nostro possesso ponevano il sospetto di feocromocitoma. il sospettato numero uno: il feocromocitoma il presunto feocromocitoma, come nel 50% dei casi, non mostrava la presentazione clinica tipica: ipertensione parossistica, da increzione/rilascio intermittenti di catecolamine, con crisi ipertensive (accompagnate da sudorazione, tachicardia, orripilazione, pallore da vasocostrizione) spesso innescate da traumi, farmaci (beta-bloccanti), tiramina (formaggi, vini rossi). il paziente infatti presentava un quadro di ipertensione persistente, come da increzione/rilascio continui di catecolamine, capace di provocare desensibilizzazione/downregulation recettoriale. la fisiologica increzione di catecolamine avviene nella midollare del surrene (rapporto adrenalina/noradrenalina pari a 8/2) e nelle cellule nervose dei gangli del sistema ortosimpatico (noradrenalina). la produzione afinalistica può originare da tumori a sede midollare surrenalica (feocromocitomi propriamente detti), con parametro risultato valori normali catecolamine urinarie/24 h adrenalina 9,5 µg 2-25 µg noradrenalina 215,5 µg 15-86 µg dopamina 604,2 µg 250-504 µg metanefrina 114,5 µg 74-297 µg normetanefrina 537,4 µg 105-354 µg catecolamine plasmatiche adrenalina 32 pg/ml 20-190 pg/ml noradrenalina 1.311 pg/ml 70-480 pg/ml forme familiari gene von hippel-lindau vhl neurofibromatosi tipo 1 (von recklinghausen) nf1 men ii a (sindrome sipple) ret men ii b ret sindrome del feocromocitoma/paraganglioma (pgl)4 sdh b (della succino-deidrogenasi) pgl3 sdh c pgl1 dh d tabella ii il dosaggio delle catecolamine tabella iii le forme familiari di feocromocitoma. la diagnosi di conferma viene effettuata mediante un test genetico sul dna dei leucociti circolanti. in caso di conferma diagnostica il paziente entra in follow-up quoad vitam e i consanguinei vengono studiati per una diagnosi precoce ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)84 le inchieste dell’internista: “il feocromocitoma fantasma” matosi ci autorizzava a sospettare una forma sindromica familiare. fu raccolta un’esaustiva documentazione sulle forme familiari potenzialmente coinvolgenti un feocromocitoma (tabella iii), che presentano caratteristiche comuni: paziente spesso normoteso, feocromocitomi più frequentemente multipli, più spesso benigni, manifestazione d’esordio sovente diversa dal feocromocitoma, esordio giovanile. il nostro paziente sfuggiva a un inquadramento preciso: presentava alcuni elementi che sembravano aggregare in modo significativo, non sufficienti però a porre diagnosi di una specifica forma sindromica (tabella iv ). ci concentrammo sulla pista che ci restava da seguire: un feocromocitoma a localizzavhl tipo 1 no feocromocitoma (+ tumori come tipo 2a-2b) tipo 2c feocromocitoma a noradrenalina tipo 2a-2b feocromocitoma a noradrenalina + tumori cellule cromaffini (pancreas) y cisti/neoplasie renali y emangioblastomi snc/retina y nf1 (von recklinghausen) feocromocitoma a noradrenalina (raro) + café-au-lait spots, neurofibromi sdh paragangliomi più spesso parasimpatici non secernenti tipo b paraganglioma sporadico più frequentemente maligno/talora + carcinoma renale tipo c paraganglioma raro tipo d paraganglioma sporadico men men i no feocromocitoma (salvo citazioni “episodiche” in letteratura): iperpth per adenomi paratiroidei, adenomi ipofisari, apudomi insulari pancreas o apparato digerente, adenomi tiroide/surrene non funzionanti, lipomi sottocutanei/viscerali men ii a (sipple) feocromocitoma (più frequentemente adrenalina +/noradrenalina) più frequentemente surrenalici, multipli, bilaterali, benigni + adenomi paratiroide, carcinoma midollare tiroide men ii b feocromocitoma (più frequentemente adrenalina +/noradrenalina), più frequentemente surrenalici + neurinomi mucosi multipli, carcinoma midollare tiroide tabella iv classificazione delle forme sindromiche familiari. come è possibile dedurre dalla tabella e dalle informazioni cliniche, il paziente non soddisfa i criteri diagnostici per nessuna forma sindromica pth = paratormone; snc = sistema nervoso centrale zione renale. una pista affascinante: negli archivi rintracciammo solo cinque casi segnalati in letteratura come case report, tra il 1987 e il 2007. ci bastò scambiarci un’occhiata: questa volta poteva scapparci la pubblicazione sulla rivista “giusta”. bisognava ricorrere a strumenti diagnostici di secondo livello; ci rivolgemmo alla scientifica per una scintigrafia con metaiodo-benzil-guanidina, specifica per localizzare tessuto secernente catecolamine. il referto fu una doccia fredda: «non si evidenziano significative anomalie di concentrazione di tracciante in particolare in corrispondenza della regione surrenalica di sinistra». figura 1 feocromocitoma: percorso diagnostico. riconsiderando in modo critico i passi compiuti, ci rendemmo conto che mancava solo il test di soppressione con clonidina per escludere definitivamente l ’ipotesi diagnostica di feocromocitoma sospetto clinico diagnosi laboratoristica: dosaggio delle catecolamine diagnosi strumentale di localizzazione test di soppressione con clonidina precisazione diagnostica nei casi con aumento borderline delle catecolamine: l’iperincrezione da attivazione cronica simpato-adrenergica è inibita da clonidina che stimola i recettori α2-presinaptici (diversamente dalle neoplasie) test di conferma ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 85 s. giordanetti, g. vallese, g. bertinieri calcio-antagonista (amlodipina 10 mg y ore 8); alfa-litico (doxazosina 4 mg 1 cpr ore y 20); sartano (telmisartan 80 mg 1 cpr ore 8). y il monitoraggio pressorio ambulatoriale delle 24 evidenziò: «valori medi sistodiastolici nei limiti di norma, valori sistodiastolici notturni superiori ai limiti, calo notturno fisiologico solo parzialmente conservato». scartata la possibilità di un feocromocitoma sfuggito alle indagini strumentali, l’ipotesi era un’iperincrezione di catecolamine secondaria. a chiarirci le idee fu un’indagine condotta sul web, che delineò un identikit: il “pseudofeocromocitoma”, distinto in 3 sottotipi, di cui il secondo, pseudofeocromocitoma propriamente detto, ricalcava in modo preciso il nostro caso (tabella v ). i sospetti si concentrarono sulla forma secondaria alla sindrome delle apnee ostruttive notturne (osas). un’indagine anamnestica più approfondita rivelò nel paziente un corteo sintomatologico fortemente sospetto per osas. a questo punto l’autocritica fu inevitabile: forse eravamo stati superficiali nelle primissime fasi dell’inchiesta; mi ricordai degli anni di università, quando i professori più anziani le indagini a un punto morto: la polizia brancola nel buio ordinammo birra e panini al bar di fronte e passammo la notte a riconsiderare criticamente i passi compiuti; l’atmofera era tesa: dove avevamo sbagliato? al punto in cui si era arrivati, non restava che l’ultimo test di conferma per escludere definitivamente l’ipotesi diagnostica di feo cromocitoma: il test di soppressione con clonidina (figura 1). come atteso, il test mostrò reperti di normale soppressione delle catecolamine plasmatiche in risposta alla clonidina, escludendo di fatto la produzione afinalistica. la nebbia s’infittiva: il paziente presentava una iperincrezione di noradrenalina e in misura minore di dopamina; tuttavia non aveva un feocromocitoma; inoltre era presente una massa renale di natura da determinare. l’indagine a un bivio l’inchiesta si divise: da un lato dirimere quello che ormai poteva definirsi “il mistero del feocromocitoma fantasma”, dall’altro indagare l’incidentaloma renale. nel frattempo il paziente era stato avviato a terapia antipertensiva, con normalizzazione dei valori pressori: sottotipo di pseudofeocromocitoma caratteristiche cause sottotipo 1 clinica suggestiva di feocromocitoma, catecolamine normali ipersensibilità adrenorecettori ansia, iperventilazione cause endocrine sindrome carcinoide tireotossicosi instabilità vasomotoria menopausale tossici astinenza da alcol astinenza da caffeina astinenza da amfetamine intossicazione acuta o cronica da piombo metabolici porfiria acuta intermittente sottotipo 2 catecolamine elevate in assenza di feocromocitoma: clinica dubbia respiratoria osas (apnee notturne) cardiovascolare ipertensione arteriosa iperadrenergica tossici cocaina clozapina ssri + imao triciclici fenossibenzamina antiparkinsoniani sottotipo 3 imaging compatibile con feocromocitoma, catecolamine normali: clinica negativa tumori adrenomedullari che mimano il feocromocitoma in tac o rmn incidentalomi surrenalici, adenomi o iperplasia nodulare con nodulo prominente, adenoma di conn tabella v pseudofeocromocitoma: tipi e caratteristiche. modificato da [hoy, 2004] imao = inibitori delle mono-amino-ossidasi; osas = sindrome delle apnee ostruttive notturne; ssri = selective serotonin reuptake inhibitors ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)86 le inchieste dell’internista: “il feocromocitoma fantasma” re (cpap) notturna. la risposta terapeutica, evidenziata in letteratura, si concretizza in: normalizzazione dei livelli sierici di catecolamine, miglioramento dei valori pressori, riduzione del rischio cardiovascolare. il paziente fu sottoposto a polisonnografia notturna che evidenziò un grave quadro di apnea ostruttiva, con valori superiori al cut-off diagnostico di 30 episodi/ora. fu prescritta al paziente la cpap notturna, con immediato beneficio soggettivo sulla qualità del sonno. finalmente i nodi venivano al pettine. il ramo dell’inchiesta sull’incidentaloma renale intanto procedeva: il caso fu valutato dallo specialista urologo che, dopo attento studio delle immagini tac, concluse che la neoformazione renale avesse caratteristiche tomografiche di benignità, formulando l’ipotesi di un lipoma, verosimilmente confortato anche dalla anamnesi di lipomatosi. lo specialista pose comunque indicazione a un approfondimento diagnostico mediante rmn. i guai non vengono mai soli come spesso accade, quando le cose sembrano prendere la piega giusta, qualcosa si mette a girare storto. solo nei film alla fine tutto quadra. il paziente, che nel questionario preliminare aveva negato di soffrire di claustrofobia, una volta dentro il tunnel della rmn fu colto da una crisi di panico e l’esame fu interrotto, suscitando nel collega radiologo considerazioni poco lusinghiere nei nostri confronti. approfondimmo il problema. ancora una volta, un’accurata indagine anamnestica svelò il mistero, ma questa volta era tutto troppo imprevedibile per accusarci di superficialità: dall’infanzia del paziente emerse un vecchio incidente quasi dimenticato che aveva lasciato nel subconscio il terrore per gli oggetti incombenti sul volto. e siccome i guai non vengono mai soli, il paziente, per lo stesso motivo, interruppe il trattamento con cpap, che gli provocava crisi di panico non appena percepiva la presenza della maschera sul viso. non ci fu verso di indurlo a ripensarci. fu un doppio brutto colpo: da un lato non avremmo potuto procedere ad ulteriori accertamenti sulla massa renale, dall’altro sfumava la possibilità di rivalutare, dopo congruo periodo di trattamento con cpap notturna, il profilo delle metanefrine/cateconon si stancavano di ripetere che l’80% della diagnosi scaturisce da un’anamnesi accurata, il 20% dall’esame obiettivo, il resto – bazzecole – dagli esami strumentali. l’anamnesi avrebbe dovuto indagare la presenza di disturbi del sonno, non solo per via dell’obesità di i grado, ma soprattutto per l’elevato profilo di rischio cardiovascolare (età, sesso, obesità addominale, ipertensione). è nota infatti l’associazione della sindrome delle apnee notturne con l’ipertensione arteriosa nonché il suo ruolo di fattore indipendente di rischio cardiovascolare. la osas è caratterizzata da un quadro di apnee ricorrenti da collasso inspiratorio delle vie aeree superiori nel sonno (ipotonia della muscolatura liscia) e rappresenta una complicanza frequente dell’obesità. comporta un rischio cardiovascolare aumentato, associandosi significativamente a: ipertensione arteriosa, scompenso cardiaco, aritmie maligne (morte improvvisa). il meccanismo fisiopatologico alla base dell’associazione tra osas e aumentato rischio cardiovascolare spiega la possibile associazione di osas con il quadro clinico descritto come pseudofeocromocitoma (sottotipo 2): le apnee ricorrenti, determinando un’ipossia cronica intermittente (diversamente dall’ipossia cronica stabile che comporta l’instaurarsi di meccanismi di assuefazione delle risposte riflesse autonomiche), portano all’attivazione riflessa dell’ortosimpatico (mediatore: noradrenalina), dovuta anche allo stimolo indotto dai cosiddetti arousal (interruzioni del sonno non percepite dal paziente) con conseguente incremento della pressione arteriosa (e della sua variabilità) indipendente dal grado di obesità. un analogo meccanismo comporta la disfunzione endoteliale e il vasospasmo sistemico e coronarico. pseudofeocromocitoma in osas l’attivazione del sistema nervoso ortosimpatico nell’osas comporta un incremento isolato di noradrenalina circolante, da iperincrezione nelle terminazioni simpatiche innervanti arterie e arteriole, con livelli di adrenalina normali. ne consegue un quadro di ipertensione resistente, che necessita dell’associazione di almeno tre farmaci antipertensivi. la risorsa terapeutica specifica per l’osas risulta la continuous positive airways pressu©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2) 87 s. giordanetti, g. vallese, g. bertinieri sofisticati e costosi; un approccio molto à la page negli ultimi decenni, sull’onda dell’entusiasmo per il progresso e le promesse della medicina strumentale. poi vi è il metodo “sherlock holmes”, prevalentemente basato su percorsi di deduzione logica, che si fonda su flow-chart rigorosamente validate dalle evidenze, nelle cui maglie dovrebbe restare infine intrappolata la diagnosi, come in una ragnatela. l’esperienza insegna che detti approcci possono spesso rivelarsi dispersivi (e dispendiosi in termini di tempo e risorse) o fuorvianti. infine esiste l’approccio che vanta radici nei tempi in cui la medicina, non ancora “ebbra” di tecnologia, non aveva la pretesa di comportarsi come una scienza esatta e il medico procedeva facendo affidamento sul buon senso (common sense) e l’empirismo, un po’ per la limitatezza dei mezzi, un po’ per la consapevolezza, che il tempo e l’esperienza non fanno che rafforzare, di trovarsi di fronte a persone, ciascuna diversa dall’altra, ciascuna con una sua storia, non soltanto clinica, ma anche umana, culturale. senza dimenticare che la complessità della clinica è tale da non poterla ridurre al rigore di un algoritmo. sarà banale, ma tocca ripetere che la diagnosi emerge per almeno l’80% da un accurato colloquio anamnestico; il paziente non è un “caso”, bisogna saper parlare con lui: sono necessarie confidenza, pazienza, empatia, complicità, psicologia. potremmo chiamarlo il “metodo maigret”, che non a caso ci ricorda come non sempre l’impegno e il lavoro accurato siano coronati dal successo. fin qui le buone intenzioni, cui non sempre nella realtà del lavoro quotidiano si riesce ad attenersi. così capita che in medicina un’indagine si risolva anche con un pizzico di fortuna, con l’aiuto del caso e spesso imparando dai propri errori. nonostante tutto e nonostante i passi falsi dei “detective”, alla fine quel che conta è il risultato. è il metodo “sarti antonio, sergente”… disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. lamine, il quadro polisonnografico e il controllo pressorio al monitoraggio/24 ore. l’indagato era ormai a piede libero: avevamo dovuto rilasciarlo per scadenza dei termini di degenza. così, quando lo contattammo per programmare un ulteriore approfondimento questa volta proponendo una rmn con un’apparecchiatura “aperta”, non ci fu verso: il soggetto ci negò la disponibilità. era diventato uccel di bosco… “perso al follow-up” si dice, ma il senso è quello. in un certo senso eravamo rimasti “fregati” a un passo dal coronamento dell’inchiesta: ci mancava solo, per così dire, di metterci il cappello, ma almeno ci rimase la soddisfazione di essere arrivati fin là, smascherando il sedicente feocromocitoma sulle cui tracce avevamo a lungo sudato. ci rimase l’amaro in bocca per la misteriosa massa nel rene sinistro, ma non potevamo farci niente. a meno di contare su un ravvedimento del nostro paziente, che si decida a farsi vivo per completare gli accertamenti e magari accetti di ritentare con la cpap. dopotutto, mai disperare in questo mestiere: «se dovesse cambiare idea, questo è il nostro biglietto da visita, sa dove trovarci…» conclusioni dal punto di vista clinico si può concludere che: il nostro paziente presenta un quadro cliy nico multiforme che tuttavia non appare inquadrabile in un’entità sindromica definita. risulta comunque verosimile l’ipotesi diagnostica di lipomatosi familiare; l’iperincrezione di catecolamine è y in primis ascrivibile all’osas, ma non è stato possibile procedere alla conferma diagnostica ex juvantibus dopo terapia con cpap; la massa renale potrebbe effettivamente y essere un lipoma: l’immagine tac tuttavia non risulta dirimente e andrebbe eseguito approfondimento con rmn “aperta”. il percorso diagnostico in medicina è simile a un’indagine di polizia. gli approcci metodologici possono essere molteplici. vi è quello che potremmo chiamare ironicamente “metodo ris”, fondato prevalentemente sul ricorso a esami strumentali ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 2)88 le inchieste dell’internista: “il feocromocitoma fantasma” bibliografia di riferimento das am, khayat r. hypertension in obstructive sleep apnea: risk and therapy. y exp rev cardiovasc ther 2009; 7: 619-26 goldstein ds, eisenhofer g, kopin ij. sources and significance of plasma levels of cathecols y end their metabolites in humans. j pharmacol exp therapeutics 2003; 305: 800-11 grundy sm, becker d, clark lt, cooper rs, denke ma, howard wj et al. third report of y the national cholesterol education program (ncep) expert panel on detection, evaluation, and treatment of high blood cholesterol in adults (adult treatment panel iii) final report. circulation 2002; 106: 3143-421 hoy lj, emery m, wedzicha ja, davison ag, chew sl, monson jp et al. obstructive sleep y apnea presenting as pseudopheochromocytoma: a case report. j clin endocr metab 2004; 89: 2033-8 makino s, iwata m, fujiwara m, ike s, tateyama h. a case of sleep apnea syndrome manifesting y severe hypertension with high plasma norepinephrine levels. endocr j 2006; 53: 363-9 morton ap. potential pitfalls in the diagnosis of phaeochromocytoma. y med j aust 2005; 183: 279 yamamoto n, maeda s, mizoguchi y. malignant paraganglioma arising from the kidney. y int j clin oncol 2007; 12: 160-2 clinical management issues 2010; 4(suppl. 4) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 3 luca masotti 1 introduzione 1 dirigente medico medicina interna, ospedale di cecina, livorno, professore a contratto, università di siena corresponding author dr. luca masotti uo medicina interna ospedale di cecina via montanara, loc. ladronaia 57023 cecina (li) tel: 0586/614212 fax: 0586/614218 luca.masotti@tin.it le patologie a carico del sistema vascolare periferico, sia arterioso sia venoso, costituiscono un rilevante problema sanitario e sociale, soprattutto per la loro caratteristica di avere un decorso frequentemente asintomatico per molti anni fino alla manifestazione oggettiva e oggettivabile, in alcuni casi improvvisa, con conseguenze gravi sulla salute e sulla qualità della vita dei pazienti, oltre a notevoli ripercussioni economiche in termini di spesa sanitaria pubblica e privata [pasternak, 2004; robertson, 2008]. negli ultimi vent’anni si è affermato chiaramente il ruolo dell’endotelio nell’omeostasi vascolare e in particolare si è chiaramente dimostrato che l’endotelio è, a tutti gli effetti, un organo endocrino che produce sostanze in grado di modulare il tono vascolare e attivare e/o inibire i processi coagulativo e infiammatorio. la disfunzione endoteliale, potenzialmente reversibile, sulla quale agiscono i tradizionali fattori di rischio vascolari quali diabete mellito, ipertensione arteriosa, dislipidemia e fumo di sigaretta oltre a fattori locali e genetici, è caratterizzata da alterazioni della vasomotilità e dallo sbilanciamento del normale equilibrio fisiologico verso condizioni protrombotiche e proinfiammatorie. per tali ragioni la disfunzione endoteliale rappresenta il primum movens del processo aterosclerotico e della patologia cronica venosa. l’ alterazione del glicocalice endoteliale, strato più superficiale delle cellule endoteliali, a diretto contatto con il lume vascolare, ricco in condizioni normali di glicosaminoglicani, sembra rappresentare uno dei principali aspetti fisiopatologici della disfunzione endoteliale, che si associa a depauperamento della quantità e alterazione della qualità dei glicosaminoglicani [blann, 2003/2004; nicolaides, 2005; esper, 2006; viles-gonzalez, 2004]. la conoscenza della disfunzione endoteliale e quindi della disfunzione vascolare in termini di fisiopatologia, fattori di rischio, semeiologia clinica e strumentale, può quindi permettere di effettuare trattamenti di profilassi primaria e di diagnosi precoce e di intraprendere un trattamento appropriato in stadi iniziali della malattia, producendo un rilevante guadagno sia per la salute dei pazienti, sia in termini di risorse economicosanitarie. nel presente supplemento della rivista clinical management issues verranno affrontate e discusse le attuali conoscenze in termini fisiopatologici della patologia vascolare arteriosa e venosa degli arti inferiori e verrà analizzato il ruolo di sulodexide, un glicosaminoglicano, farmaco biologico naturale ad azione pleiotropica sul sistema vascolare il cui effetto è stato efficacemente sperimentato in questi ultimi anni nel trattamento di queste patologie, come risposta alla disfunzione endoteliale. sulodexide è un farmaco composto da una miscela altamente purificata di glicosaminoglicani costituita per l’80% da eparan solfato e per il 20% da dermatan solfato. tra le sue attività farmacologiche spicca l’azione antitrombotica che si esplica prevalentemente attraverso l’interazione con fattori anticoagulanti naturali quali antitrombina iii e cofattore eparinico ii; inoltre, stimolando il rilascio di attivatore tissutale del plasminogeno e impedendo l’azione del suo inibitore, sulodexide disclosure il presente supplemento è stato realizzato grazie al contributo di alfa wasserman clinical management issues 2010; 4(suppl. 4) ©seed tutti i diritti riservati 4 introduzione ha un’importante azione pro-fibrinolitica. la lunga emivita, la buona tollerabilità, il relativo basso impatto sul sistema coagulativo soprattutto in termini di limitati effetti emorragici e l’elevata solubilità lo rendono un farmaco maneggevole e somministrabile sia per via parenterale sia per via orale. ripristinando le condizioni fisiologiche del glicocalice con l’apporto di glicosaminoglicani, sulodexide potrebbe rappresentare perciò la risposta biologica alla disfunzione endoteliale. accanto all’indicazione ufficiale rappresentata dal trattamento delle ulcere degli arti inferiori secondarie a insufficienza venosa cronica, sulodexide negli ultimi anni ha raccolto numerose evidenze cliniche che estendono l’area di interesse dell’uso di questo farmaco alla sindrome post-trombotica e alla prevenzione della re-trombosi, e dimostrano l’efficacia di sulodexide in patologie di rilevante impatto medico e sociale quali l’arteriopatia obliterante periferica e la nefropatia diabetica, condizioni nelle quali la disfunzione endoteliale riveste un ruolo fondamentale e sulla quale sulodexide sembra avere importanti effetti anche di tipo antiinfiammatorio e antitrombotico. disclosure il presente supplemento è stato realizzato grazie al contributo di alfa wasserman. bibliografia y blann ad (2003/2004). assessment of endothelial dysfunction: focus on atherotrombotic disease. pathophysiol haemost thromb; 33: 256-61 y esper rj, nordaby ra, vilariño jo, paragano a, cacharrón jl, machado ra (2006). endothelial dysfunction: a comprehensive appraisal. cardiovasc diabetol; 5: 4 y nicolaides an (2005). chronic venous disease and the leukocyte-endothelium interaction: from symptoms to ulceration. angiology; 56: s11-s19 y pasternak rc, criqui mh, benjamin ej, fowkes fg, isselbacher em, mccullough pa; american heart association (2004). atherosclerotic vascular disease conference: writing group i: epidemiology. circulation; 109: 2605-12 y robertson l, evans c, fowkes fgr (2008). epidemiology of chronic venous disease. phlebology; 23: 103-111 y viles-gonzalez jf, fuster v, badimon jj (2004). atherosclerosis: a widespread disease with unpredictable and life-threatening consequences. eur heart j; 25: 1197-207 introduzione fisopatologia endoteliale, glicosoamminoglicani e glicocalice sulodexide. farmacocinetica, farmacodinamica e meccanismo d’azione sulodexide. la risposta in profilassi e terapia alla disfunzione endoteliale conclusioni 21 clinical management issues caso clinico nel 1997 viene posta diagnosi di leucemia mieloide cronica (lmc) in una donna di 43 anni; il rischio sokal è intermedio. non sono disponibili donatori compatibili per un probabile trapianto allogenico. percorso terapeutico viene praticata terapia citoriduttiva con idrossiurea per 6 mesi, dopodiché viene intrapresa terapia con interferone-alfa con raggiungimento di una risposta ematologica completa (chr). dopo tre anni di trattamento interferone-alfa la paziente sviluppa una grave tossicità tiroidea e si decide di soperché descriviamo questo caso la terapia con gli inibitori delle tirosin chinasi, oltre ad aver rivoluzionato la prognosi della lmc, offre una terapia che può essere modulata in base alla risposta e ai possibili eventi avversi, anche alternando in alcuni casi, come in questo, i vari inibitori conosciuti. il caso riportato offre, a nostro avviso, diversi spunti di riflessione e cioè mette in evidenza la possibilità di prosecuzione della terapia con ottenimento di risultati insperati in pazienti pluritrattati e con molti anni di malattia e, inoltre, ci suggerisce la possibilità di utilizzo sequenziale dei vari inibitori tra loro corresponding author dott.ssa maria iovine maria.iovine1@tin.it caso clinico abstract in 1997, a forty-three years old woman was diagnosed with cml and treated with alfainterferon, achieving complete haematological response (chr). three years later, patient was switched to hydroxiurea due to thyroid toxicity. for logistic reasons, therapy with imatinib 400 mg/die was initiated only in 2003, obtaining complete cytogenetic response (ccyr) and suboptimal molecular response in twelve months. ccyr and chr were then lost three years later. doubling imatinib dose to 800 mg/die gave no positive results. mutational analysis performed in september 2007 showed f317l point mutation of the bcr-abl kinase domain. in october 2007 dasatinib was started and in april 2008 ccyr was reached with suboptimal molecular response. in march 2009 bcr-abl transcript progressively increased, and in august 2009 cytogenetic analysis showed loss of ccyr. therapy with nilotinib 800 mg/die was started, and in october 2009 the patient obtained complete molecular response (cmr). bcr-abl kinase-domain point mutations, acquired during first line therapy, are a common cause of resistance to tyrosine kinase inhibitors. while several bcr-abl mutations have been identified, involvement of codon 317 has been reported in the literature following treatment with imatinib and dasatinib. keywords: complete molecular response; nilotinib; cml; f317l mutation; bcr-abl kinase domain complete molecular response due to nilotinib as iii line treatment in a patient with cml and f317l point mutation of the bcr-abl kinase domain cmi 2011; 5(suppl 5): 21-25 1 u.o.c. oncoematologia, a.o. s. anna e s. sebastiano, caserta maria iovine 1, giuseppe monaco 1, mario troiano 1, antonio abbadessa 1 risposta molecolare completa indotta da nilotinib come terza linea di terapia in paziente affetta da leucemia mieloide cronica con mutazione f317l del dominio chinasico di bcr/abl disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. 22 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) risposta molecolare completa indotta da nilotinib come terza linea di terapia tirosin chinasi e la scelta cade su dasatinib, essendo l’unico inibitore di seconda generazione in commercio. inizia quindi terapia con dasatinib 100 mg/die e dopo 6 mesi si osserva una risposta citogenetica completa senza risposta molecolare (tabella i) [1]. dopo 18 mesi di terapia con dasatinib, l’analisi del cariotipo mostra la perdita della risposta citogenetica completa. si sospende terapia con dasatinib e viene intrapresa terapia con nilotinib alla dose di 800 mg/die raggiungendo dopo 3 mesi sia la risposta molecolare completa (cmr) sia la risposta citogenetica completa. purtroppo, a causa di una grave tossicità cutanea (comparsa di eczema al volto e agli arti), correlabile all’utilizzo del farmaco e debitamente segnalata alla nostra farmacovigilanza, si decide di sospendere nilotinib per due settimane e di trattare la paziente con terapia corticosteroidea. dopo circa tre settimane, alla risoluzione dell’eczema, viene sospeso il trattamento steroideo e viene reintrodotto in terapia nilotinib al dosaggio ridotto di 600 mg/die. dopo circa dieci giorni si assiste alla ricomparsa dell’eczema in forma più grave con estensione alle mucose che appaiono sanguinanti, la paziente sospende nilotinib e viene reintrodotta terapia con corticosteroidi. dopo circa tre settimane dalla sospensione di nilotinib, la paziente riavvia nuovamente la terapia con dasatinib 100 mg/die. si assiste a una rapida perdita dell’ottimo risultato molecolare e citogenetico con un repentino incremento del trascritto bcr/abl pari a circa 7 log. si prospetta alla paziente la possibilità di ricevere un trapianto allogenico, ma lei rifiuta l’opzione fermamente. si attende la risoluzione completa dell’eczema diffuso agli arti e alle mucose, e viene reintrodotta terapia con nilotinib 600 mg/die. dopo meno di un mese l’eczema è ricomparso seppure in forma molto più lieve e tale da consentire alla paziente una perfetta aderenza alla terapia e una buona qualità della vita. dopo tre mesi la paziente ha riottenuto la risposta citogenetica completa e dopo sei mesi si è avuta la riduzione di bcr/abl di un logaritmo. dopo un anno la paziente è in risposta ematologica e citogenetica completa, i livelli del trascritto bcr/ abl sono in diminuzione, ma non ha ancora ottenuto una seconda risposta molecolare completa (tabella ii, figura 1). discussione e conclusioni il caso clinico descritto ha mostrato l’ottimo risultato ottenuto con nilotinib in una parisposta ottimale (non definita precedentemente) risposta subottimale fallimento warnings baseline na na na alto rischio cca/ph+ 3 mesi chr e almeno mcyr (ph+ ≤ 65%) no cyr (ph+ > 95%) 35%) no cyr (ph+ > 95%) na 12 mesi ccyr pcyr (ph+ 1-35%) 35%) < mmolr 18 mesi mmolr < mmolr < ccyr na qualsiasi momento nel corso della terapia mmolr stabile o in miglioramento perdita di mmolr mutazioni* perdita di chr perdita di ccyr mutazioni** cca/ph+ aumento nei livelli di trascritto cca/ph– tabella i. raccomandazioni dell ’european leukemianet (eln) 2009 confrontate con quelle del 2006 (in grassetto le aggiunte eln 2009) cca = clonal chromosome abnormalities; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; hr = risposta ematologica; mcyr = risposta citogenetica minore; mmolr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile; pcyr = risposta citogenetica parziale * bassi livelli di insensibilità a imatinib ** alta insensibilità a imatinib periodo evento/trattamento risultato 1997 diagnosi di lmc, rischio sokal intermedio terapia citoriduttiva con idrossiurea (6 mesi) inizia terapia con ifn-alfa risposta ematologica completa 2000 si sospende ifn-alfa per grave tossicità tiroidea 2003 inizia terapia con imatinib 400 mg/die risposta citogenetica completa risposta molecolare sub-ottimale 2007 perdita risposta citogenetica ed ematologica aumento della dose di imatinib a 800 mg/die nessun risultato l’analisi mutazionale del dominio tirosin-chinasico di bcr/abl rivela una mutazione puntiforme f317l inizia terapia con dasatinib 100 mg/die 2008 terapia con dasatinib 100 mg/die risposta citogenetica completa senza risposta molecolare 2009 perdita della risposta citogenetica completa inizia terapia con nilotinib 800 mg/die risposta molecolare completa (dopo 3 mesi) sospensione di nilotinib per comparsa di eczema al volto e agli arti 2010 si riprende terapia con dasatinib 100 mg/die perdita della risposta molecolare si interrompe nuovamente dasatinib e si riprende terapia con nilotinib 600/mg die risposta ematologica e citogenetica completa (dopo 3 mesi) tabella ii. riassunto della storia clinica della paziente figura 1. variazioni trascritto bcr/abl dopo la 2a assunzione di nilotinib nel 1° anno di trattamento spendere il trattamento in corso. nel 2003, a seguito dell’avvento degli inibitori delle tirosin chinasi (tki), si decide di intraprendere terapia con imatinib alla dose di 400 mg/ die, ottenendo, dopo 12 mesi, una risposta citogenetica completa (ccyr) e una risposta molecolare sub-ottimale. tre anni dopo, sia la risposta citogenetica sia quella ematologica vengono perse. la paziente è “failure” al trattamento. si decide quindi di aumentare la dose giornaliera di imatinib da 400 mg a 800 mg senza ottenere alcun risultato. nel settembre 2007 viene praticata l’analisi mutazionale del dominio tirosin chinasico di bcr/abl, che mostra la mutazione puntiforme f317l. si decide di cambiare inibitore delle 23 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) m. iovine, g. monaco, m. troiano, a. abbadessa ziente affetta da lmc resistente a imatinib e pluritrattata. la risposta molecolare completa non era mai stata ottenuta prima di utilizzare nilotinib. la resistenza a imatinib è stata sviluppata a seguito dell’acquisizione della mutazione puntiforme f317l sul dominio chinasico di bcr/abl. le mutazioni puntiformi a tale livello sono la causa più frequente di resistenza ai tki (tabella iii) [2,3]. è stato riportato in letteratura che il coinvolgimento del codone 317 sul dominio chinasico di bcr/ abl, possa essere stato selezionato dalla terapia stessa perché conferisce resistenza al farmaco, quindi può insorgere a seguito della terapia con imatinib e dasatinib. uno studio ha descritto l’incidenza, la prognosi e la risposta terapeutica nei casi di leucemia mieloide cronica con mutazione f317l [4] (tabella iv ). la prognosi sembra essere indipendente dal tipo di mutazione e dipende soprattutto dalla fase della malattia e dalla risposta alla terapia di salvataggio. altri studi in vitro hanno dimostrato che nilotinib sembra essere molto attivo in caso di mutazione f317l [5]. particolarmente interessante è il dato che emerge dallo studio retrospettivo di 1.043 pazienti imatinib-resistenti o intolleranti al trattamento con dasatinib pubblicato da muller nel 2009: le mutazioni con un ic50 > 3 nm sono meno sensibili alla terapia con dasatinib, compresa la mutazione f317l, mentre le mutazioni con un ic50 ≤ 3 nm tendono ad essere più sensibili al trattamento con dasatinib [6]. l’analisi mutazionale del dominio tirosin chinasico di bcr/abl può essere di aiuto nella scelta di un inibitore capace di superare la resistenza, si può quindi concludere che nilotinib è molto efficace in caso di fallimento terapeutico con altri tki meno sensibili a tirosin chinasi e la scelta cade su dasatinib, essendo l’unico inibitore di seconda generazione in commercio. inizia quindi terapia con dasatinib 100 mg/die e dopo 6 mesi si osserva una risposta citogenetica completa senza risposta molecolare (tabella i) [1]. dopo 18 mesi di terapia con dasatinib, l’analisi del cariotipo mostra la perdita della risposta citogenetica completa. si sospende terapia con dasatinib e viene intrapresa terapia con nilotinib alla dose di 800 mg/die raggiungendo dopo 3 mesi sia la risposta molecolare completa (cmr) sia la risposta citogenetica completa. purtroppo, a causa di una grave tossicità cutanea (comparsa di eczema al volto e agli arti), correlabile all’utilizzo del farmaco e debitamente segnalata alla nostra farmacovigilanza, si decide di sospendere nilotinib per due settimane e di trattare la paziente con terapia corticosteroidea. dopo circa tre settimane, alla risoluzione dell’eczema, viene sospeso il trattamento steroideo e viene reintrodotto in terapia nilotinib al dosaggio ridotto di 600 mg/die. dopo circa dieci giorni si assiste alla ricomparsa dell’eczema in forma più grave con estensione alle mucose che appaiono sanguinanti, la paziente sospende nilotinib e viene reintrodotta terapia con corticosteroidi. dopo circa tre settimane dalla sospensione di nilotinib, la paziente riavvia nuovamente la terapia con dasatinib 100 mg/die. si assiste a una rapida perdita dell’ottimo risultato molecolare e citogenetico con un repentino incremento del trascritto bcr/abl pari a circa 7 log. si prospetta alla paziente la possibilità di ricevere un trapianto allogenico, ma lei rifiuta l’opzione fermamente. si attende la risoluzione completa dell’eczema diffuso agli arti e alle mucose, e viene reintrodotta terapia con nilotinib 600 mg/die. dopo meno di un mese l’eczema è ricomparso seppure in forma molto più lieve e tale da consentire alla paziente una perfetta aderenza alla terapia e una buona qualità della vita. dopo tre mesi la paziente ha riottenuto la risposta citogenetica completa e dopo sei mesi si è avuta la riduzione di bcr/abl di un logaritmo. dopo un anno la paziente è in risposta ematologica e citogenetica completa, i livelli del trascritto bcr/ abl sono in diminuzione, ma non ha ancora ottenuto una seconda risposta molecolare completa (tabella ii, figura 1). discussione e conclusioni il caso clinico descritto ha mostrato l’ottimo risultato ottenuto con nilotinib in una parisposta ottimale (non definita precedentemente) risposta subottimale fallimento warnings baseline na na na alto rischio cca/ph+ 3 mesi chr e almeno mcyr (ph+ ≤ 65%) no cyr (ph+ > 95%) 35%) no cyr (ph+ > 95%) na 12 mesi ccyr pcyr (ph+ 1-35%) 35%) < mmolr 18 mesi mmolr < mmolr < ccyr na qualsiasi momento nel corso della terapia mmolr stabile o in miglioramento perdita di mmolr mutazioni* perdita di chr perdita di ccyr mutazioni** cca/ph+ aumento nei livelli di trascritto cca/ph– tabella i. raccomandazioni dell ’european leukemianet (eln) 2009 confrontate con quelle del 2006 (in grassetto le aggiunte eln 2009) cca = clonal chromosome abnormalities; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; hr = risposta ematologica; mcyr = risposta citogenetica minore; mmolr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile; pcyr = risposta citogenetica parziale * bassi livelli di insensibilità a imatinib ** alta insensibilità a imatinib periodo evento/trattamento risultato 1997 diagnosi di lmc, rischio sokal intermedio terapia citoriduttiva con idrossiurea (6 mesi) inizia terapia con ifn-alfa risposta ematologica completa 2000 si sospende ifn-alfa per grave tossicità tiroidea 2003 inizia terapia con imatinib 400 mg/die risposta citogenetica completa risposta molecolare sub-ottimale 2007 perdita risposta citogenetica ed ematologica aumento della dose di imatinib a 800 mg/die nessun risultato l’analisi mutazionale del dominio tirosin-chinasico di bcr/abl rivela una mutazione puntiforme f317l inizia terapia con dasatinib 100 mg/die 2008 terapia con dasatinib 100 mg/die risposta citogenetica completa senza risposta molecolare 2009 perdita della risposta citogenetica completa inizia terapia con nilotinib 800 mg/die risposta molecolare completa (dopo 3 mesi) sospensione di nilotinib per comparsa di eczema al volto e agli arti 2010 si riprende terapia con dasatinib 100 mg/die perdita della risposta molecolare si interrompe nuovamente dasatinib e si riprende terapia con nilotinib 600/mg die risposta ematologica e citogenetica completa (dopo 3 mesi) tabella ii. riassunto della storia clinica della paziente figura 1. variazioni trascritto bcr/abl dopo la 2a assunzione di nilotinib nel 1° anno di trattamento 24 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) risposta molecolare completa indotta da nilotinib come terza linea di terapia determinate mutazioni. nilotinib ha rappresentato e rappresenta per la nostra paziente una valida opzione terapeutica. i dati di efficacia ottenuti sui pazienti trattati negli studi di fase 2 in seconda linea hanno dimostrato che nilotinib è una efficace arma terapeutica nei pazienti resistenti e intolleranti a imatinib garantendo elevate probabilità di risposta, basso rischio di progressione ed elevato profilo di tollerabilità. l’83% dei pazienti che hanno ottenuto la ccyr con nilotinib hanno, in gran parte, mantenuto tale risposta nei 24 mesi successivi [7]. il tasso di incidenza del raggiungimento della ccyr nel tempo è uguale tra i pazienti senza mutazione e i pazienti con mutazione nilotinib-sensibile, con la maggioranza dei pazienti che ottengono una risposta ccyr entro 9 mesi dall’inizio della terapia con nilotinib. inoltre, nei pazienti imatinib-resistenti il tasso di realizzazione della risposta molecolare maggiore (mmr) nel corso del tempo è stata simile tra i pazienti senza mutazioni e quelli con mutazioni nilotinib-sensibili, con il 28% dei pazienti che raggiungevano la mmr a 12 mesi in entrambi i gruppi [8]. il risultato ottenuto dalla nostra paziente è in linea con quanto evidenziato anche dallo studio enact [9], nel quale la risposta ematologica e citogenetica completa è stata raggiunta dal 43% e 34% dei pazienti. inoltre nella sottopopolazione di pazienti francesi il 37% ha raggiunto una mmr entro 12 mesi e il 20% ha raggiunto livelli di bcr-abl (is) ≥ 0,003% entro 12 mesi. in tabella v [9] sono indicati gli ae riportati nei trials di seconda linea e frontline di nilotinib. il rash cutaneo ha una frequenza che varia tra il 25-36%, si manifesta quasi sempre a inizio del trattamento con una durata variabile che richiede interruzioni temporanee della dose e l’utilizzo di antistaminici e corticosteroidi. in conclusione, il nostro caso evidenzia come, in una paziente pluritrattata, siamo riusciti a ottenere risultati insperati ma che hanno confermato quanto evidenziato dagli studi clinici su nilotinib: infatti, la nostra paziente dopo 3 mesi di terapia ha raggiunto la ccyr mantenendola stabile e duratura, con riduzioni di 1 log del trascritto. gli effetti collaterali si sono presentati all’inizio del trattamento, tuttavia la sospensione e l’utilizzo di corticosteroidi e antistaminici hanno permesso di continuare il trattamento con una buona tollerabilità del farmaco. dasatinib [2] nilotinib [3] t315i t315i t315a y253h v299l e255v f317l e255k f317i f359v f317v f359c f317c tabella iii. tki di ii generazione e mutazioni: quali le resistenze regime mutazione dopo terapia con imatinib (n = 12; 12% di tutti i pazienti con mutazioni) mutazione dopo terapia con dasatinib (n = 8; 50% di tutti i pazienti con mutazioni) n risposta durata (mesi) n risposta durata (mesi) salvataggio 1 imatinib alte dosi 2 ccyr 24+ 0 na na ccyr* 26+ dasatinib 3 phr 4 0 na na chr 10 chr 12 nilotinib 4 chr 15 1 ccyr† 4 mmr* 22 cmr 30+ nr na bosutinib 0 na na 1 nr‡ na salvataggio 2 nilotinib 1 nr na 0 na na bosutinib 2 chr 9 0 na na chr 6 tabella iv. risposta ai diversi tki dopo la scoperta della mutazione f317l (modificata da [4]) ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cmr = risposta molecolare completa; mmr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile nr = nessuna risposta; phr = risposta ematologica parziale * eradicazione del f317l mutant clone † incremento del f317l mutant clone dal 25% al 43% ‡ diminuzione del mutant clone dal 70% al 3% pazienti (%) trials di seconda linea trials frontline fase 2 studio 2101 (n=321) fase 3 studio enact (n=1422) fase 3 studio enestnd 300 mg/bid (n=279) fase 3 studio enestnd 400 mg/bid (n=277) tutti i gradi grado 3-4 tutti i gradi grado 3-4 tutti i gradi grado 3-4 tutti i gradi i grado 3-4 neutropenia 53 31 52 14 43 12 38 20 trombocitopenia 53 30 49 22 48 10 49 12 anemia 58 11 43 11 38 3 38 3 rash 28 3 25 3 31 < 1 36 3 mal di testa 19 2 16 2 14 1 21 1 nausea 24 1 38 0 12 < 1 20 1 mialgia 8 1 11 1 10 < 1 10 0 fatigue 19 1 14 2 11 0 9 < 1 vomito 11 < 1 7 < 1 5 0 9 1 diarrea 11 2 nr nr 8 < 1 7 0 alopecia 8 0 13 0 tabella v. incidenza dei più comuni eventi avversi (modificata da [9]) http://bloodjournal.hematologylibrary.org/content/112/13/4839/t2.expansion.html#fn-6%23fn-6 http://bloodjournal.hematologylibrary.org/content/112/13/4839/t2.expansion.html#fn-5%23fn-5 http://bloodjournal.hematologylibrary.org/content/112/13/4839/t2.expansion.html#fn-7%23fn-7 25 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 5) m. iovine, g. monaco, m. troiano, a. abbadessa bibliografia 1. baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, saglio g, apperley j, et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-5 2. soverini s, colarossi s, gnani a, castagnetti f, rosti g, bosi c, et al. resistance to dasatinib in philadelphia-positive leukemia patients and the presence or the selection of mutations at residues 315 and 317 in the bcr-abl kinase domain. haematologica 2007; 92: 401-4 3. shah np, skaggs bj, branford s, hughes tp, nicoll jm, paquette rl, et al. sequential abl kinase inhibitor therapy selects for compound drug-resistant bcr-abl mutations with altered oncogenic potency. j clin invest 2007; 117: 2562-9 4. jabbour e, kantarjian hm, jones d, reddy n, o’brien s, garcia-manero g, et al. characteristics and outcome of chronic myeloid leukemia patients with f317l bcr-abl kinase domain mutation after therapy with tyrosine kinase inhibitors. blood 2008; 210: 4839-42 5. o’hare t, eide ca, deininger mw. bcr-abl kinase domain mutations, drug resistance, and the road to a cure for chronic myeloid leukemia. blood 2007; 110: 2242-9 6. müller mc, cortes je, kim dw, druker bj, erben p, pasquini r, et al. dasatinib treatment of chronic-phase chronic myeloid leukemia: analysis of responses according to preexisting bcrabl mutations. blood 2009; 114: 4944-52 7. kantarjian h, giles fg, bhalla knp, pinilla j, larson ra, gattermann n, et al. nilotinib in chronic myeloid leukemia patients in chronic phase (cml-cp) with imatinib resistance or intolerance: 24-month follow-up results of a phase 2 study. haematologica 2009; 94(s2): abstract 0627 8. radich jp, martinelli g, hochhaus a, gottardi e, soverini s, branford s, et al. response and outcomes to nilotinib at 24 months in imatinib-resistant chronic myeloid leukemia patients in chronic phase (cml-cp) and accelerated phase (cml-ap) with and without bcr-abl mutations. blood (ash annual meeting abstracts) 2009; 114: abstract 1130 9. nicolini fe, turkina a, shen zx, gallagher n, jootar s, powell bl, et al. expanding nilotinib access in clinical trials (enact): an open-label, multicenter study of oral nilotinib in adult patients with imatinib-resistant or imatinib-intolerant philadelphia chromosome-positive chronic myeloid leukemia in the chronic phase. cancer 2011. doi: 10.1002/cncr.26249 nel corso del tempo è stata simile tra i pazienti senza mutazioni e quelli con mutazioni nilotinib-sensibili, con il 28% dei pazienti che raggiungevano la mmr a 12 mesi in entrambi i gruppi [8]. il risultato ottenuto dalla nostra paziente è in linea con quanto evidenziato anche dallo studio enact [9], nel quale la risposta ematologica e citogenetica completa è stata raggiunta dal 43% e 34% dei pazienti. inoltre nella sottopopolazione di pazienti francesi il 37% ha raggiunto una mmr entro 12 mesi e il 20% ha raggiunto livelli di bcr-abl (is) ≥ 0,003% entro 12 mesi. in tabella v [9] sono indicati gli ae riportati nei trials di seconda linea e frontline di nilotinib. il rash cutaneo ha una frequenza che varia tra il 25-36%, si manifesta quasi sempre a inizio del trattamento con una durata variabile che richiede interruzioni temporanee della dose e l’utilizzo di antistaminici e corticosteroidi. in conclusione, il nostro caso evidenzia come, in una paziente pluritrattata, siamo riusciti a ottenere risultati insperati ma che hanno confermato quanto evidenziato dagli studi clinici su nilotinib: infatti, la nostra paziente dopo 3 mesi di terapia ha raggiunto la ccyr mantenendola stabile e duratura, con riduzioni di 1 log del trascritto. gli effetti collaterali si sono presentati all’inizio del trattamento, tuttavia la sospensione e l’utilizzo di corticosteroidi e antistaminici hanno permesso di continuare il trattamento con una buona tollerabilità del farmaco. dasatinib [2] nilotinib [3] t315i t315i t315a y253h v299l e255v f317l e255k f317i f359v f317v f359c f317c tabella iii. tki di ii generazione e mutazioni: quali le resistenze regime mutazione dopo terapia con imatinib (n = 12; 12% di tutti i pazienti con mutazioni) mutazione dopo terapia con dasatinib (n = 8; 50% di tutti i pazienti con mutazioni) n risposta durata (mesi) n risposta durata (mesi) salvataggio 1 imatinib alte dosi 2 ccyr 24+ 0 na na ccyr* 26+ dasatinib 3 phr 4 0 na na chr 10 chr 12 nilotinib 4 chr 15 1 ccyr† 4 mmr* 22 cmr 30+ nr na bosutinib 0 na na 1 nr‡ na salvataggio 2 nilotinib 1 nr na 0 na na bosutinib 2 chr 9 0 na na chr 6 tabella iv. risposta ai diversi tki dopo la scoperta della mutazione f317l (modificata da [4]) ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cmr = risposta molecolare completa; mmr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile nr = nessuna risposta; phr = risposta ematologica parziale * eradicazione del f317l mutant clone † incremento del f317l mutant clone dal 25% al 43% ‡ diminuzione del mutant clone dal 70% al 3% pazienti (%) trials di seconda linea trials frontline fase 2 studio 2101 (n=321) fase 3 studio enact (n=1422) fase 3 studio enestnd 300 mg/bid (n=279) fase 3 studio enestnd 400 mg/bid (n=277) tutti i gradi grado 3-4 tutti i gradi grado 3-4 tutti i gradi grado 3-4 tutti i gradi i grado 3-4 neutropenia 53 31 52 14 43 12 38 20 trombocitopenia 53 30 49 22 48 10 49 12 anemia 58 11 43 11 38 3 38 3 rash 28 3 25 3 31 < 1 36 3 mal di testa 19 2 16 2 14 1 21 1 nausea 24 1 38 0 12 < 1 20 1 mialgia 8 1 11 1 10 < 1 10 0 fatigue 19 1 14 2 11 0 9 < 1 vomito 11 < 1 7 < 1 5 0 9 1 diarrea 11 2 nr nr 8 < 1 7 0 alopecia 8 0 13 0 tabella v. incidenza dei più comuni eventi avversi (modificata da [9]) http://bloodjournal.hematologylibrary.org/content/112/13/4839/t2.expansion.html#fn-6%23fn-6 http://bloodjournal.hematologylibrary.org/content/112/13/4839/t2.expansion.html#fn-5%23fn-5 http://bloodjournal.hematologylibrary.org/content/112/13/4839/t2.expansion.html#fn-7%23fn-7 resistenza e/o intolleranza: ancora una chance! luigia luciano 1 efficacia di nilotinib in un giovane paziente affetto da lmc ad alto rischio sokal in fallimento terapeutico dopo imatinib ad alte dosi sabina russo 1, giuseppa penna 1, arianna d’angelo 1, alessandro allegra 1, andrea alonci 1, caterina musolino 1 caso clinico efficacia di nilotinib in un paziente in risposta non ottimale dopo terapia con imatinib a fronte di una ridotta compliance al nuovo farmaco francesca sassolini 1 caso clinico risposta molecolare completa indotta da nilotinib come terza linea di terapia in paziente affetta da leucemia mieloide cronica con mutazione f317l del dominio chinasico di bcr/abl maria iovine 1, mario troiano 1, giuseppe monaco 1, antonio abbadessa 1 caso clinico efficacia di nilotinib nel trattamento della lmc in fase cronica tardiva intollerante a imatinib e resistente a dasatinib emilio usala 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) clinical management issues 55 roberta re 1 si verificherebbe in pazienti a cui era stata formulata la diagnosi di tev ed era quindi stata intrapresa terapia specifica; inoltre più del 75% dei casi di ep fatale avvengono in pazienti non chirurgici [3]. è interessante sottolineare che tali decessi sono superiori alle morti per hiv, per neoplasia della prostata o della mammella oppure dovute a incidenti stradali. poiché la profilassi del tev è efficace, sufficientemente conosciuta e facilmente disponibile, si può pensare che almeno i casi secondari al ricovero ospedaliero si potrebbero prevenire, evitando addirittura i 3/4 circa delle morti tev-correlate. è ormai noto come il tipo, il dosaggio e la durata degli interventi utilizzati possano significativamente modificare l’outcome della profilassi tromboembolica [4,5]. il tev non solo è gravato da elevata mortalità ma implica anche un notevole impatto in termini assistenziali e di allocazione di risorse, anche e soprattutto per i casi non introduzione il tromboembolismo venoso (tev ) è una delle principali cause di mortalità e morbilità nei pazienti ospedalizzati [1,2]. l’incidenza di malattia varia da 70 a 117 casi per 100.000 abitanti all’anno e cresce con l’aumentare dell’età e con l’aumentare di fattori di rischio concomitanti. i pazienti internistici, a differenza di quelli chirurgici in cui il rischio di tev è maggiormente standardizzato e conosciuto, e che quindi vengono sottoposti a profilassi tromboembolica in modo sistematico, sono molto eterogenei, spesso affetti da polipatologie e a volte anche con più malattie croniche e acute concomitanti per cui è molto più difficile stimare il rischio o stabilire una correlazione causale e temporale tra la patologia e l’insorgenza di tev. dei decessi dovuti a tev si stima che il 93% sia dovuto a morte improvvisa per embolia polmonare (ep) come conseguenza di tev non diagnosticato, mentre solo il 7% malattia tromboembolica e broncopneumopatia cronica ostruttiva abstract venous thromboembolism is still a leading cause of mortality and morbidity for hospitalised patients. while the awareness of the risk for thromboembolic complications for surgical patients is high, and effective prophylactic treatment is normally and systematically prescribed, the situation is very different regarding patients admitted in a internal medical ward. only recently the usefulness of prophylactic treatment was recognised also for medical patients. a thromboembolic event can be a life threatening complication especially for people affected by chronic obstructive pulmonary disease (copd) that represents a significant part of medical hospitalised patients. moreover symptoms and signs related to the chronic pulmonary disease can be confusing factors that may delay a timely and correct diagnosis of a thromboembolic complication. keywords: thromboembolic disease, chronic obstructive pulmonary disease, acute exacerbation, dyspnea thromboembolic disease and chronic obstructive pulmonary disease cmi 2010; 4(suppl. 3): 55-61 1 medicina generale ii. asu maggiore della carità, novara corresponding author dott.ssa roberta re roberta.re@tin.it caso clinico numero articolo 9 rubrica caso clinico titolo malattia tromboembolica e broncopneumopatia cronica ostruttiva titolo inglese thromboembolic disease and chronic obstructive pulmonary disease autori roberta re 1 affiliazione 1 medicina generale ii. asu maggiore della caritànovara abstract venous thromboembolism is still a leading cause of mortality and morbidity for hospitalized patients. while the awareness of the risk for thromboembolic complications for surgical patients is high, and effective prophylactic treatment is normally and systematically prescribed, the situation is very different regarding patients admitted in a internal medical ward. only recently the usefulness of prophylactic treatment was recognised also for medical patients. a thromboembolic event can be a life threatening complication especially for people affected by chronic obstructive pulmonary disease (copd) that represent a significant part of medical hospitalized patients. moreover symptoms and signs related to the chronic pulmonary disease can be confusing factors that may delay a timely and correct diagnosis of a thromboembolic complication. keywords thromboembolic disease, chronic obstructive pulmonary disease, acute exacerbation, dyspnea corresponding author ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)56 malattia tromboembolica e broncopneumopatia cronica ostruttiva fatali, perché la gestione (sia in ospedale sia successivamente nel post-ospedaliero) risulta spesso impegnativa e anche gravata dal rischio di complicanze come emorragie (maggiori e non) correlate all’uso della terapia anticoagulante, la recidiva del tev e la sindrome post-trombotica [6,7]. tra le patologie che più frequentemente predispongono all’insorgenza di malattia tromboembolica vi è sicuramente la riacutizzazione della bronchite cronica; infatti i pazienti con bpco riacutizzata sono considerati almeno a “rischio moderato” a causa della concomitanza di fattori di rischio quali la flogosi, l’immobilizzazione, la compromissione ventricolare destra, la policitemia o la disidratazione. in generale le malattie dell’apparato respiratorio rappresentano la terza causa di morte in italia, dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie. l’interesse nei confronti delle broncopneumopatie è dovuto all’impatto di tale patologia sulla società, ed è correlato all’incremento del numero dei fumatori e alla sempre più precoce attitudine al fumo in classi di età anche molto giovani. la morbilità è prevista in notevole aumento nel mondo con uno spostamento dal 12° al 6° posto; in termini di ricoveri ospedalieri in italia i casi di bpco risultano al 7° posto (secondo dati istat 2003). l’analisi degli studi dimostra un’elevata prevalenza di embolia polmonare nei pazienti che sono ospedalizzati per una bpco riacutizzata. infatti circa un paziente ogni quattro ricoverati per una bpco e studiati per la presenza di una manifestazione trombo-embolica, presenta una embolia polmonare. in maggior dettaglio si dimostra, negli studi che hanno considerato tutti i pazienti con bpco, senza differenza fra soggetti ospedalizzati o trattati a domicilio, una prevalenza complessiva di ep del 19,9% (95% ci, 6,7-33,0%; p = 0,014). considerando solo i pazienti con bpco ricoverati in ospedale la prevalenza era maggiore, pari al 24,7% (95% ci, 17,9-31,4%; p = 0,001). in generale la prevalenza di trombosi venosa profonda è inferiore rispetto a quella dell’embolia polmonare e pari al 12,4% (95% ci, -2,2-27,1%; p = 0,074). la prevalenza è maggiore se si considerano solo i pazienti ricoverati, arrivando al 16,6% (95% ci, 1,132,1%; p = 0,044) [8]. la bpco è causa di circa il 50% delle morti per malattie dell’apparato respiratorio, interessa le fasce di età più avanzate ed è 2-3 volte maggiore nei maschi rispetto alle femmine, ma è in aumento anche tra queste ultime. le comorbilità hanno un importante effetto sulla prognosi del paziente con bpco. l’insufficienza respiratoria progressiva spiega solo un terzo circa della mortalità legata alla bpco; quindi fattori diversi dalla progressione della malattia polmonare devono avere un ruolo di rilievo. i decessi dei pazienti con bpco avvengono prevalentemente a causa delle comorbilità piuttosto che per la bpco in sé. nei pazienti affetti da bpco il 40-50% dei casi di morte è imputabile a cause cardiovascolari; infatti almeno 1/3 dei pazienti affetti da cardiopatie è affetto anche da bpco, che ne aumenta il rischio di morte [9]. tra le principali comorbilità si possono elencare l’insufficienza cardiaca cronica, la cardiopatia ischemica, la vasculopatia periferica, l’embolia polmonare, le aritmie, le neoplasie polmonari, il diabete mellito, l’osteoporosi e la sindrome depressiva. in generale la malattia neoplastica e lo scompenso cardiaco congestizio paiono essere le comorbilità più frequenti nei pazienti con bpco e tvp [10]. l’embolia polmonare giustifica da sola circa il 10% dei decessi nei pazienti broncopneumopatici ma è stata riscontrata post mortem nel 28-51% dei casi [11]; ovviamente ciò non significa che sia stata la primitiva causa di morte, ma che in qualche modo possa aver contribuito a peggiorare una situazione emodinamica e respiratoria già compromessa. inoltre non è mai stato dimostrato che età, valori di emoglobina o ematocrito, po2, pco2, ph, fev1, vc o valori differenti nelle scale della dispnea potessero in qualche modo predire il maggior rischio di sviluppare una trombosi venosa profonda [12]. purtroppo però il sospetto clinico viene posto solo in circa il 50% dei casi e non sono descritti sintomi specifici in quanto spesso essi sono sovrapponibili a quelli caratteristici della bpco stessa: da qui l’importanza del sospetto clinico di embolia polmonare nei pazienti broncopneumopatici. caso clinico un uomo di 65 anni lamenta da 5-6 giorni dispnea peggiorata dallo sforzo anche modesto, ma non ortopnea, presenza di febbre (38 °c) accompagnata da tosse produttiva con escreato giallastro. il medico curante aveva posto diagnosi di bronchite acuta con caratteristiche asmatiformi e aveva prescritto terapia antibiotica con amoxicillina-acido ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 57 r. re clavulanico, mucolitici in sciroppo e terapia cortisonica per os (prednisone = 25 mg 1 cpr/die). per la persistenza di febbre, dispnea ingravescente con tosse produttiva ed escreato striato di sangue, il paziente si reca in dipartimento di emergenza e accettazione (dea). in anamnesi vengono riferiti diabete mellito in terapia solo dietetica, ipertensione arteriosa, forte fumatore da circa 40 anni; riferisce inoltre allergia ad acido acetilsalicilico e nichel. in dea al paziente viene assegnato un codice giallo: infatti è tachicardico (fc = 120/min) e tachipnoico (fr = 30/min), febbrile (temperatura corporea = 38 °c), utilizza i muscoli accessori ed è inoltre presente insufficienza respiratoria (sato2 = 85% aa); obiettivamente il murmure vescicolare è ridotto alla base polmonare di sinistra con espirazione prolungata, sono presenti anche ronchi, sibili e gemiti diffusi. alla radiografia del torace non si evidenziano addensamenti polmonari ma solo ispessimento della trama come per fenomeni bronchitici e peri-bronchitici; dagli esami ematici emerge leucocitosi neutrofila (globuli bianchi = 18.000/mm3; neutrofili = 87%), incremento degli indici di flogosi (pcr = 9,8), scompenso glicemico (glicemia 305 mg/dl) modesta insufficienza renale (creatinina = 1,5 mg/dl), d-dimero ai limiti di significatività (550 µg/l). all’emogasanalisi modesta acidosi respiratoria con ir tipo ii (ph = 7,33; pco2 = 50 mmhg; po2 = 47; bicarbonati = 29; sato2 = 85%; lattati = 2,2). il paziente viene quindi ricoverato con diagnosi di “bronchite cronica riacutizzata” e trattato con terapia antibiotica ad ampio spettro (amoxicillina-acido clavulanico e levofloxacina) salbutamolo, ossitropio e steroidi inalatori, steroidi per os (prednisone = 50 mg), antipiretici, idratazione, insulina rapida ai pasti, ossigenoterapia con maschera venturi al 40% con però solo modesto miglioramento dei sintomi e sato2 che raggiunge 91% aa. quindi, effettuando un’attenta analisi del caso clinico si può fissare l’attenzione su alcuni importanti dati: il paziente ha plurimi fattori di rischio ed è affetto da malattia medica acuta; inoltre è stato allettato per bronchite. è quindi lecito sospettare una complicanza tromboembolica. il paziente però ha riferito come dato anamnestico di essere allergico a fans e nichel per cui non potrebbe effettuare angio-tc in regime d’urgenza in assoluta sicurezza. per tale motivo si esegue un ecoa seguire, per cercare di porre una diagnosi precisa viene eseguita anche una scintigrafia polmonare perfusoria che evidenzia un «diffuso difetto di perfusione privo di chiaro aspetto segmentario con diffuse disomogeneità bilaterali. quadro compatibile con probabilità intermedia-indeterminata» (figura 2). il paziente, alla luce dell’alto sospetto diagnostico viene comunque trattato con fondaparinux a dose anti-coagulante (7,5 u 1 fl/sc die) e inizia preparazione per pazienti allergici con cortisone ad alto dosaggio per effettuare 24 ore dopo tc con mezzo di contrasto (mdc) (figura 1). la tc torace dà figura 1 tc torace con mezzo di contrasto effettuata dal paziente figura 2 esiti della scintigrafia polmonare del paziente cardiogramma al letto del malato che evidenzia un quadro di dilatazione delle camere destre con ipertrofia della parete del ventricolo destro, ipertensione polmonare (paps = 48 mmhg) ma non segno di mc connell (verosimile cuore polmonare cronico). ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)58 malattia tromboembolica e broncopneumopatia cronica ostruttiva finalmente conferma ai nostri sospetti: infatti evidenzia «la presenza di trombi in arteria polmonare destra, a livello dell’arteria segmentaria anteriore del lobo inferiore sinistro, dell’arteria lingulare e in corrispondenza del ramo lobare inferiore dell’arteria polmonare sinistra». il paziente ha iniziato warfarin in i giornata e le sue condizioni sono progressivamente migliorate; l’eco-colordoppler arti inferiori eseguito a completamento diagnostico ha evidenziato tvp femorale comune sinistra. l’ega alla dimissione e le prove di funzionalità respiratoria hanno evidenziato un quadro misconosciuto di bronchite cronica con ir di tipo ii e ostruzione moderata. discussione la maggior parte dei pazienti che quotidianamente affolla le nostre divisioni di medicina interna presenta numerosi e frequenti fattori di rischio per la comparsa di malattia tromboembolica: per questo motivo, se non sussistono controindicazioni, la profilassi tromboembolica dovrebbe almeno essere presa in considerazione all’ammissione in reparto dei nuovi pazienti ricoverati. tra i fattori di rischio più frequenti: predisposizione congenita; y interventi chirurgici e traumi; y diabete mellito; y porpora trombocitopenica trombotica; y malattie infiammatorie intestinali; y uso di contraccettivi orali o terapia sostiy tutiva ormonale; insufficienza venosa cronica; y obesità; y sepsi; y scompenso cardiaco e cardiopatie; y iperlipidemia; y iperviscosità; y tumori e malattie mieloproliferative; y patologie autoimmuni; y sindrome nefrosica; y gravidanza e puerperio; y fumo; y età avanzata; y immobilizzazione prolungata (ictus). y un fattore frequentemente fuorviante è la presentazione clinica dell’embolia polmonare: infatti tra i segni e sintomi più frequenti troviamo la dispnea, il dolore toracico retrosternale o di tipo pleuritico, la tosse, l’emottisi, la sincope, la tachicardia, la tachipnea, la febbre, l’ipotensione, la cianosi o addirittura l’arresto cardiocircolatorio per pea (pulseless electric activity). come si può vedere, essi sono altamente aspecifici. proprio per questo motivo, come già accennato in precedenza, il sospetto clinico viene formulato solo nella metà dei casi e quindi in una percentuale relativamente bassa rispetto alla reale presenza di patologia in questo sottogruppo di pazienti. la diagnosi strumentale di embolia polmonare nel paziente con bpco è ovviamente analoga a quella che viene effettuata nei pazienti senza questa patologia, ma presenta alcune piccole differenze. la scintigrafia polmonare ventilatoria e perfusoria (ampiamente utilizzate nello studio pioped) [13] o solo perfusoria (nello studio pisaped) ha buona sensibilità (92%) e specificità (88%) ma deve essere guidata da giudizio clinico. poiché utilizza albumina marcata con tecnezio è incruenta e sicura ma presenta dei limiti; in bpco infatti la perfusione polmonare può essere compromessa a causa di vasocostrizione reattiva secondaria all’ostruzione delle vie aeree, ma non è ancora definito se il grado di severità della bpco possa influire diversamente sulla possibilità di risultare non diagnostica. in uno studio di hartman si era dimostrato che la scintigrafia polmonare era risultata non diagnostica nel 47% dei pazienti con bpco rispetto al 21% di quelli che non erano affetti da questa patologia [14]. l’angio-tc con mdc ha una buona sensibilità (85%) e specificità (93%); inoltre ha il vantaggio di consentire una diretta visualizzazione dell’embolo dentro all’arteria, permettendo un’adeguata visualizzazione fino ai rami lobari e segmentari, a volte anche sottosegmentari (vantaggio non trascurabile in quanto un’embolia periferica, ossia oltre i vasi sottosegmentari, si riscontra nel 6-17% dei casi!). è molto utile anche per rivalutazione dopo trombolisi perché visualizza il trombo senza necessità di puntura vascolare. lo svantaggio più consistente è la necessità di impiegare un mdc (ponendo di conseguenza particolare cautela in pazienti allergici o con irc moderata-severa), ma in compenso le performance della angio-tc presentano il notevole vantaggio di non essere condizionate dalla presenza di bpco, non essendo influenzate dal rapporto ventilazione/perfusione [15]. l’arteriografia polmonare è ormai utilizzata molto poco, essenzialmente se esami incruenti non sono risultati diagnostici o se ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 59 r. re si pensa a embolectomia o trombolisi. può dare risultati dubbi, ma solo in casi molto selezionati in quanto una comorbilità può influenzare la vascolarizzazione polmonare e determinare una perfusione polmonare non uniforme (ad es. malattie infiammatorie, disordini congeniti, ostruzione estrinseca o invasione, reazione di eisenmenger) [16]. l’ecocardiografia è un esame incruento, facile e veloce in emergenza (l’unico in pea in grado di consentire una visualizzazione trans-toracica e trans-esofagea). permette di valutare la presenza di sovraccarico e disfunzione del ventricolo destro con aumento al doppler della pressione polmonare, bulging del setto interventricolare verso sinistra, aumentata velocità del rigurgito tricuspidale e vena cava dilatata che non collassa in inspirazione. può differenziare forme acute da croniche (spessore parete ventricolo destro > 5 mm, ventricolo destro dilatato ma setto normale e cava che collassa) ma l’utilità maggiore è soprattutto per la diagnosi differenziale della dispnea, del dolore toracico e dello shock cardiogeno in quanto ci consente di valutare discinesie indicative di infarto miocardico acuto, presenza di tamponamento pericardio o segni di dissecazione aortica. la rmn consente di visualizzare il parenchima e i vasi segmentari ed è un imaging dinamico sia perfusivo sia ventilatorio. attualmente è ancora un esame di nicchia; ma per il futuro si auspica un più diffuso utilizzo [17]. uno studio di estremo interesse, condotto da carson [18], ha dimostrato che i pazienti affetti da bpco ed embolia hanno una mortalità a un anno (53,3%) significativamente aumentata rispetto a pazienti egualmente broncopneumopatici che non hanno però sviluppato un’embolia polmonare (15%). la ragione di ciò non è stata completamente stabilita; le cause di morte sono analoghe ma si possono ipotizzare alcune spiegazioni, ad esempio che l’embolia polmonare colpisca più frequentemente pazienti con bpco più severa oppure che si debba ricercare la causa della maggiore mortalità tra gli effetti indiretti della tep, tra cui la comparsa di ipertensione polmonare; purtroppo molto spesso i grandi trial clinici (es. pioped) non utilizzano test funzionali per definire la severità della bpco. da ciò l’importanza di sospettare il rischio di embolia polmonare nei pazienti broncopneumopatici per effettuare adeguate profilassi, diagnosi e terapia per migliorare l’outcome a lungo termine. parametro punteggio età 60-79 anni y ≥ 80 anni y 1 2 dvt precedente o pe 2 recente intervento chirurgico (nelle 4 settimane precedenti) 3 frequenza cardiaca > 100 bpm 1 paco 2 < 35 mmhg y 35-39 mmhg y 2 1 pao 2 < 49 mmhg y 49-59 mmhg y 60-71 mmhg y 72-82 mmhg y 4 3 2 1 rx torace band atelectasis elevazione dell’emidiaframma 1 1 risultati < 5 punti: bassa probabilità di pe y 5-8: moderata probabilità di pe y > 8: alta probabilità di pe y tabella i original geneva score. lo score è calcolato attraverso l ’impiego di 7 fattori di rischio e variabili cliniche. il punteggio ottenuto stima la probabilità pre-test del paziente di avere una malattia tromboembolica dvt = deep vein thrombosis in conclusione è bene ricordare due indicazioni estrapolate dalle linee guida 2008 dell’american college of chest physicians [4], di seguito riportare: « y in pazienti affetti da patologia medica acuta ricoverati in ospedale per scompenso cardiaco, severa patologia respiratoria, o allettati con uno o più fattori di rischio aggiuntivi, come cancro attivo, precedente tev, sepsi, malattia neurologica acuta, malattia infiammatoria cronica intestinale, si raccomanda profilassi con eparine a basso peso molecolare (enoxaparina 40 mg o dalteparina 5.000 u), basse dosi di eparina non frazionata (5.000 x 2 o x 3/ die) o fondaparinux 2,5 mg (grado 1a). in pazienti di medicina interna con fattori di rischio per tev e controindicazioni alla profilassi anticoagulante, si raccomanda profilassi meccanica con calze elastiche oppure compressione pneumatica intermittente (grado 1a)»; «nei pazienti con un alto sospetto clinico y di dvt o pe si raccomanda l’uso di terapia anticoagulanti in attesa di completare le indagini diagnostiche (grado 1c)». tali indicazioni quindi sono piuttosto chiare sulle indicazioni sia profilattiche nei pazienti di medicina interna sia terapeutiche nei pazienti con alto sospetto di embolia polmonare, per cui nello specifico del nostro ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3)60 malattia tromboembolica e broncopneumopatia cronica ostruttiva paziente, visto che avevamo già intrapreso la terapia anticoagulante con fondaparinux a dose piena, avremmo potuto non eseguire la scintigrafia polmonare (poco diagnostica) o l’ecocardiogramma (paziente stabile emodinamicamente) in attesa di effettuare l’esame gold standard, cioè l’angio-tc il giorno successivo. in questo caso gli esami effettuati sono sicuri e privi di rischi, al massimo possono sovraccaricare il lavoro di singoli specialisti o di divisioni ospedaliere, ma in altri casi l’eccessiva prescrizione ed esecuzione di esami potrebbe comportare potenzialmente dei rischi. per definire la probabilità pre-test di malattia tromboembolica polmonare è possibile utilizzare alcune tabelle di rischio come ad esempio lo score di wells o, meglio ancora nel caso del malato broncopneumopatico, il geneva score o il geneva modificato (tabella i e tabella ii). nello specifico, nello studio di tillie-leblond e colleghi [19], utilizzando lo score di ginevra soprattutto tre elementi clinici paiono correlati nei pazienti con bpco con lo sviluppo di ep: precedente storia di neoplasia maligna; y storia di tvp o ep; y riduzione della paco y 2 > 5 mm hg. disclosure l’autrice dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. variabile punteggio fattori predisponenti età > 65 anni +1 precedente tev +3 chirurgia o frattura nel mese precedente +2 neoplasia attiva +2 sintomi dolore unilaterale all’arto inferiore +3 emottisi +2 segni clinici frequenza cardiaca 75-94 bpm y ≥ 65 bpm y +3 +5 dolore alla palpazione venosa degli arti inferiori o edema unilaterale +4 risultati 0-3: bassa probabilità di pe (8%) y 4-10: media probabilità di pe (28%) y ≥ 11: alta probabilità di pe (74%) y tabella ii revised geneva score ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 3) 61 r. re bibliografia dalen je. pulmonary embolism: what have we learned since virchow? natural history, 1. phatophysiology and diagnosis. chest 2002; 122: 1440-56 goldhaber sz, visani l, de rosa m. acute pulmonary embolism: clinical outcomes in the 2. international cooperative pulmonary embolism registry (icoper). lancet 1999; 353: 1386-9 alikhan r, peters f, wilmott r, cohen at. fatal pulmonary embolism in hospitalized patients: 3. a necropsy review. j clin pathol 2004; 57: 1254-7 geerts wh, bergqvist d, pineo gf, heit ja, samana cm, lassen mr et al. prevention of 4. venous tromboembolism: american college of chest physicians evidence-based clinical practice guidelines (8 th edition). chest 2008; 133: 381s-453s gussoni g, campanini m, silingardi m, scannapieco g, mazzone a, magni g et al; gemini 5. study group. in-hospital symptomatic venous thromboembolism and antithrombotic prophylaxis in internal medicine. findings from a multicenter, prospective study. thromb haemost 2009;101: 893-901 cohen at, agnelli g, anderson fa, arcelus ji, bergqvist d, brecht jg et al; vte impact 6. assessment group in europe (vitae) . venous thromboembolism (vte) in europe.the number of vte events and associated morbidity and mortality. thromb haemost 2007; 98: 756-64 dobesh pp. economic burden of venous thromboembolism in hospitalized patients. 7. pharmacotherapy 2009; 29: 943-53 rizkallah j, man p, sin d. prevalence of pulmonary embolism in acute exacerbations of copd. 8. a systematic review and meta-analysis. chest 2009; 135: 786-93 national institutes of health, national heart lung and blood institute. global iniziative for 9. chronic obstructive lung disease: global strategy for diagnosis; management, and prevention of chronic obstructive pulmonary disease. bethesda, md: nih, 2007 shetty r, seddighzadeh a, piazza g, goldhaber sz. chronic obstructive pulmonary 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con diabete tipo 2 e danno renale: dalla diagnosi alla terapia francesca cappadona 1, anna solini 2, roberto pontremoli 1 1 università degli studi e irccs a.o.u. san martino-ist, genova 2 dipartimento di medicina clinica e sperimentale, università di pisa abstract the prevalence of type 2 diabetes mellitus and arterial hypertension is on the rise in western countries and chronic kidney disease is certainly one of their most harmful complications. this condition greatly complicates patient management. the clinician needs to wisely identify the best diagnostic algorithm and carefully balance potential risks and benefits of each therapeutic decision. even when recommended therapeutic targets can be achieved, often a challenging task in clinical practice, residual cardiovascular and renal risk remains unacceptably high for these patients. here we present the case of a 72-year old woman, with arterial hypertension and diabetes mellitus type 2. despite the long clinical history of the patient, being treated for over 20 years, blood pressure and metabolic control were not satisfactory. the authors trace the patient’s treatment pathway, following the different clinical questions that led them to the modification of the patient’s therapy. the new therapy is based on chlorthalidone, sitagliptin, a combination therapy of ezetimibe / simvastatin, and metformin. keywords: hypertension; type 2 diabetes mellitus; cardiovascular risk; renal disease the difficult management of patients with type 2 diabetes and renal disease: from diagnosis to treatment cmi 2016; 10(1): 7-13 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v10i1.1213 case report corresponding author roberto pontremoli università degli studi e irccs a.o.u. san martino-ist, genova. tel.: +39 010 353 8932 roberto.pontremoli@unige.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo perché descriviamo questo caso i casi di diabete mellito di tipo 2 complicati da danno renale sono una condizione clinica di riscontro crescente per mmg e specialisti la gestione richiede un’attenta valutazione del rapporto costo/beneficio a vari livelli il caso intende affrontare criticamente le problematiche dell’ottimizzazione del controllo pressorio e glicometabolico introduzione la prevalenza e l’incidenza di diabete mellito e ipertensione arteriosa, e delle loro complicanze microe macro-vascolari, sono in costante aumento e rappresentano una importante questione per i sistemi sanitari. a parte le complicanze cardiovascolari, il diabete mellito è associato anche a malattia renale cronica (ckd), che determina un drammatico aumento del rischio globale nel paziente con diabete e/o ipertensione arteriosa. la corretta gestione diagnostico-terapeutica di questa tipologia di pazienti richiede un’attenta valutazione del rapporto costo/beneficio a vari livelli, con l’identificazione di target terapeutici individualizzati sulla base delle caratteristiche cliniche del singolo paziente. il caso clinico descritto è oggi di comune riscontro sia per il medico di medicina generale che per lo specialista e la discussione del caso clinico offre l’opportunità di affrontare criticamente le varie problematiche relative all’ottimizzazione del controllo pressorio e glicometabolico. nonostante il raggiungimento dei parametri consigliati dalle linee guida internazionali, il rischio residuo cardiovascolare e renale di questi pazienti rimane elevato. esami ematochimici e urinari valori glicemia 145 mg/dl creatinina 1,11 mg/dl gfr (ckd-epi) 42 ml/min potassio 3,8 meq/l emoblogina 12,3 g/dl vcm 88 fl pcr 3,2 mg/l colesterolo totale 262 mg/dl colesterolo hdl 41 mg/dl trigliceridi 188 mg/dl acido urico 7,8 mg/dl emoglobina glicata 7,9% esame urine proteinuria 0,5 g/l, hb tracce, sedimento nn rac urine 451 mg/g tabella i. esami ematochimici e urinari portati in visione dalla paziente alla prima visita gfr = tasso di filtrazione glomerulare; pcr = proteina c reattiva; rac = rapporto albumina/creatinina; vcm = volume corpuscolare medio caso clinico una donna di 72 anni con ipertensione arteriosa, nota da circa 20 anni, e diabete mellito tipo 2, noto da circa 15 anni, presenta scarso controllo pressorio e metabolico. al momento della visita presso la nostra struttura la paziente pesa 84 kg, con body mass index (bmi) di 30,9 kg/m2 e una circonferenza vita di 93 cm. all’esame obiettivo (eo) la pressione arteriosa (pa) risulta di 145/95 mmhg, la frequenza cardiaca 68 bpm ritmica, con presenza di lievi edemi declivi agli arti inferiori. l’obiettività cardiaca, toracica e addominale è nei limiti di norma. la paziente porta in visione esami ematochimici (tabella i) che evidenziano danno renale con proteinuria, scarso controllo glicemico e ipercolesterolemia (ldl 183 mg/dl). l’ecg effettuato poco tempo prima non mostra anomalie riconducibili a ipertrofia ventricolare sinistra, disturbi del ritmo o della conduzione né segni di ischemia miocardica (figura 1). l’ecografia renale evidenzia reni di dimensioni normali, diametro longitudinale 12 cm bilateralmente, con corticale di normale spessore ma lievemente iperecogena (figura 2). al momento della visita la paziente assume terapia con ace-inibitore, calcio antagonista, antiaggregante, statina e associazione di metformina e sulfanilurea. inoltre, riferisce saltuario uso di fans per osteoartrosi (tabella ii). figura 1. ecg con ritmo sinusale, senza alterazioni riconducibili a ipertrofia ventricolare o a ischemia cardiaca. frequenza cardiaca 63 pbm la situazione clinica della paziente in base ai dati acquisiti al momento della prima visita può essere così sintetizzata: ipertensione arteriosa, diabete mellito tipo 2 e malattia renale cronica stadio 3 ndd (g3b a3 secondo le linee guida kdigo 2012) [1]. figura 2. ecografia renale: reni di normali dimensioni (diametro longitudinale di 12,5 cm), corticale con spessore conservato, ma iperecogena farmaco dosaggio orario ramipril 10 mg 8.00 amlodipina 10 mg 20.00 acido acetilsalicilico 100 mg 13.00 metformina/glibenclamide 400/2,5 mg 8.00 13.00 20.00 atorvastatina 20 mg 22.00 tabella ii. terapia riferita dalla paziente alla prima visita esami ematochimici e urinari valori glicemia 128 mg/dl creatinina 1,32 mg/dl gfr (ckd-epi) 49,7 ml/min potassio 4,9 meq/l calcio 9,1 mg/dl fosforo 3,6 mg/dl paratormone (pth) 35 ng/l 25 oh vitamina d 21 ng/ml emoglobina 12,0 g/dl vcm 88 fl pcr 3,2 mg/l colesterolo totale 173 mg/dl colesterolo hdl 41 mg/dl colesterolo ldl 102 mg/dl trigliceridi 155 mg/dl acido urico 7,1 mg/dl emoglobina glicata 7,2% esame urine proteinuria 0,5 g/l, hb tracce, sedimento nn rac urine 451 mg/g tabella iii. risultati degli esami ematochimici richiesti nel corso della prima visita e portati in visione alla visita di controllo (dopo tre mesi) gfr = tasso di filtrazione glomerulare; pcr = proteina c reattiva; rac = rapporto albumina/creatinina; vcm = volume corpuscolare medio analisi ragionata e discussione questa condizione comporta senza dubbio un rischio renale e globale aumentato. è opportuno valutare quali altri esami far eseguire alla paziente per definire meglio il profilo di rischio e ottimizzare la terapia. si tratta di un aspetto cruciale per la gestione ottimale del caso. i test che si potrebbero prescrivere sono molti, ma occorre valutarne il rapporto costo/efficacia in questo specifico contesto clinico. per quanto riguarda lo stato ipertensivo si potrebbe consigliare un monitoraggio pressorio ambulatorio delle 24 ore (abpm) e/o si potrebbe valutare la presenza di danno d’organo subclinico con un’ecografia doppler cardiaca. potrebbero, inoltre, essere eseguiti un doppler dei tronchi sovra-aortici e uno renale, e un esame del fundus oculi. in presenza di molteplici opzioni diagnostiche, consideriamo i risvolti clinici e le possibili ricadute terapeutiche delle nostre scelte. sappiamo già che la pa della nostra paziente non è ben controllata, per cui prescrivere un abpm verosimilmente non fornirà, in questa fase, informazioni aggiuntive utili. alla luce delle evidenze emergenti in letteratura riguardo al ruolo predittivo cardiovascolare e renale dei parametri rilevabili con il doppler renale [2], si opta per questo esame. si decide inoltre di far eseguire alla paziente un fundus oculi. sebbene solo circa il 30% dei pazienti diabetici con ckd mostri segni di retinopatia, la conoscenza di questa complicanza microvascolare è importante per la prognosi e la scelta degli obiettivi terapeutici. infine, prescriviamo un doppler dei tronchi sovra-aortici, sebbene sia improbabile che il risultato di questo esame modifichi, nel complesso, il profilo di rischio globale della paziente e gli obiettivi terapeutici. sulla base delle linee guida internazionali kdigo-erbp [1], i target terapeutici da raggiungere nella nostra paziente relativamente alla pa, al controllo glicometabolico e al colesterolo ldl sono rispettivamente: pa office <130/80, emoglobina glicata (hba1c) <7% e ldl < 100 mg/dl. è necessario, quindi, modificare la terapia per raggiungere gli obiettivi terapeutici indicati, senza tralasciare l’importanza della terapia nutrizionale che, per molti pazienti, costituisce un presidio irrinunciabile. pertanto, dopo aver raccomandato adeguate misure igienico-dietetiche, le scelte possono essere diverse. per migliorare il controllo pressorio si potrebbe inserire un diuretico, oppure associare un secondo farmaco attivo sul sistema renina-angiotensina-aldosterone (raas), ad es. un inibitore recettoriale dell’angiotensina ii (arb) o un anti-aldosteronico. tuttavia, l’associazione di ace-inibitori e arb è attualmente sconsigliata dalle linee guida esh/esc 2013 [3], e dovrebbe essere considerata solo in casi selezionati. la paziente presenta una potassiemia di 4,9 meq/l e un tasso di filtrazione glomerulare (gfr) ridotto: agire sul raas potrebbe esporre al rischio di iperpotassiemia e/o di peggioramento della funzione renale. inoltre la proteinuria è, tutto sommato, modesta e potrebbe giovarsi in primo luogo di un miglior controllo pressorio. si decide pertanto per l’aggiunta di clortalidone al dosaggio di 25 mg/die. figura 3. ecodoppler renale con indici di resistenza intraparenchimali aumentati. nonostante, in generale, il diuretico non sia il farmaco antipertensivo di scelta nel paziente diabetico, in questo caso si è preferito privilegiare l’efficacia antipertensiva e il “fenotipo” renale della paziente (gfr lievemente ridotto) e quindi la possibilità di raggiungere il target terapeutico in tempi abbastanza rapidi. indapamide sarebbe stata una scelta ugualmente valida, a nostro avviso, anche se clortalidone può vantare una maggiore “evidenza”, essendo stato impiegato su un vasto numero di pazienti nello studio allhat [4], e mantiene la sua efficacia anche per valori di gfr compresi tra 40 e 60 ml/min [5]. si opta per mantenere la metformina. anche sulla base della recente letteratura [6], i valori di filtrato glomerulare della paziente (tra 60 e 45 ml/min) permettono, infatti, di continuare la somministrazione del farmaco, se ben tollerato. viene invece sospesa la glibenclamide a favore di un inibitore di dpp4, il sitagliptin al dosaggio di 50 mg 1 volta al dì (posologia scelta sulla base del gfr stimato). per portare a target i valori di colesterolemia ldl viene inserita una terapia di associazione con ezetimibe/simvastatina al dosaggio di 10/40 mg. alla visita successiva (dopo circa 3 mesi) la paziente riferisce valori pressori a domicilio tra i 130-135/80-85 mmhg e valori glicemici automisurati di circa 130 mg/dl a digiuno, 160 mg/dl post-prandiali. la pa rilevata nel corso della visita è 128/80 mmhg, l’eo è sostanzialmente invariato. la paziente porta in visione gli esami richiesti (tabella iii). l’ecodoppler dei vasi renali evidenzia indici di resistenza intra-parenchimali marcatamente aumentati (rri 0,81-0,84) (figura 3); all’ecografia dei vasi epiaortici emergono diffusi ispessimenti con placche non emodinamicamente significative (<30%) alla biforcazione carotidea bilateralmente. l’esame del fundus oculi mostra segni di background retinopathy. keypoint la presenza di danno renale implica un notevole aumento del rischio di eventi cardiovascolari nei pazienti con diabete mellito e ipertensione arteriosa un’attenta valutazione del rapporto costo/beneficio è necessaria per ottimizzare l’iter diagnostico e terapeutico in questi pazienti gli obiettivi terapeutici devono essere individualizzati sulla base delle caratteristiche cliniche del paziente: in questo caso pa office <130/80 mmhg, hba1c < 7%, ldl < 100 mg/dl nonostante i miglioramenti terapeutici registrati globalmente nella prevenzione delle complicanze vascolari del diabete, l’incidenza di nefropatia è rimasta sostanzialmente stabile negli ultimi dieci anni. i pazienti con diabete tipo 2 e danno renale presentano un rischio residuo elevato conclusioni sebbene in questa paziente si possa registrare un netto miglioramento relativo agli obiettivi terapeutici considerati, la maggioranza dei pazienti diabetici con danno renale è esposta a un elevato rischio residuo (renale e cardiovascolare) anche dopo l’ottimizzazione del trattamento. non a caso, i progressi registrati negli ultimi 20 anni nella prevenzione della nefropatia sono molto più modesti rispetto a quelli delle altre complicanze microe macro-vascolari del diabete (figura 4) [7]. figura 4. variazioni dell’incidenza delle complicanze del diabete negli stati uniti tra il 1990 e il 2010. modificato da [7] figura 5. possibili associazioni tra le diverse classi di farmaci antipertensivi. linee verdi continue: associazioni da preferire; linea verde tratteggiata: associazioni utili (con alcuni limiti); linee nere tratteggiate: associazioni possibili ma con meno evidenze; linea rossa continua: associazione non raccomandata. modificato da [3] il caso clinico presentato testimonia le criticità che il medico deve fronteggiare nella gestione del paziente con diabete. il raggiungimento degli obiettivi terapeutici della pressione arteriosa, della colesterolemia ldl e del compenso glicemico rimane ad oggi lo strumento prioritario per la prevenzione del danno renale. bibliografia 1. kidney disease: improving global outcomes (kdigo) work group. kdigo 2012 clinical practice guideline for the evaluation and management of chronic kidney disease. kidney int suppl 2013; 3: 1-150; http://dx.doi.org/10.1038/kisup.2012.77 2. viazzi f, leoncini g, derchi le, et al. ultrasound doppler renal resistive index: a useful tool for the management of the hypertensive patient. j hypertens 2014 jan;32(1):149-53; http://dx.doi.org/10.1097/hjh.0b013e328365b29c 3. mancia g, fagard r, narkiewicz k, et al. 2013 esh/esc practice guidelines for the management of arterial hypertension. blood press 2014; 23: 3-16; http://dx.doi.org/10.3109/08037051.2014.868629 4. davis br, cutler ja, gordon dj, et al. rationale and design for the antihypertensive and lipid lowering treatment to prevent heart attack trial (allhat). allhat research group. am j hypertens 1996; 9(4 pt 1): 342-60 5. cirillo m, marcarelli f, mele aa, et al. parallel-group 8-week study on chlorthalidone effects in hypertensives with low kidney function. hypertension 2014; 63: 692-7; http://dx.doi.org/10.1161/hypertensionaha.113.02793 6. inzucchi se, lipska kj, mayo h, et al. metformin in patients with type 2 diabetes and kidney disease: a systematic review. jama 2014; 312: 2668-75; http://dx.doi.org/10.1001/jama.2014.15298 7. gregg ew, li y, wang j, et al. changes in diabetes-related complications in the united states, 1990-2010. n engl j med 2014; 370: 1514-23; http://dx.doi.org/10.1056/nejmoa1310799 8. associazione medici diabetologi. la personalizzazione della terapia nel diabete di tipo 2. http://www.aemmedi.it/algoritmi_it_2014 [ultimo accesso marzo 2016] 9. leoncini g, viazzi f, pontremoli r. chronic kidney disease and albuminuria in arterial hypertension. curr hypertens 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deposition of insoluble protein fibrils in various organs and tissues. there are two main forms of amyloidosis, primary amyloidosis, and secondary amyloidosis. gastrointestinal involvement is common in both amyloidosis forms. we describe the case of a 78-year-old woman taken to the operating room for small bowel obstruction, found to have pseudo-obstruction and enteritis. exploratory laparotomy revealed gastric mass and histological examen showed extensive amyloid deposition consistent with amyloidosis. hematological evaluation revealed unknown multiple myeloma. this case report and literature data suggest to perform a hematological examination in patients with amyloidosis diagnosis to exclude a multiple myeloma or other plasma cell disorders. keywords: myeloma; amyloidosis; pseudo-obstruction; hypogammaglobulinemia; congo red stain amiloidosi sistemica dovuta a mieloma multiplo sconosciuto in paziente con pseudo-ostruzione intestinale: segnalazione di un caso cmi 2016; 10(1): 15-18 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v10i1.1213 case report corresponding author giuseppe caparrotti u.o.c. ematologia, ospedale s. giuseppe moscati via gramsci 1, 81031 aversa (ce), italy. phone/fax 081.500.15.28 gcapar@libero.it disclosure the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article why we describe this case a surgical problem hid a hematological/internal medicine diagnosis. therefore a multidisciplinary management is very important to make the correct diagnosis introduction amyloidosis is a pathologic diagnosis characterized by extracellular deposition of insoluble protein fibrils in various organs and tissues. these proteins possess the ability to bind congo red stain and appear apple-green under polarized light [1,2]. there are two main forms of amyloidosis, primary amyloidosis (al) and secondary amyloidosis (aa). al amyloidosis is characterized by deposition of immunoglobulin light chains or their fragments, produced by a clonal population of plasma cells in the bone marrow as is in multiple myeloma (mm), monoclonal gammopathy of undetermined significance (mgus) and others plasma cells disorders. aa is characterized by deposition of amyloid in tissues secondary to chronic inflammatory diseases (rheumatoid arthritis, inflammatory bowel diseases) [3], chronic infections and neoplasms such as hodgkin lymphoma and renal cell carcinoma [4]. al amyloidosis is the most common type of systemic amyloidosis. clinical presentation of al amyloidosis is characterized by vague and non-specific symptoms. the organs frequently affected are kidney, heart, liver, autonomic nervous system, soft tissues, therefore the suspect diagnosis of al amyloidosis should be considered in patients with proteinuria, cardiomyopathy, neuropathy, hepatomegaly, macroglossia, endocrinopathies [5]. gastrointestinal involvement is common in al (70% of cases) and aa (55% of cases) amyloidosis [6]. systemic amyloidosis is a rare disease and the patients often present non-specific gastrointestinal symptoms: abdominal pain, gastrointestinal bleeding, pseudo-obstruction, diarrhea [3,7]. al amyloidosis diagnosis requires biopsy demonstration of amyloid deposits in tissues and particularly in periumbilical fat [8] and demonstration of plasma cell dyscrasia with bone marrow biopsy, electrophoresis and immunofixation in the serum and urine; additionally serum free light chain assay is important in diagnosis, monitoring and prognosis of al amyloidosis [9]. we report a case of al amyloidosis with gastric and small bowel involvement on a patient who was unknown mm. case report a 78-year-old woman was admitted to our hospital on september 2014 with a history of abdominal pain and clinical signs of intestinal occlusion. laboratory tests showed a mild normochromic normocytic anemia, a reduction of total proteins and cholinesterases (table i). parameter values detected normal values hemoglobin (g/dl) 11.6 12-17 total proteins (g/dl) 5.4 6.4-8.3 cholinesterases (ui/l) 3890 4,700-14,000 table i. first laboratory tests: main results electrocardiography showed voltage reduction in all derivations; ct scan abdomen showed dilatation of small bowel with mesenteric edema and the patient was taken to the operating room. laparotomy exploratory revealed a dilatation of small bowel with mesenteric edema by pseudo-obstruction and gastric mass suspected to be of neoplastic etiology. partial gastrectomy was performed and patient was referred in chirurgic division. histological examination showed deposition of eosinophilic material in gastric mucosa, submucosa and muscularis mucosae. the deposit had an apple-green birefringence by congo red stain under polarized light. the diagnosis of amyloidosis was made. periumbilical fat biopsy confirmed systemic amyloidosis diagnosis. hematologists were consulted and various examinations were executed, revealing the presence in urine of bence jones protein–k chains (table ii). serum protein electrophoresis showed hypogammaglobulinemia, no monoclonal component (table iii), while bone marrow fine-needle aspiration showed plasmacellular involvement rate in 40% of total cells. the final diagnosis was therefore a mm and systemic al. chemotherapy protocol vmp (bortezomib, melphalan, prednisone) was programmed but the patient died by cardiac failure, few days after mm diagnosis, before the therapy was started. parameter values detected normal values bence jones protein–k chains present absent igg-k/urine (mg/l) 2570 0-10 igg-l/urine (mg/l) 10.4 0-5 ratio k/l 247.1 0.7-6.2 table ii. urine tests: main results parameter values detected normal values gammaglobulin (g/dl) 0.22 0.80-1.35 igg (g/l) 3 7-16 iga (g/l) 0.5 0.7-4 igm (g/l) 4.0 0.4-2.3 beta2-microglobulin (mg/l) 2.4 0.2-2.3 table iii. serum protein electrophoresis: main results to suspect in patient with amyloidosis a mm we suggest to make a hematological examination in patients with amyloidosis diagnosis to exclude a mm or others plasma cell disorders; bone marrow fine-needle aspiration to make indispensable although monoclonal gammopathy absence discussion al amyloidosis rarely presents without systemic symptoms. the kidneys and heart are often involved, but the nervous system, lungs, liver, soft tissue and gastrointestinal tract can be involved. gastrointestinal involvement is common in al (70% of cases) and aa (55% of cases) amyloidosis [6]. pseudo-obstruction have been described in few patients with al and aa amyloidosis [10,11]. intestinal pseudo-obstruction is characterized by symptoms and signs of mechanical obstruction in the absence of any organic occlusion of the lumen. we report a case of small bowel pseudo-obstruction secondary to al amyloidosis in patient with unknown mm. intestinal pseudo-obstruction is caused by amyloid deposition in muscular or nervous tissue of gastrointestinal tract causing myopathy or neuropathy, respectively [10]. al amyloidosis is often associated with mm, smoldering multiple myeloma, mgus [12]. about 10% of al patients may have mm at the time of diagnosis and 30% of mm patients may have amyloid deposition at the time of diagnosis [13]. a patient with myeloma may have or develop al amyloidosis, but it is rare for a patient with al amyloidosis, who does not have myeloma at presentation, to progress in myeloma. in this case report the patient received occasionally diagnosis of amyloidosis and, after hematological examinations, a unknown mm was diagnosed. the intestinal obstruction was the first symptom of al in a patient who had a mm probably for some time and who subsequently developed amyloidosis. as reported in the literature [7,8], the onset of amyloidosis in a patient with mm is much more common than the contrary. early diagnosis and identification of the type of amyloidosis are critical in the care of patients with this disease, to allow the reversal of organ damage and a better tolerability of adverse effects of therapy. in conclusion, this case report and literature data suggest to perform a hematological examination in patients with amyloidosis diagnosis to exclude a mm or other plasma cell disorders; furthermore the importance of a multidisciplinary approach to the amyloidosis is confirmed. references 1. glenner gg. amyloid deposits and amyloidosis: the beta-fibrilloses. n engl j med 1980; 302: 1333-43; http://dx.doi.org/10.1056/nejm198006123022403 2. eastwood h, cole kr. staining of amyloid by buffered congo red in 50 percent ethanol. stain technol 1971; 46: 208-9; http://ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/4105512 3. falk rh, conenzo rl, skinner m. the systemic amyloidosis. n engl j med 1997; 337: 898-909; http://dx.doi.org/10.1056/nejm199709253371306 4. ogawa s, murakami t, inoshima y, et al. effect of heating on the stability of amyloid a (aa) fibrils and the intraand cross-species transmission of aa amyloidosis. amyloid 2015; 22: 236-43; http://dx.doi.org/10.3109/13506129.2015.1095735 5. merlini g, seldin dc, gertz ma. 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obiettivo era presente marcata splenomegalia, mentre l’emocromo mostrava leucocitosi marcata (gb 144.000/mm3) con presenza di forme immature e intermedie mieloidi allo striscio periferico. il paziente ha praticato quindi aspirato midollare che evidenzia iperplasia granuloblastica senza presenza di blasti all’esame microscopico, presenza del cromosoma philadelphia nel luigia luciano 1 introduzione imatinib rappresenta il trattamento di prima linea della leucemia mieloide cronica (lmc). nonostante gli ottimi risultati, una quota di pazienti sviluppa resistenza. in questi casi l’uso degli inibitori di seconda generazione, inibitori più potenti di imatinib, rappresenta una valida alternativa [1]. descriviamo qui il caso di un paziente giovane affetto da lmc che ha sviluppato resistenza ad imatinib per mutazione di bcr-abl, in attuale risposta ottimale dopo switch a nilotinib. caso clinico un paziente di 26 anni è giunto alla nostra osservazione nel giugno 2003 per riscontro di leucocitosi marcata, febbre e astenia. efficacia di nilotinib in paziente resistente a imatinib abstract imatinib, a bcr-abl inhibitor, is the standard of care for the first-line treatment of patients with chronic-phase cml. despite the optimal results, some patients develop resistance to imatinib. for these patients, the second-generation tyrosine kinase inhibitors represent effective therapeutic options. here, we describe a report about a young patient with cml developing resistance to imatinib due to bcr-abl kinase domain mutations. after six months of treatment with imatinib 400 mg daily, the patient had complete cytogenic response, while at 12 months he had a sub-optimal molecular response, that is a “warning” according to the european leukemianet guidelines (both 2006 and 2009). at 29 months, persisting the sub-optimal molecular response, we decided to increase the imatinib dose up to 800 mg daily. even after the dose escalation, the patient couldn’t achieve a major molecular response. therefore we subjected him to a mutation screening, that highlighted l248v mutation. after switching to nilotinib the patient has resulted in complete cytogenic response and major molecular response. keywords: chronic myeloid leukemia, imatinib resistance, bcr-abl mutations, nilotinib nilotinib efficacy in a patient resistant to imatinib cmi 2010; 4(suppl. 5): 15-18 1 ematologia. università federico ii, napoli corresponding author dott.ssa luigia luciano lulucian@unina.it caso clinico perché descriviamo questo caso? questo caso sottolinea l ’importanza di un attento follow up nei pazienti con lmc in modo da poter offrire loro il più rapidamente possibile un’alternativa terapeutica valida e conferma l ’efficacia di nilotinib nei pazienti resistenti con mutazioni disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5)16 efficacia di nilotinib in paziente resistente a imatinib 95% delle metafasi analizzate all’esame citogenetico, confermata dall’ibridazione in situ fluorescente (fish). l’analisi molecolare ha mostrato la presenza del trascritto ibrido bcr-abl di tipo b2/a2. il paziente riceve quindi diagnosi di leucemia mieloide cronica a basso rischio sokal e, dopo aver praticato citoriduzione con idrossiurea, inizia terapia con imatinib alla dose di 400 mg/die. dopo tre settimane di trattamento il paziente raggiunge la risposta ematologica completa, mentre la fish documenta la risposta citogenetica parziale dopo tre mesi di trattamento. a sei mesi dall’inizio di imatinib, il paziente ottiene la risposta citogenetica completa (ccyr), mentre a 12 mesi, in persistenza di ccyr, il paziente presenta   risposta molecolare sub-ottimale (ratio 1,2% is) che rappresenta un warning secondo le linee guida eln sia 2006 sia 2009. a 18 e 24 mesi, il paziente presenta ancora un trascritto ibrido bcr-abl con ratio 2,4% is che rappresenta sempre risposta sub-ottimale per quel time point come suggerito dalle linee guida eln. al mese +29 considerando la persistenza della risposta sub-ottimale molecolare, il paziente aumenta la dose giornaliera di imatinib ad 800 mg. tale dose risulta ben tollerata per cui il paziente continua tale dosaggio sino al mese +48 dall’inizio dalla terapia con imatinib. purtroppo però, al controllo dell’analisi molecolare persiste la risposta sub-ottimale (ratio 2,4%), sempre mantenendo la risposta citogenetica completa. a questo punto quindi viene effettuata la ricerca delle mutazioni del sito catalico del gene bcr-abl che mette in evidenza la presenza della mutazione l248v; viene anche misurato il livello plasmatico di imatinib che risulta nella norma. dopo i risultati dello screening mutazionale è apparso evidente che la dose escalation non poteva migliorare la risposta molecolare, per cui il paziente è stato arruolato nel protocollo enact. incidenza della risposta sub-ottimale molecolare a imatinib y è di circa il 20% y risposta sub-ottimale: significa che il paziente può ancora avere un beneficio nel continuare la terapia con imatinib, ma l ’outcome a lungo termine potrebbe non essere molto favorevole y in genere per questa categoria di pazienti è indicata come prima strategia l ’aumento di dose di imatinib y marin e collaboratori hanno applicato i criteri eln 2006 a 224 pazienti in fase cronica e hanno dimostrato che esiste una sovrapposizione dei criteri di failure e dei criteri di sub-optimal a 6 e 12 mesi [2] il paziente ha quindi iniziato il trattamento con nilotinib alla dose di 400 mg due volte al giorno. dopo tre mesi di trattamento il paziente ha praticato mielobiopsia. l’analisi citogenetica ha mostrato risposta completa, mentre l’analisi molecolare ha evidenziato ratio bcr-abl/abl di 0,1%, come da risposta molecolare maggiore. a sei mesi di trattamento il paziente, sempre in risposta citogenetica completa, ha mostrato un’ulteriore riduzione del trascritto bcr-abl che è risultato 0,01%. durante il trattamento, che il paziente pratica tuttora, non si è avuta evidenza di alcun effetto collaterale sia di tipo ematologico sia extra ematologico e nessuna alterazione dei parametri biochimici quali bilirubina, lipasi, amilasi, transaminasi. discussione il meccanismo più comune di resistenza a imatinib è rappresentato dalle mutazioni puntiformi di bcr-abl. l’avvento degli inibitori di seconda generazione disegnati proprio per superare tale resistenza ha rappresentato un ulteriore passo avanti nella cura della lmc. questi infatti, pur avendo come target primario sempre bcr-abl, presentano una più alta affinità per il sito catalitico in modo da legarsi in maniera più stabile al bcr-abl [1] . nilotinib quindi rappresenta un inibitore molto più potente rispetto a imatinib, con maggiore attività anche nei confronti della maggior parte delle mutazioni [3]. nilotinib si è dimostrato più potente di imatinib anche in vitro: è infatti da 10 a 30 volte più potente nel bloccare la proliferazione di linee cellulari bcr-abl dipendenti e da 10 a 20 volte più attivo nel ridurre l’autofosforilazione di bcr-abl. per la sua particolare conformazione biochimica, nilotinib presenta un’ottima interazione con il sito attivo del dominio chinasico e quindi maggiore potenza nei confronti di ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5) 17 l. luciano abl. inoltre, come imatinib, nilotinib lega la tasca idrofobica che è strutturalmente lontana dal sito di legame dell’atp, cosa che conferisce ad entrambi selettività [3,4] (tabella i). le raccomandazioni dell’european leukemianet suggeriscono i criteri per definire la risposta a imatinib [6]. come abbiamo documentato anche nel nostro caso, la risposta sub-ottimale molecolare (meno della risposta molecolare maggiore a 18 mesi dall’inizio del trattamento) deve sempre suggerire un attento follow up del paziente, evidentemente più prono a sviluppare resistenza, per poter intervenire precocemente [7]. numerosi lavori infatti suggeriscono come un passaggio precoce ad inibitori di seconda generazione possa dare in breve tempo risposte ottimali sia citogenetiche sia molecolari, garantendo una migliore sopravvivenza senza progressione di malattia (progression-free survival, pfs) di questi pazienti [4,8]. studi clinici su nilotinib ne hanno dimostrato l’efficacia nei confronti di quei pazienti che risultano resistenti a imatinib a causa di mutazioni, ottenendo un alto grado di risposte ematologiche, citogenetiche e molecolari, con un buon profilo di tollerabilità. nilotinib infatti inibisce numerosi mutanti di bcr-abl resistenti a imatinib (figura 1), in particolare quelli con un ic 50 < 150 nm, anche se gli studi di fase ii ne hanno dimostrato l’efficacia anche nei pazienti con mutazioni con ic 50 sconosciuto [9,10]. entrambi i gruppi di pazienti hanno ottenuto una risposta ematologica, citogenetica e molecolare paragonabile ai pazienti resistenti senza mutazioni, anche se il rate di progressione di malattia si è dimostrato un po’ più alto nei pazienti con mutazione. tabella i “targets” di imatinib, nilotinib e dasatinib (modificato da [5]) imatinib nilotinib dasatinib abl arg bcr-abl kit pdgfr ddr1 nqo2 abl arg bcr-abl kit pdgfr ddr1 nqo2 abl arg bcr-abl kit pdgfr src yes fyn lyn hck lck fgr blk frk csk btk tec bmx txk ddr1 ddr2 ack actr2b acvr2 braf egfr/erbb1 epha2 epha3 epha4 epha5 fak gak gck hh498/ tnni3k ilk limk1 limk2 myt1 nlk ptk6/brk qik qsk raf1 ret ripk2 slk stk36/ulk syk tao3 tesk2 tyk2 zak mutazioni in accordo con eln 2006, 2009 e altri report, lo screening mutazionale è raccomandato per i pazienti che presentano risposte sub-ottimali o failure a imatinib. inoltre negli ultimi anni è stato suggerito lo screening mutazionale anche per quei pazienti che presentano che un aumento della ratio di 1-2 log del trascritto, che può rappresentare il primo segno di resistenza acquisita figura 1 mutazioni presenti in pazienti con lmc in fase cronica resistente a imatinib nello studio di hughes e colleghi [10] ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(suppl. 5)18 efficacia di nilotinib in paziente resistente a imatinib nel nostro caso, il paziente presentava la mutazione l248v con ic 50 di circa 100  nm, quindi sensibile a nilotinib, come dimostrato peraltro dai risultati raggiunti. questo caso sottolinea l’importanza di un attento follow up nei pazienti con lmc in modo da poter offrire loro il più rapidamente possibile un’alternativa terapeutica valida e conferma l’efficacia di nilotinib nei pazienti resistenti con mutazioni. blood level test ragioni che suggeriscono oggi di praticare il dosaggio plasmatico di imatinib: y sospetto di non-aderenza alla terapia y sospetto di interazioni farmacologiche incidenza della resistenza a imatinib dovuta alla presenza di mutazioni l’incidenza della resistenza a imatinib dovuta a mutazioni riportata in letteratura in fase cronica è del 40-50%. questa percentuale aumenta nelle resistenze acquisite rispetto alle resistenze primarie e nella progressione di malattia rispetto alla fase cronica bibliografia 1. kantarjian hm, cortes j, la rosée p, hochhaus a. optimizing therapy for patients with chronic myelogenous leukemia in chronic phase. cancer 2010; jan 29 [epub ahead of print] 2. marin d, milojkovic d, olavarria e, khorashad js, de lavallade h, reid ag et al. european leukemianet criteria for failure or suboptimal response reliably identify patients with cml in early chronic phase treated with imatinib whose eventual outcome is poor. blood 2008; 112: 4437-44 3. swords r, mahalingam d, padmanabhan s, carew j, giles f. nilotinib: optimal therapy for patients with chronic myeloid leukemia and resistance or intolerance to imatinib. drug des devel ther 2009; 3: 89-101 4. breccia m, alimena g. nilotinib: a second-generation tyrosine kinase inhibitor for chronic myeloid leukemia. leuk res 2010; 34: 129-34 5. hantschel o, rix u, superti-furga g. target spectrum of the bcr-abl inhibitors imatinib, nilotinib and dasatinib. leuk lymphoma 2008; 49: 615-9 6. baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, saglio g, apperley j, et al; european leukemianet. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51 7. fava c, kantarjian h, cortes j, jabbour e. development and targeted use of nilotinib in chronic myeloid leukemia. drug des devel ther 2009; 2: 233-43 8. osborn m, hughes t. managing imatinib resistance in chronic myeloid leukaemia. curr opin hematol 2010; 17: 97-103 9. hochhaus a, kim dw, martinelli g, hughes tp, soverini s, branford s et al. nilotinib efficacy according to baseline bcr-abl mutations in patients with imatinib-resistant chronic myeloid leukemia in chronic phase (cml-cp). blood 2008; 112: abstr 3216 10. hughes t, saglio g, branford s, soverini s, kim dw, müller mc, et al. impact of baseline bcr-abl mutations on response to nilotinib in patients with chronic myeloid leukemia in chronic phase. j clin oncol 2009; 27: 4204-10 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3) 19 clinical management issues l’esame emocromocitometrico evidenzia anemia (hb 11,2 g/dl) normo microcitica (mcv 82fl), piastrine nella norma (166.000/mm3) caso clinico un paziente di sesso maschile di 33 anni, con anamnesi patologica remota e prossima prive di patologie degne di nota, donatore abituale di sangue, viene alla nostra attenzione nel gennaio 2009 per una leucocitosi marcata (133.000 wbc/mm3), riscontrata in corso di effettuazione di esami di screening pre-donazione. il paziente ha un’altezza di 1,88m ed un peso di 140 kg. l’anamnesi familiare evidenzia diabete mellito insulino-dipendente nel padre. l’anamnesi fisiologica descrive un operaio in azienda di materiale plastico, non fumatore, modico bevitore occasionale di vino ai pasti. l’esame obiettivo risulta negativo, in particolare con assenza di epatosplenomegalia (milza all’arco costale). l’ecografia addome mostra un diametro splenico di 194 mm. corresponding author dott. paolo danise p.danise@libero.it caso clinico abstract here we describe a case of a young patient with chronic myeloid leukemia at low risk, according to the sokal index. after cytoreduction with hydroxyurea, the patient started imatinib at standard dose (400 mg/day) obtaining a minor cytogenetic response (ph+ 42.5%) after six months of treatment.considering the low imatinib concentration evaluated with the blood level testing, we increased the dose of imatinib at 600 mg/day. after about 3 months treatment the patient presented a partial cytogenetic response (ph+ 30%). therefore he was considered suboptimal responder according to european leukemianet (eln) recommendations 2006. for this reason he switched to second generation tyrosine kinase inhibitor nilotinib, at dose 800 mg/die. after switching to nilotinib the patient reached complete cytogenic response and major molecular response, maintained until last molecular evaluation.this kind of patient shows a different response for imatinib and nilotinib, whereas nilotinib therapy has shown to be safe and efficacy. keywords: chronic myeloid leukemia; sub-optimal response; imatinib; nilotinib different response to imatinib and nilotinib in relationship with the time of administration cmi 2011; 5(suppl 3): 19-23 1 dipartimento di oncoematologia, p.o. umberto i, nocera inferiore, asl salerno paolo danise 1 differente risposta a imatinib e nilotinib in relazione al tempo di somministrazione perché descriviamo questo caso il paziente in questione ha presentato, in assenza di fattori di rischio evidenziabili, una sostanziale mancanza di risposta a imatinib, contrapposta a una risposta rapida e ottimale a nilotinib, da un punto di vista sia citogenetico sia molecolare. il comportamento osservato lascia ipotizzare che esistano condizioni che a priori differenzino un sottogruppo di pazienti i quali, in relazione a fattori ancora da indagare, rendano necessario un approccio terapeutico con nilotinib in prima linea disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. mailto:p.danise@libero.it ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3)20 differente risposta a imatinib e nilotinib in relazione al tempo di somministrazione trascritto. tale risultato è confermato anche al nono mese di terapia. viene effettuato il dosaggio plasmatico di imatinib che mostra una concentrazione di 430 ng/ml, valore inferiore a quello del valore ritenuto soddisfacente di 1060 ng/ml. certi dell’adeguata compliance alla assunzione del farmaco e considerando il paziente come un possibile slow-responder, si decide un incremento di dose di imatinib con un primo step a 600 mg/die. dopo 60 giorni dalla dose-escalation viene determinato nuovamente il dosaggio plasmatico di imatinib il cui valore risulta di 2260 ng/ml. al 12° mese dall’inizio della terapia con imatinib si rivaluta il paziente, che mostra ancora la persistenza del cromosoma philadelphia nel 30% di metafasi 46,xy,t(9;22) (q34;q11) (risposta citogenetica parziale), con i livelli di trascritto invariati. i dati ottenuti confermano la persistenza della risposta sub-ottimale. a questo punto viene effettuata la ricerca delle mutazioni nel sito catalitico del gene bcr-abl che risulta negativa. alla luce dell’elevata percentuale di persistenza del cromosoma philadelphia, della variabilità analitica collegata alla osservazione di 20 metafasi, dell’età del paziente e delle raccomandazioni eln che autorizzano l’utilizzazione di un inibitore di tirosin-chinasi di seconda generazione in caso di risposta sub-ottimale, si effettua switch terapeutico a nilotinib 800 mg/die. dopo tre mesi di trattamento l’esame citogenetico mostra remissione citogenetica completa e risposta molecolare con ratio bcr-abl/ablis di 0,114. e leucocitosi (wbc 150.200/mm3). l’esame morfologico dello striscio periferico evidenzia: blasti 1%, mielociti 15%, metamielociti 14%, neutrofili 60%, eosinofili 0%, basofili linfociti 10% . l’esame morfologico del midollo osseo evidenzia ipercellularità con iperplasia mieloide a normale progressione maturativa, lieve ipoplasia eritroide (5%), blasti < all’1%. l’esame citofluorimetrico del midollo osseo evidenzia 1,34% di cellule cd34+. la citogenetica dimostra 100% di metafasi 46,xy,t(9;22)(q34;q11). la biologia molecolare dimostra riarrangiamento bcr/abl tipo b2/a2 codificante per proteina tipo p 210. il paziente riceve quindi diagnosi di leucemia mieloide cronica a basso rischio sokal (0,6). percorso terapeutico il paziente effettua un breve ciclo terapeutico di citoriduzione con idrossiurea (1,5 g/die per 10 giorni) e quindi inizia terapia con imatinib al dosaggio raccomandato di 400 mg/die. al sesto mese di terapia viene effettuata rivalutazione midollare che mostra persistenza del cromosoma philadelphia nel 42,5% di metafasi 46,xy,t(9;22)(q34;q11) (risposta citogenetica minore), indice di una risposta sub-ottimale secondo le raccomandazioni dell’european leukemianet (eln) 2009 [1] (tabella i). l’analisi molecolare in rqpcr non mostra variazioni significative del risposta ottimale (non definita precedentemente) risposta subottimale fallimento warnings baseline na na na alto rischio cca/ph+ 3 mesi chr e almeno mcyr (ph+ ≤ 65%) no cyr (ph+ > 95%) 35%) no cyr (ph+ > 95%) na 12 mesi ccyr pcyr (ph+ 1-35%) 35%) < mmolr 18 mesi mmolr < mmolr < ccyr na qualsiasi momento nel corso della terapia mmolr stabile o in miglioramento perdita di mmolr mutazioni* perdita di chr perdita di ccyr mutazioni** cca/ph+ aumento nei livelli di trascritto cca/ph– tabella i raccomandazioni dell ’european leukemianet (eln) 2009 confrontate con quelle del 2006 (in grassetto le aggiunte eln 2009) cca = clonal chromosome abnormalities; ccyr = risposta citogenetica completa; chr = risposta ematologica completa; cyr = risposta citogenetica; hr = risposta ematologica; mcyr = risposta citogenetica minore; mmolr = risposta molecolare maggiore; na = non applicabile; pcyr = risposta citogenetica parziale * bassi livelli di insensibilità a imatinib ** alta insensibilità a imatinib ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3) 21 p. danise dei valori plasmatici stessi (2260 ng/ml). i dati di letteratura ci suggeriscono che la dose escalation di imatinib (intesa sia come 600 mg/die che 800 mg/die) in alcuni pazienti sembra essere efficace a breve tempo [5], ma non a lungo termine, dove sembra che la maggior parte dei pazienti perdano i benefici acquisiti in precedenza [6,7]. inoltre i dati di kantarjian e colleghi [8] indicano che in 226 pazienti resistenti o intolleranti a imatinib, dopo due anni di trattamento con a sei mesi dall’inizio di terapia con nilotinib si è ottenuta la risposta molecolare maggiore (ratio bcr-abl/ablis 0,071). a nove mesi la risposta molecolare maggiore è mantenuta (ratio bcr-abl/ablis 0,066) (figure 1 e 2). il paziente, ancora oggi in trattamento, tollera la terapia con nilotinib senza alcuna tossicità ematologica e/o non ematologica. discussione il paziente ha iniziato terapia standard con imatinib in assenza di fattori di rischio addizionali evidenti (età, comorbidità, sokal, anomalie citogenetiche aggiuntive). dopo 6 mesi di terapia si è stabilito un quadro di “risposta sub-ottimale”, caratterizzato da risposta citogenetica minore e assenza di variazioni di trascritto. l’incidenza di risposta sub-ottimale secondo le definizioni delle european leukemia net guidelines del 2006 [1] è circa del 20%. attualmente mancano studi prospettici in cui si valuta la possibile evoluzione di tali risposte. quintas-cardama e colleghi [2] nel 2009 hanno dimostrato in 258 pazienti che quelli che non raggiungono la risposta citogenetica completa (rcc) e risposta molecolare possono sì migliorare la loro risposta continuando il trattamento con imatinib, ma con un aumentato rischio di progressione: la probabilità di raggiungere la rcc ad ogni singolo time point (3, 6, 12 mesi) decresce, mentre aumenta la probabilità di progredire. il caso descritto ci apre il mondo della “zona grigia” dei pazienti sub-ottimali, dove la risposta sub-ottimale è considerata come la “zona di transizione per natura” [3,4] e in questo ambito l’algoritmo di trattamento per tali pazienti non è ancora stato delineato. tuttavia la prima opzione terapeutica è la dose escalation di imatinib, oppure il cambio ad un inibitore tirosin-chinasi di seconda generazione. inoltre, in merito a tali pazienti, sappiamo che devono essere strettamente sorvegliati perché potrebbero essere slow-responders e successivamente diventare ottimali oppure diventare resistenti. nel caso del nostro paziente lo stato sub-ottimale si è confermato persistente a 12 mesi, nonostante l’incremento di dose a 600 mg/die susseguente al riscontro di valori bassi di concentrazione plasmatica di farmaco (430 ng/ml), e sebbene l’incremento abbia comportato un notevole aumento figura 2 variazioni trascritto bcr/abl imatinib/ nilotinib nel tempo figura 1 variazioni ph+ imatinib/nilotinib nel tempo nilotinib al dosaggio di 800 mg/die, il 58% dei pazienti (che era già in risposta ematologica completa) raggiungeva la rcc. quindi ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3)22 differente risposta a imatinib e nilotinib in relazione al tempo di somministrazione con risposta sub-ottimale sono una classe di pazienti eterogenei, e possono essere i candidati per un intervento terapeutico precoce. il raggiungimento della rcc è il primo step per il raggiungimento della risposta molecolare: l’ottenere una risposta molecolare maggiore significa una lunga durata di una rcc e una maggiore pfs (progression free survival) [10]. la risposta molecolare maggiore impatta quindi sull’outcome a lungo termine, il suo raggiungimento è associato a una efs a 12 mesi del 90% rispetto a un rate del 60% vs coloro che non la raggiungono. tale dato è confermato a 18 mesi con efs del 95% per i pazienti in risposta ottimale secondo le linee guida eln rispetto al 60% dei pazienti sub-ottimali [11]. nilotinib è un inibitore tirosin-chinasi di seconda generazione più potente e selettivo di imatinib. i legami a idrogeno di imatinib sono stati sostituiti da interazioni lipofiliche, evidenziando una sua minore mutagenicità [12]. in conclusione, nel caso del nostro paziente con risposta sub-ottimale a 12 mesi, nilotinib si è dimostrato efficace e rapido nell’ottenere una risposta ottimale (risposta citogenetica e risposta molecolare maggiore dopo solo tre mesi di terapia). in base a questa esperienza è possibile ipotizzare un impiego precoce di tale inibitore in pazienti con queste caratteristiche. il passaggio a una seconda linea con tki di seconda generazione è sembrato essere la strategia terapeutica migliore. in precedenza marin e colleghi [3] hanno dimostrato come, applicando i criteri eln, vi sia una sovrapposizione in termini prognostici nelle definizioni di risposta sub-ottimale a 6 e 12 mesi con i criteri di fallimento. i pazienti che a 12 mesi non sono in rcc hanno un alto rischio di progressione e come tali sono dei buoni candidati per uno switch terapeutico anche se per le linee guida sono considerati sub-ottimali [2]. alvarado e colleghi [4] hanno osservato in 281 pazienti trattati con dosaggio standard o con alte dosi di imatinib, che, indipendentemente dal rischio sokal, l’incidenza di risposta sub-ottimale a 6, 12, e 18 mesi risulta essere del 4%, 8% e 40%. i pazienti che a 6 mesi sono in risposta sub-ottimale hanno una probabilità di raggiungere la risposta citogenetica completa del 30% vs il 97% di quelli che sono in risposta ottimale. inoltre la efs (event free survival) e la tfs (transforming free survival) sono simili ai pazienti considerati failure allo stesso time point. i pazienti che a 12 mesi sono sub-ottimali hanno una tfs simile ai pazienti con risposta ottimale, ma una peggiore efs; a 18 mesi i pazienti con risposta sub-ottimale hanno un outcome simile ai pazienti ottimali. risultato simile osservato anche da breccia e collaboratori [9]. questi risultati ci indicano che i pazienti bibliografia 1. baccarani m, cortes j, pane f, niederwieser d, saglio g, apperley j et al. chronic myeloid leukemia: an update of concepts and management recommendations of european leukemianet. j clin oncol 2009; 27: 6041-51 2. quintás-cardama a, kantarjian h, jones d, shan j, borthakur g, thomas d et al. delayed achievement of cytogenetic and molecular response is associated with increased risk of progression among patients with chronic myeloid leukemia in early chronic phase receiving high-dose or standard-dose imatinib therapy. blood 2009; 113: 6315-21 3. marin d, milojkovic d, olavarria e, khorashad js, de lavallade h, reid ag et al. european leukemianet criteria for failure or suboptimal response reliably identify patients with cml in early chronic phase treated with imatinib whose eventual outcome is poor. blood 2008; 112: 4437-44 4. alvarado y, kantarjian h, o’brien s, faderl s, borthakur g, burger j et al. significance of suboptimal response to imatinib, as defined by the european leukemianet, in the long-term outcome of patients with early chronic myeloid leukemia in chronic phase. cancer 2009; 115: 3709-18 5. jabbour e, kantarjian hm, jones d, shan j, o’brien s, reddy n et al. imatinib mesylate dose escalation is associated with durable responses in patients with chronic myeloid leukemia after cytogenetic failure on standard-dose imatinib therapy. blood 2009; 113: 2154-60 6. rea d, etienne g, corm s, cony-makhoul p, gardembas m, legros l et al. imatinib dose escalation for chronic phase-chronic myelogenous leukemia patients in primary suboptimal response to imatinib 400mg daily standards therapy. leukemia 2009; 23: 1193-96 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 3) 23 p. danise 7. breccia m, stagno f, vigneri p, latagliata r, cannella l, del fabro v et al. imatinib dose escalation in 74 failure or suboptimal response chronic myeloid leukemia patients at 3-year follow-up. am j hematol 2010; 85: 375-7 8. kantarjian hm, giles fj, bhalla kn, pinilla-ibarz j, larson ra, gattermann n et al. update on imatinib-resistant chronic myeloid leukemia patients inn chronic phase on nilotinib therapy at 24 months: clinical response, safety, and long-term outcomes. blood (ash annual meeting abstracts) 2009; 114: 1129 9. breccia m, orlandi s, latagliata r, grammatico s, diverio d, mancini m et al. suboptimal response to imatinib according to 2006-2009 european leukemianet criteria: a “grey zone” at 3, 6, 12 months identifies chronic myeloid leukemia patients who need early intervention. br j haematol 2011; 152: 119-21 10. kantarjian h, o’brien s, shan j, huang x, garcia-manero g, faderl s et al. cytogenetic and molecular responses and outcome in chronic myelogenous leukemia: need for new response definitions? cancer 2008; 112: 837-45 11. hughes tp, hocchaus a, brandford s, muller mc, foroni l, druker bj et al. reduction of bcr-abl transcript levels at 6,12,18 months (mo) correlates with long-term outcomes on imatinib (im) at 72 mo: an analysis from the international randomized study of interferon versus sti571 (iris) in patients (pts) with chronic phase chronic myeloid leukemia (cml-cp). blood (ash annual meeting abstracts) 2008; 112: 334 12. breccia m, alimena g. nilotinib therapy in chronic myelogenous leukemia: the strength of high selectivity on bcr/abl. curr drug targets 2009; 10: 530-6 quesiti terapeutici in corso di leucemia mieloide cronica bruno martino 1 efficacia di nilotinib in un paziente ricaduto dopo 9 anni di terapia con imatinib e in risposta citogenetica completa stabile marzia defina 1 efficacia e sicurezza di nilotinib, dopo risposta sub-ottimale a imatinib, in paziente con leucemia mieloide cronica e tachicardia parossistica sopraventricolare stefana impera 1, ugo consoli 1, giuseppina uccello 1, patrizia guglielmo 1 differente risposta a imatinib e nilotinib in relazione al tempo di somministrazione paolo danise 1 rapida e duratura risposta molecolare con nilotinib in una paziente in risposta sub-ottimale a imatinib mario annunziata 1 15 alfredo butera 1 caso clinico il paziente che si presenta alla nostra osservazione è un uomo di 63 anni, con diploma di scuola media superiore, pensionato della pubblica amministrazione, fumatore di circa 20 sigarette al dì e padre di tre figli. ha normali abitudini alimentari e non presenta disturbi alle normali funzioni fisiologiche. all’anamnesi patologica remota emergono i seguenti dati: y da 10 anni è portatore di un aneurisma dell’aorta addominale sottorenale e dell’arteria iliaca comune destra; y soffre di diabete mellito da cinque anni; è in trattamento con ipoglicemizzanti orali. nel dicembre 2003, per il persistere di algie alla base dell’emitorace di destra, il paziente esegue una rx del torace che evidenzia una neoformazione, di sospetta natura neoplastica, alla base del polmone di destra. una tc del 22 dicembre 2003 riporta il seguente referto: «nel lobo polmonare infeterapia protratta con octreotide lar nel carcinoma neuroendocrino a larghe cellule del polmone abstract in this article we report a case of a patient with large cell neuroendocrine carcinoma (lcnec) of the lung. patients with lcnec usually have poor prognosis and the benefit of adjuvant chemotherapy for these patients has not been fully established. this case suggests that octreotide lar, a somatostatine analogue (ssa), can be useful in the treatment of neuroendocrine carcinoma also as maintenance therapy in association with chemotherapy. further studies, regarding individual tumour biological behaviour and ssas optimal dosage, could be useful to optimise treatment and to add new insights into the mechanisms of action and the role of ssas in the therapy of nets. keywords: octreotide lar, large cell neuroendocrine carcinoma (lcnec) of the lung long lasting octreotide lar therapy in large cell neuroendocrine carcinoma (lcnec) of the lung cmi 2010; 4(suppl. 1): 15-18 1 u.o.c di oncologia medica. azienda ospedaliera s. giovanni di dio, agrigento corresponding author dott. alfredo butera e-mail: butera.alfredo@tiscali.it caso clinico riore di destra formazione espansiva solida, disomogenea, a margini policiclici, con diametri di circa 6,5 x 7 cm che si addossa alla pleura margino costale posteriore senza versamento pleurico […]. alcuni linfonodi di circa 1 cm sono presenti in sede ilare destra e sottocarenale […]. presenza di millimetrico nodulo periferico, subpleurico in corrispondenza del segmento laterale del lobo medio. perché descriviamo questo caso? il carcinoma neuroendocrino a larghe cellule del polmone è una patologia rara per la cui gestione esistono scarse indicazioni dalla letteratura. il caso desidera quindi fornire un esempio di gestione di tale patologia in cui l ’impiego di octreotide lar in associazione con la chemioterapia ha consentito un buon controllo dei sintomi disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 16 terapia protratta con octreotide lar nel carcinoma neuroendocrino a larghe cellule del polmone aumento volumetrico del surrene di sinistra di non sicura origine metastatica. nulla da segnalare in sede polmonare sinistra, negli organi viscerali addominali e nell’encefalo». in data 13 gennaio 2004 il paziente viene sottoposto a un intervento chirurgico di toracotomia destra con lobectomia inferiore, linfoadenectomia ilo-mediastinica e resezione atipica del lobo polmonare medio per asportare due noduli metastatici presenti a livello del lobo medio e visualizzati in corso di intervento. l’esame istologico eseguito in tale occasione evidenzia «carcinoma non small a grandi cellule di cm 8,5 di asse maggiore a sede subpleurica e peribronchiale; 26 linfonodi ilomediastinici esaminati erano sede di iperplasia linfatica reattiva». il malato viene sottoposto a trattamento chemioterapico post-chirurgico con gemcitabina 1.000 mg/mq giorno 1 e giorno 8 e vinorelbina 25 mg/mq giorno 1 e giorno 8 ogni 21 giorni. dopo 4 cicli, una tc del 7 giugno 2004 evidenzia una recidiva polmonare ovalare di cm 3,5 lungo la pleura diaframmatica e quella costo-mediastinica destra, contraente stretti rapporti con l’esofago e l’atrio sinistro; in sede sottocarenale si evidenziava un linfonodo di 3 x 2 cm di diametro. l’indagine pet conferma, con una ipercaptazione con suv di 8,5 cm, le sedi di malattia. in considerazione della precoce ricaduta della malattia, viene eseguita una revisione dei vetrini istologici. tale analisi determina un cambiamento radicale del progetto terapeutico in quanto il risultato di tale revisione è stato di «carcinoma polmonare a grandi cellule neuroendocrino, molto attivo mitoticamente (fino a 7 mitosi in un unico campo ad alto ingrandimento)». per tale motivo il paziente inizia un nuovo trattamento chemioterapico con carboplatino auc 5 giorno 1 ed etoposide 100 mg/ mq giorni 1, 2, 3 ogni tre settimane. dopo 4 cicli di tale trattamento viene eseguita una tc di rivalutazione (il 14 settembre 2004), che evidenzia una remissione parziale della malattia con dimezzamento dei diametri delle due lesioni note; la pet si è negativizzata. il paziente ha proseguito il trattamento chemioterapico per altri 4 cicli ottenendo un’ulteriore riduzione volumetrica delle lesioni sempre con pet negativa. alla fine del trattamento chemioterapico (otto cicli) viene iniziata, nel gennaio 2005, la terapia con octreotide lar, dopo terapia di induzione; viene quindi eseguito un follow-up semestrale che evidenzia un quadro clinico strumentale invariato (che è rimasto invariato a tutt’oggi). in particolare il paziente gode di un buon performance status; nonostante la terapia con octreotide lar sia ormai protratta da quattro anni, non si sono verificati effetti collaterali. non sono presenti disturbi del metabolismo glucidico, né alterazione delfigura 1 probabile meccanismo d ’azione di octreotide a livello dei sistemi ras-raf-mekerk e pi3k-aktmtor. in particolare octreotide sembra agire sull ’attività degli enzimi erk e ampk, come evidenziato dai due segni “?”. modificata da [1] 70s6k, =70 kda s6 protein kinase; akt/pkb = protein kinase b; ampk = ampactivated protein kinase; erk = extracellular signalregulated kinases; mapk = mitogenactivated protein kinase; mek = mapk/erk kinase; mtor, = mammalian target of rapamycin; pi3k = phosphoinositide-3-kinase; pkc = protein kinase c; rheb = ras homologue enriched in brain; rsk = p90 ribosomal s6 kinase ras raf mek 1/2 erk 1/2octreotide ? cell proliferation and growth tumorigenesis cpkc pi3k akt/pkb tuberin rheb 1/2 apoptosis amkb amp atp octreotide ? mtor p706sk rsk 1/2 ↑ tyrosine kinase receptor (cell membrane) clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 17 a. butera la densità biliare. le tc successivamente eseguite sono sempre risultate stazionarie (persistono le due lesioni note di circa 2 cm) e le pet sono sempre negative. in assenza di dati scientifici, dopo discussione con il paziente sull’opportunità di proseguire la terapia, visto il lungo periodo di tempo intercorso, si è ottenuto il consenso alla prosecuzione del trattamento. discussione una non precisa definizione istologica di una neoplasia condiziona le scelte terapeutiche che possono rivelarsi inadeguate e compromettere il risultato atteso. oggi più che mai, con l’avvento delle terapie target, è necessaria una descrizione sempre più dettagliata degli aspetti istobiologici di una neoplasia polmonare che condizionano le strategie terapeutiche. nel trattamento dei tumori neuroendocrini il sistema rasraf-mek-erk (mitogen activated protein kinase, mapk) e il sistema pi3k-aktmtor rappresentano dei target molecolari promettenti su cui agire come trattamento. octreotide, un analogo della somatostatina, sembra agire su tali percorsi metabolici, così come mostrato in figura 1 [1]. il ruolo di octreotide lar nella gestione dei tumori neuroendocrini (net) è del resto emerso da svariati studi [2], come riassunto in tabella i [3]. in particolare la terapia con analoghi della somatostatina può risultare molto utile per il miglioramento della sintomatologia e dei parametri biochimici. nonostante la maggior parte degli studi riguardino pazienti con net gastroenteropancreatici, l’impiego del farmaco sembra poter essere esteso anche alle neoplasie neuroendocrine polmonari, come nel caso del nostro paziente. le neoplasie neuroendocrine polmonari sono una patologia oncologica rara, traggono origine dalle cellule neuroendocrine della mucosa bronchiale e possono mostrare un comportamento clinico e biologico molto vario. la classificazione della world health organization dei net polmonari include i carcinoidi tipici di grado basso, i carcinoidi atipici di grado intermedio, i carcinoidi a piccole cellule di grado elevato e i carcinomi neuroendocrini a grandi cellule [8]. l’efficacia di octreotide nel trattamento dei carcinoidi bronchiali è prevalentemente sintomatica [9]; è stato tuttavia rilevato che possa avere un ruolo se impiegata in associazione con la chemioterapia [10]. ad esempio yao e colleghi hanno recentemente pubblicato i risultati di uno studio di fase ii che hanno evidenziato una sinergia tra everolimus e octreotide nel trattamento dei net in stadio avanzato [11]. l’utilità di octreotide nei trattamenti biologici dei tumori neuroendocrini anche per il mantenimento di una risposta alla chemioterapia viene evidenziata anche nel caso qui illustrato, nel quale la terapia con octreotide è stata mantenuta per molto tempo, causando un sollievo dai sintomi nel paziente e senza effetti collaterali di rilievo. ulteriori studi potrebbero quindi essere utili per ottimizzare l’impiego degli analoghi della somatostatina negli specifici pazienti, definendo i dosaggi ottimali anche sulla base della progressione del tumore, chiarendo nel contempo il loro meccanismo d’azione. rimane inoltre aperta la domanda su quanto debba durare una terapia di mantenimento, anche a causa della mancanza di studi ad hoc sull’argomento. tabella i studi clinici relativi all ’efficacia di octreotide lar nei nets [3] cr = complete response; ct= carcinoid tumor; ept = endocrine pancreatic tumors; oct = octreotide; pr = partial response; sd = stable disease studio n. pazienti dose risposta sintomatologica (%) risposta biochimica (%) risposta tumorale (%) sd pr cr br sd pr cr garland [4] 27 (13 con prima oct sc) 20-30 mg q 28 d 77 (prima oct sc) 92,8 (oct naïve) 31 19 12,5 31 ricci [5] 15 (7 ct, 8 ept) 20 mg q 28 d 75 33 8 33 41 40 7 0 rubin [6] 18 15 22 10 mg 20 mg q 28 d 30 mg 66,7 71,4 61,9 tomassetti [7] 16: 10 ct 20 mg q 28 d 87,5 90 100 87,5 clinical management issues 2010; 4(suppl. 1) ©seed tutti i diritti riservati 18 terapia protratta con octreotide lar nel carcinoma neuroendocrino a larghe cellule del polmone bibliografia 1. grozinsky-glasberg s, shimon i, korbonits m, grossman ab. somatostatin analogues in the control of neuroendocrine tumours: efficacy and mechanisms. endocrine-related cancer 2008; 15: 701-20 2. verslype c, carton s, borbath i, delaunoit t, demetter p, demolin g et al. the antiproliferative effect of somatostatin analogs: clinical relevance in patients with neuroendocrine gastro-enteropancreatic tumours. acta gastroenterol belg 2009; 72: 54-8 3. modlin im, pavel m, kidd m, gustafsson bi. review article: somatostatin analogs in the treatment of gastro-entero-pancreatic neuroendocrine (carcinoid) tumors. aliment pharmacol ther 2009 oct 21 [epub ahead of print] 4. garland j, buscombe jr, bouvier c, bouloux p, chapman mh, chow ac et al. sandostatin lar (long-acting octreotide acetate) for malignant carcinoid syndrome: a 3-year experience. aliment pharmacol ther 2003; 17: 437-44 5. ricci s, antonuzzo a, galli l, ferdeghini m, bodei l, orlandini c et al. octreotide acetate long-acting release in patients with metastatic neuroendocrine tumors pretreated with lanreotide. ann oncol 2000; 11: 1127-30 6. rubin j, ajani j, schirmer w, venook ap, bukowski r, pommier r et al. octreotide acetate long-acting formulation versus open-label subcutaneous octreotide acetate in malignant carcinoid syndrome. j clin oncol 1999; 17: 600-6 7. tomassetti p, migliori m, corinaldesi r, gullo l. treatment of gastroenteropancreatic neuroendocrine tumours with octreotide lar. aliment pharmacol ther 2000; 14: 557-60 8. beasley mb, brambilla e, travis wd. the 2004 world health organization classification of lung tumors. seminars in roentgenology 2005; 40: 90-7 9. granberg d, eriksson b, wilander e, grimfjard p, fjallskog ml, oberg k et al. experience in treatment of metastatic pulmonary carcinoid tumors. ann oncol 2001; 12: 1383-91 10. srirajaskanthan r, toumpanakis c, meyer t, caplin me. review article: future therapies for management of metastatic gastroenteropancreatic neuroendocrine tumours. aliment pharmacol ther 2009; 29: 1143-54 11. yao jc, phan at, chang dz, wolff ra, hess k, gupta s et al. efficacy of rad001 (everolimus) and octreotide lar in advanced lowto intermediate-grade neuroendocrine tumors: results of a phase ii study. j clin oncol 2008; 26: 4311-8 terapia con octreotide in una paziente affetta da microcitoma polmonare (sclc) daniela adua1, bruno gori1, luciano stumbo1, ester del signore1, flavia longo1 caso clinico efficacia della terapia con analoghi della somatostatina sulla sopravvivenza e qualità di vita in una paziente “frail” con net scarsamente differenziato delle vie biliari marco alì 1, antonino d’agostino 2, alfio todaro 2, andrea girlando 2, marcello ferrara 3, rosanna aiello 1 caso clinico terapia protratta con octretide acetato lar nel carcinoma neuroendocrino a larghe cellule del polmone alfredo butera 1 caso clinico un caso di neoplasia endocrina non funzionante del pancreas trattato con analogo della somatostatina ivan lolli1, antonio logroscino1, simona vallarelli1, maria a. monteduro2, antonella gentile1, giuseppe troccoli1 caso clinico trattamento del microcitoma del polmone con differenziazione neuroendocrina nel paziente anziano alessandra bearz 1, arben lleshi 1, lucia fratino 1, silvia venturini 1, massimiliano berretta 1, umberto tirelli 1 cmi 2016;10(3)69-72.html la formazione in emergenza-urgenza: più ombre che luci mauro mennuni 1 1 responsabile uos utic ospedale parodi delfino, colleferro, roma. responsabile nazionale corsi anmco intermediate life support training in emergency and urgent care settings: more shadows than lights cmi 2016; 10(3): 69-72 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v10i3.1239 editorial corresponding author mauro mennuni mauromennuni@tiscali.it disclosure l'autore ha pubblicato con seed il volume "manuale per la gestione dell'arresto cardiaco".   nel 1918, una circolare del ministero dei trasporti marittimi e ferroviari imponeva alla capitanerie di porto del regno d’italia di fare obbligo a tutto il personale addetto agli stabilimenti balneari di comprovare l’idoneità nel nuoto, nella pratica del primo soccorso e della respirazione artificiale. non era emessa alcuna normativa riguardante il personale medico e infermieristico riguardante il soccorso vitale. il 14 aprile 2012, al 31° minuto della partita pescara livorno del campionato di serie b, si accasciava a terra piermario morosini. moriva a 26 anni per arresto cardiaco presumibilmente dovuto a fibrillazione ventricolare. era aperta un’inchiesta a carico dei medici sportivi e del soccorso territoriale per il mancato uso del defibrillatore (disponibile, ma non usato!), previsto dalla procedura di pronto intervento. in realtà, ancora nel 2016, non esiste in italia una legislazione o regolamentazione che obblighi o favorisca la formazione del personale medico e infermieristico nella rianimazione cardiopolmonare. tale formazione è lasciata alla discrezionalità dei singoli operatori o di alcune strutture sanitarie, determinando aspetti a macchia di leopardo con prevalenza delle zone di ombra. in confronto, da oltre venti anni ai medici statunitensi operanti in strutture ospedaliere o di soccorso territoriale è richiesta la certificazione in tecniche di supporto vitale avanzato. un cittadino che si ricovera in ospedale o ha un malore mentre lavora si aspetta di ricevere una cura eccellente. l’arresto cardiaco è l’evento peggiore che possa avvenire e per tale motivo il personale sanitario deve sapere cosa fare e come fare nel miglior modo possibile. fin dal 1974, l’american heart association ha emesso delle linee guida per l’assistenza del malato in arresto cardiorespiratorio. dal 2000, l’international liaison committee on resuscitation (ilcor), che raccoglie gli esperti delle principali società scientifiche mondiali, pubblica, con cadenza quinquennale, le linee guida internazionali sull’argomento. nell’ottobre 2015, è stato diffuso l’ultimo aggiornamento, che, pur non presentando sostanziali modifiche rispetto al 2010, mette in evidenza alcuni aspetti rilevanti [1]. i dati della letteratura pongono in evidenza una sostanziale variabilità nella sopravvivenza dell’arresto cardiaco, sia in ambito ospedaliero sia territoriale, che si attesta intorno ad un insoddisfacente 20%. vi è, quindi, l’opportunità di salvare molte altre vite con appropriati interventi migliorativi. un’aumentata sopravvivenza con buona qualità di vita può essere garantita solo mediante l’interazione ottimale di una ricerca scientifica di elevata qualità, di una diffusa, costante ed eccellente formazione sia dei laici sia del personale sanitario, e da una organizzazione di soccorso sviluppata. su tali basi, è stata ideata la “formula per la sopravvivenza” (figura 1), in cui i fattori moltiplicatori sono la conoscenza medica, la formazione e lo sviluppo e gestione locale del soccorso [2]. un’analisi attenta della situazione attuale e dei suoi possibili progressi è mostrata in tabella i [3]. poiché una parte rilevante degli arresti cardiaci avviene a domicilio o in zone difficilmente raggiungibili, lo sviluppo di una catena della sopravvivenza capillare è problematica, anche per gli insostenibili costi di creazione e gestione. inoltre, una parte dei pazienti che presentano arresto cardiaco sono in condizioni cliniche profondamente deteriorate, per comorbidità o età avanzata, e quindi difficilmente rianimabili. pertanto, un aumento della sopravvivenza è raggiungibile solo mediante un miglioramento della formazione del laico e del personale sanitario. figura 1. i fattori che agiscono nel determinare la sopravvivenza all’arresto cardiaco qualità linee guida % efficienza formazione % organizzazione locale ottima % sopravvivenza % ideale 90 90 90 73 attuale 80 50 50 20 ottenibile 80 90 50 36 tabella i. effetto dei fattori della formula per la sopravvivenza sulla riduzione di mortalità per arresto cardiaco. modificata da [3] le linee guida ilcor 2015 sottolineano quali debbano essere le caratteristiche di una rianimazione cardiopolmonare di alta qualità e di una defibrillazione precoce, se indicata. in particolare, il massaggio cardiaco deve avere le caratteristiche indicate in tabella ii ed essere eseguito da soccorritori laici o professionali in tutti i pazienti con arresto cardiaco. elemento valore frequenza compressioni 100-120/minuto profondità compressioni 5-6 cm rapporto compressione/decompressione 50:50 decompressione toracica in diastole completa rapporto compressioni: ventilazioni 30:2 interruzione massaggio <10” tempo massimo di massaggio per soccorritore 2 minuti tabella ii. caratteristiche del massaggio cardiaco di alta qualità in un adulto infatti, il supporto vitale di base (bls), costituito da massaggio cardiaco di alta qualità, ventilazione e defibrillazione precoce, è il fattore determinante della sopravvivenza, ma purtroppo solo una minoranza dei pazienti ricevono tale assistenza da parte dei presenti all’evento. le linee guida 2015 sottolineano l’importanza di formare il personale del soccorso territoriale a fornire istruzioni al telefono portatile per il soccorritore laico – il buon samaritano – nella esecuzione delle manovre bls. inoltre, la diffusione di video o programmi d’istruzione al computer può raggiungere una vasta proporzione della popolazione, riducendo in modo rilevante i costi di una formazione formale. i familiari di soggetti ad alto rischio di arresto cardiaco sono sollecitati a frequentare corsi di supporto vitale. le organizzazioni sanitarie devono formare gli operatori sanitari a lavorare in team, ritagliando i contenuti alle necessità del singolo e del team. per i soccorritori professionali, l’elevata qualità nella rianimazione cardiopolmonare (rcp) è ottenibile mediante corsi anche di durata inferiore ad un’ora, che però privilegino l’aspetto pratico e siano ripetuti spesso, ogni pochi mesi. per mantenere un’elevata capacità di fornire assistenza vitale avanzata, il soccorritore professionale deve addestrarsi in modo continuo, preferibilmente con materiali didattici che simulino quanto più possibile gli scenari reali (high fidelity).tale formazione deve riguardare non solo le capacità tecniche di esecuzione di manovre e procedure, ma anche consentire lo sviluppo delle abilità non tecniche (soft skills), quali la capacità di esercitare la leadership o la fellowship e di accrescere le attitudini comunicative nell’ambito del team di soccorso. per mantenere un ottimo grado di performance, sono consigliati frequenti e brevi aggiornamenti rispetto a interventi formativi omnicomprensivi e tutto-insieme [4]. «l’apprendimento non è il prodotto dell’insegnamento; l’apprendimento è il prodotto dell’attività dei discenti». questa frase dell’educatore john holt risulta particolarmente attuale ed è ribadita dallo scrittore isaac asimov che afferma «credo fermamente che l’autoformazione sia l’unica forma di educazione». l’uso di strumenti agili, di rapida lettura e utilizzo, di utilità pratica ad uso giornaliero rende l’approccio all’emergenza facile, chiaro e realizzabile, consentendo miglioramenti delle performance. l’applicazione delle linee guida a livello locale, a configurare un’ottimale catena della sopravvivenza (figura 2), è ostacolata da numerose barriere, sia organizzative sia comportamentali. in tale ambito, le iniziative tese a prevenire l’arresto cardiaco sia in ambito territoriale sia ospedaliero sono rilevanti ai fini della sopravvivenza. è vivamente raccomandato alle strutture ospedaliere di adottare un sistema standardizzato di gestione del paziente a rischio di arresto cardiaco, composto da un braccio afferente di screening rapido mediante sistemi di punteggio (ad, esempio il news score [5]) e da un braccio efferente di risposta rapida (ad esempio, met medical emergency team o rrt – rapid response team). inoltre, rilevante ai fini del miglioramento delle performance del team di soccorso è l’adozione sistematica del “debriefing”, riunione tenuta al termine di un’emergenza, che fornisce l’opportunità ai membri del team di rivedere quanto avvenuto, di sviluppare una comprensione condivisa degli eventi, di esaminare gli insegnamenti appresi, e di fornire suggerimenti per il miglioramento [6]. in sintesi, nella gestione dell’emergenza-urgenza per ottenere un miglioramento della sopravvivenza ed eliminare le morti precoci di “cuori troppo sani per morire” è necessaria una profonda modifica dell’atteggiamento culturale, con rilevanti interventi soprattutto in ambito formativo, sfruttando ciò che la tecnologia dell’informazione e dell’immagine ci fornisce, ma anche in campo normativo e organizzativo. figura 2. catena della sopravvivenza ospedaliera (a) e territoriale (b). modificata da [7] emod = laboratorio di emodinamica; ps = pronto soccorso; rcp = rianimazione cardiopolmonare; uti = unità di terapia intensiva bibliografia 1. international liaison committee on resuscitation (ilcor). 2015 international consensus on cardiopulmonary resuscitation and emergency cardiovascular care science with treatment recommendations. circulation 2015; 132 (16 suppl 1): s1-311 2. søreide e, morrison l, hillman k, et al; utstein formula for survival collaborators. the formula for survival in resuscitation. resuscitation 2013; 84: 1487-93; http://dx.doi.org/10.1016/j.resuscitation.2013.07.020 3. chamberlain da, hazinski mf; european resuscitation council; american heart association; heart and stroke foundation of canada; australia and new zealand resuscitation council; resuscitation council of southern africa; consejo latino-americano de resuscitación. education in resuscitation. resuscitation 2003; 59: 11-43. 4. patocka c, khan f, dubrovsky as, et al. pediatric resuscitation training-instruction all at once or spaced over time? resuscitation 2015; 88: 6-11; http://dx.doi.org/10.1016/j.resuscitation.2014.12.003 5. smith gb, prytherch dr, meredith p, et al. the ability of the national early warning score (news) to discriminate patients at risk of early cardiac arrest, unanticipated intensive care unit admission, and death. resuscitation 2013; 84: 465-70; http://dx.doi.org/10.1016/j.resuscitation.2012.12.016 6. percarpio kb, harris fs, hatfield ba, et al. code debriefing from the department of veterans affairs (va) medical team training program improves the cardiopulmonary resuscitation code process. jt comm j qual patient saf 2010; 36: 424-9 7. kronick sl, kurz mc, lin s, et al. part 4: systems of care and continuous quality improvement: 2015 american heart association guidelines update for cardiopulmonary resuscitation and emergency cardiovascular care. circulation 2015; 132 (18 suppl 2): s397-413; http://dx.doi.org/10.1161/cir.0000000000000258 per chi desidera approfondire manuale dell’arresto cardiaco a cura di mauro mennuni novembre 2016 edizione stampata isbn 978-88-97419-67-9 17x24 cm prezzo: € 29,00 edizione ebook isbn 978-88-97419-68-6 prezzo: 19,99   per informazioni seed srl – tel. 011.566.02.58 – www.edizioniseed.it – info@edizioniseed.it   endorsement anmco (associazione nazionale medici cardiologi ospedalieri)   il manuale è basato sulle più recenti linee guida ilcor 2015 e illustra le strategie condivise per migliorare l’efficienza del team di soccorso nell’arresto cardiaco. il massaggio cardiaco, la ventilazione, la defibrillazione e la somministrazione di farmaci sono affrontate da un punto di vista operativo, e grande importanza è data all’organizzazione del lavoro di squadra, alla valutazione sistematica e alle strategie per affrontare le fasi della rianimazione cardiopolmonare secondo le giuste priorità, senza dimenticare alcun passaggio. scritto in modo chiaro e scorrevole, il manuale approfondisce solo dove e quando necessario, senza ridondanza di termini e concetti astratti. è corredato da una vasta serie di immagini, disegni e tabelle e dotato di numerose istruzioni operative, algoritmi e box volti al training del personale sanitario. in particolare, il manuale contiene tutti gli aspetti pratici e teorici per un soccorso di elevato livello e costituisce uno dei pochi strumenti di rapida consultazione di tipo operativo multidisciplinare, indispensabile al personale assistenziale di area critica e non critica per cominciare finalmente a parlare una lingua comune. cmi 2015;9(2)57-62.html l’impiego degli analoghi nella terapia dell’epatite cronica b: confronto tra tenofovir ed entecavir in real life rosanna villani 1, roberta forlano 1, gianluigi vendemiale 1, gaetano serviddio 1 1 centro universitario per la ricerca e cura delle malattie epatiche (c.u.r.e.), medicina interna universitaria, dipartimento di scienze mediche e chirurgiche, università di foggia abstract introduction: tenofovir and entecavir are potent antiviral agents. by suppressing viral replication, they induce histological improvement and finally delay the progression of chronic hepatitis b and the development of complications. they are rarely associated with serious side effects. our data from a real life experience support data from the literature and suggest some minimal difference that may be useful in tailoring therapy. patients and methods: we retrospectively analyzed 54 patients affected by chronic hepatitis b (31 and 23 treated by entecavir and tenofovir, respectively). eight patients were cirrhotic. at baseline and 4-12 and 24 weeks after starting therapy, biochemical and virological analysis were performed in all patients. renal function tests (serum creatinine, creatinine clearance and blood urea), serum (calcium and phosphate blood level) and urine electrolyte were also studied. results: all the patients reached virological control within 24 weeks. only in the group treated by tenofovir we observed a complete viral suppression within 12 weeks. some patients treated with tenofovir showed increased creatinine clearance without serum creatinine alteration. no significant side effects were reported with the exception of one case of persistent headache in the entecavir group for which the drug was suspended. conclusions: entecavir and tenofovir are effective in suppressing viral replication in patients with chronic hepatitis b. tenofovir is more potent than entecavir and viral replication is blocked within 12 weeks of therapy. tenofovir administration is associated with slight increase of creatinine clearance without alteration of serum creatinine levels. the choice of one or the other should be made according to target and specific patients characteristics. in patients with high serum viral load where the complete and quick control of viral replication is the main target, tenofovir may represent the best choice. keywords: tenofovir; entecavir; chronic hepatitis b; retrospective study analogs in the treatment of chronic hepatitis b: real life experience with tenofovir and entecavir cmi 2015; 9(2): 57-62 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i2.1192 clinical management corresponding author prof. gaetano serviddio, c/o s.c. medicina interna universitaria, viale pinto 1, 71122 foggia, tel +39.0881.741587 fax +39.0881.736007 gaetano.serviddio@unifg.it disclosure il presente articolo è stato realizzato con il supporto incondizionato di gilead sciences srl introduzione si stima che circa 350 milioni di persone nel mondo abbiano contratto l’infezione del virus dell’epatite b e che una significativa percentuale di questi svilupperà cirrosi ed epatocarcinoma (hcc) [1]. la sola presenza di elevata carica virale, indipendentemente dallo stadio di fibrosi epatica, rappresenta un importante fattore di rischio di insorgenza di hcc [2-5]. d’altro canto è stato dimostrato che il trattamento con antivirali, azzerando la carica virale, è in grado di ridurre significativamente l’incidenza dell’epatocarcinoma (dal 6,4% osservato negli hbv con alta carica virale al 2,8% dei pazienti con hbv dna negativo) [5]. la rapida riduzione fino alla negativizzazione della carica virale è in grado di rallentare la progressione della storia naturale della malattia e impedire il naturale processo di evoluzione verso la cirrosi [6]. è infatti ampiamente noto che il controllo virale da un lato riduce il tasso di evoluzione in cirrosi e delle complicanze, tra cui l’ipertensione portale e l’encefalopatia epatica, e dall’altro riduce il rischio di insorgenza di tumore primitivo epatico in pazienti con cirrosi conclamata [7]. i farmaci antivirali per il controllo della replicazione dell’hbv dovrebbero essere in grado di indurre un rapido controllo della viremia (potenza antivirale), ma allo stesso tempo dovrebbero essere dotati di elevata barriera genetica per impedire lo sviluppo di specie virali resistenti. entecavir e tenofovir sono gli unici due antivirali dotati di queste caratteristiche. entecavir, in quanto analogo della guanosina, blocca la trascrizione e la replicazione virale mediante l’inibizione della hbv-polimerasi responsabile della trascrizione inversa del filamento di dna virale a partire dall’rna messaggero e della sintesi del filamento positivo dell’hbv dna [8]. il meccanismo, invece, con cui tenofovir blocca la replicazione virale prevede l’inibizione della hbv polimerasi virale per competizione con il substrato naturale (deossiribonucleotide). un’analisi complessiva della letteratura mostra un’efficacia equivalente tra i due farmaci e un basso rischio di effetti collaterali per entrambi [9,10]. ciononostante, ad oggi i dati di confronto diretto tra entecavir e tenofovir si basano sull’analisi di gruppi di poche centinaia di pazienti [11]. sulla base dei dati di letteratura disponibili, dunque, resta aperto il dubbio circa la maggior efficacia dell’uno o dell’altro farmaco. non è possibile nemmeno stabilire quale dei due sia più conveniente in merito alla tollerabilità per via della scarsità di studi presenti in letteratura. in questo scenario appare di grande interesse l’esperienza real life, in particolare in riferimento alla valutazione della potenza antivirale e della sicurezza renale. pazienti e metodi nel periodo compreso tra gennaio 2010 e giugno 2014 sono stati osservati 186 pazienti hbsag-positivi. tutti i pazienti sono stati sottoposti a monitoraggio delle transaminasi e di hbv dna quantitativo, oltre che a valutazione della fibrosi mediante elastometria epatica (fibroscan®). i pazienti che presentavano hbv dna > 20.000 ui/ml associato a ipertransaminasemia o fibrosi epatica ≥ f2 sono stati avviati a terapia con entecavir o tenofovir. in questi pazienti è stato effettuato il monitoraggio biochimico (rilevazione dei livelli di transaminasi) e virologico (hbv dna e hbsag quantitativo) a 4, 12 e 24 settimane dall’inizio della terapia. la misurazione dell’hbsag quantitativo è stata effettuata presso il nostro centro dal 2012. al tempo 0 e dopo 24 settimane tutti i pazienti sono stati sottoposti a dosaggio di calcemia, fosforemia, calciuria e fosfaturia. i pazienti trattati con tenofovir sono stati sottoposti, inoltre, al basale e a 24 settimane a densitometria ossea a ultrasuoni. la valutazione dell’hbv dna è stata effettuata mediante real time pcr con valore minimo di rilevabilità di 20 ui/ml, mentre il dosaggio dell’hbsag quantitativo è stato eseguito mediante metodica immunoenzimatica con valore minimo di rilevabilità di 0,05 ui/ml. i range di normalità per i restanti parametri sierici e urinari misurati sono stati i seguenti: creatininemia 0,5-1,2 mg/dl, azotemia 15-50 mg/dl, calcemia 8,4-10,2 mg/dl, fosforemia 2,3-4,7 mg/dl, calciuria 100-300 mg/24 ore, fosfaturia 500-1.000 mg/24 ore, clearance della creatinina 60-140 ml/min. la clearance della creatinina è stata calcolata, quale valore stimato del gfr, mediante la formula del mdrd, cioè gfr ml/min/1,73 m2 = 175 × (creatinina sierica in mg/dl)-1,154 × (età espressa in anni)-0,203 × 0,742 se paziente di sesso femminile × 1,21 se paziente afro-americano [12]. l’elastometria epatica è stata eseguita con fibroscan® (39 pazienti con sonda m e 15 pazienti con sonda xl). tutti i pazienti del gruppo trattato con tenofovir hanno assunto nel periodo di osservazione tenofovir disoproxil 245 mg/die. nel gruppo dei pazienti trattati con entecavir, i pazienti cirrotici in fase di scompenso hanno assunto 1 mg/die mentre i tutti gli altri 0,5 mg/die. risultati cinquantaquattro pazienti (30 di sesso femminile e 24 di sesso maschile) presentavano hbv dna > 20.000 ui/ml associato a ipertransaminasemia o fibrosi epatica ≥ f2 e sono stati avviati, pertanto, a terapia antivirale. diciotto di essi erano stati precedentemente sottoposti a terapia con peg-ifnα2a senza raggiungimento dei target virologici e biochimici. i 54 pazienti erano tutti hbeag-negativi, hcve hivnegativi. una sola paziente presentava positività per anti-hdv-igg. otto pazienti erano cirrotici, e di questi 4 si erano presentati alla nostra osservazione per scompenso epatico. nell’analisi retrospettiva i pazienti sottoposti al trattamento antivirale sono stati suddivisi in due gruppi: 31 trattati con entecavir e 23 pazienti trattati con tenofovir. tutti gli 8 pazienti affetti da cirrosi erano stati trattati con entecavir. nessuno dei pazienti valutati era stato trattato in precedenza con analoghi nucleotidici o nucleosidici. le caratteristiche generali dei pazienti osservati e divisi nei due gruppi sono riportati nella tabella i. gruppo etv (n = 31) gruppo tdf (n = 23) p-value età (anni) 51 ± 24 42 ± 16 n.s. sesso (m:f) 18:13 6:17 < 0,05 stiffness (kpa) 36,1 ± 28,4 10,8 ± 4,3 < 0,05 cirrotici (n) 8 0 < 0,0001 ast (ui/ml) 66 ± 57 48 ± 41 n.s. alt (ui/ml) 67 ± 85 57 ± 51 n.s. hbv dna (ui/ml) 25.254 ± 51.673 5.233 ± 4.354 n.s. hbsag quantitativo (ui/ml) 2.629,67 ± 2.309,58 2.247 ± 2.697,61 n.s. tabella i. caratteristiche generali della popolazione studiata alt = alanina transaminasi; ast = aspartato transaminasi; etv = entecavir; tdf = tenofovir i dati del monitoraggio biochimico e virologico a 4, 12 e 24 settimane dall’inizio della terapia sono riportati nella tabella ii. 4a settimana 12a settimana 24a settimana tdf etv tdf etv tdf etv ast (ui/ml) 46 ± 37 74 ± 43 42 ± 29 52 ± 29 24 ± 18 23 ± 16 alt (ui/ml) 56 ± 44 78 ± 33 33 ± 12 59 ± 18 26 ± 13 24 ± 22 hbv dna (ui/ml) 670 ± 445 11.987 ± 39.851 < 20 2.347 ± 6.327 < 20 181 ± 176 tabella ii. i parametri biochimici e virologici valutati dopo 4, 12 e 24 settimane di trattamento dei pazienti trattati con entecavir e tenofovir alt = alanina transaminasi; ast = aspartato transaminasi; etv = entecavir; tdf = tenofovir la misurazione dell’hbsag quantitativo è stata monitorata in 18 pazienti. dopo 4 settimane di terapia, 3 dei pazienti trattati con tenofovir e 5 dei pazienti trattati con entecavir presentavano hbv dna negativo. dei 5 trattati con entecavir, 3 erano cirrotici con hbv dna quantitativo < 2.000 ui/ml e trattati con 1 mg di entecavir. a 12 settimane dall’inizio del trattamento tutti i pazienti trattati con tenofovir risultarono hbv dna-negativi, mentre 8 dei pazienti trattati con entecavir risultavano ancora positivi. dopo 24 settimane di trattamento tutti i pazienti trattati con tenofovir confermavano la negatività virale mentre 2 pazienti trattati con entecavir risultavano ancora essere hbv dna-positivi seppure con carica inferiore alle 100 ui/ml. dopo 24 settimane di terapia, tutti i pazienti trattati mostravano valori di ast e alt nella norma. l’analisi della funzione renale ha mostrato, nel gruppo di pazienti trattato con tenofovir, un aumento della clearance calcolata della creatinina senza modifiche dei valori di creatininemia (tabella iii). nel gruppo trattato con entecavir, incluso i cirrotici con e senza scompenso, non sono state osservate né modifiche della creatininemia né della clearance della creatinina. i valori di hbsag quantitativo, nei 18 pazienti per i quali è stato possibile il dosaggio, hanno mostrato una significativa riduzione indipendentemente dal trattamento effettuato, pur permanendo nelle 24 settimane di monitoraggio stabilmente sopra le 1.000 ui/ml (rimanendo tale nel tempo). il monitoraggio della calciuria e della fosfaturia ha mostrato un aumento della sola fosfaturia in 8 pazienti trattati con tenofovir seppur di grado lieve (tabella iii). tdf etv basale 12a settimana 24a settimana basale 12a settimana 24a settimana clearance della creatinina (ml/min) 102 ± 41 118 ± 29 126 ± 34* 112 ± 42 110 ± 51 116 ± 39 calcemia (mg/dl) 8,8 ± 1,6 9,1 ± 1,4 8,5 ± 1,1 9 ± 0,8 8,5 ± 0,5 8,9 ± 2,1 calciuria (mg/24 h) 179 ± 84 196 ± 73 200 ± 87 223 ± 77 218 ± 89 249 ± 29 fosforemia (mg/dl) 3,9 ± 1,8 3,8 ± 1,6 4,2 ± 1,1 3,3 ± 2,3 4 ± 1,1 3,1 ± 2,8 fosfaturia (mg/24 h) 680 ± 349 710 ± 101 1.400 ± 740* 724 ± 187 811 ± 238 792 ± 251 tabella iii. parametri di funzionalità renale valutata dopo 12-24 settimane nei due gruppi di pazienti trattati. solo i valori contrassegnati con l’asterisco sono risultati statisticamente significativi *p-value < 0,05; etv = entecavir; tdf = tenofovir non sono state registrate alterazioni della calcemia e della fosforemia nei pazienti del gruppo entecavir con e senza fibrosi avanzata e con e senza scompenso. in entrambi i gruppi non si sono verificati ulteriori effetti collaterali, ad eccezione di un caso di cefalea persistente in un paziente del gruppo trattato con entecavir, che ha determinato la necessità di sospensione del farmaco e l’introduzione di tenofovir dopo 28 settimane di trattamento e di tre pazienti, sempre in trattamento con entecavir, che hanno riportato lieve nausea, scomparsa dopo la 12a settimana di terapia. la valutazione della densità minerale ossea effettuata nel solo gruppo dei pazienti trattati con tenofovir non ha mostrato significative differenze dei valori di t-score dopo 24 settimane di trattamento. discussione tenofovir ed entecavir sono i farmaci antivirali di riferimento per il controllo della replicazione virale nei pazienti con epatite cronica hbv-correlata. recentemente sono state pubblicate due metanalisi su tenofovir ed entecavir con l’obiettivo di verificare la superiorità di un farmaco rispetto all’altro, ma le conclusioni non sono state concordi [11,13]. il lavoro di ke suggerisce che i due farmaci mostrano gli stessi profili di efficacia e sicurezza [13]. più recentemente zuo ha esaminato i dati di 11 studi che hanno confrontato i due farmaci dimostrando che il controllo virale è sovrapponibile a 24 settimane ma è superiore a 48 nei pazienti trattati con tenofovir [11]. in entrambi i casi, inoltre, gli autori concordano circa la sicurezza di entrambi i farmaci in quanto sia i pazienti trattati con entecavir sia quelli trattati con tenofovir hanno presentato un basso numero di effetti collaterali [11,13]. i dati di letteratura attualmente disponibili sono concordi nel considerare l’ottima tollerabilità dei due farmaci in tutte le tipologie di pazienti ma sono discordanti circa l’efficacia del controllo virale, mostrando talvolta differenze a 24 rispetto alle 48 settimane. i dati dell’osservazione dei pazienti affetti da epatite cronica hbv-positiva afferenti alla nostra unità conferma sostanzialmente il dato di sicurezza. entrambi i farmaci non sono stati associati a effetti collaterali significativi e solo un caso di entecavir ha richiesto la sospensione del farmaco e la sua sostituzione. nel gruppo dei pazienti trattati con tenofovir è stato registrato un aumento della clearance della creatinina e della fosfaturia delle 24 ore dopo 24 settimane di terapia. non è stata osservata una riduzione della densità minerale ossea a fine osservazione, sebbene sia noto che tale effetto, se presente, richiede un intervallo temporale maggiore per instaurarsi. in tal senso dunque è possibile confermare in real life il dato di sicurezza di entrambe le molecole. per quanto riguarda, invece, l’aspetto virologico, l’esame dei profili delle viremie ci ha permesso di osservare una maggiore rapidità da parte di tenofovir nel controllare la replicazione virale fino a raggiungere la completa scomparsa del virus in un intervallo temporale tra il primo e il terzo mese di trattamento. nel gruppo trattato con entecavir sono stati rilevati i seguenti due dati degni di nota: 1. la persistenza in due pazienti, nonostante 24 settimane di trattamento, di hbv dna seppur a bassa carica; 2. nei pazienti hbv dna-negativi alla 24a settimana, un maggior tempo di latenza tra inizio del trattamento e completo controllo della replicazione virale. tale dato suggerisce che il ricorso alla terapia antivirale con tenofovir in pazienti alto-viremici può rappresentare una scelta efficace e sicura quando si voglia ottenere un rapido controllo della viremia. questo effetto può essere strategico ad esempio nei pazienti con ipertransaminasemia e ad alta carica virale nei quali la breve latenza tra inizio della terapia e ottenimento della soppressione virale può ridurre il rischio di selezione di resistenze, come accade nei pazienti affetti da cirrosi epatica nei quali un rapido controllo della viremia si associa a un minor rischio di scompenso [14]. sulla base dei dati osservati, la disponibilità di due molecole efficaci e di fatto prive di effetti collaterali significativi, ma dotati di profili lievemente differenti riguardo l’impatto sulla cinetica virale, permette una maggiore libertà di scelta del farmaco migliore in relazione alle specifiche e personali caratteristiche del paziente da trattare. punti chiave tenofovir ed entecavir sono i farmaci antivirali di riferimento per il controllo della replicazione virale nei pazienti con epatite cronica hbv-correlata in questa analisi retrospettiva è stato possibile confermare in real life che si tratta di farmaci ben tollerati tenofovir si è dimostrato rapido ed efficace nel determinare la soppressione virologica bibliografia 1. liaw yf, chu cm. hepatitis b virus infection. lancet 2009; 373: 582-92; http://dx.doi.org/10.1016/s0140-6736(09)60207-5 2. el-serag hb, rudolph kl. hepatocellular carcinoma: epidemiology and molecular carcinogenesis. gastroenterology 2007; 132: 2557-76; http://dx.doi.org/10.1053/j.gastro.2007.04.061 3. schafer df, sorrell mf. hepatocellular carcinoma. lancet 1999; 353: 1253-7; http://dx.doi.org/10.1016/s0140-6736(98)09148-x 4. chen cj, yang hi, su j, et al. risk of hepatocellular carcinoma across a biological gradient of serum hepatitis b virus dna level. jama 2006; 295: 65-73; http://dx.doi.org/10.1001/jama.295.1.65 5. papatheodoridis gv, lampertico p, manolakopoulos s, et al. incidence of hepatocellular carcinoma in chronic hepatitis b patients receiving nucleos(t)ide therapy: a systematic review. j hepatol 2010; 53: 348-56; http://dx.doi.org/10.1016/j.jhep.2010.02.035 6. triolo m, della cc, colombo m. impact of hbv therapy on the incidence of hepatocellular carcinoma. liver int 2014; 34 suppl 1: 139-45; http://dx.doi.org/10.1111/liv.12394 7. calvaruso v, craxi a. regression of fibrosis after hbv antiviral therapy. is cirrhosis reversible? liver int 2014; 34 suppl 1: 85-90; http://dx.doi.org/10.1111/liv.12395 8. fung j, lai cl, seto wk, et al. nucleoside/nucleotide analogues in the treatment of chronic hepatitis b. j antimicrob chemother 2011; 66: 2715-25; http://dx.doi.org/10.1093/jac/dkr388 9. lee ci, kwon sy, kim jh, et al. efficacy and safety of tenofovir-based rescue therapy for chronic hepatitis b patients with previous nucleo(s/t)ide treatment failure. gut liver 2014; 8: 64-9; http://dx.doi.org/10.5009/gnl.2014.8.1.64 10. miquel m, nunez o, trapero-marugan m, et al. efficacy and safety of entecavir and/or tenofovir in hepatitis b compensated and decompensated cirrhotic patients in clinical practice. ann hepatol 2013; 12: 205-12 11. zuo sr, zuo xc, wang cj, et al. a meta-analysis comparing the efficacy of entecavir and tenofovir for the treatment of chronic hepatitis b infection. j clin pharmacol 2014 oct 7 [epub ahead of print]; http://dx.doi.org/10.1002/jcph.409 12. società italiana di patologia clinica e medicina di laboratorio. www.sipmel.it (ultimo accesso giugno 2015) 13. ke w, liu l, zhang c, et al. comparison of efficacy and safety of tenofovir and entecavir in chronic hepatitis b virus infection: a systematic review and meta-analysis. plos one 2014; 9: e98865; http://dx.doi.org/10.1371/journal.pone.0098865 14. srivastava m, rungta s, dixit vk, et al. predictors of survival in hepatitis b virus related decompensated cirrhosis on tenofovir therapy: an indian perspective. antiviral res 2013; 100: 300-5; http://dx.doi.org/10.1016/j.antiviral.2013.08.020 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1) 17 clinical management issues solida in sede pelvica, disomogenea, a margini irregolari, di circa 12 cm di diametro, estesa caudalmente fino alla cupola vescicale dislocandola, in assenza di segni di infiltracaso clinico nell’ottobre del 2005 si presenta alla nostra osservazione un paziente di 69 anni, di sesso maschile e razza caucasica. l’anamnesi familiare è positiva per adenocarcinoma polmonare (il padre è deceduto per patologia neoplastica) e carcinoma della mammella (madre, deceduta per altra causa). il paziente nega abitudine al fumo, consumo di alcolici e allergie. in anamnesi patologica remota si segnala intervento chirurgico, all’età di 19 anni, per varicocele. non sono note comorbidità degne di nota. l’inizio della storia oncologica del paziente si fa risalire al mese di giugno 2002, quando, in seguito alla comparsa di epigastralgia e stipsi ostinata, il paziente inizia a eseguire accertamenti clinico-strumentali. una tc dell’addome del luglio 2002 evidenzia la presenza di una grossolana neoformazione perché descriviamo questo caso per evidenziare il controllo ottimale e prolungato di malattia, in assenza di tossicità rilevanti, fornito dall ’aumento del dosaggio di imatinib a 800 mg/die in un paziente con gist in progressione di malattia dopo trattamento per lungo periodo con imatinib a dose standard. di particolare rilievo la risposta radiologica completa ottenuta su una delle sedi di malattia dopo soli cinque mesi di terapia e mantenuta per un lungo intervallo di tempo corresponding author prof. giuseppe naso giuseppe.naso@uniroma1.it caso clinico abstract a 69-years-old patient underwent radical surgery to remove a lesion of small bowel with histological diagnosis of malignant primary stromal cancer of the gastro-intestinal wall (gist). after a disease-free survival of 25 months instrumental evidence of loco-regional recurrence was detected with subsequent resection of the ileum: histology confirmed recurrent high risk gist. after 34 months, tc scan showed peritoneal and hepatic progression of disease. treatment with imatinib was started with standard dose of 400 mg/day, obtaining partial response on peritoneum and liver radiological complete response, after 5 months of therapy. patient continued treatment with the same dose for 20 months. when radiological progression was detected we decided to increase imatinib to 800 mg/day based on the results of two principal phase iii studies. radiological partial response was reached after three months of therapy. actually patient is still in treatment with imatinib showing stable disease with good tolerance. keywords: imatinib, gist, dose crossing-over to imatinib 800 mg in a patient with gist, after progression with standard dosage: a case report cmi 2011; 5(suppl. 1): 17-21 1 dipartimento di scienze radiologiche, oncologiche e anatomo-patologiche, università sapienza – policlinico umberto i, roma giuseppe naso 1, enrico cortesi 1 incremento di dose di imatinib a 800 mg nel paziente con gist in progressione con dosaggio standard: caso clinico disclosure supplemento realizzato con il contributo di novartis s.p.a. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1)18 incremento di dose di imatinib a 800 mg nel paziente con gist in progressione con dosaggio standard body post-operatoria negativa per residuo di malattia locale e ripetizioni a distanza. si decide quindi di reinserire il paziente in un programma di controlli clinico-strumentali periodici, risultati negativi per recidiva fino a maggio 2008, quando viene documentata una progressione epatica e peritoneale di malattia (2 lesioni epatiche di 21 e 15 mm nell’viii e vii segmento; almeno 4 immagini nodulari a carico dell’omento). il paziente inizia quindi un trattamento di i linea con imatinib a dosaggio standard di 400 mg/die in terapia continuativa, non gravato da effetti collaterali, se non da iniziale comparsa di edema periorbitario bilaterale, risolto con sola terapia medica diuretica. gli esami ematochimici periodici escludono alterazioni di rilievo. già nel luglio 2008 la nuova tc di controllo mostra una risposta parziale di malattia, stimabile intorno al 50% di riduzione delle lesioni note. nel novembre 2008 si evidenzia una risposta completa radiologica a livello epatico e una stabilità di malattia peritoneale. le condizioni cliniche del paziente si mantengono nel complesso buone, non si rilevano tossicità di nuova insorgenza e il quadro radiologico resta sostanzialmente invariato nei controlli strumentali, effettuati con cadenza trimestrale, fino a gennaio 2010 quando la tc total body mostra una progressione di malattia peritoneale in sede pelvica, dove zione. non sono rilevate significative linfoadenopatie loco regionali. un successivo rx del torace esclude localizzazioni di malattia a livello polmonare. nell’agosto dello stesso anno il paziente viene sottoposto a intervento chirurgico di asportazione radicale della neoformazione a partire dall’ansa ileale e resezione del tenue. l’esame istologico depone per una neoplasia primitiva, di 14 × 16 × 8 cm, dello stroma della parete gastrointestinale della varietà maligna (gist), con 6 figure mitotiche per 10 hpf; la caratterizzazione immunoistochimica mostra positività delle cellule neoplastiche per c-kit, vimentina, actina muscolo liscio, focale positività per n-cam e negatività per desmina e cd34. il paziente inizia quindi un programma di controlli strumentali di follow up, eseguiti però in maniera discontinua e irregolare. nel settembre del 2005, dopo un intervallo libero da malattia di 25 mesi, una tc total body evidenzia una sospetta formazione espansiva addominale mediana di 15 × 10 × 9 cm, che comprime l’arteria aorta addominale fino al di sotto della biforcazione iliaca. il paziente viene quindi sottoposto a un nuovo intervento di resezione dell’ileo, con conferma istologica di recidiva di gist ad alto rischio, c-kit e vimentina positivo. il paziente giunge alla nostra attenzione nell’ottobre 2005, recando in visione esami ematochimici nella norma e una tc total data controllo situazione clinica agosto 2002 asportazione radicale neoplasia primitiva (gist ad alto rischio) dall’ansa ileale e resezione del tenue agosto 2002 – settembre 2005 controlli di follow up discontinui e irregolari settembre 2005 resezione dell’ileo per esportazione recidiva gist ad alto rischio ottobre 2005 residuo di malattia locale e a distanza negativo ottobre 2005 – maggio 2008 controlli clinico-strumentali periodici maggio 2008 evidenza di progressione epatica e peritoneale di malattia.inizio terapia di i linea con imatinib 400 mg/die luglio 2008 risposta parziale di malattia (riduzione lesioni note del 50%) novembre 2008 risposta radiologica completa a livello epatico e stabilità di malattia peritoneale novembre 2008 – gennaio 2010 controlli strumentali trimestrali gennaio 2010 progressione di malattia peritoneale in sede pelvica ed epatica. aumento dosaggio imatinib a 800 mg/die gennaio 2010 – marzo 2010 interruzione farmaco per comparsa edema periorbitario. alla risoluzione reintroduzione imatinib 400 mg/die e incremento graduale dose fino a 800 mg/die aprile 2010 risposta parziale di malattia in sedi note (riduzione del 10% della massa tumorale totale) settembre 2010 e gennaio 2011 sostanziale stabilità del quadro clinico. il paziente attualmente è in buone condizioni cliniche e sta continuando il trattamento con imatinib 800 mg/die tabella i riepilogo storia clinica del paziente ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1) 19 g. naso, e. cortesi chimale più frequenti del tratto digerente. si pensa che possano originare dalle cellule di cajal della parete intestinale, note per le loro funzioni motorie [2,3]. si tratta di neoplasie pressoché insensibili alla chemioterapia convenzionale [4], caratterizzate, nella maggior parte dei casi, dalla presenza di mutazioni attivanti del recettore di membrana kit, prodotto del proto-oncogene c-kit [5] e meno frequentemente del pdgfr alfa [6]. l’attività antitumorale di imatinib mesilato è legata all’inibizione selettiva della funzione tirosin chinasica di kit, pdgfr alfa e bcr-abl. la presenza di mutazioni attivanti di kit o pdgfr è quindi predittiva di risposta al farmaco [7]. la scelta di iniziare il trattamento con imatinib nel nostro paziente è stata dettata dall’evidenza dell’espressione immunoistochimica del suo target e dalla presenza di una malattia non ulteriormente resecabile in modo radicale. gli studi di fase i hanno stabilito che la dose massima tollerata di imatinib è pari a 800 mg/die [8], ma il dosaggio giornaliero raccomandato per la terapia in fase metastatica di prima linea è 400 mg, assunti in un’unica somministrazione [9,10]. tuttavia il dibattito circa il dosaggio ottimale di farmaco da utilizzarsi nella fase iniziale, rimane ancora aperto. due studi di fase iii hanno confrontato il dosaggio di 400 mg rispetto agli 800 mg/ die di imatinib [11,12]. lo studio eortcisg-agitg non dimostra differenze fra i due dosaggi in termini di tasso di risposta, ma evidenzia un vantaggio iniziale del regime a dose doppia in termini di progression free survival (pfs), con un profilo di tossicità accettabile. tale vantaggio diviene però statisticamente non significativo nelle successive analisi dello studio [13]. il trial s0033 invece non evidenzia differenze fra i due dosaggi in termini di sopravvivenza globale o tassi di risposta. un trend positivo in termini di guadagno in psf e os (overall survival) è evidenziato per il dosaggio completo a 800 mg/die del farmaco, ma il dato non risulta essere significativo, probabilmente proprio a causa di un campione troppo poco numeroso per garantire la corretta potenza statistica [12]. una recente metanalisi di più di 1.600 casi ha evidenziato un vantaggio in termini di pfs nell’uso del dosaggio di 800 mg/die nei pazienti portatori di mutazione dell’esone 9 di kit [14]. in assenza di prove contrarie, quindi, la dose raccomandata di imatinib, tendendo conto anche del profilo di tossicità, come terapia iniziale è di 400 mg/die. le formazioni nodulari solide appaiono aumentate di numero e dimensioni, ed epatica per ricomparsa di singola lesione di 15 mm nel lobo destro. in considerazione della buona tolleranza al trattamento, dell’assenza di controindicazioni cliniche, della prolungata e rilevante efficacia che il farmaco ha dimostrato nella storia clinica del paziente, nonché delle raccomandazioni delle principali linee guida [1], abbiamo deciso di proseguire il trattamento con imatinib a dosaggio incrementato pari a 800 mg/die. nei primi due mesi di terapia con il nuovo dosaggio, è stata nuovamente registrata la comparsa di edema periorbitario che ha richiesto terapia medica (diuretici) e interruzione momentanea del farmaco. alla risoluzione del quadro clinico presentatosi, è stato reintrodotto imatinib a partire dal dosaggio di 400 mg/die e incrementando la dose gradualmente fino al ripristino degli 800 mg/die. non sono state rilevate tossicità ulteriori degne di nota, salvo occasionale e transitoria diarrea di grado lieve risolta con sola terapia medica (loperamide e probiotici), senza necessità di aggiustamenti di dose. il primo controllo tc, eseguito ad aprile 2010, ha mostrato una risposta parziale di malattia sulle sedi note, stimabile intorno ad un 10% di riduzione della massa tumorale totale. a settembre 2010 e gennaio 2011, le nuove tc hanno evidenziato una sostanziale stabilità del quadro (tabella i). il paziente è tutt’ora in buone condizioni cliniche e continua il trattamento con il dosaggio di 800 mg/die. la prossima valutazione strumentale è prevista per il mese di aprile 2011, salvo diversa indicazione clinica. domande da porsi dopo terapia con imatinib 400 mg/die y per un totale di 20 mesi, a progressione di malattia, sarebbe stato corretto il passaggio a una seconda linea di trattamento non cross-resistente? la comparsa di tossicità reversibili con y il trattamento a dosaggio standard (400 mg/die) preclude la possibilità di incrementare la dose del farmaco al momento della progressione? discussione i tumori stromali gastrointestinali rappresentano le neoplasie di origine mesen©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1)20 incremento di dose di imatinib a 800 mg nel paziente con gist in progressione con dosaggio standard cross-over, senza necessità di altre terapie di salvataggio [12]. da questi dati si evince chiaramente la possibilità di prolungare l’efficacia di imatinib anche quando venga dimostrata la comparsa di una resistenza secondaria al farmaco, somministrato a dosi standard. il raddoppio del dosaggio permette il superamento di tale resistenza acquisita, con il recupero di un’attività terapeutica in una buona proporzione di pazienti. è probabile che la resistenza a imatinib non sia del tipo “tutto o nulla”: alcuni cloni cellulari, nel paziente in progressione di malattia, potrebbero infatti mantenere la sensibilità al farmaco e determinare così la possibilità di recuperare il controllo della crescita tumorale quando il dosaggio venga incrementato [12]. al momento non è ancora chiaro se esistano dei fattori predittivi, fenotipici o genotipici, in grado di selezionare coloro che possano beneficiare dell’aumento di dose al momento della progressione. si potrebbe ipotizzare, come è accaduto nel nostro paziente, che coloro che hanno ottenuto un controllo di malattia più rilevante e duraturo, siano i maggiori beneficiari del passaggio alla dose di 800 mg/die, così come anche i portatori di mutazione a carico dell’esone 9 di kit. la possibilità di continuare a sfruttare l’attività di imatinib anche dopo progressione permette di procrastinare l’utilizzo di farmaci attivi in seconda linea, come sunitinib, incrementando così le chance terapeutiche del paziente, con un prolungamento del controllo di malattia e della sopravvivenza globale. il nostro paziente rappresenta un buon esempio di tale strategia e dell’efficacia del farmaco, con un profilo di tossicità gestibile e del tutto accettabile. le linee guida sono concordi nell’ottimizzare la dose di imatinib nei pazienti in progressione di malattia, prima di prendere in considerazione altre strategie terapeutiche [1]. le linee guida concordano però nel consigliare, al momento della progressione di malattia in corso di terapia a dose standard e in assenza di controindicazioni cliniche, il passaggio al dosaggio di 800 mg/die di farmaco. questo atteggiamento terapeutico, adottato anche nel nostro paziente, è giustificato da molteplici evidenze sperimentali. nei soggetti responsivi a imatinib, il recupero della risposta al farmaco, al momento della progressione, può essere ottenuto da un raddoppio del dosaggio. nello studio eortc-isg-agitg, 133 dei 247 pazienti in progressione di malattia con imatinib 400 mg/die hanno proseguito il trattamento con il medesimo farmaco a dosaggio doppio [15]. nel complesso si è registrato un 29,4% di controllo di malattia (stabilità di malattia più risposte parziali), una pfs media di 11,5 settimane, con un 18,1% di pazienti ancora vivi e liberi da progressione a un anno dal cross-over. l’incremento di dose è risultato essere ben tollerato, con solo il 17% di pazienti che hanno richiesto riduzione parziale del dosaggio. a parte un lieve incremento della frequenza di anemia ed astenia, le altre tossicità sono rimaste del tutto invariate, malgrado l’aumento della somministrazione del farmaco. sembrerebbe quindi che le tossicità tendano a verificarsi in una fase precoce del trattamento con imatinib, per poi attenuarsi, come accaduto tra l’altro al nostro paziente. una possibile spiegazione di tale fenomeno sta nel fatto che la clearance di imatinib sembra aumentare nel tempo, determinando così una buona tolleranza alle dosi elevate, soprattutto dopo una iniziale esposizione a dosaggi più bassi [16]. anche nello studio s0033 è stato realizzato un passaggio al dosaggio doppio di farmaco dopo progressione, permettendo di registrare una pfs media di 5 mesi, con il 25-30% di pazienti che hanno ottenuto un ulteriore controllo di malattia dopo il risposte ai quesiti emersi l’ottimizzazione della dose di imatinib in caso di progressione di malattia andrebbe cony siderata come prima scelta, rispetto al passaggio a una seconda linea di terapia. i dati presenti in letteratura evidenziano la possibilità di ottenere un ulteriore controllo di malattia pari a circa il 30% con imatinib a dosaggio di 800 mg/die con un profilo di tollerabilità prevedibile, maneggevole e nella maggior parte dei casi reversibile. il riscontro di tossicità reversibili e gestibili con la sola terapia medica in corso di trattay mento con dosaggio standard non preclude l ’incremento di dose. è dimostrato un trend in aumento per la clearance di imatinib con il tempo, che in parte spiega il miglior profilo di tollerabilità per il dosaggio 800 mg/die dopo esposizione iniziale a dose minore. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(suppl 1) 21 g. naso, e. cortesi bibliografia casali pg, blay jy; esmo/conticanet/eurobonet consensus panel of experts. 1. gastrointestinal stromal tumours. esmo clinical practice guidelines for diagnosis, treatment and follow-up. ann oncol 2010; (supplement 5): v98-v102 graadt van 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verginelli 1, silvia dari 2, silvia aquilani 2 1 dipartimento di igiene e medicina preventiva, università degli studi di roma tor vergata 2 coordinamento vaccinazioni, dipartimento di prevenzione, asl di viterbo abstract a 57 years-old woman with gastrointestinal pain, dysphagia, diplopia, dry mouth, was diagnosed with foodborne botulism caused by clostridium botulinum toxin. in this case a jar of vegetables preserved in oil was identified as the source of the intoxication. canned peppers were produced at home by the patient according to traditional techniques, deemed appropriate as established use. despite this, the procedure proved to be a health hazard. the present article follows the diagnostic therapeutic pathway of the patient, highlighting the critical points not only related to the clinic but also to the ministerial procedures for reporting a case of botulism. this case provides an opportunity to emphasize the need for greater awareness about how to prevent and correctly manage the cases of botulism, both by the general population and by physicians who faced a patient with suspected poisoning by botulinum toxin. keywords: foodborne botulism; clostridium botulinum; home canned pepper a case of foodborne botulism in the province of viterbo cmi 2016; 10(2): 27-31 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v10i1.1248 caso clinico corresponding author silvia dari silvia.dari@asl.vt.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo perché descriviamo questo caso per mettere in evidenza come sia possibile contrarre una patologia ormai relativamente poco frequente nel nostro paese attraverso procedure consolidate nella metodica casalinga ma comunque scorrette, come nel caso della preparazione e stabilizzazione degli alimenti che possono portare al botulismo. è necessaria quindi una maggiore diffusione dell’informazione corretta, come ad esempio le linee guida per la corretta preparazione delle conserve alimentari in ambito domestico realizzata dall’iss in collaborazione con il cnrb introduzione il botulismo è un’intossicazione alimentare causata da una tossina prodotta dal clostridium botulinum [1], un bacillo gram-positivo, anaerobio obbligato e sporigeno. ampliamente diffuso nel suolo e nelle acque di tutto il mondo sotto forma di spora, contamina facilmente gli alimenti all’origine, ma non sono mai stati registrati casi conseguenti all’ingestione di cibi freschi o appena cotti [2]. altre specie microbiche appartenenti al genere clostridium sono state correlate a casi di botulismo (c. baratii, c. butyricum) [3], ma sicuramente il c. botulinum risulta essere il più frequente. sono 3 le principali forme di botulismo [1]: botulismo alimentare, dovuto all’ingestione di cibo contaminato con la tossina botulinica [4,5]; botulismo infantile, dovuto all’ingestione di spore di clostridium, colpisce i bambini sotto i 12 mesi di età, probabilmente per le alterazioni funzionali e per l’immaturità della flora microbica che caratterizzano il loro intestino [6]. uno dei veicoli di questa patologia è il miele, che va quindi sconsigliato ai bambini di pochi mesi [7,8]; botulismo da ferita, dovuto all’infezione di ferite da parte di cl. botulinum, con conseguente produzione di tossine [9]. esistono 7 tipi di c. botulinum, indicati con le lettere dalla a alla g, distinti in base alle caratteristiche antigeniche delle esotossine prodotte. di questi i più frequentemente responsabili di patologia nell’uomo sono i tipi a, b ed e [2]. recentemente è stato identificato un ottavo tipo (h), che sembra essere il risultato del riarrangiamento genico delle tossine tipo a e tipo f [3]. queste tossine sono le più potenti che si conoscano: 1 g di tossina potrebbe uccidere 100 milioni di persone [2] ed è sufficiente una quantità pari a 1x10-8 g di tossina per determinare la morte di un soggetto [10]. dopo essere stata assorbita a livello intestinale (botulismo alimentare e infantile) o prodotta nei tessuti cutanei (b. da ferita) la tossina botulinica, attraverso il circolo ematico, raggiunge le terminazioni colinergiche periferiche, dove agisce bloccando la liberazione del neurotrasmettitore acetilcolina e causando danni delle sinapsi. ne conseguono paralisi flaccide motorie e disfunzioni del sistema nervoso autonomo con compromissione funzionale della muscolatura corrispondente (paralisi flaccida) [6]. nei casi di botulismo alimentare la sintomatologia neurologica compare in media dopo 24-72 ore (fino ad un’incubazione di 8 giorni) [11] ed è caratterizzata da segni gastrointestinali non correlati direttamente alla tossina botulinica (ma piuttosto alla concomitante presenza nell’alimento incriminato di altri microrganismi, come nausea, vomito e diarrea) ed altri più evidentemente correlati (stipsi ed atonia intestinale), segni neurologici oculari e faringei, con paralisi dell’accomodazione e del riflesso pupillare, diplopia, oftalmoplegia, disfagia di vario grado, secchezza delle fauci, e nei casi più gravi astenia e paralisi flaccida con progressione discendente (a partire dai nervi cranici, fino agli arti inferiori). in assenza di adeguata terapia, la morte può sopraggiungere per paralisi respiratoria o cardiaca dopo 3-10 giorni dall’inizio dei sintomi [6]. in italia le forme di botulismo sono piuttosto lievi, e il tasso di mortalità è molto basso. mentre le spore sono molto resistenti nell’ambiente esterno (vengono infatti inattivate conseguentemente a trattamenti termici di stabilizzazione effettuati alla temperatura di 121°c per almeno 3 minuti) [10], le tossine prodotte, uniche responsabili della patologia neuro paralitica, sono termolabili, quindi rapidamente inattivate già a 80 °c (per 15 minuti, nel caso dei tipi a e b) [10]. alcuni ceppi proteolitici, durante la fase di moltiplicazione, determinano una modificazione del sapore, del colore, dell’odore e della consistenza dell’alimento modificandone l’aspetto; altri ceppi, non proteolitici, non determinano alcuna modificazione evidente del cibo, nonostante la moltiplicazione e la produzione di tossine da parte del batterio. le intossicazioni dovute ai ceppi non proteolitici sono più subdole perché gli alimenti contaminati appaiono normali dal punto di vista organolettico [10]. nei paesi industrializzati l’efficacia dei processi industriali di stabilizzazione degli alimenti rende minimo il rischio di botulismo, mentre il pericolo maggiore deriva delle conserve di produzione domestica. negli stati uniti il botulismo rappresenta una realtà importante, con una media di oltre 100 casi all’anno: il 25% dei casi è riconducibile a botulismo alimentare, mentre la forma preponderante riguarda il botulismo infantile [1, 10]. in europa i paesi più colpiti sono quelli dell’est, in particolare nella zona caucasica, principalmente a causa dell’elevato consumo di verdure inscatolate e conservate a livello domestico. in italia il botulismo è ancora un problema di sanità pubblica, con una media di 20-30 casi segnalati ogni anno [1]. tra le malattie trasmissibili con obbligo di segnalazione alla asl di competenza, l’intossicazione botulinica appartiene infatti alla prima classe (con obbligo di segnalazione entro 12 ore da parte del medico che pone la diagnosi, anche sospetta) [12]. dal 1984 al 2010 sono stati confermati dal cnrb (centro nazionale di riferimento per il botulismo) dell’istituto superiore di sanità (iss) 376 casi, di cui l’85% di origine alimentare. le fonti di contagio sono risultate essere per il 72% conserve casalinghe e per il 28% industriali o artigianali [11]. in merito alla tipologia di alimento, i più coinvolti sono: conserve vegetali in olio e in acqua [13], prosciutto di produzione casalinga [14], formaggi [15], insaccati di suino (da botulus, salsiccia, deriva il nome della patologia, dalla prima osservazione di un evento epidemico, avvenuto in belgio nel 1897) [10], conserve di carne e di pesce. per la diagnosi di botulismo bisogna fare riferimento a criteri clinici, di laboratorio ed epidemiologici definiti dal ministero della salute con una circolare del 12 ottobre 2012 [11]. per porre il sospetto di botulismo alimentare o da ferita nell’adulto è necessario verificare la presenza di almeno una delle seguenti manifestazioni [11]: disfunzione bilaterale dei nervi cranici (diplopia, visione appannata, disfagia, compromissione bulbare); paralisi periferica simmetrica discendente. per quanto riguarda invece il botulismo infantile è necessaria la presenza, in soggetti di età inferiore a 12 mesi, di almeno uno dei seguenti: letargia, difficoltà nell’alimentazione, ptosi, disfagia, ipotonia generalizzata e costipazione. i criteri di laboratorio sono: presenza di tossine botuliniche nelle feci o nella ferita; identificazione della tossina botulinica in un campione clinico. i criteri epidemiologici prevedono che il paziente in oggetto sia stato esposto ad una fonte comune (alimenti, aghi o altri strumenti) oppure che sia stato esposto ad acqua o ad alimenti contaminati [11]. in caso di sospetto diagnostico di botulismo, la segnalazione al medico di sanità pubblica della asl competente deve essere effettuata entro le 12 ore, in modo da poter tempestivamente attuare l’indagine epidemiologica, il campionamento degli alimenti e il flusso informativo nei confronti della regione e del ministero della salute [11]. caso clinico una paziente di 57 anni della provincia di viterbo giunge al pronto soccorso dell’ospedale di belcolle (viterbo) il 29 settembre 2015 lamentando sintomi iniziati quattro giorni prima, quali nausea e vomito, a cui sono seguiti, a distanza di due giorni, diarrea, diplopia, secchezza delle fauci e, al quarto giorno, disfagia. la donna è stata immediatamente ricoverata al reparto osservazione breve. dall’anamnesi è emerso che la paziente aveva mangiato peperoncini ripieni sotto olio confezionati da lei alcuni giorni prima. al sospetto di botulismo è stata iniziata immediatamente la terapia con siero antibotulino (una unità, come riferito dal medico del pronto soccorso che l’ha somministrata) e sono stati inviati direttamente dall’ospedale belcolle al laboratorio di riferimento dell’istituto superiore di sanità (iss-dipartimento di sanità pubblica veterinaria e sicurezza alimentare, reparto pericoli microbiologici connessi agli alimenti), campioni ematici, di lavaggio intestinale e fecali della paziente, e il barattolo con il residuo alimentare. non è stata effettuata denuncia di sospetto botulismo alla asl di competenza, nei termini previsti dal sistema vigente di notifiche di malattie infettive [12]. dagli esami effettuati dal laboratorio dell’iss è emersa la presenza di tossina botulinica di tipo b nel residuato dei peperoncini in olio e nel siero, mentre il clostridium botulinum è stato ritrovato nel lavaggio intestinale e nel residuo alimentare del barattolo (olio e piccoli pezzi di tonno, capperi, peperoncini), nulla di rilevante è emerso dal tampone rettale. una volta inviata la denuncia di malattia accertata alla asl di viterbo, è stata avviata l’inchiesta epidemiologica. dall’indagine è emerso che la signora aveva preparato 4 barattoli di peperoncini ripieni sotto olio con i seguenti prodotti: peperoncini acquistati in una bancarella di frutta e verdura esposta a polvere, sulla strada tra taranto e praia a mare durante le ferie estive; tonno sott’olio acquistato al supermercato; capperi sotto sale acquistati al supermercato; alici sott’olio acquistate al supermercato; olio di oliva acquistato al supermercato e già precedentemente utilizzato per altre preparazioni. la preparazione è avvenuta con le seguenti modalità: bollitura dei peperoncini per circa 10 minuti in acqua e aceto; preparazione a freddo del ripieno (capperi, tonno e alici); bollitura dei barattoli per 20 minuti (a partire da acqua fredda) e successiva asciugatura su teli di cotone; inserimento dei peperoncini ripieni nei barattoli e successivo riempimento con olio fino al bordo; bollitura in pentola dei barattoli, riempiti e chiusi, per circa 20 minuti, senza capovolgerli, partendo da acqua fredda. tappi e barattoli erano già stati utilizzati in precedenza. la signora ha regalato un barattolo alla figlia, che ha riferito di averne mangiato il contenuto nei giorni successivi, senza lamentare alcun sintomo. tre giorni dopo la preparazione, il barattolo più capiente è stato aperto per una cena con 14 commensali. nessuno ha riferito sintomi. il barattolo aperto è stato conservato in frigorifero. i peperoncini sono stati poi mangiati, a distanza di 7 giorni dalla produzione, dalla signora, che ha anche utilizzato l’olio come condimento per una zuppa. la stessa notte sono iniziati i sintomi. dei quattro barattoli prodotti: uno è stato consumato dalla figlia; uno è quello incriminato; uno è stato gettato nei rifiuti dalla figlia appena saputa la causa della patologia materna; uno era ancora in possesso della signora. i tecnici della prevenzione del sian (servizio igiene alimenti e nutrizione, dipartimento di prevenzione asl di viterbo) si sono recati al domicilio della donna, con il compito di prelevare e inviare ai laboratori dell’iss per la ricerca di cl. botulinum l’ultimo barattolo rimasto. i risultati sono stati totalmente negativi. discussione il presente caso offre l’opportunità di evidenziare la necessità di una maggiore consapevolezza sulle modalità di prevenzione e corretta gestione dei casi di botulismo, sia da parte della popolazione generale, sia da parte dei medici che si trovino ad affrontare un paziente con sospetta intossicazione da botulino. nella prevenzione del botulismo, è fondamentale il rispetto delle procedure igieniche corrette per la conservazione degli alimenti e la produzione di insaccati, sia in ambito domestico, sia a livello industriale e artigianale. nel 2014 l’istituto superiore di sanità ha elaborato e diffuso, in collaborazione con il centro nazionale di riferimento per il botulismo, le linee guida per la corretta preparazione delle conserve alimentari in ambito domestico, che sono disponibili gratuitamente sia sul sito dell’iss sia su quello del ministero della salute [16]. la paziente del caso preparava da anni alimenti sott’olio senza alcun inconveniente, usando sempre le stesse procedure, ma le conseguenze della sua disinformazione erano in agguato; anche il caso ha avuto un ruolo importante: ha messo a rischio 14 persone in una cena, ma è stata colpita solo lei dalla tossina. apparentemente sembrerebbe non aver commesso alcun errore (trattamento dei vegetali con aceto, sterilizzazione dei recipienti, conservazione in frigorifero dopo l’apertura del barattolo), ma analizzando in modo più approfondito il caso emergono alcune perplessità. in primo luogo i 20 minuti di bollitura partendo da acqua fredda non sono sufficienti alla inattivazione delle spore e delle tossine eventualmente presenti. è necessario infatti raggiungere almeno i 121 °c con macchinari tipo autoclave per distruggerle , e una bollitura a bagnomaria di circa 20 minuti dal momento che l’acqua inizia a bollire per l’inattivazione della tossina. la bollitura è efficace soltanto per le conserve acide (ph inferiore a 4,5) e per le marmellate/confetture, dove lo zucchero è inizialmente in pari peso alla quantità di frutta utilizzata. sbagliato è risultato anche il riutilizzo dei tappi senza un adeguato trattamento [18]: è meglio utilizzare una volta sola i coperchi, per evitare che possibili alterazioni di forma possano non consentire il sottovuoto o la non corretta decontaminazione degli stessi. inoltre il mantenimento degli alimenti in frigorifero, pur rallentando fortemente la degradazione dei cibi, non la impedisce. pertanto è importante sottolineare che, indipendentemente dai tempi di conservazione, qualora il prodotto risultasse alterato non deve essere assaggiato né consumato, ma eliminato [16]. i sughi e le salse, gli oli aromatizzati, i succhi di frutta e il pesto vanno consumati entro 4-5 giorni dall’apertura [16]; tempi più lunghi, quali i 7 giorni del caso in esame, come dimostrato, sarebbero potuti essere fatali. un altro errore fondamentale che si è verificato nella gestione del caso è consistito dalla mancata comunicazione, da parte dell’ospedale, al medico di igiene pubblica della sospetta intossicazione botulinica. tale inosservanza dei flussi informativi ha ritardato l’inchiesta epidemiologica e ha messo potenzialmente a rischio altri soggetti che avrebbero potuto essere contagiati. bibliografia 1. epicentro. botulismo alimentare. disponibile su http://www.epicentro.iss.it/problemi/botulismo/botulismo.asp (ultimo accesso giugno 2016) 2. signorelli c. igiene epidemiologia sanità pubblica. secrets domande & risposte. roma: società editrice universo (seu), 2008 3. auricchio b, fiore a, anniballi f, et al. il botulismo alimentare in italia: sorveglianza, prevenzione e controllo. not ist super sanità 2014; 27: 3-6 4. chudzicka a. intoxication of botulinum 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corretta preparazione delle conserve alimentari in ambito domestico. disponibile online su http://www.iss.it/binary/spva4/cont/linee_guida_conserve_botulismo_def.pdf (ultimo accesso giugno 2016) cmi 2016;10(2)49-53.html life-threatening cerebral venous thrombosis: a case report daniel agustín godoy 1, érica álvarez 1 1 neurointensive care unit, sanatorio pasteur, catamarca, argentina abstract cerebral venous sinus thrombosis (cvt) can compromise dural sinus, cerebral veins or both. it is an uncommon condition and it is more prevalent in young women. several prothrombotic states are the principal predisposing factors. clinical spectrum of presentation is wide, so this entity requires a high suspect index for correct and prompt diagnosis. cvt may develop serious complications that can be life-threatening such as hemorrhagic venous infarctions, cerebral edema, and intracranial hypertension. this report describes the case of a woman who was in treatment for unspecific vaginal bleeding with oral contraceptives. suddenly she deteriorated to coma with severe respiratory compromise. neuroimaging showed thrombosis of multiple venous sinus. physiological neuroprotection, osmotherapy, mechanical ventilation and anticoagulation therapy were the keystones of treatment. in a few months, the patient has recovered a good functional status, while maintaining a motor deficit on the right hand. keywords: cerebral venous thrombosis; hemorrhagic infarctions; intracranial hypertension; magnetic resonance image; anticoagulation cmi 2016; 10(2): 49-53 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v10i1.1253 case report corresponding author daniel agustín godoy neurointensive care unit, sanatorio pasteur, chacabuco 675, 4700 catamarca, argentina dagodoytorres@yahoo.com.ar disclosure the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article why do we describe this case? cvt is a rare but potentially life-threatening type of stroke that occurs principally in young women. from a pathophysiological point of view, the thrombosis of the cerebral venous system increase microvascular pressure and blood brain barrier permeability, and compromise cerebrospinal fluid absorption. cerebral edema, parenchymal hemorrhages, acute hydrocephalus and intracranial hypertension are substrates for clinical presentation. different syndromes are classically described; intracranial hypertension (headache), focal deficits (paresis, aphasia), seizures and encephalopathy. introduction cerebral venous thrombosis (cvt) represents 0.5% of all strokes with an estimated prevalence of 5 people in 1 million each year. cvt may include thrombosis of cerebral veins and major dural sinuses [1-4]. this entity has a higher prevalence in young women during pregnancy, puerperium or taking oral contraceptives [1-4]. thrombophilia, infections of maxillofacial region and malignances are other important predisposing factors [1]. usually, cvt has a favorable prognosis, but it can be life-threatening in few cases [4]. the pathophysiological substrates for central nervous system dysfunction are cerebral edema, venous infarctions and intracranial hypertension [1-5]. magnetic resonance imaging (mri) is the keystone for the diagnosis and follow-up [1-4]. anticoagulation therapy, neurophysiological protection [6] and osmotherapy are the mainstays for acute management [1-6]. case report a 54-year-old woman is admitted to the emergency department in a coma, with a decerebration rigidity, no pupillary alterations, and an irregular breathing pattern. her score on the glasgow coma scale was 4. vital parameters were: mean arterial pressure (map) 88 mmhg, heart rate 126 beats/min (sinusal rhythm), central temperature 36.3 ° c (esophagus), and respiratory rate 11 breaths/min. three days before the patient had suffered from a headache and progressive left hemiparesis. on admission, the patient was taking enalapril arterial hypertension, and oral and intravenous contraceptives, started 3 months earlier due to non-specific vaginal bleeding. after an adequate and complete resuscitation, including control of upper airways with orotracheal intubation, oxygenation, and hemodynamic stability, she was transferred to the radiology department. an unenhanced computed tomography (ct) scan in sagittal view showed spontaneously hyperintense superior longitudinal sinus, and bilateral occipital hemorrhagic infarctions. mri showed hemorrhagic infarctions and occlusion of several sinuses. (figure 1). electroencephalogram showed non-convulsive status epilepticus. figure 1. neuroimaging at admission. (a) ct scan shows bilateral occipito-parietal infarctions with hemorrhagic transformation and peri-lesional edema; (b) mri in axial t2-weighted image shows increased signal intensity in both occipital and left frontal lobes; (c) mri venography demonstrating occlusion of superior and inferior sagittal (arrows) and (d) left transverse sinus (arrow)   after the diagnostic imaging, the patient was transferred to the neurointensive care unit. she was sedated (midazolam 3-5 mg/kg/h), anesthetized (remifentanil 0.25-0.4 mcg/kg/min) and mechanically ventilated. then she was treated with physiologic neuroprotection [5]5 and osmotherapy. at the same time an anticoagulation therapy with low weight molecular heparin (enoxaparin 1 mg/kg twice daily) and warfarin (5 mg/day) was started in order to obtain a targeted international normalized ratio (inr) of 2.5-3. an exhaustive search of predisposing factors ruled out cancer and infections of the ear, paranasal sinuses, mouth or face. prothrombotic predisposing causes of cvt (antiphospholipid syndrome, deficit antithrombin iii, protein c and s) were excluded. fibrinogen and viii factor levels were in the normal range, and no mutation of leiden factor was found. the non-convulsive status epilepticus was controlled with midazolam (5 mg/h) and levetiracetam (3 g/day). after two weeks of mechanical ventilation, a tracheostomy was performed. atelectasis and ventilator-associated pneumonia were corrected with physiotherapy and antibiotics (imipenem 2 g/day and amikacin 1 g/day). a control mri showed the recanalization of affected sinuses (figure 2). figure 2. follow up mri and mri venography that showed evolution of venous infarctions (a, b) and recanalization of superior and inferior sagittal sinuses (c ) after 31 days, the patient was discharged to rehabilitation unit. she appeared lucid, oriented and in a good consciousness state but she has a severe paresis of her left arm and leg. after two months of rehabilitation, neurocognitive functions have shown a strong recovery, even though her right hand still showed difficulty moving. what should the clinician ask him/herself or the patient? while cvt has different presentation forms, in over 90% of cases the predominant symptom is a headache. headaches are a very common cause of consultation, especially in young women. cvt is a diagnosis to keep in mind! cvt requires a high index of suspicion and meticulous research of predisposing factors (pregnancy, the use of oral contraceptives, maxillofacial infections, malignancies, thrombophilia), because it is a treatable entity with good prognosis if early diagnosis and appropriate treatment are undertaken. discussion cvt is an entity with pathophysiological, diagnostic and therapeutic features that differ from stroke of arterial origin [1-4]. the clinical spectrum of presentation is highly variable and can be confused with other entities [1-4]. the onset of symptoms may be acute, subacute or chronic, while signs and symptoms depend primarily on the location and extent of thrombosis, as well as the pathophysiology of venous occlusion is characterized by the development of cerebral edema, venous infarcts and intracranial hypertension due to mass effect or hydrocephalus [1-4]. unspecific headaches, without characteristic features that clearly distinguish them from others, are present in over 90% of cases. it is therefore extremely important to take in mind this entity, in order to avoid delays in diagnosis, especially in young women under contraceptives oral or hormonal therapy or during pregnancy and postpartum [1-4]. women’s specific pregnancy puerperium oral contraceptives hormonal therapy thrombofilic states antiphospholipid syndrome deficiencies of antithrombin, protein c and s factor leiden (v) mutation prothrombin gene mutation hyperhomocysteinemia nephrotic syndrome infections otitis, mastoiditis, sinusitis meningitis systemic infections chronic inflammatory diseases systemic erithematosous lupus vasculitides inflammatory bowel disease cancer all types hematologic disorders polycitemia essential thrombocytosis paroxysmal nocturnal hemoglobinuria trauma traumatic brain injury maxillo-facial trauma jugular venous catheterization neurosurgery lumbar puncture table i. predisposing factors for cvt development in 40% of cases, the presenting symptom is a focal deficit, motor (hemiparesis-plegia), sensory or language disorders, while in more than one 1/3 of cases the onset of thrombosis is indicated by the presence of seizures [1-4]. mental status changes dominate the clinical picture in elderly patients or when venous impairment is extensive and severe [1-4]. diagnostic confirmation requires the help of neuroimaging [14]. unenhanced ct can help especially in the differential diagnosis to detect other pathologies. while it may show bleeding or venous infarcts, the sensitivity of this method is poor [1-4]. signs classically described as the “cord” (venous or sinus hyperdense) or “empty delta” (filling defects) are present in only 1/3 of the cases after injecting contrast material [1-4]. venography by computed tomography is an alternative method that can detect quickly and accurately the cvt with good sensitivity [1-4]. current aha/asa guidelines recommend mri in t2 sequence and mr venography as the test of choice for the diagnosis and follow-up of the cvt [2]. digital subtraction angiography with venous-time enhancement should be reserved only for cases of doubt or when a therapeutic endovascular procedure is necessary [1-4]. to complete the diagnosis, it is essential to search other predisposing conditions that favor the development of thrombotic states such as maxillofacial infections, thrombophilia or cancer [1-4]. the management of the acute phase is based on 4 pillars [1-5]: avoiding secondary insults that can aggravate the primary damage; control of seizures, and intracranial hypertension; anticoagulation; monitoring of complications that may require rescue therapies. the best way to avoid secondary insults is through physiological homeostasis or neuroprotection [6]; that is, simply, to maintain basic physiological variables within normal ranges, ensuring ventilation, adequate oxygenation, and hemodynamic stability [6] additionally, a strict control of temperature, blood glucose and serum sodium is very important [6]. seizure control is no different from other circumstances, only we emphasize the value of eeg monitoring without which it is impossible to detect non-convulsive states, principally in individuals under mechanical ventilation, sedation and analgesia [1-5]. anticoagulation is the key to the therapy because it prevents the thrombus propagation, helps the venous recanalization of occluded territories, and prevents potentially lethal complications, such as deep vein thrombosis and pulmonary embolism [1-5]. despite the controversy regarding anticoagulation in individuals with bleeding or venous infarctions and based on randomized controlled trials, current guidelines recommend starting immediate anticoagulation to achieve an inr value between 2 and 3 [2]. unfractionated heparin or low molecular weight heparin are safe and effective options, and there is no evidence to support the use of one rather than the other [1-5]. generally, the above measures are sufficient to control intracranial hypertension; occasionally osmotherapy (hypertonic saline solutions or mannitol) or external ventricular drainage may be needed [5]. while most individuals respond to the therapeutic measures mentioned above, some require additional procedures such as direct venous fibrinolysis through catheter by endovascular therapy and/or decompressive craniectomy for control of refractory intracranial hypertension [1-5]. despite the favorable prognosis usually associated with this disease, the case presented here summarizes all aspects of the management of a potentially lethal clinical form, that can occur in approximately one of every four cases of cvt. to avoid diagnostic and therapeutic delays, it is essential to consider this entity and establish a high index of suspicion for individuals with a headache, focal neurologic deficits or mental status changes, especially when one or more predisposing factors are present. in these cases, a systematic pathway to study and confirm the original etiology should trigger. clinical suspicion of cvt requires confirmation with diagnostic imaging, preferably mri. anticoagulation therapy is mandatory, despite the presence of cerebral hemorrhages. key points cvt is a neurologic emergency that require high suspicion index screening of predisposing factors is mandatory mri is a gold standard for diagnosis and follow up anticoagulation is the key stone of the treatment in certain situations cvt can be life threatening references 1. bushell c, saposnik g. evaluation and management of cerebral venous thrombosis. continuum 2014; 20: 335-351. doi: 10.1212/01.con.0000446105.67173.a8 2. 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4: 213-29. doi: 10.5492/wjccm.v4.i3.213. ecollection 2015 proposed algorithm for cerebral venous thrombosis (cvt) management mri = magnetic resonance image; mrv = magnetic resonance venography; iv = intravenous; lmhw = low molecular heparin weight; inr = international normalized ratio; ich = intracerebral hemorrhage cmi 2016;10(3)57-61.html il lavoro psicologico-psichiatrico: tra prassi professionale e prassi personale roberto infrasca 1, claudia tonelli 2 1 psicoterapeuta, la spezia 2 infermiera professionale psichiatrica, la spezia   the psychological-psychiatric work: between professional and personal practices cmi 2016; 10(3): 57-61 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v10i3.1261 editoriale corresponding author roberto infrasca roberto.infrasca@libero.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo note introduttive il lavoro psicologico-psichiatrico è estremamente importante per la dimensione umana e psicopatologica che affronta. la delicatezza di tale intervento pone le diverse figure professionali di fronte ad un compito gravoso e molto complesso sulla sofferenza umana (comunque questa si presenti, fisica e/o psicologica), divenendo un’operatività per niente vocazionale, ma declinata sull’umano partecipato e professionale utilizzato. in questa ottica il panorama che si dischiude assume un profilo molto diverso da quello tradizionalmente percepito, divenendo una nuova, per quanto conosciuta, modalità di intervento sulla sofferenza psichica, vista e vissuta come “sofferenza” e non quale routine lavorativa. tale prassi prevede una serie di irrinunciabili condizioni preliminari che elenchiamo di seguito schematicamente: partecipazione e non rapporto “confidenziale”; utilizzare il “lei” e non il “tu”: al paziente deve essere continuamente rimandata l’immagine di una dimensione personale con suoi contorni definiti e rispettabili, per quanto problematici, e non amicali; empatia, cioè la capacità di comprendere le problematiche dell’altro senza “con-fondersi” emotivamente con la persona, mantenendo la propria dimensione professionale; orientamento personologico individuale nel lavoro di gruppo (partecipazione fattiva); bisogni soggettivi e regole dell’interazione professionale: i primi devono essere necessariamente assoggettati alle seconde deve essere tenuta sotto controllo la richiesta (inconsapevole) dell’operatore sanitario che il paziente riscatti le sue frustrazioni personali lavoro di gruppo centrato sulle problematiche del paziente versus lavoro centrato sulle problematiche personali degli operatori. il lavoro psicologico-psichiatrico tra contenuti “professionali” e contenuti “personali” il lavoro psicologico-psichiatrico e di altre figure professionali (infermiere, educatore) diviene così molto importante. l’attività multidisciplinare assume la valenza di un’operatività essenziale nel settore sanitario che qui viene analizzato, ma anche in altri ambiti. la simultanea presenza di figure professionali che portano nella quotidianità una differente veduta e un differente vissuto esperienziale diviene una ricchezza da utilizzare. quanto affermato significa che il lavoro di gruppo (multidisciplinare) deve necessariamente essere indirizzato in alcune direzioni, tralasciandone altre, molto deleterie e pervasive nella pratica clinica. dosare le due importanti dimensioni di cui ogni individuo dispone, vale a dire quella personale e quella professionale, è l’unica strategia che l’operatore può utilizzare per dare una positiva risposta alla sofferenza umana. gli schemi che seguono sono una modalità sintetica attraverso la quale rendere visibili dinamiche interattive complesse, a volte illeggibili dall’esterno e non raramente anche dall’interno. nella figura 1 si rappresenta lo schema relativo ad un lavoro sanitario orientato prevalentemente dalla dimensione personale (bisogni, problemi, conflitti, dell’operatore e tra gli operatori. figura 1. schema del lavoro sanitario orientato dalla dimensione personale degli operatori il paziente portatore della sofferenza appare, come indicato nello schema, decisamente periferico rispetto agli scopi del gruppo di lavoro, che risulta invece orientato ad una propria e non agevolmente espugnabile centralità. tale situazione prevede una serie di conseguenze sostanziali di non facile comprensione e compensazione. la prima suppone che il paziente avverta una perifericità esistenziale della propria dimensione rispetto al gruppo “terapeutico”, vissuto che non lo sollecita ad avere un atteggiamento di compliance teso alla collaborazione. la seconda richiama anche una limitrofa emozionalità (già) vissuta per molti anni nel periodo infantile. tale aspetto storico ha prodotto una serie di microtraumi la cui ripetizione nella realtà vissuta può diventare una situazione di accumulazione intrapsichica che pone le potenziali basi per l’esordio di quadri psicopatologi. inoltre, va tenuto presente che le persone che rivivono una condizione traumatica infantile, proiettano e vivono le figure professionali con cui sono a contatto come “non persone, diverse ma uguali a quelle sperimentate”, percezione profonda che squalifica le figure professionali, invalidandone la credibilità. tale situazione tende a produrre elementi basilari solitamente negativi per iniziare e condurre una relazione terapeutica che possa raggiungere risultati per quanto possibile soddisfacenti. nel lavoro multidisciplinare un altro aspetto deteriore delle figure sanitarie è rappresentato dalla predominanza nelle stesse di una dimensione infantile in una struttura cronologicamente adulta. in questo contesto, “infantile” non viene usato nel significato tradizionale, bensì quale modalità mentale e comportamentale informata e diretta da bisogni e aspettative appartenenti a epoche evolutive ormai trascorse e troppo lontane. questa situazione produce sistematicamente un’ombra sull’emotività del paziente, dal momento che i bisogni infantili degli operatori sanitari diventano centrali, esclusivi ed escludenti quelli del paziente. la condizione prospettata assume una connotazione molto negativa e delicata per due ragioni particolari. la prima viene rilevata nel sentimento del paziente di essere nuovamente “solo e perso”, in mano a persone che non riescono a cogliere la sua sofferenza, ma tendono a ricavare dalla relazione “terapeutica” effimere e inconsistenti gratificazioni personali. la seconda si esplicita nell’aumento dell’aggressività del paziente che deve vivere esperienze di impotenza (presumibilmente) già vissute, ma che trovano nell’attualità una dolorosa rievocazione che diviene un peso emozionale aggiuntivo. inoltre il gruppo descritto (operatori 1-2-3-4) è deputato a produrre molte comunicazioni circolari, commettendo però molti errori: complessivamente otto errori comunicativi, dal momento che tutti e quattro gli operatori sono sullo stesso livello (quello “personale”). di fatto la modalità relazionale presentata dimostra di essere esposta in maniera molto elevata a quelli che vengono definiti “rischi della professione sanitaria”, rintracciati in alcuni meccanismi difensivi sinteticamente proposti [1,2,]. la proiezione delle proprie parti interne sul paziente struttura un rapporto irreale che non riguarda il paziente, bensì i “fantasmi” provenienti dalla struttura emozionale e intrapsichica dell’operatore. con la proiezione l’operatore affronta così conflitti e stress (interni ed esterni) attribuendo ad altri i propri sentimenti, impulsi o pensieri, non riconosciuti come propri: nega i propri vissuti interiori, le proprie intenzioni, la propria esperienza, attribuendoli a persone dalle quali si sente “minacciato”. la proiezione permette così all’individuo di affrontare le emozioni che lo fanno sentire troppo vulnerabile (particolarmente alla vergogna o alla umiliazione) per poter ammettere di provarli. la condizione delineata, entrando in relazione con una molteplicità di strutture personologiche (pazienti), tende inevitabilmente (statisticamente) a sollecitare nella figura sanitaria la rievocazione di vissuti personali, dando luogo a emozioni e comportamenti (positivi o negativi). nel caso di positività, l’operatore tenderà a non intervenire sulla situazione del paziente. nel caso di negatività, invece, la rievocazione di precedenti e sofferte esperienze, cui è necessariamente legato disagio psichico e conflitto, tenderà a sollecitare in questa figura sgradevoli e silenti sensazioni rabbiose, distanza emozionale, resistenza e disagio a occuparsi del paziente. l’eccesso di auto o eterocentrismo rappresenta un altro latente rischio professionale. nella prima condizione (autocentrismo) l’operatore non riesce ad attivare alcuna relazione di ascolto con il paziente per la sistematica pressione esercitata dai propri bisogni interni. nella seconda situazione (eterocentrismo), la figura sanitaria, negando i propri bisogni, tende a mettere in atto un “ascolto totalizzante” delle richieste comunicate dal paziente, perdendo i propri confini personologici e quindi la propria dimensione professionale. la situazione descritta inserisce nell’operatore sanitario sentimenti di inadeguatezza e insicurezza che pregiudicano la capacità di instaurare un relazione terapeutica. il sentimento di onnipotenza è una difesa con la quale l’operatore sanitario risponde a un conflitto emotivo o a fonti di stress interne o esterne, comportandosi come se fosse superiore agli altri, se possedesse poteri e capacità speciali. tale meccanismo difensivo dell’io protegge tale figura da una perdita dell’autostima che si attuerebbe ogni volta che fonti di stress generano sentimenti di impotenza, delusione, disvalore personale, ecc. il controllo dell’io è qui riferito al dolore e quindi al controllo della morte, vale a dire la massima espressione della potenza di questa istanza. tale meccanismo difensivo tende a inserire nell’operatore la negazione dei propri limiti, della propria “finitudine” creando così nel paziente aspettative, o meglio illusioni, che divengono velocemente fonte di vissuti di inutilità e di frustrazione. l’anticipazione dei bisogni è un meccanismo per mezzo del quale l’operatore trasferisce sul paziente il proprio desiderio di sentirsi utile. il rischio di tale atteggiamento viene rintracciato nel tacitare la comunicazione del paziente riguardo ai propri bisogni, che rimangono inespressi. la scarsa capacità dell’operatore di tollerare l’attesa della comunicazione o la richiesta del paziente suscita in questo vissuti fantasmatici di inutilità, sollecitando interventi avventati e invasivi nel “territorio emotivo” del paziente, comprimendone lo spazio personale e personologico, dimensione già ridotta dalla psicopatologia. assumere un ruolo terapeutico per il paziente significa principalmente imparare l’attesa, rimandare i propri bisogni rispettando i tempi e i silenzi della persona in sofferenza. quanto argomentato richiama il concetto di “esame di realtà”, vale a dire: «una funzione preconscia costantemente attiva che automaticamente sceglie le nostre esperienze per orientarci nel comprendere se si tratta di una percezione esterna o intrapsichica – una vera percezione dei sensi o un’illusione; un ricordo o un prodotto dell’immaginazione; e quale posizione occupi all’interno di queste categorie – un vero oggetto o il disegno di un oggetto, il ricordo di un fatto o il ricordo di una fantasia» [3]. figura 2. lavoro orientato dalla dimensione professionale in questo terreno freud (1911) afferma che «la funzione del giudizio ha in sostanza due decisioni da prendere [...] la qualità [...] utile o dannosa e se una certa cosa, presente nell’io come rappresentazione, possa essere ritrovata anche nella percezione (realtà) [...] il soggettivo è soltanto dentro; l’altro, il reale, è presente anche fuori» [4]. molto differenziato dal modello relazionale sopraesposto appare invece il lavoro sanitario centrato sui bisogni del paziente, operatività schematizzata in figura 2. nello schema proposto il paziente assume un ruolo di centralità, mentre gli operatori sanitari quello di convergenza professionale sullo stesso. il paziente diviene così la dimensione esistenziale che stimola l’interesse professionale teso ad alleviare (e qualora possibile ad annullare) la sua sofferenza e il suo disagio soggettivo. tale intervento si configura come quello più adatto a conseguire risultati positivi nel tragitto terapeutico. di fatto, le comunicazioni partono e convergono sul paziente, tenendo sotto controllo la dimensione personale, situazione che aumenta decisamente la probabilità di ridurre gli errori ad una quota accettabile, e comunque non negativamente incisiva sul paziente. le due differenti modalità di lavoro esposte non mostrano (e non hanno) possibilità di essere coniugabili, né tantomeno armonizzabili, modulazione decisamente auspicabile, che presupporrebbe però troppi anni per la sua attuazione (e con forti riserve sui risultati possibili). nell’ottica delineata, “personale” e “professionale” non possono quindi appartenere alla stessa prassi lavorativa, situandosi in terreni clinici e relazionali decisamente opposti e disomogenei. il lavoro psicologico-psichiatrico tra (molto) professionale e (poco) personale l’esperienza clinica nel lavoro sulla psicopatologia del paziente ci mette in condizione di fare affermazioni che non risultano prive di attendibilità. decenni di lavoro sul campo ci permettono quindi una valutazione sulle quantità ottimali delle dimensioni – personale e professionale – indagate nella presente ricerca. la miscelazione dei contenuti della relazione terapeutica più favorevole ci appare la seguente: 80-85% professionale; 20-15 % personale. comprendere il contenuto, semplice e nel contempo complicato, delle affermazioni proposte necessita di alcuni importanti assunti. per definizione, la professionalità non ha nessuno scopo o ragione di esistere senza una persona sulla quale tale conoscenza acquisita sarà orientata. per un odontoiatra – ad esempio – se nessun essere umano avesse problemi dentari, a che cosa servirebbe la sua professionalità? la professionalità non può quindi che dirigersi verso una persona portatrice di un disagio, dimensione umana che acquisisce per questo una centralità non discutibile e negoziabile. nel settore sanitario indagato, tale prassi prevede che la professionalità sia direzionata sul disagio psichico. in caso contrario non sarebbe plausibile e concepibile la ragione del suo esistere. questa dimensione trova la sua legittimazione e soddisfazione lavorativa nella “dimensione paziente”, nel tentativo di curare il suo disagio (modalità autoplastica, vale a dire capace di adattarsi alle sue necessità senza appiattirsi sulle stesse). molto diverso, se non antitetico, appare il discorso sul ruolo dei contenuti personali nel lavoro psicologico-psichiatrico. tale aspetto delle diverse figure sanitarie non segue ovviamente il tragitto della professionalità, risultando autocentrato sulle soggettive problematiche che rimangono confinate ad un terreno esistenziale asfittico e afono. in questa situazione, le condizioni appaiono invertite: la professionalità è orientata verso il paziente, i contenuti personali chiedono invece al paziente (in modo più o meno inconsapevole) di guardare verso di loro. nel contesto delineato, anche i ruoli si invertono: il paziente deve prendersi cura delle figure sanitarie con nefaste conseguenze facilmente immaginabili. un gruppo che funzioni prevalentemente con tale prassi tende a generare conflitti e rabbia al suo interno e anche nei pazienti, con l’unico risultato di staccarsi progressivamente dal disagio psichico, per avvicinarsi ai propri problemi. tale atteggiamento può agevolmente essere definito alloplastico, vale a dire un comportamento che tende a cambiare (o manipolare) l’ambiente e le persone secondo i propri bisogni soggettivi. nel panorama delineato emerge una deteriore competitività tra le figure professionali (tesa a conquistare centralità e quindi valorizzazione personale), che produce energie e sforzi prevalentemente recintati e non evolutivi (per il gruppo e per il paziente). all’interno di questa asfittica trama relazionale, il soggetto portatore di disagio perde questa sua importante connotazione, volatilizzazione della sua dimensione umana, che lascia il posto ad un’indistinta figura di difficile collocazione professionale, ambientale e esistenziale. note conclusive il quadro illustrato è un fedele spaccato di quanto il lavoro psicologico-psichiatrico (come altre attività sanitarie) sia ormai sottoposto ad una negativa cultura di natura economicistica, superficiale e individualistica (quando non decisamente narcisistica), deteriore modello che negli ultimi 15-20 anni ha mutato sensibilmente il contenuto basilare di tutte le “relazioni di aiuto”. questa innaturale trasformazione ha prodotto una serie di dannose conseguenze, restringendo la professionalità a “mere informazioni” che mancano di uno spessore umano, di empatia, di attiva e efficace collaborazione tra figure sanitarie e paziente, di un interscambio tra le stesse sicuramente arricchente e maturativo, che ormai si limita ad essere un semplice scambio tra ruoli sociali, determinando una confusione lavorativa di non facile attenuazione o soluzione (le cronache sulla sanità pubblica e privata avvallano e rinforzano tale percezione). ritornare progressivamente alla supremazia del professionale sul personale, dell’umano sullo strumentale sarebbe un significativo avvio di revisione del tipo di prassi interattiva nel lavoro sanitario, rispetto all’ineliminabile contenuto di sofferenza ad esso connaturato. quanto argomentato sollecita quindi una riflessione autocritica profonda sui concetti di figura sanitaria, di paziente e di sofferenza umana, che non possono essere confinati ad una tecnologica “catena di montaggio”. in questo ambito, il concetto di etica professionale e di esistenza perdono il loro spessore umano e valoriale, riducendosi ad una mera e inconsistente “teatralità lavorativa”. bibliografia 1. matteotti a, crestana n, trevisani ai. psicologia e professione infermieristica. milano: editrice ambrosiana, 1991 2. lingiardi v, madeddu f. i meccanismi difensivi. milano: raffaello cortina, 1994 3. rapaport d. le tecniche proiettive e la teoria del pensiero. in: rapaport d. il modello concettuale della psicoanalisi. milano: feltrinelli, 1977 4. freud s. precisazioni sui due principi dell’accadere psichico. opere, vol. 6. torino: bollati boringhieri,1989 cmi 2017;11(1) 1-5.html the role of psychological interventions in chronic headache management: a case report rosario iannacchero 1, alessandra sansalone 1, amerigo costa 1, ermanno pisani 2, antonio siniscalchi 2 1 centre for headache and adaptive disorders, unit of neurology, department of neuroscience and sensory organs, “pugliese – ciaccio” hospital, catanzaro, italy 2 unit of neurology, department of neuroscience and sensory organs, “dell’annunziata” hospital, cosenza, italy abstract according to the biopsychosocial model, biological, psychological, and social factors entwine and influence each other bi-directionally concerning health conditions. therefore, especially in disorders such as chronic headache, where behavioral and environmental factors are prominent risk factors and triggers, psychosocial interventions might contribute to reduce the burden of the health condition and related affective disorders and disability. we present the case of a medication overuse headache patient self-reporting psychosocial and cognitive issues, that prompted further clinical-psychological and neuro-cognitive assessment and eventually psychological interventions targeted at headache management in conjunction with medical treatment. psychological interventions were tailored to the patient’s features and presentation and were successful in reducing headache attacks in terms of intensity, frequency, and debilitation, thereby resulting also in a better perceived general health. keywords: headache disorders; migraine disorders; psychology; medication overuse headache il ruolo degli interventi psicologici nella gestione del mal di testa cronico: un caso clinico cmi 2017; 11(1): 1-5 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v11i1.1287 case report corresponding author rosario iannacchero centrocefaleeaopc@gmail.com disclosure the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article why do we describe this case we describe this case to underline that chronic headache can be successfully addressed using a biopsychosocial framework. tailored psychological interventions in conjunction with medical therapy might be able to enhance clinical and psychosocial outcomes. many headache triggering or interfering with headache and its management factors are grounded on a behavioral level, then psychological interventions might help removing some obstacles to reaching satisfactory health introduction chronic daily headache (cdh) is among the most frequent and disabling neurological conditions, affecting 4% to 5% of the general population [1] and being one of the main causes of disability for the adults [2]. cdh is a category comprising different disorders, all of them presenting with headache attacks occurring at least 15 days a month [1]. a large burden comes from chronic migraine (cm), which affects approximatively 2% of the general population [3] and consists of migraine attacks occurring at least 15 days per month [4]. treatment of cdh usually involves preventative therapy to be taken daily in order to prevent attacks, and attack therapy to be taken every time a headache attack starts [5]. common preventative headache drugs are, for instance, anticonvulsants and antidepressants, while nonsteroidal anti-inflammatory drugs (nsaids), other pain relievers and headache-specific triptans are used, among others, as attack treatments [5]. another preventative pharmacological option for cm consists of periodical botulinum toxin injections [6]. medication overuse headache (moh) is a cdh caused by the patient’s excessive use of pain medications [4]. it is a disabling condition rooted in a compulsive behavior and it might need a complex setting of care in order to be effectively treated: lack of control in regards to medication usage and other co-existing behavioral problems need to be addressed [7]. there is a high prevalence of mental health problems among cdh sufferers, that can constitute an obstacle to an effective management of the condition [8]. chronic headache disorders might then need a comprehensive approach with treatments aimed not only at reducing frequency and severity of the headache episodes, but also at decreasing the effects of headache on psychosocial functioning [9]. clinicians may want to consider all factors co-determining disorder onset, progression, severity, and disability in order to provide effective care [9]. in later decades, a theoretical model underlining the interaction of physiological, psychological (cognitive, behavioral, and affective) and social (environmental, work, and family) factors has emerged as a comprehensive model of understanding and treating chronic headache, the biopsychosocial model [10]. according to this model, biological, psychological, and social factors entwine and bi-directionally influence each other [10]. therefore, including psychosocial principles and interventions in a setting of care might contribute to reduce health condition burden and related psychosocial problems [9]. the most common reason for referring a headache patient to a clinical psychologist, a counseling psychologist, or a psychotherapist is the presence of major mental health and behavioral disorders like mood disorders, anxiety disorders, sleep disorder, eating disorders, and addictions [9]. other reasons for a psychological referral are cognitive and behavioral elements related to ineffective management of the health condition such as poor trigger management, poor stress management, and excessive use of medications [9]. various methods of psychological intervention are available in headache and pain management [11] and we present a case of a chronic headache with excessive use of medications treated, according to the biopsychosocial model, with medical therapy and supportive psychological interventions tailored to the patient’s features and presentation. case description the patient is a female 52-year-old homemaker, married and living with her husband and mother, who was referred by her general practitioner and came to the centre for headache in the fall of 2014 (t1). she had a 15-year clinical history of chronic migraine (cm) and no other significant medical condition. she also reported high level of stress, feeling the burden of her homemaker and caregiver duties and reported anxious symptoms. during the previous 15 years, she had a semi-continuous use of different nsaids, mostly as self-medication, such as ibuprofen, ketoprofen, and recently diclofenac 50 mg (she would occasionally take up to 150 mg in a day). she reported having used under prescription 100 mg of topiramate per day as a preventative therapy years ago without satisfactory results. she referred pulsating and stabbing headache attacks located in left and right (not simultaneously) temporal and orbital head areas. she reported 30 headache days per month (hdpm). she would rate 9 out of 10 her usual headaches on the pain numerical rating scale (nrs). the attacks would last from 4 to 12 hours. she had often nausea, photophobia, and phonofobia during attacks. the neurological examination had otherwise normal findings. brain magnetic resonance imaging (mri) showed an occipital arachnoid cyst that was considered being likely asymptomatic. venous magnetic resonance angiography (vmra) was negative. at the psychological evaluation, the patient reported significant levels of anxiety and cognitive issues, especially regarding memory, attention, and focusing. the patient completed questionnaires regarding anxiety (zung self-rating anxiety scale = 45; normal values: 20-40), depression (zung self-rating depression scale = 38; n.v. = 20-43), cognitive functioning (cognitive failure questionnaire = 36; n.v. = 0-42) and disability (migraine disability assessment – midas = 56; n.v. < 21). the patient was diagnosed probable medication overuse headache (pmoh) and was prescribed levetiracetam (250 mg to 500 mg per day) as a preventative therapy and almotriptan (12.5 mg) as an attack therapy. in addition, the patient was advised to avoid taking nsaids for the headache and to compile a headache diary. after three months (t2), headache frequency, intensity, and disability were slightly reduced (25 hdpm; nrs = 8; midas = 48). examining the headache diary, it emerged that adherence to therapy was partial and nsaids were still used albeit in a reduced scale. the moh diagnosis was confirmed. the patient kept reporting her psychosocial issues. even though no major emotional or cognitive impairment was evident at the interview, a more comprehensive neuro-cognitive and clinical-psychological assessment was performed. general cognitive efficiency, memory, constructional praxis, and executive functions were assessed. personality was assessed using minnesota multiphasic personality inventory (mmpi-2), that showed no psychopathological scores, and barratt impulsiveness scale (bis-11), that showed mild personal impulsivity. the neuropsychological profile was borderline regarding general cognitive efficiency, abstract logical reasoning, prose memory, semantic fluency, spatial planning, and attention. performance deficits were detected in visual short-term memory, verbal long-term memory, visual long-term memory, phonemic fluency. these findings were not sufficient for a neuro-cognitive or psychopathological diagnosis, but they had nonetheless psychometric value in terms of patient’s understanding. it was hypothesized that a probable executive impairment could relate with behavioral aspects relevant to moh and chronic headache, such as non-adherence and compulsive medication use [12]. considering that the patient could benefit from psychological and educational interventions in conjunction to the medical therapy, she was proposed to attend a number of 6 psychological sessions during the following 2 months. the patient was advised to continue medical therapy as prescribed before. during the psychological sessions some cognitive, behavioral, affective, and personality elements relevant to headache management were addressed. initially, using diaries, headache triggers were identified and their relationship with affective states of anxiety, anger, frustration, and depletion of mood was explored. health behaviors and adherence to medication usage were emphasized with a focus on personal ability to actively pursue headache management with effective behavioral strategies. the importance of adhering to the prescribed medical therapy and communicating with the health care team was stressed. the patient was taught self-pacing and relaxation techniques aimed at helping her in reducing perceived stress and health-related and psychosocial anxiety. the importance of a healthy lifestyle in terms of eating, sleeping, and physical activity was pointed out. three months after her last neurological visit, at a follow-up (t3), diaries revealed a better adherence and the patient communicated reduction of headache attacks in terms of intensity, frequency, and debilitation (11 hdpm; nrs = 7; midas = 20), while referring an increased confidence in managing her headaches and a better perceived general health (figures 1 and 2). figure 1. headache frequency reduction t1 = first visit; t2 = first follow-up visit (after three months); t3 = second follow-up visit (after six months) figure 2. headache disability reduction midas = migraine disability assessment; t1 = first visit; t2 = first follow-up visit (after three months); t3 = second follow-up visit (after six months) main questions a doctor should ask him/herself in this situation does imaging show any previously undetected finding? does the patient overuse nsaids? have i assessed anxiety, depression, cognitive functioning, and disability? does the patient need a more in-depth psychological analysis? does he/she need to attend psychological sessions? discussion different guidelines about headache have included several psychological and behavioral therapies, mostly as an auxiliary treatment, with various levels of recommendation [5,6,13]. recommended psychological and behavioral interventions are, among others: trigger management [13] (level iii evidence, class b recommendation); stress management [5,13]; cognitive-behavioral therapy [6,13] (level ii evidence, class b recommendation [13]); relaxation techniques [6,13] (level ii evidence, class b recommendation); and patient education (level iii evidence, class b recommendation) [13]. psychological interventions for headache patients are advisable when at least one of the following criteria is met [9]: personal factors that negatively influence headache management (e.g. beliefs about headache controllability and patient’s own ability; personality traits); poor adherence; poor trigger management; poor coping with headache; medications overuse; poor stress management; and psychiatric comorbidity or other behavioral disorders. it has to be underlined that psychological interventions in pain management are not substitutes of medical therapy, but they are intended to be used in conjunction with it. the considered case had a history of chronic headache and unsatisfactory past therapeutic results, characterized by a huge misuse of pain medications. since the patient had previously and unsuccessfully taken therapy for migraine prevention, topiramate (level i recommendation) [6], then she was prescribed to switch to another medication, levetiracetam (off-label) [6,14]. in order to obtain better results, the patient had to stop overusing nsaids and was prescribed almotriptan (level i recommendation) [6] when needed. as she showed only partial improvement and was apparently still overusing nsaids, then it was proposed a behavioral approach in addition to the medical therapy and avoiding nsaids, in order to try and remove some obstacles to personal headache management. this practice is compliant to literature and recommendations when some behavioral factors are relevant in a chronic headache patient [6,9,13]. in this case, excessive usage of medications, poor adherence, anxiety and some problems with coping headache and stress management were criteria that prompted the psychological referral. main strength of this report is that it presents a case treated using a model of care consistent with the biopsychosocial model and the most updated guidelines: interventions were tailored to the patient’s features, consistently with literature about psychological headache management. headache chronic patients that overuse medications present a obsessive-compulsive personality disorder: psychological management improves the patients’ compliance to migraine prevention therapy and takes care of the psychological disorder aspect. main weakness is that, being this a single-case study, it is not possible to demonstrate or quantify the contribution provided by psychological management. conclusion all factors that determine headache onset, progression, and remission must be considered: when personal, behavioral, and environmental appear relevant, it is important to carefully assess these aspects and evaluate the opportunity of support the medical approach with psycho-social interventions, consistently with the biopsychosocial approach. this might help removing some obstacles in headache management and improving outcomes. key points medication overuse headache (moh) is a chronic daily headache caused by excessive use of pain medications the biopsychosocial model is a recent theoretical model underlining the interaction of physiological, psychological, and social factors that can help in understanding and treating chronic headache among the reasons for referring a headache patient to psychological support, there are not only the presence of major mental health and behavioral disorders (e.g. mood disorders, anxiety disorders, sleep disorder, eating disorders, and addictions), but also poor trigger management, poor stress management, and excessive use of medications according to the biopsychosocial model, a tailored psychological support, together with the most suitable medical therapy, may result in reduction of headache attacks in terms of intensity, frequency, debilitation and in a better perceived general health references 1. pascual j, colas r, castillo j. epidemiology of chronic daily headache. curr pain headache rep 2001; 5: 529-36; 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been discussed as alternative in patients that are not eligible for surgical approach. case summary: a 54-year-old caucasian man was referred to our urology clinic for multiple renal masses. a computed tomography (ct) scan revealed three contrast-enhanced lesions located in the upper pole, middle renal, and in the lower pole of the left kidney 20 mm, 25 mm, and 45 mm long, respectively. the patient underwent laparoscopic tumorectomy of two lesions and cryoablation of the left renal mass by the transperitoneal approach, performed without clamping the renal vessels. at the end of the procedure the operator posed a reno-ureteral ipsilateral stent to tutor the urinary tract. tumor enucleation and cryoablation were chosen to preserve renal function. conclusion: this case report shows that in young patients with multiple renal tumors, cryoablation treatment is feasible and outcomes are promising as well. however, risk of complications should be considered and discussed with patients. keywords: kidney neoplasms; cryosurgery; nephron-sparing surgery la chirurgia nephron-sparing nel tumore renale multiplo: un caso clinico cmi 2017; 11(1): 17-21 https://doi.org/10.7175/cmi.v11i1.1290 case report corresponding author dr. giorgio ivan russo giorgioivan@virgilio.it disclosure the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article why we describe this case current guidelines suggest that treatment with cryoablation can be an option for the treatment of small renal masses in selected patients. here we report the case of a 54-year-old man with multiple renal lesions successfully undergone to cryoablation in one lesion introduction renal cell carcinoma (rcc) accounts for 2-3% of adult malignancies [1] and the incidence has increased during the last 2 decades, mostly because of the incidental detection of small, asymptomatic masses [2]. the management of localized renal cell carcinoma has evolved toward minimally invasive and nephron-sparing surgery (nss) [3]. with the increasing application of minimally invasive surgery, ablative technologies have been investigated as an alternative. they include cryoablation (ca), radiofrequency ablation (rfa), microwave, high-intensity focused ultrasound, laser interstitial thermotherapy, microwave thermotherapy, and radiosurgery [4]. tissue is destroyed in situ, thereby avoiding the complications induced by renal ischemia and surgical excision. however, only ca and rfa have encountered a widespread use: several case series reported short-to-intermediate-term results [1]. therefore, if surgical and oncological outcomes support the feasibility and efficacy of laparoscopic cryoablation (lrc) for renal tumors, and safety can be maintained during the surgical procedure, this method may provide an alternative nephron-sparing surgery for selected patients [1]. recently, nielsen et al. in a large multi-institutional study reported satisfactory intermediate-term oncological outcomes for small renal masses (srms). unfortunately, no randomized controlled trials comparing nephron-sparing surgery and cryoablation has been undertaken. case report a 54-year-old caucasian man was admitted to our urology clinic due to incidentally detected renal masses on the left side. his past medical history showed hypertension and hypercholesterolemia. he had no past surgical history. his renal functions and glomerular filtration rate were normal. contrast-enhanced computed tomography (cect) revealed multi-focal hypodense renal masses and contrast enhancement. the features of the masses were suggestive of multiple renal cell carcinoma without dissemination (figures 1 and 2). figure 1. intravenous contrast abdominal computed tomography showing a contrast-enhancing 45 mm-diameter solid lesion (red arrow) in the left kidney. figure 2. intravenous contrast abdominal computed tomography showing two contrast-enhancing solid lesions 20 mm in diameter (red arrow – the upper one) and 25 mm in diameter (red arrow – the lower) in the left kidney. tumor masses were located in the upper pole, middle renal, and in the lower pole of the kidney. pre-operative risk in our institution was defined using padua and renal score. the lesion in the upper pole had a maximum diameter of 20 mm and had no communication with the urinary tract. padua score was 7p and renal score was 5a. the lesion located on the middle line had maximum diameter of 25 mm and was closed with the urinary tract, in fact padua score was 9a and renal score was 7a. the lower one had maximum diameter of 45 mm and reached urinary tract as well. because of the size, it had padua score = 9a and renal score = 10a. according to tmn classification, the patient was classified as t2bn0m0 clinical stage. the charlson comorbidity score was 0. the patient underwent laparoscopic transperitoneal approach. after dissection of the perirenal fat, macroscopically the kidney showed a prominent area at the lower pole corresponding to the lesion. identification of other tumor masses was performed by intra-abdominal ultrasonography. the patient underwent laparoscopic renal cryoablation of the renal upper tumor and tumor enucleation of the middle renal and lower renal masses. at the end of the procedure, a double j reno-ureteral stent was posed. it was performed without clamping the renal vessels. postoperative laboratory examinations resulted within normal values and renal function did not change. the stent was removed 20 days after surgery. histopathological examinations suggested a diagnosis of type 1 papillary renal cell carcinoma and clear cell renal cell carcinoma. no adjuvant therapy following surgery was recommended. 2 months after ablative treatment, the patient was hospitalized due to the occurrence of hyperpyrexia. an abdominopelvic ct scan identified a leakage closed to middle renal space. the patient was treated by systemic therapy including antibiotic therapy (grade ii as clavien-dindo classification of surgical complications) and discharged from hospital within 12 days. the level of serum creatinine was 0.93 mg/dl immediately before treatment and 1.18 mg/dl after treatment. at last follow up, ten months after surgery, the patient had no recurrence and renal function was stable. what should the clinician ask him/herself which is patient’s renal function in terms of serum creatinine and glomerular filtration rate? how old is the patient? which are renal masses locations? which are the enhancement characteristics at ct scan of such lesions? how large are the lesions and are they close to urinary tract? discussion nss for patients with sporadic ipsilateral renal tumors shows excellent long-term oncological outcomes. krambeck et al. reported their experience with multiple renal tumors treated with radical nephrectomy or nss and found 90% and 96% cancer specific survival, respectively. thus, in the current era of expanding indications for nss, patients with multiple renal tumors should be considered candidates for nephron-sparing. this is particularly important, given the higher risk of subsequent metachronous lesions in the contralateral kidney in these patients [5,6]. in the last decade, long-term data revealed safe oncological outcomes in patients treated for small kidney cancers with nephron-sparing surgery. more recently, minimally invasive modalities for treatment of small renal masses (srm) have been investigated as alternative to partial nephrectomy. although partial nephrectomy remains the gold standard, cryoablation is becoming apparent and in selected patients could be a valid alternative. cryoablation can be performed percutaneously in the radiology suite, or laparoscopically without the need for hilar clamping. unfortunately, only shortand intermediate-term data are available, but they seem to be promising, especially in patients who are considered poor candidates for more involved surgery. numerous clinical trials have been published on cryoablation, often involving just a limited number of patients [7]. ideally, ablative treatment should be compared with partial nephrectomy (pn) in a randomized and prospective setting. in our report, we synthetize the existing evidence to treat srm with cryoablation. when choosing ca, renal preservation, oncological outcomes, and related complications should be considered. thermal ablation allows preservation of renal function and studies data highlight that renal preservation is superior when compared to partial or radical nephrectomy [8]. tumors are treated in situ without need for isolation and clamping of the renal hilum, thus contributing to preserve renal function outcomes avoiding kidney ischemia. up to now, randomized controlled trials aimed at identifying the magnitude of impact of ablation on global renal function are still lacking. in 2012, wehrenberg-klee et al. examined the impact of thermal ablation on kidney function in 48 patients with baseline chronic kidney disease (ckd). the authors estimated that percutaneous ablative treatment (radiofrequency and ca) did not negatively impact on renal function. in fact, the mean overall renal function did not change between baseline, at 1 month and at 1 year after treatment [9]. in 2014, thompson et al. studied oncological outcome among patient treated with pn and ca comparing with those treated with percutaneous radiofrequency ablation for ct1 disease [10]. they concluded that in a cohort of 1424 patients with sporadic ct1 renal masses, local recurrence-free survival (lrfs) was similar among the three treatments. instead, metastases-free survival (mfs) was significantly better after pn and cryoablation when compared with rfa. a subgroup of 379 ct1b patients lrfs and mfs resulted similar between pn and cryoablation. atwell et al., in a sample of 115 tumors managed with percutaneous cryoablation (pca), reported technical success without enhancement after procedure in 97% of cases and no evidence of local progression as new enhancement or growth of the ablation site in 80 tumors that were followed for a mean of 13.3 months [11]. more recently, in eureca study, nielsen et al. have reported long-term follow up study. they investigated oncological outcomes and complication rates in patients treated with lca between 2005 and 2015 [12]. the study has been conducted in a large cohort and the authors concluded that lca demonstrates satisfactory long-term oncological outcomes for t1a: in fact, the 5-/10-year disease free survival (dfs) was 90.4%/80.0% and 5-/10-year overall survival (os) was 83.2%/64.4%, respectively. the secondary aim of the study was to evaluate the occurrence of postoperative complications within 30 days of treatment. postoperative complications were defined according to the clavien-dindo classification system [13]. any complication having grade ≥ iiia was defined as severe. they reported rate of postoperative complication of 16.6%, with severe complications (grade ≥ iii) of 3.2%. therefore, although lca is considered a minimally invasive technique, risk of complications should be considered. the most common complications found in literature are hemorrhage, perinephric hematoma, and urine leak. other complications reported are flank pain, perinephric hematoma, and cardiovascular complications, including arrhythmia, deep venous thrombosis, hypoand hypertension and cases of myocardial infarction. kapoor et al. in their review reported rate of complications of 13% when evaluated using the clavien-dindo system and 7% when using the common terminology criteria for adverse events grading system [14]. sprenkle et al. reported complications rate of 13% approximately as well [15]. sidana et al., in a sample of 162 patients undergone to pca, lca, or open ca, reported complication rates higher, up to 23.5% (complications were categorized using the clavien-dindo system). no independent risk factors, such as tumor size or the number of cryoprobes used were noted to be associated with increased risk for perinephric hematoma formation [16]. conclusions thermal ablation is an increasingly used treatment option in the management of srms. the choice should be considered in reason of age, preoperative renal insufficiency, solitary kidneys or multiple renal lesions balancing with the risk of preoperative complications. however, due to the limited experience on cryoablation, larger studies including the long-term outcome are needed and prospective studies are requisite the better to define the role of ablative therapy in the treatment of small kidney tumors. acknowledgements written informed consent was obtained from the patient for the publication of the present case report and accompanying image. key points the management of localized renal cell carcinoma has evolved toward minimally invasive and nephron-sparing surgery, including cryoablation although partial nephrectomy remains the gold standard, cryoablation is becoming apparent and in selected patients could be a valid alternative in particular, cryoablation can be performed percutaneously in the radiology suite, or laparoscopically without the need for hilar clamping, thus allowing preservation of renal function and avoiding the risk for kidney ischemia however, to date, only shortand intermediate-term data are available: larger studies including the long-term outcome are needed the better to define the role of ablative therapy in the treatment of small kidney tumors references 1. ljungberg b, bensalah k, canfield s, et al. eau guidelines on renal cell carcinoma: 2014 update. eur urol 2015; 67: 913-24; https://doi.org/10.1016/j.eururo.2015.01.005 2. pantuck aj, zisman a, belldegrun as. the changing natural history of renal cell carcinoma. j urol 2001; 166: 1611-23; https://doi.org/10.1016/s0022-5347(05)65640-6; https://doi.org/10.1097/00005392-200111000-00003 3. hafez ks, novick ac, butler bp. management of small solitary unilateral renal cell carcinomas: impact of central 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42-7; https://doi.org/10.1016/j.juro.2010.03.013 cmi 2017;11(2)59-62.html gender-related differences in dietary habits roberta masella 1, walter malorni 1 1 center for gender-specific medicine, italian national institute of health differenze di genere nelle abitudini alimentari cmi 2017; 11(2): 59-62 https://doi.org/10.7175/cmi.v11i2.1313 editorial corresponding author roberta masella senior researcher, nutrition unit center for gender-specific medicine, italian national institute of health, viale regina elena 299, 00161 rome, italy tel. +390649902544 fax +390649902763 roberta.masella@iss.it disclosure the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article introduction the term “gender” indicates the characteristics of women and men that can be considered socially determined as they are strongly influenced by psychosocial and cultural factors. the term “sex” refers, instead, to the biological features that are determined by the different physiology characterizing women and men. in other words, we born female or male but become women and men during the time by learning and adopting different behaviors that identify all together the own gender role. it should be underlined that the gender behaviors are defined by the sociocultural environment, so that a defined behavior might be considered in different way, i.e. masculine or feminine, depending on the cultural expectations [1]. sexand gender-determinants of non-communicable diseases (ncds) development a number of epidemiological and clinical studies strongly support the evidence that lifestyle represents a main determinant of health. in particular, inadequate diet together with low level of physical activity are considered main determinants in the onset of chronic-degenerative diseases (defined as non-communicable diseases, ncds), such as cardiovascular diseases, type 2 diabetes, and cancer. consequently, they are reported as “lifestyle-related” diseases to highlight the relevance of individual behaviors as preventive tool [2,3]. notably, lifestyle, as every behavior, results from the combination of familiar, economic, educational, and social factors [4] that, in turn, are heavily influenced by gender differences [5]. however, it should also be pointed out that each individual responds to nutrients in a different way on the basis of genetic background, hormonal levels, metabolic rate, etc. [6-9]. actually, the european commission has evidenced the need to combine the knowledge on sex-driven response to nutrients with that on gender-related dietary choices in order to design tailored preventive interventions aimed at effectively promoting healthy lifestyles [10]. sexand gender-related differences in fat storage and obesity rates obesity is one of the major public health concerns as it is one of the major risk factors for ncds since all of them share low-grade inflammatory status as hallmark [11]. obesity is characterized by a pathologic increase of fat storage into the adipose tissue. the fat mass expansion is critical, because it leads to adipocyte dysfunctions, that can trigger a number of alterations in the metabolic and immune performance [12-14]. the fat mass expansions are determined not only by an imbalance between energy intake and energy expenditure but, also, by the dietary habits and the quality of food choices. therefore, useful predictive tools for obesity, especially in childhood, are both inadequate diet and insufficient physical activity [15]. scientific evidence demonstrates that women and men greatly differ in lipid metabolism most likely depending on sexual hormones [16]. it is well known that the two sexes are shaped differently. in men, fat depots occupy especially the abdominal district of the body and this fat is called visceral fat (apple shape), whereas in women fat accumulates mainly on the hips and thighs and especially in the subcutaneous tissue (pear shape). very interestingly, only the visceral fat is positively correlated with the onset of type 2 diabetes, metabolic syndrome, cardiovascular diseases, and some types of cancer [17]. thus, men with elevated body mass index (bmi) values may show an increased risk of chronic diseases with respect to women having comparable bmi. however, women are at greater risk of obesity, as demonstrated by the worldwide prevalence of obesity, which is more frequent in women than in men [18]. it should be highlighted, however, that relevant differences in the prevalence of obesity exist when age and geographical, social, and economic conditions are considered [18]. the cause of this difference between sexes is not clear yet and strongly depends on environmental and cultural aspects. a study carried out in south africa [19] suggested two factors potentially responsible for the gender difference in obesity rates; the first one could be food deprivation during childhood, because it is quite common that male children receive better feeding than females; and the second one might depend on the higher socio-economic status, as in some cultural environment richness is associated with chubbiness. probably, these issues can not be applied to highly industrialized countries. on the other hand, the italian behavioral risk factor surveillance system – passi (progressi delle aziende sanitarie per la salute in italia) reported that the consumption of vegetables and fruit as well as the level of physical activity, that are main determinants of obesity and overweight onset, show significant differences between males and females [20,21]. in addition, they are greatly influenced by socio-economic factors, being inversely correlated with the salaries and the level of education [22]. gender influences dietary habits it should be pointed up that most of the studies aimed at evaluating dietary habits have been carried out in us and europe and the collected data cannot be extrapolated to other countries, which are geographically and culturally very different from the western ones. unfortunately, unhealthy dietary habits, such as not consuming the recommended five or more servings of fruit and vegetables every day, consuming little milk and dairy products, skipping meals and frequently eating energy-dense nutrient-poor fastand ready-to-eat foods, are quite common especially among youngsters [23,24]. however, the two genders show significant differences regarding dietary intakes and eating behaviors [25]. women consume more fruit and vegetable, legumes, and whole food, but also more sweets and cakes, with respect to men. men tend to have food richer in fats and proteins, to drink more wine, beer, spirits, and sweet carbonated drinks; in general they show dietary behaviors potentially favoring overweight and obesity. students in a u.s. college show significant differences in their weight depending on gender (being the percentage of overweight/obese males higher than females) that mirrors significant differences in the diet consumed [26]. furthermore, these data provide also interesting evidence about the influence of high socio-economic and cultural levels, such as that of u.s. universities, on food choices. these might be influenced by cultural and advertising pressures promoting, for example, thinness as a criterion for beauty. data collected in italy among adult subjects show that, in comparison with men, a higher percentage of women consume daily the recommended five portions of fruit and vegetables. another aspect that might influence dietary habits is the motivation to adopt healthy eating behaviors [27]. in this regard, an italian study reported that among type 2 diabetes patients, females seemed to be more willing to follow dietary advice than men. actually, women appear to be especially aware of the role exerted by nutrition on human health, and thus more ready to adopt a healthier diet. moreover, women are particularly worried about their own body image, of which they are generally unsatisfied [28]. nevertheless, women have been demonstrated to give up and abandon the new dietary plan more frequently than men. a possible explanation is that the good results obtained by moving toward healthier dietary habits are much more pronounced in men than in women that, thus, might be easily discouraged. finally, it should be considered that a number of gender-based stereotypes about food exist in every human culture. in extreme synthesis, meats rich of fat and protein are food for men, whereas a little mixed salad is food for women. although the causes for this are far from being fully elucidated, the consequence on food choice and dietary habits might be relevant because both men and women tend to adhere to those expectations most likely for reinforcing their own gender identity [29,30]. conclusions non-communicable diseases, that taken all together represent the first cause of death worldwide, are greatly influenced by individual behavior as regards, in particular, dietary habits and physical activity. these factors are both greatly influenced by gender, which is, consequently, a main determinant of human health. on the other hand, sex might significantly affect metabolism and the individual response to food intake. on this basis, it is clear that all these aspects should be considered in order to move toward more personalized nutritional advice and for effective promotion of healthy behaviors. references 1. mahalik jr, locke bd, ludlow lh, et al. development of the conformity to masculine norms inventory. psychol men masc 2003; 3: 25; https://doi.org/10.1037/1524-9220.4.1.3 2. mastrangelo a, barbas c. chronic diseases and lifestyle biomarkers identification by metabolomics. adv exp med biol 2017; 965: 235-63; https://doi.org/10.1007/978-3-319-47656-8_10 3. passi sj. prevention of non-communicable diseases by balanced nutrition: population-specific effective public health approaches in developing countries. curr diabetes rev 2016 sep 5 [epub ahead of print] 4. 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gaetano dipietro 1 1 u.o.c. centrale operativa sovraprovinciale 118 bari-bat, a.o.u. policlinico bari vehicle-ramming attacks: emergency health management cmi 2017; 11(2): 89-93 https://doi.org/10.7175/cmi.v11i2.1317 editoriale corresponding author dott. gaetano dipietro spec. anestesia e rianimazione e medicina legale presidente nazionale associazione italiana medicina delle catastrofi direttore u.o.c. centrale operativa sovraprovinciale 118 bari-bat referente sanitario regionale per le maxiemergenze a.o.u. policlinico bari piazza g. cesare 11 70110 bari cell. 3476763651 cell. 3346932660 uff. 080 5520255 dipietrogaetano3@gmail.com disclosure l’autore dichiara di non avere conflitti di interesse in merito agli argomenti trattati in questo articolo introduzione siamo ormai abituati alla modalità di assalto con utilizzo di autovetture o camion allo scopo di sfondare cancelli o vetrate di banca oppure svellere bancomat a scopo di rapina. se prima la vedevamo nel grande schermo, onnipresente nei film d’azione, pian piano è diventata argomento sempre più presente nella cronaca nera. a livello internazionale si parla sempre più di vehicle-ramming attack, un nome complesso per definire un’azione abbastanza semplice: un autoveicolo che viene deliberatamente proiettato in velocità sulla facciata (generalmente nei punti più vulnerabili, come porte, portoni e vetrate) di un edificio per demolirlo, al fine di penetrare ed eventualmente commettere un furto con scasso o una rapina, oppure contro un altro veicolo. a seguito di questa manovra, la funzionalità del veicolo risulta naturalmente quasi del tutto compromessa, e infatti i mezzi utilizzati sono spesso rubati, di grande formato, 4×4 o furgonati. nell’ultimo periodo si è assistito a un’inversione di tendenza: accanto alle azioni finalizzate alla rapina, la manovra è stata utilizzata a puro scopo terroristico. gli attacchi con mezzi mobili sono rivolti così non più all’edificio e a ciò che custodisce, ma contro le persone, a scopo di generare, assieme a morti e feriti, panico e terrore. questo tipo di attacco è stato particolarmente utilizzato in israele, stato in cui le misure di sicurezza contro le bombe sono molto elevate: le autovetture sono state utilizzate specialmente contro gruppi di persone in attesa dei bus. attualmente, a seguito di alcune esortazioni da parte di organizzazioni terroristiche di estremisti islamici quali isis e al qaeda, le automobili e i furgoni hanno quasi sostituito le bombe a livello di metodologia di attacco nei paesi occidentali. il mezzo, spesso rubato, consente anche ai terroristi non esperti nel confezionamento di ordigni di causare molte vittime, se lanciato a tutta velocità in zone con un’elevata concentrazione di pedoni. talvolta il conducente, armato, continua a lasciare una scia di sangue scendendo dalla vettura e proseguendo, spostandosi a piedi, a colpire i passanti (es. attentato al mercatino di natale a berlino). purtroppo alle minacce dell’estremismo islamico sono seguiti anche contrattacchi rivolti contro la comunità musulmana da parte di persone in cerca di vendetta (es. attentato vicino alla moschea a londra). un’ulteriore minaccia è data dal clima di paura che si crea nella popolazione. considerando il numero dei morti che porta con sé, siamo abituati a considerare l’atto terroristico come un evento contro istituzioni e persone che ha come effetto, tra gli altri, quello della perdita delle vite umane. l’unico trattato multilaterale che contenga una definizione di terrorismo è la convenzione contro il terrorismo della organizzazione della conferenza islamica del 1999 [1]. in realtà in precedenza la società delle nazioni nel 1937 aveva definito gli attentati terroristici come «atti criminali diretti a creare uno stato di terrore nelle menti di determinate persone, o di un gruppo di persone o della popolazione» [2]. in questa definizione la perdita delle vite umane non è assolutamente contemplata. un esempio degli effetti della diffusione del terrore è quanto accaduto a torino in occasione della visione della finale di champions league sul maxischermo in piazza san carlo. una causa sulla quale ancora non si è riusciti a far luce (petardo, caduta di una transenna, spray urticante o rumore del sistema di areazione del parcheggio sotterraneo) ha fatto pensare a un attentato e ha scatenato il panico generalizzato, provocando la morte di una persona e più di 1500 feriti. questa è la forza del terrorismo: autoamplificarsi, entrare nella testa della gente e trasmettersi come un virus, creando gli effetti di un attentato terroristico (panico, feriti, morti e stress per le strutture di emergenza) anche quando l’attentato non c’è. nonostante le misure di sicurezza che negli ultimi anni sono state messe a punto (es. l’hostile vehicle mitigation [3] e vehicle security barrier in inghilterra), la protezione dei soft target per eccellenza – così vengono definiti i normali cittadini – resta di difficile realizzazione. infatti si possono bandire armi, esplosivi e altri ordigni destinati a offendere, ma le automobili o altri mezzi più pesanti sicuramente no. da europei dovremo abituarci all’idea che gli attacchi saranno frequenti e che purtroppo le morti per terrorismo dovranno esser messe inevitabilmente in conto come quelle per gli incidenti stradali. alcuni paesi che convivono con una minaccia continua, come ad esempio israele, sembrano ormai temprati nei confronti di questo pericolo, e hanno affinato tecniche di intervento sicuramente più incisive delle nostre in tema di soccorso alle vittime. alcuni attentati con autoveicoli significativi degli ultimi dieci anni giugno 2007, glasgow: il terminal principale dell’aeroporto viene colpito da una jeep piena di taniche di propano che, fortunatamente, provoca la morte di una sola persona: uno dei due jihadisti coinvolti aprile 2009, olanda: un cittadino olandese in automobile falcia gli spettatori della parata del giorno della regina, uccidendo 7 persone e morendo lui stesso poco dopo in ospedale maggio 2013, londra: un auto investe un soldato, che viene poi ucciso dai conducenti a colpi di machete ottobre 2014, canada: un auto si lancia contro un gruppo di militari, uccidendone uno dicembre 2014, digione: un veicolo viene lanciato contro la folla, causando 13 feriti dicembre 2014, nantes: un auto si lancia contro degli astanti durante una fiera di natale, causando 1 morto e 10 feriti giugno 2015, graz: un uomo alla guida di un suv causa 3 decessi e il ferimento di 108 persone gennaio 2016, valence: un veicolo si lancia contro un gruppo di militari di sorveglianza davanti a una moschea, causando 3 feriti luglio 2016, nizza: un camion viene lanciato ad alta velocità contro la folla che festeggia la presa della bastiglia causando 86 morti e 434 feriti. il conducente esplode anche colpi di mitra dicembre 2016, berlino: un camion si abbatte a tutta velocità contro un mercatino di natale, provocando la morte di 12 persone e il ferimento di altre 56, molte delle quali in modo gravissimo gennaio 2017, gerusalemme: 4 soldati israeliani vengono uccisi e 15 feriti da un camion che piomba su di loro all’improvviso. dopo averli falciati al primo attacco, l’autista continua a investirli anche in retromarcia finché viene, a sua volta, ucciso marzo 2017, londra: una macchina viene lanciata contro i pedoni lungo il westminster bridge e bridge street, ferendo più di 50 persone, di cui 4 letalmente. terminata la corsa, il conducente esce dall’auto e colpisce a morte un poliziotto, prima di essere ucciso aprile 2017, stoccolma: un camion viene condotto contro la folla in una via pedonale, uccidendo 5 persone e ferendone gravemente 14 giugno 2017, londra: un furgone viene lanciato contro i pedoni sul london bridge e i tre assalitori, prima di essere uccisi, continuano a colpire i passanti a piedi con lunghi coltelli, causando la morte di 8 persone e il ferimento di 48, prima di essere uccisi dalla polizia giugno 2017, londra: un furgone viene lanciato in un parco vicino a una moschea, ferendo almeno 8 persone e uccidendone una le fasi dell’investimento classico nell’investimento tipico di un pedone, ovvero quello del pedone investito da un’autovettura in movimento, si distinguono 5 fasi che si susseguono in tutto o in parte e alle quali possono corrispondere precisi complessi lesivi (tabella i): fase dell’urto; fase della proiezione con successivo abbattimento al suolo; fase della propulsione; fase dell’arrotamento; fase del trascinamento. fase lesioni caratteristiche 1. urto lesioni contusive in distretti corporei diversi a seconda dell’altezza del soggetto colpito 2. proiezione con successivo abbattimento al suolo lesioni da impatto e da strisciamento sull’asfalto con ampie zone abrase, spesso infiltrate da particelle di manto stradale 3. propulsione lesioni contusive (ecchimosi, escoriazioni, ferite lacere) 4. arrotamento fratture del torace, del rachide, del bacino, lesioni viscerali e degli organi interni da maciullamento, associate a imponenti emorragie (politrauma) 5. trascinamento vaste aree ecchimotico-escoriate sino all’esposizione e all’usura dei piani ossei sottostanti tabella i. le 5 fasi dell’investimento e le lesioni tipiche su un pedone nella fase dell’urto prevalgono le lesioni contusive dovute all’impatto del mezzo con il corpo; talvolta è possibile rinvenire ecchimosi a stampo che riproducono la morfologia del paraurti o del fanalino. uno stesso veicolo può causare fratture degli arti inferiori in un adulto e lesioni al bacino o al torace in un bambino. la sede e la localizzazione delle lesioni sono in grado di informare circa il tipo di automezzo investente, ma soprattutto circa la gravità e l’urgenza con cui le lesioni devono essere trattate. la fase di proiezione con abbattimento al suolo si compie a basse velocità, per trasmissione dell’energia cinetica dalla vettura al corpo, che viene proiettato in avanti abbattendosi al suolo. alle lesioni prodotte dall’urto, vanno quindi ad aggiungersi le lesioni dovute all’impatto con il suolo, nonché allo strisciamento sull’asfalto con ampie zone abrase, spesso infiltrate da particelle di manto stradale. la fase di propulsione si realizza quando il pedone, proiettato al suolo, è nella traiettoria dell’auto e viene nuovamente a contatto con il paraurti o con le parti meccaniche del mezzo investitore. tale fase, che precede l’arrotamento, è caratterizzata da lesioni contusive. la fase di arrotamento, generalmente immediatamente susseguente alla propulsione, è provocata dalle ruote del mezzo che procede nella sua corsa. a seguito dell’arrotamento, per effetto della energia cinetica il corpo viene proiettato all’indietro generalmente sotto il mezzo e spesso arrotato anche dalle altre ruote. durante tale fase si originano fratture del torace, del rachide, del bacino, lesioni viscerali e degli organi interni da maciullamento, associate ad imponenti emorragie, generando quindi un quadro di politrauma. la fase del trascinamento si realizza qualora parti del corpo o degli indumenti, impigliandosi nelle parti meccaniche posteriori del mezzo, ne inducano il trascinamento, determinando la formazione di vaste aree ecchimotico-escoriate sino all’esposizione e all’usura dei piani ossei sottostanti. le lesioni osservate nei bambini sono sempre più gravi a causa della loro altezza e in quanto vengono coinvolti immediatamente il cranio e il torace. la gestione dell’emergenza le lesioni provocate dal veicolo investitore possono essere aggravate da un’errata immobilizzazione di parti fratturate o da una mancata stabilizzazione di un’emorragia interna che porta la vittima al dissanguamento. ciò può essere evitato facendo ricorso al sistema di emergenza sanitaria e non al trasporto spontaneo da parte degli astanti (fenomeno che avviene, nella realtà, in circa il 50% delle vittime e che purtroppo non potrà mai essere completamento abbattuto). inoltre occorre tenere presente che tra le vittime che giungono al pronto soccorso potrebbe celarsi anche un attentatore munito di giubbetto o zaino esplosivo. a livello clinico, nel caso di attentati con autoveicoli, ci si deve aspettare di trovarsi di fronte non solo alle lesioni proprie del trauma stradale in cui la vittima è il pedone, ma anche a lesioni più gravi perché, a differenza dell’incidente stradale in cui il veicolo viene fermato dallo stesso conducente, in questi casi il conducente non accenna minimamente a frenare, anzi spesso avanza zigzagando per colpire quanti più obiettivi possibile e mette in atto manovre per ripassare sui corpi travolti. inoltre è possibile rinvenire in soggetti non direttamente coinvolti dall’attacco lesioni da schiacciamento e da abbattimento al suolo dovute alla fuga originata dal panico generalizzato. i rischi come in qualsiasi forma di aggressione collettiva su una strada pubblica, occorre tener presente quali sono i rischi principali: rischio evolutivo in un contesto di terrorismo: uso contemporaneo di armi da fuoco; auto e conducente sono sul posto: rischio di esplosione e/o di incendio da armi da fuoco; solo auto sul posto e conducente fuggito: pericolo di esplosione per ordigno innescato. benché l’attuazione di misure di sicurezza spetti alle forze dell’ordine, in condizioni di emergenza quali quelle di un vehicle-ramming attack, la sicurezza per i soccorritori può essere compromessa. i soccorritori devono essere in grado di effettuare una valutazione rapida del numero delle vittime e della loro distribuzione nello spazio. in questo genere di attacchi, gli scenari possibili sono 2: il veicolo ha continuato la sua corsa travolgendo tutti i pedoni incontrati: le vittime sono distribuite lungo il suo percorso (es. attacco a nizza); il veicolo è stato bloccato immediatamente dopo l’impatto: le vittime sono concentrate in un piccolo spazio (es. attacco a berlino). inoltre spesso questi scenari sono caratterizzati dalla presenza di mass media, che contribuiscono, involontariamente, a ingigantire l’effetto panico mentre i terroristi sono ancora all’opera. le strategie di soccorso e di assistenza il protocollo per la gestione delle maxi-emergenze prevede che occorra [4-7]: raggruppare le vittime coscienti in grado di muoversi da sole o con l’aiuto di una terza persona in un’area considerata sicura, mentre le vittime rimaste sul campo saranno aiutate quando saranno raggiunte; attivare un piano preordinato; ogni prefettura ha predisposto piani specifici per eventi calamitosi, ma ancor più ha predisposto, con il concorso di tutti gli enti e le istituzioni che prendono parte ai soccorsi, un piano di difesa civile in cui sono contemplati diversi scenari possibili e ipotizzabili che vanno dall’attacco con uso di sostanze chimiche a quello con esplosivi. il piano è costituito da tre grandi capitoli: strategia, tattica e logistica; controllare le lesioni dominanti con priorità per: traumi cranici, lesioni ossee, lesioni dei tessuti molli ed emorragie. questo controllo si avvale delle procedure di triage, processo logico-valutativo che porta a identificare quali vittime devono essere trattate per prime, quali devono essere evacuate per prime e quali invece hanno necessità di essere stabilizzate in loco; schierare uno o più posti medici avanzati (pma) secondo necessità per la stabilizzazione precoce e per non sovraccaricare di feriti gli ospedali vicini; garantire supporto psicologico a vittime, parenti e soccorritori. occorre ricordare che i traumi complessi, con concomitante lesione dei vasi, risultano di difficile gestione e che la scelta di salvare o amputare un arto è particolarmente difficile anche per i chirurghi più esperti. l’evoluzione della microchirurgia vascolare e lo sviluppo di nuovi mezzi di sintesi hanno permesso di rendere tecnicamente possibile il salvataggio degli arti anche in casi estremamente complessi, come ad esempio in presenza di un’importante sindrome da schiacciamento, che una decina di anni fa avrebbero giustificato l’amputazione. per contro, poiché in tali tipologie di attacco si possono riscontrare casi di amputazione traumatica di arti o parti di essi, spesso ci si può trovare di fronte alla decisione di proporre il reimpianto di un arto. quindi è utile conoscere la logica comportamentale da tenere in tali casi: stabilizzazione delle condizioni generali (atls – advanced trauma life support); identificazione del meccanismo di lesione; lavaggio con liquido di perfusione tissutale freddo (ipotermia e rischio del danno da riperfusione); protezione dell’arto amputato in busta di plastica chiusa, immerso in ghiaccio tritato (evitare il contatto diretto). gli aspetti medico-legali e la privacy per quanto riguarda gli aspetti medico-legali, tutti gli attori del soccorso possono e devono partecipare alla preservazione delle prove, quali documenti di identità, oggettistica e vestiario, che possono essere determinanti nell’identificazione delle vittime (sia morti sia feriti) da parte della polizia, spesso già resa più difficile dalla presenza di turisti di nazionalità diverse (es. attentati di nizza e berlino). tutti i componenti delle squadre di soccorso sono vincolati dal segreto professionale. dichiarazioni e testimonianze fuori luogo, così come la circolazione di immagini sul web non autorizzate, possono generare problemi di privacy. pertanto solo il personale autorizzato può rilasciare dichiarazioni. gli effetti psicologici sul personale di soccorso in caso di vehicle-ramming attack, il personale di soccorso si trova repentinamente e senza preavviso a dover affrontare una situazione altamente stressante. è necessaria un’elevata capacità di adattamento del proprio corpo e della propria mente per fronteggiare questa situazione di emergenza. le implicazioni psicologiche colpiscono prevalentemente gli operatori che intervengono per primi. possono poi concorrere ulteriori fattori ad amplificare lo stress, quali l’eventuale coinvolgimento di colleghi e amici. come precedentemente evidenziato, gli stessi operatori sanitari possono rischiare di diventare vittime se l’attacco viene proseguito o ripetuto. a seguito di tali eventi e spesso durante il verificarsi degli stessi, l’intervento di psicologi esperti in intervento nelle maxiemergenze risulta prezioso. facendo tesoro di esperienze di altri, sarebbe utile non limitarsi a un debriefing, ma inserire sedute di formazione per i componenti di quelle squadre di soccorritori che più facilmente di altre, per posizione geografica o situazioni contingenti, hanno maggiori possibilità di intervenire in tali scenari complessi. bibliografia 1. organization of the islamic conference. convention of the organisation of the islamic conference on combating international terrorism. disponibile all’indirizzo www.oic-cdpu.org/en/getdoc/?did=13 (ultimo accesso luglio 2017) 2. zolo d. una nozione alternativa di terrorismo. jura gentium 2009; rubrica filosofia e storia del diritto internazionale. disponibile 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confirmation in most cases: in fact, pancreas is enlarged at ct scan, with tumor-like appearance. here we discuss the importance of hypereosinophilia in ep and igg increase in type 1 aip (included in igg-related systemic diseases). differential diagnosis with pancreatic neoplasms and therapy schedules are discussed as well. keywords: acute pancreatitis; eosinophilic pancreatitis; autoimmune pancreatitis; igg4-related disease eosinophilic pancreatitis and autoimmune pancreatitis: comparison, differential diagnosis, and treatment cmi 2017; 11(1): 23-30 https://doi.org/10.7175/cmi.v11i1.1295 gestione clinica corresponding author dott. mauro turrin cell. 328.9032440 m.turrin@libero.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo meccanica calcoli biliari (coledocolitiasi) microlitiasi fango biliare ascaridiosi diverticolo periampollare tumore pancreatico o periampollare stenosi ampollare stenosi o ostruzione duodenale tossica etanolo metanolo veleno di scorpione avvelenamento da organofosfati metabolica iperlipidemia di tipo i, iv, v ipercalcemia: eccessivo dosaggio di vitamina d, iperparatiroidismo, nutrizione parenterale totale iatrogena didanosina azatioprina/6-mercaptopurina pentamidina metronidazolo stibogluconato tetraciclina antipertensivi: furosemide, tiazidici, α-metildopa ace-inibitori: captopril, benazepril, enalapril [24-28], lisinopril [29-31], ramipril [32], quinapril sartani: losartan, irbesartan [33,34], valsartan [35] sulfasalazina acido 5-amminosalicilico (mesalazina) statine [36,37] inibitori della dipeptidil peptidasi-4 (incretine): sitagliptin, saxagliptin, alogliptin [38] l-asparaginasi acido valproico sulindac salicilati calcio estrogeni antipsicotici: olanzapina, clozapina, quetiapina paracetamolo codeina propofol infettiva virus: parotite, coxsackie, hbv, cmv, varicella-zoster, hsv, hiv batteri: micoplasma, legionella, leptospira, salmonella funghi: aspergillus parassiti: toxoplasma, cryptosporidium, ascaris traumatica trauma addominale chiuso trauma penetrante danni iatrogeni durante intervento chirurgico (sfinterotomia) congenita coledococele di tipo v (malattia di caroli) pancreas divisum pancreas anulare vascolare ischemia ateroembolia vasculite (poliarterite nodosa, lupus eritematoso sistemico) genetica mutazioni del gene cftr (regolatore della conduttanza transmembrana della fibrosi cistica) altre mutazioni genetiche prss1 (proteasi-serina-1, codifica per il tripsinogeno cationico), spink 1 (inibitore della serina proteasi, kazal di tipo 1), ctrc (chimotripsina c) da altre cause post-colangiopancreatografia endoscopica retrograda gravidanza trapianto renale deficit α-1-antitripsina malattia celiaca pancreatite autoimmune tabella i. eziologia della pancreatite acuta. modificato da [39] introduzione la pancreatite eosinofila (pe) è una malattia molto rara. nell’elenco delle malattie rare presente su orphanet [1] questo termine non appare. in tale elenco compaiono la pancreatite autoimmune di tipo 1 al n° 280302 (sinonimo: pancreatite sclerosante linfoplasmocitaria o igg4-related pancreatitis) e di tipo 2 al n° 280315 (sinonimo: pancreatite dottocentrica): la loro prevalenza non è definita. al n° 103919 compare la pancreatite autoimmune (aip) non meglio definita. la pe è una forma benigna, si accompagna nell’80% dei casi a eosinofilia periferica e può associarsi a sindrome ipereosinofila idiopatica (his), che si definisce come una malattia multisistemica linfoproliferativa non clonale caratterizzata da persistente eosinofilia e associata a infiltrazione e danno d’organo eosinofilia-associato. è caratterizzata da un numero di eosinofili > 1.500/μl persistenti da più di 6 mesi (vn < 500/μl), da assenza di eziologia identificabile per eosinofilia e dalla presenza di segni e sintomi di coinvolgimento di organi quali cuore, polmoni, tratto gastrointestinale, cute e sistema nervoso. spesso è associata a gastroenterite eosinofila. nel registro orphanet [1] la “sindrome ipereosinofila a significato non determinato” è classificata col numero 3260, la prevalenza è sconosciuta, l’età di esordio è compresa tra 20 e 50 anni, con rapporto maschi/femmine = 4-9:1. le forme di pe descritte in letteratura [2-23] non presentano un quadro clinico impegnativo, ma spesso hanno comportato l’exeresi chirurgica perché l’aspetto più frequente riguarda forme pseudocistiche simil-tumorali [2-6,8,12,13]: infatti la diagnosi differenziale si pone soprattutto con la neoplasia pancreatica. nei casi associati a ipereosinofilia la diagnosi risulta suggestiva, ma deve essere confermata comunque dalla biopsia, anche per escludere una pancreatite autoimmune. la pancreatite autoimmune è una malattia infiammatoria con coinvolgimento diffuso o focale del pancreas, a carattere progressivo, che si manifesta con ittero, associato o meno a massa pancreatica; viene attualmente inserita nel gruppo delle patologie da iper-igg4. la pancreatite eosinofila si presenta in forma acuta. una pancreatite acuta può dipendere da diverse cause (tabella i). circa il 2% delle pancreatiti acute è causato da farmaci: nell’85-95% dei casi la risoluzione è spontanea e avviene in 3-7 giorni. i farmaci con più alta incidenza di pancreatite sono: didanosina (analogo di inosina, utilizzato nella terapia dell’hiv-1): 23%; azatioprina, 6-mercaptopurina e mesalazina: 3-5%; ace-inibitori e sartani: 1-2%. per quanto riguarda l’assunzione di losartan (associato o meno a idroclorotiazide), esistono tre sole segnalazioni su pubmed relative a 6 casi di pancreatite acuta indotta da tale farmaco [34,40-42]. i farmaci più recenti inseriti nella lista di quelli associati a pancreatite acuta sono le statine, gli inibitori della pompa protonica, gli antipsicotici atipici più recenti e gli inibitori della dipeptidil peptidasi-4 (dpp-4). per quanto riguarda le statine, l’associazione era già stata rilevata anni fa da diversi studi e casi clinici [36] ed è stata confermata da uno studio epidemiologico del 2015 [37], che ha rilevato che l’uso degli inibitori della hmg-coa reduttasi è associato a un aumento del tasso d’incidenza di pancreatite acuta, soprattutto durante il primo anno di utilizzo. la maggior parte delle segnalazioni relative a sartani e ace-inibitori indicate nella tabella i ha confermato l’azione lesiva del farmaco alla risomministrazione (rechallenge) dello stesso. per quanto riguarda gli inibitori della dpp-4 (incretine), l’incidenza di pancreatite acuta è risultata significativamente aumentata nei pazienti diabetici trattati con gliptine rispetto ai gruppi di controllo, con una differenza nel rischio assoluto pari a 0,13 %; tale aumento si traduce in uno o due ulteriori casi di pancreatite acuta ogni 1000 pazienti trattati per due anni [43]. la pancreatite cronica familiare (codice orpha 676) è una forma molto rara di pancreatite infantile cronica, con una prevalenza pari a 1-9/1.000.000, a trasmissione autosomica dominante, con età di esordio nell’infanzia-adolescenza. la pancreatite ereditaria presenta un rischio elevato di tumore pancreatico. diagnosi differenziale in caso di marcata ipereosinofilia persistente, dolore non intenso, rapida risoluzione, pancreas normale alla tac ed esclusione di altre patologie associate, potrebbe trattarsi di pancreatite acuta eosinofila nella forma a pancreas normale. di tale malattia sono 8 i criteri diagnostici (box). criteri clinici e bioumorali per diagnosticare una pancreatite eosinofila [44] sintomatologia e aumento degli enzimi pancreatici eosinofilia persistente (> 1,5 × 109/l per più di sei mesi) associazione (non obbligatoria) con gastroenterite eosinofila incremento di ige (non obbligatorio) con normali valori di igg storia di malattie allergiche (non obbligatoria) criteri di esclusione negatività della ricerca dei parassiti fecali, negatività dei test per malattie reumatiche, autoimmuni e leucemia esclusione di pancreatite autoimmune per livelli normali di igg4 esclusione di neoplasia pancreatica per la rilevazione di eosinofilia, la pancreatite eosinofila entra in diagnosi differenziale con alcune altre patologie, come indicato nella tabella ii. eosinofilia familiare eosinofilia acquisita secondaria malattie parassitarie malattie allergiche neoplasie polmonite eosinofila: sindrome di loeffler, sindrome di churg-strauss, aspergillosi polmonare allergica connettivopatie: sclerodermia, panarterite nodosa dermatite erpetiforme malattie infiammatorie intestinali (ibd) sarcoidosi morbo di addison sindrome da iper-ige farmaci sindrome dress (reazione a farmaco con eosinofilia e sintomi sistemici) dermatosi clonale leucemia acuta leucemia mieloide cronica idiopatica leucemia eosinofila cronica eosinofilia senza infiltrazione d’organo tabella ii. patologie con cui la pancreatite eosinofila entra in diagnosi differenziale nella maggioranza dei casi di pe è presente un interessamento contemporaneo del tratto gastrointestinale sotto forma prevalente (fino all’85% dei pazienti) di gastroenterite eosinofila (ge), associazione che però può presentarsi anche a distanza di tempo dalla stessa [2,17]. una fibrosi eosinofila del pancreas è stata descritta nell’ambito di una fibrosi multiviscerale eosinofila [14,45]. la pe va differenziata dalla pancreatite cronica associata alla sindrome ipereosinofila idiopatica [12,23]. la pe viene ritenuta da alcuni autori una variante della pancreatite autoimmune [8-10] nell’ambito delle malattie sistemiche igg4-correlate (tabella iii) [46]. pancreas pancreatite autoimmune dotti biliari colangite igg4-associata ghiandole salivari scialoadenite cronica sclerosante (tumore di kuttner) malattia di mikulicz (esocrinopatia plasmocitaria igg4-associata) torace opacità polmonari consolidative, chiazze a vetro smerigliato retroperitoneo periaortite cronica e periarterite fibrosi retroperitoneale idiopatica (malattia di ormond) rene nefrite idiopatica ipocomplementemica tubulo-interstiziale orbita pseudolinfoma igg4-associato tiroide tiroidite di riedel tabella iii. spettro delle malattie sistemiche igg4-correlate. modificato da [46] nella pe la tc del pancreas può risultare normale (balthazar score = 0), presentare dilatazione del dotto pancreatico o, più frequentemente, manifestare una forma pseudocistica o pseudotumorale [3-7,9,13,14]. le caratteristiche istologiche della pancreatite eosinofila sono due distinte: diffusa infiltrazione nei dotti pancreatici, acini e interstizio di eosinofili con flebite e arterite eosinofila e con minima presenza di linfociti e plasmacellule; intenso e localizzato infiltrato eosinofilo con formazione di pseudocisti [8,16]. dal 1990 a novembre 2016 sono apparse su pubmed una trentina di segnalazioni di pe nei seguenti paesi: usa, turchia, cina, corea, danimarca, india, gran bretagna, francia; non si sono, invece, riscontrate segnalazioni in italia. un’ipereosinofilia associata a pancreatite cronica viene descritta in due report relativi a 51 casi [12,23]. un prolungato divario temporale intercorso tra una pregressa gastroenterite eosinofila e la pancreatite acuta eosinofila è segnalato in letteratura soltanto in un unico report [18]. se le igg4 sono elevate, cioè più di due volte il limite superiore della norma (di solito le igg4 si attestano intorno al 5-6%, con valori normali fino a 135 mg/dl) potrebbe trattarsi di pancreatite autoimmune. i criteri diagnostici per l’aip sono indicati nel box. criteri per la diagnosi di pancreatite autoimmune (criteri hisort [47]): h: istologia suggestiva per pancreatite autoimmune i: imaging pancreatico suggestivo per pancreatite autoimmune (tc e/o colangiopancreatografia rmn) s: sierologia: igg4 ≥ 2 volte il limite superiore o: altro interessamento di organi (stenosi biliare, interessamento parotidi/ghiandole lacrimali, linfoadenopatia mediastinica, fibrosi retroperitoneale) rt: risposta al trattamento steroideo: risoluzione/marcato miglioramento delle manifestazioni pancreatiche ed extrapancreatiche le manifestazioni cliniche e le caratteristiche epidemiologiche e istologiche della pancreatite autoimmune sono descritte nelle tabelle iv e v. pancreatiche massa pancreatica che può essere confusa con carcinoma pancreatico o con linfoma dolore addominale lieve/moderato con o senza attacchi di pancreatite acuta o di pancreatite cronica. la pancreatite ricorrente è comune e compare più frequentemente in pazienti con pancreatite focale rispetto alla forma diffusa. nonostante la ricorrenza sia comune, aip non è causa frequente di pancreatite ricorrente nei paesi occidentali stenosi del dotto pancreatico complicanze vascolari peripancreatiche (rare) del tratto biliare ittero ostruttivo (igg4-associated colangitis) altre manifestazioni sindrome di sjögren noduli polmonari tiroidite autoimmune nefrite interstiziale fibrosi retroperitoneale tabella iv. manifestazioni cliniche della pancreatite autoimmune (aip) aip di tipo 1 aip di tipo 2 età media 6° decade 4° decade sesso prevalentemente m m = f pattern istologico lpsp (lymphoplasmacytic sclerosing pancreatitis) icdp (idiopathic duct-centric pancreatitis) caratteristiche istologiche infiltrato linfoplasmacellulare periduttale fibrosi storiforme vasculite obliterante infiltrato linfoplasmacellulare gel (lesioni epiteliali granulocitarie) ostruzione duttale plasmacellule igg4+ (immunoistochimica) +++ -/+ igg4 sieriche (> 135 mg/dl) aumentate (50-70%) normali coinvolgimento multiorgano scialoadenite sclerosante colangite sclerosante fibrosi retroperitoneale nefrite interstiziale malattie infiammatorie croniche intestinali (ibd) tabella v. caratteristiche epidemiologiche e istologiche delle due forme di pancreatite autoimmune (aip), di tipo 1 e di tipo 2. modificata da [48] l’aspetto morfologico più frequente, rilevato nell’85% dei pazienti, è dato da una massa pancreatica o da ingrossamento di tutto il pancreas [49]. per tale motivo la diagnosi viene posta dalla biopsia pancreatica. un recente studio giapponese ha dimostrato che con la tecnica poco invasiva dell’agoaspirato sotto guida eco-endoscopica [50] è possibile pervenire a una diagnosi istopatologica molto accurata. se risulta importante fare la diagnosi differenziale con la neoplasia pancreatica [47], è da considerare la possibile associazione di aip, in contemporanea presenza o a comparsa in fase di remissione, con il cancro pancreatico [51]. inoltre la rilevazione di alcuni anticorpi può essere d’aiuto nella diagnosi di aip: anticorpi anti-plasminogen-binding protein peptide (anti-pbp); anticorpi anti-anidrasi carbonica ii (anti-ca-ii); anticorpi anti-anidrasi carbonica iv (anti-ca-iv); anticorpi anti-lattoferrina (anti-lf). in particolare gli anti-pbp sono stati riscontrati positivi nel 94% di aip contro l’assenza in controlli volontari [52]. terapia la terapia della pancreatite autoimmune prevede l’uso di glucocorticoidi. in letteratura è possibile trovare posologie e durate delle terapie anche molto diverse: prednisolone: 30-40 mg/die per 2-4 settimane con dosi a scalare di 5 mg/die ogni 2-4 settimane fino a raggiungere 5 mg/die; dose di mantenimento: 2,5-5 mg/die [53]; prednisolone 0,5 mg/kg p.c./die per due settimane [54]; prednisone 40 mg/die per 4-6 settimane con dosi a scalare di 5 mg/settimana, per un totale di 11 settimane (trattamento iniziale in colangite igg4-associata) [55]. inoltre è possibile ricorrere all’uso di farmaci immunomodulatori, quali azatioprina in caso di colangite ig4-associata (2 mg/kg per 1-3 anni). in caso di insuccesso dello steroide o di ricaduta o di aip senza igg4colangite, si può somministrare l’anticorpo monoclonale rituximab [56]. una puntualizzazione sulla terapia della pancreatite autoimmune di tipo 1 e di tipo 2 è comparsa a gennaio 2017 su pancreatology [57]. per il trattamento della malattia igg4-correlata un consensus internazionale pubblicato nel 2015 ha analizzato le varie opzioni farmacologiche comparse in letteratura [58]: oltre alla terapia cortisonica è stato definito il ruolo degli agenti convenzionali risparmiatori di sterodi (azatioprina, micofenolato mofetil, 6-mercaptopurina, metotrexato, tacrolimus e ciclofosfamide) e l’utilizzo di rituximab quale depletore di cellule b. uno studio italiano del 2015 [59] ha riportato metotrexato quale agente promettente, sicuro e di basso costo, per mantenere la remissione indotta da glucocorticoidi della malattia igg4-correlata con interessamento sistemico. la terapia della pancreatite eosinofila prevede l’uso di prednisolone 40 mg/die [17,19] per 2-3 settimane. caglar e colleghi hanno descritto uno schema che prevede l’uso di prednisone 40 mg/die per 6 settimane associato a ketotifene 500 mg/die, con dosi a scalare di 4 mg ogni 2 settimane fino a dose di mantenimento di 16 mg/die [17]. maeshima e colleghi hanno invece descritto uno schema con prednisolone 30 mg/die + montelukast 10 mg/die per 1 mese [20]. tuttavia, non esistono al momento dati certi che consentano di stabilire la durata della terapia. è anche possibile fare uso di farmaci alternativi agli steroidi, quali: sodio cromoglicato [11,17], ketotifene [11], montelukast [11,20], azatioprina, idrossiurea. punti chiave la pancreatite eosinofila è una patologia molto rara ma comunque benigna. si associa spesso a ipereosinofilia e a gastroenterite eosinofila. è considerata una variante della pancreatite autoimmune la diagnosi richiede un impegno strumentale (ecografia, tc, colangio-pancreato-rm, ecoendoscopia, eventuale colangiopancreatografia endoscopica retrograda) fino alla biopsia, considerati la frequente pseudo-diagnosi iniziale di neoplasia pancreatica e il conseguente mancato sospetto preoperatorio la terapia prevede l’uso di corticosteroidi la pancreatite autoimmune è una malattia rara, che viene classificata in due forme: tipo 1 e tipo 2. il tipo 1 si associa a interessamento di più organi nell’ambito della malattia igg4-correlata può presentarsi in forma simil-tumorale o anche associarsi a neoplasia pancreatica il dosaggio delle igg4 è di aiuto alla diagnosi, che comunque necessita di approfondimento strumentale fino alla biopsia pancreatica le opzioni terapeutiche riguardano il cortisone, i farmaci risparmiatori degli steroidi, gli agenti immunomodulatori e l’anticorpo monoclonale rituximab bibliografia 1. orphanet. i quaderni di orphanet, dicembre 2016. http://www.orpha.net (ultimo accesso marzo 2017) 2. sheikh ra, prindiville tp, pecha re, et al. unusual presentations of eosinophilic gastroenteritis: case series and review of literature. world j gastroenterol 2009; 15: 2156-61; https://doi.org/10.3748/wjg.15.2156 3. cay a, imamoglu m, cobanoglu u. eosinophilic pancreatitis mimicking pancreatic neoplasia. can j gastroenterol 2006, 20: 361-4; https://doi.org/10.1155/2006/386918 4. euscher e, vaswani k, frankel w. eosinophilic pancreatitis: a rare entity that can mimic a pancreatic neoplasm. ann diagn pathol 2000; 4: 379-85; 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from laboratory to bedside: a case report of a concise and pragmatic approach on heart failure andrea pizzini 1, marco badinella martini 2 1 general practitioner; azienda sanitaria locale torino 2 (asl to2), torino, piedmont, italy 2 trainee in general practice; azienda sanitaria locale cuneo 1 (asl cn1), cuneo, piedmont, italy abstract heart failure is one of the most common and intensely studied diseases in the world. nevertheless, it is considered a difficult condition to diagnose and manage. this case report, starting from the description of a brief clinical case, aims to directly and concisely explain the most important steps, from laboratory to bedside, in the diagnosis and management of heart failure disease. physicians can rely on some laboratory tests (e.g., natriuretic peptides) and instrumental exams to diagnose and manage the patients in everyday medical practice. finally, this article highlights that a multidisciplinary team management can improve the clinical status and the quality of life, thus preventing hospital admission and reducing mortality in patients with heart failure. keywords: heart failure; natriuretic peptides; laboratories; hematology; general practice; disease management; patient care team dal laboratorio al letto del paziente: un esempio reale di un approccio conciso e pragmatico all’insufficienza cardiaca cmi 2017; 11(2): 95-102 https://doi.org/10.7175/cmi.v11i2.1301 case report corresponding author andrea pizzini andrea.pizzini09@gmail.com disclosure the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. why we describe this case despite heart failure is a widespread and common disease, it is still problematic to diagnose and manage. general practitioners should always focus on the clinical history and the physical examination, looking for suggestive signs and symptoms, not forgetting to listen carefully to the patients, who sometimes do not report the most important changes in their behavior or they just rapidly mention them by chance introduction heart failure (hf) is a chronic syndrome characterized by functional and structural cardiac abnormalities, which make the heart unable to maintain a flow rate adequate to the metabolic requirements of organs and tissues, if not at the cost of an increase of the filling pressures [1]. hf is a relevant problem to the healthcare worldwide and it is probably one of the most in-depth studied pathologies in clinical medicine. its prevalence can reach 1-2% in the western world (rising to 10% or more among persons over 70 years of age) and its incidence can be estimated at 5-10 per 1000 persons per year [2]. nevertheless, it is considered by physicians a difficult condition to diagnose and manage [3]. hf has very high morbidity and mortality, particularly in the elderly. survival rate from diagnosis is almost 90% at 30 days, 80% at one year, and only 60% at five years [4]. coronary artery disease (cad) is the primary cause in up to 60-70% of cases of systolic hf [5]. valvular heart disease and hypertension are two significant risk factors for hf, with a relative risk (rr) of 1.46 and 1.40, respectively. diabetes mellitus (dm) increases the risk of hf by directly causing cardiomyopathy and significantly contributing to cad. smoking, obesity, sedentary life, and a lower socioeconomic status are often neglected risk factors [6]. this article, starting from the description of a brief clinical case, aims to directly and concisely explain the most important steps, from laboratory to bedside, in the diagnosis and management of heart failure disease. case report a 74-year-old woman of caucasian origin goes to her general practitioner (gp) for the onset of dyspnea with moderate efforts for a few days. in her medical history, she has been suffering from essential hypertension (treated with 5 mg/day of ramipril), chronic obstructive pulmonary disease (copd) on stage b according to gold 2017 [7] (for which she was in therapy with salmeterol spray 50 µg twice a day) and a modest dyslipidemia (kept in check just by diet). as soon as she entered the medical office, after a quick greeting, she exclaimed with concern: «you know doctor, i’m old, it’s true, but lately, while climbing the stairs, i feel breathless and in the evening my ankles are often swell». the gp, after having assessed that she was regularly taking all the previously prescribed medications, asked curiously: «in the past few days, did anything new happen to you?». «no, doctor. my life is so ordinary and flat. among other things, before i forget... i need you to prescribe me diclofenac! my right hip has started again to ache for a few weeks and my neighbor gave me this drug... and it’s really miraculous! since i take it regularly every day, i feel no more pain in that area» she said. the physical examination revealed that the blood pressure was 150/90 mmhg, the pulse was 105 beats per minute (bpm), the temperature was 36.8°c, the respiratory rate was 23 breaths per minute, the oxygen saturation was 96% while she was breathing ambient air, her body mass index (bmi) was 25 (she reported a weight gain of 4 kg in the last few days), her skin was pale, and her peripheral pulses were normal. she had a distension of the jugular veins with ankle swelling. her heart sounds were normal and rhythmic, with the presence of a third heart sound. at lung examination, bilateral basal crepitations were found, with mild wheezing spread. her abdomen was soft and nontender, with palpable hepatomegaly (2 cm below costal margin), and abdominojugular reflux sign was positive. what should the clinician ask him/herself or the patient? what is the most likely diagnosis? what strategy should be adopted to make a certain diagnosis? how should this condition be managed? does this condition require hospitalization? how should this condition be followed up? discussion 1. what is the most likely diagnosis? (signs and symptoms) taken together, these clinical features are suggestive for congestive heart failure condition, precipitated by the intake of non-steroidal anti-inflammatory drugs (nsaids). the cardinal signs (i.e., pulmonary crepitations and/or peripheral edema) and symptoms (i.e., dyspnea) of heart failure are not specific and must be evaluated in light of the patient’s history, the physical examination, and the findings of additional tests [8,9]. other signs (e.g., enlarged heart, jugular vein distention, and a third heart sound) and symptoms (e.g., paroxysmal nocturnal dyspnea and orthopnea) have a diagnostic specificity ranging from 70% to 90%, but a low sensitivity, ranging from 11% to 55% [10]. the presence of copd in the patient’s clinical history may be an important confounding factor in the differential diagnosis. however, the onset of peripheral edema, the rapid worsening of dyspnea, the pharmacological anamnesis, and the absence of fever and sputum make the hypotheses of worsening of the obstructive disease or bronchitis exacerbation less likely. one of the gp’s tasks is to keep hypertensive patients under control avoiding organ complications, but this is sometimes hampered by the poor compliance of some patients in taking therapy and undergoing examinations. taking into account these considerations, a targeted medical history is of the utmost importance, keeping in mind that what can be useful for a physician may not always coincide with what the patient believes it is important to tell. hence, it’s essential to remember some questions to ask about, such as [11]: how far can she walk before being out of breath? how many pillows does she use for sleeping? does she wake up at night due to the feeling of breathlessness? had she recently got chest pain? did she recently take on her own initiative any drug that might exacerbate heart failure (such as steroids or nsaids)? 2. what strategy should be adopted to make a certain diagnosis? (essential initial investigations) figure 1. diagnostic algorithm for heart failure. modified from [8] bnp=b-type natriuretic peptide; cad=coronary artery disease; ecg=electrocardiogram hf=heart failure; mi=myocardial infarction; nt-probnp=n-terminal pro-b type natriuretic peptide a patient reporting symptoms typical of hf b normal ventricular and atrial volumes and function c consider other causes of elevated natriuretic peptides the gp prescribed natriuretic peptides, electrocardiogram, chest radiography, transthoracic echocardiography, and some blood tests. natriuretic peptides (nps) are a group of neurohormones that play an important role in fluid homeostasis [12]. their plasma concentration is useful as early diagnostic test, particularly in non-acute setting, when echocardiography is not immediately accessible (figure 1). patients with normal np concentration are unlikely to have hf [13], and they can avoid echocardiography. in fact, the b-type natriuretic peptide cut-off level of 35 pg/ml has a negative predictive value of 93% [14]. however, in this case the doctor decided to request a transthoracic echocardiography immediately, due to the strong suspicion of hf and in order to shorten the waiting times for the execution of this exam. even if the use of serial measurements of natriuretic peptides can be helpful in some specific cases in guiding therapeutic decisions, indicating the need to intensify the pharmacological treatment [15], this approach should not be recommended [8]. electrocardiogram (ecg) is inexpensive, can be obtained immediately, and provides useful information about heart rhythm and electrical conduction. it may also show evidence of left ventricular hypertrophy or previous infarct. a normal electrocardiogram has a 90% negative predictive value for excluding systolic heart failure [16]. chest radiography is useful to detect features suggestive for heart failure (such as pleural effusions and pulmonary edema) and to rule out other causes of breathlessness, like malignancies or infections [17]. transthoracic echocardiography (tte) allows the confirmation of the diagnosis, provides information on valvular and myocardial structure, and may detect other important features, such as myocardial diastolic and/or systolic function of right and/or left ventricles. tte is also fundamental to distinguish heart failure with preserved ejection fraction (hfpef) from heart failure with reduced ejection fraction (hfref), which differ in both prognosis and treatment [18]. it is also important to prescribe blood tests, such as [19]: full blood count: to rule out anemia that may precipitate hf or offer an alternative explanation for breathlessness and to exclude neutrophilia that may suggest an infective cause of breathlessness; thyroid status: hypothyroidism and hyperthyroidism are important risk factors to develop hf and they need an appropriate treatment; liver function tests: to reveal hepatic congestion resulting from a right hf and because hypoalbuminemia may result in fluid retention and consequent peripheral edema; renal function tests: renal failure may result in fluid overload, and a baseline renal function is crucial for treating hf with diuretics and angiotensin-converting enzyme (ace) inhibitors, that may worsen renal function and cause electrolyte disequilibrium; lipid profile and glycated hemoglobin: to evaluate cardiovascular risk. 3. how should this condition be managed? (the medical therapy) while waiting for the results of the required clinical tests, the gp prescribed the immediate discontinuation of nsaids, the beginning of diuretic therapy with the addition of furosemide (50 mg/day by mouth), and the revaluation of antihypertensive therapy with a dose escalation of ramipril to 7.5 mg/day. first of all, on the basis of the hippocratic principle primum non nocere, it is essential to avoid all drug treatments that might exacerbate hf (e.g. nsaids, the probable cause of heart failure precipitation in this case). it is demonstrated that high doses of commonly used nsaids could double the risk of developing a new heart failure [20] or easily induce an exacerbation of a pre-existing one with an increase in hospitalizations [21].  diuretics are useful to decrease the signs and symptoms of congestion in patients with hf [22], even if their effects on morbidity and mortality have not been analyzed in randomized controlled trials [8]. the aim of diuretic therapy is to reach and maintain euvolemia with the lowest achievable dose. the dose of the diuretic must be modified according to the individual necessities over time [11]. the beneficial effects of ace inhibitors in heart failure include improvements in survival chance, rate of hospitalization, symptoms, cardiac performance, neurohormonal levels, and reverse remodeling [23]. it’s critical to increase (like the gp did in this case) ace inhibitor (for example, doubling the dose every 2-4 weeks) until the target dose is achieved or side effects appear. renal function tests should be performed within 1-2 weeks from each dose increment to check that blood creatinine levels and estimated glomerular filtration rate are stable and hyperkalemia is absent [11]. angiotensin receptor blockers (arbs) are recommended only as an alternative in patients intolerant to ace inhibitors because of severe cough or angioedema [24]. beta-blockers (bbs) have a protective effect on the heart, exerted through the inhibition of adrenergic system with inotropic and negative chronotropic effects. the use of bbs results in a reduction in mortality, morbidity, and hospitalization for hf exacerbation and improves the severity of symptoms [25]. the treatment with bbs should be initiated in stable patients and gradually up-titrated to the maximum tolerated dose, while, in case of exacerbation of chronic hf, it must be reduced or discontinued or not started (like in this case) [26]. furthermore, the administration of bbs, especially cardioselective ones, in patients with copd is safe and the presence of a copd is no longer a contraindication to the use of bbs in a patient with hf [27]. recently, a new therapeutic class of drugs called angiotensin receptor neprilysin inhibitors (arni) has been developed. they act on the renin-angiotensin-aldosterone system (raas) and the neutral endopeptidase system. sacubitril/valsartan, the first medication of this new class, is recommended as a replacement for an ace inhibitors to further reduce the risk of death and hf hospitalization in patients with hfref who remain symptomatic despite optimal treatment with bbs, ace inhibitors, and mineralocorticoid receptor antagonists [28]. all the foregoing considerations are valid only for patients with hfref. conversely, no therapy significantly improves survival or prevents hospitalizations in patients affected by heart failure with normal ejection fraction. the objective in these patients is to relieve symptoms with diuretics and treat hypertension and other comorbidities [29]. outcomes the ecg revealed a sinus rhythm and a left bundle branch block (lbbb) in addition to the findings reported in table i. a severe cardiomegaly was apparent at the chest radiography, which revealed also bibasilar pulmonary edema with bilateral small pleural effusions. blood tests highlighted 4 parameters outside the normal range (table ii). transthoracic echocardiogram (tte) was not yet run. parameter detected value heart rate 62 bpm pq 0.20 s qrs axis -30° qrs 0.18 s table i. electrocardiography findings parameter detected value normal range hemoglobin (g/dl) 8.1 11.5-15.5 mean corpuscular volume (fl) 78 80-97 creatinine (mg/dl) 2.4 0.6-1.5 brain natriuretic peptide (pg/ml) 280 < 35 table ii. blood test results 4. does this condition require hospitalization? (the hospitalization) on the basis of the above-mentioned data, that confirmed the initial suspicion of nsaids-induced heart failure and showed an acute renal failure and an acute anemia (both not previously present), the gp decided to hospitalize the patient. hf is the most common reason of hospitalization in patients over 65 years of age [30]. unfortunately, evidence from the literature to guide the decision about the hospitalization of a hf patient is scarce [31]. therefore, patient’s hospitalization depends on numerous subjective factors, including both the severity of underlying condition and comorbidities. in this case, the decision was related to the need to understand the underlying etiology of a first episode of hf in a complex patient with multicomorbidity (copd, acute renal failure, and anemia). moreover, the concomitant presence of severe cardiomegaly and lbbb (already present in previous ecgs, but the patient had never wanted to undergo more examinations) made the gp suspect the presence of a hfref, that must be confirmed by the execution of a tte, and eventually treated with a cardiac resynchronization therapy implantation [32]. furthermore, the hospitalization is necessary to perform intravenous diuretic therapy with a strict monitoring of hydro-balance and kidney function, in light of the finding of concomitant acute renal failure. it is also important to understand the etiology of anemia and treat it (the hypothesis of a gastrointestinal bleeding connected to the use of nsaids is plausible): anemia is another indicator of the grade of severity of this clinical picture since it is an independent factor of in-hospital mortality risk in patients with hf despite renal dysfunction [33]. 5. how should this condition be followed up? (the follow up) after hospital discharge, it was time to organize a multidisciplinary team management, through periodic medical examinations by the gp and the cardiology outpatient clinic, to follow-up and monitor patient’s condition. one of the key problems of healthcare system with heart failure patients is the very high rate of re-hospitalization. up to 25% of patients hospitalized with hf are readmitted within 30 days [34] and a re-hospitalization is one of the strongest prognostic predictors for augmented mortality too [35]. the goal of hf management is to organize a seam-less system of care that embraces both the hospital and the community throughout the healthcare process. a close integration between gps, hospital and territory cardiologists, specialist nurses, social workers, etc. can reduce hf hospitalization and mortality in patients discharged from the hospital [36] and decrease medical costs [37]. multidisciplinary team management is also essential for the full implementation of non-pharmacological therapy through weight monitoring, avoiding salty foods, and harmful drugs (such as nsaids in this case), fluid intake, and possible flexible use of diuretic therapy [38]. an important task of the gp in the hf post discharge is to avoid medication non-adherence, which is a common precipitant of re-hospitalization and is associated with poor outcomes [39]. conclusion heart failure is a very difficult disease to frame and diagnose, and unfortunately signs and symptoms are highly nonspecific. general practitioners may have unique insight into the patient’s medical history and some laboratory tests and instrumental exams can help physicians to diagnose and manage heart failure. natriuretic peptides can play an important role in this setting and may eventually become part of the standard package of tests both in the acute phase and during the follow-up. the organization of a multidisciplinary intervention, focused on both the patient and the caregiver, is of no less importance and it results in the reduction in hospital admission rate and mortality. key points clinical history and physical examination may indicate the presence of heart failure laboratory tests (e.g., natriuretic peptides) and instrumental exams allow physicians to diagnose and manage patients with heart failure in everyday medical practice nsaid intake may act as precipitating factor for hf the organization of a multidisciplinary intervention may be a very useful resource, resulting in the reduction in the rate of hospital admissions and mortality for hf references 1. mcmurray jj, adamopoulos s, anker sd, et al. esc guidelines for the diagnosis and treatment of acute and chronic heart failure 2012: the task force for the diagnosis and treatment of acute and chronic heart failure 2012 of the european society of cardiology. developed in collaboration with the heart failure association (hfa) of the esc (hfa). eur heart j 2012; 33: 1787-847; 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issues of patients with chronic obstructive pulmonary disease (copd) during visits in the general medicine setting. using this model, gps can identify and group patients in four specific areas; depending on the membership, the intervention is defined by the guidelines and the evidence-based medicine. keywords: management; general practitioners; guidelines; four-quadrant model modello a 4 quadranti: come applicare le linee guida per la bpco nell’ambito delle cure primarie cmi 2018; 12(1): 23-29 https://doi.org/10.7175/cmi.v12i1.1335 clinical management corresponding author carla bruschelli, md specialist in internal medicine gp, roma “health search” researcher carla.bruschelli@gmail.com received: 25 october 2017 accepted: 6 february 2018 published: 12 april 2018 introduction the statistic-epidemiologic evaluation of the activity of italian general practitioners (gps) through databases, such as “health search”, shows some errors in management and clinical methodology applied to chronic diseases [1]. they are often underdiagnosed, poorly followed up, or not properly treated. for example, the prevalence of chronic obstructive pulmonary disease (copd) seems to be slightly above 3%, while the prevalence estimate in the literature is about 6% [2]. the diagnosis of copd is made by means of spirometry just in 49% of patients. therapy prescriptions are inappropriate in more than half of the patients. italian gps practice predominantly a “waiting medicine” rather than an “on-the-job” medicine, mainly because they are overburdened by a heavy bureaucratic routine. therefore, they pay less attention to prevention or early diagnosis, underuse “gold standard” investigations, and finally they pay poor attention in recording data in the database, especially about comorbid chronic patients, who, due to the absence of a proper methodology in general medicine (that should be inspired to guidelines and evidence-based medicine, but also match to personalized medicine), too often receive prescriptions of drugs as if they were affected just by one illness, receive only specialist prescriptions, or symptoms that may lead to an early diagnosis are underestimated. a specific training of general practitioners is necessary in order to teach how to use a spirometer and correctly interpret results. even though care of copd patients is first of all in charge of general practitioners, optimal management should necessarily include pulmonologists, who have to make an accurate lung function evaluation (spirometry with reversibility and plethysmography, diffusion of co when necessary) and supervision of treatment. in fact, copd is a preventable disease and the early diagnosis implies a mandatory multidisciplinary commitment. copd: epidemiology and treatment copd is among the most widespread chronic respiratory diseases in the world [3]. it is expected to be the third cause of death in the world by 2030 [4-6]. it is preventable, but not curable and is characterized by irreversible airflow obstruction [7-9]. bronchi (chronic bronchitis), bronchioles (small airways), and pulmonary parenchyma (emphysema) are involved. it is induced by inhalation of harmful subtle particles, especially from tobacco smoke (also passive smoke), and its main symptoms are chronic productive cough, especially in the morning and/or dyspnea, initially just after strain, and lately even at rest. it is often associated with comorbidities and requires the elimination of the main risk factors and adequate and prolonged cure over time (pharmacological and non-pharmacological, according to severity), otherwise it evolves in stages of greater severity. in fact, it is crucial to remove risk factors, especially tobacco smoke [10,11]. the diagnosis is based on the presence of respiratory symptoms and/or exposure to risk factors and, in particular, on the detection of obstruction through the gold standard examination, i.e. spirometry. however, the criteria for diagnosis and treatment should always take into account the reported symptoms and the patients’ quality of life [12]. pharmacologic therapy for copd is used to reduce symptoms, frequency and severity of exacerbations [13]. gold guidelines 2017 give some recommendations concerning the drug classes used in copd setting [13]: bronchodilators: they are most often given on a regular basis to prevent or reduce symptoms. they include short-acting (sabas) and long-acting (labas) β2-agonists; antimuscarinic drugs: they provided small benefits over short-acting β2-agonist in terms of lung function, health status, and requirement for oral steroids. they include short-acting (samas) and long-acting antimuscarinic antagonists (lamas); combination bronchodilator therapy: combining bronchodilators with different mechanisms and durations of action may increase the degree of bronchodilation with a lower risk of side effects compared to increasing the dose of a single bronchodilator; inhaled corticosteroids (icss) in combination with long-acting bronchodilator therapy: in patients with moderate to very severe copd and exacerbations, an ics combined with a laba is more effective than either component alone in improving lung function, health status, and reducing exacerbations; other pharmacologic treatments: antibiotics. more recent studies have shown that regular use of macrolide antibiotics may reduce exacerbation rate; mucolytic (mucokinetics, mucoregulators) and antioxidant agents (n-acetylcysteine, carbocysteine): in copd patients not receiving inhaled corticosteroids, regular treatment with mucolytics such as carbocysteine and n-acetylcysteine may reduce exacerbations and modestly improve health status. influenza vaccination is strongly recommended. the benefits of anti-pneumococcal vaccination are well known too [14,15]. the long-term administration of oxygen (> 15 hours per day) in patients with chronic respiratory failure has been shown to increase survival in patients with severe resting hypoxemia. long-term oxygen therapy is indicated in patients who, in stable phase, at rest, and with the best treatment possible, in repeated hemogasanalyses over time (at least fifteen days apart from each other), have: pao2 < 55 mmhg (sao2 < 88%); pao2 between 56 and 59 mmhg, (sao2 < 89%), in the presence of pulmonary arterial hypertension, pulmonary heart, peripheral edema, hematocrit > 55%. rehabilitation is indicated in patients with limitations in activities of daily living and should be integrated in personalized treatment. exacerbation is an acute modification of the usual symptoms (dyspnea, cough, and expectoration), and requires therapeutic adaptation. the differential diagnosis between disease exacerbation and worsening of symptoms is up to gps [16]. the pharmacological treatment at home involves the administration of the same drugs used during the stable phase but with different doses, frequency, and route of administration. other drugs, such as antibiotics or systemic steroids, can be added. firstly, short-acting bronchodilators are added. obviously, for patients who do not respond to home treatment, hospitalization should be considered. italian gps’ role and chronicity management copd management has its main reference in the general practitioner and in the new territorial organizations of gps [17]. gps play a unique role in the copd cure, from the prevention to the treatment of the most advanced phases. they consider features such as evolutionary epidemiological impact, chronicity, comorbidities, need for continuous treatments and for training sessions. this complete evaluation is more achievable if performed in territorial structures that make use of logistical and multidisciplinary assistance. as 80% of patients refer to their general practitioner at least once a year, the role of gp is crucial to early identify patients with greater probability of developing copd, making use of anamnestic-diagnostic-therapeutic methodology of an exclusive management model providing for long-term care and problem-oriented electronic medical records. obviously, rapid and effective collaboration and communication between gps and specialists are important aspects for the success of care path, thus it is essential to share the assistance goals and the strategies to reach them. by examining electronic medical records of italian gps in the “health search” database (which associates individual problems/pathologies with their specific diagnosis and therapy), situations peculiar to general medicine may be observed, such as: absence of problems/pathologies; presence of symptoms associated with a problem/pathology, but without diagnosis; absence of symptoms and diagnosis; presence of pharmacological treatments, but without specific diagnosis; presence of specific diagnostic tests, but without diagnostic conclusions; and presence of diagnosis, but without proper therapies. since a method to approach the complexity of chronicity has not yet been developed, gps face uncertainty, improvisation, and troubles in using a chronic illness management system. physicians are neither prepared nor helped from legislative, organizational, and financial point of view. moreover, guidelines and consensus documents have always found obstacles in general medicine settings. in fact, they are produced considering the disease rather than the ill, and therefore they are unlikely to fit real life. due to the increase in the number of people affected by chronic illnesses [18], it is critical to produce valuable tools that can help gps make prevention and early diagnosis, detect errors and/or deficiencies in the use of diagnostics, establish the staging and prescribe proper personalized therapies, but based on the criteria set out in guidelines and rules of good clinical practice. in order to act rationally, gps must know the available choices and the consequences that may arise from each one of them. in order to encourage gps to the clinical and organizational audit and help them deal with profession-related management issues, we developed a new analysis methodology defined “four-quadrant (4q) diagnostic analysis”. the “johari window” [19], a methodology designed by joseph luft and harry ingham to study aspects of interpersonal communication (known and unknown) and ken wilber’s “four-quadrant patterns” were adapted to the setting of general medicine. we have thus produced a tool that enables gps to analyze their activity and identify, with maximum sensitivity and specificity, patients’ care needs [20,21]. figure 1. four-quadrant (4q) diagnostic analysis. 4q analysis [20,21] makes use of a scheme made by a square, divided into 4 quadrants (figure 1), where the presence of pathology-related symptoms or procedures are evaluated (horizontal) and the presence or absence of diagnosis is highlighted (vertical). using this model, patients can be identified and grouped into four specific areas. subsequently, targeted interventions can be defined, according to guidelines and evidence-based medicine. therefore, gps are enabled to optimize each choice between various alternatives, assessing motivations, pros, cons, and actual feasibility. in this way, in clinical practice, some factors are improved: the diagnostic confirmation through the expected “gold standard”; the identification of patients with disease by expected but not performed diagnostics; the diagnostic investigation in symptomatic patients; and the identification of at-risk patients. in organized territorial facilities of gps, some tasks may also be carried out by other professionals, experiences colleagues, or young doctors in specific training. 4q model and copd four-quadrant diagnostic analysis may be applied to copd [13], resulting in 4 quadrants shown in figure 2 and described below. figure 2. four-quadrant (4q) diagnostic analysis applied to copd. hidden area – patient with known diagnosis of copd, referring to the gp for other reasons in this case, it is not necessary to perform a specific visit on copd. gp should check if the spirometry which confirmed the diagnosis is recorded. defining fev1 as forced expiratory volume in the 1st second and fvc as forced vital capacity, the threshold fev1/fvc < 0.70 after bronchodilators in spirometry test highlights a low airflow. if spirometry test is absent or if just a spirometry without reversibility test was performed, the copd diagnostic pathway is re-evaluated. if suspicion is confirmed, spirometry is required. if the diagnosis is already confirmed by spirometry, the possible decrease in respiratory function may be evaluated. gps with proper training can perform a simple spirometry in their office (office spirometry). if the patient is a smoker, in the office, physicians or trained professionals perform a brief counseling or the 5a evidence-based approach [22]. it comes of a minimal smoking cessation intervention recommended by the major guidelines, lasting a few minutes and including 5 actions: ask, advise, assess, assist, and arrange. if the patient follows a pharmacological therapy, some factors should be evaluated: therapeutic adherence (number of prescriptions in the medical records), correct use of the devices (demonstration), therapeutic inertia, and presence of side effects or adverse events. the need for rehabilitation is also assessed. even if the patient does not report it spontaneously, the physician investigates on the presence of symptoms directly related to the disease, and then the effectiveness of the therapy and any comorbidities including, above all, cardiovascular pathologies and the psychological status. if the patient is in a follow-up program, regular adherence should be checked. known area – patient with known diagnosis of copd, referring to the gp for disease-related symptoms gp should always check if the spirometry which confirmed the diagnosis is recorded. the first intervention consists in distinguishing whether it comes of an episode of exacerbation of copd or if the overall clinical picture evolved. the symptoms to be evaluated are: dyspnea, cough, and expectoration. the focus is on the timing and the speed of the symptoms appearance: quicker in case of exacerbation, slower if the clinical picture evolved. a comprehensive assessment of symptoms is recommended using measures such as the copd assessment test (cat). the severity of the disease should be evaluated according to gold classification [13] (table i). gold classification severity fev1 level gold 1 mild fev1 ≥ 80% predicted gold 2 moderate 50% ≤ fev1 < 80% predicted gold 3 severe 30% ≤ fev1 < 50% predicted gold 4 very severe fev1 < 30% predicted table i. gold classification of copd, 2017. applicable to patients with fev1/fvc < 0.70. modified from [13]. the next step consists in deciding if the patient’s conditions allow to perform home-based management or require hospitalization or specialist visit. among factors that should be considered, there are general conditions, age, comorbidity, the number of previous exacerbations, ongoing therapy, social and family conditions. patient’s physical examination is essential, and should be completed by pulse oximetry (emergency room access is required when sao2 < 92%). if possible, simple spirometry can be performed. possible reasons of worsening, including poor adherence to treatment and lack of vaccinations should also be investigated. if the patient is a smoker, short counseling or 5a evidence-based approach is followed. the need for rehabilitation should also be assessed. unknown area – patient without known diagnosis of copd, referring to the gp for other reasons risk indicators should be evaluated: smoking habit (pack years), symptoms (cough with or without expectoration, dyspnea), age > 40 years, job, outdoor and indoor pollution. if all the indicators are negative, the gp’s job ends. if only tobacco smoke is present, the gp performs a brief counseling or the 5a evidence-based approach, recording the need for a follow-up visit after a short time. if positive for smoking, smoking or cough, or smoking and age, the gp prescribes a simple spirometry (office spirometry, if possible). if the patient has only respiratory symptoms, he/she should be visited and the cause will be specifically investigated. blind area – patient without known diagnosis of copd, referring to the gp for symptoms compatible with copd the first step consists in collecting the history of: smoking habit (pack years), age, duration and type of symptoms. in any case, even though not so helpful in copd, the physical examination must be done. in case of long-standing symptoms, smoking habit, and age > 40 years, simple spirometry should be prescribed or performed. in case of altered results, the patient is referred to a specialist visit. in case of recent-onset symptoms, other possible causes will be evaluated through specific tests. if tobacco smoke is present, the gp performs a brief counseling or the 5a evidence-based approach. conclusions the success in the care of patients affected by copd requires organizational models suitable for the general medicine setting. the management of major chronic diseases, such as copd, must count upon a territorial organization with complex multiprofessional primary care facilities, in order to optimize human and economic resources. in the current scenario, the importance of the 1st-level clinical and instrumental control made by gps is growing. specific governance methodologies should be applied. an effective treatment plan for patients affected by copd includes the application of methodology and organizational analyses models suitable for the general medicine setting, allowing a global assessment of the individual patient and the application of diagnostics, treatments, and follow-up, as recommended by the best guidelines, but at the same time customized for each patient. the 4q model describes, in a fairly realistic way, the characteristics and clinical issues of patients with copd during visits in the general medicine setting, even though it still does not properly assess comorbidities or the impact of organizational levels of physicians. however, the application of this method can help gps to use an audit process, to enhance “initiative medicine”, apply best practice rules, and prepare a new vocational guidance aimed at “pay for performance”. key points chronic obstructive pulmonary disease (copd) is a widespread chronic respiratory disease even though specialists’ visits are required, everyday management of copd is up to general practitioners (gps) however, gps are overburdened by a heavy bureaucratic routine therefore, it is critical to produce valuable tools that can help gps make prevention and early diagnosis, detect errors and/or deficiencies in the use of diagnostics, establish the staging and prescribe proper personalized therapies, but based on the criteria set out in guidelines and rules of good clinical practice the four-quadrant diagnostic analysis proposed by the authors aims at helping gps in the management and identification of patients affected by copd by grouping patients in 4 areas: hidden area – patient with known diagnosis of copd, referring to the gp for other reasons known area – patient with known diagnosis of copd, referring to the gp for disease-related symptoms unknown area – patient without known diagnosis of copd, referring to the gp for other reasons blind area – patient without known diagnosis of copd, referring to the gp for symptoms compatible with copd funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. bibliography 1. bettini gl, bonvicini a, braga a, et al. bpco a 270°. rivista società italiana di medicina generale 2013: 6: 11-15 2. buist as, mcburnie ma, vollmer wm, et al. bold collaborative research group. international variation in the 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with presence of scar tissue. an emblematic case report of locally disseminated scc arising from a chronic osteomyelitis of the left leg complicated by recurring soft tissue infections lasting since 46 years is presented and discussed according to the available international literature evidence. concurrent diseases, supporting factors, clinical and histopathological presentation, differential diagnosis, and time and mode of management of this potentially functionaland life-threatening pathological condition are reviewed and discussed to offer a theme to daily clinical care. keywords: carcinoma, squamous cell; osteomyelitis; infection; local; surgery; marjolin’s disease carcinoma squamocellulare metastatico aggressivo insorto dopo una storia di 46 anni di osteomielite cronica e di complicanze infettive locali: un caso clinico cmi 2018; 12(1): 31-36 https://doi.org/10.7175/cmi.v12i1.1352 case report corresponding author dr. roberto manfredi, md infectious diseases, university of bologna, s. orsola-malpighi hospital via massarenti 11 i 40138 bologna, italy e-mail: roberto.manfredi@unibo.it received: 16 march 2018 accepted: 4 may 2018 published: 17 may 2018 why do we describe this case patients affected by chronic osteomyelitis are treated and monitored for a long time. however, often physicians don’t consider the underlying risk of local and disseminated carcinogenesis. conversely, a prompt detection could be greatly beneficial for patients’ survival introduction skin tumors are the most frequent cancers in the world [1]. even though ultraviolet radiation coming from the sun is the main responsible, scars are recognized as another important cause of tumorigenesis. among skin cancers arising in scars, squamous cell carcinomas—sccs are the most frequent (71%), followed by basal cell carcinomas—bccs (12%, more common in male patients), and cutaneous melanomas (6%, more common in female patients) [1,2]. they mainly arise in burns experienced during childhood. marjolin’s disease refers to an infrequent, aggressive ulcerating scc presenting in a body surface area which has been previously interested for a long time by traumatized, chronically inflamed, infected, or scarred skin [3-5]. the term “marjolin’s ulcer” was named after the french surgeon jean-nicolas marjolin (born 1780, died 1850), who reported for the first time this condition in the year 1828, when assessing non-healing ulcers developing in burn scars [6,7]. the term was later enforced by j.c. de costa, as reported by the dermatologist c. steffen in the year 1984 [6]. although the mentioned author initially did not specifically describe cancer or scc [6], the term “marjolin’s ulcer” is now commonly used to describe a cutaneous (squamous cell) carcinoma arising in any site of established chronic inflammation, especially with presence of scar tissue [3-5,8]. even though a relevant number of marjolin’s ulcers still develop from burn scars, other sites include stasis ulcers, decubitus ulcers, inguinal granuloma, syphilitic lesions, and smallpox vaccination scars. they also may occur in sinus tracts from hidradenitis suppurativa, acne conglobata, and especially osteomyelitis (and its chronic draining sinuses and fistulae caused by infectious processes and superinfections, as well as long-lasting ulcerating scar tissue of non-united fractures) [3,9-14]. here we report a case of severe scc complicated by metastatic localizations, which led to leg amputation in a patient with an extremely long history of chronic osteomyelitis who underwent numerous medical and surgical interventions during a 46-year period. case description figure 1. chronic osteomyelitis of the distal portion of the left leg of our patient. the x-ray image shows a structural bone alteration of the distal tibia, with areas of bone rarefaction close to areas of bone sclerosis due to the sequelae of the inveterate osteomyelitic process. inside the osteomyelitic areas, a remarkable osteolysis is appreciable, which leads to the disappearance of the distal portion of fibula, and that of the cortical, posterior-lateral tibial margins, attributable to the invasion by the overwhelming scc of the skin. a 62-year-old male patient had a 46-year-long history of chronic left tibial and peroneal osteomyelitis, after a traumatic, severe, and exposed fracture occurred at the age of 16. since the first episode, the event became complicated by an osteomyelitis, and a relapsing, complicated, and sometimes gangrenous infection of soft tissues close to the previous bone fracture site. over 20 orthopedic/surgical interventions became necessary to stabilize the bone continuity, and to remove relapsing local infectious foci. in fact, despite endless cycles of antimicrobial chemotherapy, treatment with hyperbaric oxygen therapy, and repeated surgical stabilization and curettage interventions, relapsing episodes of fistulation occurred in the recent three years, with isolation of different bacterial microorganisms. before hospitalization in our department of infectious diseases, two gram-negative multiresistant pathogens including pseudomonas aeruginosa and citrobacter freundii were cultured from a draining fistula, and the infection was treated with combined piperacillin-tazobactam (18 g/day in 24-hour i.v. continued infusion), and levofloxacin (500 mg, twice daily orally). on the ground of the slowly progressive improvement of both local and systemic signs of infection (with reduced secretions, almost normalized serum c-reactive protein levels and other inflammation indexes), orthopedics and plastic surgeons finally evaluated the possibility of a combined approach, aimed at eliminating residual necrotic areas and bone sequestrations, checking and eventually enhancing tissue vascularization, and trying a reconstructive surgical approach of skin and skin structures. in this view, an arteriography was also performed, which showed an obstruction of the proximal tract of the left interbone artery, and two moderate stenotic tracts of the median third of posterior tibial artery. at the time of hospitalization in our department of infectious diseases, the patient suffered from a severe local pain, and presented enlarged ulcerations with a necrotic basis and abundant malodorous secretions at his left leg, in absence of fever and systemic signs and symptoms. antibiotic treatment included i.v. piperacillin-tazobactam at 18 g/day, plus levofloxacin 500 mg, two times a day. the intense pain was poorly controlled by opioids, plus paracetamol, and gabapentin for paresthesia. a computerized tomography (ct) of the left leg disclosed a remarkable rarefaction of bone tissue, especially of the peroneal one, which contraindicated an eventual bone reconstruction. the underlying neoplastic complication was already suspected by a conventional x-ray study of the limb (figure 1). during the same week, a sequestrectomy was performed with removal of necrotic remnants of leg bones and close tissues, together with a further revision of soft tissue infection foci, completed with a skin biopsy. unfortunately, the skin biopsy of the chronic cutaneous ulcer and the subsequent histopathological studies confirmed an already extensive and infiltrating scc. an immediate staging of this malignancy was performed by a thoracic, abdominal, and pelvis ct, and a positron-emission tomography (pet), which identified multiple enlarged regional lymph nodes. our patient immediately underwent local surgery for skin cancer and local lymph node removal, but histopathology studies disclosed that all left inguinal lymph nodes, and left internal and external iliac artery lymph nodes tested positive for multiple metastatic localizations of the scc. as a consequence, an amputation of the left leg at his upper third was promptly performed, and the treatment of cancer has been completed with multiple local radiotherapy cycles. a chemotherapy approach will be based upon an instrumental re-staging of the advanced neoplastic disease. at the time of writing, our patient is still undergoing his therapeutic pathway. discussion a local transformation of persistently inflamed cutaneous tissue close to scars and chronic inflammatory and infectious processes (including osteomyelitis and its complications) may be retrieved with stable or increasing frequency in the context of chronic wounds including burn injuries, skin ulcers descending from burns [4], venous stasis, post-radiotherapy scars, and especially ulcers from chronic osteomyelitis and its long-lasting sequelae [3,11], as also confirmed by extensive italian experiences conducted in the reference tertiary center of bologna, italy (rizzoli orthopedic university hospital) [12,13]. anyhow, the intrinsic pathogenetic pathways for this malignant transformation are still poorly known. one suggestion is that previously traumatized skin may be more susceptible to mutation, and that fibrotic and avascular scar tissue may interfere with immune surveillance, resulting in the inability of peripheral lymphocytes and monocyte-macrophage cells to recognize, reach, and destroy neoplastic cells [15]. in a nosographic perspective, r.j. esther [3] underlined some major differences between a “true” marjolin’s ulcer, and a malignant skin transformation arising in a sinus of chronic osteomyelitis. in particular, according to this author: in the event of marjolin’s ulcer, the size of lesion is large, the lymph nodes are involved, and the prognosis is poor; in the event of osteomyelitis sinuses, the size of lesion is small, the lymph nodes are not involved, and the outcome is more favorable [3]. however, both clinical and pathological presentation and outcome of these two proposed forms of malignant degeneration of chronic cutaneous ulcerative/inflammatory lesions are largely overlapping in the daily clinical practice, as demonstrated by our case report, where prominent osteomyelitis-associated complications, bone sequestrations, and draining fistulations were present, together with ulcerating skin lesions and multiple superinfections: the prognosis was poor, due to an extensive lymph node spread of scc. anyway, a scc developing on chronic skin lesions seems to have a greater incidence of metastasis (estimated to occur in 9% to 36% of cases), as compared to the same form of carcinoma arising in previously normal skin (with secondary lymph node localizations complicating 1% to 10% of episodes). squamous skin cancer which develops on top of draining sinuses and ulcers seems to be more aggressive than the sensu stricto “marjolin’s ulcer” of skin scars occurring on previous burns, in absence of concurrent local inflammatory diseases, like a chronic osteomyelitis [16,17]. from a clinical point of view, the disease presents as a slowly growing, painless ulcerated lesion, since the ulcer is usually not associated with nerve tissue involvement, so that it is usually indolent, thus leading to a frequently missed or delayed diagnosis. the lesions exhibit exuberant granulation tissue that spills over their well-defined margins onto the surrounding tissue. in around 40% of cases these lesions involve the lower extremities, and since the malignant change of these long-lasting wounds is usually painless, and happens a very long time after initial trauma or local disease (up to 20-32 years later, with one case reported 70 years after the supporting disease had been identified) [18], its evolution is particularly insidious and may become life-threatening (in up to 80% of cases), if it is not recognized and treated promptly. in particular, marjolin’s ulcers and related diseases have a particularly aggressive course (especially when compared with their extremely slow transformation process), enclosing greater rates of recurrence and overall metastatic lesions, as opposed to other forms of scc. as a consequence, the estimated five-year survival rate of involved patients is around 30% only. actually, the scc is per se the second leading cause of skin cancer death after melanoma, and it represents the second most common type of cutaneous cancer after basal cell carcinoma. moreover, the time of development of malignancy is inversely proportionally to patient’s age, so that also this last feature, together with the characteristic indolent-chronic appearance, often leads to a delayed recognition, and a consequently worse outcome. the clinical-pathological differential diagnosis of these cases of “secondary” scc and marjolin’s ulcer is extremely broad, and should include any non-healing ulcer such as venous stasis ulcers, diabetic ulcers, arterial-vascular ulcers, pyoderma gangrenosum, or ulcerative cutaneous lesions secondary to other disease (i.e. burns, osteomyelitis, and multiple chronic dermatological disorders) [3,9-11,14]. a wedge biopsy of the lesion is the more affordable method of diagnosis. tissue specimens obtained should be taken from both the center and margins of suspected lesions, as the central ulcerative areas may often show only necrotic material. histologically, the tumor is represented by a well-differentiated scc in around 95% of cases, although basal cell carcinoma, melanoma, and sarcomas may be also present occasionally. the malignancy is aggressive in nature, since it usually spreads locally to close areas, and is associated with a poor functional or life prognosis in many cases [7,12]. the local lymphatic vessel disruption has been thought to preserve from a lymphatic spread of cancer cells [12,19], but this event does not happen in long-term, advanced disease presentations, like ours. lifeso and bull introduced a three-grade histopathological classification of scc of the extremities: grade i (well differentiated form), grade ii (moderately differentiated), and grade iii (poorly differentiated form), and they found that this staging played a very relevant prognostic role [9]. there is limited evidence on what percentage of treatment-resistant, non-healing ulcers reveals a malignancy. thus, experts recommend biopsy (i.e. wedge-shaped biopsy of the borders or multiple punch biopsies), of any non-healing ulcer resistant to standard interventions, to rule out malignant transformation. once diagnosed, wide excision followed by skin grafting is recommended. the radical treatment is based on a timely surgical excision, with a wide removal of the lesion, deserving margins of at least 1 cm all around the visible region. although autologous skin grafting remains the gold standard of management, bioengineered skin substitutes such as cultured autologous and allogeneic keratinocyte grafts, composites, cellular and acellular matrices, and living skin substitutes, also have been shown to stimulate healing by acting as an occlusive dressing while releasing tissue growth factors and cytokines. elective, regional lymph node dissection has been suggested because of the proportionally elevated rate of lymph node metastasis, especially when lymph nodes are palpable or demonstrated with imaging techniques (as in our case), while it remains a controversial procedure in the absence of palpable nodes [12]. finally, limb amputation may be recommended for recurrent disease, or when a marjolin’s ulcer and related disorders are associated with underlying osteomyelitis, when wide local excision will cause or will not outweigh a major functional disability. from an oncological standpoint, amputation does not seem to be superior to wide local excision, in terms of global disease outcome [20]. a long-term follow-up is recommended in all cases of marjolin’s disease and associated diseases leading to the development of an aggressive scc. the majority of available patient series indicate that the incidence of relapse ranges from 20% to 50%, and a 1980 study recorded that 98% of all recurrences were observed within three years of excision [21]. most disease recurrences are regional in site, but metastases to the brain, liver, lung, kidney, and distant lymph nodes have been also reported. novick recorded a 54% rate of metastases from lower limbs, and this rate was more than twice the metastatic index from any other primary site of “secondary” scc [22]. in the same study, the overall three-year survival rate of involved patients was quite low (66%) [22]. barr and menard [20] reported a comparable five-year survival rate of 60% after wide excision, rising to 69% after limb amputation. if regional lymph nodes are interested (as happened in our patient), the three-year survival rate is expected to drop to around one half (approximately 35%) [20]. unfortunately, no sufficient evidence is present in the literature regarding the role of radiotherapy and chemotherapy in the management of this disease, so that the follow-up of our patient after his surgical intervention remains unpredictable. conclusion in conclusion, the presence of chronic ulcers and draining sinuses after orthopedic surgery may prompt a rare case of marjolin’s ulcer or related disorders, including progression towards an aggressive scc. awareness about this disease and its complications and outcome, and an elevated suspicion risk are essential, when chronic cutaneous ulcers are present and infectious or bleedy drainages, increased size, or pain persist in a midlong-term time span. a prompt diagnosis and management of these slow-progressing, but ultimately potentially life-threatening, malignancies remains a mandatory behavior for all interested specialists and health caregivers working with patients at risk for malignant transformation of chronic cutaneous lesions. key points patients affected by chronic osteomyelitis should be considered at risk for local and disseminated cancerogenesis the presence of chronic fistulae increases the risk of this complication these patients should be treated by a multidisciplinary approach repeated skin biopsies and histopathology are mandatory funding this article has been published without the support of sponsors. 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colchicine, and corticosteroids. in the resistant forms, immunotherapy (azathioprine, intravenous immunoglobulins, and particularly anakinra) has shown to be effective. the long term outcome of idiopathic recurrent pericarditis is good, with no evolution towards constrictive form. keywords: recurrence; pericarditis; anti-inflammatory agents, non-steroidal; immunotherapy; interleukin 1 receptor antagonist protein gestione clinica e terapia della pericardite ricorrente idiopatica cmi 2018; 12(1): 1-9 https://doi.org/10.7175/cmi.v12i1.1339 clinical management corresponding author andrea assolari andrea.assolari@tiscali.it received: 15 november 2017 accepted: 6 december 2017 published: 19 january 2018 introduction acute pericarditis is an inflammatory pericardial syndrome, defined when at least two of the four following criteria are satisfied: chest pain, typically retrosternal, worsened in supine position and with deep inspiration, relieved in the upright position; pericardial friction rub (unfortunately this sign is present only in one third of all patients); typical electrocardiographic features, namely pr depression and diffuse concave st segment elevation; new onset or worsening pericardial effusion. other supportive findings for diagnosis are fever, elevation of markers of inflammation (c-reactive protein—crp, erythrocyte sedimentation rate—esr, white blood cell count) or evidence of pericardial inflammation detected by imaging technique, for example cardiac magnetic resonance (cmr).[1] recurrent pericarditis is defined as a relapse of disease after a documented first episode followed by a symptom-free interval of 4-6 weeks or longer, arbitrarily defined by experts and corresponding to the completion and usual duration of anti-inflammatory therapy. diagnosis of recurrence is established according to the same criteria as those used for acute pericarditis.[1] the recurrence rate after an initial episode of pericarditis ranges from 15 to 30% and may increase to 50% after a first recurrence in patients not adequately treated.[1] (clinicaltrials.gov registration number: nct00128414 [2]; clinicaltrials.gov registration number: nct00235079 [3]). patients at risk for recurrent attacks are patients with incomplete response to non-steroidal anti-inflammatory drugs (nsaids), patients with high fever or large effusion at presentation or elevated c reactive protein despite at least one week of treatment.[1] other treatment-related risk factors are: inadequate initial full dose of nsaids regimen or too rapid drug tapering, corticosteroids use, lack of colchicine, discontinuation of two classes of drugs together. other known mechanisms classically involved include exacerbations of the initial infections or reinfections and unrecognized cause untreated. some factors that may trigger the recurrence are acute respiratory infections, physical efforts, cold temperature exposition.[4] clinical management the main symptom of recurrent pericarditis is chest pain, similar in characteristics to the pain suffered in the first episode, but in most cases less powerful, more attenuated. the chest pain of pericarditis is typically retrosternal in location, sudden in onset, pleuritic in nature. chest pain is worse when the patient is supine and improves when he or she sits upright. chest pain is exacerbated by inspiration. a prodromal of fever, malaise, and myalgia can be common.[5] auscultation, electrocardiograph (ecg), echocardiography, chest x-ray, and routine blood tests are first-level investigations, recommended in all cases (table i).[1] level investigation first level (all cases) markers of inflammation (crp, esr, white blood cell count) renal function and liver tests, thyroid function markers of myocardial lesion (troponin) ecg echocardiography chest x-ray additional testing directed to specific etiologies according to clinical presentation probable viral infections viral serological tests are not recommended, with the possible exception of anti-hiv, anti-hcv, hbsag probable tuberculosis quantiferon, mantoux culture and pcr in sputum or other biological fluids chest ct scan acid-fast bacilli staining, mycobacterium cultures, pcr for genome on pericardial fluid probable neoplasm specific neoplasm markers chest and abdomen ct scan, pet cytology of pericardial fluid or pericardial biopsy probable autoimmune disease ana, ena, anca, ace, rf, ferritin probable autoinflammatory conditions (periodic fevers) fmf and traps mutations second level (first level not sufficient for diagnostic purpose) computed tomography and/or cardiac magnetic resonance pericardiocentesis (analysis of pericardial fluid) table i. recommended investigations for pericarditis.[1] ace = angiotensin-converting enzyme; ana = antinuclear antibodies; anca = anti-neutrophil cytoplasm antibodies; crp = c-reactive protein; ena = anti-extractable nuclear antigens; esr = erythrocyte sedimentation rate; fmf = familial mediterranean fever; rf = rheumatoid factor; traps = tumor necrosis factor receptor associated periodic syndrome during physical examination some patients have an audible friction rub. ecg can show upward concave st-segment elevation and pr-segment depression. in recurrent pericarditis, nonspecific alterations of ventricular repolarization or abnormalities of t-waves are common. transthoracic echocardiography can reveal the presence of a new onset or worsened pericardial effusion. chest x-ray provides information with regard to cardiac size and the presence of pulmonary pathology, pleural effusion and hilar and mediastinal enlargement. blood tests to perform are white cell count, esr and crp, renal function and liver tests, thyroid function, markers of myocardial injury.[1] unfortunately, no specific diagnostic marker is available for pericarditis. however, most patients with pericarditis show high levels of markers of inflammation. crp and esr and the other parameters of inflammation, even though not specific, are very important to define the intensity of the inflammatory process and select appropriate length of therapy. for example, crp dosage can be useful to confirm the diagnosis and differentiate true relapses from atypical chest pains. persistent elevation of crp may indicate ongoing inflammation and requires prolonged therapies. monitoring of crp may be useful to follow the disease activity and to guide the appropriate length of therapy, with continuation of the full dose until crp normalization, at which time tapering may be considered. during the therapy, in addition to the monitoring of side effects, a monthly check of crp, blood cell count, renal and hepatic function, inflammatory index is strongly recommended.[6] the diagnostic work-up of recurrent pericarditis may provide the use of second-level investigations in order to identify specific etiologies or detect if significant pericardial inflammation persists despite therapy. the identification of an underlying etiology is particularly important because it allows to start a targeted therapy.[1,7,8] many diseases can cause pericarditis, but, for a practical approach, causes can be divided in two major categories: infectious (any kind of microorganisms) and non-infectious causes (autoimmune, neoplastic, metabolic, traumatic or iatrogenic, drug-related, and miscellaneous).[1] in developed countries and in immunocompetent patients, recurrent pericarditis is idiopathic or viral in most cases (80-85%). viral infections causing pericarditis include coxsackievirus, echovirus, adenovirus, parvovirus, human herpes virus 6, but specific viral serological tests are considered futile. the diagnosis of idiopathic cases is essentially an exclusion diagnosis, supported by a typical clinical course.[1,7,8] in patients with repeated relapses and in presence of certain clinical features, it is important to exclude some etiologies that may not have been identified in previous assessments: tuberculosis, systemic inflammatory diseases, such as a connective tissue disease or neoplastic diseases.[1] in this regard, specific blood tests, computed tomography (ct), positron emission tomography (pet), and cardiac magnetic resonance (cmr) may be useful. ct is considered a complementary imaging modality. ct generally provides anatomic information and defines the extent of pericardial calcification, but with administration of iodinated contrast medium it is possible to detect pericardial inflammation because of the enhancement of the inflamed pericardium after contrast injection.[9] ct, if extended to thorax and abdomen, may detect neoplastic masses or lymphadenopathies, thus suggesting possible tuberculosis. in selected cases, pet, preferably in combination with ct, can be indicated to depict the metabolic activity of pericardial disease. pericardial uptake of tracer in patients with solid cancers and lymphoma is indicative of malignant pericardial involvement, thus providing key information on the diagnosis, staging, and assessment of the therapeutic response. pet/ct is also of value in identifying the nature of inflammatory pericarditis. for example, tuberculosis pericarditis yields higher tracer uptakes than the idiopathic forms.[10] cardiac magnetic resonance is a very helpful second-level imaging technique to study pericardial tissue. cmr assesses pericardial thickness and can have a significant role in the evaluation of pericardial inflammation. following intravenous administration of gadolinium, late gadolinium enhancement can show the extension of the inflammation into the surrounding epicardial fat, suggesting a severe inflammation. some patient, especially those with complicated or recurrent pericarditis, may benefit from this exam primarily directed at identifying if the patient still has significant pericardial inflammation. cmr is indicated also in patients in whom the presence of active pericardial inflammation is uncertain: delayed pericardial enhancement at cmr may favor continued or intensified anti-inflammatory treatment. on the other hand, if cmr does not show delayed pericardial enhancement, then tapering of medications may continue, and other diagnosis may be considered. cmr is useful also to show myocardial inflammatory involvement, fibrosis, and constrictive evolution. unfortunately, the technique has some important disadvantages: limited availability, high costs, and also the need for breath-holding and regular heart rhythms to get a better quality of the picture.[4] as stated in the most updated european society of cardiology (esc) guidelines,[1] pericardiocentesis should be used just in case of cardiac tamponade and suspicion of neoplastic or bacterial etiology as absolute indications. moreover, it should be considered in case of chronic (> 3 months) large pericardial effusions. therapy the treatment of patients with recurrences is not very different to the treatment of a first episode of acute pericarditis. aspirin or nsaids remain the mainstay of therapy. colchicine is recommended on top of standard anti-inflammatory therapy in order to improve remission rates and prevent recurrences. in case of incomplete response to nsaids and colchicine, corticosteroids may be used, but they should be added at low-to-moderate doses.[1] aspirin and nsaids aspirin and nsaids remain the mainstay of treatment.[1,7,8] the specific drug selected is not important: the choice should be based on the physician’s experience as well as on the history of efficacy and tolerability in the single patient. an nsaid that was effective in a previous attack should be the favorite choice. ibuprofen and aspirin are the most used. indomethacin is perhaps the most powerful anti-inflammatory drug. also comorbidities are important: for example, aspirin is the favored choice in patients with ischemic heart disease or when a patient is already on aspirin or needs anti-platelet treatment. also naproxen is an alternative in these situations. indomethacin and other nsaids should be avoided in patients with coronary artery disease. during an acute attack, a practical tip in a hospitalized patient is the administration of aspirin or nsaids intravenously, above all if the patient has intensive pain, high fever with associated nausea or vomiting. for example, in our clinical experience we administer indomethacin 100 mg in 250 ml of saline in continuous infusion in a day. therefore, after 3-5 days of intravenous indomethacin, if the patient is better, i.v. indomethacin can be switched to oral therapy. ketorolac is another anti-inflammatory widely used intravenously in the hospital setting, but it can only be used for a short time and, on the contrary, patients with relapsing pericarditis need the therapy for a long time. particular attention should be paid in using the highest tolerable dose of each medication and reassuring a continuous anti-inflammatory coverage throughout the day. a common mistake is to use too low doses. aspirin should be used at the dose of 1.5 to 4 g/day; ibuprofen 1800-2400 mg/day; indomethacin 75-150 mg/day (table ii). drug attack dose length of treatment* tapering aspirin 500-1500 mg every 8 hours (1.5-4 g/d) first attack: 2-4 weeks recurrences: several weeks/months. the optimal length of treatment is debatable, and crp should probably be as a marker of disease activity to guide management and length of treatment. gradual tapering (every 1-2 weeks and only if the patient is asymptomatic and crp is normal) is recommended decrease the total daily dose by 250-500 mg every 2-4 weeks ibuprofen 600-800 mg every 8 hours (1800-2400 mg daily) decrease the total daily dose by 200-400 mg every 2-4 weeks indomethacin 25-50 mg every 8 hours (75-150 mg daily) decrease the total daily dose by 25 mg every 2-4 weeks naproxen 250-500 mg every 12 hours; maximal daily dose 1500 mg for limited time period (< 6 months). dosage expressed as naproxen base; 200 mg naproxen base is equivalent to 220 mg naproxen sodium decrease the total daily dose by 125-250 mg every 1-2 week table ii. commonly prescribed anti-inflammatory therapies and dosages for recurrent pericarditis.[1] *valid for all alternatives the administration of nsaids should be well distributed during the day. for example, with regard to aspirin, ibuprofen, or indomethacin, each dose should be taken precisely every 8 hours in order to guarantee a full 24-hour coverage.[8,11] the duration of optimal treatment and the need to reduce the dose have not been tested in clinical trials. it is well established that the full dose regimen should be offered at least until normalization of crp values and initial clinical remission. this may take months, especially in patients with history of recurrent pericarditis. generally, respect the first episode of acute pericarditis, the length of treatment should be more extended. nsaids’ side effects are well known. the most serious are ulcers, bleeding, and kidney failure. aspirin use should be more cautious in patients with initial impaired renal function, erosive gastritis, peptic ulcer, gout, platelet, and bleeding disorders. nsaids use should be more cautious in patients with cardiac dysfunction, hypertension, renal or hepatic impairment, epilepsy, and patients receiving anticoagulants. however, in most patients these medications are taken for months without causing significant side effects. a proton pump inhibitor should be prescribed to all patients under aspirin or nsaids treatment.[8,11] colchicine in case of pericarditis, colchicine is always indicated, even in the first attack, but especially in case of recurrence. colchicine should be added to the nsaids, and should not replace them.[1] colchicine therapy is able to improve the response to traditional anti-inflammatory therapy and reduce the relapse rate of at least 50%.[2,3] side effects are gastrointestinal (up to 10% of cases), including nausea, vomiting, diarrhea, and abdominal pain, usually being a common cause of drug withdrawal; generally mild, they may resolve with dose reduction. weight-adjusted doses may reduce these side effects. less common side effects include elevation of transaminases. other anecdotal side effects are bone marrow suppression (less than 1%) and reversible alopecia (0.6%). colchicine interacts with macrolide antibiotics, in particular clarithromycin. a practical advice is to halve the dose of colchicine while taking clarithromycin. during the therapy with colchicine, it is recommended to monitor blood cell count, renal function, and transaminases at least at baseline and after a month of therapy. these exams are routinely performed in patients with many recurrences. in order to improve patients’ compliance and minimize the risk of side effects, colchicine should be administered in low, weight-adjusted doses (0.5 mg once daily for patients < 70 kg, 1 mg once daily or 0.5 mg twice daily for patients > 70 kg). a loading dose is not necessary. dose adjustment is mandatory for patients with renal impairment, debilitated patients, and elderly patients.[1-3] the duration of therapy is at least 6 months, but, if recurrences are frequent and colchicine is well tolerated, the duration can reach some years. at this point, discontinuation is discussed with the patient, explaining that cases of recurrence after colchicine discontinuation have been reported. even for colchicine, suspension should not be abrupt, but gradual.[2,3,12] corticosteroids corticosteroids are not recommended as first-line approach. it was shown that when they were used as first and unique therapy, though they produced a fast and satisfactory clinical response, they created a kind of addiction, a chronicity, and the patient became dependent. corticosteroids should be considered only in specific situations and the indications for their use are limited, for example in case of incomplete response to aspirin/nsaids and colchicine. in this case, they should be added at low-moderate doses as triple therapy in order to achieve better control of symptoms. nsaids are really contraindicated in case of true allergy or intolerance, renal failure and advanced kidney disease, pregnancy beyond the 20th week of gestation, recent peptic ulcer or gastrointestinal bleeding, oral anticoagulant therapy when the bleeding risk is considered high or unacceptable. corticosteroids are also correctly used when there is an autoimmune disease. indeed, low doses of steroids are commonly used to treat serositis.[1] even in these cases, colchicine should be associated. although guidelines and reviews suggest limiting the use of these drugs, they are commonly prescribed, especially during recurrences. low-to-moderate doses (0.2-0.5 mg/kg/day of prednisone or dose equivalent, in most patients generally 5-10 mg/day) are sufficient in most patients and the dose should almost never exceed 25 mg/day.[13] side effects are numerous and well known: weight gain, hypertension, diabetes, immunosuppression with masked or latent opportunistic infections, osteoporosis, acute myopathy, elevated intraocular pressure, cataract, central nervous system effects ranging from euphoria to psychosis. in order to prevent osteoporosis, supplementation of calcium and vitamin d and bisphosphonates, when indicated, is performed. with the aim of preventing weight increase, hyperglycemia, and liquid retention, some rules must be respected, and in particular diet restriction is necessary. after having obtained a clinical response, corticosteroids tapering should be very gradual, over months as in rheumatic polymialgia. table iii shows a schedule about steroid reduction based on the dose used.[1] starting dose: 0.2-0.5 mg/kg/day tapering > 50 mg 10 mg/day every 1-2 weeks 25-50 mg 5-10 mg/day every 1-2 weeks 15-25 mg 2.5 mg/day every 2-4 weeks < 15 mg 1.25-2.5 mg/day every 2-6 weeks table iii. tapering of corticosteroids (dosage information for prednisone).[1] a critical threshold is a 10-15 mg/day dose of prednisone or equivalent. at this threshold, decrements should be very slow, for example 1-2.5 mg at intervals of 2-6 weeks. each tapering should be performed only with normal crp and in the absence of symptoms. in case of recurrence during tapering, an important advice is not to increase the dose of steroid yet, but eventually split in 2 half doses controlling the symptoms, adding nsaids every 8 hours full dosage or intravenously, adding analgesics and reassuring the patient about duration of clinical disorders, generally only few days.[1] triple therapy: a wand a protocol including non-steroidal anti-inflammatory drugs at high dosage, colchicine, corticosteroids at low doses, reassurance, and close clinical monitoring generally allow patients to obtain a good control of the disease.[1,14] after obtaining a complete response, tapering should be done with a single class of drugs at a time. we suggest this order of discontinuation: steroids first, nsaids second, and at last colchicine. such process should be strictly individualized according to individual intolerability and renal function, as in elderly people. since steroid discontinuation may require from 2 to 10 months, during this time, according the clinical condition, nsaids can be used at low or intermediate doses and only temporarily increased at high doses. since colchicine is generally well tolerated, it is the last drug to be stopped. in the acute attack, analgesics, like acetaminophen or tramadol, can be added to control the pain.[1] immunotherapy in patients with recurrent pericarditis despite the therapy with nsaids, corticosteroids, and colchicine, the most updated esc guidelines [1] suggest to consider the use of azathioprine, high-dose intravenous immunoglobulins, and anakinra. azathioprine is indicated for patients who require unacceptably high long-term doses of corticosteroids.[1] in these conditions, azathioprine is used as a steroid-sparing agent in order to control the disease at long-term follow up. on the contrary, it is not useful in the resolution of an acute attack. azathioprine is a purine analog that inhibits lymphocytes proliferation. it is commonly used in autoimmune diseases. data concerning azathioprine as therapy of recurrent pericarditis are scarce and based solely on adults’ case reports.[16] the treatment dose for recurrent pericarditis is 2 mg/kg daily. the major side effect is myelosuppression, which resolves by reducing the dose in about one week. other side effects are transient hepatotoxicity and gastrointestinal symptoms. intravenous immunoglobulins (ivigs) are used for their immunomodulatory and immunosuppressive effects.[1] ivigs have a role in the resolution of acute attacks and as steroid-sparing agent. the most commonly used dose ranges from 400 to 500 mg/kg per day for 5 days. repeated cycles may be required, typically at monthly intervals. the main disadvantages of this treatment are costs and possible safety problems related to the use of plasma-derived substances. fortunately, adverse reactions are very rare, mild, and transient. care must be taken in the infusion rate. anakinra is a recombinant form of interleukin-1 (il1) receptor antagonist and acts by antagonizing the biological effects of il1, which is a pro-inflammatory cytokine. a recent study, airtrip, has shown that anakinra has a spectacular effect in severe, cortico-dependent and colchicine-resistant idiopathic recurrent pericarditis (clinicaltrials.gov registration number: nct02219828 [16]). it is important to select the right patients, that are those with very active and inflammatory disease, fever, strikingly elevated crp, pleural effusions. anakinra is not indicated in patients with ambiguous recurrences with normal crp. the initial dose is 100 mg/day; it is administered subcutaneously. the most common adverse effect is a local reaction at the injection site. for this reason, patients should be informed in advance. local skin reactions disappear over one months or after topical steroids treatment and systemic antihistamines. warming the syringe to room temperature before use is advisable, along with application of a cold pack to the injection site approximately 2 to 3 minutes before and immediately after the injection to prevent local reactions. other adverse effects are mild reversible elevation of transaminases and increased risk of infection. neutropenia has been reported in 5% of cases, but without evidence of association with clinical events. the contraindications of its employment are acute infections, immunosuppression and neutropenia, hypersensitivity or a previous allergic reaction, pregnancy, and breastfeeding. the main advantages of anakinra are rapid onset of effect (few days) and the capability to allow quick withdrawal of corticosteroids and then nsaids (some weeks). in our experience, the duration of therapy is at least three months at full dose. after obtaining remission with anakinra, a very gradual tapering is suggested (for example -100 mg/week every month till 300 mg/weekly, and then -100 mg/week every 2-3 months), with concomitant colchicine therapy, avoiding corticosteroids. this indication is due to the fact that unfortunately recurrences are common also after anakinra discontinuation. line therapy first line aspirin or nsaid + colchicine second line low-dose corticosteroids (in case of contraindication to aspirin/nsaid/colchicines or in case of incomplete response to aspirin/nsaid/colchicine) third line anakinra or azathioprine or ivig fourth line pericardiectomy table iv. therapeutic algorithm for recurrent pericarditis.[1] ivig = intravenous immunoglobulins pericardiectomy if all drugs fail, the last option is the surgical removal of the pericardium in experienced surgical centers. the role of interventional and surgical techniques for the treatment of pericarditis is controversial, with the only exception of constrictive pericarditis. fortunately, nowadays pericardiectomy is rarely required and should be regarded as the last resort in refractory pericarditis cases presenting with recurrent tamponade, and in patients unable to tolerate the aforementioned conventional treatment.[1] table iv shows the therapeutic algorithm for recurrent pericarditis. conclusion recurrent pericarditis is often a frustrating disease, for both the patient and the physician. indeed, recurrences are a common cause of concern for the fear of a possible evolution towards constriction or heart disease. in this regard, an analysis of cases of idiopathic recurrent pericarditis has shown no cases of constrictive pericarditis even after a long-term follow up [17]. a low risk (0.4%) of constriction exists just after a first (and thus non-recurrent) episode of pericarditis. therefore, despite compromising the quality of life, idiopathic recurrent pericarditis has an overall good long-term prognosis without significant risk of constrictive pericarditis, heart disease evolution, or death [17,18]. cardiac tamponade is rare and generally occurs at the beginning of the disease. in conclusion, if patients with recurrent pericarditis are treated with a multi-drug protocol in which nsaids are used at recommended dosages, colchicine is added if tolerated, steroids are tapered very slowly with a close clinical monitoring, the clinical course and quality of life will show improvement. for those patients who do not respond to this protocol, anakinra can be a drug with spectacular results. an important component of therapy is reassurance and explanation of the nature of the disease and its likely course. key points in the management of recurrent pericarditis recurrent pericarditis generally has good prognosis, implies a normal life, and presents no risk of evolution in constrictive pericarditis aspirin and nsaids are the mainstay of treatment and are recommended at full doses, well distributed, intravenously if necessary, until complete symptoms resolution colchicine at low dose (0.5-1 mg/day) is recommended as an adjunct to aspirin/nsaids. colchicine therapy for long duration should be considered in some cases corticosteroid therapy is not recommended as first-line approach. low-dose corticosteroids should be considered in case of contraindication to aspirin/nsaid/colchicine or in case of incomplete response to aspirin/nsaid/colchicine crp dosage should be considered to guide the treatment duration and assess the response to therapy after crp normalization and symptoms resolution, a gradual tapering of therapies should be considered, in this order: first corticosteroids, second nsaids or aspirin, third colchicine drugs such anakinra, azathioprine, or ivig may be considered in case of corticosteroid-dependent and colchicine-resistant recurrent pericarditis the commonest misunderstandings low doses of nsaids, only orally or not well distributed to cover the day high dose of colchicine: diarrhea and discontinuation colchicine in monotherapy during the acute attack: it should be always added to an anti-inflammatory drug corticosteroids in monotherapy: side effects and recurrences at discontinuation rapid tapering of steroids: tapering should be very gradual, over months, only done after symptoms resolution with normalization of crp. if symptoms recur during therapy tapering, the management should consider not to increase the dose of corticosteroids, but control the symptoms increasing to the maximum the dose of aspirin or nsaids and adding analgesics. automatic tapering not depending on crp normalization. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests ab received unrestricted research grants by acarpia, sobi, and lilly. the other authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. adler y, charron p, imazio m, et al. the task force for the diagnosis and management of pericardial diseases of the european society of cardiology (esc) 2015 esc guidelines for the 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chiara hospital, trento, italy 3 department of hematology, s. chiara hospital, trento, italy 4 operative unit of rheumatology, department of medicine, university of padova, italy abstract acquired hemophilia (ah) is a rare bleeding disorder caused by the spontaneous development of autoantibodies against coagulation factors, most commonly factor (f) viii (acquired hemophilia a, aha). the clinical manifestation of aha includes mostly spontaneous hemorrhages into skin, mucous membranes, muscles, soft tissues, or joints. aha should be suspected when a patient with no history of hemorrhages presents with bleeding and an unexplained prolonged activated partial thromboplastin time. the diagnosis is based on the clinical picture, the presence of low fviii activity and evidence of fviii inhibitor. in around half of patients, an underlying disorder (rheumatic diseases, malignancy, infections) or taking some drugs are associated with aha; the remaining cases are idiopathic. rheumatoid arthritis is a chronic inflammatory condition, marked by swelling and tenderness of small joints; it is usually treated with steroid and immunosuppressive drugs such as methotrexate, tnf-alpha inhibitors, and other biologic therapies (abatacept, tocilizumab, rituximab). we presented a patient with rheumatoid arthritis who developed acquired hemophilia a with hemarthroses; starting from this case, we focused on the literature about aha in rheumatic diseases. we found 35 cases, 15 in systemic lupus erythematosus and 12 in rheumatoid arthritis, while the remaining cases were reported in sjögren’s syndrome, polymyalgia rheumatica, systemic sclerosis, and psoriatic arthritis. ecchymosis and cutaneous hematomas were the main clinical features while hemarthroses was quite a rare condition, shown in just three patients. keywords: acquired hemophilia; arthritis, rheumatoid; rheumatic diseases emofilia acquisita in un paziente con artrite reumatoide: caso clinico e revisione della letteratura cmi 2018; 12(1): 53-61 https://doi.org/10.7175/cmi.v12i1.1362 case report corresponding author masen abdel jaber masenaj@gmail.com received: 31 may 2018 accepted: 30 july 2018 published: 3 august 2018 why do we describe this case ah is an underdiagnosed and misdiagnosed disease in the daily clinical practice. it is important to suspect ah in a rheumatic patient with spontaneous hemorrhages with no apparent cause. due to its potential fatal outcome, ah should promptly be recognized in order to control the hemorrhagic events and eradicate the clotting inhibitor with a strong immunosuppressive treatment introduction acquired hemophilia (ah) is an autoimmune disease caused by the formation of inhibitory autoantibodies against coagulation factors. these inhibitory autoantibodies (immunoglobulin igg) neutralize the activation or function or accelerate the clearance of a specific clotting factor [1], mainly fviii (acquired hemophilia a—aha), although all the coagulation factors can be involved. aha is a rare but challenging picture due to the frequent delayed diagnosis or inadequate treatment, which contribute to a high mortality rate. data from three large cohorts from australia, south wales, and uk described an incidence between 1.20 and 1.48 cases per million/year [2-5]. aha predominantly affects the elderly, but can also be found in younger patients in pregnancy and rheumatic/autoimmune diseases. about half of cases are idiopathic, while the other half is secondary to other conditions: malignancy, autoimmune diseases, pregnancy, medications, infections [6]. the etiology is probably multifactorial: genetic and environmental factors interact in order to cause a loss of the immune tolerance and the formation of the inhibitory antibodies [2]. these ones cause a rapid inactivation of fviii followed by a slow phase and usually they do not completely inactivate it, in contrast with the congenital form of hemophilia, in which alloantibodies inhibit fviii in linear proportion to their concentration and in a complete manner. consequently, the antibody and measurable levels of fviii in aha may be found simultaneously in circulation. moreover, there is just a slight correlation between fviii level and bleeding severity [2], thus fviii level cannot be used to identify patients at higher risk. the diagnosis of aha is hard and should be made by a hematological division with experience in the setting of coagulation disorders. main features supporting its formulation are spontaneous bleeding events and laboratory investigations pointing to a coagulation disorder. aha should be suspected in every patient with abnormal or spontaneous bleeding and coagulation abnormalities, such as prolongation of activated partial thromboplastin time (aptt) with normal prothrombin time (pt) and normal platelet count. aha can also present just with an isolated prolonged aptt without bleeding events. a relevant feature of aha is the difference in the bleeding pattern compared with the congenital form. bleeding frequently start spontaneously but some episodes can even occur after trauma or surgery. many potential sites may be involved: subcutaneous or mucosal bleeding [4] are the most common manifestations, followed by muscle bleeding and bleeding in other sites (genitourinary, gastrointestinal tract, retroperitoneal, intracranial) [7]. hemarthroses are quite rare, in contrast to the congenital form [4]. diagnosis should be confirmed by laboratory investigation: the initial step is based on the demonstration of an elevated aptt, not corrected by a mixing study (i.e. incubation of patient plasma with pooled normal plasma (1:1) for 1-2 h at 37°c) [8]. the second step is the demonstration of reduced fviii activity and evidence of a fviii inhibitor, estimated with the bethesda assay [1]. in aha, fix and fxi levels can be normal. as underlined by the most recent guidelines presented by the united kingdom haemophilia centre doctors’ organization (ukhcdo), it is also important to exclude heparin treatment measuring thrombin time (tt) [9]. data from a large european registry including 501 patients (european acquired haemophilia registry, each2) [10] showed an inverse correlation between the inhibitor titer and the residual fviii activity. patients who had a bleeding event had a significant lower fviii activity and higher inhibitor titers at presentation than patient who were diagnosed by abnormal aptt on routine blood test [2,10]. the inhibitor titer or residual fviii activity are not directly related to the severity of bleeding symptoms or mortality; consequently, the clinician cannot use them as predicting factor, but the titers are common measure to monitor the eradication therapy efficacy [2,10]. treatment consists on bleeding control on the one hand and on the antibody eradication on the other hand. it is recommended to immediately start antihemorrhagic treatment in patients with active bleeding symptoms, although small bleeding do not require intervention. the most common treatment are recombinant factor vii (rfvii) and activated prothrombin complex concentrate (apcc) [2], which demonstrate an efficacy rate of about 90% [11-13]. the eradication of the inhibitory antibodies is mandatory, independently by the clinical picture severity and is achieved with the use of a strong immunosuppressive treatment. corticosteroids (prednisone 1 mg/kg daily), in association with cyclophosphamide or rituximab are the main therapeutic option [6]. data from the each2 registry showed better results in the steroid-cyclophosphamide group than in the steroid-rituximab or in the steroid groups [14]. therapy should anyway be individualized considering concomitant disease, general condition and prognostic factors (high inhibitor title). the fviii activity usually restores in 5 weeks or more but patients with fviii activity < 1% at baseline require longer time compared with other patients [6]. prognosis can be severe due to the fatal bleeding rate, especially those with intracranial or gastrointestinal manifestations. overall mortality has been estimated in a range between 7.9% and 33% [5,15-17]: age, malignancy and lower hemoglobin levels are poor risk factors [2]. case report a 76-year-old woman affected by long-standing seropositive rheumatoid arthritis (ra) experienced persistent clinical remission for many years with a combination therapy made by hydroxychloroquine (hcq, 200 mg/day) and low dose steroid (methylprednisolone, 4 mg/day). on june 2017, the patient consulted the emergency department (ed) for the development of acute left knee swelling: the arthrocentesis made by a rheumatologist revealed a clear hematic synovial fluid and the x-ray examination excluded any fracture. no history of trauma were reported and no antiplatelet or anticoagulant medications were ever taken. the patient came back to the ed just few days later, showing large and multiple ecchymosis on both arms and legs, on the abdomen and on both breasts. a doppler ultrasound revealed a muscular hematoma on the left thigh and preliminary blood tests showed an abnormal aptt (2.03 ratio, normal values 0.80-1.20), thus she was hospitalized into the hematological unit for further investigations. laboratory tests were as follows: white blood cell count 10.3 × 109/l, hemoglobin level 9.5 g/dl, platelets 241 × 109/l, c-reactive protein 73 mg/l. renal function was normal: creatinine 0.8 mg/dl. the blood coagulation study confirmed the elevated aptt (2.49 ratio) with normal pt (1.05 ratio), while further laboratory studies highlighted a low fviii activity (1%, normal values 50-150) and the presence of an fviii inhibitor (22 bethesda units/ml, normal values < 0.5). these data suggested the diagnosis of acquired hemophilia a. the blood coagulation study confirmed the elevated aptt with normal pt, while further laboratory studies highlighted a low fviii activity and the presence of an fviii inhibitor. these data suggested the diagnosis of acquired hemophilia a. ct total body excluded malignant forms. the patient immediately started oral prednisone (1 mg/kg, 75 mg/day) and then rituximab few days later (375 mg/m2, 4 weekly infusions). during the next weeks the ecchymosis and the muscular hematoma slowly regressed and blood tests gradually improved: after one month of steroid and rituximab therapy, hemoglobin level rose to 11.5 g/dl, while aptt was still abnormal (2.11 ratio), turning back to a normal value after another month of steroids. at that time fviii activity was 63% and fviii inhibitor antibody title was 1 bu/ml, becoming undetectable few weeks later (table i). 06/26/2017 (diagnosis) 07/05/2017 08/18/2017 09/01/2017 hb (g/dl) 9.5 10.9 13.8 13.5 pt (ratio) 1.05 0.98 0.90 0.95 aptt (ratio) 2.49 2.35 1.01 0.89 fviii (%) 1 6 63 113 fviii ab (bu/ml) 22 na 1 absent table i. laboratory parameters during therapy. aptt = activated partial thromboplastin time; bu = bethesda unit; fviii = factor viii activity; fviii ab = factor viii inhibitory antibodies; hb = hemoglobin level; na = not available; pt = prothrombin time prednisone was slowly reduced during the following months while rituximab was not repeated considering the clinical and laboratory improving picture. at the time of the writing (may 2018) the patient is taking just 5 mg prednisone for the chronic treatment of rheumatoid arthritis and no new hemorrhagic events are reported; hemoglobin level and blood coagulation tests are normal. figure 1. reported acquired hemophilia cases in rheumatic diseases. pa = psoriatic arthritis; pmr = polymyalgia rheumatica; ra = rheumatoid arthritis; sle = systemic lupus erythematosus; ss = sjogren’s syndrome; ssc = systemic sclerosis discussion as mentioned above, acquired hemophilia can occur in a patient with an underlying rheumatic disorder. other potential causes are: malignancy, pregnancy, infections or idiopathic forms, which accounts for about half of cases. using pubmed database, we searched for acquired hemophilia case reports in rheumatic diseases. we found 35 cases (figure 1): 15 in systemic lupus erythematosus (sle) [18-32], 12 in rheumatoid arthritis [28,33-43], 4 in sjögren’s syndrome (ss) [44-47], 2 in polymyalgia rheumatica (pmr) [48,49], 1 in systemic sclerosis (ssc) [50], and 1 in psoriatic arthritis (pa) [51]. among the 34 publications found (1 publication presented 2 case reports, one in ra and one in sle): 19 were full text available; 3 were not full text but abstract available and with sufficient laboratory and clinical data about the case; 12 were not full text or abstract available or the abstract was without sufficient laboratory and clinical data about the case. among the 23 patients’ records available, 18 were women and 5 were men. mean age was 52.9 years. a higher mean age was evident in ra group than the sle one, a detection quite predictable considering the natural course of the two diseases. factor viii inhibitor antibodies were present in all cases while factor ix antibodies just in three cases [21,23,44]. the main clinical presentation was ecchymosis/cutaneous hematomas, (19 of 23, 82%) [19-22,24,25,28,29,35-38,40,44,45,48,50,51] followed by muscular hematomas (10 of 23, 43%) [22,23,28,36,37,39,40,44,49,51], the latters mainly in the ra group (table ii). as expected, hemarthroses were quite rare in the literature, described in just two cases, one in ra and another one in sle [23,40]. these clinical results reflect other data reported in the literature, first those showed by knoebl et al. in the each2 registry, except for a higher rate of cutaneous involvement (82% versus 53%) [10].   reference age/sex hemorrhagic feature aptt (s) fviii (%) fviii in. (bu/ml) hemorrhagic treatment cs is 1 34 48/f 1 112 5.4 29.9 yes yes cyc > rtx 2 35 47/f 1,3 84 1 45 no yes cyc > aza 3 36 78/f 1,3 56 3 22 yes yes cyc 4 37 78/m 1 115 1 839 yes yes cyc 5 38 61/f 3 61 na 2 no na rtx 6 39 71/f 1,2,3 86 1 28 yes yes ivig + cyc 7 27 54/f 1,3 91 1 145.6 no yes cyc 8 current case 76/f 1,2,3 83 1 22 no yes rtx table ii. a review of reported acquired hemophilia cases with rheumatoid arthritis. hemorrhagic features: 1 = cutaneous hematoma/ecchymosis; 2 = hemarthroses; 3 = muscular hematoma hemorrhagic treatments were: factor viii concentrates, recombinant factor viia, fix plasma concentrate, factor eight inhibitor bypassing activity (feiba), and activated prothrombin complex concentrates (apcc). > = switch; aptt = activated partial thromboplastin time; aza = azathioprine; bu = bethesda unit; cs = corticosteroid therapy; cyc = cyclophosphamide, f = female; fviii = factor viii activity; fviii in. = fviii inhibitor; is = immunosuppressive drug; ivig = intravenous immunoglobulin; m = male; na = not available; rtx = rituximab all the hemorrhagic events were spontaneous, with no history of relevant trauma. one patient with sle experienced intraperitoneal massive hemorrhage due to gallbladder rupture with consequent multiple organ failure and death [30]. another woman died for massive abdominal wall hemorrhage [37]. ra patients showed disease remission at the time of the hematological diagnosis except for one [39]; two patients were on biological therapy with tnf-alpha inhibitors at the time of the aha discovery [36,37]. in the sle group, the connectivity diagnosis was concomitant with the ah one in 5 patients [19-22,29], suggesting a potential role of the disease activity on the inhibitory fviii antibodies formation. the only systemic sclerosis patient developed ah after autologous hematopoietic stem cell transplantation [50]. a case of ah in sle during pregnancy was reported [2]. treatment of ah consists of two essential ways: control of bleeding and elimination of the inhibitor. in our literature review, 11 patients required antihemorrhagic treatment, which consisted in: factor viii concentrates, recombinant factor viia, fix plasma concentrate, factor eight inhibitor bypassing activity (feiba), or activated prothrombin complex concentrates (apcc) [20,21,23,25,29,30,35,37,38,40,50]. to eliminate or suppress the activity of the fviii inhibitor, steroid therapy was the first and essential step, since all patients took it. oral route was the preferred one. a variety of immunosuppressive drugs were used in association, proving that many cases don’t respond to steroid as monotherapy, especially when inhibitory titers are high. only one patient reached disease regression with just steroids [20]. cyclophosphamide was the main immunosuppressant reported, since its administration was observed in 15 patients [20,22-25,28,35-38,40,48,49,51] as firstline treatment or after failure of other immunosuppressive drugs, showing to be effective in 11 of them. rituximab was another choice, mainly as weekly infusion, as in our case. six cases reported its use, 3 of them as second choice therapy [20,35,39,45,48,50]; in all those reports, treatment ended with eradication of the inhibitory antibodies and disease control. alternative immunosuppressive drugs were cyclosporine [29,30] and azathioprine [19,36,44], while intravenous immunoglobulin were used in association with cyclophosphamide or azathioprine in two patients and as monotherapy in just one, showing however no efficacy [23,40,44]. table ii shows the main characteristics of available papers concerning acquired hemophilia cases with rheumatoid arthritis. rituximab is a humanized chimeric anti-cd20 monoclonal antibody initially used for the treatment of some hematological malignancies, mainly lymphomas. thanks to its specific anti-b cells activity, it is also used in a variety of autoimmune disorders, even rheumatic ones, such as rheumatoid arthritis, granulomatosis polyangiitis, and microscopic polyangiitis. we chose rituximab in order to use a drug that could be helpful to tackle both ah and ra, since it is indicated in the treatment of ra [52]. although both rituximab and cyclophosphamide can induce an immunosuppression condition with a higher infection risk, the rituximab choice was also supported by the patient’s fear about bladder complications with cyclophosphamide. in the rheumatological setting, rituximab is usually administered on two different infusions 2 weeks apart (1000 mg × 2), repeated after 6 months. a monthly scheme was preferred in our patient, since the hematological condition imposed a more aggressive treatment than those used in ra. rituximab therapy is also reported in other cases of ah not related to autoimmune diseases [53-63]. conclusion we described a case of acquired hemophilia a in a patient with long-standing rheumatoid arthritis, treated with steroids and rituximab with excellent response. the use of immunosuppressive drugs in association with steroids is largely diffuse. thanks to our clinical case description, we supported the use of rituximab, even as first approach, although its real efficacy is still a matter of debate mainly due to the short literature material available. key points ah is a potentially fatal condition marked by spontaneous bleeding, mainly ecchymosis, mucosal bleeding, and muscular hematomas ah can be idiopathic or associated to an underlying condition such as malignancy, autoimmune disease or pregnancy ah develops after the formation of inhibitory antibodies against one or more clotting factor, mainly factor viii laboratory investigations are mandatory to confirm the diagnosis: rise in aptt, reduced fviii activity, presence of a fviii inhibitor the therapeutic approach relies on immunosuppressive drugs, mostly high dose steroids associated with cyclophosphamide or rituximab. use of antihemorrhagic treatment relies on the clinical condition and on the bleeding’s severity many rheumatic patients developing ah are described in the literature database, especially sle and ra patients. we described a case of aha in a woman with long-standing ra, treated with steroid and rituximab followed by an excellent outcome. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interest authors declare they have no competing financial interests concerning the topic of this article. references 1. kessler cm, knöbl p. acquired haemophilia: an overview for clinical practice. eur j haematol 2015; 95 suppl 81: 36-44; https://doi.org/10.1111/ejh.12689 2. mulliez sm, vantilborgh a, devreese km. acquired hemophilia: a case report and review of the literature. int j lab hematol 2014; 36: 398-407; https://doi.org/10.1111/ijlh.12210 3. collins p, macartney n, davies r, et al. a population based, unselected, consecutive cohort of patients with acquired haemophilia a. br j haematol 2004; 124: 86-90; 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presence of this system in worldwide hospitals, it remains debated whether its use improves patient outcomes. the aim of this narrative review is to describe the available evidence supporting the effectiveness of rrss and to discuss the controversies on the lack of level 1 evidence studies. methods: the literature search covers the period from 1 january 2000 to 31 march 2016. results: studies with different research designs, observational, quasi-experimental with non-randomized control group and experimental, and aggregate data of meta-analyses indicate a statistically significant reduction of in-hospital cardiac arrests and hospital mortality associated with the deployment of rrss. conclusions: a rrs is a complex intervention in a complex system, such as a hospital. this complexity does not allow considering experimental trials only as the most appropriate methodology to answer at research objectives. furthermore, the benefits of a rrs depend greatly on its proper use. accumulating evidence suggests the importance to investigate barriers and facilitators that can affect the integration, within a hospital, of this complex intervention. keywords: rapid response systems; in-hospital cardiac arrests; hospital mortality; levels of evidence; complex interventions rapid response systems: come interpretare i livelli di evidenza cmi 2017; 11(2): 71-88 https://doi.org/10.7175/cmi.v11i2.1271 clinical management corresponding author marcello difonzo, md adjunct professor of anesthesiology, nursing degree course, university of bari “aldo moro” mardif@libero.it disclosure the author declares he has no competing financial interests concerning the topics of this article background since the early nineties, landmark studies reported the occurrence of unexpected adverse events in hospitalized patients, which were preventable in most cases [1,2]. an adverse event was defined as an injury caused by medical management rather than the underlying disease and leading to prolonged hospitalization, disability, or death [1,2]. from then on, the researchers began to evaluate alterations of clinical signs preceding serious adverse events (saes) and the treatment before admission to an intensive care unit (icu) [3-12]. a high percentage of cardiac arrests (84%) was characterized by a deterioration of vital signs in the previous 8 hours [3]. recently, a japanese study [4] found similar results with approximately 60% of the patients with abnormal vital signs before a cardiac arrest. over than 60% of the patients transferred to an icu have potentially life-threatening abnormalities in the 8 hours before their admission [9]. furthermore, the poor management of the acute deterioration can lead to potentially avoidable deaths [10]. the most common changes in vital signs included tachypnea, tachycardia, hypotension, reduced oxygen saturation, and sudden change in the level of consciousness [7-9]. nowadays, the role of acute hospitals is changing rapidly and the number of critically ill patients with potentially reversible conditions is increasing [13]. thus, it happens that not all serious diseases occur within an icu [14]. often, in general wards, it is necessary to treat a growing number of patients in acute clinical conditions. in these situations, frequently, the treatment is provided by doctors and nurses without sufficient experience in the management of a patient with unstable vital functions. the scenario makes quite logical to provide a treatment by skilled clinicians in critical care that can be made anywhere inside hospital, within minutes [15]. rapid response system concept in june 2005, the first international conference on medical emergency teams (icmet) was held. consensus findings were published [16] and the concept of the rapid response system (rrs) was introduced as a clinical and organizational model for the management of in-hospital emergencies. this model provides for an early identification of a patient at risk of deterioration in general wards and a rapid response by a team of critical care experts. the purpose is to prevent the progression to irreversible conditions and saes with the aim of reducing cardiac arrest, unplanned admissions to the icu, and death [16]. the implementation of a rrs is recommended by several organizations centered on patient safety: the institute for healthcare improvement (ihi) [17,18], in the usa (2004); the australian commission in safety and quality healthcare [19], in australia (2006); the critical care plane [20], in ontario, canada (2006); and the national institute for health and clinical excellence (nice) [21], in the united kingdom (2007). a rrs is based on 4 essential components [16] (figure 1): the afferent limb includes physicians and nurses of general hospital wards, who have the task to identify the clinical deterioration of a patient and to activate the response; the efferent limb is the emergency team that can be nurseor physician-led and can include a respiratory therapist; the administrative limb oversees all system components, allows the working of the team and provides necessary resources; and the quality improvement limb analyzes events data, provides feedback on the team function, monitors quality indicators like the staff satisfaction, and collects data on outcome measures. figure 1. rapid response system structure. modified from [16] in agreement to the countries and the team composition, rrss are called in different ways: medical emergency team (met) in australia, rapid response team (rrt) in the united states, critical care outreach service (ccos) in the united kingdom, and critical care response team (ccrt) in canada [16,22] (box 1). in late years, the rrs concept has spread in numerous countries. despite the constant and widespread presence of this system in worldwide hospitals, it remains debated whether its use improves patient outcomes. several non-randomized trials show the effectiveness of a rrs, but it is argued that levels of evidence are weak in relation to typical evidence-based medicine criteria. experimental studies are insufficient and this is considered as a lack of rigorous evidence. the aim of this narrative review is to describe the available evidence supporting the effectiveness of rrss and to discuss the controversies on the lack of level 1 evidence studies. box 1. rapid response systems all over the world medical emergency team (australia). the first description of a rapid response system (rrs) was in australia, where the cardiac arrest team (cat) was changed in the name and function and became the medical emergency team (met) [23]. the fundamental difference is that the met is activated before a cardiac arrest [24]. the aim is to bring the clinical experts in critical care to the patient before, rather than after, a multiple organ failure or a cardiac arrest [25]. the met was born in december 1989, at liverpool hospital, in sidney [26], to recognize and manage at-risk patients quickly, in general wards, and prevent suboptimal treatments. the team, physicians and nurses from intensive care unit (icu), operates 24 hours a day [23,27]. potentially reversible abnormalities of vital signs, preceding an adverse event, allow predetermined observations, based on these physiological abnormalities, and are used as activation criteria (triggers) of the met system [28]. rapid response team (usa). the rapid reponse team (rrt) appeared in 1997, in the usa [29]. the team is often led by nurses or respiratory therapists or is physician-led [29,30]. critical care outreach service (uk). the critical care outreach service (ccos), introduced in 2000 [31], was especially popular in the united kingdom. this team is guided by a nurse or a physician. it works as a rrt for in-hospital emergencies, as a surveillance service for patients discharged from the icu, and has a role in education and training to the wards staff [32]. critical care response team (canada). the critical care response team (ccrt), introduced in ontario, canada, in 2006, was a component of “critical care strategy” in this nation [33]. the team is guided by a physician, with an alternative model guided by a hospitalist or by a nurse. it works in a similar way to the ccos. methods the literature search covers the period from 1 january 2000 to 31 march 2016. studies published in english were identified by a computerized database search applied to the cumulative index to nursing and allied health literature (cinahl), pubmed, and google scholar. the terms used were: rapid response systems, in-hospital cardiac arrests, hospital mortality, levels of evidence, complex interventions, alone and in combination. references cited in key publications were reviewed. relevant publications were selected in respect to the designs of the studies and clinical outcomes, cardiac arrest, unplanned admissions to icu, and death, utilized to evaluate the effects of a rrs. results non-randomized and observational studies from the early 2000s, a lot of quasi-experimental clinical trials with non-randomized control groups and observational studies evaluated outcomes of patients after the deployment of a rrs. these studies were performed in the adult and pediatric population, mainly in australia, the usa, canada, and the united kingdom and, in recent years, in the rest of europe (table i). year authors [ref] country research design number, type of sites and population number of subjects findings 2000 bristow et al. [34] australia concurrent multicenter cohort comparison (rrs and non-rrs hospitals) 3 teaching and non-teaching hospitals adult 50,942 no effect on cardiac arrests and mortality 2002 buist et al. [35] australia before and after 1 teaching hospital adult before: 19,317 after: 22,847 reduced rate of unexpected cardiac arrests and non-significant reduction of related mortality 2005 jones et al. [36] australia before and after 1/1/1999-8/31/1999 9/1/2000-10/31/2004 1 teaching hospital adult before: 16,246 after: 104,001 reduced rate of cardiac arrests 2007 jones et al. [37] australia before and after 5/1/1999-8/31/1999 11/1/2000-2/28/2001 1 teaching hospital adult before: 1116 after: 1313 reduced rate of mortality at 1500 days after major surgery 2007 jones et al. [38] australia before and after 9/1/1998-8/31/1999 11/1/2000-12/31/2004 1 teaching hospital adult before: 25,334 after: 100,243 reduced rate of mortality in post-surgery patients increased rate of mortality in medical patients 2011 winters et al. [39] usa systematic review of non-randomized studies* 2000-2008 teaching and non-teaching hospitals adult not specified reduced rate of cardio-respiratory arrests and mortality 2008 baxter et al. [40] canada before and after 2 non-teaching hospitals adult before: 7820 after: 11,271 reduced rate of cardiac arrests non-significant reduction of overall hospital mortality 2015 ludikhuize et al. [41] netherlands before and after 12 teaching and non-teaching hospitals adult before: 26,659 after: 27,820 reduced rate of cardiac arrests and mortality 2011 kotsakis et al. [42] canada before and after 4 teaching hospitals pediatric before: 55,469 after: 55,963 no reduction of cardiac arrests and mortality 2014 salvatierra et al. [43] usa observational cohort 10 teaching and non-teaching hospitals adult before: 235,718 after: 235,344 reduced rate of mortality 2012 howell et al. [44] usa interrupted time series 1 teaching hospital adult before: 66,496 after: 90,045 reduction of unexpected death non-significant reduction of overall hospital mortality 2009 hanson et al. [45] usa interrupted time series 1 teaching hospital pediatric before: 10,576 after: 5471 reduced rate of cardiac arrests 2016 maharaj et al. [46] uk systematic review of non-randomized studies** 1990-2013 teaching and non-teaching hospitals reduced rate of mortality 16 studies adult before and after 1,481,115 mortality risk ratio = 0.88 (0.81-0.95) 6 studies pediatric before and after 453,412 mortality risk ratio = 0.80 (0.63-1.00) 1 study adult controlled before and after 50,942 mortality risk ratio = 0.81 (0.69-0.94) 1 study adult interrupted time series 156,541 mortality risk ratio = 0.94 (0.87-1.00) 1 study pediatric interrupted time series 16,047 mortality risk ratio = 0.76 (0.53-1.09) table i. summary of non-randomized and observational studies. “before and after” design studies were with a historical control rrs = rapid response system * non-randomized studies from 2000 to 2008 ** non-randomized studies from january 1st 1990 to december 31st 2013 in 2000, a multicenter concurrent controlled study, probably the first on a rrs, was published. bristow and colleagues [34] compared the first australian hospital with a met and 2 hospitals with a cardiac arrest team (cat). the rate of unanticipated admission to the icu or high-dependency unit (hdu) was lower in met hospital. however, in all 3 hospitals, the rate of cardiac arrests and total mortality did not differ significantly. the lack of sensitivity of calling criteria, the irreversible pathophysiological processes of patients, despite the alert of the emergency team, and the underutilization of the met system can explain these results. several monocentric and multicentric studies, with a historical control, compared outcomes before and after the implementation of a rrs. in 2002, one of the first studies with a “before and after” design in a single center by buist and colleagues [35] reported a reduction of cardiac arrests and mortality. there was a 50% incidence reduction of unexpected cardiac arrests, after adjustment for casemix (odds ratio—or = 0.50; 95% confidence interval—ci: 0.35-0.73), and a statistically non-significant reduction of related mortality (or = 0.87; 95% ci: 0.76-1.01) after the implementation of the met system. jones and colleagues performed 3 studies in a single center reporting the long-term (4 years) effects of the introduction of the met on cardiac arrests and total mortality. in 2005, they highlighted a 53% reduction in the incidence of cardiac arrests, from 4.06 to 1.9 per 1000 admissions, through the rrs introduction (or = 0.47; 95% ci: 0.35-0.62; p < 0.0001) [36]. the authors described a “dose effect” of the met that suggested an inverse association between the team utilization and the risk of cardiac arrests; every 17 calls, a single cardiac arrest can be avoided. in 2007, the researchers [37] compared patient mortality after admission for major surgery, during a control period and an intervention period. at the follow-up time of 1500 days (4.1 years), the overall survival was significantly better in the met group (71.6% vs. 65.8%; p = 0.001). findings indicated a 23% reduction of 1500-day mortality (or = 0.77; 95% ci: 0.64–0.91; p < 0.003). in the last paper, the investigators [38] reported, in the 4 years following the introduction of a rrs, a mortality reduction in post-surgery patients and a mortality increase in medical patients. this difference may be related to the extension of the disease complexity and the different ratio of met calls between medical and surgical patients. in 2011, a systematic review [39] included several “before and after” design studies with a historical control group in the adult population published between 2000 and 2008 in australia, the usa, the united kingdom, and sweden. aggregate data on rrss demonstrated a significant reduction in cardio-respiratory arrest (or = 0.625; 95% ci: 0.502-0.777) and hospital mortality (or = 0.886; 95% ci: 0.711-0.994) (9 and 10 studies, respectively). approximately 37.5% and 11.4% risk reduction in cardio-respiratory arrest and hospital mortality was found, respectively. some of these studies (3 for cardio-respiratory arrest and 6 for hospital mortality) did not confirm the effects (a wide confidence interval with a non-significant risk reduction). other studies with a “before and after” design in the adult and pediatric population included more hospitals. in 2008, baxter and colleagues [40] demonstrated, in 2 community hospitals, a reduction in cardiac arrests (2.53 ± 0.8 vs. 1.3 ± 0.4 per 1000 admissions; p < 0.001) after the met introduction and a non-significant reduction in overall hospital mortality (3.57% vs. 3.55%, pre-met and post-met, respectively). in 2015, the cost and outcomes analysis of medical emergency teams (comet) study [41] assessed the nationwide introduction of rrss in the netherlands. the pragmatic study was multicenter involving 12 hospitals for adults. the composite endpoint of cardiopulmonary arrest, unplanned icu admission, or death per 1000 admissions was significantly reduced after the introduction of a rrs (adjusted or = 0.847; 95% ci: 0.725-0.989; p = 0.036). cardiopulmonary arrests and in-hospital mortality were significantly reduced (or = 0.607; 95% ci: 0.393-0.937; p = 0.018 and or = 0.802; 95% ci: 0.644-1.0; p = 0.05, respectively), whereas unplanned icu admissions showed a non-significant reduction (or = 0.878; 95% ci: 0.755-1.021; p = 0.092). kotsakis and colleagues [42] reported a multicenter study in 4 academic pediatric hospitals in ontario, canada, and found neutral effects. the introduction of a pediatric rapid response team was not associated with the reduction of cardiopulmonary arrest (1.9 vs. 1.8 per 1000 admissions; p = 0.68) and mortality after urgent admissions in the pediatric icu (1.3 vs. 1.1 per 1000 admissions; p = 0.25). in 2014, salvatierra and colleagues [43] presented an observational cohort study involving nearly half a million adult patients in 10 level iii hospitals, in washington state, in the united states. cumulative retrospective data demonstrated a 24% relative risk reduction of mortality in the post-rrt period (relative risk—rr = 0.76; 95% ci: 0.72-0.80; p < 0.001), in 6 out of 10 hospitals. there were 2 studies with an interrupted time series design. howell and colleagues [44], in an adult teaching hospital in the usa, found an 80% reduction (95% ci: 63%-89%; p < 0.0001) in the adjusted odds of unexpected death during the rrs intervention period (or = 0.20; 95% ci: 0.11-0.37; p < 0.0001). however, overall hospital mortality showed a non-significant reduction (or = 0.91; 95% ci: 0.82-1.02; p = 0.09). hanson and colleagues [45] included a pediatric teaching hospital in the united states. the introduction of a pediatric rrs was associated with a significant reduction of cardiac arrests and duration of clinical instability before the evaluation by the pediatric team (median duration from 9 h 55 min to 4 h 15 min post-intervention; p = 0.028). a recent paper [46], in 2016, summarized data of 25 non-randomized trials that demonstrated the benefits of a rrs on hospital mortality among adult and pediatric inpatients. the review included 22 “before and after” design studies, 16 in the adult population (1,481,115 patients), risk ratio = 0.88 (95% ci: 0.81-0.95) and 6 in the pediatric population (453,412 patients), risk ratio = 0.80 (95% ci: 0.63-1.00). in 1 study, there was a parallel control cohort design (50,942 adult patients), risk ratio = 0.81 (95% ci: 0.69-0.94). there were 2 interrupted time series studies, the first included 156,541 adult patients, risk ratio = 0.94 (95% ci: 0.87-1.00) and the second included 16,047 pediatric patients, risk ratio = 0.76 (95% ci: 0.53-1.09). quasi-experimental and observational cohort studies showed, in majority, positive effects, with a reduction of cardiac arrests and mortality, while lot less showed neutral or negative effects. studies were well-designed, adjusted for the potential biases (confounding factors, casemix severity, temporal trends) with increased internal validity. moreover, these studies were performed in various countries and in different hospital settings for size, number, and type, as teaching and non-teaching hospitals. these features increase the generalizability of the results. randomized controlled trials currently, there are 2 randomized controlled pragmatic trials on rrss (table ii). in 2004, priestley and colleagues [47] analyzed mortality and hospital length of stay (los) after the introduction of a critical care outreach team. the study had a stepped wedge cluster randomized design; the intervention was introduced in all departments with general wards involved sequentially. they included patients of 16 general wards in a single hospital in england. the study found a 48% reduction of hospital mortality (or = 0.52; 95% ci: 0.32-0.85) and suggested that the los was increased. year authors [ref] country research design number, type of sites and population number of subjects findings 2004 priestley et al. [47] uk stepped wedge cluster randomized controlled 1 non-teaching hospital adult control: 1336 intervention:1456 reduced rate of mortality 2005 hillman et al. [48] australia cluster randomized controlled 23 teaching and non-teaching hospitals adult 11 control hospitals: 56,756 12 met hospitals: 68,376 similar incidence of the composite primary outcome* and individual secondary outcomes** table ii. summary of randomized controlled trials met = medical emergency team * composite index of cardiac arrests (without a pre-existing not-for-resuscitation—nfr order), unplanned intensive care unit (icu) admissions, and unexpected deaths (without a pre-existing nfr order) ** the 3 events separately: cardiac arrests, unplanned icu admissions, and unexpected deaths the merit (medical early response, intervention and therapy) study [48], published in 2005, was a cluster randomized controlled trial (rct), carried out in australia. it involved 23 hospitals, which were categorized in the intervention group (12 hospitals with a met system implementation) and in the control group (11 hospitals without a met). this research included 125,132 patients and went on for 12 months: baseline period (2 months), introduction and implementation period (4 months), and intervention period (6 months). in the control hospitals, the cat continued to operate. in the intervention hospitals, educational paths for doctors and nurses were provided concerning the activation criteria, the identification of patients at risk, the need for a quick call, and the call mode of the met system. the primary endpoint, a composite index of cardiac arrests without a pre-existing not-for-resuscitation (nfr) order, unplanned icu admissions, and unexpected deaths without a pre-existing nfr order, in general wards, had a similar incidence in the control hospitals and in the intervention hospitals (5.86 vs. 5.31 per 1000 admissions; p = 0.640). also the secondary endpoint, the 3 events separately, had a similar incidence: cardiac arrests (1.64 vs. 1.31; p = 0.736), unplanned icu admissions (4.68 vs. 4.19; p = 0.599), and unexpected deaths (1.18 vs. 1.06; p = 0.752). the introduction of a met was associated with a greater number of calls of the emergency team, met or cat (3.1 vs. 8.7 per 1000 admissions; p = 0.0001). there was a reduction in the rate of cardiac arrests (p = 0.003) and unexpected deaths (p = 0.01) from baseline in both the control hospitals and the intervention hospitals. the results of the merit study, with an intention-to-treat analysis, showed limitations in both the conclusiveness and the generalizability [49]. however, despite the criticism, the results of the australian trial were substantially correct [50] and several reasons could explain these inconclusive findings (box 2). box 2. the merit study analysis incomplete implementation. the implementation of the medical emergency team (met) system was incomplete, with a suboptimal call rate when trigger criteria were present. documented met criteria, more than 15 minutes before the event, were demonstrated in 30% of cardiac arrests, in 51% of unplanned icu admissions, and in 50% of unexpected deaths. however, the team was alert in 95% of cardiac arrests, but only in 30% of unplanned icu admissions, and in 8% of unexpected deaths [48]. dose effect. the utilization of the team, or “dose effect” relationship, had a mean rate of 8.7 calls per 1000 admissions [48]. otherwise, hospitals with better outcome with the met introduction had a mean rate between 25.8 and 56.4 calls per 1000 admissions [51]. control group contamination. the contamination of the control group, with the cardiac arrest team (cat) acting like the met, happened because the met system was publicized by the australian media during the study [52]. therefore, cardiac arrests and unexpected deaths were reduced in hospitals with or without a met system. hawthorne effect. the hawthorne effect [53], in a randomized trial, makes it difficult to fully control the nonintervention group, when the treatment cannot be masked (pharmacological vs. interventionist treatment). hospitals were not full blind, the awareness of the study conducted doctors and nurses to imitate the intervention in positive direction, and the treatment improved also in the control group. study design. the study design provided an introduction period (4 months) insufficient to achieve a call rate associated with an outcome improvement. these systems require more than 1 year or 2 to be mature [15,54]. for example, 2 australian studies [36,55] documented a significant reduction of cardiac arrests during a 4and 6-year period since the implementation of the met system. sample size. the study was underpowered (risk of type ii error) contemplating a 90% probability to observe a 30% reduction in the primary endpoint and an expected frequency of 30 events per 1000 admissions. due to the heterogeneity, at baseline, the primary outcome (control and met hospitals combined) was 6.82 per 1000 admissions. therefore, 100 hospitals, rather than 23, were needed to obtain generalizable results [49]. merit study investigators in subsequent years, the researchers of the merit trial produced several studies, both secondary analyses and a survey in hospitals involved in the primary study [56-64] (table iii). generally, the evidence of post-hoc analyses is weak, with an increased risk of false positive results (type i error). however, merit study investigators analyzed different hypotheses from other perspectives. for example, chen and colleagues [60] evaluated data with an as-treated analysis rather than with an intention-to-treat analysis as in the primary trial [30,48]. the findings demonstrated a significant reduction in unexpected and overall cardiac arrests and in unexpected deaths with the early intervention of teams, both met and cat. this relationship between the timely emergency calls and outcomes improvement suggests that the effectiveness of a rrs depends more on its implementation than from the research design. year authors [ref] aim of the study findings 2007 cretikos et al. [56]* to evaluate the ability of the met warning criteria in identifying patients at risk of adverse events respiratory rate > 36 breaths/min, heart rate > 140 beats/min, systolic blood pressure < 90 mmhg, and decrease in the gcs score > 2 points showed a high specificity (93%) and a low sensitivity (49%) 2007 cretikos et al. [57]** to describe the effectiveness of the implementation of the met in the intervention hospitals the implementation of the met system was significantly associated with knowledge of the activation criteria, understanding of the purpose of the met system, perceptions of the readiness of the hospital for a change in care provided and an overall positive attitude to the met 2008 chen et al. [58]* to evaluate effects of the met system on nfr orders the number of nfr orders was 10 times higher in met hospitals. about 90% of deaths had a previous documented nfr order. these orders were uncommon before cardiac arrests (4%) or unplanned icu admissions (3%) 2009 chen et al. [59]* to examine effects of the met introduction on the documentation rate of vital signs there was the lack of at least 1 vital sign in 77% patients with adverse events. the presence of the met system was associated with an improvement in the documentation of the respiratory rate and blood pressure 2009 chen et al. [60]* to examine the relationship between early calls of the emergency team, both met and cat, and serious adverse events there was a significant reduction in unexpected cardiac arrests (2 per 10,000 admissions), overall cardiac arrests (2.2 per 10,000 admissions), and deaths (0.94 per 10,000 admissions) every 10% increase in the proportion of early emergency team calls 2009 chen et al. [61]* to analyze the relationship between the baseline incidence of adverse events and the introduction of the met each increase in the baseline incidence of adverse events in the intervention hospitals was associated with a reduction in adverse events, cardiac arrests, unplanned icu admissions, and unexpected deaths, after the implementation of a met system 2010 flabouris et al. [62]* to examine interventions and timing of emergency team calls in met and non-met hospitals emergency team calls were mainly for critical care treatments. most of calls were during the morning, with a median time of 25 min 2010 chen et al. [63]* to examine the most common triggers for emergency team activation in met and non-met hospitals in non-met hospitals, a decrease in the gcs by 2 or more points was the most common trigger. in met hospitals, the most common trigger was the staff “worried” about the patient (> 35 times than in non-met hospitals) 2015 chen et al. [64]* to test if delayed (more than 15 min) responses to clinical deterioration are associated with increased mortality in met hospitals, there was a significant reduction (introduction and intervention period) in the proportion of delayed calls. in all hospitals, delayed calls were associated with an increased risk of unplanned icu admissions and deaths table iii. the merit (medical early response, intervention and therapy) study investigators cat = cardiac arrest team; gcs = glasgow coma scale; icu = intensive care unit; met = medical emergency team; nfr = not-for-resuscitation * merit study database ** survey in the intervention hospitals of the merit study population-based studies in 2014, chen and colleagues [65] analyzed data of 9,221,138 patients of 82 public acute hospitals, in new south wales, in australia (table iv). during the study period, from january 1st 2002 to december 1st 2009, the number of hospitals with a rrs increased from 26 (31.7%) in 2002 to 61 (74.4%) in 2009. there was a 52% decrease in in-hospital cardiopulmonary arrest (ihca) rate, a 55% decrease in ihca-related mortality rate, a 23% decrease in hospital mortality rate, and a 15% increase in survival to discharge after an ihca. year authors [ref] country research design number, type of sites and population number of subjects findings 2014 chen et al. [65] new south wales, australia population-based study 1/1/2002-12/1/2009 82 teaching and non-teaching hospitals adult 9,221,138 decreased rate of ihca decreased rate of ihca-related mortality decreased rate of hospital mortality increased survival to hospital discharge after an ihca 2014 chen et al. [66] sidney, new south wales, australia concurrent multicenter cohort comparison 1/1/2002-12/1/2009 1 teaching hospital with a mature rrs and 3 teaching hospitals without a rrs adult before: 1,088,491 after: 479,194 hospital with a mature rrs (479,194 patients) decreased rate of ihca decreased rate of ihca-related mortality decreased rate of hospital mortality after the implementation of a rrs in 2 non-rrs hospitals* decreased rate of ihca decreased rate of ihca-related mortality decreased rate of hospital mortality table iv. summary of population-based studies ihca = in-hospital cardiopulmonary arrest; rrs = rapid response system * the first hospital implemented a rrs in march 2009, while the second hospital in the end of 2008 and rolled out a rrs during the first half of 2009 in the same year, a further study [66] from the same database compared 3 teaching hospitals (1,088,491 patients) without a rrs and 1 teaching hospital with a mature rrs (479,194 patients) in sidney. within the hospital with a rrs since 1990, there was a decrease of more than 50% in ihca rate, a 40% decrease in ihca-related mortality, and a 6% decrease in overall hospital mortality. a rrs was introduced in 2009 in 2 hospitals and in january 2010 in the third. in the first year with a rrs, there was a 22% decrease in ihca rate, a 22% decrease in ihca-related mortality, and an 11% decrease in overall hospital mortality. this study emphasizes some debated aspects. cardiac arrest and hospital mortality decreased, during the study, in non-rrs hospitals; however, this decline was greater within 12 months following the introduction of rrss [67]. besides, the involvement of more hospitals reduced limits of “before and after” studies in a single center [67]. lastly, the evaluation of overall hospital mortality, more than ihca or ihca-related mortality, was a response to previous criticism; that is, rapid response teams increase the frequency of documentation of nfr orders, increase the transfer of patients to the icu, introduce a bias, and overestimate the effects of a rrs [67]. meta-analyses a recent meta-analysis [68] analyzed 29 studies published after 2000 and until 2013: 20 studies included data on cardiac arrests outside an icu and 20 on hospital mortality. the implementation of rrs teams (met, rrt, or ccos) was associated with a decrease in cardiopulmonary arrests in both the adult population (rr = 0.65; 95% ci: 0.61-0.70; p < 0.00001) and the pediatric population (rr = 0.64; 95% ci: 0.55-0.74; p < 0.00001). similarly, hospital mortality decreased in adult (rr = 0.87; 95% ci: 0.81-0.95; p = 0.0002) and pediatric patients (rr = 0.82; 95% ci: 0.76-0.89; p = 0.03). in 2016, the meta-analysis by solomon and colleagues [69] included studies until 2014, which analyzed the impact of a rrt and/or a met on the adult population. among the 20 studies reporting data on cardiac arrests, 12 demonstrated positive effects and 8 no difference. among the 20 studies reporting data on hospital mortality, 9 demonstrated positive effects, 10 no difference and 1 study favored the rrs for surgical patients and usual care for medical patients. aggregate data indicated a significant reduction of non-icu cardiac arrests (rr = 0.62; 95% ci: 0.55-0.69; p < 0.00001) and hospital mortality (rr = 0.88; 95% ci: 0.83-0.93; p < 0.00001). outcome measures various measures of outcome can assess the clinical effects of a rrs. in the published literature, the most widely used outcomes are cardiac arrests, unplanned icu admissions from general wards, and hospital mortality. there are 2 main reasons that explain differences in reporting data from different studies. firstly, nfr orders increase with a rrs [58]. for example, kenward and colleagues [70], in 2004, reported a 22% (28/130) of patients who died for a nfr order after the introduction of a met. years later, jones and colleagues [71] reported about 31% of emergency team calls in patients with a limitation of a medical therapy. therefore, a rrs becomes a surrogate way of managing the dying in acute hospitals [72], while is it necessary to achieve better methods of identifying those patients who could benefit from icu interventions [73]. secondly, several treated inpatients have lots comorbidities and die despite treatments received by a rrs. the rate of cardiac arrests can be reported in different ways. the merit study [48] evaluated the rate of hospital cardiac arrests in general wards, without a pre-existing nfr order. in 2010, a meta-analysis [74] described a reduction in cardiac arrests without reduction in mortality in the adult population. the reason was the use of the rate of cardiac arrests outside the intensive care instead of the rate of hospital cardiac arrests, which introduces a bias by excluding deteriorating patients admitted to an icu. in addition, emergency teams increase nfr orders, with a decrease rate of cardiopulmonary arrests without a decrease of hospital mortality [74]. otherwise, a population-based study [65] reported the rate of ihca (number of ihcas divided by the total number of admissions) and ihca-related mortality (number of deaths among those patients who suffered an ihca divided by the total number of admissions). hospital mortality represents the most important outcome measure for rrss [75], but its reduction depends from what we want to measure. the total hospital mortality considers unexpected plus expected death, that is death after a nfr order. for example, the comet pragmatic study [41] demonstrated a significant reduction of the primary composite endpoint of cardiopulmonary arrest, unplanned icu admission, or death after the introduction of a rrs. the investigators, in a subsequent post-hoc study [76], evaluated the death without limitation of a medical treatment, or “unexpected death”, instead of the incidence of overall mortality. the unadjusted or for unexpected death was 0.557 (95% ci: 0.40-0.78), instead, in the primary study, the unadjusted or for all-cause mortality was 0.865 (95% ci: 0.77-0.98). another relevant topic is the baseline mortality rate. in 2012, simmes and colleagues [77] reported a baseline mortality rate, without nfr orders, of 3.6 per 1000 admissions (5/1376); after the introduction of a rrs, there was a non-significant mortality decrease of 50% (1.7 per 1000 admissions, 4/2410; or = 0.42; 95% ci: 0.11-1.59). the low incidence induced a statistically non-significant result, unlike from several studies in which the baseline incidence was 10 or more per 1000 admissions [77]. the reduction of unplanned icu admissions is an expression of the recognition and early treatment of a patient at risk in general wards [16]. however, if unanticipated icu admissions increase but mortality and cardiac arrest rates decrease, it is inappropriate to consider the outcome a failure [39]. in this case, the avoidance of unplanned icu admissions is not an appropriate outcome for rrss [78]. a dutch study [77] reported an increase in unplanned icu admissions, from 34/1376 (2.47%) to 100/2410 (4.15%) (or = 1.66; 95% ci: 1.07-2.55) within 2 years from the introduction of a rrs. at the same time, cardiac arrests decreased from 4/1376 (0.29%) to 3/2410 (0.12%) (or = 0.38; 95% ci: 0.09-1.73). this situation suggests that a greater number of instable patients, assisted in general wards, was transferred to the icu. discussion in 2008, price and colleagues [79] emphasized that positive effects of the mets came from several studies with a “before and after” methodology, in majority realized in single hospitals. therefore, the studies could show a positive effect of an intervention even if it cannot be present. in agreement with evidence-based medicine perspective, the level of evidence was weak and most of these studies could be considered at best as level 2 evidence [79]. the merit trial [48] had a strong level of evidence, but it showed no improvement in outcomes. moreover, controversies remain on the results of the studies and on the relationship between rrss and clinical outcomes [75]. is there a role for evidence-based medicine in the rrs evaluation? evidence-based medicine (ebm) is an approach to the patient treatment based on the best scientific evidence to adopt clinical decisions. a fundamental principle of ebm is the recognition of a hierarchy of evidence [80]. the scientific method tends to minimize the risk of random and systematic errors. therefore, studies less exposed to the risk of bias are at the highest level in the hierarchy of evidence and those most exposed are at the lowest level. another principle recognizes that evidence alone does not say what to do, but decisions must include the value and personal and clinical context of the patient [81]. thus, interpreting the levels of hierarchy, it is important not to always consider the level 1 evidence as the best or most appropriate choice for the research question [81]. level type of evidence i at least 1 rct with proper randomization ii well-designed cohort or case-control study ii.2 time series comparisons or dramatic results from uncontrolled studies iii expert opinions table v. levels of evidence. adapted from [82] rct = randomized controlled trial the first work on levels of evidence appeared in 1979, published by canadian task force on the periodic health examination [82] (table v). this system was based principally on the design of the studies to grade the quality of evidence, with rcts at the top of the hierarchy. in later years, other systems to classify the levels of evidence were described. the grade (grading of recommendations assessment, development and evaluation) system [83], published in 2004, included 2 categories on the strength of recommendations (strong, weak) and 4 levels of evidence on the quality (high, moderate, low, and very low). the study design is not the only factor to appraise the quality of evidence [84]. a classification upwards (strong recommendation with high-quality evidence) [85] may be justified for observational studies when there are factors that increase the quality of evidence (very large magnitude of the treatment effect, evidence of a dose-response relation, no plausible confounders) [84,85]. already in 2004, pronovost and colleagues [86] observed that rcts were sometimes difficult to perform in critically ill patients, and results may not be generalizable. therefore, observational studies may supplement clinical trials to inform clinical practice. quasi-experimental designs are useful where there are political, practical, or ethical barriers to conducting genuine randomized studies [87]. concato and colleagues [88] showed that well designed observational studies, with either a cohort or a case-control design, do not systematically overestimate the magnitude of treatment effects compared with rcts on the same topic. population-based observational studies have a limited internal validity, compared with rcts, because it may be difficult to separate the effect of a new treatment from the other confounding factors. however, these studies have a good external validity and can provide evidence on effectiveness of a treatment [89]. in 2006, bruckel [90] argued about the inappropriate application of some principles of ebm. a rrs requires an alteration of organizational design of a hospital, then applying ebm in these cases may misrepresent the situation. complex interventions and research in 2015, hawe observed: “complexity, resulting from interactions among many component parts, is a property of both the intervention and the context (or system) into which it is placed” [91]. complex systems include primary care, hospitals, and schools. the intervention in these settings may be simple or complicated [92]. in health care, interventions involve care providers and patients. in simple interventions, the outcome is an effect of the interaction between a care provider and a patient, and the intervention [93]. complex interventions can involve interactions between patients and interactions between providers. components of the intervention itself can also interact and affect the outcome [93]. in 2011, chen underlined that a complex system intervention in health care often requires changes in the structure, culture, and organizational behavior of an institute, as well as changes in individual practices, all aimed at improving the quality of care [94]. a rrs has the characteristics of a complex intervention in a complex system, such as a hospital. data from a systematic review [95] on system-wide interventions in hospital indicated that improved outcomes could be observed when results were measured at least 2 years after the intervention. single interventions, such as a new drug or procedure conducted at an individual patient level, are appropriately evaluated by rcts [54]. complex interventions, such new systems to improve outcomes of patients, are inadequate to be tested by studies with randomized controlled design, conventional and cluster [54]. moreover, in health services, complex interventions, with a contemporaneous control, often provide null results: it is “the rising tide phenomenon”. the evaluation of the intervention can be done in a setting where the entire system is improving, thus producing a temporal trend, a “rising tide causing all vessels to rise”. therefore, control sites improve, the difference between intervention and control sites decreases, and the intervention has no effect [96]. in complex interventions, the study should use the most robust possible design to minimize bias and maximize generalizability [87]. however, performing further rcts on rrss will be difficult. the reasons are the widespread diffusion of this emergency model, which makes it difficult to find a control group, the heterogeneity regarding the standard treatments, the patient groups, the wards staff and the team composition, and the complexity of the intervention. moreover, cluster randomization requires the recruitment of large numbers of clusters [87]. winters and colleagues [97], regarding barriers and facilitators of the implementation of a rrs, found that the acceptance and leadership of the rrs, the rate of calling, and the trigger mechanisms were some factors that could improve the implementation process. evaluating the type of intervention the intervention introduced by a rrs, in a hospital setting, may be influenced by various processes associated with the required changes. “silo effect” indicates a lack of communication and common goals between departments in an organization [98]. the silo effect, like an agricultural silo prevents mixing of different grains, limits the interactions among members of different branches of company and reduces productivity [98]. in acute care hospitals, silos or vertical structures, such as wards, units and departments, are well developed. treatments are managed in different sites and by specialized teams [24] and the system is centered on treatment sites and on individual doctors, rather than built around needs of patients [99]. the system may fail at the intersection between silos for patients with complications of the original illness, which are outside the expertise of clinicians who treat them [100]. a rrs is one of the first multiprofessional interventions that challenges this traditional medicine approach [24]. however, a rrs suffers from the lack of integration in hospitals. a silo-based mentality, in acute hospitals, has existed for more centuries and this situation makes it difficult to implement whole-of-hospital systems [101]. a rrs is based on the early identification of the clinical deterioration of a patient and on a rapid response. nevertheless, the identification of a patient at risk depends on the warning criteria and their measurement. cretikos and colleagues [56] found, for the ability of the met activation criteria, a sensitivity of 49.1% (44.4-53.8%) and a specificity of 93.7% (91.2-95.6%). the objective activation criteria alone, with low sensitivity, do not allow identifying all patients at risk. the subjective criteria, with the clinical observation by nurses, allow the identification of a greater number of patients at risk. a comparison between objective and subjective criteria of the met calls detected that the “worried” criterion was the most frequent reason for met activation [102]. douw and colleagues [103] suggested that signs underlying the worry or concern of the nurses, present before changes in vital signs, were potential early indicators of deterioration. a rrs changes traditional hierarchies of a hospital. in general wards, the met can be called by doctors, nurses, or health personnel. this situation modifies traditional hierarchies based, firstly, on the involvement of the ward doctors. for example, some factors that negatively affect met activation by the nurses are the discouragement by the doctors, the fear of being subjected to criticism, and the adherence to models that lead to contact the ward doctors before activating the met system [104,105]. an italian multicenter survey [106] involved doctors and nurses, in a group of 10 hospitals; findings of the study showed that, for the nurses, the ward doctors were the main obstacle to met activation. study limitations this study has some limitations, despite the respect of the method. indeed, in a narrative review, the identification and filtration of relevant articles are conducted subjectively and may be incomplete. this situation exposes the findings to a high potential level of bias. nevertheless, the present work provides an accurate analysis and overview of the papers discussed. conclusions a rrs is a complex intervention that works as an integrated set of 4 components, which must interact with each other and with patients. this complexity does not allow considering experimental trials only as the most appropriate methodology to answer at research objectives. numerous well-designed studies provide high-quality and strong evidence of clinical outcome improvement after the deployment of rrss. therefore, despite the controversies, this model for in-hospital emergencies has been worldwide introduced to provide an early response to clinically deteriorating patients. furthermore, the benefits of a rrs depend greatly on its proper use. accumulating evidence suggests the importance to investigate barriers and facilitators that can affect the integration, within a hospital, of this complex intervention. key points the rapid response system (rrs) is the expression of 4 integrated components: afferent limb, efferent limb, administrative limb, and quality improvement limb. the aim is the early identification of instable patients providing a rapid response to the clinical deterioration in non-critical care areas of a hospital despite controversies regarding the value of a rrs and levels of evidence of available studies, this model has been adopted worldwide by various organizations for patient safety findings from several non-randomized and observational studies and an experimental design study show the effectiveness of a rrs. moreover, 2 recent meta-analyses highlight a statistically significant reduction of in-hospital cardiac arrests and hospital mortality after its implementation the rrs is a complex intervention in a complex system, a hospital, which allows the presence of critical care experts to the bedside of the patient. randomized controlled trials are the appropriate instrument to evaluate a therapy and establish the best efficacy of a treatment over another, such as drugs. however, these experimental studies may not be suitable to evaluate a complex intervention like a rrs avoiding a lack of integration of a complex intervention, in a hospital, requires a cultural and organizational change and the work of numerous people. a better understanding of barriers and facilitators to the implementation process of rrss will have implications for 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department of medical and surgical sciences, “alma mater studiorum” university of bologna, s. orsola hospital via massarenti, 11 i-40138 bologna, italy telephone: +39 051 214.3355 telefax: +39 051 343500 e-mail: roberto.manfredi@unibo.it received: 26 march 2018 accepted: 16 july 2018 published: 20 july 2018 in loving memory of professor aldo mazzoni, md, 1927-2007 histoplasmosis histoplasmosis is a fungal infection caused by histoplasma capsulatum var. capsulatum and histoplasma capsulatum var. duboisii (in africa) [1]. these infective agents are present mainly in the soil, particularly if contaminated with bird or bat droppings. the infection, acquired via inhalation, is generally asymptomatic, but in a small percentage of cases (1%) it may result in influenza-like symptoms, often self-limiting. it affects mainly immunocompromised patients and worsens in case of high exposure level. it may involve all organs and systems, and may mimic many other infectious and non-infectious disorders, which are more frequent just in these immunocompromised hosts. in the most severe cases, disseminated histoplasmosis may be life-threatening [1]. among systemic and cutaneous mycoses diffused worldwide, histoplasmosis is still a present threat for people living in endemic countries, travelers, immigrants, and in some cases also in non-endemic countries, especially when immunocompromised patients are of concern. the most widely used diagnostic tests are histoplasma antigen detection in urine and/or serum, but also culture, antibody tests, and microscopy may be performed, even if each of them present important drawbacks [1]. histoplasmosis belongs to a particular group of pathogenic fungi, which are called “dimorphic”, since they present as yeasts at body temperature (37°c) and as fungal hyphae at room temperature (25°c). this distinction is also very useful for the standard diagnostic techniques, since it is sufficient to change the temperature of the culture vial to allow the observation of this relevant morphologic change. in cases of mild to moderate pulmonary histoplasmosis, the infection will resolve spontaneously, without treatments. for severe infections, an effective antifungal therapy (amphotericin b or itraconazole) is available, but a prompt diagnosis plays also a significant role in rapidly achieving a complete cure [1,2]. the diagnosis of histoplasmosis in italy since 1950s, histoplasmosis was retrieved in the po river valley. most cases concerned imported histoplasmosis, but also native histoplasmosis was found, as confirmed by studies on soil [3] and animals [4]. from 1955 to 1960, 7 cases of native histoplasmosis were reported in the emilia romagna, piedmont, and venetia regions [5]. afterwards, no cases of native histoplasmosis were published until 1989. during mid-1980s, the number of episodes of histoplasmosis among immunocompromised patients (especially those with hiv infection and aids) [6] grew and the number of cases of histoplasmosis occurring among travelers increased. at that time, the diagnosis of histoplasmosis was still based on the standard techniques, and missed or delayed diagnosis were common, when a skilled expertise in this field was lacking. the diagnostic problems dealing with the frequent cutaneous localization of histoplasmosis [7] became even more difficult in immunocompromised patients. particularly hard was the differential diagnosis with other opportunisms and underlying disorders [8,9]. cutaneous forms may be especially challenging, and often require histopathologic studies to achieve a diagnosis, which leads to an appropriate clinical treatment. a paper published in 2005 [5] calculated 55 cases of histoplasmosis reported in italy in around 50 years. 20 of these patients were coinfected by hiv. native histoplasmosis was detected in 13 cases, that were concentrated in the northern regions and in the most recent years. lately, more advanced molecular biology techniques to obtain diagnosis of histoplasmosis have been developed: mycoarrays [10]. it comes of a serological assay built up on a protein microarray platform specifically developed to detect antibodies against histoplasmin (for the diagnosis of histoplasmosis) and other antigens of coccidioides immitis (for the diagnosis of coccidioidomycosis). in my opinion, especially when imported histoplasmosis does not appear to have a life-threatening course, it continues to be borne by very relevant epidemiological, clinical, imaging, and histopathologic clues. tissue samples available after biopsy may be needed for an histopathological examination, and especially a relevant history and a diagnostic suspicion are non-negligible clues, as just in a recently described italian traveler who acquired imported histoplasmosis after his trip in the mato grosso region, brazil [11]. finally, i believe that the traditional mycological techniques (including microscopy and culture at the two key different temperatures where histoplasma spp. show their yeast and hyphal forms, respectively), especially in conjunction with a timely diagnostic suspicion, may allow to expect that an endemic, imported (but sometime autochthonous) mycosis like histoplasmosis can be easily and promptly recognized also in institutions where extremely advanced laboratory techniques are not still available. the role of professor aldo mazzoni the university of bologna represents since over 60 years a national reference center for dimorphic mycoses, especially for both imported and native histoplasmosis. h. capsulatum, in fact, was retrieved in the po river valley since 1950s by professor aldo mazzoni and other researchers. he carried out systematic studies [3,4,6,12-14] in humans, animals, and in soil specimens, recognized also by a report published in science in the year 1965 [3], among others. his personal engagement covered several vocations: he was clinician, microbiologist, mycologist, and finally bioethical expert [3,4,6,13-15]. his expertise, in particular in the field of histoplasmosis, was widely recognized, to the point that he frequently acted as “second opinion” for cases coming from the entire country. during mid-1980s, the university of bologna carefully collected and discussed all cases of histoplasmosis capsulatum and duboisii reported by the scientific literature since the year 1980, distinguishing them from their presumably native or imported origin [16]. at that time, when a skilled expertise in this field was lacking, this systematic work has been acknowledged also by many institutional, epidemiological organisms, in italy and abroad. prof. mazzoni gave also his valuable contribution in solving the diagnostic problems dealing with the frequent cutaneous localization of histoplasmosis [7] in the immunocompromised patients, which required a differential diagnosis with other opportunisms and underlying disorders [8,9]. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interest the author declares he worked in professor mazzoni’s team described in the article. references 1. centers for disease control and prevention. information for healthcare professionals about histoplasmosis. available at https://www.cdc.gov/fungal/diseases/histoplasmosis/health-professionals.html (last accessed april 2018) 2. wheat lj, freifeld ag, kleiman mb, et al; infectious diseases society of america. clinical practice guidelines for the management of patients with histoplasmosis: 2007 update by the infectious diseases society of america. clin infect dis 2007; 45: 807-25; https://doi.org/10.1086/521259 3. sotgiu g, mazzoni a, mantovani a, et al. histoplasma capsulatum: occurrence in soil from the emilia romagna region of italy. science 1965; 147: 624; https://doi.org/10.1126/science.147.3658.624 4. mantovani a, mazzoni a, ajello l. histoplasmosis in italy. isolation of histoplasma capsulatum from dogs in the province of bologna. sabouraudia 1968; 6: 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websites were considered. given the paucity of cases, the search was extended to include articles in all languages with english abstract. results: twenty-eight pm and 30 dm cases have been described with prevalence in female (64%) and senile age. the drugs most frequently involved were atorvastatin and simvastatin. the differential diagnosis should be made among the main myositis subtypes: immuno-mediated necrotizing myopathy (imnm), inclusion body myositis (ibm), and overlap syndrome with myositis (om), including anti-synthetase syndrome (ass). conclusions: even though the onset of polymyositis or dermatomyositis is a rare phenomenon, it is advisable to consider their presence in patients taking statins and with a non-reversible elevation of creatine phosphokinase. keywords: statins; dermatomyositis; polymyositis; autoimmune myositis polimiosite, dermatomiosite e statine: una review cmi 2018; 12(1): 89-102 https://doi.org/10.7175/cmi.v12i1.1364 clinical management corresponding author dr. mauro turrin monselice – padova tel.: +39 3289032440 m.turrin@libero.it received: 6 june 2018 accepted: 5 december 2018 published: 19 december 2018 introduction statins due to the wide diffusion of statins, which have the undoubted merit of increasing the survival rate in patients affected by cardiovascular disease, particular attention should be paid to their side effects. the most common ones are toxic myopathies, affecting 2-20% of patients [1], that generally resolve after drug discontinuation. the risk of statin myopathy and creatine phosphokinase (cpk) increase is dose-dependent. polymyositis and dermatomyositis polymyositis (pm) and dermatomyositis (dm) are idiopathic inflammatory myopathies (iims) that may be related to statins. all forms of iims are considered rare diseases. in usa, dm has prevalence of ~1-6 patients per 100,000 persons, while pm has a prevalence ~10 per 100,000 [2]. in this context, some cases of association of statins with polymyositis [3-16] and with dermatomyositis [10-12,15,17-35] have been described. a rate of exposure to statins up to 48% was found among patients with pm or dm over 50 years of age [10]. the outdated, but still used, diagnostic criteria for pm and dm, according to bohan and peter [36,37], are: increase in muscle enzymes; weakness of proximal muscles; electromyographic alterations; bioptic alterations; and characteristic skin rash. as described in table i, pm and dm are judged “definite”, “probable”, or “possible” according to the number of criteria met by the patient.   polymyositis dermatomyositis definite 4 criteria 3 criteria probable 3 criteria 2 criteria possible 2 criteria 1 criterion table i. criteria for the diagnosis of polymyositis and dermatomyositis. modified from [36,37] the classification of inflammatory myopathies has undergone several revisions [38-40] since the earliest descriptions by bohan and peter. five main subtypes of myositis, i.e. dermatomyositis (dm and juvenile dm), necrotizing myopathy (nm), pm, overlap myositis (om and anti-synthetase syndrome—ass), and inclusion body myositis (ibm), have been well described in a recent german review [41] (table ii). dm, jdm nm pm om, ass ibm onset and disease course acute/subacute onset; short, benign or severe, chronic courses acute/subacute onset; chronic, slow progression possible acute/subacute onset; variable course acute/subacute onset; mostly chronic course slowly progressive; always chronic weakness, extramuscular symptoms amyopathic/proximal tetraparesis ± dysphagia; specific skinand organ manifestation; malignancy in adults proximal tetraparesis; rarely extramuscular manifestation: heart, lung; malignancy proximal tetraparesis ± dysphagia. no extramuscular manifestation proximal tetraparesis; ass: ild, mechanic’s hands, arthritis, raynaud’s syndrome. other om: scleroderma, sle long finger flexors, knee extensors, dysphagia cpk level normal or around 10 -50 fold elevated around 10-50 fold elevated around 10-50 fold elevated around 10-50 fold elevated normal to 15 fold elevated autoantibodies mi-2, mda5 (ild), tif-1γ (malignancy), nxp2 (malignancy), sae srp, hmgcr (malignancy) unspecific ass: jo-1, pl-7, pl-12, ha, ej, ks, zo, oj other om: ku, ro/ss-a, ss-b, pm/scl, u-snrnp cn1a muscle pathology perimysial inflammation, perifascicular atrophy, mhc class i, complement on capillaries and/or sarcolemma, capillary loss scattered necrosis; mhc class i, complement on capillaries and/or sarcolemma endomysial cd8+ t cells perifascicular necrosis, mhc class i and ii, complement on sarcolemma endomysial cd8+ t cells, mhc class i, amyloid, vacuoles, tubulofilaments, mitochondrial impairment (cox, paracr, inclusions) treatment and its response basic: gs, aza/mtx/mmf; skin and jdm: ivig; lung/escal.: rtx, cyc, ivig, (csa); mostly good response except for malignancy or ild basic: gs, aza/mtx/mmf; lung/escal.: rtx, cyc, ivig; overall response good-moderate, but escalation often required basic: gs, aza/mtx/mmf; escal.: rtx, cyc, ivig; mostly good response basic: gs, aza/mtx/mmf; lung/escal.: rtx, cyc, ivig (csa); mostly good response except for malignancy or ild no basic immunosuppression; probatory ivig in selected patients justifiable; severe dysphagia: local botulinum toxin or myotomy, percutaneous feeding tube. usually refractory to treatment table ii. overview of the clinical presentation, auto-antibodies, muscle pathology and treatment in the main subtypes of myositis. modified from [41]. ab = antibody; ass = anti-synthetase syndrome; aza = azathioprine; cd8+ t cells = cluster of differentiation 8 of cytotoxic t cells; cn1a = anti-cytosilic 5'-nucleotidase 1a ab; cox = cytochrome oxidase staining in muscle fibers; cpk = creatine phosphokinase; csa = cyclosporine a; cyc = cyclophosphamide; dm = dermatomyositis; ej = anti-glycyl trna synthetase ab; gs = glucocorticoids; ha = anti-tyrosyl trna syntethase ab; hmgcr = anti-3-hydroxy-3-methylglutaryl-coenzyme a reductase autoantibodies; ibm = inclusion body myositis; ild = interstitial lung disease; ivig = intravenous immunoglobulin g; jdm = juvenile dermatomyositis; jo-1 = anti-histidil trna synthetase ab; ks = anti-asparaginyl trna synthetase ab; ku = antibodies against ku antigen (p70 and p80 subunits); mda5 = anti-melanoma differentiation-associated gene 5 ab; mhc = major histocompatibility complex; mi-2 = anti-chromodomain helicase dna binding protein 4 ab; mmf = mycophenolate mofetil; mtx = methotrexate; nm = necrotizing myopathy; nxp2 = anti-nuclear matrix protein 2 ab; oj = antiisoleucyl trna synthetase ab; om = overlap myositis; pl-7 = anti-threonyl trna synthetase ab; pl-12 = anti-alanyl trna synthetase ab; pm/scl = anti-pm-scl-75 and pm/scl-100 polypeptides ab; ro/ss-a = anti-sjögren’s-syndrome-related antigen a (against the ro52 and ro60 autoantigen) ab; rtx = rituximab; sae = anti-small ubiquitin-like modifier activating enzyme ab; sle = systemic lupus erythematosus; srp = anti-signal recognition particle autoantibodies; ss-b = anti-sjögren’s-syndrome-related la antigen ab; tif-1γ = anti-transcription intermediary factor gamma ab; u-snrnp = anti-u1 small nuclear ribonucleoprotein particle ab; zo = anti-phenylalanyl synthetase ab in september 2018, selva-o’callaghan and colleagues published on lancet neurology a new classification of inflammatory myopathies in the adult [42] based on the clinical characteristics of the main clinical and phenotype-specific autoantibody groups, in which they specified also that the diagnosis of pm is a diagnosis of exclusion. in the same period a further classification was published also based on a targeted clinical-serological approach [43]. in reference to the 708 variables (in particular myositis-specific autoantibodies—msa) collected in 260 adult patients of the french register on myositis, 4 clusters of patients emerged (ibm, imnm, dm, ass), while pm did not more found place. besides clinical criteria, magnetic resonance imaging (mri) [39,44] can be useful to make the right diagnosis. mri with whole-body technique (wbmri) is considered particularly useful for identifying the involvement of muscles: parameters such as inflammation, fibrosis, and atrophy can be used to determine the pattern of disease activity even at subclinical level [45-49]. in addition, mri guides the choice of the site for muscle biopsy. figure 1, coming from a personal case report [50], highlights the typical mri elements, which are suggestive for dm/pm. figure 1. example of thighs magnetic resonance imaging (mri). axial stir (short-tau inversion recovery sequences) images: axial fat-suppressed mri images show increased signal intensity. intense edema of the muscular bundles of both quadriceps, especially on the left, of the large adductor muscle on the left, of the gracilis (blue arrow), and of the semitendinosus muscles. subcutaneous edema between muscles and fascia lata on both sides. modified from [50]. vi = vastus intermedius; vl = vastus lateralis; vm = vastus medialis iims can be treated with glucocorticoids (initial and basic treatment) and with immunosuppressants (methotrexate, azathioprine, mycophenolate mofetil). an additional or alternative therapy may be undertaken with cyclosporin a (or tacrolimus) or intravenous immunoglobulin, with therapy escalation to rituximab or cyclophosphamide. treatment with repository corticotropin injection (rci) in a recent open label clinical trial [51] was effective, safe and tolerable, and led to a steroid dose reduction in adult patients with myositis refractory to glucocorticoid and traditional immunosuppressive drugs. in this article, the possible implications of statins in autoimmunity have been thoroughly considered with the support of a literature search. literature search strategy in this review, the literature search was conducted mainly on pubmed, but also congress abstracts and universities websites were considered. the search terms used were: “myositis”, “myopathy”, “statins”, “muscular manifestations”, “dermatomyositis”, “polymyositis”, “statin-induced autoimmune myopathy”, “creatine (phospho) kinase”, “myoglobin”, and “troponin”. the keywords were combined with the boolean operators “and” and “or”. given the paucity of cases, we extended the search to include articles in all languages with english abstract. the selection of the descriptors was carried out in november 2018. no time limit was set in the search. results tables iii and iv describe the main characteristics of case reports, related to the exposure to statins in 28 adult patients with polymyositis [3-10,12-14,16] and in 30 adult patients with dermatomyositis [10,12,17-35]. author, year [ref], country age, sex statin, dose (mg) exposure duration serum cpk (u/l) ana title pattern anti-jo-1 anti-hmgcr emg muscle mri skin biopsy muscle biopsy diagnosis giordano, 1997 [6], italy 42, m s 20 4 m 503 n.r. n.p. myogenic and neurogenic n.r. n.r. muscle-fiber necrosis, perivascular and endomysial inflammation d folzenlogen, 2001 [9], usa 76, f a 20 n.r. 9870 1:1280 speckled (anti-ku positive) n.p. myogenic n.p. n.p. muscle cells necrosis, endomysial mononuclear infiltrate, atrophy fibers d riesco-eizaguirre, 2003 [7], spain 75, m s 20 6 m 6010 1:160 n.r. n.p. n.r. n.r. n.r. muscle fiber necrosis, perivascular inflammation pr takagi, 2004 [8], japan 69, m p 10 2 w 943 + + n.p. myopathic n.r. n.r n.r. pr* fauchais, 2004 [4], france 56, f s n.r. 2 m 925 1:5120 n.p. normal n.r. n.r. endomysial t cell infiltration, type ii muscle atrophy pr 54, f a n.r. 4 m 7400 n.p. normal n.r. n.r. t cell infiltration, type ii muscle atrophy pr 78, f f n.r. 4 m 1417 1:2150 + (ass) n.p. normal n.r. n.r. t cell infiltration, type ii muscle atrophy pr 68, m f n.r. 7 m 2517 1:5120 + n.p. normal muscle necrosis n.r. non-contributive po wu y, 2014 [5], canada 57, m n.r. unknown u.k. 3831 n.r. n.r. n.p. irritable myopathy n.p. n.p. mononuclear inflammatory infiltration around intact muscle fiber d 56, f a 10 few y 946 n.r. n.r. n.p. irritable myopathy n.p. n.p. mononuclear inflammatory infiltration around intact muscle fiber d 77, f a 40-80 25 y 704 n.r. n.r. n.p. irritable myopathy n.p. n.p. mononuclear inflammatory infiltration around intact muscle fiber d 58, f a n.r. 60 m 7000 n.r. n.r. n.p. irritable myopathy n.p. n.p. mononuclear inflammatory infiltration around intact muscle fiber d 59, f a 10 54 m 8200 n.r. n.r. n.p. irritable myopathy n.p. n.p. mononuclear inflammatory infiltration around intact muscle fiber d 75, f n.r. unknown u.k. 3741 n.r. n.r. n.p. irritable myopathy n.p. n.p. mononuclear inflammatory infiltration around intact muscle fiber d 71, f r n.r. 19 m 974 n.r. n.r. n.p. irritable myopathy n.p. n.p. mononuclear inflammatory infiltration around intact muscle fiber d 55, m a n.r. 1 m 1187 n.r. n.r. n.p. irritable myopathy n.p. n.p. mononuclear inflammatory infiltration around intact muscle fiber d 47, f r 10 44 m 1656 n.r. n.r. n.p. irritable myopathy n.p. n.p. mononuclear inflammatory infiltration around intact muscle fiber d sailler, 2008 [10], france 80, f p/f n.r. 14 m 355 n.r. n.p. normal n.p. n.r. n.p. po 70, f p n.r. 36 m 1869 n.r. n.p. myogenic n.p. n.r. muscle fiber atrophy and necrosis, hla-1 overexpression pr 60, f p/a/s n.r. 42 m 424 1:320 n.r n.p. myogenic n.p. n.r. n.p. po kanth, 2013 [3], usa 59, m a^ 20 60 m 10,554 n.p. n.p. inflammation in the posterior thigh muscles n.p. necrotic and regenerating fibers, perivascular perimysial and endomysial inflammation, mhc-i diffuse positive membranous reactivity pr borges, 2018 [12], brazil 71, m s 20 4 y 5000 n.r. anti-srp: myopathic pattern muscle diffuse edema n.r. inflammatory myopathy d 66, f s 20 2 m 3087 n.r anti-srp: myopathic pattern n.p. n.r. inflammatory myopathy d 55, f§ s 20 2 days 126,000 n.r. anti-srp: myopathic pattern muscle diffuse edema n.r. inflammatory myopathy d protić, 2014 [14], serbia 67, m a 20 6 y 7820 1:160 n.p. anti-srp: n.p. myopathic pattern n.p. n.p. n.p. pr watad, 2015 [13], israel 71, f a 20 5 y >4000 1:160 fine speckled myopathic n.p. n.p. endomysial perivascular infiltrate, muscle fiber necrosis d gupta, 2001 [16], usa 55, m c 0.3 mg a 10 2 w 14,611 (aldolase 355#) +(226.3 u) n.p. markedly increased insertional activity n.p. n.p degenerating and regenerating muscle fibers with vacuolation, (toxic myopathy) + interstitial lymphocytic infiltrate involving small vessels and accumulation of lymphocytes around intact muscle fibers d 69, m a 10 s n.r. 1 w 2 w 1123 (aldolase 11.7#) n.r. n.p. n.p. increasing signal with contrast enhancement n.p. endomysial lymphocytic inflammation embracing degenerating and regenerating muscle fibers, and small vessels and lymphocytes clustered around the intact muscle fibers with attempt to break into the sarcoplasm d table iii. statin-associated polymyositis (28 case reports). most authors used the diagnostic criteria according to bohan and peter [36,37]. * subacute; ^ +gemfibrozil § ethnicity: african american # normal values: 1-7 iu/l - = negative; + = positive; a = atorvastatin; ana = anti-nuclear antibody; anti-hmgcr = 3-hydroxy-3-methylglutaryl-coenzyme a reductase autoantibodies ; anti-jo-1 = aminoacyl-trna histidyl synthetase autoantibodies; ass = anti-synthetasesyndrome; anti-srp = anti-signal recognition particle autoantibodies; c = cerivastatin; cpk = creatine phosphokinase; d = definite; emg = electromyography; f = fluvastatin; hla-1 = human leukocyte antigen-1; m = months; mhc = major histocompatibility complex; mri = magnetic resonance imaging; n.p. = not performed; n.r. = not reported; p = pravastatin; po = possible; pr = probable; r = rosuvastatin; s = simvastatin; u.k. = unknown; y = years; w = weeks author, year [ref], country age, sex statin, dose (mg) exposure duration serum cpk (u/l) ana title -pattern anti-jo-1 anti-hmgcr emg muscle mri skin biopsy muscle biopsy diagnosis schalke, 1992 [27], germany 66, f p 10 5 m >4000 n.r. n.r. n.r. n.p. myopathic changes n.p. yes t-cell infiltrates d khattak, 1994 [23], uk 50, m s n.r. 6 m 1045 1:250 n.r. n.r. n.p. + n.r. n.r. lymphocytic infiltration, muscle degeneration d hill, 1995 [25], australia 76, f s 10 18 m 1246 1:2560 n.r. n.p. n.r. n.p. n.r. myositis, atrophy, lymphocytic infiltration d rodriguez-garcia, 1996 [24], spain 63, f l 20 24 m increased n.r. n.r. n.r. n.p. myopathic changes n.p. inflammatory infiltration inflammatory infiltrates, necrosis d noël, 2001 [21], switzerland 44, m a 10 12 m >2000 1:2560 nucleolar n.p. n.r. n.r. keratinocytes apoptosis perifascicular cd4+ t-cells infiltrates, severe necrosis d vasconcelos, 2004 [20], usa 68, m p 40 s 20 few months 2354 n.r. n.r. n.r. n.p. myopathic changes n.r chronic perivasculitis necrosis, inflammatory infiltrate, perifascicular fiber atrophy d zuech, 2005 [22], france 69, f p n.r. 24 m 6246 n.p. n.p. normal n.r. n.r. normal d thual, 2005 [26], france 76, m f n.r. 2 m 500 n.p. n.p. n.r. n.r. n.r. perivascular inflammation, muscle degeneration d sailler, 2008 [10], france 61, f a n.r. 7 m 288 n.r. n.p. myogenic n.r. n.r. atrophic fibers endomysial hyalinosis hla-1+ d 72, f a n.r. 48 m 4200 1:2400 n.r. n.r. n.p. normal n.r. n.r. perivascular lymphoid infiltrate, fiber necrosis, atrophy, hla-1+ d 74, f s n.r. >36 m n.p. 1:1280 n.r. n.r. n.p. myogenic n.r. n.r. fibrosis, perivascular lymphoid infiltrate, hla-1+ pr 74, f p n.r. 3 m 4400 n.p. n.p. n.p. n.p. normal n.r. n.r. fiber necrosis and atrophy, perivascular lymphoid infiltrate, hla-1+ fibrosis d 84, f p n.r. 32 m 712 1:5000 n.r. n.r. n.p. myogenic n.r. n.r. lymphocytic infiltrate, fiber necrosis and atrophy, hla-1+ d 85, f s n.r. 72 m 239 1:5000 n.r. n.r. n.p. myogenic n.r. n.r. perivascular lymphoid infiltrate, fibers necrosis and atrophy, hla-1+ d 79, f a n.r. 60 m 1869 n.p. n.p. n.p. n.p. myogenic n.r. n.r. fiber atrophy, perivascular lymphoid infiltrate, hla-1+ d rasch, 2009 [19], germany 71, f s 40 72 m 1262 1:2560 n.r. anti mi-2:+ n.p. + n.r. n.r. lymphocytic infiltrate, perivascular cd4+ d inhoff, 2009 [28], germany 70, f s n.r. several y n.r. n.r. n.r. n.r. n.p. normal n.p. interface dermatitis, vacuolar degeneration of nasal keratinocytes, epidermal atrophy n.p. adm zaraa, 2011 [17], tunisia 50, m s n.r. 12 m 714 1:1600 n.r. n.r. n.p. normal n.p. interface dermatitis, vacuolar degeneration of basal keratinocytes, epidermal atrophy, interstitial mucin deposits in dermis n.p. d komai, 2015 [18], japan 47, f a 5 2 m 612 + cytoplasmic and speckled n.r. n.p. n.r. n.p. inflammatory cells infiltration at the perivascular lesion irregularity of muscle fibers with perifascicular t lymphocytes d oztas, 2017 [31], turkey 49, m a 10 2 m 2850 n.r. myogenic n.r. interface dermatitis with hydropic degeneration of basal keratinocytes n.r. po fania, 2017 [30], italy 72, f s 20 3 m 285 1:320 n.p. myogenic changes n.p. interface dermatitis n.p. d cannon, 2012 [29], usa 55, m a 40 10 y 11,900 n.r. n.r. n.p. n.r. n.r. positive, but details n.r. n.r. (compartment syndrome) d borges, 2018 [12], brazil 75, f s 20 2 m 7449 n.r. anti-srp: myopathic pattern n.p. n.r. inflammatory myopathy d 78, m s 20 2 m 2990 n.r. anti-srp: myopatic pattern n.p. n. r. n.p. d 52, f s 20 4 m 1280 n.r. anti-srp: myopathic pattern n.p. n. r. n.p. d 47, m§ s 20 3 m 20,424 n.r. anti-srp: myopathic pattern n.p. n.r. inflammatory myopathy d chemello 2017 [32], brazil 69, m s 20 2 m 617 1:80 n.p. n.p. muscle edema, fatty infiltration ulcer biopsy: basal layer vasculopathic degeneration of keratinocytes with infiltrate eosinophilic, leukocytoclastic vasculitis (deltoid): nonspecific findings d tihanyi, 2013 [33], hungary 59, m s n.r. a n.r. 3 y 6 y 1723 n.r. n.r. n.p. n.p. n.p. n.p. n.r. d spiro, 2018 [34], usa 55, f a 80 3 m 207*^ 1:1280 n.p. multifocal area of myositis interface dermatitis with apoptotic basal keratinocytes, basal layer vacuolar changes n.p. d hydzik, 2011 [35], poland 56, f a 20 6 days 3258^ >1:20,480# n.p n.p. n.p. n.p n.p. pr table iv. statin-associated dermatomyositis (30 case reports). most authors used the diagnostic criteria according to bohan and peter [36,37] § ethnicity: african american * aldolase high: peak = 13.8 iu/l ^ anti-mi-2 positive # polish normal values: <1:160 - = negative; + = positive; a = atorvastatin; adm = amyopathic dermatomyositis; ana = anti-nuclear antibody; anti-hmgcr = anti -3-hydroxy-3-methylglutaryl-coenzyme a reductase autoantibodies; anti-jo-1 = anti-aminoacyl-trna histidyl synthetase autoantibodies; anti-mi-2 = anti-chromodomain helicase dna binding proetin 4 ab; anti-srp = anti-signal recognition particle autoantibodies; cpk = creatine phosphokinase; d = definite; emg = electromyography; f = fluvastatin; hla-1 = human leukocyte antigen-1; l = lovastatin; m = months; mri = magnetic resonance imaging; n.p. = not performed; n.r. = not reported; p = pravastatin; po = possible; pr = probable; r = rosuvastatin; s = simvastatin; u.k. = unknown; y = years on the basis of the results shown in tables iii and iv, these diseases were more frequent in women (66%) and in senile age (the median age at the time of diagnosis was 68 years). the drugs most frequently associated with the disease were atorvastatin and simvastatin in pm and dm, respectively. the exposure period was very variable: in the pm there was a minimum of two days, in a case concerning an african american patients with cpk peak very high [12], while the maximum exposure time was of 25 years in an elderly woman. in dm, the exposure duration was shorter (median = 6 months; range = 6 days-10 years). the cpk peak was higher in pm (median = 2802 u/l; range = 355-126,000) than in dm (median = 1574 u/l; range = 207-20,424), but the difference was not statistically significant. in one case of dermatomyositis (55 years, f, atorvastatin 80 mg) [34], a normal value of cpk was found associated with increased aldolase. in three further cases, the cpk was lower than 300 u/l. the determination of anas refers only to 33 patients: they were positive in 76% of patients, i.e. 23 cases (14/18 dm and 9/15 pm). anti-hmgcr antibodies were dosed in a total of 9 patients: those described in the brazilian series published in 2018 [12] and the recent case published in october 2018 [34]. all were negative. these antibodies, discovered in 2010 [52,53], are currently being measured in a few specialized centers. even the anti-signal recognition particle autoantibodies (anti-srps), mentioned in the same series, were negative. in pm, anti-jo antibodies were negative in 10 out of 14 assays performed. among the 4 positive patients, one had antisynthetase syndrome. in dm, 12 patients were tested, but none was positive. we found also a case of polymyositis during therapy with atorvastatin diagnosed after an episode of rhabdomyolysis (cpk = 14.611 u/l with myoglobinuria) from cerivastatin, with subsequent detection of positive anti-jo-1 [16]. discussion according to the literature [11,54-57], statins are involved also in other autoimmune diseases, such as interstitial lung disease, myasthenia gravis, systemic lupus erythematosus, cutaneous lupus, vasculitis, autoimmune hepatitis, lichen planus pemphigoides, and pemphigus erythematosus. even more cases appeared in recent years in literature concerning necrotizing myopathies associated with statins and with the coexistence of autoimmune phenomena [11,55]. from 1992 to november 2018 at least 58 defined cases of dm (n. 30) and pm (n. 28), with histological confirmation, associated with exposure to statins were described. it should be noticed that in the analysis of the south australian myositis database including 221 patients with histologically confirmed idiopathic inflammatory myositis, 68 patients (30.8% of cases) were found exposed to statins, at the time of diagnosis: 27/89 pm, 4/23 dm, 12/24 necrotizing myopathy, 20/66 inclusion body myositis, and 5/19 nonspecific chronic inflammatory myositis patients. exposure to statins was found in 30.3% of pm and in 17.4% of dm, thereby highlighting an almost 2-fold increased likelihood compared with controls. however, details on the type of statin, dosage, or duration of statin exposure was not available in this study [58]. another serious muscle complication associated with statin use has recently been described: autoimmune necrotizing myopathy (imnm: immune-mediated necrotizing myopathy). it is associated with anti-3-hydroxy-3-methylglutaryl-coenzyme a reductase antibodies (anti-hmgcr) [59]. according to some authors, most patients affected by necrotizing myopathy with a history of statins, before the discovery of anti-hmgcr were classified as polymyositis. statin-triggered imnm and polymyositis would therefore not be two distinct entities, but part of the same pathophysiological spectrum also because they respond well to immunosuppressive treatment [5,60]. pathognomonic clinical manifestations for dermatomyositis and polymyositis have been reported in three adult patients with autoimmune necrotizing myopathy positive for anti-hmgcr [61-63]. in the imnm, magnetic resonance detects a characteristic pattern of muscular abnormalities involving mainly hip rotators and glutei: imnm have significantly more widespread muscle edema, atrophy, and fatty replacement compared with those with polymyositis and dermatomyositis, unlike the fascial edema is more common and widespread in dermatomyositis [44]. in 2013, a canadian working group consensus defined the main predisposing conditions that promote intolerance or side effects of statins [64]: hypothyroidism; hypovitaminosis d; low body mass index; low coq10 enzyme level; excessive use of alcohol; excessive use of cranberry or grapefruit juice; illicit drugs (amphetamine, cocaine, heroin); drug-statin interaction; renal failure; liver failure; diabetes mellitus; biliary obstruction; history of pre-existing asymptomatic increase in cpk. however, a more recent meta-analysis conducted by nguyen in 2018 found that the significant risk factors for myopathy and/or rhabdomyolysis associated with statins were [65]: age > 65 years; female gender; diabetes mellitus; renal insufficiency; cardiovascular disease; drug-drug interactions (clarithromycin, erythromycin, cyclosporin, mibefradil, verapamil, diltiazem, nefazodone, itraconazole, fibrates, gemfibrozil, amiodarone, and protease inhibitors); statin dose; genetic factors (slco1b1 gene mutation). it is useful to dose cpk before starting statin therapy to discover a subclinical myopathy and to exclude, even if very rare, the presence of macro-creatinekinase [66]. subsequent cpk checks should be done in the third, sixth, and twelfth months because most statin myopathies occur within the first six months of therapy. concerning the case with high aldolase [50], it should be pointed out that aldolase dosage is useful because its isolated increase reflects preferential immune-mediated damage affecting early regenerating cells [67]. regarding the therapy of hypercholesterolemia to be implemented after clinical recovery in patients with iims, to my knowledge specific indications do not exist in the literature. drugs with no side effects on the muscle should be used. in primary prevention, the range of therapy extends from nutraceuticals to ezetimibe. as for nutraceuticals, monacolin k should not be prescribed because it is chemically identical to lovastatin. berberine does not modify cpk [68], while for ezetimibe the incidence of myopathy/rhabdomyolysis was identical (0.2%) to that found in placebo patients. pcsk9 inhibitors may be used in myopathic patients at high cardiovascular risk. these fully human monoclonal antibodies (e.g. evolucumab, alirocumab), which act against the proprotein convertase subtilisin/kexyn type 9, could be an alternative to statin therapy in severe cases of drug toxicity, such as rhabdomyolysis [1]. clinical studies comparing statins versus statins + anti-pcsk9 found no differences in muscle and cpk side effects between the two groups [69,70]. for patients with idiopathic inflammatory myositis and with coexistent dyslipidemia, anti-cholesterol therapy should be implemented, obviously, with defined drugs without toxic effects on the muscle. conclusions the present literature review identified 28 cases of polymyositis and 30 cases of dermatomyositis related to exposure to statins. to my knowledge, this is currently the widest research about these two rare statin-triggered pathologies. key points besides the more common side effects on muscle, statins can give rise to autoimmune phenomena inflammatory myopathies are a very heterogeneous group of illnesses that can present with a very different clinical phenotype the main subtypes of myositis should be considered in the differential diagnosis: pm, dm, imnm, om/ass, and ibm the international literature reports 28 cases of polymyositis and 30 cases of dermatomyositis related to exposure to statins it is useful to dose the cpk (and aldolase) before starting statin therapy in case of skin rash or muscular symptoms, antinuclear antibody screening is recommended in patients treated with statins patients who have failed to normalize high cpk (> 10 times the upper range of normal) after statin withdrawal and after cortisone therapy should be tested (in addition to ana and ena) for myositis-associated and myositis-specific antibodies (maas and msas), in particular anti-srp and anti-hmgcr antibodies and, if these are positive, undergo muscle biopsy to confirm the diagnosis of inflammatory or autoimmune myopathy drug therapy is challenging and requires, in addition to corticosteroids, immunosuppressive medications, and intravenous immunoglobulin. new anti-pcsk9 monoclonal antibodies may be used in high-risk cardiovascular myopathic patients the choice of anti-cholesterol therapy in myopathic patients after clinical recovery is yet not defined funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the author declares that he has no conflicts of financial interest regarding the topics covered in this article. references 1. selva-o’callaghan a, alvarado-cardenas m, pinal-fernández i, et al. statin-induced myalgia and myositis: an update on pathogenesis and clinical recommendations. expert rev clin immunol 2018; 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[epub ahead of print]; https://doi.org/10.1016/j.jacc.2018.10.039 cmi 2018;12(1)103.html acknowledgement to reviewers (july 2017 december 2018) the editorial staff of clinical management issues (cmi) would like to thank all the reviewers who, with their support and their active cooperation, have contributed to improving the scientific rigor, precision and accuracy of the contents. giuseppe affronti jeffrey r. andolina riccardo asteggiano steven baker irene binaco giuseppe caparrotti novella carannante jose manuel ceresetto francesco cortese roberto dal negro gaetano d'ambrosio maria giovanna danieli francisco antunes dias khaled emara thierry girard giovanni grasso cristoforo incorvaia jagadeesh kalavakunta george lazaros alba lopez bravo mauro mennuni hilali noordeen giovanni paolino régis peffault de la tour pietro pirina aurel popa-wagner francesco puppo mohammad robed amin andrea rossi valeria sansone jens schmidt samuel shinjo luigi tarantini ming hsien tsai akinori uruha simone vidale cmi 2019;13(1)23-28.html listeria monocytogenes brain abscess mimicking ischemic stroke in an immunocompromised patient: a case report angeliki tsifi 1, stavroula-panagiota lontou 2, maria triantafyllou 2, sevastianos chatzidavid 2, dimitrios theodoridis 3, marina skouloudi 2, marina mantzourani 2 1 intensive care unit, general hospital of nea ionia konstantopouleio-patision, athens, greece 2 first department of internal medicine, laiko general hospital of athens, athens, greece 3 hematology department, general hospital of nea ionia konstantopouleio-patision, athens, greece abstract listeria monocytogenes (l. monocytogenes) is a gram-positive bacillus that infects immunocompromised persons, neonates, pregnant women and, occasionally, previously healthy individuals. l. monocytogenes brain abscesses are particularly rare. we present a 62-year-old female on corticosteroid treatment due to a recent diagnosis of autoimmune hepatitis, who suddenly developed right hemiparesis mimicking a stroke. a brain computerized tomography (ct) scan revealed a brain abscess and the blood cultures drawn yielded l. monocytogenes. a conservative treatment without surgical intervention was selected. the patient was commenced on intravenous ampicillin and gentamicin and showed remarkable improvement. she was successfully discharged on oral amoxicillin with probenecid. since the subsequent magnetic resonance imaging (mri) study and ct scans exhibited reduction in the size of the abscess, the antimicrobial treatment was discontinued after a three-month period. the patient underwent regular follow-up visits with no signs of relapse. keywords: listeria monocytogenes; brain abscess; stroke; immunosuppression cmi 2019; 13(1): 23-28 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v13i1.1420 case report corresponding author angeliki tsifi atsifi@hotmail.com received: 4 march 2019 accepted: 14 may 2019 published: 21 may 2019 why do we describe this case there are medical conditions that may mimic an ischemic stroke and lead the physician in charge to an erroneous diagnosis. l. monocytogenes brain abscesses are particularly rare, but should be considered, especially in cases of immunocompromised patients with central nervous system (cns) involvement. treatment can be challenging, requiring a prolonged antimicrobial therapy of uncertain optimal duration, with or without surgical intervention introduction listeria monocytogenes (l. monocytogenes) is a gram-positive bacillus usually found in food and water, that rarely causes infection in immunocompetent individuals [1,2]. hematogenous spreading is the main route of the infection, which mainly affects immunocompromised people, neonates, pregnant women and, occasionally, previously healthy persons [1,2]. when l. monocytogenes-contaminated food such as salads, meat or unpasteurized dairy products is ingested, the bacterium can penetrate the small bowel and it eventually enters the bloodstream via the mesenteric lymph nodes [2,3]. bacteremia and meningitis are the most common manifestations of listeriosis, but focal infections such as endocarditis, arthritis, and osteomyelitis may also occur[3]. l. monocytogenes brain abscesses are particularly rare, representing 1-10% of all central nervous system (cns) listeriosis [1,3-5]. they are usually found in the thalamus, pons, and medulla [1,2]. in acute context, when mimicking an ischemic stroke, l. monocytogenes brain abscesses may turn out difficult to be suspected [6]. their diagnosis has to be based on the patient’s medical history in combination with adequate clinical, radiological, and microbiological findings. blood cultures are especially useful, since they are positive for l. monocytogenes in 85-90% of the cases [6,7]. lumbar puncture (lp) is less helpful and could therefore be omitted[6-8]. the optimal therapeutic regimen is the combination of an aminopenicillin with an aminoglycoside [4,5]. alternatively, trimethoprim-sulfamethoxazole may be considered for those who are penicillin-allergic [1,5,7,8]. the exact duration of therapy remains unknown, although it is suggested that treatment should continue for at least 6 to 8 weeks [1,4,6,7,9]. surgical interventionmay not be necessary [3,8,10]. case presentation we present a 62-year-old female on corticosteroid treatment with oral methylprednisolone (16 mg/day) for three months due to a recent diagnosis of autoimmune hepatitis who suddenly developed right hemiparesis mimicking a stroke. the patient was immediately admitted to our department for further management. at admission she was afebrile. her laboratory analysis as depicted in table i revealed leukocytosis with a mildly elevated c-reactive protein. parameter detected level normal range hct (%) 41.8 36-47 hb (g/dl) 14.8 12-16 wbc (n/l) 18,310 4500-11,000 neutrophils (n/l) 12,700 1500-6600 lymphocytes (n/l) 4420 1200-3400 plts (n/l) 188,000 140,000-440,000 crp (mg/l) 13.9 0-5 esr (mm) 20 0-20 table i. laboratory analyses at hospital admission crp = c-reactive protein; esr = erythrocyte sedimentation rate; hb = hemoglobin; hct = hematocrit; plts = platelets; wbc = white blood cells a brain computerized tomography (ct) scan revealed an intracranial mass in the left hemisphere with surrounding edema resembling an abscess. an additional brain magnetic resonance imaging (mri) study was performed, which corroborated the diagnosis depicting a 3×2.7 cm brain abscess (figure 1). figure 1. brain mri at admission. axial view (a), sagittal view (b) other neuroimaging diagnoses such as a subacute hemorrhagic stroke, a demyelinating lesion, a cerebral metastasis, or radiation necrosis were also to be ruled out. two consecutive blood cultures, that were collected before initiating antimicrobial therapy, were positive for l. monocytogenes and the patient was commenced on intravenous ampicillin (a total 12 grams per day q4h) in combination with gentamicin (240 mg per day for 14 days divided in two doses). intravenous dexamethasone 4 mg q6h and mannitol i.v. 1g/kg body weight were added for the first few days and, after a neurosurgeon was consulted, a conservative treatment without surgical intervention was suggested, mainly due to the location and the singular nature of the abscess. the patient exhibited remarkable improvement and gradually became fully functional. regular ct and mri scans, performed alternately every two weeks, showed considerable decrease in the size of the abscess and eventually the patient was discharged on the previous dosage of methylprednisolone (16 mg/day) required for her diagnosis of autoimmune hepatitis and on oral amoxicillin 1 g q6h with probenecid 500 mg q8h in order to enhance the concentration of amoxicillin. the mri that was performed at discharge exhibited gradual resolution of the brain abscess (2.3×2.2 cm). the patient received a total of three months of antimicrobial therapy before treatment discontinuation. her following evaluation showed further improvement with no sign of relapse and without neurological deficits. what should the clinician ask him/herself or the patient? is a lumbar puncture needed for the reinforcement of the diagnosis? what will be the duration of the antimicrobial treatment? is an additional surgical intervention needed? when should the patient repeat the neuroimaging studies? when should the patient be re-evaluated? is the patient capable of and willing to continue his/her oral treatment and undergo regular blood analyses, neuroimaging studies, and follow-up visits? discussion l. monocytogenes is a gram-positive bacillus that can cause severe infections to immunocompromised individuals, neonates, and pregnant women. ingestion of l. monocytogenes-contaminated food, such as raw salads, inadequately cooked meat, and unpasteurized dairy products is the cause of all human l. monocytogenes infections [1,2]. in immunocompetent persons l. monocytogenes rarely causes infections after ingestion of contaminated food, since the host’s neutrophils, monocytes, and macrophages will eventually kill it. however, if ingested by individuals with impaired immunity, it penetrates the peyer’s patches of the small intestine but not via the phagocytic microfold or m cells [1,3]. more often the organism enters the bloodstream via the mesenteric nodes [1,3]. when attached to epithelial cells in the choroid plexus it may cause meningitis [1-3]. l. monocytogenes can, therefore, invade the cns and it seems to display a tropism for the cns. nonmeningitic cerebritis, meningoencephalitis, rhomboencephalitis, brain abscesses are examples of its cns manifestations. other manifestations of a l. monocytogenes infection include endocarditis, osteomyelitis, arthritis, endophthalmitis, and pneumonia [3]. l. monocytogenes brain abscess is a rare manifestation of listeriosis and accounts for approximately 10% of cns manifestations [2,6,8]. since impaired cellular immunity is a risk factor for the infection, most of the patients concerned—as was the patient presented—are either immunocompromised due to an underlying disease or receiving immunosuppressive therapy [1,3,8,9]. the diagnosis is based on the combination of neuroimaging with positive blood cultures yielding l. monocytogenes. the former helps distinguish a l. monocytogenes brain abscess from an alternative diagnosis with similar clinical expression, such as an ischemic stroke [1,6]. the latter reveals the causative pathogen in approximately 85% of the cases [8,9]. this is not the case with brain abscesses caused by other organisms where bacteremia is not so frequent [1]. as a result, when dealing with a l. monocytogenes brain abscess, positive blood cultures should suffice and should render a lumbar puncture unnecessary. it should be noted that l. monocytogenes is more often isolated in blood cultures than in cerebrospinal fluid (csf) and that csf cultures are frequently negative [6,8]. additionally, it should be mentioned that the decision to avoid a lumbar puncture decreases the risk of the procedure itself and its complications, especially in cases where a ct scan or an mri study is not previously performed. nevertheless, there are cases in the literature where the diagnosis of a l. monocytogenes brain abscess was based on positive csf cultures [7,9]. in our patient the diagnosis was based on the combination of several factors. firstly, the clinical cns manifestations of the patient, the leukocytosis, and the mildly elevated c-reactive protein in her laboratory analyses hinted the possibility of an infectious disease. the fact that the patient was under corticosteroid treatment meant that the absence of fever was anticipated and that specific pathogens should be addressed. secondly, the ct scan and subsequently the mri study, that were performed, demonstrated a brain abscess and not an ischemic stroke. in consequence, it was made clear right from the start that the diagnosis was a brain abscess of infectious origin in an immunocompromised patient. finally, the blood cultures drawn yielded l. monocytogenes directing us towards the final diagnosis and the implementation of the optimal treatment. treatment options for l. monocytogenes brain abscesses include ampicillin or trimethoprim-sulfamethoxazole for penicillin-allergic patients [1,5,7,8]. the addition of an aminoglycoside, preferably gentamicin, is encouraged on the basis of synergy [1,5]. vancomycin also possesses good in vitro activity against l. monocytogenes. [3]. however, the in vivo efficacy of the drug remains questionable by certain physicians [7]. in our case the treatment that was selected consisted of high doses of ampicillin (12 grams per day divided in six doses) and gentamicin (240 mg per day for 14 days divided in two doses) intravenously. gentamicin was only given for a two-week period in order to avoid its adverse effects, especially its nephrotoxicity. after the discontinuation of gentamicin, the question of the optimal duration of treatment arose. there seems to be a lack of explicit data in the literature involving the duration of treatment for l. monocytogenes brain abscesses. most authorities propose six to eight weeks of antimicrobial therapy and others even longer, as indicated by each patient’s successive clinical and radiological evaluations [5,7]. it was in that spirit that we chose to administer intravenous ampicillin for a total of 10 weeks as indicated by the monthly radiological evaluation of the abscess (with a brain ct scan), which demonstrated a decrease in size. afterwards, we opted to continue the treatment orally for two additional weeks, with high doses of amoxicillin (1g q6h) and probenecid (500 mg q8h) in order to enhance the concentration of amoxicillin. the antimicrobial treatment was discontinued upon completion of three months, after which the patient exhibited no signs of deterioration or relapse, even though there was still a smaller residual lesion in the brain ct scan. however, it is suggested that complete resolution of the radiographic abnormalities is not a prerequisite for the discontinuation of treatment [5,11]. as concluded by several case reports on l. monocytogenes brain abscesses published over the past decade, the antimicrobial treatment is effective. therefore, surgical intervention is often unnecessary [8]. our patient was evaluated at admission by a neurosurgeon, who in turn proposed the administration of intravenous antibiotics as the treatment of choice. as far as concomitant immunosuppressive therapy is concerned, a dose reduction—if possible—is suggested [5]. the patient was already under corticosteroid treatment due to her recent diagnosis of autoimmune hepatitis. the diagnosis of a l. monocytogenes brain abscess with surrounding edema at first led to the commencement of intravenous dexamethasone (4 mg/day-q6h) for a few days, but eventually led to the administration of the lowest required dose of methylprednisolone (16 mg/day), as suggested by the patient’s hepatologist. over the last decade, a respectable number of case reports involving l. monocytogenes brain abscesses has begun to surface in the literature. most of them underline the importance of blood cultures and neuroimaging for the diagnosis of the abscess and the commencement of intravenous ampicillin in combination with gentamicin as the treatment of choice, but fail to indicate the optimal duration of therapy. the rareness of l. monocytogenes brain abscesses is the main reason for this gap in literature, that needs to be addressed as soon as possible. conclusion in an era where immunosuppressive therapy is common, a l. monocytogenes brain abscess should be considered in patients with impaired immunity, unusual neurological findings, and cns manifestations, and treated promptly. the physician in charge should not rush to unnecessary interventions, either concerning the diagnosis or the patient’s treatment, especially since a more conservative approach may yield the same results [3]. since blood cultures are more useful than csf cultures for the diagnosis, the performance of an lp can be avoided. the same applies for the implementation of a surgical intervention, since it has been shown that intravenous antimicrobial therapy in most cases may suffice. key points brain abscesses can mimic ischemic strokes neuroimaging can help distinguish a brain abscess from an ischemic stroke listeria monocytogenes rarely causes brain abscesses blood cultures are more useful than csf cultures for the diagnosis of a l. monocytogenes brain abscess intravenous ampicillin with gentamicin is the treatment of choice for l. monocytogenes brain abscesses the treatment of a l. monocytogenes brain abscess should last at least 6-8 weeks complete radiological resolution of the abscess in neuroimaging studies is not necessary for treatment cessation the combination of probenecid with amoxicillin can diminish the renal excretion of the latter and increase its plasma concentrations a regular follow-up with repeated laboratory analyses and neuroimaging studies is necessary before the cessation of a listerial brain abscess treatment when being treated, l. monocytogenes brain abscesses rarely require surgical intervention funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interest the authors declare they have not competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. limmahakhun s, chayakulkeeree m. listeria monocytogenes brain abscess: two cases and review of the literature. southeast asian j trop med public health 2013; 44: 468-78 2. sakarunchai i, saeheng s, oearsakul t, et al. listeria monocytogenes brain abscess on mr imaging mimicking the track of a migrating worm like a sparganum: a case report. interdisciplinary neurosurgery: advanced techniques and case management 2016; 5: 9-11; https://doi.org/10.1016/j.inat.2016.03.008 3. cone la, leung mm, byrd rg, et al. multiple cerebral abscesses because of listeria monocytogenes: three case reports and a literature review of supratentorial listerial brain abscess(es). surg neurol 2003; 59: 320-8; https://doi.org/10.1016/s0090-3019(03)00056-9 4. tiri b, priante g, saraca lm, et al. listeria monocytogenes brain abscess: controversial issues for the treatmenttwo cases and literature review. case rep infect dis 2018; 2018: 6549496; https://doi.org/10.1155/2018/6549496 5. al-khatti aa, al-tawfiq ja. listeria monocytogenes brain abscess in a 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even though the literature reports an association with exercise, carbohydrate load, and stress, further workup in our patient revealed no association with these precipitants. a proper differential diagnosis should rule out other causes of weakness and paralysis, thus allowing a timely treatment. keywords: periodic paralysis; potassium; muscle weakness; dizziness; hypokalemia cmi 2019; 13(1): 7-10 https://doi.org/10.7175/cmi.v13i1.1383 case report corresponding author aysun isiklar prof. dr. ilhan varank sancaktepe training and research hospital department of internal medicine emek neighborhood, namik kemal st. n. 54 34785 sancaktepe/i̇stanbul tel: 00902166063300 fax: (0216) 606 33 95 aysunisiklar@gmail.com received: 15 november 2018 accepted: 25 january 2019 published: 4 february 2019 why do we describe this case dizziness and weakness are common symptoms and may be caused by several illnesses. hypokalemic periodic paralysis is a rare disease, but should be taken into consideration after a proper diagnostic workup introduction periodic paralyses (pp) are a heterogeneous group of rare inherited muscle disorders characterized by recurrent attacks of intermittent skeletal muscle weakness. they generally affect limbs and, even though they resolve spontaneously, over time they may result in permanent miopathy. during attacks, changes in anion channels occur, particularly in potassium channels [1]. pp may be hypokalemic, hyperkalemic, or normokalemic. hypokalemic periodic paralysis (hpp) is characterized by low levels of potassium during attacks, even though not necessarily below normal range. the genes affected are generally those encoding for a calcium channel (chromosome 1) or a sodium channel (chromosome 17) [2]. the therapy generally consists in the administration of potassium during the attacks, while avoiding intense effort and carbohydrate-rich meals is useful as prophylaxis. a hpp may be caused also by thyrotoxicosis and potassium loss due to gastrointestinal and renal diseases [2]. case description a 42-year-old male came to the emergency room complaining for a sudden onset of severe dizziness and fall. the anamnesis did not reveal any significant pre-existing conditions. he had no dizziness or weakness neither the day before, nor that very morning. at noon time he felt a mild dizziness, which had been increasing in the following 2 hours, when he fell at home as a result of the sudden onset of muscle weakness. the dizziness was described as motion of the environment, while the weakness was bilateral and involved both the proximal muscles of the shoulders and hips as well as the distal extremities. he had no respiratory and swallowing difficulties and was able to move his neck and face muscles. he denied any pain, paresthesia, diarrhea, shortness of breath, or weight loss in the preceding period. his parents and brothers had no history of similar episodes and no other significant illnesses. the physical examination revealed that he was conscious and cooperated. arterial blood pressure was 130/80 mmhg and heart rate was 80 beats per minute. his weight was normal. his skin was cold and dry, and the oral mucosa was moist. no jugular venous distension, goiter, or lymphadenopathy were detected. cardiovascular examination revealed a normal heart rate, with a regular rhythm, and no murmurs. proper examinations revealed that lungs and abdomen were unremarkable. there were neither deformity nor edema in the extremities, while distal pulses were bilateral and equal. at neurological examination, his right and left upper extremity muscle strength was 1/5 and his right and left lower extremity muscle strength was 3/5. he had rotatory nystagmus. proximal tendon reflexes were decreased and sensation was intact. blood tests, liver enzymes, and complete blood count were normal, except for a potassium level of 2.3 mmol/l (normal range: 3.5–5.1 mmol/l). in particular, in addition to low potassium, arterial blood gas revealed ph = 7.4 and hco3- = 22 mmol/l. urinary potassium rate was in normal range and creatine phosphokinase (cpk) level moderately raised during the attack. the compound muscle action potential (cmap) amplitude declined during the paralytic attack. cardiac evaluation was provided with electrocardiogram (ecg): hypokalemia presented as flat t waves. the patient, who was thought to be affected by conversion disorder, underwent neurological consultation for the differential diagnosis. dizziness was due to benign paroxysmal positional vertigo, and on dix-hallpike maneuver classic rotatory nystagmus with latency and limited duration was considered pathognomonic. other cranial nerve function was intact. computed tomography of brain was performed to determine the etiology of the fall and was considered to be normal. six hours after initiation of potassium infusion (kcl [2 meq/ml]) at 5 ml/h through a peripheral vein, the patient’s neurological symptoms had completely resolved. further investigation were performed to elucidate the etiology of hypokalemia. urine sodium and potassium, and serum aldosterone and renin levels were measured to rule out adrenal involvement and were found to be normal. thyroid stimulating hormone was normal (figure 1). figure 1. timeline of interventions and outcomes the patient was diagnosed with hypokalemic periodic paralysis with unknown etiology and started a treatment with potassium-sparing diuretic. he was discharged, but a follow-up visit with an endocrinologist was planned. discussion “dizziness” is a nonspecific term commonly used by patients to identify symptoms. it includes vertigo, nonspecific dizziness, disequilibrium, and presyncope. the first step in the evaluation is to properly categorize the patient. weakness is a common, nonspecific, presentation in both the emergency and outpatient settings. therefore, the differential diagnosis for dizziness and weakness is extensive. first of all, strokes and tumors that cause nerve entrapment are potentially life-threatening and should be ruled out. for the diagnosis of hpp, the duration and distribution of symptoms should be evaluated together with a detailed anamnesis. generally, this disease is not taken into account during the first run. the patient was diagnosed with hpp, whose prevalence rate was thought to be approximately 1:100,000 in further consideration [3]. hpp is a disorder affecting more commonly males with ages ranging between 20 and 40 years. the clinical features of the syndrome vary slightly depending on the underlying etiology. although the serum potassium level is often alarmingly low, other electrolytes are usually normal [4]. however, the total body potassium is actually normal, with the change in the serum level reflecting a shift of potassium into cells. between paralytic attacks, muscle strength and potassium levels are normal, thus diagnosis at this period is difficult. electrocardiographic changes are common, but differ from patients with true low potassium. electromyography reveals abnormalities in some patients, but is usually normal between episodes, when there is no clinically detectable weakness. hpp may be due to various causes, thus extensive research may be required in order to elucidate the underlying etiology. hpp may occur sporadically, spontaneously or as the result of autosomal dominant inheritance. this form shows a deterioration of cellular potassium regulation due to abnormalities in sodium or calcium channels. acute paralytic attacks are treated with potassium replacement. cardiac rhythm and serum potassium levels should be closely monitored. diagnostic criteria for primary hypokalemic periodic paralysis have been published by a cochrane review [6]. diagnosis without genetic analysis, according to one of these criteria, can be made, as in this patient, by the detection of recurrent attacks with muscle weakness with documented serum k+ < 2.5 meq/l. the patient was also consistent with the other three diagnostic criteria for hypokalemic periodic paralysis: duration of paralysis longer than two hours, improvement in paralysis symptoms with potassium replacement, and recurrence of symptoms under the certain periods and circumstances [5,6]. however, diarrhea, chest pain, shortness of breath, or weight loss, that sometimes precede the onset of hpp symptoms, were absent in this patient. hpp can be triggered by the effect of factors such as alcohol, anesthesia, excessive consumption of carbohydrate-rich meal, stress, insulin, strenuous exercise, and steroids. in rare cases, cold or overtemperature seemed to induce paralysis at regular intervals, but data are too scarce. in general, after exclusion of the other causes, the main treatment is potassium replacement. the remaining supportive treatment is correction or avoidance of the other triggering factors. hypokalemia occurs before the onset of symptoms, thus precautions can be taken with the previously mentioned close follow-up. normal saline (0.9%) should be preferred, while dextrose-containing solutions should be avoided during fluid replacement. symptoms such as sweating, myalgia, mental dullness, irritability, and palpitations also occur rather than muscle weakness during the attacks [7]. several previously reported cases of hpp concern children [8], and most of them are associated with thyrotoxicosis [9,10]. this case was not completely consistent with the other patients with regards to age and triggering factors, but he was considered to be hpp after differential diagnosis and in consequence of the response to the treatment performed. although the patient was planned to be discharged upon obtaining a potassium level of 3.5 mmol/l, a k+ rich and na+ poor diet was recommended in the long term since he experienced the second attack. the patient was informed regarding the triggering and alarming symptoms. it should be kept in mind that even though age and triggering factors do not always overlap, hpp should be considered. key points dizziness and weakness are common symptoms hypokalemic periodic paralysis (hpp) is characterized by episodes of flaccid and sudden muscle weakness generally, it affects males with ages ranging between 20 and 40 years serum potassium level is often alarmingly low, but other electrolytes are usually normal acute paralytic attacks are treated with potassium replacement cardiac rhythm and serum potassium levels should be closely monitored hpp may be due to various causes, thus extensive research may be required in order to elucidate the underlying etiology among the triggering factors, there are alcohol, anesthesia, excessive consumption of carbohydrate-rich meal, stress, insulin, strenuous exercise, and steroids funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the author declares she has not competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. zacchia m, abategiovanni ml, stratigis s, et al. potassium: 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[3] calculated 19 patients in the literature; afterwards, just a few isolated case reports were published). in 1994, chang and colleagues discovered the association between ks and infection of neoplastic cells by human herpes virus type 8 (hhv-8) [4]. this virus belongs to the family of gamma-herpesviruses and its role as a potential oncogenic virus is supported by its tight relationship with primary effusion lymphoma (pel). the genome of this virus was shown to be present in about 90% of hiv-positive patients with ks. this implies a role in the etiology of kaposi’s sarcoma. we report three cases involving hiv-negative patients with lesions on the mucosa of glans penis and penile shaft. tumor cells were infected by hhv-8. cases description in our patients, we recorded main diseases and the medical history linked to the penile lesions. moreover, we analyzed their immune status (particularly, testing for hiv virus) and photos of the lesions were taken before and after surgery. chest and abdomen ct scans were performed before surgery and after 12 and 24 months. moreover, outpatient examinations were performed every six months for at least five years. an inguinal ultrasound was performed during examinations. case 1 s.g. was 60 years old, came from sicily, and underwent a surgical excision of a small lesion of the glans in september 2013 in another hospital. he was diagnosed with ks, but no test for hhv-8 was performed. no major disease was recorded. in november 2016, he came to the urologic unit of our institute for a mucosal lesion of the dorsal glans. the lesion was radically excised by carbon dioxide laser and he was diagnosed with kaposi’s sarcoma associated hhv-8. hiv tests were negative. in may 2017, another lesion of the dorsal glans was excised and the diagnosis was the same. before and after surgery, the disease staging by ct scan was negative and at present the patient is disease-free. case 2 z.o. was 71 years old, came from sicily, and underwent a surgical excision of a perimeatal lesion of the glans in july 2013 in another hospital. the surgical excision was performed during a transurethral resection of prostate (turp) for benign prostatic hyperplasia. no other major disease was recorded. also in this patient the diagnosis was ks but no test for hhv-8 was performed. hiv test was negative. in may 2014, he was examined in the urologic unit of our institute for a small and bluish lesion of the dorsal penile cutis (figure 1), that was radically excised by carbon dioxide laser. the diagnosis was kaposi’s sarcoma associated hhv-8. in july 2015, a small preputial lesion (histological relapse of ks) was laser excised. before and after surgery, no systemic disease was found at ct scan and at present the patient is disease-free. case 3 n.f. was 77 years old, came from apulia, and was examined in our urologic unit for plurifocal nodular and reddish lesions of the glans and the prepuce (figure 2) in july 2014. figure 1. small and bluish lesion of the dorsal penile cutis before carbon dioxide laser excision (case 2) figure 2. plurifocal nodular and reddish lesions in the glans and the prepuce before carbon dioxide laser excision and surgical circumcision (case 3) he was suffering from diabetes type 2, mild hypertension, and obesity. the lesions were radically excised by carbon dioxide laser and surgical circumcision. in every specimen, ks-associated hhv-8 was found. before surgery, hiv test and ct scan were negative. after surgery, ct scans did not show any systemic disease. after two years, reddish papules of the perimalleolar skin were found (figure 3), but they were not removed because the patient suddenly died from stroke. no local relapse was found. main surgical aspects all the lesions on the glans penis and penile shaft were locally anesthetized with 2% lidocaine after the local application of anesthetizing gel (emla). ablation was done with a high-energy pulsed carbon dioxide laser at a power of 10 watts with a 4-mm spot size (sharplan 40 c co2 40 watt, 10600 nm, kosmo). there was very little bleeding during the treatment and the lesions healed rapidly in a few days with topical antibacterial (gentamicin) ointment application, leaving good cosmetic results (figure 4). figure 3. reddish papules of the perimalleolar skin found two years after carbon dioxide laser excision of the lesions in the glans and surgical circumcision (case 3) figure 4. cosmetic results two years after treatment (case 1) immunohistochemical analysis the biopsy specimen was routinely fixed in formalin (10%), embedded in paraffin and then cut at 4 µm and stained with hematoxylin-eosin. the immunohistochemical studies were performed on paraffin tissue sections of the lesion using antibodies against cd34 and factor viii-related antigen (hhv-8, clone ln53, novus; dako autostainer). histologically, lesions were nodules in the lamina propria, with thinning of the overlying squamous epithelium. some dilated and irregular vascular channels could be seen in the top of the lesions, while the other parts were formed by more compact cellular proliferation with ill-defined borders (figure 5a). there were typical spindle cells of the nodular ks with vascular channels formation filled with red blood cells and sprinkling chronic inflammation (figure 5b). normally, kaposi’s cells show slight nuclear atypia and very low mitotic count (figure 5c). immunohistochemical analysis showed nuclear positivity for hhv-8 only in the neoplastic cells (hhv-8, clone ln53, novus) but not in the surrounding ones (figure 5d). figure 5. immunohistochemical analysis (case 3) a. hematoxylin-eosin stain, 0.3× magnification b. hematoxylin-eosin stain, 10× magnification c. hematoxylin-eosin stain, 15× magnification d. dako autostainer, 15× magnification results after surgical excision, the relapse occurred on average after 18 months while, after laser ablation, it occurred after 14 months. however, it should be noted that, while s.g. (case 1) had relapses close to the first localization (glans), the other two patients had new localizations that were far from the first ones: penile skin (case 2) and perimalleolar area (case 3). two patients were disease-free after 19 and 41 months (mean disease free time: 30 months), while the last one died from stroke after two years from laser ablation, with perimalleolar disease but no local relapses. what should the clinician ask him/herself about the patient how long has the penile lesion been going on? is there a history of high-risk sexual intercourses? are there general symptoms as asthenia, malaise, and mild fever as in hiv patients? discussion primary penile kaposi’s sarcoma is observed in young patients and it is strongly associated with hiv infection. in immunocompetent patients it is very rare and, in mediterranean area, it is often present in patients in the sixth and seventh decade, like our aged patients (mean age = 69 years), who were from southern italy, and usually involves the lower extremities, as patient n.f. (case 3) in figure 3. penile primary ks is very rare in healthy males: in english literature, just a few tens of immunocompetent patients are described (even if hiv or hhv-8 tests are not performed in every patient) [3]. the pathogenesis of ks is still uncertain, but recent data showed a strong correlation between all forms of ks and hhv-8 infections. this virus, discovered in 1994, plays a role as a potential oncogenic virus and is similar to two other oncogenic herpes viruses (saimiri and epstein-barr virus) in terms of ability to alter the growth of human endothelial cells in vitro. high hhv-8 seroprevalence in individuals with high-risk sexual activity or hiv-seropositive patients denotes the route of sexual transmission, while the detection of hhv-8 antibodies in children also suggests a non-sexual route: saliva could be a potential source of spread in general population. notably, hhv-8 is endemic in sicily [5] and all our patients were from southern italy (two from sicily and one from apulia). moreover, they did not claim high-risk sexual activity and had few partners before marriage. among patients with classic ks, primary penile lesions are usually single reddish-purple to bluish nodules (case 2, figure 1). multiple papules, nodules (case 3, figure 2), plaques, and wart-like or pedunculated lesions are less common presentations. the most frequently involved site is the glans, sometimes in association with swelling and lymphatic edema due to massive involvement. lesions may also involve the foreskin, the coronal sulcus, the meatus and, rarely, the shaft [6]. local therapies for ks include simple excision, cryotherapy, radiation [7], and intralesional therapy. simple excision is seldom used because it is frequently unsatisfactory [8]. cryotherapy is mostly effective for small lesions, with 85% of clinical response. on the other hand, radiotherapy may be useful in large scrotal and penile lesions, but it is a time-consuming process [9]. a 50% decrease or greater was achieved in 62% of lesions for intralesional vincristine [10], 50 to 90% for intralesional interferon alpha-2 [11], 56% for imiquimod [12]. however, the evidence of efficacy of any particular therapy is of low quality and does not support recommending any particular choice. ultimately, treatment guidelines are lacking for classic kaposi sarcoma in english literature [13]. laser therapy is seldom used: in english literature only one case was found, dating back to 1999 [14]. carbon dioxide laser has not been popular because of the possible risk of infectious viral particles in the vapor plume. however, our patients have no major diseases, particularly they have no evidence of hiv infection or immunosuppression, and ks forms very-well demarcated intradermal nodules (figure 5a). this means that co2 laser treatment may be easy, fast, and relatively safe. in fact, the procedure was easy and effective, with no serious complications in every patient, with a complete resolution of the lesions, leaving good cosmetic results after two years from treatment (case 1, figure 4). on the other side, there are some theoretic drawbacks to laser therapy, due to clinical experience, suggesting that the real margins of kaposi’s lesion may be quite distant from the macroscopic one and that the process of wound healing stimulates growth of ks. this could explain late local relapses. it is remarkable that in our patients they followed surgical excision. vice versa, laser vaporization of excisional borders may enlarge and stabilize margins, as in the laser treatment of hpv infection, to prevent relapses that normally are not far from the primary lesion. in fact, in our opinion, while local relapses may show a disease persistence, relapses far from the surgical area may be due to a new disease. owing to the small numbers of patients, no definitive cure is yet known for penile ks in immunocompetent patients. moreover no follow up schedule is known, even if local relapses may occur within two years from the diagnosis. our patients did not show any other form of ks (ct scan were negative), but some authors claim that a penile unique lesion could be the first manifestation of a disseminated kaposi’s sarcoma. therefore, a long follow up is needed, and a gastroscopy may be useful. however, our patients did not undergo gastroscopy owing to the absence of symptoms [15]. in conclusion, primary penile ks is quite rare in immunocompetent patients. in every case, this disease may be kept in mind when treating nonspecific penile lesions. a histologic evaluation of the lesion may be useful for planning the right treatment, its clinical staging, and its follow up even if the small number of patients doesn’t allow to draw conclusions. in fact, there is no treatment capable of eradicating hhv-8. however, our positive experience shows that it is a slowly progressive disease, as observed by other authors [2], that may be cured by local therapies, like laser ones. key points kaposi’s sarcoma is not always linked to hiv infections it may be due to human herpes virus type 8 (hhv-8 ) infection it may be a slowly progressive disease with a good life expectancy it is very rare in immunocompetent patients, however it may be kept in mind when treating nonspecific penile lesion owing to its rarity, no definitive guidelines are found in english literature the evidence of effectiveness of any particular intervention is of low quality and does not support recommending any diagnostic and/or therapeutic choice co2 laser therapy might be effective, easy, fast, and safe funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. mukai mm, chaves t, caldas l, et al.primary kaposi’s sarcoma of the penis. an bras dermatol 2009; 84: 524-6; https://doi.org/10.1590/s0365-05962009000500013 2. rescigno p, di trollo r, buonerba c, 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impairment after iron chelating agent in a patient under peritoneal dialysis chi-feng huang 1,2 1 division of nephrology, department of internal medicine, mackay memorial hospital, taipei, taiwan 2 department of medicine, mackay medical college, new taipei city, taiwan abstract a 54-year-old female patient had a history of end-stage renal disease (esrd) under continuous automatic peritoneal dialysis (capd) therapy for 6 years. she had underlying hypertension history under oral hypertensives (olmesartan medoxomil). she was admitted to the ward for iron chelating agent therapy due to high ferritin level (5480 ng/ml). deferoxamine 1 gram was prescribed with intravenous drip for 24 hours for 5 days. on the fifth day, she complained about vision problems, i.e. central halo pattern vision loss. a deferoxamine-related macula edema was diagnosed. after discontinuing the medication, her vision gradually improved. after 3 months of follow up, her vision disorders recovered. although we reduced the dose of iron chelating agent, vision side effects also occurred in this esrd patient. this case taught us to perform a careful detection of vision problems before, during, and after deferoxamine therapy in order to prevent irreversible vision disorders. keywords: vision disorders; kidney failure, chronic; peritoneal dialysis; deferoxamine cmi 2019; 13(1): 35-40 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v13i1.1428 case report corresponding author chi-feng huang gorge.huang@gmail.com received: 24 march 2019 accepted: 19 september 2019 published: 27 september 2019 why do we describe this case vision disorders are common in end-stage renal disease (esrd) patients. they may be due to diabetic retinopathy and hypertensive retinopathy. ocular toxicity caused by deferoxamine is uncommon in esrd patient. if this condition is not promptly detected, permanent blindness may occur introduction vision disorders are a common problem in end-stage renal disease (esrd) patients. most patients under regular dialysis have diabetes mellitus and hypertension. in these subjects, vision problems are commonly related to diabetic retinopathy and hypertensive retinopathy. on the contrary, drug side effects are uncommon causes of vision disorders. in the past, aluminum (al) overdose or toxicity was also considered common in esrd patients. chelating agents have been successfully used to treat al-related disorders. among their side effects, there are mild local reactions at the injection site, anaphylactic reactions, cataracts, ocular toxicity, and neurotoxicity. case presentation parameter detected level normal range wbcs (n/l) 13,100 4000-11,000 neutrophils (%) 84.3 55-75 plts (n/l) 391,000 140,000-450,000 hb (g/dl) 8.3 11-16 ht (%) 24.7 34-50 serum iron (µg/dl) 116 50-175 tibc (µg/dl) 231 255-450 ferritin (ng/ml) 5480.8 14-165 uric acid (mg/dl) 7.3 2.3-6.6 bun (mg/dl) 64 8-20 cr (mg/dl) 11 0.4-1.2 na+ (meq/l) 136 136-144 k+ (meq/l) 4.2 3.5-5.1 ca++ (mg/dl) 8.2 8.9-10.3 po43(mg/dl) 6.0 2.7-4.5 alb (g/dl) 3.8 3.5-5.0 table i. laboratory analyses performed in 2018. alb = albumin; bun = blood urea nitrogen; cr = creatinine; hb = hemoglobin; ht = hematocrit; plts = platelets; tibc = total iron binding capacity; wbc = white blood cells a 54-year-old female patient had a history of esrd under regular continuous autonomic peritoneal dialysis (capd) for 6 years. she had also a history of hypertension, gout, and chronic glomerulonephritis, which led to chronic kidney failure. she was taking folic acid 5 mg 1 tablet every alternate day (qod), olmesartan medoxomil 20 mg 1 tablet daily, and calcium acetate 1 tablet thrice with meal. previously, she was given oral iron support 100 mg per day for 3 years due to chronic anemia and esrd status. blood transfusion was given 2 units per every 3 months for 3 years. serum iron level and transferrin levels were monitored every 3 months, according to the guidelines from kidney disease improving global outcomes (kdigo) [1]. she wasn’t given iron tablets due to high iron level in the last 3 years. blood transfusion was reduced to prevent further iron overload. we maintained hemoglobin level (hb) around 8 g/dl. in the outpatient department, high ferritin level (5480 ng/ml on 27 feb 2018) was noted. she also had complained about non-specific symptoms, like weakness and malaise. therefore, she was hospitalized for iron overload therapy on march 2018. table 1 reports laboratory data. a 54-year-old female patient had a history of esrd under regular continuous autonomic peritoneal dialysis (capd) for 6 years. she had also a history of hypertension, gout, and chronic glomerulonephritis, which led to chronic kidney failure. she was taking folic acid 5 mg 1 tablet every alternate day (qod), olmesartan medoxomil 20 mg 1 tablet daily, and calcium acetate 1 tablet thrice with meal. previously, she was given oral iron support 100 mg per day for 3 years due to chronic anemia and esrd status. blood transfusion was given 2 units per every 3 months for 3 years. serum iron level and transferrin levels were monitored every 3 months, according to the guidelines from kidney disease improving global outcomes (kdigo) [1]. she wasn’t given iron tablets due to high iron level in the last 3 years. blood transfusion was reduced to prevent further iron overload. we maintained hemoglobin level (hb) around 8 g/dl. in the outpatient department, high ferritin level (5480 ng/ml on 27 feb 2018) was noted. she also had complained about non-specific symptoms, like weakness and malaise. therefore, she was hospitalized for iron overload therapy on march 2018. table 1 reports laboratory data. for iron overload study, hepatic iron concentration was not measured because not available in our hospital. deferoxamine test was not performed because aluminum toxicity was rare in the current dialysis setting and with frequent blood transfusion therapy. her vital signs were as follows: body temperature 36.6°c, pulse rate 76/min, blood pressure 136/89 mmhg. general examination was unremarkable except peritoneal dialysis (pd) catheter at the left lower quadrant of the abdomen. neither diffuse abdominal pain, nor abnormal mass were detected. her vision fields were all normal because she could do pd exchange by herself. we also consulted a hematologist for dosage of iron chelating therapy, who suggested to use deferoxamine 1-gram intravenous drip for 24 hours for 5 days. she didn’t have any discomfort during the first 3 days of therapy. on the fifth day, she complained about vision problems, which she noted during pd exchange. she had already complained about the halo vision impairment on the fourth day, and color blindness was noted. her visual field defect progressed. an ophthalmologist was consulted for the vision problems. after examination, macula edema was impressed, and it was suggested to stop deferoxamine therapy. the ophthalmologist suspected that the visual problem was related to deferoxamine injection. fundoscopy and optical coherence tomography (oct) confirmed macula edema (figures 1 and 2). we immediately discontinued intravenous drip therapy and performed frequent assessments of her vision condition during hospitalization. her vision condition improved before discharge, when she could again exchange her pd dialysate fluid by herself. follow-up visits were arranged by ophthalmologist. oct was done one month after discharge, then 5 months after discharge. the macula edema of both eyes recovered, and vision condition improved. figure 1. fundoscopy findings revealed irregularly increased or decreased background. figure 2. optical coherence tomography (oct) revealed granular hyperreflective deposits, that were detected in the subretinal space. what should the clinician ask him/herself or the patient? first, the sudden onset of vision problems should suggest to investigate blood pressure, trauma, or progress of vision loss if there is no obvious cause, the specialist should be consulted check the medications that may have resulted in the sudden vision problem if the problem is due to medication, stop it immediately and perform a proper follow-up discussion there is a myriad of diseases that affect both the eyes and kidneys (oculorenal syndromes) [2]. in our clinical practice, half of dialysis patients have underlying diabetes mellitus, mainly accompanied by diabetes retinopathy and glaucoma [3]. hypertensive retinopathy may also result in vision disorders. vision problems in dialysis may also be due to the retinal vessel’s stenosis or occlusion. in addition, the side effects of medications should be considered as one of the causes of vision disorders. among the ocular problems in chronic kidney disease and hemodialysis there are: glaucoma; metastasis calcification of cornea and conjunctiva; band keratopathy; superior limbic keratoconjunctivitis; cataracts; retinal detachment; macular leakage; retinal hemorrhage; drug toxicity; and optic neuropathy (anterior ischemic neuropathy or uremic optic neuropathy) [3]. malignant hypertension can result in acute, substantial loss of vision owing to ischemic optic neuropathy and severe maculopathy. this condition may be checked through fundus examination [4], and an aggressive control of blood pressure results in a gradually recover of retinopathy. diabetic retinopathy is present in almost all type 1 diabetes patients with nephropathy, whereas only 50-60% of patients with type 2 diabetes with proteinuria have retinopathy [5]. blindness due to proliferative retinopathy or maculopathy is approximately five times more frequent in type 1 and type 2 diabetic patients with retinopathy than in normoalbuminuric patients. deferoxamine (dfo) is one of the medications used to treat aluminum intoxication, even though in the current practice it is not very frequent, while iron overload is more common. dfo chelates aluminum in dialysis patients, and iron in dialysis or hemosiderosis patients. it has high affinity for ferric iron, thus removing iron from hemosiderin, ferritin, and transferrin. in peritoneal dialysis patients, dfo can be given by intravenously or intraperitoneal route, resulting in similar iron clearance degrees. iron-deferoxamine complex is a water-soluble middle molecule range, thus it can clear more efficiently during peritoneal dialysis. it may have several side effects: hypotension, anaphylaxis, and hearing disorders. this medication has been associated with retinal toxicity in some case reports [3,6-8]. ocular toxicity can occur in patients with normal renal function and dialysis patients. typically, patients complain of decreased visual acuity, color blindness (yellow-blue axis), or night blindness. although these effects are often reversible, some patients experience persistent visual impairment secondary to dfo administration [3]. the mechanism of retinal damage is unknown, but studies have shown pigmentary retinal degeneration [6,7]. some articles reported optic neuritis and/or macula involvement [9]. decreased visual acuity and abnormal pigmentation were first recognized in two thalassemic patients [10]. a study on dialysis population treated with dfo showed that 33% of patients have macular changes, that involved peri-macular pigmented deposits, and these findings did not have a significant correlation with the total administered dose or the method of dfo administration [11]. while the incidence of dfo-induced ocular toxicity in patients with normal renal function varies between 0% and 4%, in hemodialysis patients the incidence is higher, affecting 17% to 73% of subjects. most, but not all, ocular toxicities may resolve. risk factors for visual loss in dfo retinopathy includes [3]: blood-retinal barrier breakdown associated with diabetes; rheumatoid arthritis; renal failure; and metabolic encephalopathy. for visual testing, functional testing should include electrophysiology, visual field, and microperimetry. for structural abnormalities, fluorescein angiography and oct can be used [3]. fundus autofluorescence imaging is a pre-requisite for identifying specific high-risk characteristics. oct may help detecting extent and location of different retinal changes. dfo retinopathy is always bilateral, but asymmetrical in fundus autofluorescence finding. it may have different patterns [12]: minimal change pattern (56%); focal pattern (17%); patchy pattern (16%); and speckled pattern (11%). there is no association between pattern type and duration of dfo treatment. the area of increased fundus autofluorescence signal indicated diffuse accumulation of autofluorescent fluorophores within a thickened retinal pigment epithelium-bruch membrane complex or also focal accumulation of autofluorescent outer segment-derived retinoid products in the subretinal space. in early stage of disease, oct usually shows only focal thickenings or bumps of the retinal pigment epithelium, resembling basal laminar drusen. as the disease progresses, the coalescence of these bumps of pigmented material appears on oct as thick and hyperreflective dome-shaped lesions that disrupts the architecture of the overlying outer retinal layers. in advanced stages, frank retinal pigment epithelium and photoreceptors atrophy may develop in the macula, as well as migration of hyperreflective subretinal deposits towards the outer plexiform layer interrupting the overlying external limiting membrane [12]. there is no available treatment for patients with dfo retinopathy other than drug discontinuation or dose reduction. in one review article, dfo administration dose has not exceeded 50 mg/kg of body weight in patient with iron overload [3]. in our case, despite the fact that the dose of dfo did not exceed 50 mg/kg, vision problems occurred. she was alert and could explain her complaint well. but in elderly or bed-ridden status patients, vision problem may go undetected. in esrd patients, frequent blood transfusions and iron therapy (per os and i.v.) are performed. therefore, it is necessary to monitor the patient vision condition, after the injection of dfo. if vision disorders are not noticed early, a permanent damage of retina may occur, as long as permanent vision loss. in addition, before starting iron chelation therapy, clinicians should consider other markers of iron overload together with ferritin (liver iron concentration, transferrin saturation, deferoxamine test) in order to minimize the toxic side effects due to iron chelators. conclusion in conclusion, deferoxamine is the most important drug for the treatment of hemosiderosis secondary to long-term treatment with frequent blood transfusions or long-term iron therapy. however, sight-threating retinopathy may occur after dfo therapy. there is no gold standard identification of ocular toxicity in dfo therapy. among the patients at highest risk, there are those affected by diabetes, renal failure, rheumatoid arthritis, and metabolic encephalopathy. in renal failure patients under regular hemodialysis or peritoneal dialysis, iron overload can occur due to iron therapy and frequent blood transfusions. aluminum intoxication can also be effectively treated with dfo. most dialysis patients suffer from asthenia, weakness, diabetic, and other elderly-related disorders, among which poor vision. clinicians need to keep in mind the possible adverse effects of dfo therapy, in order to avoid permanent visual loss. key points visual problem is not uncommon in esrd patients iron overload is also common in esrd patient due to iron supplement and frequent blood transfusion for chronic anemia early detection and daily assessment of vision problems after dfo are needed to prevent permanent damages to the retina after discontinuing the medication, visual problems will resolve gradually afterwards, follow-up with oct visits should be performed for at least one year fundus autofluorescence imaging is a pre-requisite for identifying specific high-risk characteristics. oct may have clinical usefulness in detecting extent and location of different retinal changes funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interest the author declares he has not competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. kidney disease improving global outcomes (kdigo). anemia work group. kdigo clinical practice guideline for anemia in chronic kidney disease. kidney int suppl 2012; 2: 279-335. available at https://kdigo.org/wp-content/uploads/2016/10/kdigo-2012-anemia-guideline-english.pdf (last accessed september 2019) 2. izzedine h, bodaghi b, launay-vacher v, et al. oculorenal manifestations in systemic autoimmune diseases. am j kidney dis 2004; 43: 209-22; https://doi.org/10.1053/j.ajkd.2003.10.031 3. evans rd, rosner m. ocular abnormalities associated with advanced kidney disease and hemodialysis. semin dial 2005; 18: 252-7; https://doi.org/10.1111/j.1525-139x.2005.18322.x 4. shukla d, virani ay. reversible loss of 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italia s.p.a., bristol-myers squibb srl, cd pharma group srl, crems srl, csl behring spa, fondazione charta, fondazione the bridge, hps-health publishing & services srl, italfarmaco s.a., janssen cilag spa, mylan italia srl, roche s.p.a. rossella iannone is editor of cmi journal. she does not have any personal conflict of interest to declare. she works at seed medical publishers, that in 2019 has worked with adres srl, aeroporti di puglia s.p.a., amgen srl, bayer spa, biogen italia srl, boehringer ingelheim italia s.p.a., bristol-myers squibb srl, cd pharma group srl, crems srl, csl behring spa, fondazione charta, fondazione the bridge, hps-health publishing & services srl, italfarmaco s.a., janssen cilag spa, mylan italia srl, roche s.p.a. enzo cappelluti is the layout editor of cmi journal. he does not have any personal conflict of interest to declare. he works at seed medical publishers, that in 2018 has worked with adres srl, aeroporti di puglia s.p.a., amgen srl, bayer spa, biogen italia srl, boehringer ingelheim italia s.p.a., bristol-myers squibb srl, cd pharma group srl, crems srl, csl behring spa, fondazione charta, fondazione the bridge, hps-health publishing & services srl, italfarmaco s.a., janssen cilag spa, mylan italia srl, roche s.p.a. cmi 2019;13(1)49-51.html remote patient monitoring: a plus for dialytic efficiency silvio borrelli 1, vittoria frattolillo 1, roberto minutolo 1, michele provenzano 2, gennaro argentino 3, maria rita auricchio 4, giovanni somma 4, toni de stefano 1, giuseppe conte 1, carlo garofalo 1, luca de nicola 1, maura ravera 5 1 university of campania “luigi vanvitelli”, nephrology unit, napoli, italy 2 university magna graecia, nephrology unit, catanzaro, italy 3 ospedale del mare, nephrology unit, napoli, italy 4 hospital “san leonardo”, nephrology unit, castellammare di stabia (na), italy 5 ircss university hospital of “san martino”, division of nephrology, dialysis and transplantation, genova, italy cmi 2019; 13(1): 49-51 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v13i1.1451 editorial corresponding author silvio borrelli md nephrology and dialysis unit, med school, university of campania “luigi vanvitelli” po s.m.d. p. incurabili, via m. longo 50 80138 napoli, italy phone/fax: +39-081-2549405 dott.silvioborrelli@gmail.com received: 5 november 2019 accepted: 6 november 2019 published: 26 november 2019 peritoneal dialysis on 15th august 2019, the new york times published an article entitled “the challenges of home dialysis”, describing how every day elderly patients “fight” to survive at home [1]. the article highlighted the major challenge launched by donald trump: in us by 2025, 80% of new patients with end stage kidney disease (eskd) will be treated by dialysis at home or will receive a transplant [2]. the difficulties of this challenge become even more significant if we consider that the worldwide number of eskd patients has been growing, due to ageing of population and increased prevalence of comorbidities [3], and that, currently, incident eskd starting in us with peritoneal dialysis (pd) and home hemodialysis (hhd) account for 10% and 2% of whole incident eskd population, respectively [4]. these numbers are not different from those of other western countries, where the percentage of new pd patients ranges between 3-20% [5]. this low prevalence is surprising, if we take into consideration the benefits of pd as compared to in-center hemodialysis (hd). indeed, pd may be associated with an improved survival versus hd, at least in the first dialysis year, is less expensive, is associated with longer preservation of residual kidney function (rkf) and better quality of life [6]. all these reasons candidate pd as first-choice in the treatment of elderly eskd patients in the next future, possibly with an incremental approach, that allows to maintain rkf longer than full dose [7]. however, there are several obstacles to pd diffusion including structural, economical, organizational, and psycho-social factors. often nephrologists’ reluctance and/or patients’ fear limit pd penetration. indeed, many nephrologists are reluctant to leave patient alone, because of poor compliance or inefficacy of their self-care. on the other hand, patients may not feel confident with pd or may be afraid of adverse events. telemedicine novel technologies, such as remote patient monitoring (rpm) may help at overcoming these psycho-social barriers, thus increasing pd diffusion. telemedicine (tm) is a broad definition that describes the exchange of medical information between the healthcare providers and patients in order to improve the management of chronic patients by monitoring them at home with mobile medical devices that collect data about clinical parameters (blood sugar levels, blood pressure or other vital signs). however, currently tm has not yet found wide spread among dialysis patients [8]. from its beginning, tm has been designed to put into communication patients living in far places or in rural areas with small hospitals. in the nineties, pd was the preferred renal replacement therapy in the rural areas of canada, suggesting that the first field of interest of tm for pd patients could be the diffusion in remote locations [9]. indeed, the first experiences of tm in dialysis patients concerned peripheral hd centers, which were connected to central hospital by videoconferencing [10]. then, gallar et al. reported 2-year experience with video-dialysis in pd patients, showing that video-dialysis allowed reduction of hospitalization rate and days of hospitalization in spite of higher costs related to the purchase of instrumentations [11]. more recently, viglino et al. have reported a 20% increase of pd uptake among new esrd patients in 10 years (2009-2019) by use of video-assistance, allowing to use pd even in those patients who could not do it alone due to physical, cognitive or psychological barriers [12]. remote patient monitoring integration more recently, a system of rpm has been put in the cyclers for automated peritoneal dialysis (apd) to facilitate the communication between patients and healthcare professional. these technologies provide a two-way real-time communication, thus allowing a quick intervention of healthcare provider to solve clinical problems. for this purpose, the cycler software provides simple reports of treatments concluded by patients, in which any problems are reported by alarm systems (e.g.: red or yellow flags). by this way, healthcare providers can remotely assess the compliance to the pd schedule, and accordingly modify device setting and/or treatment schedule. rpm has several potential benefits. first, it may increase compliance to the pd schedule. according to the results of a recent review, the compliance to pd schedules ranged from 3 to 53% [13]. a retrospective study in 92 pd patients reported that non-compliance, defined as performance of less than 90% of dwells prescribed, was detected in 30% and was associated with higher risk of switch to hd due to uremia symptoms, all-cause death, and hospitalization [14]. second, the care team may readily assess the numbers and types of alarms at the end of each treatment, to diagnose and troubleshoot solutions to various clinical and/or technical problems, reduce the need in center visits and allow a greater personalization of treatment based on the performance of catheter [14]. therefore, rpm may allow to change medical attitude from reactive (e.g.: patient realizes to have a problem, then he calls medical staff) to pro-active (e.g. healthcare provider detects a problem, then he calls the patients, who could not yet realize to have it). this capability of rpm allows an earlier diagnosis of problems as well as implementation of timely solutions. in a recent observational study, 43 apd patients using rpm were compared with an historical cohort of 42 no-rpm patients, showing that the number of prescription modifications was doubled in rpm group, proving a greater possibility of intervening on the pd schedule. as consequence of these modifications, nocturnal alarms and hospital visits were significantly lower in rpm patients vs no-rpm patients. notably, the authors also showed a significant reduction of time spent for visits both of patients (4800 minutes) and medical personnel (3673 minutes for physician and 2647 for nurse); furthermore, the distance traveled by patients in the case of rm-apd was reduced by 1134 km with a saving of € 9720, which added to saving of € 9130 for logistics and € 5810 for medical personnel [15]. similarly, the retrospective study of sanabria et al. showed that rpm was associated with significant reductions in hospitalization rate and hospitalization days [16]. in a simulation study based on the nephrologists’ experience, the authors estimated that rpm could potentially save $ 1947 per apd patient in the u.s., $ 871 per apd patient in germany, and $ 571 per apd patient in italy [17]. conclusions rpm is a great opportunity to improve the efficiency of home dialysis by increasing pd acceptance because it reduces non-adherence and alarms discomfort and personalizes therapy. earlier diagnosis and fast trouble-shooting may improve the quality of life and the prognosis of pd patients. however, we need more studies proving that rpm is a “plus” for dialysis efficiency. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests all authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. graham j. the challenges of home dialysis dialysis at home takes discipline, skill, will and support. aug. 15, 2019 the new york times. available at https://www.nytimes.com/2019/08/15/well/live/the-challenges-of-home-dialysis.html (last accessed november 2019) 2. contact: hhs press office. hhs launches president trump’s ‘advancing american kidney health’ initiative. july 10, 2019. available at 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https://doi.org/10.1089/tmj.2017.0046 cmi 2020;14(1)39-44.html myeloid sarcoma involving kidneys: from diagnosis to treatment. case report and literature review francesca guidotti 1, angelo gardellini 1, maddalena feltri 2, michelle zancanella 1, vittoria saccà 1, luciana ambrosiani 2, mauro turrini 1 1 division of hematology, department of medicine, valduce hospital, como, italy, 2 department of pathology, valduce hospital, como, italy abstract myeloid sarcomas (ms) are rare extramedullary hematological tumors which generally occur during the natural course of acute myeloid leukemia or chronic myeloid leukemia. rarely, their onset precedes peripheral blood and bone marrow manifestations of disease. common sites of involvement are skin, bone, soft tissue, lymph nodes, reproductive or digestive organs, and central nervous system. herein, we report the case of a 72-year-old man affected by jak2 v617f mutated myeloproliferative neoplasm who developed ms involving collecting system of both kidneys. ms and ms-related obstructive nephropathy were the first signs of the acute evolution of a known chronic hematological malignancy, preceding by some weeks the onset of leukocytosis. keywords: sarcoma; leukemia, myeloid, acute; kidney cmi 2020; 14(1): 39-44 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v14i1.1460 case report corresponding author francesca guidotti francesca_guidotti@yahoo.it received: 29 february 2020 accepted: 5 may 2020 published: 15 september 2020 why do we describe this case myeloid sarcoma is a rare disease and standard diagnostic and therapeutic guidelines are lacking. it may involve many sites, thus making the diagnosis challenging, especially when its onset precedes the hematological disease or its evolution. in addition, the involvement of kidneys has been rarely described and may lead to important complications, thereby enhancing the importance of a timely diagnosis introduction myeloid sarcoma (ms), also known as “granulocytic sarcoma” or “chloroma”, is a solid extramedullary tumor mass composed of malignant primitive myeloid cells. by definition, the infiltrates efface the underlying tissue architecture. in the 2016 revision to the world health organization classification of myeloid neoplasms and acute leukemia, ms is described as a unique clinical presentation of any subtype of acute myeloid leukemia (aml). the etiology of ms is still unknown. myeloid sarcoma may present de novo, accompany peripheral blood and marrow involvement, present as relapse of acute myeloid leukemia, or as progression of a prior myelodysplastic syndrome (mds), myeloproliferative neoplasm (mpn), or mds/mpn. seldom precedes ms the development of the hematologic disease [1]. because of its rarity, ms is a diagnostic and therapeutic challenge. the differential diagnosis is with any atypical cellular infiltrate. ms may occur at any site, leading to very varied clinical presentations, but most commonly it affects lymph nodes, skin and soft tissues, bone, testes, gastrointestinal tract, and peritoneum. a high index of suspicion is required to diagnose ms, and a combination of radiology, histology, immunophenotyping, and molecular analyses is essential for risk stratification and treatment planning. ms may be categorized according with the degree of myeloid differentiation as: well-differentiated subtype; poorly differentiated subtype; and blastic subtype. immunohistochemistry shows cd68-kp1 as the most commonly expressed marker, with a variable expression of myeloperoxidase, cd117, cd99, cd68/pg-m1, lysozyme, cd34, terminal deoxynucleotidyl transferase, cd56, cd61, cd30, glycophorin a, and cd4. mss have several radiological features. enhanced homogenous soft tissue masses at multiple sites strongly suggests the presence of an ms, especially when there is an underlying hematological disorder. besides conventional radiologic investigations, positron emission/computed tomography (pet-ct) is a useful diagnostic tool in determining the site of ms [2]. treatments for ms mainly include surgical resection, local radiotherapy, and systemic chemotherapy. treatment response and median survival are not affected by age, gender, anatomical site, tissue type, phenotype, cytogenetics, and potential aml or myeloproliferative disease [3]. surgical resection and local radiotherapy are not curative, since they do not delay the transformation of ms to aml or improve prognosis. however, these two approaches may be useful and indicated for symptomatic lesions or tumors causing local organ dysfunction or obstruction. systemic chemotherapy using aml-like regimens is the first choice of treatment and should be started early, even in non-leukemic disease. chemotherapy may be successful in terms of obtaining disease remission and can also prolong the survival period [4]. allogneic hematopoietic stem cell transplantation has demonstrated promising results, particularly in patients who achieved complete remission with aml-induction protocols. the prognosis of ms is poor ,with a short survival time. however, it largely varies among different studies. al-khateeb et al. reported a median survival of 24.7 months [3]. li et al. described a mean survival time of 47.3 months, median survival time of 14 months, and the 1-, 2and 5-year survival rates of 56.0%, 36.1%, and 17.3% [5]. early diagnosis and appropriate treatment strategies should be implemented before the disease progresses to aml, thereby ensuring better prognosis. herein, we describe a case of ms with unusual affected site, involving collecting system of both kidneys. the patient was affected by myeloproliferative neoplasm and ms onset preceded the classic leukemic manifestations. diagnostic and therapeutic issues are discussed. case presentation in october 2016, a 72-year-old man was addressed to our centre because of the detection at routine examination of splenomegaly and thrombocytosis. the patient had many comorbidities such as hypertension, type 2 diabetes, chronic renal failure, and chronic ischemic cardiopathy, which requested the placement of multiple medicated stents. splenomegaly was confirmed by abdomen ultrasound together with thrombocytosis and leucocytosis, without other abnormalities observed in the complete blood count (table i). parameter october 2016 (mpn diagnosis) february 2018 (admission to hospital) march 2018 (aml evolution) normal values hemoglobin (g/dl) 17.3 8.3 7.2 14-18 wbc (n × 109/l) 16.91 7.08 17.4 4-10.8 neutrophils (n × 109/l) 14.2 3.7 8.2 1.5-8 platelets (n × 109/l) 460 134 14 130-400 c-reactive protein (mg/l) 190. 12 < 5 creatinine (mg/dl) 1.42 2.32 2.91 0.84-1.25 table i. laboratory analyses performed at different timepoints. aml = acute myeloid leukemia; mpn = myeloproliferative neoplasm; wbc = white blood cells figure 1. abdominal computed tomography showing bilateral kidney solid lesions (more evident at the left kidney) together with the known splenomegaly. he was further investigated and a mutation of jak2 v617f was detected. bone marrow evaluation was not performed because of the hemorrhagic risk due to double anti-platelet therapy. the patient was diagnosed with a jak2-mutated mpn and he started cytoreduction with hydroxyurea with the aim to maintain platelets below 400 × 109/l. periodic follow-up was regularly performed and antiplatelet therapy continued. in february 2018, the patient went into emergency department and was admitted to hospital because of persistent fever and worsening of renal function. laboratory test showed a moderate normocytic anemia with increased inflammatory indexes and normal white blood cells (wbc) and platelet count (table i). blood cultures and legionella and pneumococcus urinary antigens were negative, while a chest x-ray revealed a left parenchymal thickening associated to pleural effusion. broad spectrum antibiotic therapy with ceftriaxone and levofloxacine was started. because of the worsening of renal function, an abdomen ultrasound (us) was performed and revealed left ureteronephrosis with presence of a suspected mass at the pyeloureteral joint. a concomitant splenomegaly was recorded with a spleen diameter of 22 cm. the ct scan confirmed a hyperdense lesion which wrapped the left caliceal cavities (figure 1). a similar finding, though less evident, was described at the right kidney. imaging studies were repeated at the end of antibiotic therapy after resolution of fever and normalization of c-reactive protein values, but the lesion appeared unmodified. in the following days, a rapid increase of ldh and the onset of leucocytosis with a 2% of cd33+ cd34cd117+ hla-dr+ blasts in peripheral blood smear was observed. therefore, a bone marrow evaluation and a us-guided needle biopsy of the left renal mass were performed. both the histology profiles were consistent with acute monocytic leukemia (figure 2). at bone marrow aspiration, 25-30% of cellularity was made by blasts with the following immunophenotype: cd45+/cd13+ cd33+ cd36+ cd38+ cd117+ hla-dr+. as the patient was not eligible for intensive chemotherapy or surgery, treatment with low-dose cytarabine was started. however, general conditions rapidly worsened with the development of acute renal failure and subsequent death. figure 2. pelvic and bone marrow histology showing myeloid blastic cells. a) cd117 immunohistochemical analysis for blasts—bone marrow biopsy, 40×; b) cd117 immunohistochemical analysis for blasts—pelvic mass biopsy, 40× c) lysozyme staining—bone marrow biopsy, 40×; d) lysozyme staining—pelvic mass biopsy, 40× discussion myeloid sarcoma is a rare entity which may occur in the context of a myeloid neoplasia or rarely precede it. presenting symptoms are varied and depend on the site of involvement, most frequently skin, bone, soft tissue, lymph nodes, reproductive or digestive organs, and central nervous system. to our knowledge, only few cases of renal ms have been described in literature and we summarized them in table ii [6-9]. other sporadic cases were published in case series, but no detailed clinical information was provided. diagnosis leukemic evolution renal function treatment outcome park, 2003 [6] non-leukemic renal ms no normal aml-like chemotherapy cr agrawal, 2011 [7] renal ms cml blast crisis (mixed phenotype) after 3 months normal none lost to follow-up palanisamy, 2015 [8] donor-derived renal ms no impaired nephrectomy + aml-like chemotherapy cr palanisamy, 2015 [8] donor-derived renal ms no impaired nephrectomy cr wang, 2017 [9] ms (intestine, kidneys, mesenteric lymph nodes) aml after 3 months not reported aml-like chemotherapy cr table ii. literature review of renal myeloid sarcoma. aml = acute myeloid leukemia; cml = chronic myeloid leukemia; cr = complete remission; ms = myeloid sarcoma in our case, the patient was previously affected by a jak2-mutated chronic myeloproliferative neoplasm and the appearance of kidney ms was the first sign of leukemic evolution, which was overt only some weeks later. this presentation is in line with literature data, that showed that non-leukemic ms almost invariably progress to acute leukemia with a mean duration of 10 months or less. when ms occurs before the onset of overt leukemia, it is often misdiagnosed, especially when the involved site is not common, as in our case. histologic approach is always needed to confirm a radiologic suspicion. ms radiologically appear as soft tissue masses on plain ct and as well-defined homogeneously enhanced masses on enhanced ct. differential diagnoses of renal ms on ct mainly include insignificantly enhanced renal cell carcinomas, renal infarctions, and renal lymphomas. unlike renal ms, insignificantly enhanced renal cell carcinomas are usually singular and prone to hemorrhage, necrosis, and cystic changes in the lesions. renal infarctions are usually wedge-shaped with no mass effect and enhanced cortical rim signs representative of cortical rims and renal vessel abnormalities on the lesion side may be observed on contrast-enhanced ct images. the ct characteristics of renal lymphomas include multiple lesions, which appear as masses with mild homogenous enhancement, and rarely with hemorrhage, necrosis, cystic changes, and calcification in the lesions. these characteristics complicate the differential diagnosis of renal ms. when ms occurs as a presenting feature before the onset of overt leukemia, it is often misdiagnosed as lymphoma. a review of 72 patients of non-leukemic ms showed that 35 patients (47%) were initially misdiagnosed, most often (31/35) as malignant lymphoma. the morphological similarity of blasts with lymphoma cells, especially in the blastic and undifferentiated variant of ms and its rarity, resulting in low index of suspicion, have been reported as the main reasons for the misdiagnosis in such cases. the majority of extramedullary blastic tumors can be classified as pre b, pre t, or ms using a panel of monoclonal antibodies including myeloid (mpo, lysozyme, cd68, and cd43), together with b lineage markers (cd20 and cd79a) and t lineage markers (45ro and cd3) [10]. therefore, correct pathological diagnosis at the right time is a must and requires the pathologist to maintain a high index of suspicion of ms when viewing a lesion that resembles large cell lymphoma, carrying out special studies with a complete panel of antibodies. conclusion in conclusion, our case highlights the possibility of kidney involvement by ms before leukemic manifestation of disease. the radiological examination shows kidney lesions as soft tissue masses, which generally present a homogenous enhancement. ms should be considered in the differential diagnosis, and an aspiration biopsy should be performed to provide a definitive pathological diagnosis. if ms is diagnosed, systemic chemotherapy is crucial to recovery, otherwise the disease may progress rapidly. imaging is helpful in the differential diagnosis of ms, as well as in evaluating and monitoring the response of patients to treatment. key points in patients with a history of myeloid neoplasm, even in the absence of other evidence of active disease, ms should be considered in the differential diagnosis of collecting system tumors. histologic confirmation of the nature of a renal mass is needed in order to start the appropriate treatment although rare, early and accurate multidisciplinary diagnosis is important in order to start treatment of ms as soon as possible to increase survival rate further studies are needed to investigate the clinical features and pathogenesis of this condition consent for publication the consent for publication was obtained from a relative of the patient here described. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. arber da, orazi a, hasserjian r, et al. the 2016 revision to the world health organization 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2020) the editorial staff of clinical management issues (cmi) would like to thank all the reviewers who, with their support and their active cooperation, have contributed to improving the scientific rigor, precision and accuracy of the contents. riccardo asteggiano stefania chetcuti zammit rosario ciliento johnny mahlangu pier mannuccio mannucci adrian meehan raffaele pezzilli aurel popa-wagner marco sforza pieter van der bijl umberto vitolo cmi 2019;13(1)53-60.html novel therapies in hbv infection giuseppe foti 1, vincenzo scaglione 2, carlo torti 2 1 unità operativa malattie infettive, grande ospedale metropolitano “bianchi-melacrino-morelli”, reggio calabria, italy 2 unità operativa malattie infettive e tropicali, dipartimento di scienze mediche e chirurgiche, università degli studi “magna graecia” di catanzaro, catanzaro, italy abstract current treatments for chronic hepatitis b are able to provide a sustained suppression of the viral replication (i.e., persistent undetectability of hbv dna). this leads to improvement of liver fibrosis and reduction of clinical complications. however, hepatitis b surface antigen (hbsag) persists in most patients, probably justifying a still increased risk of hepatocellular carcinoma. indeed, obtaining a complete and sterilizing cure with elimination of the covalently closed circular dna (cccdna) or silencing its activity is still a holy grail. new molecules are under evaluation to suppress viral replication acting on multiple phases of the hbv cycle or improve specific immune response against hbv. molecules acting on hbv cycle have already showed encouraging results, such as entry inhibitors, small interfering rnas (sirnas), capsid assembly modulators (cams), nucleic acid polymers (naps). also, promising results have been observed with immune-modulators, therapeutic vaccines, and other immune-based approaches. among these, toll-like (tlr) or anti-programmed receptor agonists antibody 1 of the cell death protein (pd1) (e.g., nivolumab) are most promising. this paper describes newer drugs appearing on the horizon, including antiviral drugs targeting different steps of the hbv life cycle and therapeutic approaches based on immune-modulation. keywords: antiviral therapy; hepatitis b surface antigen; nucleos(t)ide analogs; pegylated interferon; covalently closed circular dna; immune-modulatory therapy cmi 2019; 13(1): 53-60 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v13i1.1434 clinical management corresponding author giuseppe foti giuseppe.foti@ospedalerc.it received: 19 april 2019 accepted: 2 december 2019 published: 12 december 2019 introduction in contrast to the three main pandemic infectious diseases such as tuberculosis, malaria, and hiv/aids, mortality for viral hepatitis rose between 2000 and 2015, being mortality attributable to chronic hbv infection the most prevalent [1]. hbv infection is a major cause of liver cirrhosis and hepatocellular carcinoma (hcc). although hbv infection can effectively be prevented by vaccination, there is no eradicating cure for those who acquired the infection. the main clinical goals of therapy for chronic hepatitis b (chb) are: improvement of survival by preventing cirrhosis and end-stage liver diseases; improvement of patient quality of life (qol). in clinical practice, the most validated surrogate outcomes are: hbv dna suppression, hepatitis b e antigen (hbeag) clearance and relative sero-conversion, hepatitis b surface antigen (hbsag) loss and hbsab sero-conversion, aspartate transaminase (ast) and alanine transaminase (alt) normalizations, and histological improvement (i.e., fibrosis reduction) [2,3]. based on these data, three definitions of hbv cure are proposed, such as complete, functional and partial. complete cure is represented by undetectable hbsag in serum and eradication of hbv dna, including intrahepatic covalently closed circular dna (cccdna) and integrated hbv dna. functional cure is defined by sustained hbsag loss (with or without hbsab sero-conversion), undetectable serum hbv dna, persistence of cccdna in a transcriptional inactive status, and the absence of spontaneous relapse after cessation of treatment. lastly, partial cure is characterized by detectable hbsag, but persistently undetectable hbv dna in serum after a finite course of treatment [4,5]. current treatments for hepatitis b are pegylated-interferons (peg-ifns) and nucleos(t)side analogs (nas). peg-ifn can determine a sustained virological response (svr), but only in selected patients and in a small percentage of cases. moreover, peg-ifn can improve immune control of hbv infection, with satisfactory rates of hbeag sero-conversion but only in few cases hepatitis b surface antigen (hbsag) is cleared, albeit in such cases hbv dna suppression is achieved [6,7]. use of nucleos(t)ide analogs achieves hbv dna suppression. however, their administration, in most cases, must be continued long-life. consistent data demonstrated that long-term control of hbv replication by the most potent drugs (entecavir—etv and tenofovir—tdf) improves liver histology, with a decreased risk of progression to cirrhosis, end-stage liver disease, hcc and improved long-term survival [8]. whilst these drugs obtain long-term suppression of hbv dna in plasma, they are not able to obtain elimination or stable silencing of the cccdna expression. this paper describes newer drugs appearing on the horizon, including antiviral drugs targeting different steps of the hbv life cycle and therapeutic approaches based on immune-modulation. probably, the most efficient use of these drugs is in combination. antiviral drugs targeting different steps of hbv life cycle entry inhibitors myrcludex b (myrb), also known as bulevirtide, is a lipopeptide derived by a portion of the pres1 domain of hbv l-surface protein. it blocks the sodium taurocholate co-transporting polypeptide (ntcp), which is an essential step for hbv entry [9-11]. this drug has initially been used for treatment of hbv/hdv co-infected patients, aiming at better control of hdv replication [12,13]. with this objective in mind, a multicenter, open-label, phase 2 clinical trial was conducted. in this trial, myrb significantly reduced hdv rna levels in serum and induced alt normalization [14,15]. although adverse events were reported mostly as mild or moderate, elevated plasma bile acid levels were found as a typical effect of this drug. this effect was due to blocking of ntcp mediated reuptake of circulating bile acids from the portal blood into the liver [16]. indeed, a prospective trial on 12 healthy volunteers treated with tdf and myrb showed substantially increased plasma bile acids but this was not associated with any clinical symptoms typically attributed to cholestasis such as pruritus or steatorrhea [17]. owing to its mechanism of action, it is unlikely that myrb will provide sustained hbsag decrease, at least when used alone. moreover, one can hardly conclude that this drug would provide significant benefits in terms of cccdna reduction. small interfering rnas (sirnas) small interfering rnas (sirnas) are small synthetic rna molecules able to recognize complementary sequences of viral messenger rna (mrna) and pregenomic rna (pgrna). this induces mrna degradation mediated by endonuclease enzymes. aro-hbv (jnj3989) was evaluated in a phase ii, multi-dose escalating study in patients with chronic hbv infection. this study showed that three monthly doses of aro-hbv, administered subcutaneously, resulted in a median reduction of circulating hbsag of approximately 2.0 log10 at the third month and all treated patients showed a reduction greater than 1.0 log10. the drug was well tolerated, with generally mild and self-limiting injection site adverse events in approximately 10% of cases [18]. arb-1467 was tested in another phase ii study, showing > 1 log10 reduction of hbsag in 7/11 study patients. hbsag reductions were dose-dependent, since they were greater with 0.4 mg/kg doses than with 0.2 mg/kg [19]. also in this case, given the post-transcriptional site of action, it is unlikely that cccdna reduction is achievable with the use of these drugs as mono-therapy. moreover, the number of patients studied was extremely limited, thus further clinical investigations are needed with both aro-hbv and arb-1467. capsid assembly modulators (cams) capsid assembly modulators (cams) are small molecules, heterogenic for chemical structure (phenylpropenamides and sulfamoylbenzamides), which inhibit hbv pgrna encapsidation, an essential step for the subsequent viral dna synthesis. in recent years, several cams have been studied such as abi-h0731, jnj-6379, and nvr 3-778. all three compounds led to a significant decline in hbv dna, but with smaller reductions of hbv rna and quantitative hbsag (qhbsag). importantly, nvr 3-778 was used in association with peg-ifn, leading to greater reduction of hbv dna [20-22]. nucleic acid polymers (naps) nucleic acid polymers (naps) are broad spectrum antiviral agents whose mechanism of action is not well defined. their antiviral activity in hbv infection may be due to blocking of hbsag release from hepatocytes. after a lead-in therapy with tdf, 40 patients were randomized into an experimental group (48 weeks of tdf + peg-ifn and rep 2139-mg or rep 2165-mg) or an adaptive control group (24 weeks of tdf + peg-ifn followed by 48 weeks of experimental therapy including rep 2139-mg or rep 2165-mg) [23]. the majority of participants (more than 80%) achieved either hbv dna <2000 iu/ml with normal transaminase levels or functional cure with undetectable hbsag and hbv dna. although a substantial proportion of patients showed transaminase flares, they were correlated with better treatment response, probably reflecting immune-clearance of infected hepatocytes. there results are encouraging, however since the drug may promote accumulation of hbsag into hepatocytes, it is unclear whether such accumulation is safe. indeed, hbsag could display oncogenic potential which may impact on risk of hcc over the long term [23-25]. candidate therapeutic strategies to target covalently closed circular dna (cccdna) inhibition of cccdna formation could be used in theory to eradicate hbv infection. however, many of the key steps in cccdna formation require host nuclear molecules like enzymes and nuclear histones [26,27], but targeting host cell molecules might have several adverse effects. more studies should be conducted to better understand if a virus-host protein interaction could be targeted without significant adverse events. once formed, cccdna can potentially be targeted by nucleases or transcription activator-like effector nucleases. the development of crispr-cas9 technology (clustered regularly interspaced short palindromic repeats) may be useful to edit hbv cccdna. preclinical experiments showed that crispr-cas9-based strategies determined mutations and deletions which functionally inactivated cccdna and were able to clear more than 90% of hbv dna [28,29]. control of the transcriptional activity could be obtained by silencing of cccdna through the induction of the host cell epigenetic machinery using general epigenetic modifiers. however this effect may be associated with adverse events on cell homeostasis. hbv x protein (hbx) is a therapeutic target of potential interest. it is implicated in cccdna stability and expression, interacting with damaged dna binding protein (ddb1), redirecting the ubiquitin ligase activity of the cul4-ddb1 e3 complexes against smc 5/6 complexes, therefore suppressing hbv transcription. hbx-ddb1 interaction may be used to block cccdna transcription and several molecules have been studied. pevonedistat, a nedd8-activating enzyme inhibitor, could restore smc 5/6 levels and suppress viral transcription and protein production in cultured hepatocytes [30,31]. nitazoxanide, a thiazolide agent already approved by the us food and drug administration for protozoan enteritis, showed efficient inhibition of the hbx–ddb1 interaction, restoring smc5 levels and suppressing viral transcription and protein production in cultured hepatocytes [30]. a pilot clinical trial in 9 patients showed undetectable hbv dna (<38 iu/ml) in 8/9 patients after 4-20 weeks of treatment [32]. in conclusion, while several mechanisms have been proposed to eradicate or silence cccdna expression (synthesis control, control of transcriptional activity and genome clearance), such strategies are limited by the stability of cccdna in host cells, and for the difficulty in targeting host molecules without producing significant adverse events. immune-modulators in chronic hbv infection, prolonged exposure to viral antigens is associated with functional impairment of the immune response against this virus, both systemically and locally within the liver [33]. therefore, development of drugs able to restore immune response against hbv may be very useful. however, since the liver milieu may be profoundly de-regulated in patients with chb, such immune-therapy strategies may not work. so, despite quite favorable data, it remains to be determined in which conditions immune-therapy should be pursued. it is possible that antiviral therapy should precede immune-therapy to reduce hbv dna and hence liver inflammation which may favor response to immune-therapy. also, treating patients at early stages of the infection when inflammation and fibrosis are still absent or mild (e.g., noninflammatory stages or immune-tolerance phase of the infection) may be beneficial. compounds for immune-therapy are already under study, acting either on nonspecific innate immunity or specific adaptive immunity against hbv. among the first group of compounds acting on nonspecific innate immunity, immune stimulators, such as inarigivir, and toll-like receptor agonists (tlr), such as gs-9620 (tlr7) and gls-9688 (tlr8) have been studied. among the second group of compounds, which may boost specific response, therapeutic vaccines (e.g., gs-4774) and other therapeutic approaches such as anti-programmed cell death protein 1 (anti-pd-1) antibodies (e.g., nivolumab) were object of important studies. probably, associations of these two types of drugs with or without antiviral therapy is the next step of hbv treatment if eradication of this infection is pursued. drugs acting on non-specific immune response inarigivir is a novel oral selective immune-modulator with associated antiviral activity. it acts as a retinoic acid-inducible gene-i (rig-i) agonist, inducing type i and type iii interferon (ifn) intracellular production in order to boost immune-response. also, a direct antiviral activity was observed through interference with hbv polymerase transcription [34]. a dose-related reduction of hbv dna and rna levels (0.58–1.54 log decrease) was observed in human trials, particularly in hbeag-negative patients. also qhbsag levels were reduced, 16/49 patients obtaining reduction in qhbsag levels at week 24 by more than 0.5 log [35]. activation of systemic innate or adaptive immune responses was also observed, especially with higher drug dosages [36]. the toll-like receptor (tlr) agonists promote up-regulation of type 1 interferon and other cytokines, activating natural killer cells and enhancing innate immunity against hbv. gs-9620 is a tlr7 agonist. strong antiviral activity was observed in hbv-infected chimpanzees and woodchucks, but this effect was transient. clinical trials on gs-9620 were conducted showing no side effects on humans but little antiviral activity. however, it is possible that this evidence is related to suboptimal dosages used in patients: 4 mg vs. 1 mg/kg in chimpanzees. dose-related expression of interferon-stimulated gene 15 (isg15) was also observed, but there was no significant decline of serum hbsag levels [37-39]. gs-9688, a potent and selective, oral, small-molecule agonist of tlr-8 was evaluated in a phase 1b clinical trial in patients with chronic virally suppressed chb. favorable immunological responses were observed (increase in il-12p40 and il1ra) but no significant changes of hbv replication were obtained [40]. drugs acting on specific immune response gs 4774 is a therapeutic vaccine engineered to activate an hbv-specific t cell immune response. it was experimented at three different dosages in six administrations for a total of 20 weeks in combination with oral antiviral therapy (oav), compared with a control group of oav only. efficacy was measured by hbsag decline from baseline to week 24. there were no significant differences among groups in the mean hbsag decline from baseline to week 24 or 48, although five hbeag-positive patients receiving gs-4774 experienced hbeag loss versus none in the control group. the treatment was generally safe and well tolerated, with no serious adverse events or discontinuations reported [41]. check point inhibitors (anti-pd-1) are able to determine a functional restoration of peripheral and intrahepatic exhausted hbv specific t cells. gane et al. conducted a phase1 clinical study in 8 patients treated with nivolumab with or without gs-4774 and observed that a single dose of nivolumab up to 0.3 mg/kg was well tolerated. a significant decline in qhbsag in patients receiving nivolumab was also observed, with no added benefit using also gs-4774 [42]. recently, another trial showed qhbsag reduction and in one patient becoming undetectable at week 20 even if an hepatitis flare was observed accompanied by a significant increase in peripheral hbsag-specific t cells [43]. human monoclonal antibodies and tcr/car-t cells promising results were obtained with monoclonal antibodies (mabs) and tcr/car-t cells. this approach is likely to be complementary to antiviral treatment and has been extensively reviewed by cerino et al. [44]. current evidence suggests that both t and b cell responses are necessary to obtain hbv eradication. supporting this hypothesis is that hbv vaccines and ab serum may protect exposed patients from new infections (e.g., newborns from infected mothers). however, this effect is only possible when vaccines and ab serum are given early, while impact of such strategies in patients already infected and with a viral reservoir already established into hepatocytes is not supported by data. importantly, current research aims at finding specific epitopes to be targeted more effectively. interestingly, a linear epitope (aa 119-125 of hbsag) may promote hbv clearance and block new rounds of infection [45]. also, in murine models, humabs targeting the ntcp-binding site of pres1 reduced hbv viremia and hbsag levels [46]. adoptive transfer of lymphocytes expressing engineered t cell receptors (tcrs) is a promising immunotherapeutic option which specifically targets antigens from viral-infected cells and tumors. these tcr-t cells may recognize hbv epitopes presented on infected hepatocytes and even hcc cells with hbv-dna integration in both experimental models and selected patients with hbv-related hcc relapses. however, safety concerns on possible irreversible structural and functional liver damage by cytotoxic tcr-t cells have limited the clinical usage of this immunotherapeutic approach. modified tcr-t cells to reduce cytotoxicity and life span of tcr-t cell could reduce this safety concern [47,48]. conclusions despite the numerous therapeutic approaches by using drugs targeting different steps of the hbv life cycle and immune-modulating strategies, to date there are no validated alternatives to current antivirals or peg-interferon. however, it is important to continue searching and experimenting new compounds. also, the way forward appears to be combination of drugs acting on different mechanisms (e.g., immune-therapy approach plus antivirals). with this objective in mind, more strategic studies should be conducted. lastly, we need to know what patients are better suited to achieve a functional cure. probably, patients at earlier stages of infections are the best candidates, implying that strategies to achieve earlier diagnoses should be pursued. until these possibilities are realistic, we may strengthen more on prevention, assuring vaccination and safe behaviors (e.g., safe sex) to the largest number of individuals as possible. key points mortality for complication or sequelae of viral hepatitis rose between 2000 and 2015, being hbv infection largely prevalent. interferon therapy, which is poorly tolerated due to frequent adverse events, is effective only in patients who are carefully pre-selected on the basis of predictive criteria (pre-therapy and stopping rules during therapy). the nas, although well tolerated should be administered life-long in most cases. the current anti-hbv therapies achieve a functional cure only rarely and complete cure characterized by destruction of the cccdna or stable silencing of its activity has not been demonstrated yet. therefore, new drugs ensuring functional cure are needed and not far away. probably, it is only through combination of different strategies (e.g., antivirals and immune-modulators) and by a careful selection of patients treated in the early stages of the hbv infection that we will move towards a new era in hbv treatment. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the author declare he has no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. who global health estimates 2015. deaths by cause, age, sex, by country and by region, 2000-2015. geneva: world health organization, 2016 2. easl. clinical practice guidelines on the management of hepatitis b virus infection. j hepatol 2017; 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gather other social information, e.g.: living environment; interactions with family and caregivers; patients’ lives at home [11]. the most significant question is whether telemedicine is comparable (“as good as”) to in person consultation in terms of outcomes and quality. in some non-inferiority studies, tele-psychiatric outcomes were deemed as not inferior to in person care in terms of diagnosis and treatment, decreasing length of hospital stays, improving medication adherence, and reducing symptoms in conditions such as posttraumatic stress disorder on an evidenced based level [2]. unfortunately, this comparison has not been made in other specialties. despite its attractivity, this tool has some obvious limitations: elderly or low-educated patients can experience difficulties in accessing web-based applications and using technology; clinicians are not able to physically evaluate patients and must rely on their symptom’s description; ethical and legal issues exist, since specific regulations on the application of telemedicine are lacking; reimbursement is not defined (should a virtual consultation be paid by the patient or reimbursed by national health services in the same amount as an in-person visit?). to overcome the limitation of physical distancing, strategies on how to perform a physical evaluation with telemedicine are developing. recently, an american multidisciplinary expert panel, published a practical guide on how to perform an orthopedic and neurological evaluation in a virtual consultation, where the patient has to be adequately instructed on how to prepare for the consultation (adequate dressing to enable the evaluation of the anatomical region of interest, room setting, instruments and tools which should be used to perform tests) and the physician trained to ask the patient to perform specific movements and maneuvers and to observe specific signs on the screen. as a practical example, a faber test to assess sacroiliac pathology can be performed by instructing the patient to cross leg and place ankle on opposite knee, then push the bent knee down with his hand [12]. conclusion it’s the author opinion that telemedicine will find its specific role in several medical specialties. in some cases, it will be the solution to maintain constant follow up with chronic patients, thus allowing to avoid long waiting lists and increasing patients’ comfort and satisfaction (as in the case of diabetes, cardiology, chronic pain management). for other specialties, it could be a sort of screening step, where, in short time, patients receive consultation and information on the need to perform specific exams before an in-person visit (e.g., orthopedic patients who receive the first consultation regarding a joint replacement). to prevent claims and ethical issues that would limit the usage of such a helpful tool, specific guidelines regarding data protection safety, informed consent, and professional liability should be developed (using already existing regulations such as the european general data protection regulation). in an era where resources are scarce, chronic illnesses are increasing due to the aging population and the improvement of treatments (which leads to increased survival and a wider number of chronic patients requiring timely follow up) and also patients’ needs and expectations are constantly increasing, telemedicine is a useful and attractive tool, which will never replace traditional patients’ evaluation, but may be a substantial added value to the healthcare system. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests dr. tinnirello has no conflict of interest to disclose regarding this work. references 1. mermelstein h, guzman e, rabinowitz t, et al. the application of technology to health: the evolution of telephone to telemedicine and telepsychiatry: a historical review and look at human factors’. j technol behave sci 2017; 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23: s205-s238 cmi 2020;14(1)51-59.html cerebral embolism beyond atrial fibrillation: interatrial block helena martínez-sellés 1, ana ayesta 2, manuel martínez-sellés 3 1 universidad complutense de madrid, spain 2 servicio de cardiología, hospital universitario central de asturias, oviedo, spain 3 servicio de cardiología, hospital general universitario gregorio marañón, universidad europea y universidad complutense, cibercv, madrid, spain abstract this paper is devoted to conditions that imply a risk for cerebral embolism beyond atrial fibrillation (af). we focus on advanced interatrial block (iab) and its relationship with stroke in elderly patients with no documented arrhythmias. advanced iab is manifested in the surface electrocardiogram (ecg) as a p-wave duration >120 ms plus biphasic morphology (positive and negative deflection) in leads ii, iii, and avf. several data suggest that af is not necessarily the leading cause of stroke, but rather a risk factor. in fact, a high stroke risk has been described even in the absence of af in patients with high cha2ds2vasc-score (congestive heart failure, hypertension, age ≥75 years [doubled], diabetes, stroke [doubled], vascular disease, age 65-74 years, sex category [female sex]). moreover, excessive atrial ectopy and short atrial runs also increase stroke risk. some of the previously mentioned stroke risk factors in patients without documented arrhythmias might be combined to determine thrombotic risk. that risk is particularly high in elderly patients with advanced iab, structural heart disease, cha2ds2-vasc score ≥3, and frequent ambient atrial arrhythmias. systematic screening for advanced iab in elderly patients can be performed with a simple surface ecg. advanced iab is a risk marker of stroke. keywords: stroke; anticoagulation; atrial fibrillation; risk factor; ecg; interatrial block cmi 2020; 14(1): 51-59 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v14i1.1462 clinical management corresponding author manuel martinez-sellés, servicio de cardiología, hospital general universitario gregorio marañón, calle doctor esquerdo, 46, 28007 – madrid, spain mmselles@secardiologia.es received: 5 march 2020 accepted: 10 september 2020 published: 8 october 2020 introduction interatrial block (iab) is a cardiac rhythm dysfunction first described in 1941 [1] that leads to abnormal activation of left atrium [2], atrial fibrosis, atrial fibrillation (af), and stroke. in this review, we focus on advanced iab as a significant cause of stroke, regardless of the presence of af. several data suggest that af is not necessarily the leading cause of stroke but rather a risk factor. in fact, a high stroke risk has been described in patients with high cha2ds2vasc-score (congestive heart failure, hypertension, age ≥75 years [doubled], diabetes, stroke [doubled], vascular disease, age 65-74 years, sex category [female sex]) irrespective of the presence of af [3,4]. the scope of this review paper is to describe advanced iab as a risk marker of ischemic stroke. the study and knowledge of advanced iab and its clinical consequences should be compulsory among physicians dealing with cardiovascular prevention, and systematic screening for advanced iab in elderly patients can be done with a simple surface electrocardiogram (ecg). advanced iab is a risk marker of stroke and has many similarities with af [5,6]. issue description: definition, mechanism, classification and diagnosis iab is a cardiac rhythm disorder that represents a delay of conduction between right and left atria [7]. in healthy subjects, left atrial activation occurs mainly anterosuperior via bachmann region. impaired conduction in that region is generally the electrophysiological substrate for iab. it has been classified in partial iab (p-wave of 120 milliseconds or more) and advanced iab (p-wave of 120 milliseconds or more and biphasic [positive and negative deflection] morphology in ii, iii, and avf). advanced iab refers to complete conduction block at bachmann region with the subsequent shifting of left atrial activation to posteroinferior connections with a retrograde caudocranial activation [8]. atrial activation in healthy subjects and those with partial and advanced iab is represented in figure 1. figure 1. atrial activation in: a: healthy subjects; b: with partial interatrial block (iab); c: with advanced iab. these concepts have been accepted in a consensus paper [8] and their characteristics follow: partial iab (first-degree iab): p-wave of 120 milliseconds or more is usually positive bimodal (p-wave is made up of two components, both positive), especially visible in leads i, ii, or iii. p-wave morphology in v1 is often negative (the vector moves away from the surface electrode, which results in a negative deflection); the p-wave has a normal electrical axis; left atrial enlargement is common [9]. the wide and bimodal p-wave usually described in surface electrocardiogram (ecg) when there is left atrial enlargement is due to iab rather than atrial enlargement; it has been related to af and global and cardiovascular mortality [10]; advanced iab (third-degree iab): p-wave duration of 120 milliseconds or more, usually positive in i and avl, biphasic (positive and negative deflection) in ii, iii, and avf and often in v1-v2; it is a very specific (90%) [11] but insensitive marker of left atrial enlargement; it is associated with supraventricular arrythmias, especially in patients with structural heart disease [12]; second-degree iab [13]: it may occur transiently; p-wave morphology is changing (normal to iab pattern; partial to advanced). however, some advanced iab do not perfectly comply with all the diagnosis criteria and is defined as atypical advanced iab [14]. it can be atypical due to changes in p-wave morphology or due to changes in p-wave duration: atypical advanced iab due to changes in p-wave morphology; type i: the terminal component of the p-wave (p-wave is made up of two components) in lead ii is flat rather than negative. biphasic (positive and negative deflection) morphology in iii and avf; type ii: the terminal component of the p-wave in ii is biphasic (positive and negative deflection); type iii: the first component of the p-wave is flat in iii and avf; atypical advanced iab due to changes in p-wave duration: p-wave <120 ms biphasic (positive and negative deflection) in ii, iii, and avf. diagnosis the clinical diagnosis is based on the surface ecg (figure 2). it is necessary to take into account that: the ecg pattern may appear transiently and may change to more advanced forms; the ecg pattern may appear without structural heart disease, although it may coexist; the ecg pattern can be reproduced experimentally. to perform a good measurement of the p-wave duration, it is important to define the interval between the earliest detection of the p-wave in any lead of the frontal plane and the lead were the end of the p-wave is detected. other methods to detect the presence of iab are the vectocardiogram, and invasive/noninvasive electro-mapping techniques [16,17]. epidemiology: iab and age the prevalence of advanced and partial iab is 1% and 9.7% respectively in the general population, and they are both associated with increased risk of af [18]. its prevalence increases with age, reaching a prevalence of 26% (advanced iab) and 20.1% (partial iab) in subjects aged ≥100 years [15]. in the atherosclerosis risk in communities (aric) study, only 0.5% of patients had advanced iab at baseline (mean age 54 years ± 5.8), but 1.6% developed advanced iab during the mean 6-year follow-up. incidence for advanced iab was of 2.3 per 1000 persons-year [19]. ageing is associated with a progressive increase in the degree of atrial fibrosis and modification in the cardiac conduction system, which led to iab. af, atrial premature beats and runs of atrial arrhythmias are also associated with age and with iab [20]. prevalence of advanced iab in the general population according to age is shown in figure 3. figure 2. examples of normal p-wave, partial interatrial block (iab), and advanced iab. adapted with permission from martínez-sellés et al. [15]. figure 3. prevalence of advanced interatrial block (iab) in the general population according to age. pathophysiology, supraventricular arrhythmias and stroke risk the presence of advanced iab indicates a delayed and abnormal left atrium activation with abnormal contraction against a closed mitral valve, thus increasing left atrial pressure, wall stress, and left atrium enlargement. left atrial enlargement may contribute to left ventricular diastolic dysfunction and increase left ventricular filling pressures. moreover, atrial remodelling leads to progressive atrial fibrosis [21,22], which also is associated with ageing, and contributes to atrial dysfunction. atrial fibrosis and function have been studied with speckle tracking echocardiography, reporting a decrease in the absolute value of the strain rate during atrial booster pump function and early reservoir period [23]. in cardiac magnetic resonance, a late gadolinium enhancement of the upper part of the septum involving bachmann’s bundle has been reported, describing the association between iab and atrial fibrosis [24]. this may result in endothelial dysfunction, with a hypercoagulable state comparable to that present in af [25] and a stagnant and sluggish left atrium favoring the appearance of stasis-induced thrombosis, especially in the left atrial appendage, even in the absence of supraventricular arrhythmias. some studies suggest that patients with high cha2ds2vasc-score have a high stroke risk irrespective of the presence of af [3,4]. tischer et al. [3] found that, in patients with score cha2ds2vasc-score >5, the prevalence of stroke was high irrespective of af. other authors also suggested that the risk of stroke is high, even in the absence of documented arrhythmias, particularly in the presence of arrhythmic symptoms [4], previous myocardial infarction [26], or heart failure [27]. these data support the notion that af is a risk factor for ischemic stroke, but not necessarily the direct cause of it. furthermore, the causality of the association af-ischemic stroke is questioned by the reported lack of temporal relation between stroke events and af paroxysms or atrial high-rate episodes detected by implantable loop recorders or devices [28-34]. also, an association between advanced iab and supraventricular arrhythmias and poor left atrium contractility has been reported. this is called bayes’ syndrome [35]. this association may be explained by atrial fibrosis and left atrium enlargement. also, this could be due to re-entry, as conduction disturbances increase refractory period dispersion. finally, iab is associated with premature atrial beats probably due to abnormal left atrium activation facilitating the initiation of re-entry and af. atrial ectopy is also a predictor of af [36]. excessive supraventricular ectopic activity (defined as the presence of either ≥30 premature atrial contractions/hour daily or any runs of ≥20 premature atrial contractions) is associated with an increased risk of ischemic stroke [25]. even premature atrial contractions detected on the routine screening electrocardiogram are associated with an increased risk of ischemic stroke [37,38]. iab in specific cardiac conditions iab and tako-tsubo syndrome the prevalence of iab in tako-tsubo syndrome is about 30% and has been independently associated with a poor prognosis. ecg from 246 patients included in the spanish multicenter registry of takotsubo syndrome (retako) showed that 61% of them had normal p-wave, while 24% had partial iab, 7% af, and 5% advanced iab. patients with advanced iab were older. the primary endpoint was a composite endpoint of all-cause mortality and hospital readmission and was significantly higher in patients with af or advanced iab (33% and 31% respectively). survival free from mortality, tako-tsubo syndrome recurrence, and hospitalization were significantly lower in patients with af or advanced iab [39,40]. iab and coronary artery disease in patients with acute st-segment elevation myocardial infarction (stemi), iab was also associated with poor prognosis, but that was not an independent association, as the effect was mainly related to age [41]. in 972 consecutive patients with stemi and sinus rhythm at discharge, p-wave was normal in 72.8%, 21.3% had partial iab, and 5,9% had advanced iab. patients with advanced iab were older and had more hypertension. during a mean follow-up of 49.6 ± 24.9 months, 11.7% of patients died, 6.8% presented af, and 2.9% had a stroke. however, multivariable cox analysis did not show an independent association between iab and prognosis. although they found higher all-cause mortality, this was due to age. the iffaniam study (impacto de la fragilidad y el estado funcional en el anciano con infarto agudo de miocardio sometido a angioplastia primaria) is a spanish multicenter registry conducted to assess the prognostic role of frailty and other ageing-related variables in patients with stemi aged 75 years or older. 254 patients were included, 86.6% were in sinus rhythm. from them, 16.8% had partial iab and 15.5% advanced iab. patients with advanced iab were older and the degree of iab and the prevalence of hypertension, previous stroke and the number of different chronic treatments had a linear association. they did not observe significant differences regarding comorbidity, functional status, nutritional risk, and cognitive status according to interatrial conduction. they also found a trend to linear association between the degree of iab and mortality [42]. iab was related to coronary artery disease in a recent analysis of 322 patients. 31.7% and 6.5% of them had partial iab and advanced iab, respectively. the incidence of new-onset af was 10.6% [43]. iab and heart failure the prospective observational “bayes’ syndrome-hf” study included 1050 patients with heart failure. 464 patients in sinus rhythm and with a measurable p-wave were analyzed. 20.5% and 23.5% of them had partial and advanced iab, respectively. advanced iab was independently associated with new-onset af (hr 2.71 ci [1.61-4.56], p < 0.001), ischemic stroke (hr 3.02 [1.07-8.53], p = 0.04), and a composite of both (hr 2.42 [1.41-4.15], p < 0.001) [44]. iab and transcatheter aortic valve implant (tavi) aortic stenosis is the most frequent valve disease in the elderly and tavi is becoming the standard therapy in symptomatic patients. one of the main side effects are conduction disturbances. no study has analyzed the association and the requirement of a permanent pacemaker in this context. the baseline interatrial block and transcatheter aortic valve implantation (bit) registry will study the influence of previous iab on the need for permanent pacemaker after tavi [45]. figure 4. prevalence of dementia in the registry scientific characterization of the centennial heart (4c) based on the presence and type of interatrial block (iab) and atrial fibrillation (af)/atrial flutter (flutter). iab and dementia the association of af with mild cognitive impairment and dementia is already unquestionable [46]. the pathophysiological mechanisms that justify this association have not been fully clarified, but they are probably multifactorial. these mechanisms include the most obvious, such as symptomatic ischemic stroke and silent cerebral infarcts/micro-infarcts [47], to cerebral hemorrhages and cerebral hypoperfusion due to hemodynamic alterations. in fact, reductions in cardiac output and decreases in diastolic cerebral arterial flow might play a role [48]. in the case of advanced iab, the association seems to be very similar. in the study scientific characterization of the centennial heart—caracterización científica del corazón del centenario (4c) [18], the prevalence of dementia increased progressively from normal p-wave, partial iab, advanced iab, and af (figure 4). this independent association is probably mainly due to silent cerebral infarctions, although other factors such as chronic cerebral hypoperfusion may also play a role. this advanced iab-dementia relationship suggests the need for systematic cognitive screening in patients with advanced iab. besides, the presence of advanced iab should also be ruled out in patients with cognitive dysfunction. treatment patients with advanced iab and previous episodes of documented af (bayés syndrome) should be treated like other patients with a history of af. in terms of strategy, the presence of advanced iab is an independent predictor of recurrence of af, which in some cases can tip the balance towards frequency control. patients with advanced iab without previous episodes of documented af also have an increased risk of stroke, particularly in the presence of other risk factors such as advanced age, diabetes, hypertension, and structural heart disease. however, at this time, we do not have clinical trials that support the use of anticoagulants in the absence of documented af. therefore, it is crucial to carry out monitoring to look for af episodes that can support anticoagulation in these patients [49,50]. we suggest ecg in every consultation and 24-hour ecg monitoring to detect af episodes. we believe that it would be desirable to carry out a randomized study, with one arm of a direct-acting oral anticoagulant and another with a placebo, in patients with advanced iab who also have other previously mentioned risk factors [51-53]. future perspectives the bayes registry [6] is a prospective, multicentre, international, and observational registry that has been conducted at 35 centres with 3-year follow-up. patients 70 years or older with structural heart disease and sinus rhythm were involved. the registry included 3 similar-size groups of patients: patients with normal p-wave, patients with partial iab, and patients with advanced iab. clinical follow-up was carried out by local investigators and visits were planned at 6, 12, 18, 24, and 36 months. the primary endpoints were: an af episode longer than 5 minutes and documented in any ecg recording and ischemic stroke. other secondary endpoints as the initiation of anticoagulation, cognitive impairment, and all-cause mortality were reported. this registry results are about to be published and will contribute to assessing the influence of these 3 factors, opening the door to perform, for the first time, a clinical trial comparing anticoagulation with placebo, to try to change the present paradigm that makes af necessary to prescribe anticoagulation to these patients. a better knowledge of iab, a separate entity from left atrial enlargement [54] that is associated with af and stroke [55,56], is essential to clarify the correct future approach in these patients. also, the influence of other p-wave indexes in the prognosis should be taken into consideration in the decision-making process. conclusion even in the absence of documented arrhythmias, the risk of stroke is high in elderly patients with advanced iab, particularly if they also have high cha2ds2vasc-score and excessive atrial ectopy. these 3 variables should be included in the assessment of stroke risk in advanced-age patients. future clinical trials will help elucidate whether anticoagulation is needed in these patients. key points the risk of stroke is high in elderly patients with advanced iab cha2ds2-vasc-score should be assessed in these patients, although af is not present screening for supraventricular arrhythmias should also be considered iab, cha2ds2-vasc-score, and supraventricular arrhythmias should be included in the assessment of stroke risk in elderly it is essential to assess future studies if anticoagulation is needed funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. bachmann g. the significance of splitting of the p-wave in the ecg. ann intern med 1941; 14: 1702-9; https://doi.org/10.7326/0003-4819-14-9-1702 2. goyal s, spodick d. electromechanical dysfunction of the left atrium associated with interatrial block. am heart j 2001; 142: 823-7; https://doi.org/10.1067/mhj.2001.118110 3. tischer ts, schneider r, lauschke j, et al. prevalence of atrial fibrillation in patients with high chads2and cha2ds2vasc-scores: anticoagulate or monitor high-risk patients? pacing clin electrophysiol 2014; 37: 1651-7; https://doi.org/10.1111/pace.12470 4. zuo ml, liu s, chan kh, et al. the chads2 and cha 2ds 2-vasc scores predict new 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baclofen intoxication. a 67-year-old woman was admitted with altered mental status and vomiting. initially, she was unresponsive/lethargic and kept the intermittent ability of nonverbal communication gradually sliding into a comatose state with apneas. initial neurologic and radiologic examinations ruled out a structural lesion of the central nervous system. laboratory data showed acute kidney injury and suspected urinary tract infection with extremely high inflammation parameters. the patient had a history of multiple sclerosis and received daily oral baclofen. baclofen-induced coma secondary to baclofen overdose caused by renal insufficiency was suspected and renal dialysis started within 24 hours. cystoscopy and implantation of a ureteric stent were necessary because of obstructive nephropathy. during hemodialysis, the patient’s mental status steadily improved. the patient woke up and was oriented and cooperative. both clinical and laboratory data were widely normalized within days. diagnosis of baclofen overdose can be challenging, but adequate supportive therapy, including hemodialysis, should be considered to reduce the length of comatose state and the risk of aspiration pneumonia. keywords: baclofen; overdose; renal insufficiency; renal dialysis cmi 2022; 16(1): 7-11 https://doi.org/10.7175/cmi.v16i1.1518 case report corresponding author oliver malle o.malle@gmx.at received: 16 december 2021 accepted: 16 may 2022 published: 9 june 2022 why do we describe this case the diagnosis of baclofen-induced coma may be challenging, especially when approved doses were taken and an underlying renal insufficiency was not previously present. after a thorough diagnostic work-out, we suggest to promptly eliminate baclofen overdose by renal dialysis introduction baclofen is an effective spasmolytic agent [1]. it is administered orally or via an intrathecal pump. the range between minimal therapeutic dose and minimal toxic dose is small and this drug is contraindicated in chronic kidney disease [2]. its primary site of action is in the spinal cord, where it binds to the inhibitory gabab receptor [3]. after rapid absorption from the gastrointestinal tract, baclofen has 70-80% bioavailability [2]. baclofen is predominantly excreted unchanged by passive glomerular filtration, with only a small portion being metabolized by the liver. its serum half-life of 2-6 hours [1] can be prolonged in renal insufficiency and when overdosed [4]. continuous absorption from the intestinal tract and redistribution from fatty tissue may further increase its half-life in renal insufficiency [5]. baclofen overdose can lead to central nervous system toxicity with excitatory and inhibitory neurotransmitters changes. baclofen does not readily cross the blood-brain barrier. hence, a relatively high oral dose (60-100 mg/day) or direct intrathecal application is needed to achieve therapeutic effects [6]. when overdosed, patients may present with lethargy, respiratory and cardiac depression, muscular hypotonia as well as generalized hyporeflexia varying with the degree of intoxication [7]. no threshold dose has been established for the consistent onset of neurologic adverse effects. however, severe neurologic adverse effects have been observed even at very low dose in young patients with normal renal function [8]. a specific antagonist does not exist, but flumazenil has been reported to counteract the inhibitory effects of baclofen [9]. several reports showed that renal dialysis could effectively and rapidly remove baclofen in overdosed patients with renal failure, alleviating overdose symptoms and accelerating recovery time [7]. nevertheless, no consensus exists on its true benefit [7,10]. here, we report on a 67-year-old patient with no history of renal impairment who was admitted for coma of unknown origin. case report a 67-year-old woman was admitted to the neurological emergency unit of the medical university of graz with altered mental status and vomiting, progressing to a comatose state (glasgow coma scale—gcs = 5). her relatives reported normal communication and the absence of any symptoms the day before admission, with progressive unresponsiveness and dizziness within twelve hours. upon arrival, the patient showed body temperature = 35.9°c, blood pressure = 110/60 mmhg, tachycardia (105 beats per minute), and eupnea. though unconscious, the patient did initially nonverbally react to commands, but within minutes she reacted only to deep pain stimuli (gcs = 5). flumazenil and naloxone did not have any effect. a rapid urine drug screen test was negative. her medical history comprised longstanding multiple sclerosis with impaired mobility (wheelchair-bound), breast cancer, and osteoporosis. the patient had been on high-dose oral baclofen therapy for years (75 mg/day). laboratory data (table i) revealed leukocytosis (white blood cell count = 25 × 109/l, of which 86% neutrophils), acute kidney injury (creatinine = 3.0 mg/dl, while three weeks before it was = 1.0 mg/dl), and increased levels of c-reactive protein and procalcitonin. an initial arterial blood gas analysis showed no relevant pathology. parameter detected level normal range wbc (109/l) 25.14 4.4-11.3 rbc (1012/l) 5.64 4.1-5.1 hb (g/dl) 16.8 12.0-15.3 hct (%) 49.4 35.0-45.0 thrombocytes (109/l) 216 140-440 crp (mg/l) 369.4 0-5.0 procalcitonin (ng/ml) 4.14 0-0.5 glucose (mg/dl) 145 70-100 sodium (mmol/l) 139 135-145 potassium (mmol/l) 5.3 3.5-5.0 chloride (mmol/l) 97 95-110 calcium total (mmol/l) 2.59 2.2-2.65 creatinine (mg/dl) 3.05 0-1.0 urea (mg/dl) 106 10-45 egfr (ml/min/1.73 m2) 15.17 90-120 ldh (u/l) 300 120-240 ast (u/l) 32 0-30 alt (u/l) 15 0-35 γgt(u/l) 51 0-38 ck (u/l) 177 0-145 inr 0.95 aptt (s) 37.3 26.0-36.0 table i. laboratory results at first presentation. alt = alanine aminotransferase; aptt = activated partial thromboplastin time; ast = aspartate aminotransferase; ck = creatine kinase; crp = c-reactive protein; egfr = estimated glomerular filtration rate (ckd-epi-formula); γgt = γ-glutamyl transferase; hb = hemoglobin; hct = hematocrit; inr = international normalized ratio; ldh = lactate dehydrogenase; rbc = red blood cell count; wbc = white blood cell count electrocardiography showed sinus tachycardia. neurologic examination revealed mydriatic pupils with direct and consensual pupillary light reflexes, muscular hypotension with no spontaneous movement and absent plantar reflexes, but no meningeal signs. urinary analysis suggested a urinary tract infection. brain computed tomography scan (figure 1) excluded bleeding and infarct demarcation. figure 1. brain computed tomography. the synopsis of clinical findings and laboratory data initially suggested urosepsis with acute on chronic renal insufficiency. empiric antibiotic treatment with piperacillin/tazobactam and intravenous fluids were administered. a toxic encephalopathy secondary to baclofen overdose due to renal failure was suspected regarding oral baclofen therapy with a relatively high daily dose. after consultation with the poison center, renal dialysis was considered as a therapeutic option, as baclofen may be easily removed by dialysis and there are other case reports in the literature showing recovery of consciousness in patients with baclofen overdose due to renal failure [7,11]. renal dialysis started but had to be interrupted after 30 minutes for cystoscopy and implantation of ureteral stents during the night due to obstructive nephropathy. during this painful intervention, her neurologic status remained deeply comatose (gcs = 5), and the patient did not need any analgesic or sedative medication. a second renal dialysis treatment over 5 hours was performed subsequently. during this second renal dialysis, the patient’s mental status steadily improved. the patient woke up and was completely orientated and cooperative. an obstructing ureteric calculus was assumed to be the cause for renal obstruction, but could not be objectified by ct that was performed during sepsis work-up. the fast recovery of consciousness is in line with other case reports, that described the rapid effect of renal dialysis in patients with baclofen overdose and renal failure [7,11,12]. results of a blood culture revealed pseudomonas aeruginosa infection. subsequently, clinical and laboratory data, including renal function, were widely normalized, and communication was possible without any restriction. discussion this report demonstrates rapid and full neurological recovery in a patient with previously normal kidney function presenting with relative baclofen overdose using a high but approved daily dose of 75 mg caused by acute kidney injury associated with obstructive nephropathy and urosepsis. first, we would like to prompt clinicians to consider baclofen as an important and reversible cause of unexplained coma in patients with acute deterioration of renal function. this is currently rarely considered, especially when baclofen is applied via an intrathecal pump. second, we suggest empiric use of renal dialysis in similar situations, although currently there is no consensus about renal dialysis in patients with baclofen intoxication. we postulate that in our case delayed elimination of baclofen due to acute renal insufficiency was the main reason for the comatose state of the patient. because no specific therapy for baclofen overdose exists, supportive therapy is usually recommended to prevent central nervous system complications, muscle spasticity, and blood pressure fluctuations. baclofen possesses molecular features that make it ideal for removal by renal dialysis. in fact, it has low protein binding and small molecular weight, allowing for effective drug elimination and shortened half-life. in animal models, the half-life is reduced from 5 to 1.5 hours in the first two hours of renal dialysis [12]. in our case, the comatose state already improved within the first hours of renal dialysis, which is in line with similar reports in literature [7,10,13]. neurotoxicity of baclofen can occur at approved oral doses when renal elimination is decreased. the use of baclofen is increasing especially in children and young adults [14]. to date, there is no approved antidote for this substance. however, physostigmine has been shown to reduce central nervous symptoms and respiratory depression [15]. we would like to point out that diagnosis of baclofen overdose can be challenging, but adequate supportive therapy as well as renal dialysis can lead to excellent prognosis, reduce time of comatose state and the relevant risks such as aspiration pneumonia. in aging patients, especially in those with impaired renal function, we suggest evaluating the risk-benefit ratio of baclofen treatment and observe them closely for toxicity. conclusion baclofen can cause nervous system depression due to accumulation following renal failure, thus resulting in deep comatose state. renal dialysis may be an efficient and rapid method in treating patients with baclofen overdose. key points baclofen overdose may cause coma. even approved dosages may result in a comatose state in case of impaired renal function, due to the delayed elimination of the drug. there are no approved antidotes. in the absence of a consensus about the management of baclofen-induced coma, renal dialysis is suggested by some reports. in this case, renal dialysis resulted in a rapid neurological improvement. consent to publication the consent to publication was obtained from the patient here described. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. faigle jw, keberle h. the chemistry and kinetics of lioresal. postgrad med j 1972; 48: 9-13 2. fox cm, daly ml. successful treatment of severe baclofen toxicosis initially refractory to conventional treatment. 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o un eccesso o un alterato equilibrio dell’energia e delle proteine e degli altri nutrienti che causa effetti avversi misurabili sulla composizione corporea e sui risultati clinici» [1]. sia la malnutrizione per eccesso, sia quella da insufficiente apporto alimentare, entrambe riscontrabili in larghe percentuali dei pazienti ricoverati, sono correlate a un aumento di morbilità e mortalità, che si traduce anche in un incremento dei costi ospedalieri. la malnutrizione da insufficiente apporto alimentare la malnutrizione da insufficiente apporto alimentare colpisce circa il 50% dei pazienti ricoverati nei reparti in area medica e oltre il 40% dei ricoverati in ospedale [2]. prevalenza di malnutrizione da insufficiente apporto alimentare in ospedale. modificata da [3] 20-50% dei pazienti ospedalizzati 20% dei pazienti a domicilio 46% dei pazienti medici 27% dei pazienti chirurgici 43% dei pazienti anziani 53% dei pazienti con frattura di femore 20-50% dei bambini ricoverati per patologia gastrointestinale e/o malattia cronica figura 1. correlazione tra malnutrizione e complicanze della degenza ospedaliera. modificata da [8] ivu = infezioni delle vie urinarie ha un andamento a spirale ingravescente, partendo spesso da una inadeguata alimentazione a domicilio che si aggrava in ospedale sia per cause correlate alla malattia (inadeguato introito di alimenti, difficoltà ad alimentarsi) sia per scarsa formazione del personale sanitario sull’argomento [4]. numerosi studi hanno dimostrato la correlazione tra dieta e insorgenza di malattie croniche [5-7] e sarebbe molto interessante dimostrare la correlazione tra dieta nei mesi precedenti il ricovero, stato nutrizionale e outcome delle malattie croniche riacutizzate e trattate in regime di ricovero ospedaliero. inoltre, la malnutrizione da insufficiente apporto alimentare rappresenta un fattore prognostico negativo all’ingresso in ospedale in quanto correla positivamente con (figura 1): aumento della mortalità e della morbilità; aumentata suscettibilità alle infezioni; ritardata guarigione delle ferite; aumento di durata della degenza; arresto della crescita e dello sviluppo nei bambini.   la valutazione nutrizionale all’ingresso è cruciale vista l’entità del problema e l’impatto sulla degenza: lo stato nutrizionale andrebbe, quindi, valutato entro le prime 72 ore dal ricovero mediante strumenti di valutazione appositi, quali malnutrition universal screening tool – must, mini nutritional assessment – mna e subjective global assessment – sga, riportati in tabella i.   gli strumenti per la valutazione dello stato nutrizionale hanno validità simile e la scelta dipende dal tipo di istituzione, dal tipo di pazienti e dalle risorse disponibili [10,11]. le strategie di trattamento seguono step successivi [4]: valutazione dello stato nutrizionale all’ingresso in ospedale e trattamento delle cause individuali; trattamento dietetico, aggiunta di additivi sulla base della patologia e delle capacità di alimentazione del paziente; arricchimento calorico della dieta (maltodestrine, proteine concentrate); aggiunta di integratori per via orale; nutrizione enterale attraverso sondino naso-gastrico o peg (gastrostomia endoscopica percutanea); nutrizione parenterale totale. strumenti di valutazione descrizione mna www.mna-elderly.com strumento di monitoraggio e valutazione per i pazienti anziani a rischio di malnutrizione. è composto da 6 domande e dalla misurazione del bmi, del cbm e del cp must www.bapen.org.uk guida composta da 5 step per misurare il grado di malnutrizione (sottopeso o sovrappeso), usa il bmi e valuta la presenza di condizioni patologiche acute sga www.ajcn.org strumento che include anamnesi ed esame obiettivo e suddivide i pazienti in tre categorie secondo il livello di nutrizione (prevalentemente usato nei pazienti dializzati) nrs-2002 www.espen.org screening composto da due tabelle che includono quattro domande sui fattori di rischio per i pazienti ospedalizzati [9] tabella i. metodi di valutazione dello stato nutrizionale bmi = body mass index (indice di massa corporea = peso (kg)/altezza (m)2); cbm = circonferenza del braccio; cp = circonferenza del polpaccio; mna = mini nutritional assessment; must = malnutrition universal screening tool; sga = subjective global assessment per quanto riguarda l’impatto sulla degenza ospedaliera, uno studio retrospettivo di coorte effettuato in brasile e pubblicato nel 2003 ha effettuato una valutazione nutrizionale su 709 pazienti a 72 ore dall’ingresso in ospedale, evidenziando una prevalenza di malnutrizione da insufficiente apporto alimentare del 34,2% [12]. è stato quindi effettuato il monitoraggio delle complicanze e della mortalità e il calcolo dei costi sulla base dei rimborsi calcolati dalle compagnie assicurative (costo giornaliero della degenza, antibiotici utilizzati). sono state riscontrate complicanze nel 27% dei pazienti malnutriti; la mortalità di questi ultimi era del 12,4% versus 4,7% nei pazienti normopeso, mentre il tempo di degenza era di 16,7 ± 24 giorni versus 10,1 ± 11,7. lo studio ha concluso che la malnutrizione da insufficiente apporto alimentare è un fattore di rischio indipendente che aumenta morbilità, mortalità, lunghezza e costo della degenza [12]. anche in germania löser ha dimostrato un aumento dei costi della degenza e durata dell’ospedalizzazione in relazione allo stato nutrizionale con una stima di aumento dei costi diretti di circa 9 miliardi di euro all’anno [4]. considerando dati di studi realizzati in europa sia occidentale sia orientale, kondrup nel 2009 ha presentato una revisione della letteratura per valutare incidenza e prevalenza della malnutrizione negli ospedali europei confermando i dati già noti di incidenza di rischio nutrizionale all’ingresso in area medica dal 28% al 52% (prevalentemente dovuto alla presenza di pazienti anziani e polipatologici) e un valore di malnutrizione di circa il 19% nei pazienti ricoverati in reparti chirurgici [13]. la malnutrizione per eccesso in realtà esiste anche l’altra faccia della medaglia: il crescente incremento a livello mondiale di sovrappeso e obesità nella popolazione (figura 2) ha messo in luce i rischi derivanti dall’eccesso di peso anche nei pazienti ospedalizzati. in effetti sovrappeso e obesità sono la quinta causa di morte a livello globale. nel 2005, secondo la world health organization 1,6 miliardi di adulti erano sovrappeso, oltre 400 milioni obesi e 20 milioni di bambini al di sotto di 5 anni in sovrappeso. le proiezioni per il 2015 prevedono che gli adulti in sovrappeso saranno 2,3 miliardi e gli obesi più di 700 milioni; se non verranno presi provvedimenti, l’obesità raddoppierà entro il 2030. attualmente più di un adulto su 10 è obeso, con prevalenza delle donne che sono circa 100 milioni in più rispetto agli uomini obesi. in italia nel 2008 [16] i soggetti sovrappeso, cioè con bmi compreso tra 25 e 29,99 erano il 33,4% degli adulti (fino a 24 anni = 13%; tra 65 e 75 anni = 45%) e gli obesi (bmi superiore a 30) il 9,1% degli adulti (fino a 24 anni = 2%; intorno a 50 anni = 13%; a 60 anni = 15%; > 65 anni = 12,4% ). l’obesità è un cofattore nel determinismo delle malattie croniche non trasmissibili: il 44% dell’esordio del diabete, il 23% della cardiopatia ischemica e il 7-14% di patologie tumorali sono strettamente correlate alle alterazioni del metabolismo provocate dal sovrappeso. il 65% della popolazione mondiale vive in paesi in cui il sovrappeso e l’obesità uccidono più persone che la malnutrizione da insufficiente apporto alimentare. figura 2. il tasso di obesità in alcuni paesi del mondo. modificato da [15] complicanze cliniche dell’obesità. modificata da [14] stroke ipertensione endocranica idiopatica cataratta patologie respiratorie ridotta funzionalità apnee ostruttive nel sonno sindrome da ipoventilazione cardiopatia ischemica pancreatite non-alcoholic fatty liver disease (nafld) steatosi cirrosi steatoepatite patologie della colecisti diabete dislipidemia ipertensione patologie ginecologiche anomalie del ciclo mestruale infertilità sindrome dell’ovaio policistico tumori mammella utero cervice prostata rene colon esofago pancreas fegato osteoartrite flebite stasi venosa patologie cutanee gotta diversi studi epidemiologici hanno dimostrato che l’aumento del bmi è associato a un aumento del rischio di morte. i dati del cancer prevention study, studio prospettico di mortalità su più di 1 milione di persone negli stati uniti, iniziato nel 1982, mostrano che con l’incremento del bmi aumenta il rischio cardiovascolare anche in soggetti non fumatori e senza altri fattori di rischio al momento dell’arruolamento. la curva di mortalità rappresenta un continuum, che inizia al valore del bmi di 25 kg/m2. il valore di bmi tra 23,5 and 24,9 kg/m2 presenta il minor rischio cardiovascolare ed è stato utilizzato come valore standard di riferimento [17] (figura 3). figura 3. relazione tra bmi e mortalità. modificata da [17]   i risultati di studi collaborativi (57 studi prospettici con 895.576 partecipanti prevalentemente in europa occidentale e nord america) hanno confermato la correlazione tra bmi e mortalità, evidenziando come in entrambi i sessi la mortalità sia inferiore per valori di bmi intorno a 22,5-25 kg/m2 soprattutto a causa della forte correlazione inversa con malattie respiratorie e tumore polmonare [18]. ogni aumento del bmi di 5 kg/m2 risulta associato all’aumento del 30% della mortalità e, nello specifico, all’aumento del 40% della mortalità vascolare, del 60-120% di quella correlata a diabete, malattia renale ed epatica, del 10% di quella neoplastica e del 20% della mortalità per patologie respiratorie e altre cause. gli studi relativi alla ricerca di correlazioni tra sovrappeso e obesità, durata e costi della degenza presentano invece risultati non univoci. in effetti alcuni studi associano solo i gradi superiori di obesità a un incremento di mortalità [19], non rilevando nei pazienti ospedalizzati (medici e chirurgici) alcun aumento della mortalità in relazione al bmi [20]. è stata invece dimostrata una maggiore permanenza presso le unità di terapia intensiva (icu) e maggior rischio di complicanze (multiple organ disease) dei pazienti obesi e in sovrappeso [21]. alcuni studi hanno evidenziato che su 62.045 malati presso le icu si registrava per gli obesi una maggiore durata del supporto respiratorio, della degenza e dei relativi costi [22]. secondo lo studio di wigfield del 2006, solo per i grandi obesi (bmi > 40) si registrano maggiori complicanze [23]. i costi della malnutrizione i dati della letteratura, quindi, confermano che una maggiore mortalità e una maggiore morbilità e durata della degenza dipendono dallo stato nutrizionale e suggeriscono che controlli preventivi potrebbero ridurre i costi per i sistemi sanitari nazionali [4]. può essere difficile tuttavia confrontare strumenti di valutazione nutrizionale disegnati per gruppi di età non omogenei e scopi diversi [24]. certamente la malnutrizione diagnosticata all’ingresso in ospedale correla con l’aumento della durata della degenza e una maggiore frequenza di complicanze [13,25]. per quanto riguarda la stima dei costi correlati alla malnutrizione, invece, vi sono diverse problematiche. la revisione della letteratura mostra che sono state utilizzate metodologie diverse negli studi effettuati; c’è quindi una difficoltà oggettiva a comparare i dati in quanto studi diversi considerano costi differenti e non confrontabili, quali i supporti nutrizionali, la durata della degenza, le visite specialistiche, l’accesso ai servizi di base, ecc. un recente studio di elia mostra come la malnutrizione da insufficiente apporto alimentare abbia determinato nel 2003 negli stati uniti un aumento dei costi ospedalieri dal 36% al 67%, e nel regno unito un aumento del 40% dei costi ospedalieri e del 10% dei costi sul territorio nei pazienti anziani (età maggiore di 65 anni) [26]. l’elevato valore dei costi della malnutrizione da insufficiente apporto alimentare è collegato alle spese dovute alle malattie collegate alla malnutrizione (drm) (10% della spesa sanitaria totale) e all’aumento proporzionale degli anziani nella popolazione totale. una delle limitazioni della stima dei costi legati alla drm è che non riflette il risparmio potenziale degli interventi di politica sanitaria mediante valutazioni di costo-efficacia e costo-utilità degli interventi (es. di supporto nutrizionale) che sarebbe utile inserire in studi futuri. il costo stimato da elia per la malnutrizione da insufficiente apporto alimentare in ambito ospedaliero è simile al costo combinato di obesità e sovrappeso. un recente studio di cawley e meyerhoefer sui costi sanitari dell’obesità negli stati uniti riporta che una persona obesa costa 2.741 dollari di più all’anno rispetto a un normopeso. a livello nazionale significa un aumento di 190,2 miliardi di dollari all’anno, il 20,6% della spesa nazionale sanitaria. stime precedenti mostravano costi inferiori dovuti all’obesità ovvero 85,7 miliardi di dollari, il 9,1% della spesa sanitaria nazionale [27]. gli studi relativi alla ricerca di correlazioni tra sovrappeso, obesità, durata e costi della degenza presentano risultati non univoci. in effetti studi effettuati negli stati uniti (national health and nutrition examination survey – nhanes dal 1999 al 2000) non hanno documentato una associazione diretta tra aumento del bmi e riduzione dell’aspettativa di vita, probabilmente per l’aumento della durata media della vita, il miglioramento delle cure mediche e la riduzione della mortalità dovuta alle malattie cardiovascolari [19]. conclusioni e prospettive future l’impatto economico della nutrizione sullo stato di salute comincia a stimolare soluzioni preventive, soprattutto a livello territoriale, attraverso l’azione su modifiche degli stili di vita, proponendo studi che valutano la dieta come terapia [28]. l’us preventive services task force raccomanda che i medici di base presentino ai pazienti obesi interventi di counselling dietetico intensivo per perdere peso. attualmente viene suggerita la necessità di realizzare studi che valutino l’efficacia comparativa di diversi interventi mirati alla perdita di peso a livello di medicina di base in pazienti obesi con fattori di rischio cardiovascolare. in relazione alla malnutrizione da insufficiente apporto alimentare, invece, è consigliata la valutazione dello stato nutrizionale entro le prime 72 ore dal ricovero. rimangono molti problemi aperti, in particolare per la mancanza di dati sui pazienti ricoverati in area medica, che rappresentano la popolazione più a rischio per problemi di nutrizione e di comorbilità e che per la maggior parte appartengono alla categoria degli anziani (età maggiore di 65 anni). mancano infatti dati sui costi della degenza correlati allo stato nutrizionale confrontabili e raccolti in maniera omogenea nei reparti di medicina interna, che trattano circa l’80% dei pazienti ricoverati in area medica. aree di ricerca future in ambito nutrizionale dovranno essere orientate a valutare la relazione tra stato nutrizionale (sottopeso e sovrappeso), durata della degenza e costi correlati, possibilmente comparando diversi sistemi sanitari in paesi industrializzati e in via di sviluppo, con lo scopo di mettere in relazione, se possibile, anche le abitudini alimentari e la dieta pre-ricovero con l’esito della degenza. bibliografia stratton rj, green cj, elia m. disease-related malnutrition: an evidence based approach to treatment. oxford, uk: cabi publishing, 2003 mc whirter j, pennington cr. incidence and recognition of malnutrition in hospital. bmj 1994; 308: 945-8 kondrup j, johansen n, plum lm, et al. incidence of nutritional risk and causes of inadequate nutritional care in hospitals. clin nutr 2002; 21: 461-8 löser c. malnutrition in hospital: the clinical and economic implications. dtsch arztebl int 2010; (51-52): 911-7 international agency for research on cancer, world health organization. epic project. disponibile all’indirizzo: http://epic.iar c.fr (ultimo accesso settembre 2012) national cancer institute at the national institutes of health. disponibile all’indirizzo: http://www.cancer.gov/ (ultimo accesso settembre 2012) innovative dietary assessment methods in epidemiological studies and public health. disponibile all’indirizzo: http://www.idames.eu (ultimo accesso settembre 2012) d’angelo. ruolo delle condizioni di base del paziente in area geriatrica e predisposizione delle infezioni correlate all’assistenza (ica). diapositive del corso di aggiornamento scientifico interattivo sterilizzazione e disinfezione dentro e fuori l’ospedale: dalla vecchia alla nuova cultura. pescara, 27-28 febbraio 2009 kondrup j, allison sp, elia m, et al. espen guidelines for nutrition screening 2002. clin nutr 2003; 22: 415-21 kyle ug, genton l, pichard c. hospital length of stay and nutritional status. curr opin clin nutr metab care 2005; 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2011; 10; 1-360 calle ee, thun mj, petrelli jm, et al. body-mass index and mortality in a prospective cohort of us adults. n engl j med 1999; 341: 1097-105 prospective studies collaboration, whitlock g, lewington s, et al. body-mass index and  cause-specific mortality in 900 000 adults: collaborative analyses of 57 prospective studies. prospective studies collaboration. lancet 2009; 373: 1083-96 flegal km, graubard bi, williamson df, et al. excess deaths associated with underweight, overweight, and obesity. jama 2005; 293: 1861-7 mehta nk, chang vw. mortality attributable to obesity among middle-aged adults in the united states. demography 2009; 46: 851-72 oliveros h, villamor e. obesity and mortality in critically ill adults: a systematic review and meta-analysis. obesity (silver spring) 2008; 16: 515-21 akinnusi me, pineda la, el solh aa. effect of obesity on intensive care morbidity and mortality: a meta-analysis. crit care med 2008; 36: 151-8 wigfield ch, lindsey jd, muñoz a, et 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giuffrida 5 1 hemophilia center, padova, italy 2 hematology unit, aulss 8 berica, vicenza, italy 3 veneto oncology institute, castelfranco veneto (tv), italy 4 pediatric oncohematology, aoui verona, verona, italy 5 hemophilia center, aoui verona, verona, italy abstract hemophilia a is a rare x-linked disease that occurs as a result of a defect in the fviii-encoding gene. the reduction or absence of plasma fviii compromises the coagulation cascade, resulting in frequent bleeds, especially in joints or soft tissues. currently, replacement therapy with coagulation factor concentrates is the gold standard for the treatment of fviii deficiency. herein, we report a case series of five hemophilia a patients treated with an extended half-life recombinant human coagulation factor, fviii-fc fusion protein (efmoroctocog alfa). the prophylactic regimen for each patient was individualized based on their pharmacokinetic profile. compared to previous prophylactic treatments, most patients received a reduced weekly dose of concentrate, all underwent a reduced frequency of administration, the annualized bleeding rates (abr) and hemophilia joint health scores (hjhs) were stable or improved. the half-life of efmoroctocog alfa and the 72-hour trough levels were higher than those observed in the a-long phase iii trial. in conclusion, all patients reported clinical improvements and general subjective wellbeing in the absence of significant safety concerns after switching to efmoroctocog alfa. keywords: hemophilia a; fviiifc; efmoroctocog alfa; bleeding; extended half-life; recombinant factor viii cmi 2020; 14(1): 61-69 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v14i1.1484 case series corresponding author ezio zanon ezio.zanon@aopd.veneto.it received: 9 october 2020 accepted: 22 october 2020 published: 28 october 2020 why do we describe this case tailoring treatments to the individual needs of patients is becoming increasingly important in several diseases. it is useful to remind physicians treating hemophilic patients that this is also true in replacement therapy with the coagulation factor concentrates. in our case series, we obtained satisfactory outcomes with regards to patients’ perspectives following the use of a recombinant human coagulation factor, fviii-fc fusion protein (efmoroctocog alfa) introduction hemophilia a is a rare x-linked disease that results from a defect in the f8 gene, which encodes the coagulation factor viii (fviii). fviii is involved in the coagulation cascade, and its absence or reduction leads to bleeding. the type and severity of hemorrhages depend on the degree of hemophilia. patients with severe disease can present with spontaneous bleeding, especially in joints, while patients with mild or moderate hemophilia more frequently present with post-traumatic bleeding. international data reported that 70% of spontaneous hemorrhages affect joints, 15% affect muscles, and 15% represent visceral bleeding [1]. according to the report on the annual global survey 2017 of the world federation of hemophilia (wfh), the global prevalence of hemophilia a was 158,225 patients [2], while in italy, 4120 patients were estimated to have the disorder. patients with hemophilia a in italy are managed by 52 different hemophilia treatment centers (htcs) distributed throughout the country and coordinated by the italian association of hemophilia centers (associazione italiana centri emofilia—aice) [3] to ensure a homogeneous approach in hemophilia management. genetic defects are generally inherited, but in more than 30% of cases they are sporadic due to a de novo mutation [4]. more than 900 mutations have been identified [5] and registered in different national and international databases. each identified mutation was related to a different hemorrhagic phenotype and risk of developing inhibitors against fviii, which is the most serious event in the treatment of hemophilia. the clinical classification of hemophilia is based on the plasma level of residual fviii production, which, in turn, determines the severity of the bleeding phenotype: <1%, severe; between 1% and 5% moderate; between 5% and 40%, mild [1]. joint bleeding is the most frequent hemorrhagic event in hemophilia patients, and different scores have been developed to assess the joint impairment and function; these include clinical features, such as the wfh physical examination score (gilbert score), hemophilia joint health score (hjhs), and radiological scores, based on magnetic resonance imaging (mri), ultrasound, or x-ray (petterson score) [6]. these scores must be repeated over time to monitor the effectiveness of the treatment. in hemophilia patients, a single joint may be repeatedly affected by bleeding, and, as reported in the wfh guidelines [6], can turn in a target joint, i.e., a joint in which three or more spontaneous bleeds occur within a consecutive 6-month period. replacement therapy with fviii concentrates is the gold-standard treatment for hemophilia a [7], and, following the wfh guidelines [4], may be administered as follows: as a primary prophylaxis (routine prophylaxis started in the absence of documented joint disease, before the second clinically evident large joint bleed and before 3 years of age); as a secondary prophylaxis (routine prophylaxis started after ≥2 bleeds in large joints and before the onset of documented joint disease); as a tertiary prophylaxis (routine prophylaxis started after the onset of documented joint disease). unlike the previous wfh guidelines [6], on demand therapy is no longer considered a long-term treatment option [4]. additive therapy to standard treatment with coagulation fviii concentrates includes desmopressin, which is effectively used in patients with mild hemophilia a; tranexamic acid, which may help manage mucosal bleeding [3]; and bypassing agents, such as activated prothrombin complex concentrate (apcc) and rfviia, used in cases with inhibitors. recently, a novel subcutaneous drug, a monoclonal humanized antibody mimicking the activity of fviii, emicizumab [8], was developed for the treatment of hemophilia patients with and without inhibitors against coagulation fviii. the discovery in 1964 that fresh frozen plasma cryoprecipitate contained high levels of fviii gave rise to plasma-derived factor replacement therapy [7]. these concentrates have significantly improved the quality of life of hemophilic patients by reducing the number of bleeds and their consequences, such as hemophilic arthropathy. however, in the 70’s and 80’s, the flawed purification techniques allowed some viruses to remain in the drug, thus contributing to infection of a significant proportion of this patient population. indeed, over this period, over 90% of hemophilic patients contracted at least one hepatitis virus, while 30% had contracted hiv [3]. following these events, coagulation factor concentrates of recombinant origin were developed in the 1990’s. the first of a long series was marketed in 1992 [7], while the second and third generations of recombinant products were then added to the first generation of rfviii, with a superior efficacy and safety profile [7]. once the safety of the concentrates was obtained, improving their efficacy,and consequently their permanence in the blood flow became a primary objective of laboratory and clinical research, as the short half-life of the native fviii represents a major obstacle to effective prophylaxis. to this end, several methods have been used to extend the plasma half-life (ehl) of these concentrates. among the long-lasting factors that have been developed, the igg1 fc fusion molecule [9], rfviii-fc (also known as efmoroctocog alfa, elocta®, swedish orphan biovitrum ab, stockholm, sweden), has been shown to effectively lengthen the half-life by 1.5-fold [10, 11], without compromising the effectiveness and binding capacity of the native protein [9, 12]. efmoroctocog alfa is produced by recombinant dna technology in the human embryonic kidney (hek) cell line 293, in which all post-translational modifications are also performed [13]. the production of fusion molecules with fc was used to successfully create several marketed molecules, such as growth factors, cytokines, and enzymes. this technology takes advantage of fc binding to the neonatal fc receptor (fcrn), thus protecting the whole molecule from degradation, and instead favoring recycling [9]. although the half-life of rfviii-fc could be even longer, further extension is limited by the binding with von willebrand factor (vwf) [9]. in a-long [11] and a-long kids phase iii studies [14] and their extension study (aspire) [15], efmoroctocog alfa was proven to be both safe and effective in the prevention and treatment of bleeding events in patients with severe hemophilia a. efmoroctocog alfa is indicated in both children and adults with hemophilia a and, thus far, it is the only long-acting fviii licensed in children [16]. the present case series was born after an online meeting among 7 physicians treating hemophilia in veneto (italy) area. the aim was to share expertise about the management of complex clinical cases in 5 different centers. in fact, even though included in the most recent wfh guidelines [4], the use of ehl products, due to the recent marketing authorization and the paucity of data about their use in the real world, is still a matter of concern for some clinicians and patients. descriptions of cases herein, we retrospectively describe a series of five clinical cases in five centers located in the veneto region, italy (hematology unit, aulss 8 berica in vicenza; veneto oncology institute in castelfranco veneto [tv]; hemophilia center in padova; pediatric oncohematology, aoui verona in verona; and hemophilia center, aoui verona in verona). the main characteristics of the patients and the outcomes before and after the start of prophylaxis with efmoroctocog alfa are reported in table i. patient 1 patient 2 patient 3 patient 4 patient 5 year of birth 2001 1984 1998 2002 1992 age at diagnosis 6 months 3 years 9 months 13 years 1 year type of hemophilia (% of fviii) severe hemophilia a (fviii = 0.8%) severe hemophilia a (fviii = 0.8%) severe hemophilia a (fviii <1%) mild hemophilia a (fviii = 13%) severe hemophilia a (fviii = 1%) genetic findings, cdna (protein) c.6429+?_6430-?inv (invint22) c.6429+?_6430-?inv (invint22) c.6429+?_6430-?inv (invint22) c.5879g>a (p.arg1960gln) c.4509delc (p.leu1504cys fs*63) before* after before* after before* after before* after before* after drug** octocog efmoroctocog alfa octocog alfa efmoroctocog alfa moroctocog alfa efmoroctocog alfa fviiipd on demand efmoroctocog alfa octocog alfa efmoroctocog alfa infusion frequency 3 times/week every 3 days 3 times/week 2 times/week 3 times/week every 3 days on demand every 4 days 3 times/week every 3 days drug consumption (week) 9000 iu 7000 iu 6000 iu 4000 iu 9000 iu 7000 iu on demand 3500 iu 9000 iu 10,000 iu hjhs (target joints) 4 (right ankle) 1 (right ankle) nd: right ankle reduced range of motion, left knee prosthesis nd 11 (elbows and right ankle) nd 0 0 12 (elbows and ankles) 8 abr 7–8 1 3 3 2–3 0 8 1 1 0 72 h trough level (iu/ml) 0.0015 0.042 nd 0.03 <0.01 0.02 nd 0.10 0.006 0.016 96 h trough level (iu/ml) <0.01 0.02 nd 0.01 <0.01 <0.01 nd 0,1 nd nd half-life (hours) 11 20 nd nd 8.50 12.25 nd 10.25 9 12 summary of clinical findings and symptoms frequent hemarthrosis with chronic hypertrophic synovitis (right ankle), chemical synovectomy at the age of 16 (right ankle) mobile, ankle without pain, no pastiness limited right elbow flexion, painful right knee, left knee with arthroplasty, left ankle with reduced joint range, need to reduce the frequency of infusions good quality of life, more freedom with regards to the infusion regimen, one hemarthrosis/year, around two muscle hemorrhages/year hemarthrosis, relapsing nose and post-traumatic bleeding, synovial hypertrophy (elbows), cartilage alteration (elbows and ankles). pain in the elbows, and especially in the ankles no spontaneous or traumatic bleeding. no pain in the elbows, but still pain in the right ankle after rest head-us: score 0 at knees and ankles, 0–1 at elbows. high incidence of muscle hematoma, and some hemarthroses net reduction of hemarthroses, better quality of life hemarthroses, pain and reduced motility at the ankles. osteochondral damage at the elbows, synovitis at the ankles = 1 no hemarthroses and no pain at the ankles. synovitis at the ankles = 0 table i. summary of clinical and laboratory findings of the case series *before: last drug taken before the switch to efmoroctocog alfa **in prophylaxis if not otherwise specified abr: annualized bleeding rates; hjhs: hemophilia joint health score; nd: not determined case 1 case 1 was an eighteen-year-old patient affected by severe hemophilia a. he was diagnosed at 6 months of age as a result of left elbow hemarthrosis and started prophylaxis with octocog alfa 40 iu/kg twice a week at 3 years of age. his lifestyle was sedentary and his only physical activity was performed at school. he had consistent physical development and, by age 14, he was 1.83 m in height and 90 kg in weight; at this age, he started to suffer from recurrent hemarthrosis events at the right ankle, as well as the development of hypertrophic chronic synovitis, which was also detectable by joint ultrasound. a chemical synovectomy was attempted at the age of 16 and the weekly dose was raised (30 iu/kg three times a week), but his through levels remained about 1.5 iu/dl, his joint annualized bleeding rate (jabr) was still 7–8/year, and the bleeding was always in the right ankle (target joint). in september 2018, at the age of 17, a switch to efmoroctocog alfa was suggested and pharmacokinetic (pk) testing was performed. the pk profile was very good and the half-life in this patient was 20 hours. the infusion of efmoroctocog alfa 3000 iu every 72 hours (30–35 iu/kg), i.e., a lower weekly dose, allowed this patient to maintain the through levels at 4.2% after 72 hours and the estimated half-life at 20 hours (as predicted using the web-accessible population pharmacokinetic service-hemophilia [wapps-hemo]). now, he continues to have consistent physical development (2.0 m in height and 93 kg in weight), his ankle remains mobile and painfree, without any pastiness, and his jabr diminished to 1/year. a further joint ultrasound is to be performed. case 2 case 2 was a patient born in 1984; he was diagnosed with severe hemophilia a when he was a toddler, never developed inhibitors, and was never infected by blood-borne viruses. complete anamnestic data were available from 1996, when 10–15 hemorrhagic events/year were registered, affecting both muscles and joints (knees, ankles, and elbows). initially, he underwent on-demand treatment with pdfviii and subsequently with rfviii. his joint health worsened, and he underwent arthroplasty to the left knee in 2009. in 2010, he started prophylaxis with octocog alfa 2000 iu three times a week (33 iu/kg), which improved his clinical condition, and joint and muscle hemorrhagic events became less frequent. in 2016, although his general health conditions were self-reported as good, physical examination revealed limited right elbow flexion, pain in the right knee, left knee with arthroplasty, and reduced joint range in the left ankle (he had also undergone infiltration cycles in the knee). he switched to efmoroctocog alfa in 2017 in order to reduce the frequency of administration. pk testing revealed the maintenance of fviii levels at 3% on the 4th day. he agreed to start a regimen with two infusions (2000 iu each, 33 iu/kg)/week. with this regimen, he presents with only one hemarthrosis/year and two muscle hemorrhages/year, which generally occur just before a new infusion and as a consequence of swimming. he reports a good quality of life, performs moderate physical activity, and does not undergo physiotherapy. case 3 case 3 was a patient born in 1998 who was diagnosed with sporadic severe hemophilia a at the age of 9 months as a result of spontaneous hematomas on the limbs. initially, he received on-demand moroctocog alfa. he had an active lifestyle and loved to travel. he also suffered from several spontaneous bleeding events, such as hemarthrosis at the elbows and ankles and relapsing epistaxis, and had several emergency room (er) admissions. he started prophylaxis treatment three times a week with increasing doses. over the course of several years, he had several post-traumatic bleeding events, such as epistaxis after head trauma, internal cheek injury, hand injury, and right wrist hematoma. a joint ultrasound performed in 2015 revealed synovial hypertrophy at the elbows, and cartilage alterations up to 50% in the elbows and ankles. in 2016, mri detected severe arthropathy in the right ankle. in may 2017, his hjhs score was 11, with elbows and right ankles as target joints. in november 2017, he required ialuronic acid infiltration to the right ankle. his main concern was pain, which he managed with on-demand anti-inflammatory drugs. joint ultrasound (head-us) performed in january 2019 confirmed hemophilic arthropathy, which revealed grade 2 synovial hypertrophy and grade 3 osteochondral damage in both the elbows. the right ankle had grade i synovitis at the tibial and subtibial levels and grade i astragalus alteration. although he felt a higher level of pain in the ankle, ultrasound examination showed that the damage was worse in the elbows. it is worth noting that he worked as a turner. his last prophylaxis regimen with moroctocog alfa started in july 2017 and involved administration of 3000 iu three times a week. in april 2019, as a result of ultrasound findings and joint pain, pk testing was performed with both moroctocog alfa and a long-acting fviii (efmoroctocog alfa), even considering that pain worsened 48 hours after the last infusion. he accepted the evaluation of pk for moroctocog alfa, which was consistent with clinical findings and revealed a short half-life that was unable to guarantee at least 1% fviii between two subsequent infusions, but he did not wish to test efmoroctocog alfa. however, when he changed his mind, in july 2019, pk testing of efmoroctocog alfa was performed and revealed levels above 1% for 100% of time. when the two pk profiles were compared, a 30.6% increase in half-life and a 21.8% yearly reduction in infusions were predicted. it took two further months to make the decision to switch to efmoroctocog alfa 3000 iu every 72 hours. after the switch had been made, he had no bleeding and no pain in the elbows. however, he continues to feel pain at the right ankle, affected by an important arthropathy, although only when he starts moving after extended rest. case 4 in contrast to the previously reported cases, case 4 was diagnosed with mild hemophilia at the age of 13, when he was referred to the center in verona. he had an unknown family history of hemophilia, but the mother affirmed that the boy has always had a lot of hematomas, in addition to having a very active lifestyle. in particular, he had periorbital hematoma at the age of 3, which lasted for 6 months, long-lasting bleeding (several weeks) after a tooth extraction, and he had to stop playing soccer and riding a bicycle due to frequent hematomas and cutaneous bleedings. following several er admissions, suspicions of mistreatment were also raised. even after blood tests, which were performed when he was 10, showed an aptt ratio of 1.52, the pediatrician did not suspect hemophilia, but luckily the mother did. he was initially treated with desmopressin, but his response was low. afterwards, he was treated with on-demand plasma-derived coagulation factor viii concentrate. genetic testing was performed, and family analysis revealed that the mother and the grandmother were carriers. in addition, the younger brother, even though he did not experience as much bleeding, was also affected, and had an fviii of 14%. due to several episodes of muscle bleeding, including two episodes involving the iliopsoas muscle, as well as the occurrence of hemarthroses (the head‐us sonographic scoring system was 0 per knee and ankle and 0–1 at the elbow level), prophylaxis was started in august 2019 after the need for several infusions of pdfviii. plasma-derived concentrates were avoided, owing to their high volumes and consequent transport inconvenience. a regimen of 27 iu/kg (2000 iu) efmoroctocog alfa every fourth day was started. the patient never developed inhibitors, and his ultrasound findings did not worsen despite some hemarthroses, although with a reduced incidence. since the start of prophylaxis with efmoroctog alfa, he feels much better, has an improved quality of life, and has had just one episode of traumatic bleeding. case 5 case 5 was a patient born in 1992, who was diagnosed with sporadic severe hemophilia a when he was 1 year old. his trough levels were unsatisfactory and he experienced frequent spontaneous and post-traumatic bleeding episodes from 1 year old (melena, hematoma in the right buttock extended to the thigh, frequent bruising, and hematomas), which were treated with on-demand pdfviii and, later, rfviii. in particular, he was hospitalized for an important epistaxis, and he experienced frequent traumas due to his active lifestyle. from 10–15 years old, despite the young age, he suffered from reduced mobility and pain due to the ankles, which were target joints. in 2000, he started prophylaxis with octocog alfa, raising the frequency from two to three infusions per week, 2000 iu per infusion, due to frequent hemarthrosis and the fact that his ankles were target joints. furthermore, in 2003 and 2004, he was also treated with cycles of hyperbaric oxygen therapy. in 2012, the dose of octocog alfa was raised to 3000 iu. following this increase, he felt generally better and the bleeding was diminished, but he still had some episodes, most of which were hemarthroses (two in 2016, three in 2017, one in 2018, and one in 2019). later, he spoke of a desire to travel, and consequently wished to reduce the frequency of infusions. when octog alfa went out of market, he had to choose a new product. in may 2019, he started prophylaxis with efmoroctocog alfa 4000 iu every 3 days. pk testing was performed with both octocog alfa and efmoroctocog alfa, and the comparison showed high levels of fviii with the latter. he had no further bleeding after starting prophylaxis with efmoroctocog alfa in may 2019. unfortunately, his joints were already damaged. hjhs detected a loss of extension to both the elbows, especially to the left one, while his ankles were less compromised at a functional level; head-us revealed a damage in both the cartilage and bone in elbows and ankle but a synovitis scored 0-1. discussion when comparing the data of these five patients (table i), the age at diagnosis seems to be related to the severity of the disease, as the patients with severe disease were diagnosed earlier than patients with mild hemophilia. in fact, it is well known that mild hemophilia is generally underdiagnosed, or diagnosed later in life, especially in the absence of known familiarity [17]. moreover, hemophilia has a wide variety of clinical manifestations, mainly affecting muscles, that, together with the lack of acquisition of self-infusion skills, make this form of hemophilia difficult to manage. genetic mutations deserve a special discussion, as they not only determine the amount of functional fviii, and consequently the severity of the disease, but also play a role in the probability of what is considered the most serious treatment-related adverse event: the development of inhibitors [5]. therefore, mutation screening should be performed in every patient, even in those with mild hemophilia [17], also crosschecking with available databases for the risk of inhibitor development. the inversion of intron 22 was responsible for the disease in three of our patients (cases 1, 2, and 3; table i). an extensive genetic study using an italian hemophilia a database [5] found that 52% of patients with a severe phenotype had inversion of intron 22. according to the champ list mutation database [18], this significant structural change is reported to be associated with severe phenotypes, as well as with the development of inhibitors. the abovementioned italian genetic study found that inhibitors indeed develop in 25% of patients carrying this mutation [5]. moreover, c5879g>a, which was found in our patient with mild hemophilia (case 4), is a missense mutation that is associated with mild/moderate forms and is not associated with inhibitor development [18]. however, none of the five current patients were found to have inhibitors. the mutation giving rise to the amino-acidic change p.leu1504cysfs*63 (found in case 5) is a frameshift mutation that has not been reported in the champ database [18]. however, another frameshift mutation has been recorded in the same amino-acidic position; this frameshift mutation results in a new termination site in the same position (p.leu1504phefs*63) and is associated with more severe forms of disease and no history of inhibitors, as in our case 5. with regard to clinical manifestations, we found that the genotype-phenotype relationship is not as strict as it may seem; this is clear from the findings that the brother of our case 4 felt much better despite having the same genetics. lifestyle and other unknown factors may play a role in the different phenotypes of hemophilia. case 4, due to the initial diagnosis of mild hemophilia, was the only patient in this case series who was not receiving prophylaxis before the start of efmoroctocog alfa infusions. the use of desmopressin has been suggested in patients with mild hemophilia a, as it is able to raise fviii levels threeto six-fold [17]. in unresponsive patients, as in our case 4, fviii treatment is suggested, but routine prophylaxis is generally not required. however, case 4 had frequent bleeding, probably due to his very active lifestyle. it is worth noting that, in addition to several other bleeding episodes, he had two episodes of iliopsoas muscle bleeding, which is considered to be one of the most dangerous sites of bleeding, as it is associated with risk of neurovascular compromise, particularly the risk of femoral nerve palsy [4]. as such, it may require hospitalization and strict bed rest may be indicated [4]. in our clinical experience, prophylaxis is sometimes needed even with mild forms of hemophilia; therefore, considering his clinical manifestations, we decided to start prophylaxis, which subsequently had a positive impact on his quality of life. since the other four patients were already receiving prophylaxis with other factors, we had to overcome their resistance to change. in particular, the 21-year-old patient (case 3) was apprehensive about switching. even though the aice guidelines [3] advise against frequent product switches in order to ease pharmacovigilance and maintain patient adherence, they support switching for clinical reasons, such as the serious arthropathies found in this patient. as observed, especially in the padova center, patients feel a strong relationship with their usual drug, which they are frequently reluctant to betray. in this center, pk testing is an essential component of the switching process, in that it often convinces patients to make the necessary switch to another product. in case 3, the insistence of physicians and his girlfriend were essential in changing his mind. in the verona center, pk testing is generally performed at the first administration because patients like to see the possible changes in order to stay motivated. it would be ideal to have further objective tools, in addition to pk curves, to evaluate when the switch is appropriate, with a higher degree of certainty and also considering the joint status. although we already know that joint status should be strictly monitored, particularly in the case of a switch, how to evaluate joint status remains an open question. we hope that increased knowledge on the use of replacement therapy will provide new useful insights in the near future. as we observed in cases 2 and 5, joint damage unfortunately cannot be reversed. case 2, who was born in 1984, had limitations of movements that were normal in patients of a similar age. in fact, fviii prophylaxis has been more freely used in the last 17 years because infections have been a major concern since the marketing of third-generation products [7, 19]. however, there is still hope for younger children who have the opportunity to start early prophylaxis with the new products, thereby preventing joint damage. with regards to the patients who were previously taking prophylaxis with another fviii (cases 1, 2, 3, and 5), weekly drug consumption was diminished in 3 of them. in addition, the frequency of administration was reduced in 4/4 patients, because, according to pharmacokinetic (pk) testing, the half-life was longer and the 72-hour trough levels were higher than those with the previous factor viii regimen in all three patients with available data (1.33–1.81-fold, similar to that reported in the a-long phase iii trial; table i). annualized bleeding rates were reduced in 4/5 patients, and remained the same in one patient (case 2; table i). hjhs was measured in three patients: it was scored 0 before and after the start of prophylaxis with efmoroctocog alfa in the patient with the mild phenotype, while in the other two patients (cases 1 and 5), it was lower with efmoroctocog alfa than with the previous fviii (table i). therapy individualization is suggested by the wfh guidelines [4] and meeting the individual needs of patients has the potential to raise compliance, as well as clinical outcomes and quality of life. efmoroctocog alfa further expands the armamentarium against hemophilia. data from the a-long phase iii study [11] and its extension (aspire) [15] confirm that individualized dose and intervals of administration based on pk curves show better results in terms of abr compared to fixed-dose regimens. in this case series, efmoroctocog alfa was able to meet the needs of every patient in terms of pain reduction (cases 1 and 3), greater freedom from infusions (cases 2 and 5), and reducing hematomas (case 4). in conclusion, the data reported in this case series are consistent with those from previous studies, and demonstrated that the use of efmoroctocog alfa in prophylaxis reduced bleeding, improved joint status, and reduced the frequency infusions. consequently, efmoroctocog alfa was able to meet the needs of the reported patients, and obtain a wellbeing status. key points the clinical cases reported here confirm the outcomes obtained with efmoroctocog alfa for hemophilia patients in phase iii clinical trials and their extension among the described patients, in general, efmoroctocog alfa reduced the number of weekly infusions, the total weekly drug consumption, and the abr efmoroctocog alfa prophylaxis was also useful in one patient with mild hemophilia patients treated with efmoroctocog alfa reported clinical improvements and general subjective wellbeing in the absence of significant safety concerns the convenience of use is also demonstrated by the fact that, so far, efmoroctocog alfa is the only long-acting fviii that is licensed in children funding publishing support and journal styling services were provided by seed medical publishers and funded by sobi italia. sobi italia also funded the meeting where the cases were discussed and the article processing charge. the funders had no role in the study design, data collection and analysis, decision to publish, or preparation of the manuscript. conflicts of interests all the authors received support for writing assistance from sobi italia. ez, at, sp, eb, and sc received fees for the advisory board where the cases were discussed. sc received fees for lectures/advisory boards from sobi and for lecture from gilead sciences srl. at received personal fees and non-financial support from novo-nordisk and werfen and personal fees from bayer outside the submitted work informed consent all the patients involved gave their informed consent for the publication of this case series. references 1. orphanet. emofilia a grave. available at https://www.orpha.net/consor/cgi-bin/disease_search.php?lng=it&data_id=17872&disease_disease_search_diseasegroup=emofilia&disease_disease_search_diseasetype=pat&malattia(e)/%20gruppo%20di%20malattie=emofilia-a-grave&title=emofilia%20a%20grave&search=disease_search_simple (last accessed october 2020) 2. world federation of hemophilia. report on the annual global survey 2017. october 2018. available at http://www1.wfh.org/publications/files/pdf-1714.pdf (last accessed october 2020) 3. rocino a, coppola a, franchini m, et 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was accompanied by radiological investigations, which did not reveal pancreatic pathology. in his family, including 10 siblings, half were carriers of this isolated anomaly; multiple cysts in pancreas, kidneys, and liver were present in some family members, in addition to a pancreatic neoplasia in a sister who did not carry the enzymatic abnormality. our patient developed colon adenocarcinoma at the age of 67. here we examine the characteristics of non-pathological chronic pancreatic hyperenzymemia defined as such by the main italian pioneer professor gullo. keywords: hyperamylasemia; hyperlipasemia; familial pancreatic hyperenzimemia; gullo’s syndrome; magnetic resonance cholangiopancreatography imaging cmi 2021; 15(1): 15-24 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v15i1.1493 case report corresponding author mauro turrin m.turrin@libero.it received: 12 january 2021 accepted: 12 february 2021 published: 30 march 2021 why do we describe this case the finding of isolated hyperamylasemia and/or hyperlipasemia not associated with abdominal symptoms involves a series of investigations aimed at ruling out or confirming a pancreatic pathology. the periodic oscillations of these enzymes, with intermittent return to normal values, can configure a benign chronic pancreatic hyperenzymemia, especially if associated with the finding of familiarity introduction chronic asymptomatic pancreatic hyperenzymemia (caph) is a persistent abnormal increase in the serum concentrations of pancreatic enzymes without pancreatic symptoms and imaging findings of pancreatic diseases. the elevation of serum enzymes is fluctuating, with frequent and temporary findings of levels within the normal range. in 1996, professor lucio gullo for the first time used the expression chronic non pathological hyperamylasemia (cnph) of pancreatic origin and named it “gullo’s syndrome” [1,2]. caph has been considered a benign condition [3] that can occur sporadically or in familial forms. case description in a caucasian subject born in 1953, an increase in amylase and lipase was found during a routine blood test check carried out in 1980. the maximum values achieved were: for total amylases 228 u/l (normal values [nv] 10-120 u/ l); for pancreatic amylase 151 u/l (nv <53 u/l); for lipase 766 u/l (nv <67 u/l). box 1. drugs associated with pancreatic hyperenzimemia (modified from [6]) paracetamol steroids azathioprine ephedrine ritodrine chemotherapy roxithromycin cyclosporine clozapine pentamidine didanosine box 2. drugs involved in the onset of acute pancreatitis (modified from [7]) didanosine azathioprine/6-mercaptopurine pentamidine stibogluconate tetracyclines: doxycycline, tigecycline amoxicillin/clavulanic acid metronidazole methimazole antihypertensives: furosemide, thiazide, α-methyldopa angiotensin-converting enzyme (ace)-inhibitors: captopril, benazepril, enalapril, lisinopril, ramipril, quinapril angiotensin receptor blockers: irbesartan, valsartan, and losartan amiodarone sulfasalazine 5-aminosalicylic acid (mesalazine) statins: simvastatin, pravastatin, rosuvastatin dipeptidyl peptidase-4 inhibitors: sitagliptin, saxagliptin, alogliptin, and vildagliptin glucagon-like-peptide–1 receptors agonists: albiglutide, exenatide, and liraglutide sodium-glucose cotransporter 2 inhibitors: canagliflozin l-asparaginase valproic acid sulindac salicylates calcium estrogen trenbolone (anabolic steroid) tamoxifen antipsychotics: olanzapine, clozapine, quetiapine, and mirtazapine paracetamol these findings were never associated with abdominal pains or acute back pain. during the 40-year observation period, the increased values alternated with normal values: no pancreatic disease has been recorded so far. a first ultrasound of the complete abdomen, performed 8 years after the first finding of hyperenzymemia, showed: moderate hepatic steatosis, a small incision at the right kidney, a prostate with adenoma aspect in the central site. the patient was affected by: sleep apnea syndrome, esophageal hiatus hernia, chronic gastritis, diffuse colon diverticulosis, hyperplastic descending colon polyp, arterial hypertension, nasal obstruction, coxarthrosis (arthroplasty), chronic obstructive pulmonary disease, type 2 diabetes mellitus (in diet therapy only), thyroid node, fusiform aneurysm on the right iliac artery, and prostatic hypertrophy. a new diagnosis of renal insufficiency, viral hepatitis, sjögren syndrome [4], celiac disease, and inflammatory bowel diseas [5] was not made. alcohol intake was occasional and moderate. he did not use any drug that could induce hyperamylasemia or hyperlipasemia (box 1 [6]) or acute pancreatitis (box 2 [7]). his family history revealed: a mother who died at the age of 63 years after cholecystectomy for multiple cholelithiasis; out of 10 siblings, half were carriers of hyperamylasemia (with a maximum value of 1900 u/l) and/or hyperlipasemia (with a maximum value of 1622 u/l), found after the age of 27-44 years; a sister, born in 1936, suffering from hashimoto’s thyroiditis and myelofibrosis, died at 82 years from aplastic anemia; a brother, born in 1945, is a carrier of prostate cancer and has pancreatic cysts on abdomen ct scan; a 69-year-old brother is a carrier of cystic pancreatic lesions detected by ct scan; a brother, born in 1956, is a carrier of isolated hyperenzymemia; it should also be noted that out of two sisters without hyperenzymemia, one died at 79 years for cancer of the breast and pancreas, while the other, 81-year-old, carries multiple cysts of pancreas, kidney, and liver. the genealogic tree is shown in figure 1, whilst table i details the clinical features of the family members. figure 1. genealogical tree study. i, ii, iii = first, second, and third generation affected year first answer total amylase (nv 10-120 u/l): maximum value achieved lipase (nv <67 u/l): maximum value achieved observation period (number of years) cause of death (year) comorbidities pancreas cancer pancreatic cysts hepatic and renal cysts type 2 diabetes arterial aneurisms colon diverticulosis colon cancer hypertension prostatic hypertrophy prostate cancer hip osteoarthritis affected 1936 f 1980 1900 1200 38 myelofibrosis (2018) x x x 1945 m 1980 900 1100 40 x x x x 1950 m 1980 610 1622 40 x x x x 1953* m 1980 228 766 40 x x x x x x x x 1956 m 1989 209 656 31 x not affected 1938 f x x x 1939 f breast cancer metastasis (2018) x (2008) 1941 m undifferentiated cancer metastasis (2008) x x x x 1943 m trauma (2003) 1947 m x x x x x x x table i. clinical features of the patient in analysis (*) and his 9 siblings, 5 of whom were carriers of chronic pancreatic hyperenzymemia. nv = normal values in our subject the presence of macroamylasemia and macrolipasemia was excluded (as well as macro-creatine phosphokinase—macro-cpk). the periodic control of oncological markers (ca19-9) was negative. the evolution over time of total amylase, pancreatic amylase, and lipase values is shown in table ii and figures 2 and 3. additional laboratory tests are shown in table iii. date total amylase (nv 10-120 u/l) pancreatic amylasis (nv <53 u/l) lipase (nv 267 u/l) ca 19.9 (nv <31 ku/l) cea (in non-smokers nv <4 μg/l) 2005 93 150 8.04 2008, march 115 151 2.44 2008, december 160 387 2.04 2009, february 181 489 2009, december 66 22 3.55 2010 90 76 2011, may 134 309 2011, november 228 670 9.02 2012, february 65 32 2012, june 87 59 7.89 2012, september 156 411 8.07 2013, january 21 39 8.90 2016 129 766 2017 86 504 2018 22 2019, february 151 364 2019, september 117 75.8 219 80 1.8 2019, october: colon adenocarcinoma, right hemicolectomy 2019, december 4.2 1.5 2020, february 10.8 3 2020, june 65 27 9.2 (nv <35.4)* 3.3 2020, october 10.6 2 2020, november 141 (nv: <100)* 402 (nv <60)* table ii. summary table of pancreatic enzyme (and oncologic markers) values in our patient relating to 19 consecutive blood tests, found over a 15-year period. maximum values reached are in bold. lipase and total amylase were measured with kinetic colorimetric method, pancreatic amylasis using enzymatic kinetic method, and ca 19.9 and cea employing chemiluminescence. nv = normal values *change in normal values in 2020 figure 2. graphic representation of maximum serum values of pancreatic enzymes (38 determinations) over 15 years in our patient. enzymes were abnormally elevated, albeit with fluctuations and transient normalization. in the period 2013-2019 only pancreatic amylases were measured in our laboratory. nv = normal values figure 3. fluctuating values of total amylase and lipase from 2005 to november 2020. in the period 2013-2019 only pancreatic amylases were measured in our laboratory. nv = normal values parameter detected level normal range 2018 2019 2020 march may may october (pre-surgery) december (pre-chemoterapy started by 12/2019) january february march june july october november glucose (mmol/l) 7.6 5.2 7.5 7.5 7.7 3.35-5.55 glycated hemoglobin (%) 6.2 5.8 4.7 6.3 4-6 aspartate aminotransferase (u/l) 17 23 19 18 20 17 37 26 29 <35 alanine aminotransferase (u/l) 14 23 29 23 15 20 14 34 22 39 <45 total bilirubin (µmol/l) 10.5 8.9 11.3 9.8 16.3 16.9 13 1.7-17 conjugated bilirubin (µmol/l) 4.3 4.0 4.9 3.8 6.4 2.85 <5.1 γ-glutamyltransferase 35 34 51 70 60 3-55 sodium (mmol/l) 139 138 138 142 140 138 146 136 136-145 potassium (mmol/l) 3.8 3.8 3.9 3.8 3.8 3.8 4.7 3.8 total creatine kinase (u/l) 117 <171 c-reactive protein (mg/l) 30.46 3.27 <5 creatinine (µmol/l) 83 87 99 103 103 95 102 116 104 93 64-104 total cholesterol (mmol/l) 5.11 5.05 4.9 <4.92 hdl cholesterol (mmol/l) 1.21 1.18 1.06 <1.40 triglycerides (mmol/l) 1.10 1.61 1.36 <1.70 prostate specific antigen (psa) (µg/l) 1.69 1.73 1.42 1.23 1.51 <4 red blood cells (× 1012/l) 5.39 5.24 4.86 4.9 4.42 4.37 4.05 4.55 5.53 4.50-5.50 hemoglobin (g/l) 161 155 142 141 128 136 136 147 163 135-160 platelets (× 109/l) 165 144 161 160 142 180 130 170 156 150-400 white blood cells (× 109/l) 7.19 1.88 5.85 4.15 3.6 4.46 3.02 4.34 4.80 4-10 neutrophils (× 109/l) 4.23 1.31 3.42 1.92 1.97 2.36 1.39 2.45 2.32 1.9-8 total protein (g/dl) 6.8 6.7 6.9 6.6-8.7 albumin (%) 66.4 66.1 55.8-66.1 α-1-globulins (%) 2.8 3.1 2.9-4.9 α-2-globulins (%) 8.1 7.8 7.1-11.8 ß-1-globulins (%) 6.3 6.3 4.7-7.2 ß-2-globulins (%) 4.3 4.5 3.2-6.5 γ-globulins (%) 12.1 11.8 11.1-18.8 table iii. summary table of laboratory tests performed during the last two years (2018-2020), before and after surgery (hemicolectomy) with subsequent chemotherapy. in 2018, after 38 years from the first finding of hyperenzymemia, the magnetic resonance imaging (mri) findings of the upper abdomen revealed: liver containing some small cystic formations scattered in both lobes, the greatest being 10 mm large; pancreas within limits; some bilateral renal cystic cortical formation, greater than 17 mm; no areas of pathological enhancement after paramagnetic contrast medium infusion (gadoteridol) of the upper abdomen organs. the magnetic resonance cholangio-pancreatography (mrcp) [2] showed no biliary lithiasis, no dilatation of the intrahepatic biliary tree, hepato-choledochus with a maximum caliber of 7 mm, regular wirsung duct (figure 4). figure 4. findings from magnetic resonance cholangio-pancreatography (mrcp) performed in 2018. the arrows indicate normal pancreas (a and b). figure 5. contrast-enhanced abdominal ct scan in october 2020 showed normal pancreas (red arrow). the laboratory tests performed in february 2019 (table ii) demonstrated: total amylase = 151 u/l (nv 10-120 u/l), lipase = 364 u/l (nv 2-67 u/l), γgt = 53 u/l (nv <55 u/l), blood glucose = 107 mg/dl, total cholesterol = 197 mg/dl, triglicerides = 153 mg/dl. the laboratory tests in september 2019 have found: lipase = 219 u/l (nv 13-60 u/l), α faecal calprotectin = 81 μg/g faeces (nv <50 μg/g) [8], ca 19-9 = 80 ku/l (nv <31 ku/l), positive occult blood in the faeces. in october 2019, colonoscopy showed an ulcer in the right flessure and the biopsy revealed an adenocarcinoma. the patient underwent right hemicolectomy (october 2019) and subsequent 8 cycles of chemotherapy (oxaliplatin + capecitabine). he was negative for the nasopharyngeal swab for covid-19. laboratory tests in june 2020, after the last course of chemotherapy, showed: amylase = 65 u/l (nv 10-120 u/l), lipase = 27 u/l (nv 2-67 u/l), ca 19-9 = 9.2 ku/l (nv <35.4 ku/l), cea = 3.3 μg/l (nv <4.0 μg/l). the contrast-enhanced abdominal ct scan revealed normal pancreas, minute hypodensity of cystic appearance in the liver, bilateral renal cysts, the largest 24 mm on the left. the most recent laboratory tests, performed in november 2020 (tables ii), detected serum amylase = 141 u/l (nv <100 u/l) and serum lipase = 402 u/l (nv <60 u/l). the contrast-enhanced abdominal ct showed normal pancreas, unchanged liver, and kidney cysts (figure 5). what should the clinician ask him/herself or the patient? are changes in pancreatic enzymes associated with abdominal disorders? was the finding of hyperamylasemia and/or hyperlipasemia occasional? is periodic control of pancreatic enzymes recommended? what first level investigations should be performed? which second level investigations are to be considered optional? how long should pancreatic enzymes be monitored? is there familiarity? when can we reassure the patient about the benignity of the anomaly? could there be dietary suggestions or drug treatments capable of reducing the pancreatic abnormality? discussion our clinical case meets the criteria for the definition of chronic asymptomatic pancreatic hyperenzymemia. in fact, the diagnostic criteria are [9,10]: an increase by >10% of the upper normal limits of serum amylase and/or lipase found on >3 occasions, lasting more than 6 months; absence of upper abdominal or back pain; idiopathic presentation. we excluded through the mrcp the presence of any associated congenital anomalies (pancreas divisum, annular pancreas, wirsungocele, cystic lesions at the pancreatic tail, santorinicele, diffuse dilation of the main pancreatic duct) and intraductal papillary mucinous tumor of the pancreas, as these alterations have been described in some cases [11-14]. we did not perform a mrcp with secretin stimulation, currently considered as the method of choice in the study of caph subjects [9,15] for the search for sphincter of oddi dysfunction or even early (mild) chronic pancreatitis: this investigation would not have added significant data to the always stable clinical picture. similar considerations apply to the use of endoscopic ultrasonography [16-18]. in the family group in analysis, two brothers with hyperenzymemia had pancreatic cysts, while a third brother had only hepatic and renal cysts. of two siblings without hyperenzymemia, one had multiple cysts in the pancreas, kidney, and liver, while the second died due to pancreas (and breast) cancer at the age of 79 years. the significance of these associations, as well as the appearance of colon adenocarcinoma in our patient, at the present time is not clear. the patients must be followed for a period of at least one year before labeling their pancreatic hyperenzymemia as benign, because in 1-2% of cases of pancreatic cancer, asymptomatic pancreatic hyperenzymemia can be an early witnessed laboratory abnormality, especially in elderly age group [19,20]. in adulthood, the prevalence of incidentally found pancreatic cystic lesions is high (between 2.6% and 19.6%) [21-24]. they are heterogeneous and include malignant, benign, and pre-malignant lesions, capable of evolving into invasive carcinoma over time. the differential diagnosis between intraductal papillary mucinous neoplasm, mucinous cystoadenoma and serous cystoadenoma could be made by endoscopic ultrasonography fine needle aspiration or even better with endoscopic ultrasonography through-the-needle microforceps biopsy [25], with the determination of intracystic glucose concentration, having been found to be more sensitive than the concentration of carcinoembryonic antigen [24]; however, this investigation is not carried out in our hospital. it should be considered that a long-lasting caph, defined as benign, should be studied in depth at least with mrcp for the possibility, among others, of finding intraductal papillary mucinous neoplasm in small pancreatic cystic formations [12,14,26]. also for this reason, the follow-up of hyperenzymemia must be continued for at least two years [27]. in our patient, after the end of chemotherapy for the colon adenocarcinoma, the fluctuations of lipase and amylase remained unchanged. the ethiology of gullo’s syndrome remains unknown. it is known that there is a defect in the basolateral surface of the acinar cells that causes the increased secretion of pancreatic enzymes into the blood or the effect of secretin in the pancreatic duct of wirsung [2]. regarding the study of cystic fibrosis transmembrane conductance regulator (cftr) gene mutations and serine peptidase inhibitor, kazal type 1 (spink1) and serine protease 1 (pssr1) genes, no significant differences compared to the general population have been described in benign familial hyperenzymemia [28-30]. the prevalence of caph among subjects who underwent blood tests for multiple pancreatic serum enzymes was 2% in a retrospective cross-sectional observational study in a large sample of the general italian population [31]. in another italian case series relating to 125,483 total accesses registered in a university emergency department [32], a prevalence of benign pancreatic hyperenzymemia equal to 0.09% cases for every 100,000 accesses was found. unlike the very extensive italian cases, reports in other countries are limited. in literature, few cases are reported in japan [4,11], belgium [14], usa [17,33], india [34], taiwan [35], brazil [36], austria [37], poland [38], ukraine [39], australia [40], spain [41,42], venezuela [43], morocco [44], and germany [45]. the most recent italian case series was published in december 2019 [46]. pancreatic hyperenzymemia can appear at almost every age: the ratio of affected men and women is 1.5:1. it is a rare finding in children: only a few sporadic cases have been described in the literature [41,47-49]. the coexistence of hyperenzymemia in siblings is diagnostic for familial form of caph, which has an incidence between 4% and 39% in the series described in the literature [3,8,10,12,39,43,50]. conclusion in the family group here described, the long follow-up between 31 and 40 years confirms the benignity of the enzymatic anomaly regarding pancreatic diseases. this familial association supports the concept of a genetic basis underlying pancreatic enzyme abnormalities, despite the fact that so far no correlations have been found with the genetic mutations studied. key points the increase in serum amylase and/or lipase affects the extension of first-level laboratory and instrumental investigations aimed at confirming the presence of a pancreatic pathology. pancreatic hyperenzymemia may be secondary to extra-pancreatic diseases. the periodic, but persistent over time, fluctuations of these enzymes with frequent return to normalization can result in chronic pancreatic hyperenzymemia (gullo’s syndrome), which is considered in most cases to be a benign enzymatic anomaly. gullo’s syndrome remains a diagnosis by exclusion: from the first finding of hyperenzymemia it is necessary to wait two years before confirming it. in order to reach the diagnosis of caph, “second level” radiological investigations (mrcp, endoscopic ultrasonography) are necessary to rule out pancreatic anomalies (especially) of an anatomical type. the presence of this anomaly in relatives is an indicative element to confirm the diagnosis and its benignity. consent to publication the consent to publication was obtained from the patient here described. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. orcid mauro turrin: https://orcid.org/0000-0003-2100-2104 lucia fornasiero: https://orcid.org/0000-0003-1138-8613 references 1. gullo l, lucrezio l, migliori m, et al. benign pancreatic hyperenzymemia or gullo’s syndrome. adv med sci 2008; 53: 1-5; https://doi.org/10.2478/v10039-008-0027-7 2. gullo l, lucrezio l, calculli l, et al. magnetic resonance cholangiopancreatography in asymptomatic pancreatic hyperenzymemia. pancreas 2009; 38: 396-400; https://doi.org/10.1097/mpa.0b013e31819d73b3 3. galassi e, birtolo c, migliori m, et al. a 5-year experience of benign pancreatic hyperenzymemia. pancreas 2014; 43: 874-8; https:/doi.org/10.1097/mpa.0000000000000138 4. masuko k, morishita t. chronic asymptomatic hyperenzymemia of the pancreas suggestive of the presence of undiagnosed sjögren syndrome. pancreas 2020; 49: e85-e86; https://doi.org/10.1097/mpa.0000000000001645 5. iida t, wagatsuma k, hirayama d, et al. the 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description, psychodiagnostic test results are discussed in order to highlight signs and symptoms of considered subjects. the described method allows to “explore” psychodynamic spaces hidden by psychic defenses that prevent a clear understanding of the psychic functioning and the operative plot at the intraand inter-personal level of the subject. keywords: language; evolutionary sequence; psychology; psychopathological diagnosis cmi 2022; 16(1): 13-20 http://doi.org/10.7175/cmi.v16i1.1526 case series corresponding author roberto infrasca roberto.infrasca@libero.it received: 7 april 2022 accepted: 22 june 2022 published: 5 july 2022 perché descriviamo questo caso? le patologie psicologico-psichiatriche sono difficili da individuare e distinguere; risulta dunque essenziale definire un procedimento utile all’individuazione di una diagnosi psicopatologica basandosi anche sulla comunicazione e sui rapporti intrae inter-personali dei pazienti introduzione nel lavoro psicologico-psichiatrico sull’adulto, la diagnosi psicopatologica rappresenta un indicatore importante per indirizzare il quadro clinico osservato verso la terapia psicofarmacologica, quella psicoterapeutica o l’associazione delle stesse. la diagnosi diviene quindi un momento importante sia per il clinico sia per il paziente. un valido e attendibile ausilio in questo settore clinico arriva dalla somministrazione di test e dal colloquio. dai colloqui preliminari è possibile raccogliere notizie sulla storia del paziente, sulla sua infanzia e adolescenza e sugli eventuali microe macro-traumi subiti durante questi periodi maturativi. un ulteriore e affidabile contributo proviene dall’utilizzazione di indicatori quali il linguaggio non verbale e un insieme ordinato che abbiamo definito “sequenza evolutiva”. riguardo al linguaggio non verbale [1], mehrabian afferma che quello del corpo riveste un ruolo sostanziale nella comunicazione dei propri sentimenti e atteggiamenti (mimica facciale, gestualità, tono della voce, volume e ritmo della vocalità, ecc.), modalità che veicola per l’autore il 93% del contenuto, mentre la comunicazione verbale (la parola) ne esprime solo il 7%. in tale scenario, la mera comunicazione verbale riferisce solo una piccola porzione dell’ampio spettro comunicativo appartenente alla personalità e alla sua semantica. il linguaggio non verbale può rappresentare un mezzo per cogliere il messaggio reale e quello celato che può non essere esplicitato (difesa). infine, deve essere tenuto presente che, quando le due strutture si evidenziano in netto contrasto, il messaggio è probabilmente ambiguo e scarsamente attendibile. la sequenza evolutiva descrive la modalità psico-emotiva, cognitiva, comunicativa e comportamentale del paziente nel rapporto intrae inter-personale. tale aspetto evidenzia un suo valore caratterizzando tutti e tre i principali stadi evolutivi dell’individuo: infanzia, adolescenza e maturità. di fatto la successione descrive la particolare modalità attraverso la quale il soggetto sente → pensa → comunica → agisce [2]. nonostante la sua precoce formazione, tale susseguirsi evolutivo diviene molto importante in quanto racchiude in sé le molteplici esperienze vissute e la loro influenza sul profilo assunto dalle successive configurazioni, che determinano la possibilità di uno sviluppo adattivo o disadattivo dell’individuo. tale originaria sequenza assume nei primi anni di vita (e in quelli successivi) il ruolo di “suggeritore interno”, struttura psico-emotiva che indica o impone all’individuo un particolare sentire e pensare, dimostrando, nella pratica clinica e nel presente lavoro, la sua influenza sul rapporto intrae inter-personale e anche negli esiti dei test psicodiagnostici utilizzati. questa istanza, profondamente influenzata dalla modalità psichica, cognitiva, comunicativa e comportamentale acquisita nell’infanzia, viene letteralmente “forgiata” dalla valenza delle esperienze vissute, tonalità che condizionerà anche il profilo assunto dalla sua personalità, divenendo un’impronta che difficilmente sarà cancellata nel successivo tragitto evolutivo. nascita e formazione della sequenza evolutiva questa importante sequenza inizia a formarsi durante l’infanzia, quindi in un periodo evolutivo in cui il bambino è indifeso rispetto agli stimoli esterni (inizialmente quelli esercitati dalle figure genitoriali) in quanto non fornito di idonee strutture psichiche di difesa e data la sua plasmabilità psico-emotiva e cognitiva. nei primi mesi di vita il bimbo utilizza unicamente la prima struttura della sequenza, il “sentire”, ambito composto da elementari sensazioni neurofisiologiche (fame-sazietà, caldo-freddo, ecc.). nei successivi periodi si assiste alla deambulazione, attraverso la quale il bambino inizia a scoprire l’ambiente e le sue reazioni, passaggio che determina un accrescimento del sentire, la sollecitazione di un primigenio pensiero e la comunicazione, dinamica evolutiva ampiamente influenzata dal profilo assunto, nell’infanzia, dai processi di attaccamento [3-5], di separazione-individuazione [6] e di sintonizzazione affettiva [7]. la fisionomia assunta dal rapporto con le figure genitoriali, relazione che avrà un ruolo decisamente rilevante durante l’età pediatrica (sino ai 12 anni), diviene essenziale, poiché le esperienze interpersonali con queste figure determineranno sensibili conseguenze su quelle intrapersonali del bambino. questi vissuti verranno archiviati nel soggettivo magazzino degli elementi esperienziali (mee) [2], divenendo una traccia stabile che accompagnerà il bambino durante il suo percorso evolutivo (infanzia, adolescenza, maturità). nel primo elemento, il “sentire-provare” infantile, vengono memorizzate le esperienze quotidiane di tale periodo insieme alla valenza con cui sono state vissute, caratteristica che determina un profilo esperienziale positivo ed evolutivo (naturale) oppure negativo e disadattivo (psicopatogenetico). per questo motivo, la sequenza assume rilevanza in quanto le sensazioni del bambino (sentire e provare) influiscono sul pensiero, sulla modalità comunicativa e sull’assetto comportamentale. la fisionomia assunta da questi elementi partecipa attivamente alla costruzione della nascente personalità e delle sue importanti caratterizzazioni: l’identità sessuale, la consapevolezza di sé, uno schema di pensiero critico (insight) o circolare e riproduttivo (automatico), la modalità di relazionarsi, la tipologia del rapporto con la realtà, la consapevolezza di sé legata alla consapevolezza dell’altro oppure ancorata all’individualismo, la capacità o l’incapacità di rispondere a domande quali “chi sono io?”, “chi sei tu?”. tramite queste caratterizzazioni il soggetto sperimenta quindi il suo complessivo “esserci” o “non esserci” nel mondo. in questo scenario, la relazione del bambino con la caratterologia delle figure genitoriali e l’atmosfera familiare in cui vive assumono un ruolo decisamente rilevante per il modellamento della sequenza che il bambino utilizzerà nel costruire il vissuto di sé (realtà interna) verso gli altri e l’ambiente (realtà esterna). in altre parole, si tratta del cromatismo psico-emotivo e cognitivo attraverso il quale il bambino vive ed elabora due realtà: quella interiore (io) e quella ambientale (non io). i risultati di un recente lavoro dal titolo “come (non) si diventa grandi” [8], corroborati da calcoli statistici, permettono alcune ulteriori considerazioni. muovendo dal presupposto che i genitori ragionevolmente affettivi risultano i più adatti per l’evoluzione dei fondamentali processi infantili (attaccamento, sintonizzazione affettiva, separazione-individuazione) e quindi tendono ad agevolare uno sviluppo adeguato del bambino, per il restante intreccio tra personalità genitoriali di tipo anaffettivo, autoritario e iperprotettivo questi processi possono incontrare rilevanti difficoltà e ostacoli nel loro naturale fluire, con negative riverberazioni sul bambino rispetto alla costruzione del suo sentire-pensare-comunicare-agire e quindi sul profilo della sua personalità di base costruita durante il periodo prescolare. l’apprendimento e la costruzione degli indicatori descritti non rimangono confinati al pur prolungato stadio infantile, entrando in quello adolescenziale con i sensibili cambiamenti che questo prevede (corporei, ormonali, psichici, relazionali e sociali). questo nuovo terreno esistenziale necessita perciò di un mutamento anche nella sequenza evolutiva per le nuove e mai sperimentate richieste della realtà (interiore ed esterna). a seconda della sua valenza originaria, questo costrutto può evolvere gradualmente con correzioni, modificazioni e trasformazioni oppure rimanere pressoché similare al precedente, divenendo un “suggeritore interno” mutato e aggiornato, oppure datato, quindi disfunzionale e inadeguato. in questo ultimo caso, nell’adolescente si può osservare l’emergere di problematicità o di psicopatologia manifestata attraverso segni clinici di tipo depressivo, ansioso, anoressico. inoltre, tale stadio evolutivo prevede il moltiplicarsi di situazioni quotidiane (scuola, amicizie, infatuazioni amorose), nuovo terreno che necessita di una personalità dotata di una certa fluidità psichica che non metta in campo una severa reattività verso l’acquisizione di competenze relazionali, affettive e sociali più adeguate e aderenti alla realtà vissuta. la sintassi di tale passaggio evolutivo, che prevede sussulti, conflitti, partecipazione e rifiuto, può comunque concludersi attraverso una personalità capace di una gestione ispirata a un adeguato criterio di valutazione di questi controversi stati d’animo. la personalità adolescenziale e il profilo assunto in questo stadio dalla sequenza evolutiva (dinamica modificata nella valenza dei suoi elementi o scarsamente mutata) transiteranno nella maturità portando con sé la propria fluidità psico-cognitiva, comunicativa e comportamentale o la messa in azione di difese psichiche rigide che influenzeranno regressivamente tali strutture. il successivo stadio adulto è quindi basato sulla valenza del profilo assunto dalla personalità durante il tragitto infantile e adolescenziale, non avendo a disposizione altre “fondamenta esperienziali” e modalità di funzionamento. nell’adultità, il principale problema nasce da due fatti importanti e marcati: mentre l’infanzia e l’adolescenza prevedono molti diritti e poche responsabilità, l’essere adulto prevede molte responsabilità e solo i diritti fondamentali della persona. la situazione adulta implica il lavoro, la relazione affettiva, la famiglia, la vita sociale e il tempo libero, condizioni che coinvolgono più o meno intensamente la personalità individuale. soggetti caratterialmente problematici o sintomatologici che compensavano questi aspetti, sottoposti a responsabilità nuove e sollecitanti possono scompensarsi facendo emergere la problematicità o la psicopatologia sino ad allora silente. in questo panorama, mentre il lavoro può anche coinvolgere la struttura psichica ed emozionale, la relazione affettiva la implica sensibilmente, richiamando tracce e risonanze del sentire-pensare-comunicare-agire sperimentate nel periodo infantile. la differenza tra questi periodi risulta considerevole. mentre nell’infanzia la reattività psico-emotiva era solamente sentita e pensata, quindi invisibile, nel periodo adulto questa può assumere il profilo di un “passaggio all’atto” (acting-out) visibile e fonte di reazioni del partner e dei figli. tale comportamento, qualora reiterato, inserisce incomprensioni, dissapori e contrasti che possono assumere una certa consistenza. di fatto, il passaggio diretto dal sentire all’agire, escludendo il coinvolgimento del pensiero e della comunicazione, permette all’impulsività di irrompere istantaneamente nella realtà senza le mutazioni e correzioni che l’attività pensante apporterebbe. strumenti per la diagnosi psicopatologica la diagnosi psicopatologica del paziente adulto, come argomentato, può giovarsi di test psicodiagnostici di personalità quali: il minnesota multiphasic personality inventory-2 (mmpi-2), un test ad ampio spettro per valutare le principali caratteristiche strutturali di personalità e i disordini di tipo emotivo [9]; la toronto alexithimia scale (tas), uno strumento composto da 20 item usato per valutare l’alessitimia [10]; la zung’s self-rating depression scale (sds), un test di autovalutazione dell’ansia e della depressione che va a indagare la presenza di sintomi ansiosi o depressivi non ancora divenuti un vero e proprio disturbo [11]; l’eating disorder inventory (edi), uno strumento per l’autovalutazione di sintomi comunemente associati all’anoressia e alla bulimia [12]. tali test psicodiagnostici sono quelli utilizzati nell’attuale ricerca, unitamente al colloquio clinico, prassi che si dimostra proficua essendo generalmente in grado di rivelare aspetti, sentimenti e atteggiamenti interiori non comunicati o inconsapevoli. la similarità nei risultati basilari tra questi strumenti (comunicazione, sequenza evolutiva e test) testimonia solitamente un attendibile legame tra gli stessi, coerenza peraltro verificata anche nel presente lavoro. inoltre, va sottolineato che nella sequenza psico-emotiva e cognitiva del sentire-pensare-comunicare-agire le prime due strutture non sono visibili (la loro dinamica avviene a livello interiore), mentre le altre due sono oggettive e quindi visibili (dinamica esteriorizzata). comprendere l’influenza del contenuto racchiuso nel sentire-pensare del paziente diviene così decisamente importante nella relazione di aiuto. l’ambito del colloquio clinico, che utilizza la comunicazione verbale, l’interpretazione del linguaggio non verbale e della sequenza psico-cognitiva del paziente, non risulta meno rilevante, mettendo in evidenza una serie di indicatori capaci di proporre scenari che ampliano la conoscenza del soggetto analizzato [13,14]. questa multiforme attività prevede che il clinico sia in possesso di una ragionevole esperienza professionale e di senso empatico e umano. case series allo scopo di offrire una fisionomia concreta e pratica di quanto argomentato, di seguito vengono proposti alcuni casi reali e i risultati ottenuti dall’applicazione delle metodologie proposte, equiparabili a quelli della casistica molto vasta da cui provengono. caso 1. f 47 (depressione) i colloqui clinici con la paziente rispetto alla comunicazione verbale e non verbale e alla sequenza psico-emotiva mettono in risalto alcuni tratti. comunicazione verbale e non verbale la comunicazione è povera, composta da frasi brevi ed esplicite (“non riesco più a vivere”, “vorrei solo dormire”, “non mi interessa più niente”). le figure genitoriali sono dipinte come personalità negative e l’infanzia viene vissuta come un periodo spiacevole e sofferto. le risposte sono telegrafiche (sì, no, molto, un po’). l’espressività del viso è bloccata a un lessico che “parla” di sofferenza, di vuoto interiore, di passività, di inutilità. la gestualità è rallentata, confinata ad alcuni scarsi e stereotipati movimenti. il corpo è pressoché immobile e afono. il tono della voce è basso e a tratti poco comprensibile. lo sguardo evidenzia fissità. l’abbigliamento è di colore scuro. sequenza psico-emotiva e cognitiva la sequenza del sentire-pensare-comunicare-agire evidenzia un andamento circolare tra le prime due strutture. il sentire pare contenere vissuti che, pur facendo parte di una fase temporalmente distante (infanzia), mantengono nell’attualità una loro intensità. tali vissuti parlano di una bambina che, attraverso il clima relazionale sperimentato per molti anni, avvertiva e pensava di essere “brutta”, inutile, non degna di amore, da rifiutare, in breve una nullità, sensazioni che hanno prodotto tristezza, disperazione, senso di colpa, sofferenza, solitudine, senso di impotenza, di vuoto e di rabbia, auto-aggressività (per esempio graffiarsi, mordersi, ecc.). questa consolidata visione e percezione di sé pare aver attraversato l’adolescenza con aggiustamenti e cambiamenti non sostanziali, approdando alla maturità. la comunicazione e il comportamento della maturità non paiono veicolare un messaggio diverso. il sistematico movimento circolare tra un sentire e un pensare di tipo svalutativo, non visibili dall’esterno, può sollecitare la nascita di ideazione suicidaria (eliminazione dell’insopportabile e ossessiva sofferenza) e, in alcuni casi, lo svilupparsi di questa opprimente sollecitazione dinamica che avviene generalmente in assenza di comunicazione. risultati dei test psicodiagnostici il soggetto appare notevolmente ansioso, teso, nervoso e pervaso da sentimenti depressivi (prova sensazioni di infelicità, colpa e tristezza e tende a rimuginare e a preoccuparsi eccessivamente). può riferire la presenza di disturbi somatici correlati ad ansia, fatica, stanchezza, rallentamento del linguaggio e delle funzioni psichiche (particolarmente di quelle ideative-cognitive, decisionali e della vita di relazione). si mostra teso, “in allarme”, con atteggiamenti improntati a rigidità, perfezionismo, tendenti all’ordine e alla meticolosità. nelle relazioni interpersonali si mostra intrapunitivo, anassertivo, passivo-dipendente e cerca di stabilire intensi legami emotivi nutrendo molte aspettative negli altri a copertura di profonde sensazioni di inadeguatezza, insicurezza e inferiorità (sembra subire costantemente la presenza di una sovrastruttura operante quale “critica” e “controllo” che determina i citati sentimenti di inferiorità e le conseguenti impasse decisionali). l’ostilità viene espressa attraverso modalità indirette. caso 2. f 41 (disturbo da attacchi di panico) comunicazione verbale e non verbale il primo “attacco di panico” è avvenuto tre mesi prima all’interno di un supermercato: ha abbandonato il carrello con gli acquisti ed è scappata. da quel giorno la paziente deve essere accompagnata dalla madre a fare la spesa e non prende più mezzi locali di trasporto. all’inizio del colloquio sottolinea “dottore, io non sono come i pazienti che vengono in questo servizio psicologico-psichiatrico”. tratta l’accaduto come se fosse un fatto successo ad altri. non sa spiegare che cosa le sia successo nel supermercato, mantenendo un sistematico sorriso durante la narrazione. ribadisce che lei è quella che è sempre stata: aperta e allegra, aggiungendo che, di fatto, nella sua vita non è cambiato nulla. il linguaggio non verbale si presenta invece maggiormente ricco di indicazioni. l’espressività del viso mostra un’univoca e serena mimica facciale, quasi fosse un sipario che serve a nascondere altri temuti scenari. l’abbigliamento ermetico (forse simbolo di difesa) non permette di osservare l’eventuale aumento della frequenza respiratoria durante il colloquio. la gestualità appare caratterizzata da una prudente difesa. le mani si muovono con cautela e circospezione. il tono della voce è uniforme senza inflessioni emozionali. lo sguardo rimane fisso sull’interlocutore senza concedersi nessuno spostamento sull’ambiente. tale situazione pare evidenziare un inconsapevole “stato di allarme” del mondo interiore, come se tutte le energie fossero mobilitate per far fronte a un imprevedibile evento angosciante. sequenza psico-emotiva e cognitiva la sequenza psico-cognitiva, osservata nei vari colloqui, pare evidenziare un antico legame con un sentire e pensare il proprio modo di essere che ha costruito un’immagine di sé indipendente, sicura e libera da limitazioni, fornita di autostima e fiducia in sé stessa. tale assetto originario ha influenzato anche la comunicazione e il comportamento passando, con modificazioni formali, nell’adolescenza e nella maturità. la stabilità di questa (falsa) immagine di sé si è mantenuta sino al recente episodio, durante il quale al minimo contatto la paziente è letteralmente implosa, disorganizzandosi sensibilmente. nel tentativo di assomigliare ancora all’immagine idealizzata di sé (falso sé), unica struttura personologica di cui ancora dispone, la paziente simula un complessivo equilibrio psichico (“non sono come i pazienti che segue”), aspetto smentito da una mimica facciale e un linguaggio corporeo che esprime silenziosamente inquietudine, paura, ansia e confusione esistenziale. l’incontro si chiude con una domanda rivelatrice di tale sentire “dottore, ma devo ritornare?”. risultati dei test psicodiagnostici il soggetto con disturbo da attacchi di panico risulta depresso nell’umore e manifesta una notevole riduzione del suo repertorio comportamentale e una marcata polarizzazione ideoaffettiva su temi di sfiducia. possono essere presenti sentimenti di colpa e valutazioni di incapacità. le situazioni frustranti sono vissute come inevitabili e costrittive e danno luogo a sensi di ansietà diffusa. la visione di sé, della realtà e del futuro è decisamente pessimistica e ampiamente generalizzata. sono presenti accentuati segni di compiacenza formale conseguenti al bisogno del soggetto di accettazione e gratificazione a livello interpersonale, situazione dove anche l’autostima può risentire dei livelli di accettabilità sociale. questi bisogni appaiono inseriti in un più generale quadro di dipendenza emotiva dall’ambiente. il soggetto appare decisamente intollerante verso le situazioni nuove o caratterizzate da incertezza, nelle quali può sviluppare sentimenti di ansia, e tende a ridurle emettendo comportamenti di evitamento o pensieri ripetitivi (rimuginio). il soggetto tende a nascondere internamente con sofferenza la sua ansia evitando di esplicitarla all’esterno. i principali segni sono legati a un rallentamento psicomotorio: abulia, sfiducia, assenza d’iniziativa. generalmente il soggetto risulta ipercritico nella valutazione della propria capacità di affrontare situazioni difficili e tende a sopravvalutare i problemi reali, essendo eccessivamente prudente e analitico nel modo di affrontare la realtà. vi è una tendenza comune nel negare la possibilità di sbagliare, cosa che determina una ridotta tolleranza alle frustrazioni. tale atteggiamento soggettivo ha come unico risultato quello di rinforzare l’immagine negativa e svalutativa della sua persona attraverso pensieri autocritici e autoaccusatori. presenta un atteggiamento immaturo e soprattutto rigido nell’affrontare nuove difficoltà. la struttura della personalità del soggetto è di tipo passivo-dipendente e presenta una sintomatologia fisica che ha come conseguenza l’accumulo di stress psicologico, con manifestazioni ansiose e attacchi di panico. caso 3. m 41 (stalking) comunicazione verbale e non verbale la comunicazione verbale si evidenzia formale e solitamente priva di inflessioni emotive. il paziente descrive la caratterologia genitoriale disegnando un padre permissivo e tollerante e una madre anaffettiva, distanziante e fredda verso i bisogni del bambino. quando parla della sua ex compagna, la trama comunicativa è scandita da frasi quali “ho sbagliato”, “non dovevo”, “mi sono fatto prendere dalla rabbia”. durante la narrazione del loro incontro sorride come un ragazzino innamorato. si mostra arrendevole e scandisce il discorso ripetendo di aver capito i propri sbagli. le domande sulle cause della rottura del rapporto ottengono risposte che appaiono poco corrispondenti alla realtà dei fatti, nelle quali a volte viene inserito “l’amavo tanto”, “avevo per lei un amore sconfinato”. la sensazione è che il soggetto tenda a proporre un’immagine “migliorata” di sé nel tentativo di ridurre la possibilità di un giudizio sfavorevole nei suoi confronti. l’attività ideativa appare rigida e poco malleabile, con scarsa capacità di identificazione nell’altro. l’ambito del linguaggio non verbale evidenzia un’espressività del volto che fa pensare all’adozione di una “maschera”. lo sguardo dimostra molta attenzione all’interlocutore. in taluni momenti, la gestualità sembra derivare da uno schema infantile-adolescenziale che avviene all’interno di una dimensione ludica di gioco e di interazione. durante la comunicazione nella quale il soggetto parla dell’ex partner, la variazione del tono di voce mette in luce l’irrompere di un’emotività rabbiosa. nel corso della narrazione presenta tensione nella mascella, le mani subiscono contrazioni, a volte tendono a stringersi quasi dovessero agire rispetto alle emozioni che sta provando. sequenza psico-emotiva e cognitiva le modalità comunicative del soggetto aiutano a comprendere più chiaramente anche questa fase del processo psicodiagnostico. una verosimile interpretazione sul piano conoscitivo e pratico del significato della sequenza analizzata mette in luce una dinamica particolare: la naturale sequenza del sentire → pensare → comunicare → agire sembra rigidamente legata a quella costruita nell’infanzia. di fatto, tale successione evidenzia un netto passaggio tra sentire e agire che annulla il contributo delle altre importanti istanze (pensare e comunicare). il sentire mette in luce sentimenti di rabbia e aggressività verso una figura materna “abbandonica”, percezioni che sono transitate pressoché immutate nella vita adulta, stadio in cui l’originaria ferita psichica tende a percepire la rottura-separazione della relazione adulta come un comportamento che rievoca e riattiva i sentimenti abbandonici e di rifiuto vissuti. inoltre, tale dinamica prevede che la ex compagna sia stata vissuta inconsapevolmente come “madre” e secondariamente come donna, e quindi che le richieste (silenti o comunicate) siano principalmente rivolte a questa prima figura con una carente capacità di identificazione con l’essere donna dell’ex compagna [15]. risultati dei test psicodiagnostici i sentimenti depressivi risultano particolarmente marcati, il soggetto mostra difficoltà nel differire il soddisfacimento degli impulsi, l’intolleranza per gli standard e i valori sociali. è convinto che le persone intorno a lui siano ostili nei suoi confronti, è in costante tensione ed è incapace di tollerare la noia. risulta spesso manipolatore, si presenta competente e sicuro, ma cela sentimenti di insoddisfazione e difficoltà. il soggetto è incapace di mantenere relazioni durature, strette e responsabili con partner, familiari e amici, atteggiamento che determina relazioni improntate a una caratteristica oscillazione tra aggressività e passività. le persone con questo profilo psicopatologico manifestano atteggiamenti caratterizzati da immaturità e narcisismo. la tendenza sessuale è spesso irregolare, con necessità di esperienze devianti: la propria struttura psicosessuale sembra principalmente indirizzata a constatare la vicinanza dell’altra e a colmare la sensazione interiore di vuoto, apparendo contrastante con il modello caratteristico della sessualità matura. si rileva una condizione di rabbia intensa sottostante a sentimenti di inferiorità, fallimento, immobilità e ambivalenza. sono presenti evidenti sintomi depressivi con ansia e spunti fobici. il soggetto tende a mostrarsi arrabbiato, ostile, immaturo, orale-dipendente (deprivazione e vuoto interiore) con forti bisogni di attenzione e sostegno, può manifestare problemi relativi all’autocontrollo. di fatto, sono possibili episodi di “passaggio all’atto” (acting-out) e un orientamento verso comportamenti socialmente disapprovati: le capacità di controllo risultano difettuali e si rileva mancanza di insight. conclusioni il lavoro ha voluto evidenziare come il contemporaneo utilizzo delle modalità psicodiagnostiche descritte (test, prassi comunicativa e sequenza psico-emotiva) favorisca e renda maggiormente attendibile il processo diagnostico. di fatto, l’utilizzo di tutti questi indicatori non si evidenzia come un’attività addizionale, avvenendo durante i consueti colloqui con il paziente. applicata all’attività psicologico-psichiatrica, questa procedura è solitamente capace di segnalare aspetti (inconsapevoli) della personalità che non emergono dalla comunicazione verbale e si rivelano come tratti decisamente importanti per un inquadramento clinico maggiormente obiettivo del paziente. di fatto, l’interazione tra questi metodi permette di “esplorare” spazi psicodinamici nascosti da difese psichiche originarie che non permettono una comprensione chiara del funzionamento psichico e quindi della trama operativa a livello intrae inter-personale del soggetto. il lavoro ha anche ulteriormente verificato l’attendibilità dell’assioma “l’individuo non può non comunicare” [16]. nel terreno diagnostico, l’attenta osservazione conferma questo principio, evidenziando come il paziente parli di sé anche attraverso i meccanismi di difesa attivati. queste sono strutture che adottano un loro “linguaggio” sostitutivo della parola e si esprimono mediante un “lessico” particolare, semeiotica clinica interpretabile che aiuta e orienta il clinico a una diagnosi maggiormente realistica e affidabile. il processo descritto ha dimostrato un significativo legame tra quanto mostrato dai test psicodiagnostici e quanto emerge dall’interpretazione del linguaggio (verbale e non verbale) e dalla sequenza psico-emotiva e cognitiva, verificando conclusioni pressoché analoghe tra le diverse modalità di indagine clinica. il lavoro ha messo in luce come il problema della diagnosi psicopatologica possa giovarsi di una maggiore efficacia valutativa, adottando una modalità multivariata che esplori contemporaneamente i diversi aspetti della personalità del paziente, prassi affidabile che apporta una maggiore validità a questa importante struttura decisionale nel lavoro psicologico-psichiatrico. punti chiave la diagnosi psicopatologica rappresenta un indicatore importante per indirizzare il quadro clinico osservato verso la terapia psicofarmacologica, quella psicoterapeutica o l’associazione delle stesse. gli strumenti utilizzati come indicatori per ottenere una diagnosi sono il “linguaggio non verbale” e la “sequenza evolutiva”. la diagnosi psicopatologica del paziente può giovarsi di strumenti quali i test psicodiagnostici di personalità e il colloquio clinico. la sequenza sentire-pensare-comunicare-agire caratterizza l’evoluzione psicologica dei soggetti. soggetti caratterialmente problematici nella fase adulta possono mostrare sintomatologie sino ad allora silenti a causa delle responsabilità tipiche della fase stessa. fonti di finanziamento questo articolo è stato pubblicato senza il supporto di sponsor. conflitti d’interesse gli autori dichiarano di non avere conflitti d’interesse nella stesura di questo articolo. consenso alla pubblicazione il consenso alla pubblicazione è stato ottenuto dai pazienti qui descritti. bibliografia 1. mehrabian a. nonverbal communication. chicago: aldine-atherton, 1972 2. infrasca r. il pensiero pensante. civitavecchia: prospettiva editrice, 2021 3. bowlby j. attaccamento e perdita, vol. 1: l’attaccamento alla madre. torino: bollati boringhieri, 1976 4. bowlby j. una base sicura. applicazioni cliniche della teoria 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jh, jackson dd. pragmatica della comunicazione umana. roma: astrolabio, 1971 cmi 2021;15(1)1-13.html risk of colorectal cancer in inflammatory bowel disease: prevention and monitoring strategies according to risk factors enrica giuffrida 1,2, michela mangia 1, alessandro lavagna 1, enrico morello 1, maurizio cosimato 1, rodolfo rocca 1, marco daperno 1 1 gastroenterology unit, mauriziano hospital, torino, italy 2 gastroenterology department, palermo university, palermo, italy abstract in this narrative review, we report on colorectal cancer risk factors and prevention and monitoring strategies. colorectal cancer (crc) is slightly increased in inflammatory bowel disease (ibd) patients, with roughly a 2.5-fold increase compared to the general population. clinical features associated to crc risks are extent and severity of colonic involvement, disease duration, concomitant primary sclerosing cholangitis (psc) and/or familial history of crc in first-degree relatives. colonic crohn’s disease (cd) and ulcerative colitis (uc) share similar risks when similar colonic extent is affected. risk stratification affects outcomes and surveillance programs. newer endoscopic techniques substantially ameliorated diagnostic performance of endoscopy, and nowadays the standard for crc surveillance in ibd patients is high-definition endoscopy, with dye-spray or virtual colonoscopy, oriented at targeted (+ random) colonic biopsies. visible dysplastic lesions should be considered for endoscopic resection, while invisible dysplasia is still a mandatory proctocolectomy indication. newer endoscopic interventional techniques (endoscopic mucosa resection—emr, and endoscopic submucosal dissection—esd) are appropriate therapeutic techniques to be delivered, but long-term risks of cancer should be balanced towards proctocolectomy. keywords: inflammatory bowel disease; cancer; surveillance; endoscopic techniques cmi 2021; 15(1): 1-13 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v15i1.1464 clinical management corresponding author marco daperno gastroenterology unit, mauriziano hospital, largo turati 62, 10128 torino, italy mdaperno@gmail.com fax +39 011 50182536 tel: + 39 011 5082534 received: 16 march 2020 accepted: 26 october 2020 published: 5 february 2021 background-the landscape of colorectal cancer issue in inflammatory bowel disease in this narrative review, we report on colorectal cancer risk factors and endoscopic management. risk of colorectal cancer and relevant risk factors patients with long-standing inflammatory bowel disease (ibd) are at increased risk of developing colorectal cancer (crc). people with ulcerative colitis (uc) and crohn’s disease (cd) experience a 2-to-2.5-fold higher risk of colorectal cancer compared with general population [1–3]. the risk of death associated with this malignancy is around 1.5 times greater in people suffering from ibd than in the general population [4]. however, recent population-based studies showed a trend to decreasing risks of crc in ibd patients, probably due to improved medical therapy and crc surveillance, so that now the risks seem not to exceed those of the general population: relative risk (rr) vs. general population being 0.57 (95% ci: 0.41–0.80) in uc patients and 0.77 (95% ci: 0.43–1.39) in cd patients, respectively [5]. data from the literature would suggest that the risks of developing colorectal cancer for cd and uc patients with the similar extent of colonic involvement are similar [6]. the risks of crc begin to significantly increase approximately 7 years after diagnosis, and they progress linearly thereafter. disease duration is an important risk factor: according to a meta-analysis of 116 studies, the probability of developing crc in patients with uc was 1.6% at 10 years, 8.3% at 20 years, and 18.4% at 30 years after uc diagnosis [7]. this increased incidence of uc-associated crc was thought to be 4-to-10 times greater than that for sporadic crc, and the average age of onset to be 20 years earlier [7]. based on these data, the first screening colonoscopy is generally recommended 8-10 years after disease onset [8, 9]. other clinical features increasing crc risk include young age at diagnosis, extensive colonic involvement and severity of intestinal inflammation: the overall risk of crc among patients with extensive uc is increased by almost 5-folds (rr = 4.8; 95% ci: 3.9–5.9) [5]. a recent population-based cohort study showed that cd patients have an increased risk of crc diagnosis and crc mortality compared with general population (respectively hr = 1.40 and hr = 1.42). moreover, crc is not diagnosed earlier in cd patients as compared to general crc population, and cd patients with disease duration ≥8 years or psc diagnosis displayed an increased risk of crc diagnosis and mortality if cd onset was before 40 years [3]. independently, there are other clinical features associated to crc risks in ibd. family history of sporadic crc increases the risk of crc in ibd patients by approximately 2.5 folds (1.4–4.4) if first-degree relative with sporadic crc was >50-year-old at the time of crc diagnosis and by 9.2 folds (3.7–23.0) if first-degree relative with sporadic crc was <50 year [10]. primary sclerosing cholangitis (psc) is associated with an increased risk of crc and dysplasia with an odds ratio of 3.2 when compared to patient with ibd without psc [11]. chronic inflammation plays a key role in development of dysplasia and crc in ibd. colorectal cancer develops through a multistep process, where lowand high-grade dysplasia represent and intermediary stage that process to cancer through a sequence inflammation-dysplasia-cancer. there are two types of dysplasia, according with different microscopic features: low-grade and high-grade dysplasia. the term “indefinite for dysplasia” is used when it cannot define whether a lesion is non-neoplastic or neoplastic, which may happen when there is microscopic inflammation associated to ibd mimicking true dysplasia [12]. risk stratification of ibd patients and consequent surveillance intervals based on risk stratification (table i) and acknowledging the fact that dysplasia risks should be negligible for proctitis only and before 7-8 years from disease diagnosis, present crc surveillance algorithm prescribe [9]: a first screening colonoscopy for all patients around 7-8 years after diagnosis (in order to confirm maximal microscopic disease extent, disease endoscopic and histologic activity, and to exclude early dysplasia); then, based on risk factors following surveillance, colonoscopy should be planned yearly in case of high-risk patient, every 3 years in case of intermediate risk, and every 5 years if low risk is the case. high crc risk factors extensive colonic involvement (pancolitis or cd with >50% colonic involvement) moderate-to-severe endoscopic or histological active inflammation sustained over time primary sclerosing cholangitis onset disease <15 years family history of sporadic crc in a first-degree relative <50 years presence of a stricture or dysplasia detected during the previous 5 years intermediate crc risk factors mild or moderate endoscopic or histological inflammation sustained over time family history of sporadic crc in a first-degree relative >50 years presence of inflammatory polyps low crc risk factors pancolitis without inflammation left-sided uc or cd with <50% colonic involvement table i. risk stratification for colorectal cancer is based on several clinical factors cd = crohn’s disease; crc = colorectal cancer; uc = ulcerative colitis only patients co-affected by psc should undergo yearly surveillance colonoscopy after diagnosis, due to their very elevated personal risk of crc. state of the art—how to diagnose colorectal cancer in ibd patients and when should they undergo surveillance screening and surveillance for crc in ibd are mandatory in order to improve crc-related survival in ibd patients. international gastrointestinal societies recommended endoscopic surveillance with colonoscopy to identify and eradicate colonic lesions at an early non-invasive stage to reducing colorectal cancer incidence and mortality [1, 9, 13, 14]. several endoscopic techniques for dysplasia surveillance have been evaluated for ibd, including standard-definition and high-definition white-light endoscopy, chromoendoscopy, narrow-band imaging (olympus, tokyo, japan), i-scan (pentax, tokyo, japan) autofluorescence (olympus, tokyo, japan), fujinon intelligent colour enhancement (fice) and full-spectrum endoscopy (fujifil corporation, tokyo, japan). according to international guidelines, chromoendoscopy with target biopsy is indicated as top-quality approach for dysplasia surveillance in ibd patients [8, 9, 13, 14]. white-light endoscopy with random biopsies is considered appropriate if chromoendoscopy is not available [9–11], while other endoscopic techniques are not recommended. standard-definition and high-definition white-light endoscopy the standard method in crc surveillance was, until recently, standard definition white light endoscopy (sd-wle), with the use of targeted as well as random quadrant biopsies every 10 cm [8, 15]. with the advent of the high-definition-white light endoscopy (hd-wle), the endoscopist can better identify dysplastic lesion. high-definition (hdtv or 1080p system) endoscopic platforms deliver image signals with higher pixel density if compared to standard definition (edtv or 480p system) platforms, and when projected on high-definition monitors it leads to sharper images with fewer artifacts [14]. a high-definition system includes a high-definition endoscope, processor, cabling, and monitor. in a retrospective observational study, it was showed that dysplasia was discovered in approximately twice as many patients undergoing high-definition colonoscopy (n = 203), as compared to a cohort undergoing standard-definition colonoscopy (n = 154): the observed adjusted prevalence ratio was 2.2 (95% ci: 1.1–4.5) [16]. the scenic consensus statement strongly recommended the use of hd-wle over sd-wle, given that most dysplastic lesions are visible, the improved visualization and lack of negative effects [14]. random biopsies surveillance with random biopsies consists of four quadrant biopsies every 10 cm throughout the colon. dysplasia in ibd was previously thought to be flat and difficult to visualize and to detect, thus the historic recommended screening modality was wle with random four quadrant biopsies every 10 cm (24). random biopsy only samples less than 1% of the luminal mucosa; has a subpar detection rate (<2 per 1000 biopsies taken) and when used in conjunction with advanced endoscopic techniques, it does not affect clinical decisions [17]. the biopsy forceps surface has 0.2 cm2 and the colorectal surface is about 2700 cm2, 40 random biopsies would sample only 0.03% of the colic surface. therefore, to have a sample from dysplastic areas ≥2 cm2 1350 biopsies would be necessary to sample it with adequate probability [18]. current guidelines suggest that random biopsies can be acquired during hd colonoscopy if dye spray chromoendoscopy is not available or technically feasible [9, 14]. random biopsies remain a reasonable alternative if there are condition that lower the diagnostic yield, such as inflammation, pseudo-polyps, poor preparation or a poorly visualized mucosa [19] or in special circumstances such as a personal history of dysplasia, concomitant psc, or a fore-shortened colon. dye-spray chromoendoscopy dye-spray chromoendoscopy (dce) involves the topical application of dye on the colonic surface during colonoscopy, thereby providing contrast enhancement to improve surface contrast and visualization of epithelial surface detail and augment dysplasia detection. methylene blue and indigo carmine are the most used agents and they are delivered to the colonic mucosa via a spray-catheter or through the colonoscope biopsy channel. areas that are macroscopically elevated or depressed, friable, obscure in vasculature, and with villous or nodular pattern can be detected more easily and therefore targeted biopsies can be taken [20]. when performing dce, it is important to avoid active disease and to have adequate bowel preparation. dce may reduce the need for random biopsies and may allow prolonged surveillance-interval, leading to cost reduction, as well as increase in the detection sensitivity of dysplastic lesions per examination [20]. a meta-analysis studied the overall difference in the detection of dysplasia between chromoendoscopy and white light endoscopy: it was 7% (95% ci: 3.2–11.3) on a per patient analysis with a number needed to treat (nnt) of 14.3. the difference in the proportion of lesions detected by targeted biopsies was 44% (95% ci: 28.6–59.1) and flat lesions was 27% (95% ci: 11.2–41.9) in favor of chromoendoscopy [21]. dce was superior to wle: a dce examination without any findings was considered as the most probable indicator for a patient without any level of dysplasia, whereas an exam with any sort of findings at dce was positively correlated with earlier referral for colectomy (hr = 12.1; 95% ci: 3.2–46.2) [22]. despite the scenic consensus recommends dce over wle when using sd colonoscopy and suggests the use of dce over wle also when using hd colonoscopy, new evidence is conflicting as to the benefit of dce over wle with newer scopes [16, 19]. in a recent systematic review and network metanalysis, full spectrum high-definition white-light endoscopy seems to be the first-line approach for dysplasia surveillance in ibd [23]. other techniques such as chromoendoscopy, narrow-band imaging, autofluorescence, fujinon intelligent color enhancement (fice), and full spectrum high-definition white-light endoscopy may be comparable. sd-wle probably had lower odds of detecting neoplastic lesion by target biopsy and shorter procedural time compared to chromoendoscopy [23]. an economic analysis concluded that dce with targeted biopsies was less costly and more effective than white-light colonoscopy with random biopsies, suggesting that chromoendoscopy should be used in place of white-light endoscopy when surveillance colonoscopy is performed. the cost-effectiveness of chromoendoscopy increased with increasing surveillance interval, suggesting that varying the surveillance interval based on crc risks and on dce evaluation may be appropriate and could increase cost-effectiveness of surveillance [24]. virtual chromoendoscopy technological advancement led to newer modalities, even when based on older technologies, for mucosal assessment. the newest endoscopic devices carry digital filters and electronic algorithms mimicking chemical chromoendoscopy (by filtering specific light wavelengths to better outlight mucosal abnormalities, overcoming the issues of classical dce). dye-less or virtual chromoendoscopy has been developed by three major manufacturers on their proprietary endoscopic platforms. narrow-banding-image (nbi, olympus) filters out red and green light bands while restricting to blue light bands closer to the 415 nm wavelength. this modality allows for visualization of the vasculature of the most superficial layers of the mucosa, and it enhances different patterns correlating to different degrees of mucosal inflammation. nbi colonoscopy may be of value in best determining the grade of inflammation in patients with quiescent uc [25]. the i-scan system (pentax) is a digital enrichment system of endoscopic imaging, which can provide different types of images based on vessel (i-scan v), mucosal pattern (i-scan p), or surface architecture (i-scan se). each of these algorithms can be selected by pressing a preassigned button on the scope, being readily available during endoscopy [20]. i-scan may be a promising technique to assess inflammation and distinguish neoplastic from non-neoplastic lesion in the colon. the vascular and mucosal pattern may be used to characterize inflammation even when there are no ulcers or friability [26]. for virtual chromoendoscopy techniques, no superiority, but at best only non-inferiority was shown when comparing to hd-dce [26, 27]. confocal laser endomicroscopy confocal laser endomicroscopy (cle) is a cutting-edge new imaging technique for dysplasia detection, which allows in vivo microscopic inspection. this new imaging modality is used with hd-wle and dce to further define suspicious lesions and to predict their histology, with real time analysis of cellular and subcellular features at very high resolution. the technique requires fluorescent dyes, using fluorescein intravenously or topically. the result is the generation of high-quality images, comparable to traditional histology [20]. state of the art-how to treat colonic dysplasia and cancer based on endoscopic appearance, there are two different scenarios regarding dysplasia [22]: dysplastic lesion endoscopically visible, like polyps, confirmed with targeted biopsies or after their endoscopic resection; endoscopically invisible dysplasia, detected at random biopsies in areas of endoscopically normal mucosa. this latter form of dysplasia harbors an increased crc risk. endoscopically visible dysplasia visible dysplastic lesions, when found in colonic areas unaffected by active colitis, should be removed with standard polypectomy techniques [22]. for polypoid and non-polypoid visible lesions with evident margins, endoscopic resection is recommended whenever complete and en bloc resection is possible [28]. features of underlying malignancy include ulcerated lesions, inability to lift the lesion after submucosal injection with saline solution, and surrounding neoplastic changes; all these features are associated with failures in complete resections [29]. whenever visible dysplastic lesions cannot be resected endoscopically, proctocolectomy should be recommended [8]. endoscopic mucosal resection (emr) or endoscopic submucosal dissection (esd) should be considered appropriate techniques to resect colorectal lesions in ibd patients, even if only small-size studies with these techniques reported high success rates [30–32]. after dysplastic polypoid lesions have been completely resected, an appropriate endoscopic surveillance program must be adopted. the ideal timing of subsequent procedures is still debated [33]. following emr or esd resection, the global interventional ibd group recommends a follow-up surveillance colonoscopy with ce and biopsies at the resection site as early as three months after index resection [28]. in order to minimize risks not to detect the resection area at later timepoints, whenever a large polyp is removed, a mucosal tattoo should be carried out (in order to focus at best subsequent surveillance colonoscopies and biopsies). current guidelines recommend also to obtain additional biopsies of the mucosa surrounding the visible dysplastic lesion site, in order to exclude adjacent dysplasia [8, 19]; even if reasonable, this approach was not shown to increase the diagnostic yield for dysplasia. endoscopically invisible dysplasia this second setting is associated up to 22% with invisible low-grade dysplasia (lgd) and 45-67% with invisible high-grade dysplasia (hgd) with a high rate of synchronous crc [34]. any endoscopically invisible dysplasia discovered at the time of random biopsies should be confirmed with a pathologist experienced in ibd [35]. recent guidelines also recommend that samples belonging to patients with reported invisible dysplasia, should be referred to an experienced endoscopist for a repeated hd colonoscopy with dce and repeat random biopsies [14, 19]. according to a recent paper, lgd, after a median follow-up of 36 months, progressed to hgd or crc only in 5% of patients [36]. therefore, if lgd or no dysplasia is present, the risks and benefits of continued surveillance or proctocolectomy can be discussed. in cases of endoscopically invisible hgd or multifocal lgd, total proctocolectomy indication is mandatory [14, 19]. special situations ileal pouch anal anastomosis (ipaa) restorative proctocolectomy with ipaa reduced the risk of developing crc. however, malignant degeneration of the pouch may still arise. for uc patients undergone restorative proctocolectomy with ipaa, development of dysplasia in the anorectal or ileal pouch mucosa is rare. a history of dysplasia or crc may increase the risks of pouch neoplasia significantly. in a study on 1200 patients with uc and ipaa over 20 years, only <2% of patients developed pouch neoplasia and 1.3% developed adenocarcinoma [37]. risk factors for dysplasia following ipaa include a history of dysplasia or crc, history of psc, refractory pouchitis, and severally inflammed atrophic pouch mucosa [37]. patients with risk factors should be considered for annual surveillance included biopsies in the pouch and within the anal transition zone [38]. in patients with ipaa without cancer risk a surveillance is proposed every 3 years, although the optimal interval is still unknown and also depends on colectomy indication for cancer of for refractoriness [38]. primary sclerosing cholangitis (psc) most patients with psc have ibd, with an estimated prevalence of ibd in patients with psc ranging from 50% to 80%. in the majority of cases, ulcerative colitis is the intestinal disease. patients with psc and ibd display higher crc risks if compared to patients with psc or ibd alone. patients with concurrent psc and uc display a 4-fold increased risk of crc if compared with patients affected by uc alone [29]. intestinal disease in psc-ibd is typically more likely to be quiescent, thus both activity and dysplasia in these patients can only be found after active screening with colonoscopy and multiple biopsies [39]. furthermore, the progression of colonic neoplasm from low-grade dysplasia to advanced colorectal neoplasia is more frequent in patients with psc-ibd (regardless of severity of psc) as compared to patients affected by ibd alone [40]. unlike classical ibd, crc risks (which brings increased crc risks only after ibd lasts a decade or more), patients with psc-uc where shown to be at increased risks of crc as soon as diagnosis of either of the two diseases is done [40]. moreover, crc risks are still present after liver transplantation is carried out, thus routine surveillance for crc is essential [41] as early as psc is diagnosed, but also yearly all life-long thereafter. perianal disease in a recent analysis of data from the cesame cohort in france, patients with anal and/or perianal crohn’s disease were shown to carry an increased risk of anal cancer, including perianal fistula-related cancer, as well as a remarkable risk of rectal cancer [42]. this excess incidence may be attributed to a conjunction of possible hpv infection and chronic local inflammation. in patients with anal and/or perianal crohn’s disease, the risk of anorectal cancer was 11 times greater than the risk of colon cancer [42]. in this setting, surveillance programs should be considered, focused at detecting premalignant dysplastic lesions and early anorectal cancers in patients with long-standing anal and/or perianal cd. however, the timing and modalities of surveillance are extremely variable [43]. small bowel cancer small bowel neoplasia can develop in patients with cd involving the small bowel. in a meta-analysis [44], the pooled incidence of cd-associated small bowel carcinoma was 0.3/1000 patients (95% ci: 0.1/1000–0.5/1000), the corresponding prevalence was 0.16% (95% ci: 0.12–0.21); compared to the incidence in an age-matched standard population, the risk of small bowel cancer was increased by factor 18.75. in a nationwide cohort study, the incidence rates of small bowel adenocarcinoma (sba) were 0.235 per 1000 patient-years (95% ci: 0.076–0.547) among patients with small bowel cd and 0.464 per 1000 patient-years (95% ci: 0.127–1.190) among those with small bowel cd for >8 years. this accounted for approximately 30% of the risk of colorectal cancer in patients with cd of the colon. patients with small bowel cd and small bowel cd for 0.8 years had an sba standardized incidence ratio of 34.9 (95% ci: 11.3–81.5) and 46.0 (95% ci: 12.5–117.8), respectively [45]. in a recent multicenter case-control study, incidence of sba was studied. sba occurred 12.1% patients and was significantly more frequent in cd when compared with uc (cd vs. uc p = 0.0001). all cases of sba in cd occurred in fibro-stricturing small bowel lesions. sba also occurred in the ileal pouch of 1 uc patient [46]. small bowel adenocarcinoma associated with cd as a whole showed poor prognosis (5-year overall survival rate: 26–38%), and this is partly due to the advanced stage at diagnosis and to their often incidental finding at surgical resection for bowel stricture [47]. despite different risk factors involved in the development of small-bowel cancer in cd patient are generally considered (i.e., distal jejunal/ileal cd site, strictures and chronic penetrating disease, long disease duration, young age at diagnosis, male sex, use of steroids and immunomodulators, small-bowel bypass loops, strictureplasties, and environmental factors) [48], some studies didn’t confirm some of these associations. therefore, according to european guidelines, long-standing cd and stricturing disease seem to be the factors most strongly associated with elevated risk of small-bowel cancer. small bowel neoplasia should be suspected and investigated in patients with cd who develop symptomatic strictures after a prolonged symptom-free period or strictures that are refractory to medical therapy, but there is not enough strong evidence to make clear recommendations on primary prevention of small-bowel neoplasia in cd patients [41]. early diagnosis of small bowel adenocarcinoma in long-standing crohn’s disease is a challenge. different advanced imaging and endoscopic techniques (e.g., capsule endoscopy, device-assisted endoscopy, magnetic resonance imaging—mri, computed tomography—ct) may allow diagnosis of small bowel involvement in crohn’s disease and earlier cancer. at present, even if they are costly and complex to be used for routine surveillance of all cd patients with small-bowel involvement, capsule endoscopy is the preferred technique to visualize small bowel mucosa lesions when suspected, and device-assisted enteroscopy is the only technique allowing for small bowel tissue sampling before surgery [41]. radiological diagnosis of small bowel neoplasia developing in crohn’s disease is very difficult because the imaging findings are very similar to the findings of long-standing crohn’s disease and biopsy should be used to distinguish between them. the development of a mass or nodularity in a location of a luminal narrowing/obstruction should be evaluated carefully regarding the possibility of superimposed malignancy [49]. capsule endoscopy is recommended as diagnostic modality to investigate small bowel in suspected crohn or to assess extent and site of the disease in confirmed crohn, if findings from such cross-sectional imaging of the small bowel are unremarkable or nondiagnostic. in the setting of small bowel neoplasia, video capsule endoscopy (vce) plays a pivotal role for the detection of a suspected sb neoplasia. however, a retrospective study showed a suboptimal vce sensitivity (83.3%), with missed lesions especially in the proximal sb due to capsule rapid passage in this segment [50]. moreover, vce does not allow biopsies collection and does not accurately localize and grade lesions [51]. nonetheless, in case of complete bowel exploration, vce is a valuable tool because it allows for sensitive estimates of the location, it may be a physical mark in case of capsule retention upstream a stenosis, and with the most recent softwares the risks of reporting repeatedly a single lesion seen more times should be remarkably reduced. in patients with suspected sb neoplasia, device-assisted-enteroscopy (dae) is recommended to confirm the diagnostic suspicion, to precisely identify the cancer site, to take biopsy samples, and to mark the lesion to guide further surgical treatment [52]. moreover, the inflammation-dysplasia-adenocarcinoma is poorly documented in crohn’s disease; dysplasia is found only in 49% of specimens of patients with small bowel adenocarcinoma [53]. therefore, at the state of the art, there are no recommendations on endoscopic screening of small bowel cancers in cd patients. pathogenesis the pathogenesis of crc in ibd has been studied extensively in ulcerative colitis but in crohn’s disease is poorly defined. the development of ibd-crc is linked to inflammation and follows a sequence of genetic alteration according to an “inflammation-dysplasia-cancer” sequence different from an “adenoma-sequence” classically described per sporadic crc [54]. molecular alterations and genetic abnormalities, such as chromosomal instability, microsatellite instability (msi) and hypermethylation, seem to be similar between sporadic and ibd-associated crc, but they occur before definite histologically defined dysplasia and in a different sequence [55]. ibd patients tend to have excessive inflammatory cell infiltration and expression of several inflammatory genes; this mucosal inflammation promotes cellular proliferation and ultimately crc development [56]. the relationship between chronic inflammation and molecular pattern involved in carcinogenesis has been studied. some models demonstrated the role of toll-like receptors (tlr) and tumor necrosis factor-α (tnf-α) in the activation of nuclear factor κb (nfκb), which then induces transcription of tumorigenesis genes, including cox-2 [57]. tnf-alpha has been reported to promote inflammation and ibd-crc by promoting deoxynucleic acid (dna) damage, stimulating angiogenesis, and inducing expression of cox-2, which also induces angiogenesis to promote tumor growth. in murine models, tnf-α expression was associated with the development of colonic tumors, while tnf-r blockade reduced inflammation and tumor development [58]. one of the main differences between sporadic and ibd-related colonic neoplasia is that in ibd the entire colonic mucosa carries risk for neoplastic transformation that can be multifocal, as opposed to one or few premalignant adenomas or cancers in sporadic cases [59]. the cause of the field effect can be explained by the constant re-epithelialization of ulcerated and chronically inflamed colonic mucosa by abnormal healing clones that expand [60]. the pathogenesis of sba in cd is poorly defined. much of the current understanding of the molecular alterations involved in the development of neoplasia in ibd comes from studies of patients with ulcerative colitis (uc) who develop colorectal carcinoma, also considered to be valid in cd. sba is usually found in inflammatory areas, which suggests that the sequence inflammation–dysplasia–cancer might be involved in the pathogenesis of sba, but the rarity of this neoplasm makes it difficult to perform pathogenetic studies [48]. chemoprevention the chemopreventive effect of 5-aminosalicylic acid (5-asa) has been widely studied, especially in uc setting; however, the results are conflicting. the european guidelines suggest that 5-aminosalicylates (5-asa) maintenance treatment should be continued long-term in order to induce long-term remission, that may reduce the risk of colon cancer [35]. a case-control study of the cesame cohort shows that mesalamine therapy has a protective effect for patients with long-standing extended colitis (or = 0.5; 95% ci: 0.2–0.9), which lacks in the remaining patients (or = 0.8; 95% ci: 0.3–1.7). therefore, a chemopreventive effect of 5-asa in patients with known risk factors for dysplasia or cancer is suggested [61]. a metanalysis by zhao et al. shows that 5-asa therapy was associated with a reduced risk of colorectal neoplasia in patients with ulcerative colitis, especially in case of higher daily dose (sulfasalazine ≥2.0 g/d, mesalamine ≥1.2 g/d) with or = 0.51 [0.35–0.75]. however, the chemopreventive effect of 5-aminosalicylates use in extensive ulcerative colitis was limited (or = 1.00; 95% ci: 0.53–1.89) [62]. these findings were replicated in a recent metanalysis. uc patients can benefit more from 5-asa therapy than cd patients (respectively or = 0.46; 95% ci: 0.34–0.61 vs. or = 0.66; 95% ci: 0.42–1.03). moreover, this metanalysis shows that 5-asa has a protective effect on crc (or = 0.54; 95% ci: 0.39−0.74), but not on dysplasia (or = 0.47; 95% ci: 0.20−1.10) [63]. an older cross-sectional study tried to assess the relationship between ursodeoxycholic acid (udca) use and colonic dysplasia in patients with ulcerative colitis and primary sclerosing cholangitis. udca use was strongly associated with decreased prevalence of colonic dysplasia (or = 0.18; 95% ci: 0.05–0.61) [64]. this is a special setting where the use of udca is specifically in sclerosing cholangitis, and when this condition is associated with ulcerative colitis, there is an increase in the risk of crc. however, there are no adequate trials and the recent guidelines do not recommend their use as chemoprophylaxis [9]. the use of statins in crc prophylaxis is being evaluated in recent years. ananthakrishnan et al. showed that statin use was inversely associated with the risk of crc in a 1376 ibd cohort. on multivariate analysis, statin use remained independently and inversely associated with crc (or = 0.42; 95% ci: 0.28–0.62) [65]. however, further prospective studies are needed to confirm these data. folic acid was also tested as a chemoprophylactic drug. a recent metanalysis by burr et al. has collected ten studies reporting on 4517 patients. this metanalysis shows an overall protective effect for folic acid supplementation on the development of crc, pooled hazard ratio = 0.58 (95% ci: 0.37–0.80 with i = 29.7%) [66]. even in this case, data are not sufficient, thus further prospective studies are needed. although thiopurines reduce colonic inflammation and promote mucosal healing, their use is not indicated as chemoprophylaxis. a meta-analysis by jess et al. did not find a significant protective effect of treatment with thiopurines on the risk of colorectal neoplasia in patients with ibd (or = 0.87; 95% ci: 0.71–1.06) [67]. even if immunosuppressants and tnf-blockers induce significant mucosal healing, and the risk of colon cancer decreased when mucosa inflammation is reduced by any means, at present there are not enough data for suggesting the use of methotrexate or tnf-blockers as chemopreventive agents against crc, at least according to current guidelines [9]. conclusions the individual patient crc risk should include personal and disease-related factors. newer endoscopic techniques allow for more effective surveillance strategies, if compared with white-light standard definition endoscopy. chemical chromoendoscopy or high-definition virtual or chemical chromoendoscopy with targeted and/or random biopsies is the standard-of-care for ibd patients. they should be performed as much as possible in case of endoscopic remission. endoscopic resection techniques may be appropriate if complete resection is possible, even if proctocolectomy should always be carefully considered as a radical therapeutic option to stop progression from dysplasia to crc. peculiar fields for crc surveillance programs are ileal pouch anal anastomosis surveillance and surveillance of anal and perianal crohn’s disease for anal adenocarcinoma. key points risks of colorectal cancer (crc) are increased among inflammatory bowel disease (ibd) patients. still the risk class should be best classified according to independent crc risks factors, including ibd colonic involvement extent and activity, crc familial history, previous dysplasia based on low/medium/high risks of ibd-related crc, patients may be allocated to different frequency of surveillance (surveillance every 5 years in low risk, every 3 years in intermediate risk, and yearly in high-risk patients) high-definition endoscopy, associated with dye-spray (chemical) or virtual (electronical) chromoendoscopy, together with targeted biopsies, are the standard-of-care technique for surveillance visible dysplastic lesions (outside or within colitis area) should be resected endoscopically with standard polypectomy, endoscopical mucosal resection, or endoscopical submucosal resection when invisible dysplastic lesions are identified at a surveillance endoscopy, the risks of progression to cancer and of being unable to replicate surveillance of the same area lead to a preference for proctocolectomy proctocolectomy should always be considered a safe and long-lasting effective therapeutic option in patients undergone proctocolectomy plus ileal pouch anal anastomosis, dysplasia of the rectal cuff should be surveilled, especially if dysplasia was the indication to surgery in patients with chronic long-lasting perianal crohn’s disease, anal or fistula-related adenocarcinoma should be suspected, especially if disease change its phenotype funding this article writing was supported by fondazione ibd onlus. conflicts of interests the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. reference 1. jess t, rungoe c, peyrin–biroulet l. risk of colorectal cancer in patients with ulcerative colitis: a meta-analysis of population-based cohort studies. clin gastroenterol hepatol 2012; 10: 639-45; https://doi.org/10.1016/j.cgh.2012.01.010 2. jess t, gamborg m, matzen p, et al. increased risk of intestinal cancer in crohn’s disease: a meta-analysis of population-based cohort studies. am j gastroenterology 2005; 100: 2724-9; https://doi.org/10.1111/j.1572-0241.2005.00287.x 3. olén o, erichsen r, sachs mc, et al. colorectal cancer in crohn’s disease: a 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disorders 3rd edition, icsd-3, it has been defined as chronic (lasting more than three months) or short-term insomnia (less than three months). in clinical practice, the usual therapeutic approach is pharmacological (benzodiazepines, z drugs, slow wave sleep enhancers), even if the american academy of sleep medicine (aasm), the american college of physicians (acp), and the european sleep research society (esrs) guidelines suggest that the first clinical choice should be non-pharmacological (cognitive behavioral therapy). a combined (non-pharmacological and pharmacological) approach could be considered in poor responders to manage drug dependence and to increase compliance to treatment and patients’ quality of life. keywords: sleep; insomnia; pharmacological treatment; non-pharmacological treatment; cognitive-behavioral therapy for insomnia (cbt-i) cmi 2020; 14(1): 27-38 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v14i1.1474 clinical management corresponding author prof. alessandro cicolin sleep medicine center department of neuroscience university of torino via cherasco 15 10126 torino italy alessandro.cicolin@unito.it tel. +39 011 6335038 fax. +39 011 6334193 received: 13 april 2020 accepted: 8 july 2020 published: 30 july 2020 introduction the sleep is one of the most complex and dynamic cerebral phenomena, resulting from the combination or alternation of multiple neurophysiological and neuro-biochemical active processes. thanks to the application of recent discoveries and techniques and the development of sleep medicine, during the last decade, much knowledge has been acquired about the inner mechanisms that promote, induce, maintain, and interrupt the sleep itself, how its processes take place, and how anatomical sites and their neuronal systems work. different modes of sleep exist, based on the presence or absence of rapid eye movements, respectively, rapid eye movements—rem sleep, and non-rapid eye movements—nrem sleep. the nrem sleep is divided into three stages: n1, n2, and n3 (n3 also defined as “slow waves sleep”, sws). to date, four main systems interacting to regulate sleep are known. the circadian oscillator is responsible for the organization of the 24-hour sleep-wake cycle and is located in the suprachiasmatic nucleus at the hypothalamic level [1]. the ultradian oscillator, in the brainstem (rem-off and rem-on neuronal cells), is responsible for the precise alternation nrem and rem sleep [2]. the sleep homeostasis controls the propensity to fall asleep and is regulated by the concentration of adenosine in the frontobasal cortex; its quantity is directly proportional to the number of hours we are awake [3]. the arousal system regulates the stability of sleep (sleep and awakening). it is controlled by the ascending reticular activating system in the brainstem and by the orexinergic neurons in the lateral hypothalamus [4,5]. insomnia definition, epidemiology, and symptoms insomnia is the most common of all sleep disorders, affecting more than 40% of the population every year, with a much higher prevalence in older age groups and women. despite that, only 10% of affected subjects have a daytime functioning impairment and need treatment. insomnia is defined as the subject’s perception of inadequate or insufficient sleep and poorly restorative sleep due to reduced quality, duration, or efficiency of sleep itself. it is characterized by difficulty in starting or maintaining sleep or early morning awakening. insufficient sleep must be associated with daytime symptoms such as fatigue, decreased mood or irritability, memory, and attention impairment. these symptoms can lead to a reduced quality of life and can induce physical disturbances, economic repercussions due to poor performance at work, and sometimes medical and legal problems [6]. insomnia can, therefore, be defined as a 24-hour sleep disorder. insomnia is defined as a subjective complaint and doesn’t usually require instrumental verification. diagnosis relies on an accurate interview that should assess bedtime habits, daily symptoms, excessive daytime sleepiness (eds), awakenings (during night and early morning), regularity and duration of sleep, and the presence of leg movements or snoring during sleep [7]. taking a complete sleep history will help in determining a differential diagnosis among possible sleep-waking rhythm disorders, sleep-related movement or breathing disorders such as circadian rhythm sleep-wake disorders (crswd), restless legs syndrome (rls), periodic limb movement disorders (plmd), and obstructive sleep apnea syndrome (osas). difficulty initiating sleep, for example, is a common feature in both insomnia and delayed sleep-wake phase disorder (dswpd). however, patients affected by dswpd usually sleep a regular or even more considerable amount of time if they can maintain late-rising time. this disorder is also more common in the teenagers. excessive daytime sleepiness (that is a significant complaint in many cases), lack of attention and concentration, irritability, and behavioral problems are shared with other sleep disorders such as rls, plmd, and osas, due to sleep fragmentation caused by apneas or leg movements. the repeated episodes of obstruction of the upper airways during sleep in osas patients, causing oxyhemoglobin desaturation and micro-arousals, are responsible for memory and attention impairment [8,9], a feature shared with chronic insomnia. performing actigraphy to determine the sleep-wake rhythm and polysomnography (psg) or out-of-center sleep testing (ocst) to assess obstructive respiratory events and leg movements would definitively help in diagnosis. chronic auto-induced sleep restriction should also be considered. the international classification of sleep disorders (icsd) 3rd edition (icsd-3) [6] includes three diagnostic categories for insomnia: chronic insomnia disorder; short-term insomnia disorder; and other insomnia disorder. chronic insomnia disorder should be present at least three times per week for at least three months. short-term insomnia doesn’t meet the duration criteria (<3 months). for many years, insomnia has been classified from an etiopathogenetic point of view that distinguishes primary and secondary forms [10,11]. primary insomnias are considered to be a distinct diagnostic entity from insomnia, that is a symptom of an underlying medical and psychiatric condition. these patients show a sort of “weakness” of the biological system that regulates sleep, even if sometimes it is possible to find a trigger. they usually begin in young-adult age and, if not treated, may have a chronic course, with potential phases of remission. on the neurophysiological level, the representation of sws is deficient. secondary forms may depend on physical and environmental (e.g., pain), medical (e.g., hyperthyroidism, respiratory disorders), mental (e.g., anxiety, mood), pharmacological (e.g., caffeine, benzodiazepines, alcohol), and situational (e.g., job loss) conditions. over the years, several diagnostic nosologies for insomnia have been debated and diagnostic criteria and classification have changed. the icsd [12] and the icsd 2nd edition [13] describe numerous primary and secondary insomnia subtypes and incorporate findings from interviews and laboratory tests. the diagnostic and statistical manual of mental disorders iv edition (dsm-iv) [14], from 1994, also distinguishes primary and secondary insomnia. some authors [15] highlighted that the distribution of diagnoses underlines the importance of psychiatric and behavioral factors in the assessment of insomnia and that diagnostic concordance for these diagnoses likely reflects actual clinical practice. some others [16] showed that the best-supported insomnia categories both from dsm-iv tr and icsd-2 were insomnia related to another mental disorder, insomnia due to a general medical condition, breathing-related sleep disorder, circadian rhythm sleep disorder, and restless legs syndrome. the category of primary insomnia appeared to have marginal reliability and validity. more recently, the icsd-3 [6], as well as dsm-v [17] has made a lot of changes from the former editions [18]. all previous chronic insomnia diagnoses merge into a single chronic insomnia disorder (icsd-3) and insomnia disorder (dsm-v) diagnosis. this change in insomnia diagnostic criteria in both icsd-3 and dsm-5 implies a paradigm shift, stresses the comorbid nature of insomnia, and calls for treatment of both insomnia and the medical disorder. that’s because, first of all, overlapping primary and secondary insomnias share many symptoms and features. second, secondary insomnia often develops an independent course over time and may remain as a clinically separate significant condition. finally, clinical experience suggests that it is rare to encounter patients who meet the diagnostic criteria for exclusively one of the primary subtype (psychophysiological insomnia, idiopathic insomnia, inadequate sleep hygiene, and paradoxical insomnia). nevertheless, in the age of “precision medicine”, the etiopathogenesis in a specific patient should be taken into account in the choice of both the therapeutic approach and prognosis; therefore, the distinction between primary and secondary forms cannot be based on comorbidity per se. etiopathogenesis of insomnia is complex and partially unknown. at different levels, genes, molecules, circuits, cognition, and behavior contribute to determining this disorder. conceptual models of insomnia insomnia is often considered to be a disorder of hyperarousal. the increased somatic, cognitive, and cortical activation could take part in the pathophysiology of insomnia along with other contributory factors [19,20]. numerous sleep regulatory substances are linked to circadian rhythmicity and sleep regulation [21]. endogenous molecules can be categorized as primarily wake-promoting/sleep-suppressing (e.g., catecholamines, orexins, and histamine) and sleep-promoting/wake-suppressing substances (e.g., γ-aminobutyric acid [gaba], adenosine, serotonin, melatonin, prostaglandin d2) and many of them are linked to insomnia. for example, blood serum melatonin levels are reduced [22], whilst cortisol evening and morning salivary levels are higher [23] in insomnias. besides, the activity of arousal and sleep centers is modulated by two critical physiologic processes: wake-dependent sleep drive (homeostatic or process s) and circadian rhythmicity (process c). sleep propensity is regulated by the interaction of s-process and c-process. accumulation of extracellular adenosine during prior wakefulness may be the primary input to these systems. one hypothesis based on the two-process model is that insomnia is caused by insufficient sleep propensity during the desired sleep period due to dysfunction in the sor c-process [24,25]. behavioral and cognitive mechanisms can also regulate sleep and contribute to, or exacerbate, insomnia [19]. a conceptual model of insomnia, the “behavioral model of insomnia”, by spielman and colleagues in 1987 [26], regarding the etiology of chronic insomnia, put forward what factors should be targeted for treatment. this model suggests that insomnia is due to three main factors. predisposing factors: biological, including hyperarousal/hyper-reactivity and weak sleep generating system; psychological, including worry or the tendency to be excessively ruminative; social factors, such things as the bed partner, keeping an incompatible sleep schedule or social pressures. precipitating factors are acute occurrences that interact with the patient’s predisposition for insomnia to produce transient sleep initiation or maintenance problems and may be: biological, including medical illness and injury; psychological, as acute stress reactions and psychiatric illness; social, such as factors that change the patient’s social environment, that require a significant shift in or disrupt the subject sleep phase. perpetuating factors are maladaptive coping behavior and cognitive strategies that individuals adopt in an attempt to get more sleep [27]. treatments interventions aimed at preventing or treating insomnia may target various aspects of the different pathophysiologic processes [28]. treatments can be both pharmacological and non-pharmacological. pharmacological therapies are directly active on neurotransmission systems (gaba, 5-hydroxytryptamine—5ht aka serotonin, noradrenaline—na, orexins, melatonin), in contrast, specific non-pharmacological techniques act on specific sleep mechanisms such as the circadian oscillator, the arousal system, and the homeostatic process through educational, cognitive, behavioral, and relaxation techniques. pharmacological treatment the pharmacological approach can rely on different pharmacological classes, interacting with varying neurotransmission systems. currently, the most used drugs in the treatment of insomnia are benzodiazepines (bdz) and non-benzodiazepine drugs (z drugs), to which imidazopyridines (zolpidem) and cyclopyrrolones (zopiclone) belong, all of them interacting with the gabaergic system (bdz receptor agonists, bdz-ra) [29]. the choice among different bdz molecules mainly depends on the desired duration of the hypnotic effect. as hypnotic, an ultra-short half-life (2-4 hours) medication such as triazolam, or short half-life (3-8 hours) medication such as brotizolam is usually used, while those with an intermediate or long half-life (over 10 hours) are less indicated due to the risk of residual drowsiness after awakening. an important aspect to be evaluated in the choice of the molecule is the different affinity of bdz for the gaba receptor complex to which they bind. the higher the receptor affinity, the more probably the drug induces tolerance and withdrawal symptoms. this phenomenon is likely due to a variation in the gene expression of the different subunits forming the gaba receptor. to reduce these effects and to avoid abuse conditions, primarily when shortor ultra-short half-life bdzs are used (usually with high receptor affinity), care should be taken not to prolong therapy far beyond four weeks, and discontinuation should also be slow (15-20 days) [30]. the most common side effects of bdz are cognitive and attentive disorders [31,32], especially for long half-life compounds, anterograde amnesia [33], and ataxia mainly for short half-life compounds [34]. particular caution is needed in the case of elderly patients [35], due to the slower drug elimination (risk of accumulation) or in subjects with respiratory disease due to the risk of onset or increase of sleep apnea [36]. insomnia, anxiety, irritability, and depression are the side effects that can occur most frequently at the time of withdrawal [37]. from a neurophysiological point of view, a reduction/suppression of slow-wave sleep has been highlighted [38]. imidazopyridines and cyclopyrrolones are ultra-short (zolpidem) and short (zopiclone) duration drugs, respectively. they can be used as bdz substitutes, especially in occasional or transient forms of insomnia. compared to bdzs, they have less both muscle-relaxing and anxiolytic effects and reduced influence on the sleep structure (slow-wave sleep reduction). the most common side effects after suspension are insomnia and anxiety [39]. moreover, caution should be used in the elderly, given the possibility of confusional events and high risk of falls and fractures [40,41]. due to tolerance, inhibition of slow-wave sleep, and risk of residual morning drowsiness from these agents, the attention of sleep specialists has recently shifted towards drugs able to enhance slow-wave sleep, to better “take care” of the neurophysiological characteristics of primary insomnia (characterized by a deficit of this type of sleep). this kind of drug is heterogeneous both in terms of the type of use (antidepressants, neuroleptics, antihistamines, antiepileptics) [42-47] and pharmacodynamics (5ht2a and 5ht2c receptor silent antagonists, α2δca blockers, melatonin receptor blockers, orexin receptor antagonists). some of these molecules (e.g., trazodone, agomelatine, mirtazapine, pregabalin, quetiapine, ramelteon) have been marketed for some years and are used off label. some others still require study or authorization in some countries (suvorexant) [48,49]. due to the reduced blood levels of melatonin in the elderly, the administration of control release melatonin should be considered in older patients [50]. recently, american academy of sleep medicine (aasm) and european sleep research society (esrs) guidelines evaluated hypnotic drug efficacy and safety [47,48]. unfortunately, even though some data do exist, the overall quality of evidence of recommendations is relatively low for most drugs. as a result, many commonly used drugs, including some approved by food and drug administration (fda) for the treatment of insomnia, are not recommended. keeping in mind the weak strength of recommendation, these guidelines suggest (benefits outweigh harms) the use of gaba receptor agonists in insomnia with low/very low (eszopiclone, zaleplon, zolpidem), moderate (temazepam), and high (triazolam) quality of evidence. some evidence (low) emerge about the use of drugs with different pharmacodynamics, as suvorexant (orexin receptor agonist), ramelteon (melatonin receptor agonist), doxepin (serotonin–norepinephrine reuptake inhibitor), but the use of other drugs (tiagabine, trazodone, melatonin) is uncertain. this evidence, reflecting a low degree of certainty in the outcome and appropriateness of care strategy, should not be considered as an indication of ineffectiveness, but suggests clinicians to use their clinical knowledge and experience and refer to the individual patients’ values and preferences to determine the best course of action. non-pharmacological treatment although the treatment of insomnia has traditionally been pharmacological, many non-pharmacological therapies have been developed over the years. there is consensus in the scientific and professional sleep community that cognitive-behavioral therapy should be the treatment of choice for chronic insomnia [47,48,51]. the cognitive-behavioral therapy for insomnia (cbt-i) includes a complex of techniques such as relaxation techniques, stimulus control, sleep hygiene, cognitive therapy, biofeedback, chronotherapy, sleep restriction, multi-component treatment, and self-help treatments. to date, cbt-i is considered the first therapeutic choice and ideally must be implemented before hypnotics are prescribed [47,52-57]. different cbt-i techniques work on various factors to restore appropriate sleep hygiene, re-establish a proper sleep-wake rhythm, lower hyperarousal, and adequate homeostatic pressure. psychological and behavioral interventions are considered to be effective in the treatment of both chronic primary insomnia (aasm-standard) and secondary insomnia (aasm-guideline) [58]. sleep hygiene proper sleep hygiene is an essential prerequisite for the treatment of insomnia regardless of other therapeutic approaches. its benefit is maximized when provided as part of a comprehensive plan. the term “sleep hygiene” (sh) refers to all those behaviors that are considered as promoters of an adequate quantity and quality of sleep. generally speaking, sleep hygiene can be conceived as a guide to “lifestyles” and behaviors that contribute to the creation of a healthy and regular sleep pattern [59,60]. avoiding to extend the time of bed, exercising to promote good quality sleep, making sure that the sleep environment is pleasant, avoiding food that can be disruptive right before sleep, and avoiding stimulating substances (caffeine and nicotine) and alcohol in the evening are some of the rules. therefore, the main objective of a sleep interview is to verify patients’ habits and if the environment in which they sleep is following the rules of sleep hygiene. more recent adaptations, often included as part of therapeutic programs, contain more information about the role of food and the place for sleep. the american academy of sleep medicine highlights insufficient evidence to recommend sleep hygiene education as a single therapy, but it should be associate with other insomnia treatments [53,56,58]. sleep restriction the restriction of sleep (sleep restriction therapy, srt) has been conceived by spielman, saskin, and thorpy in the ’80 [61]. most people suffering from insomnia think that spending time in bed, trying to sleep, can more easily shorten sleep latency; this incorrect behavior is considered one of the perpetuating factors of insomnia and is targeted by sleep restriction therapy. srt forces patients to limit the amount of time they spend in bed to an amount equal to their average total sleep time as obtained by baseline sleep diary measures. the clinician establishes a fixed wake time according to the patient’s needs. once a target amount of time in bed is set, the patient’s bedtime is delayed to later in the night so that the time in bed (tib) and average total sleep time (tst) are the same. as sleep efficiency (tst/tib*100) increases (at least 90%), patients are instructed to gradually increase the amount of time they spend in bed (15-minute). the treatment usually lasts eight weeks. the patient is also given additional advice not to take afternoon naps or to stick to prescribed bedtime. the reduction of time spent in bed, although it may seem paradoxical for those patients who try to sleep more, necessarily influences the homeostatic and circadian regulation of sleep [62]. this method creates a mild sleep deprivation, which decreases sleep latency, reduces the wake after sleep onset, and promotes a more reliable and efficient sleep and a lower variability among nights. srt appears to have a comparable risk profile for excessive sleepiness as cbt-i, and thus may be considered a less time-consuming alternative to cbti [63]. srt is regarded as individually effective therapy (aasm-guideline) and meets the criteria for empirically-supported psychological treatments for insomnia [56,58]. stimulus control often, it happens that people suffering from insomnia are frustrated when lying in bed trying to fall asleep, so they engage in behaviors other than sleep (e.g., reading, eating, watching tv). this behavior creates a negative association between bedtime routine and sleepiness/sleep, with the consequent inability to sleep. the stimulus control therapy (sct) [52,64] is focused on re-establishing a “positive connection” between the bed/bedroom/bedtime and a rapid-onset, well-consolidated sleep. instructions limit the amount of time one may spend in the bedroom while awake and the kind of behaviors one may engage in while in the bed/bedroom and consequently discourages the association between bedtime and inability to sleep. typical instructions include: lie down only when sleepy; avoid any behavior in the bed or bedroom other than sleep or sexual activity; leave the bedroom if awake for more than 15 minutes; and return to the bed only when sleepy. this technique has the dual purpose of avoiding behaviors against sleep hygiene rules and, as in case of sleep restriction, influencing the sleep homeostat. sct is considered an individually effective therapy (aasm-standard) and meets the criteria for empirically-supported psychological treatments for insomnia [56,58]. autogenic training and relaxation techniques autogenic training is a combination of muscular relaxation and imaginative techniques. this method implies learning self-inducted relaxation and imaginative techniques to reduce hyperarousal, which is frequently associated with increased sleep latency. progressive muscle relaxation is used to diminish skeletal muscle tension [65-68]. autogenic training involves thinking to some neutral and/or pleasant images to focus purely on their descriptive properties. imagery training involves the patient in selecting a relaxing image or memory and evoking the image and engaging with it from a multisensory perspective. progressive muscle relaxation is considered an individually effective therapy (aasm-standard) and meets the criteria for empirically-supported psychological treatments for insomnia [56,58]. cognitive techniques cognitive therapy is based on the assumption that negative emotions, maladaptive behaviors, and physiological symptoms associated with specific disorders are mostly the effects of dysfunctional cognitions. as a result, a person may develop a sleep disorder caused by stressful events. still, the disorder itself can be exacerbated by the personal concept of insomnia and its consequences, and by one’s perception and interpretation of such events. cognitive therapy is a structured psychoeducational intervention that is based on a wide variety of techniques. it consists in guiding the patient in considering insomnia and its consequences from a more realistic and rational perspective. the most crucial point is to explain that personal interpretation of a given situation can modulate the type of emotional reaction to situation itself. therapy begins by identifying the patient’s dysfunctional thoughts about sleep. then, it is important to encourage the patient to consider his concepts only as one of the many possible interpretations instead of absolute truth. different cognitive restructuring techniques (paradoxical intention, “distraction and imagery”, revaluation, realignment, attention deviation, and hypothesis examination) can be used to change maladaptive cognitions [51,69]. the aasm stated insufficient evidence to recommend cognitive therapy as single therapy. positive outcomes have been highlighted if part of a multifaceted intervention, even if the specific contribution of cognitive therapy remains unclear [53,56,58]. although the american college of physicians (acp) recommends that all adult patients receive cognitive behavioral therapy as the initial treatment for chronic insomnia disorder (grade of recommendations: strong; quality of evidence: moderate) [51], cbt-i is currently underused in clinical practice. there are still many reasons that prevent cbt from being prescribed as a first therapeutic choice. first of all, if and when professional treatment is sought, it is typically from a primary care physician, and medication is often the first and only treatment provided. second, many individuals don’t want to be misunderstood and considered to have a psychological problem. third, both individuals and physicians are often unaware of non-pharmacological therapies. fourth, cbt is more time-consuming than prescribing medications. finally, there are few providers with adequate training to provide cbt for insomnia [70]. for that reason, a system of standardized cbt-i training and training center accreditation should be implemented to increase the number of sleep medicine centers offering this treatment option [71,72]. cbt is sometimes associated with medications to strengthen their power or in case you need to discontinue therapy because of either physical or psychological addiction [59]. non-pharmacological treatments are also used for those who are reluctant to use medications, although they may benefit from an occasional pharmacological treatment. on the contrary, the pharmacological approach is introduced when the subjects would not be able to follow therapy properly or when more immediate and short-term symptomatic treatment is required [73]. numerous meta-analyses [47,55,57,74-76] demonstrated good efficacy for cbt-i, or its components, in patients with primary insomnia on sleep-related outcome parameters, and good stability of the results at follow-up assessments. on the other side, also pharmacotherapy has been widely studied [51,77-80] and, as previously discussed, variable benefits/harms ratio has been found. generally, drugs are able to obtain fast effects and are widely available, but have the risk to produce adverse events, such as daytime sedation, and to generate tolerance and dependence. in addition, their effect may disappear after discontinuation. conversely, psychological/behavioral therapy showed only minimal side effects, is preferred by several patients, and produces long-lasting benefits [81]. according to acp recommendations, physicians should share a decision-making approach, which includes a proper discussion on benefits, harms, and costs of short term use of drugs, to decide whether to add pharmacological therapy in adults with chronic insomnia disorder in whom cognitive behavioral therapy for insomnia (cbt-i) alone was unsuccessful (grade: weak; evidence: low quality) [51]. on the other side, treating insomnia with cbt-i, instead of medications, has several potential advantages, such as fewer known side effects, and an explicit focus on treating the factors that may be responsible for perpetuating chronic insomnia, aiming at producing long-lasting results. some patients also prefer non-medication treatments [82,83]. long-term studies consistently favor cbt-i over both benzodiazepines and non-benzodiazepines for improving sleep efficiency [84,85]. cbt-i is at least as effective for treating insomnia when compared with sleep medications. its effects may be more durable than medications with potentially no side effects [86]. some techniques cannot be used if patients are also affected by epilepsy or bipolar disorders [62] and, of course, cbt requires a high level of compliance, more extensive provider contact, and has a slower therapeutic action than medications. although significant clinical gains can be made in a relatively short number of treatment sessions, cbt has a longer latency of action than bdz or bdz agonists. conclusion both cbt techniques and medications can be used in the treatment of insomnia. they should be modulated and used according to the clinical situation, and treatment effectiveness could be influenced by patient characteristics, such as age or comorbid diagnoses. both pharmacological and non-pharmacological approaches should be used in everyday clinics to manage insomnia and improve patients’ quality of life, combining, if possible, sleep hygiene, a simplified version of sleep restriction (sleep compression), and tailored medications [83]. typically, short-term insomnia may benefit from brief (<10 weeks) hypnotic treatments with imidazopyridines or benzodiazepines, monitoring potential abuse and side effects, together with a non-pharmacological approach (relaxation techniques, stimulus control, sleep hygiene). in the case of chronic insomnia, often primary insomnia associated with chronic benzodiazepine treatments or abuse, the treatment should include the progressive suspension of gabaergic drugs and the simultaneous use of non-pharmacological therapies (e.g., sleep hygiene rules combined with sleep restriction and stimulus control). pharmacological treatment with slow-wave sleep enhancers (currently off label) could also be considered in non-responders and to avoid tolerance or in case of psychiatric comorbidity (mood depression, anxiety). the benefit of the pharmacological therapy, in the case of primary forms, usually takes 2-6 weeks and is significantly affected by adherence to behavioral therapies; treatment is generally maintained for prolonged periods (8-12 months). in the event of recurrence, non-pharmacological techniques may be used as early as possible, with good chances of restoring a correct sleep-wake cycle without the need for pharmacological treatments. only a few studies [84,87,88] included a combination of cbt-i and medication treatment. outcomes were generally comparable to those receiving cbt-i alone. in contrast, a sequential treatment strategy that commenced with six weeks of combined therapy (cbi + drug, mainly bdz, and non-bdz) followed by an extended 6 months of cbt alone proved superior to the continued long-term combined therapy or cbt provided in the absence of any medication [89]. future studies should examine additional strategies for combination treatment that capitalize on the relative advantages of medications (rapid onset on the therapeutic response) and cbt-i (long-term durability of treatment gains) also in the comorbid patient. key points insomnia should be considered a 24-hour sleep disorder etiopathogenesis of insomnia should be considered in managing the treatment short-term insomnia may benefit (in term of benefits vs. harms) from brief hypnotic treatments with different quality of evidence between imidazopyridines, cyclopyrrolones (low), and benzodiazepine (moderate-high), but weak strength of recommendation in both cases (aasm and esrs guidelines) hypnotics might be associated with a non-pharmacological approach (acp: weak grade of recommendation) chronic insomnia should be treated with non-pharmacological therapies (while gabaergic drugs should be tapered progressively off) as follow: sleep hygiene should be added as part of a comprehensive plan (aasm); sleep restriction is considered individually effective therapy (aasm guideline); stimulus control and progressive muscle relaxation are considered individually effective therapy (aasm standard); cognitive therapy is not recommended as single therapy but leads to positive outcomes if part of a multifaceted intervention (aasm) treatment with slow-wave sleep enhancers should be added to cbt techniques only if needed pharmacological and non-pharmacological therapy should be tailored to manage insomnia and improve patients’ quality of life funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors declare he has no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. saper cb, scammell te, lu j. hypothalamic regulation of sleep and circadian rhythms. nature 2005; 437: 1257-63; 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of low or moderate severity. the diagnosis is usually based upon the imaging (ct/cholangio-mri) demonstrating a pancreatic cystic mass, involving a dilated main duct, eventually associated to some filling defects, or a normal wirsung duct communicating with the cyst lesion. surgical treatment is generally indicated for main duct ipmn and branch duct ipmn with suspected malignancy (tumour size ≥ 30 mm, mural nodules, dilated main pancreatic duct, or positive cytology) or prominent symptoms. herein we present a case of ipmn of the main duct which occurred with abdominal and back pain associated with weight loss. after the diagnosis, she successfully underwent surgery and is now in a follow-up program. keywords: abdominal pain; back pain; weight loss; mucinous tumour; ipmn main-duct intraductal papillary mucinous neoplasm of the pancreas: a case report cmi 2012; 6(4): 127-134 caso clinico corresponding authors dott.ssa natalia manetti natalia.manetti@libero.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo perché descriviamo questo caso le neoplasie papillari mucinose intraduttali (ipmn) rappresentano un’entità nosologica di recente caratterizzazione e certamente il riscontro di tale patologia è in costante aumento. probabilmente ciò è da attribuire al miglioramento della diagnostica per immagini e alla crescente diffusione di una cultura specifica sull’argomento. l’importanza di queste forme patologiche è dovuta al fatto che esse originano come forme benigne ma con tendenza, variabile a seconda della tipologia della lesione, all’evoluzione maligna introduzione le neoplasie mucinose cistiche del pancreas possono essere classificate in due gruppi ben distinti: neoplasie papillari mucinose intraduttali (ipmn) e neoplasie mucinose cistiche (mcn) (tabella i). queste ultime sono maligne o potenzialmente tali anche se con una crescita molto lenta rispetto alle ipmn [2]. spesso interessano donne di mezza età e la sintomatologia di esordio consiste principalmente in dolore addominale e presenza di una massa palpabile in epigastrio. sono solitamente localizzate nella coda del pancreas e sono costituite da cisti mucinose uniloculari o multiloculari ben circoscritte con dimensioni medie di 7-10 cm [3,4]. queste lesioni possono essere benigne, maligne o borderline e l’unico modo per distinguere la forma completamente benigna (cistoadenoma) dalla forma maligna (cistoadenocarcinoma) è l’esame istopatologico dopo completa resezione chirurgica. neoplasia cistica del pancreas sottotipi neoplasia sierosa cistica cistadenoma sieroso adenoma microcistico sieroso adenoma oligocistico sieroso cistadenocarcinoma sieroso neoplasia mucinosa cistica cistadenoma mucinoso neoplasia cistica mucinosa con moderata displasia cistadenocarcinoma mucinoso non invasivo invasivo neoplasia papillare mucinosa intraduttale adenoma papillare mucinoso intraduttale neoplasia papillare mucinosa intraduttale con moderata displasia carcinoma papillare mucinoso intraduttale non invasivo invasivo neoplasia pseudopapillare solida neoplasia pseudopapillare solida carcinoma pseudopapillare solido tabella i. neoplasie cistiche del pancreas [1] le neoplasie papillari mucinose intraduttali (ipmn) del pancreas rappresentano circa il 7% delle neoplasie pancreatiche e più del 50% delle cisti pancreatiche diagnosticate incidentalmente, comprendono un ampio spettro di lesioni che possono evolvere verso gradi di maggiore aggressività: dall’adenoma al carcinoma in situ, al carcinoma invasivo. al contrario delle neoplasie mucinose cistiche, le ipmn si sviluppano più frequentemente in individui di sesso maschile, in età più avanzata e sono spesso localizzate nella testa del pancreas (tabella ii). mcn ipmn tipo di lesione benigna/borderline/maligna benigna/borderline/maligna sesso donne di età media uomini in età più avanzata (65 anni circa) localizzazione coda pancreatica 60% testa pancreatica 25% coda pancreatica 15% interessamento diffuso del parenchima pancreatico dimensioni medie 7-10 cm 3-4 cm descrizione i dotti sono circondati da uno stroma di cellule fusate che ricorda lo stroma ovarico. lo stroma ovarico contiene inoltre cellule epitelioidi simili alle cellule luteiniche. le cellule stromali presentano spesso recettori per estrogeni e progesterone e le cellule epitelioidi contengono di solito inibina i dotti sono circondati da stroma fibroso forma delle lesioni forma rotondeggiante circoscritta da una spessa capsula fibrosa. le cisti non comunicano con il sistema duttale le ipmn nascono da una dilatazione cistica del sistema duttale e di conseguenza sono spesso scarsamente delineate tabella ii. neoplasie mucinose cistiche (mcn) e neoplasie papillari mucinose intraduttali (ipmn): diagnosi differenziale. modificato da [5] le lesioni sono di circa 3-4 cm di diametro. la maggior parte dei pazienti si presenta con episodi recidivanti di pancreatite acuta e/o cronica o con diabete mellito di nuova insorgenza [6-8]. nel 27% dei casi, invece, la malattia è del tutto asintomatica e la diagnosi viene posta mediante indagini radiologiche eseguite per altri motivi [9]. agli esami diagnostici di primo livello come ecografia e tc addome, ma soprattutto agli esami di secondo livello quali la colangio-rm, le ipmn appaiono come dilatazioni dei dotti biliari replete di mucina che tende a fuoriuscire dalla papilla. a livello anatomico si possono distinguere lesioni che coinvolgono il dotto pancreatico principale e lesioni che coinvolgono i dotti pancreatici secondari. questi due sottotipi si differenziano per il rischio di evoluzione maligna. infatti, le neoplasie coinvolgenti il dotto principale progrediscono verso una forma maligna nel 57-92% dei casi mentre quelle interessanti i dotti secondari soltanto nel 6-46% dei casi, presentando una minor frequenza di carcinoma in situ e di carcinoma invasivo [10,11]. si riporta come oggetto di discussione un tipico caso di neoplasia mucinosa papillare intraduttale coinvolgente il dotto pancreatico principale e sottoposta, come da linee guida internazionali [12], a resezione chirurgica. caso clinico è giunta alla nostra attenzione la sig.ra bg di 69 anni per comparsa, da circa 5 mesi, di dolore addominale localizzato a livello epigastrico e irradiato sia bilateralmente agli ipocondri sia posteriormente in regione lombare. tale sintomatologia dolorosa si associava a un importante calo ponderale (15 kg in pochi mesi) e alla comparsa improvvisa di diabete mellito di tipo 2. la paziente era affetta da ipertensione arteriosa in trattamento farmacologico con buon controllo dei valori pressori. è stata sottoposta a intervento chirurgico di appendicectomia e a intervento di colecistectomia per calcolosi in giovane età. in considerazione della persistente sintomatologia dolorosa la paziente ha effettuato, su consiglio del medico curante, un’ecografia dell’addome e una tc torace e addome con e senza mezzo di contrasto. l’ecografia ha mostrato un’ecostruttura epatica incrementata come per steatosi in assenza di lesioni focali, regolarità delle vie biliari, presenza di un linfonodo di 1,7 cm a livello dell’ilo epatico, un’ecostruttura leggermente disomogenea del pancreas con dilatazione del dotto di wirsung e una formazione di aspetto cistico di circa 2 cm a livello della testa pancreatica. l’esame tomografico ha successivamente confermato la presenza di una formazione cistica a contorni netti (3 cm) a livello pancreatico e un’ectasia del dotto di wirsung (calibro di 0,5 cm); ha inoltre evidenziato la presenza di un linfonodo di 2,5 cm medialmente al processo uncinato del pancreas. la paziente ha successivamente eseguito un’esofagogastroduodenoscopia che ha rilevato un normale aspetto macroscopico dell’esofago e dello stomaco e una formazione polipoide sessile di 1,5 cm a livello della papilla del vater sulla quale sono state effettuate biopsie. l’esame istologico dei frustoli bioptici ha mostrato una normale architettura della mucosa duodenale, flogosi cronica della lamina propria e focali aree di metaplasia gastrica dell’epitelio di rivestimento superficiale. all’ingresso nel nostro reparto la paziente si presentava vigile, collaborante, orientata nel tempo e nello spazio. aveva pressione arteriosa = 130/80 mmhg, frequenza cardiaca = 72 bpm, e saturazione di ossigeno = 100% in aria ambiente. all’esame obiettivo l’addome si presentava trattabile, dolente e dolorabile alla palpazione superficiale e profonda a livello dei quadranti superiori, i segni di blumberg e murphy risultavano negativi, fegato e milza non erano palpabili, vi era normotimpanismo gastrocolico e la peristalsi era presente. agli esami ematochimici era rilevabile un modesto incremento del ca 19.9 (182,8 u/ml; range di normalità: 0-39 u/ml) in assenza di ulteriori alterazioni degne di nota. in particolare non erano evidenti segni di danno epatocellulare e di colestasi. erano normali anche le concentrazioni plasmatiche di amilasi e lipasi. in regime di ricovero la paziente ha eseguito nuovamente una tc addome con mezzo di contrasto che evidenziava a livello della testa pancreatica la presenza di una formazione rotondeggiante (dimensioni di circa 3,8 cm) ipodensa all’esame diretto e nelle varie fasi contrastografiche che improntava e dislocava anteriormente il dotto di wirsung, che risultava ectasico nel tratto corpo-coda (5 mm). era presente un’ulteriore formazione ipodensa di circa 2,5 cm di aspetto lobulato e con un setto interno localizzata in prossimità del processo uncinato al davanti della terza porzione duodenale. si rilevava inoltre un aspetto lievemente addensato dell’adipe peripancreatico in prossimità della testa. i reperti descritti dalla tc, secondo il parere del radiologo refertante, non avevano caratteristiche specifiche, potendosi riferire a una neoformazione discariocinetica di aspetto cistico a origine intraduttale oppure a esiti di processi pancreatitici (pseudocisti?). figura 1. immagini rm/tc della lesione cistica mucinosa intraduttale sulla base del referto della tc la paziente è stata sottoposta a colangio-rm (figura 1). tale esame mostrava, in corrispondenza della testa-corpo pancreatica, una formazione rotondeggiante a contenuto fluido e margini netti (diametro maggiore = 33 mm). un’altra formazione simile, plurisettata e più piccola (22 mm) era presente a livello del processo uncinato. era evidente un’ectasia del dotto pancreatico principale con numerose estroflessioni simil-cistiche, la maggiore delle quali con diametro massimo di 8 mm. nel corso di un ulteriore approfondimento diagnostico la paziente è stata sottoposta a colangio-pancreatografia retrograda endoscopica (ercp) che dimostrava la presenza di una papilla aumentata di volume con aspetto adenomatoso e una stenosi del wirsung a livello del corpo con probabile cisti in tale sede. durante la procedura è stata effettuata aspirazione del succo pancreatico al cui interno era dimostrata un’elevata concentrazione di ca 19.9 (3.030 u/ml). l’esame istologico del campione bioptico raccolto nella papilla mostrava atipie cellulari e flogosi produttiva non specifica della mucosa intestinale. sulla base della storia clinica della paziente e dei dati ottenuti mediante le tecniche diagnostiche di immagine e mediante l’esame istologico è stato posto il sospetto di ipmn del dotto pancreatico principale. per tale motivo, in regime di ricovero, è stata richiesta una consulenza chirurgica che ha posto indicazione all’intervento di duodenocefalopancreasectomia soprattutto in considerazione dei reperti radiologici, della presenza sia di un discreto aumento del ca 19.9 nel succo pancreatico, sia di atipie citologiche a livello della papilla. la paziente è stata sottoposta a intervento chirurgico di duodenocefalopancreasectomia e l’esame istologico su pezzo operatorio ha confermato il sospetto pre-operatorio, dimostrando la presenza di una neoplasia papillare mucinosa intraduttale con associata componente di adenocarcinoma invasivo. la neoplasia è risultata limitata al pancreas senza alcuna documentabile proliferazione neoplastica nei linfonodi esaminati e nei limiti di resezione chirurgica. la paziente è tutt’ora inserita in un programma di follow-up oncologico semestrale. discussione la neoplasia papillare intraduttale mucinosa del pancreas è caratterizzata da una proliferazione anomala dell’epitelio dei dotti pancreatici, secernente muco e responsabile di una dilatazione di entità variabile dei dotti stessi [12,13]. non ci sono segni o sintomi patognomonici anche se molto frequentemente i pazienti con ipmn si presentano con una lunga storia di pancreatiti acute ricorrenti o croniche ostruttive, dolore addominale frequentemente irradiato al dorso, ittero, diabete di nuova insorgenza, anoressia, calo ponderale, nausea e vomito. in particolare, i dati riportati in letteratura evidenziano come il dolore addominale a livello epigastrico e l’insorgenza improvvisa di diabete mellito, che hanno caratterizzato il quadro clinico della paziente presa in esame, siano presenti rispettivamente nel 69% e nel 54% dei casi [6]. le indagini diagnostiche attualmente disponibili permettono di caratterizzare le ipmn, di indurre il sospetto di una cancerizzazione in atto e, in definitiva, di individuare i pazienti da candidare all’exeresi chirurgica. l’ecografia e la tc rappresentano indagini diagnostiche di primo livello che permettono in primis di sospettare la presenza di una ipmn qualora evidenzino la presenza delle cisti pancreatiche e l’eventuale dilatazione del dotto pancreatico principale. la colangio-rm, l’ecoendoscopia (eus) e l’ercp permettono successivamente di delineare l’anatomia del sistema duttale pancreatico e il rapporto della neoplasia con i dotti pancreatici [5]. di fondamentale importanza è la distinzione tra ipmn del dotto pancreatico principale e ipmn dei dotti periferici, anche se sono frequenti le forme miste. tale differenziazione è necessaria per le diverse implicazioni prognostiche. vari studi dimostrano infatti come nelle ipmn dei dotti principali la progressione verso forme maligne, in situ o invasive, avvenga in una percentuale variabile dal 60% al 92%, con una media del 70%. sulla base di tali dati, qualora le indagini preoperatorie pongano il sospetto di una ipmn del dotto principale o di tipo misto, l’exeresi chirurgica è di regola indicata [10,11,14-20]. decisamente meno frequente è la cancerizzazione delle lesioni interessanti i dotti periferici, riscontrata in una percentuale variabile dal 6% al 46%, con una media del 25% [10,11,14-19]. è da notare, però, come i due studi che descrivono la più alta frequenza di cancro invasivo (30% e 31% rispettivamente) non prendano in considerazione i pazienti del tutto asintomatici [11,18]. negli studi che invece descrivono una bassa frequenza di cancerizzazione il quadro clinico d’esordio risulta essere nella gran parte dei casi silente [14,17,18]. in considerazione della bassa frequenza di cancerizzazione, in particolar modo nelle lesioni di piccole dimensioni, l’intervento chirurgico può essere considerato in maniera più selettiva nei casi di ipmn dei dotti periferici. a tale riguardo, le linee guida internazionali [12] raccomandano l’intervento chirurgico nelle forme sintomatiche o in presenza di segni diretti o indiretti di cancerizzazione in atto [17,19,20]. elementi indicativi di cancerizzazione in atto sono rappresentati dalla sede della neoplasia a livello del dotto pancreatico principale, dall’estensione diffusa o multifocale della lesione, dalla dilatazione del dotto pancreatico principale, dalla presenza di noduli intramurali o di vere e proprie lesioni solide, dalle dimensioni della neoplasia (≥ 3 cm), dalla presenza di calcificazioni intraluminali, dall’ostruzione del coledoco, dall’invasione delle strutture anatomiche adiacenti o, addirittura, delle strutture vascolari, dalla presenza di linfoadenomegalie o di metastasi a distanza [21]. anche la presenza di mucina extracellulare e di valori elevati del cea e del ca 19.9 all’esame del fluido intracistico come anche il rilievo di cellule atipiche all’esame istologico sono considerati indicativi di una lesione a rischio di cancerizzazione [17,21,22]. i fattori indicanti la presenza di una cancerizzazione in atto ipmn del dotto pancreatico principale o ipmn mista dimensioni della neoplasia > 3 cm dilatazione del dotto pancreatico principale presenza di noduli murali presenza di sintomi, in particolare ittero presenza di diffusione neoplastica età avanzata irregolarità della parete duttale localizzazione a livello della testa pancreatica livelli sierici e intracistici elevati di ca 19.9 il sospetto di ipmn del dotto pancreatico principale, la presenza di una sintomatologia importante e insorta improvvisamente, le dimensioni della lesione superiori a 3 cm, la dimostrazione di elevati livelli sierici e intracistici di ca 19.9 e infine il rilievo di atipie cellulari all’esame istologico hanno rappresentato nel complesso le indicazioni a eseguire l’intervento chirurgico radicale nella nostra paziente [17,21,22]. riguardo al tipo di intervento chirurgico, una pancreasectomia tipica con linfoadenectomia va considerata in tutti i casi in cui vi sia il dubbio di un’evoluzione verso un carcinoma invasivo. le resezioni atipiche limitate senza linfoadenectomia andrebbero riservate alle neoplasie di piccole dimensioni senza una chiara evidenza clinica o radiologica di cancerizzazione a patto di un’accurata rivalutazione intraoperatoria [23-29]. l’esame istologico estemporaneo di margini di resezione pancreatica è utile per minimizzare il rischio di escissioni incomplete [24]. l’ecografia intraoperatoria (ious) può essere di aiuto nella rivalutazione dell’estensione della neoplasia e dell’eventuale presenza di linfoadenopatie, oltre che nella definizione dei margini di resezione [25-27]. la sopravvivenza attuale a 5 anni dopo intervento chirurgico per i pazienti con ipmn nella sua forma benigna o nella forma di carcinoma in situ è vicina al 100%, mentre è del 24-74% in presenza di un carcinoma invasivo [16-26; 30-33]. per quanto riguarda i tumori cistici intraduttali a livello dei dotti pancreatici accessori, se asintomatici, di dimensioni minori di 3 cm e in assenza di lesioni al loro interno è indicato follow-up radiologico con tc ad alta risoluzione o eus almeno una volta ogni sei mesi [34]. conclusioni il caso clinico descritto analizza il percorso diagnostico e terapeutico appropriato per i pazienti con ipmn. in particolar modo pone le basi per la diagnosi differenziale tra le forme benigne e quelle maligne, aspetto fondamentale se si tiene nella dovuta considerazione la radicale differenza prognostica delle due forme. flowchart diagnostico-terapeutica delle lesioni pancreatiche bibliografia spence ra, dasari b, love m, et al. overview of the investigation and management of cystic neoplasms 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murdaca 1, francesco puppo 1 1 department of internal medicine, clinical immunology unit, irccs-aou san martino ist, genova, italy abstract systemic lupus erythematosus (sle) is an autoimmune disease characterized by complex pathophysiology and heterogeneous clinical picture. belimumab is the first biological therapy licensed for sle. we report the case of a 24 years old woman affected by a severe form of systemic lupus erythematosus with arthritis, muscle weakness, cervical lymphadenopathy, cutaneous involvement, fever, leukopenia, low complement levels and positivity for anti-dsdna antibodies. treatment with high dose steroids, hydroxychloroquine, and mycophenolate mofetil did not induce remission and several disease flares were observed. therapy with anti-blys monoclonal antibody belimumab leads to a fast clinical and laboratory response and to stable remission lasting for 30 months allowing steroid tapering to very low maintenance dose. keywords: systemic lupus erythematosus (sle); belimumab; biological therapy efficacia di belimumab nel trattamento di un caso di lupus eritematoso sistemico grave non rispondente alla terapia standard cmi 2016; 10(1): 3-6 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v10i1.1227 case report corresponding author francesco puppo department of internal medicine, clinical immunology unit irccs-aou san martino ist, genova viale benedetto xv, 6 – 16132 genova, italy puppof@unige.it disclosure this article has been published with the unconditional support of glaxosmithkline s.p.a. why we do describe this case: a severe form of sle with several disease flares non-response to standard therapy fast and long-term remission obtained with anti-blys monoclonal antibody belimumab introduction systemic lupus erythematosus (sle) is a systemic autoimmune disease, whose severity and clinical manifestations are highly variable. sle pathogenesis is not completely known; however, genetic factors, as well as hormonal and environmental triggers, play a role in the development of the abnormal immune response [1]. sle diagnosis is based on clinical features and laboratory findings according to current classification criteria [2,3]. sle is a chronic disease and its course is characterized by relapses and remission periods. therefore, the clinician should set up sle treatment according to clinical manifestations and severity of flares [4]. current therapy includes nonsteroidal anti-inflammatory drugs, corticosteroids, anti-malarial agents and immunosuppressive drugs. belimumab, an anti-b lymphocyte stimulator (blys) monoclonal antibody, is the first biologic drug licensed for sle treatment. case report we report the case of a 24 years old woman, who attended our outpatient clinic in february 2012 because of intense joint pain localized at knees, hands and wrists. she reported a history of asthma and allergic rhinitis (dust mites, dog dander, and olive tree pollen) for which she underwent sublingual immunotherapy in 2010. this therapy was withdrawn because a lack of benefit after two years. clinically, she complained of arthritis, muscle weakness, cervical lymphadenopathy and fever associated with leukopenia (white blood cells: 2,640 x 109/µl), low complement levels (c3: 75 mg/dl, c4: 19 mg/dl) and increased erythrocyte sedimentation rate (esr: 55 mm/h) and c-reactive protein (crp: 14 mg/l) levels. urinalysis was unremarkable. immunological investigations showed positivity of antinuclear (ana, 1:1280 titer with homogenous pattern), anti-double stranded dna (ds-dna) and ssa-ro antibodies; antineutrophil cytoplasm antibodies (anca) and antiphospholipid antibodies were negative. clinical features and laboratory data lead to the diagnosis of systemic lupus erythematosus (sle) according to current criteria [2,3]. the patient was first treated with prednisone (1 mg/kg/day), gradually tapered to 12.5 mg/day, associated with hydroxychloroquine (hcq) (200 mg twice a day), which did not provide clinical benefit. then, after a cutaneous flare, in november 2012 hcq was stopped and mycophenolate mofetil (mmf) (2 g/daily) was started in association with glucocorticoids at variable doses according to clinical needs. despite these medications, the disease was unsatisfactory controlled. in may 2013, she presented fever (39° c), fatigue, intense knees’ pain and swelling, and was admitted to our department of internal medicine, clinical immunology unit. physical examination revealed severe knees’ inflammation, tachycardia, and a soft systolic cardiac murmur. chest x-ray was negative. she also presented cutaneous signs as livedo reticularis and dermographism. laboratory data showed worsening of leukopenia (1.7 x 109/µl) with severe lymphopenia (0.3 x109/µl) associated with mild anemia and thrombocytopenia (62 x 109/µl), abnormal liver function tests (ast 145 u/l; alt 155 u/l) and increased ldh level (1680 u/l). the severe inflammatory status was confirmed by high crp (17.1 mg/l) and ferritin (29,799 µg/l) levels. blood and urine cultures were negative. a transthoracic doppler echocardiography showed normal valvular structures without signs of endocarditis as well as normal systolic and diastolic functions. serology resulted negative for cytomegalovirus infection but was positive for a recent epstein-barr virus infection (positivity of vca igm and ebna 1 igg antibodies). a computer tomography scan showed liver and spleen enlargement, compatible with the viral infection, and no signs of malignancy. in accordance with these clinical features and laboratory results, we hypothesized an sle flare triggered by ebv infection. during hospitalization, mmf was stopped, and the patient received methylprednisolone (five 500 mg i.v. infusions) followed by prednisone 1 mg/kg/day with transient but unsatisfactory clinical improvement (figure 1). figure 1. trend of laboratory parameters before and during belimumab treatment. the vertical line represents the start of belimumab esr = erythrocyte sedimentation rate crp = c-reactive protein on the basis of the poor disease control obtained with the previous treatments, we decided to start therapy with the anti-blys monoclonal antibody belimumab (10 mg/kg) according to the good results obtained by this biological drug in sle patients refractory to standard therapy [4-8]. at the time of the first belimumab administration (june 2013) the patient was on treatment only with prednisone 25 mg/daily. no other lupus-specific medications were continued while she was on belimumab. the first three infusions were given 14 days apart and were followed by monthly infusions. we observed a disappearance of arthralgia and constitutional symptoms such as fatigue and fever, 30 days after belimumab was initiated. hematological parameters and c3 and crp values reached the normal level after three months of therapy. the amelioration of clinical and laboratory data allowed to decrease the prednisone daily dose from 25 mg to 18.5 mg after 4 months from the beginning of belimumab treatment. nowadays, the patient has received 33 belimumab monthly infusions which were well tolerated without any side effect. this therapy leads to a stable remission lasting for 30 months in the absence of disease flares and allowed a further tapering of the prednisone daily dosage to 2 mg (figure 2). figure 2. trend of sledai score (systemic lupus erythematosus disease activity index) and prednisone dose before and during belimumab treatment. the vertical line represents the start of belimumab main questions the clinician should ask himself facing such a patient: which are the clinical symptoms and laboratory data suggesting the lack of response to standard therapy? how many disease flares should arise to decide to switch from standard therapy to biological drugs? which are the potential side effects of the long-term biological treatment? discussion despite the current incomplete understanding of sle pathogenesis, it is well known that b cells play a key role in the development of the disease mainly through the production of autoantibodies. belimumab represents the first biological targeted therapy licensed for the treatment of sle patients with active disease not responding to conventional therapies [5]. belimumab is a fully human igg1λ recombinant monoclonal antibody directed against soluble b lymphocyte stimulator (blys, also known as baff), a member of the tumor necrosis factor (tnf) family. blys is involved in lymphocyte survival, activation, and proliferation. in the context of an autoimmune disorder such as sle, elevated blys levels contribute to autoantibodies production and immune-complexes formation leading to inflammatory response and tissue damage. the interaction between belimumab and soluble blys prevents the binding of this growth factor with its receptors thus decreasing b-cell survival and autoantibodies production. since 2013, we have treated with belimumab 10 sle patients who were refractory to standard therapy. among them, 7 showed a fast and long-standing response whereas 3 discontinued belimumab for inefficacy. here we report the successful treatment with belimumab of a young woman with uncontrolled severe active sle not responding to conventional treatment. among the wide spectrum of drugs used for sle therapy, corticosteroids are commonly used. side effects of long-term corticosteroid intake as hypertension, diabetes, weight gain and osteoporosis are well-known. these side effects could be reduced using a low maintenance daily dose < 7.5 mg [9]. accordingly, the clinician should consider the best treatment strategy to reduce steroid dose to the lowest possible amount. in our case, belimumab allowed a quick tapering of prednisone without recurrence of the disease. nevertheless, as belimumab is a relative young drug, more experience is required to ameliorate its management and to know its long-term efficacy and potential side effects. references 1. tsokos gc. systemic lupus erythematosus. n engl j med 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2012;6(3)97-103.html epilessia mioclonica a esordio tardivo in un soggetto con sindrome di down e demenza annapia verri 1, aglaia vignoli 2, michele terzaghi 3, valeria destefani 1, luigi nespoli 4 1 fondazione istituto neurologico nazionale c. mondino irccs, pavia 2 centro regionale epilessia, azienda ospedaliera san paolo, milano, italy 3 centro medicina del sonno ed epilessia, fondazione istituto neurologico nazionale c. mondino irccs, pavia 4 università degli studi dell’insubria, varese abstract specific forms of epilepsy may be found at various ages in down syndrome (ds) and a sharp increase in the incidence of epilepsy with age has been documented. a specific type of myoclonic epilepsy associated with cognitive decline has been reported as “senile myoclonic epilepsy” or “late onset myoclonic epilepsy in ds” (lomeds). we report a new case of lomeds, documented by clinical and neurophysiological evaluation and psychometric assessment (dsds and dmr). mf, male, affected by ds, was referred in 2004 at 40 years of age; he had no personal or familial history of epilepsy. since one year, the patient presented cognitive deterioration, characterized by regression of language abilities, loss of memory, and loss of sphincters control. a brain tc showed mild brainstem and sub-cortical atrophy. in 2006, myoclonic jerks involving upper limbs occurred mainly after awakening. eeg showed a low voltage 8 hz background activity with diffuse slow activity, intermingled with spikes or polyspikes, persisting during nrem sleep. mf was initially treated with clonazepam and after with topiramate, resulting in partial seizures control. mri (2008) demonstrated diffuse brain atrophy, associated with marked ventricular enlargement. at the psychometric evaluation, onset of dementia was evident late in 2004, with transition to the middle stage in 2006. last assessment (2009) showed the clinical signs of a late stage of deterioration, with loss of verbal abilities and autonomous ambulation. using levetiracetam till 2,000 mg/die, myoclonic jerks decreased but are still present every day after awakening. on the eeg slow and poorly organized background activity with bilateral polyspike-wave discharges was recorded. therefore, we documented a parallel progression of dementia and myoclonic epilepsy in a ds subject. keywords: myoclonic epilepsy; down syndrome; dementia; lomeds late onset myoclonic epilepsy in down syndrome and dementia cmi 2012; 6(3): 97-103 caso clinico corresponding author dott.ssa annapia verri fondazione istituto neurologico nazionale c. mondino irccs via mondino, 2 – 27100 pavia tel.: 0382 380 332 fax: 0382 380 286 annapia.verri@mondino.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. perché descriviamo questo caso spesso l’osservazione di una patologia neurologica (epilessia, demenza, stroke, compressione a livello del midollo cervicale, lesione dei gangli della base) è trascurata nei soggetti con sd perché la sintomatologia clinica è mascherata dalla disabilità intellettiva di base. le mioclonie presenti al risveglio possono sfuggire all’attenzione del caretaker e quindi non essere segnalate al curante. pertanto potrebbe sfuggire l’esordio di una epilessia mioclonica a esordio tardivo associata a deterioramento cognitivo (lomeds) introduzione la sindrome di down (sd) è la causa più frequente di disabilità intellettiva associata a una anomalia cromosomica, la trisomia del cromosoma 21 (prevalenza 1:800), e costituisce la più complessa patologia genetica compatibile con la sopravvivenza. la sd «apre l’era delle malattie cromosomiche» [1]: descritta dal punto di vista clinico da j. langdon down nel 1866, nel 1959 è stata diagnosticata dal punto di vista citogenetico da lejeune [2]. la trisomia 21 libera è presente nel 95% dei soggetti con sd; nel 4% è presente una traslocazione, più frequentemente 14;21, mentre nell’1% dei casi si ha un quadro di mosaicismo (nello stesso soggetto si riscontrano linee cellulari con normale assetto cromosomico e altre portatrici di trisomia del 21) [1]. la presenza della trisomia 21 determina un effetto importante sullo sviluppo e comporta una costellazione di fenotipi clinici (tabella i): alcune caratteristiche fenotipiche sono costanti in tutti i soggetti con sd e altre sono presenti soltanto in una percentuale dei soggetti affetti [3]. fenotipo nella sd (%) disabilità intellettiva 100% alzheimer (neuropatologia) 100% dopo i 35 anni ipotonia muscolare 100% dermatoglifi caratteristici 85% brachicefalia 75% ipostaturalità 70% mani corte e tozze 65% epicanto 60% quinto dito breve 60% macchie di brushfield 55% orecchie displasiche 50% protrusione della lingua 45% anomalie cardiache congenite 40% canale atrioventricolare 16% stenosi duodenale/atresia 250×* ano imperforato 50× malattia di hirschsprung 30× leucemia megacariocitica acuta 200-400× leucemia linfoblastica acuta + megacariocitica acuta 10-20× tabella i. caratteristiche cliniche nella sindrome di down. modificata da [3] *i numeri seguiti da × indicano la maggior probabilità delle persone affette da sd di avere quella caratteristica fenotipica rispetto ai soggetti non affetti sd = sindrome di down la disabilità cognitiva è presente in tutti i soggetti con sd, così pure l’ipotonia muscolare e le alterazioni neuropatologiche tipiche della malattia di alzheimer dopo i 35 anni. al contrario, una patologia cardiaca congenita è presente soltanto nel 40% circa e la persistenza del canale atrioventricolare in circa il 16% dei soggetti. la prevalenza dell’epilessia nelle persone con sd è più elevata che nella popolazione generale (dall’1% al 13%) ma è inferiore a quella generale dei soggetti con ritardo mentale [4,5]. nella sd è stato descritto un primo picco di incidenza di epilessia in età infantile e un secondo nella media età adulta [6]. la prevalenza di epilessia nei pazienti con sd tende ad aumentare con l’età, con una prevalenza del 46% in coloro che superano i 50 anni [5]. l’aspettativa di vita per le persone con sd è significativamente aumentata nelle ultime decadi e pertanto un ampio gruppo di questi soggetti è ora affetto da epilessia. già nel 1876, precedentemente alla descrizione della sindrome di alzheimer, è stato segnalato un deterioramento precoce nei pazienti con sd [2]. la maggior parte degli individui affetti manifesta infatti dopo i 40 anni alterazioni tipiche della sindrome di alzheimer dal punto di vista neuropatologico. tuttavia il quadro clinico della demenza compare soltanto nel 9-10% di soggetti down nella quarta decade di vita, nel 50% nella sesta decade e nel 75% nella settima decade. segni clinici e sintomi più frequenti della malattia di alzheimer sono crisi epilettiche (58%), cambiamenti nella personalità (46%), segni neurologici focali (46%), apatia (36%) e perdita delle capacità di comunicazione (36%) [7]. un tipo specifico di epilessia mioclonica associato al declino cognitivo è stato descritto come “epilessia mioclonica senile” [8,9] o “lomeds” cioè late onset myoclonic epilepsy in down syndrome [6]. lo scopo di questo lavoro è segnalare un caso di epilessia mioclonica a esordio tardivo (lomeds) in un paziente affetto da sd di soli 40 anni come diagnosi differenziale delle epilessie miocloniche progressive dell’adulto. le descrizioni dell’epilessia a inizio tardivo nei pazienti con sd sono rare. tuttavia, recentemente sono comparse ampie review sull’argomento [4,10]. la lomeds presenta caratteristiche simili all’epilessia mioclonica tipica nella malattia di alzheimer e alla malattia di unverricht-lundborg (uld) causata da una mutazione del gene cistatina b sul cromosoma 21q22.3. caso clinico anamnesi riportiamo un nuovo caso di lomeds in un soggetto maschio, mf, affetto da sd con trisomia 21 tipica e valutato longitudinalmente dal punto di vista clinico, neurofisiologico e psicometrico a partire dall’età di 40 anni. l’anamnesi personale e familiare è negativa per epilessia. i primi segni di declino neurologico sono comparsi al compimento dei quarant’anni. si sono manifestati con un iniziale disinteresse per le normali attività svolte al centro diurno che mf in passato frequentava con motivazione e interesse. i familiari hanno inizialmente scambiato tale disinteresse per un sentimento di noia, essendo mf da sempre stato molto attivo in particolar modo in ambito sportivo (nuoto, equitazione, squash). hanno inoltre rilevato la presenza di comportamenti oppositivi (rifiuto a entrare in acqua), facile stancabilità, tendenza all’addormentamento anche durante il giorno e perdita dello stimolo della sete. nel giro di qualche mese sono comparse tuttavia difficoltà di equilibrio seguite dal rifiuto di usare la bicicletta. nell’anno successivo alla prima valutazione (2004) il paziente presentava un deterioramento cognitivo caratterizzato da regressione delle competenze linguistiche e comunicative, declino mnestico e perdita del controllo sfinterico. domande che il medico dovrebbe porsi trovandosi di fronte a questo caso indagare con cura se il paziente abbia perduto le autonomie acquisite con il caretaker che conosce il paziente da tempo escludere la compromissione della funzionalità tiroidea, le alterazioni della funzione immunitaria e la celiachia indagare la presenza di movimenti involontari soprattutto al risveglio nel 2006 comparivano mioclonie spontanee localizzate agli arti superiori prevalentemente al risveglio. negli anni successivi si assiste a un peggioramento della deambulazione, fino all’impossibilità di assumere autonomamente la stazione eretta nel 2009. l’esame neurologico varia nelle diverse osservazioni: nel 2004 si riscontra una sfumata emisindrome piramidale destra, in seguito accentuazione bilaterale dei riflessi, deambulazione lenta e a piccoli passi, fino alla impossibilità di assumere la stazione eretta e al mancato controllo del capo. nel 2008 il paziente era ancora in grado di assumere la stazione eretta con atteggiamento flesso del tronco. nel 2009 il paziente poteva rimanere seduto con postura distonica, capo flesso sulla spalla destra. attualmente il paziente non è in grado di mantenere la posizione seduta, è allettato e ha perso ogni autonomia personale. indagini di laboratorio ed esami strumentali le indagini di laboratorio non hanno documentato alterazioni della funzionalità tiroidea, celiachia o altre patologie tipiche della sd. il paziente presentava elevazione dei valori di omocisteinemia (= 21,5 μmol/l; vn < 13 μmol/l), in accordo con quanto segnalato dalla letteratura [11]. all’esame ecocardiografico si rilevava insufficienza di grado lieve alla valvola aortica. l’ecodoppler tsa (tronchi sovra-aortici) ha messo in luce assi carotidei bilateralmente pervi interessati da ispessimento parietale di grado moderato. non si riscontrano lesioni segmentarie stenosanti i vasi in modo significativo. alla valutazione con pulsed wave doppler non si riscontrano in tali sedi alterazioni emodinamiche. si osservano assi vertebrali ortogradi e una modesta demodulazione a sinistra verosimilmente consequenziale a stenosi del vaso a livello dell’origine. le arterie succlavie risultano pervie e dotate di flusso trifasico. la tac cerebrale (2004) ha documentato una lieve atrofia del tronco encefalico e subcorticale e presenza di calcificazioni puntiformi a livello dei nuclei della base di destra. la mri (2008) ha dimostrato una diffusa atrofia cerebrale associata a marcata dilatazione ventricolare. il tracciato eeg, che viene ripetuto per monitorare la condizione in occasione dei diversi accessi ambulatoriali di mf, appare inizialmente (2004) globalmente rallentato e destrutturato, caratterizzato dalla presenza di attività lenta diffusa, a prevalenza anteriore, in assenza di chiare asimmetrie o anomalie parossistiche. rapidamente, però, compaiono nei controlli successivi scariche bilaterali di punte e polipunte seguite da oscillazione lenta (figura 1) che persistono nel sonno nrem (figura 2), associate a crisi miocloniche agli arti superiori. figura 1. eeg: attività di fondo lenta e poco organizzata sulla quale si inscrivono scariche bilaterali di punte seguite da oscillazione lenta, incostantemente associate a scosse miocloniche agli arti superiori emg1: emg muscolo miloioideo; png1: toracogramma; emg2: emg deltoide destro; emg3: emg deltoide sinistro; emg 4: emg tibiale destro; png2: emg tibiale sinistro figura 2. polipunte seguite da oscillazione lenta bilaterali in tratto di sonnolenza/sonno 1nrem emg1: emg muscolo miloioideo; png1: toracogramma; emg2: emg deltoide destro; emg3: emg deltoide sinistro; emg 4: emg tibiale destro; png2: emg tibiale sinistro dmr scs sss ts settembre 2005 24 20 44 febbraio 2007 34 35 68 ottobre 2008 38 35 73 tabella ii. dementia questionnaire for persons with mental retardation (dmr; [13]) scs = sum of cognitive scores sss = sum of social scores ts = total score la valutazione psicometrica è stata condotta con il coinvolgimento del familiare di riferimento allo scopo di reperire informazioni inerenti l’evoluzione del quadro cognitivo e comportamentale del paziente. la scala per il deterioramento per soggetti con la sindrome di down dsds – dementia scale for down syndrome [12] (tabella ii) è stata compilata mediante le informazioni fornite dalla sorella e ha documentato una progressione dei sintomi demenziali osservati nelle successive valutazioni. nel febbraio 2009 la scala dmr [13] documenta deterioramento nelle abilità cognitive e sociali rispetto alle precedenti valutazioni (settembre 2005; febbraio 2007; ottobre 2008). al momento dell’ultima valutazione (2009) il paziente presenta infatti i segni clinici coerenti con uno stadio di deterioramento molto avanzato, con perdita della abilità verbali e delle capacità di deambulazione autonoma, frequenti e quotidiane mioclonie. il paziente è incontinente e necessita di assistenza continuativa durante i pasti e nell’arco dell’intera giornata. la scala per la valutazione del comportamento adattivo (vineland adaptive behavior scales) (tabella iii) viene compilata per mezzo delle informazioni fornite dalla sorella (2006). punteggi grezzi punteggi standard età equivalente (anni) livello adattivo comunicazione 78 81 1-11 < media autonomia 117 87 2-11 media socializzazione 107 94 3-1 media abilità motorie 95 99 2-5 media punteggio composito 302 86 tabella iii. vineland adaptive behavior scales   i punteggi ottenuti documentano che il paziente ha raggiunto un livello di sviluppo inferiore a quello atteso per soggetti normodotati di pari età in tutte le aree indagate. la compromissione riguarda in particolare l’area comunicativa, le abilità di espressione verbale e di letto-scrittura. anche l’area relativa alle abilità quotidiane appare compromessa; emergono, infatti, difficoltà nella cura della propria persona, nel prender parte alla vita di comunità e limitazioni nell’autonomia. le abilità di socializzazione, sebbene severamente ridotte dall’incapacità di esprimersi verbalmente, si configurano nella media rispetto agli individui di pari età e livello intellettivo. rispetto a soggetti con pari disabilità intellettiva si rileva minore compromissione nell’area relativa alle relazioni interpersonali, nella quale il paziente mostra abilità superiori alla media. terapia mf è stato trattato inizialmente con clonazepam e in seguito con topiramato, con parziale miglioramento della sintomatologia critica. l’utilizzo di levetiracetam fino a una posologia di 2.000 mg/die ha prodotto una riduzione di frequenza delle mioclonie che sono tuttavia rimaste persistenti quotidianamente al risveglio mattutino. per quanto riguarda il decadimento demenziale, il paziente è stato trattato con donezepil 10 mg/die senza una ricaduta significativa sulle performance cognitive. l’iperomocisteinemia è stata trattata con folato 5 mg/die. decorso clinico il decorso clinico è stato caratterizzato da un progressivo rallentamento delle performance cognitive e motorie. contemporaneamente si è documentata regressione del linguaggio (già nel 2006 il paziente utilizzava la comunicazione non verbale) e perdita delle autonomie acquisite (perdita del controllo sfinterico, perdita delle capacità di lettura e scrittura). la presenza di mioclonie, dapprima saltuaria e localizzata all’arto superiore destro, è diventata subcontinua e ha interessato entrambi gli arti superiori. conclusioni diagnostiche il caso documenta la progressione in parallelo di demenza ed epilessia mioclonica in un soggetto con sindrome di down, associate a deterioramento sul piano motorio. il quadro clinico è compatibile con epilessia mioclonica a esordio tardivo. discussione l’associazione epilessia mioclonica/deterioramento cognitivo in un soggetto adulto con sd è nota come “lomeds” [6] o epilessia mioclonica senile [8-10] ed è ormai considerata una condizione comune associata al decadimento cognitivo nella sd [10]. la lomeds si caratterizza per la comparsa di mioclonie al risveglio, associate a volte a crisi generalizzate e progredisce verso un mioclono erratico, piena perdita di autonomia e morte entro pochi anni; l’eeg all’inizio non è molto informativo, e a volte è necessaria una polisonnografia per registrare le caratteristiche anomalie parossistiche al risveglio. l’eeg progressivamente peggiora, per rallentamento del ritmo di fondo e aumento delle scariche parossistiche [10]. nella sd si riscontra un’aumentata prevalenza di epilessia con l’avanzare dell’età, come già riferito in precedenza, in particolare la frequenza dell’epilessia è più alta nei soggetti down dopo i 50 anni [5,10]. la lomeds si differenzia dalla malattia di unverricht-lundborg in quanto in quest’ultima, forma di epilessia mioclonica progressiva non associata a sd, l’esordio delle crisi è nell’età evolutiva, il mioclono è multifocale ed è provocato dalla postura o dall’azione, dal tatto, dal rumore e dalla luce [14]. il nostro caso si caratterizza per la precocità della comparsa della sintomatologia clinica (40 anni), per cui la definizione “lomeds” appare più appropriata rispetto a quella di “epilessia mioclonica senile”. è importante rilevare che la compromissione cognitiva ha preceduto nel nostro paziente la comparsa delle crisi miocloniche, come segnalato dalla letteratura [10], e va pertanto considerata il primo sintomo della lomeds. la compromissione cognitiva è progressiva, come documentato dalle ripetute valutazioni psicometriche nel nostro paziente. nel nostro caso è stato possibile documentare un progressivo rallentamento motorio, fino alla perdita della deambulazione autonoma. inoltre è interessante la presenza di calcificazioni a livello dei nuclei della base alla tac nel nostro paziente. alcuni studi hanno rilevato la presenza di calcificazioni cerebrali (cc) nella sd in associazione a molte condizioni patologiche e incidentali e in particolare all’aging prematuro [15] la sua incidenza è stata riportata nel 0,32-1,5% alla tac cerebrale, la maggior parte in soggetti in età > di 40 anni. ad oggi non è ancora definita la relazione tra calcificazioni dei gangli della base e lomeds. per quanto riguarda la terapia farmacologica è da tener presente che un singolo farmaco raramente controlla completamente le crisi miocloniche, pertanto sono necessari molteplici tentativi e terapie di associazione. in generale farmaci come valproato e levetiracetam sono efficaci nel mioclono corticale, ma inefficaci in altre forme di mioclono. clonazepam può essere utile in tutti i tipi di mioclono [16]. nei soggetti con sd si osservano un invecchiamento precoce e un precoce declino delle funzioni cognitive. tuttavia, l’aspettativa di vita è migliorata notevolmente negli ultimi 50 anni, in gran parte come risultato della cardiochirurgia correttiva precoce, della immunizzazione attiva e della terapia antibiotica delle infezioni.gli adulti con sd presentano molte più probabilità di sviluppare demenza di tipo alzheimer rispetto alla popolazione generale. su materiale autoptico, quasi tutti i soggetti adulti con sd di età superiore ai 35 anni presentano i quadri neuropatologici cerebrali tipici del morbo di alzheimer (placche senili, alterazioni neurofibrillari e perdita di neuroni), ma la demenza può essere diagnosticata dal punto di vista clinico soltanto nel 9,4% degli adulti con sd, nella loro quarta decade di vita, nel 50% nella sesta e nel 75% nella settima. l’invecchiamento nel soggetto con sd rappresenta un’evoluzione della sindrome e dipende sia da fattori genetici e biologici sia da quelli psicologici e ambientali: l’accumulo di placche di peptide β-amiloide (aβ) è progressivo nell’arco di vita nei soggetti con sd. l’associazione neuropatologica tra demenza di tipo alzheimer e sd sarebbe legata alla presenza di una proteina β-amiloide specifica nel cervello di pazienti con sd. aβ è coinvolto nell’eziologia della malattia di alzheimer. la deposizione di aβ deriva dalla proteina precursore dell’amiloide (app), sovraespressa in pazienti affetti da sd a causa della trisomia del cromosoma 21. questa sovraespressione di app (e di conseguenza di aβ) sarebbe responsabile della insorgenza precoce di demenza nella sd. i fattori che diminuiscono la formazione di aβ, ad esempio cariotipi atipici associati a sd (per esempio traslocazioni, trisomie parziali o mosaicismi) che riducono quantitativamente il gene app, sono associati a ridotta mortalità e ridotto rischio di demenza [10]. il cromosoma 21 comprende comunque diversi geni implicati nel meccanismo della neurodegenerazione, fra i quali, oltre alla app, la cu/zn superossido dismutasi 1 (sod-1), i fattori di trascrizione ets-2 e il fattore stress-inducibile down syndrome critical region 1 (dscr1) [17]. anche nella sindrome di alzheimer, nell’autismo e nella sindrome da x fragile si riscontra un eccesso di precursore dell’amiloide (aβpp). le crisi epilettiche costituiscono un fenotipo comune in tutte queste patologie, tuttavia il meccanismo molecolare sottostante all’induzione e propagazione delle crisi rimane non noto [18]. le cause dell’aumentata prevalenza di epilessia nella sd non sono chiare, tuttavia la disgenesia delle spine dendritiche nella sd a livello del snc potrebbe essere collegata alla epilettogenesi [10]. studi su modelli animali dell’ad hanno inoltre dimostrato che l’iperproduzione e accumulo del peptide tossico beta-amiloide, che gioca un ruolo centrale nella fisiopatologia della malattia di alzheimer, è in grado di causare attività cerebrale eccitatoria aberrante e convulsioni anche in fasi iniziali di malattia e in assenza di morte neuronale [19]. in conclusione, l’aumentata aspettativa di vita nella sd e il rischio per i soggetti con sd di presentare una demenza di tipo alzheimer espongono maggiormente i soggetti adulti con sd al rischio di sviluppare l’epilessia mioclonica senile, destinata a diventare una forma comune di epilessia [12]. raccomandazioni diagnostico-terapeutiche [20] periodici controlli neurologici e neuropsicologici con strumenti specifici (scale di deterioramento specifiche per la sd, quali la scala di gedye [12] e quella di evenhuis [13]) per i soggetti con sd dopo i 35 anni (annuali) video-eeg e registrazione polisonnografica in tutti i soggetti con sd e deterioramento cognitivo che abbiano presentato crisi epilettiche generalizzate o con anamnesi positiva per mioclonie appropriata terapia antiepilettica in tutti i soggetti con sd con epilessia bibliografia burgio gr, notarangelo ld. malattie maestre: una storia di grandi malattie dei piccoli. torino: utet, 2002 patterson d, costa ac. down syndrome and genetics a case of linked histories. nat rev genet 2005; 6: 137-47 antonarakis se, lyle r, dermitzakis et, et al. chromosome 21 and down syndrome: from genomics to pathophysiology. nat rev genet 2004; 5: 725-38 vignoli a, zambrelli e, chiesa v, et al. epilepsy in adult patients with down syndrome: a clinical-video eeg study. epileptic disord 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originated in childhood (adverse attitudes enacted by the personality of parental figures), interpreted by the child as a refusal of her own (fat) corporeity and the tendency to process information, express emotions and affections, react and act accordingly. these traits characterize the nascent personality and become apparent in adolescence (disesteem, insecurity, immaturity, social isolation, and sexual issues). therefore, clinical work on the personality and anorexic behavior should aim at understanding the meanings attributed to the food and the body to initiate a correction and change. such an intervention would tend to facilitate a gradual change in the original feeling and thinking of these dimensions in anorexia. keywords: anorexia; psychodynamics; alexithymia; childhood; adolescence; hyperprotectiveness clinical and psychodynamic aspects of the therapeutic work with the anorexic personality cmi 2023; 17(1): 13-23 http://doi.org/10.7175/cmi.v17i1.1541 gestione clinica corresponding author roberto infrasca roberto.infrasca@libero.it received: 9 december 2022 accepted: 9 may 2023 published: 21 june 2023 introduzione sindrome conosciuta da secoli, l’anoressia appartiene al terreno dei disturbi della condotta alimentare e ha acquisito negli ultimi decenni uno spessore epidemiologico di rilevante entità, mentre la sua strutturazione multifattoriale configura un intervento terapeutico interdisciplinare. a differenza di altre patologie, l’anoressia nervosa colpisce essenzialmente le femmine in epoca adolescenziale o negli stadi conclusivi di questo delicato e conflittuale periodo evolutivo. recenti dati del ministero della salute, presentati in occasione della terza giornata sulla salute delle donne (roma, aprile 2018), evidenziano che in italia i circa 3 milioni di giovani che soffrono di disturbi della nutrizione e dell’alimentazione sono femmine per il 95,9% e maschi per il 4,1%, fisionomia statistica nettamente differenziata da altre patologie psichiche [1]. la coniugazione al femminile del disturbo porta a ipotizzare la presenza di meccanismi patogeni specifici per la femmina, la cui comprensione permette una lettura più chiara del disturbo alimentare e delle sue caratteristiche. inoltre, gli elementi relativi a tale fenomeno di cui dispone la clinica consentono interventi terapeutici che possono incidere contemporaneamente sui diversi fattori concorrenti alla patologia (psico-emotivi, cognitivi, relazionali e culturali). in tale contesto, pur non avendo un ruolo preminente, non pare estranea la “cultura dell’immagine” comunicata sistematicamente dai media di massa e dalle reti sociali, operatività che diviene un sostegno alle dinamiche della personalità anoressica alla ricerca di una corporeità reificata (ridurre il corpo a un oggetto da manipolare a piacere). di fatto, questa “realtà” ha conquistato progressivamente territori psico-culturali sottraendoli alla naturale “geografia umana”, processo che tende a compromettere in modo quasi irreversibile la possibilità dell’individuo di coniugare la realtà interna (compreso il vissuto del corpo) con una realistica concretezza riflessiva. tale atteggiamento tende progressivamente a formare o rinforzare un’organizzazione personologica basata essenzialmente su una corporeità illusoria e desiderata (immagine), dove la persona vive e interpreta la realtà (interna e esterna) tramite questo “strumento”, modalità che determina un profondo impoverimento delle sue multiformi potenzialità e della propria complessiva dimensione naturale. l’immagine tende così a sostituire la realtà, la riflessione e la capacità critica, in un forzato scambio che vede l’individuo perdere l’attitudine a un pensiero ragionevole e critico capace di comprendere la propria sostanzialità (anche corporea) e di agire concretamente e in modo maturativo nelle situazioni. “persona reale” e “persona immagine” divengono così sinonimi, mentre la naturalezza dell’individuo appare sempre più condizionata dall’immagine stessa. la persona aderisce a una connotazione che non è azzardato definire “virtuale”, assorbendone le modalità psico-comportamentali, tanto da ridurre, quando non annullare, i confini che la separano e distinguono da questa. la “persona visuale” diviene il prodotto dell’imitazione della realtà percepita dall’apparato visivo, operatività che riduce progressivamente l’importante complementarità della funzione psico-cognitiva e comportamentale (sentire-pensare-comunicare-agire), strutture che assumono un mero ruolo accessorio della visualità. di fatto, la cultura post-moderna ha dato un rilievo eccessivo ai criteri corporei che accentuano la magrezza (particolarmente nelle femmine), inducendo una modalità di sentire e pensare il corpo attraverso cui la persona è sollecitata a valutare negativamente se stessa, la propria vita e le relazioni interpersonali. in tale situazione le persone vulnerabili rispetto all’autostima e all’identità sociale possono reagire a queste pressioni culturali elaborando tratti di personalità che mutano in modo disfunzionale anche le proprie abitudini alimentari [2]. non pare quindi casuale che le atlete di alcune discipline sportive (per esempio ginnastica), danza e le modelle evidenzino un rischio maggiore di sviluppare tale disturbo alimentare [3]. basato sullo studio analitico della struttura di personalità di soggetti anoressici seguiti a livello psicoterapeutico, il presente lavoro si propone quale ulteriore apporto alle teorie eziopatogenetiche (cause e meccanismo di azione) del disturbo, rivisitazione che evidenzia le dinamiche intrae inter-personali quali fattori preminenti nell’affermazione e rinforzo del quadro clinico. nell’intento di fornire un panorama per quanto possibile completo sulla patologia alimentare, l’analisi ha quindi esplorato l’assetto psicodinamico e clinico della personalità anoressica, la presenza di specifiche caratterizzazioni della sua infanzia e della personalità genitoriale, la particolare relazione con l’alimentazione e il corpo, indagine che ha fornito ulteriori elementi e dati utilizzabili a livello teorico, diagnostico e terapeutico. il quadro clinico quadro clinico di non rara osservazione, l’anoressia nervosa è caratterizzata dall’alterazione del comportamento alimentare che si manifesta attraverso un rifiuto attivo e persistente del cibo, da cui deriva una importante perdita di peso. generalmente, il paziente (quasi esclusivamente femmine e in età adolescenziale) riduce “volontariamente” l’assunzione di cibo senza motivi validi e obiettivi, atteggiamento giustificato tramite lo scarso appetito, la pesantezza post-prandiale, il rifiuto verso il cibo, condizione in cui spesso si riscontrano alcuni disturbi (per esempio rallentamento del polso, del ritmo respiratorio, ipotermia e scompenso elettrolitico). nell’anoressica si rileva frequentemente una strategia difensiva nei riguardi delle stimolazioni ad alimentarsi (retaggio storico sperimentato con la figura materna), attuata attraverso la riduzione del cibo, il vomito autoindotto e l’assunzione di purganti e lassativi. le pazienti dimostrano un’approfondita quanto ossessiva conoscenza dell’apporto calorico delle diverse sostanze alimentari, riferiscono un ciclico ricorso a diete ipocaloriche e l’insopportabile sensazione di peso e di gonfiore causati dal mangiare, condizioni situate all’interno di un’evidente scarsa consapevolezza delle proprie condizioni fisiche. negando pesantemente quest’ultima realtà, l’anoressica tende a condurre una vita personale iperattiva che – non infrequentemente – include la pratica sportiva, solitamente insostenibile e non funzionale per il soggetto [3]. oltre gli ostentati aspetti proposti, nel quadro alimentare si colgono due importanti condizioni soggettive. la prima vede la quotidianità ruotare intorno all’alimentazione e al corpo, alla “sentenza” emessa dalla bilancia, alle sollecitazioni familiari a “mangiare di più”, alle abbuffate, ai sensi di colpa e al vomito autoindotto. la seconda nella quale, dietro una stereotipata facciata di equilibrio e adeguatezza psicologica, nel soggetto si riscontrano una profonda insicurezza, ansia di separazione e immaturità. il disturbo anoressico può essere rappresentato dalla concomitanza di alcuni aspetti clinici fondamentali: disturbi dell’immagine corporea: il soggetto non evidenzia nessuna preoccupazione per l’eventuale stato di magrezza, situazione vissuta come normale e quale garanzia nei confronti dell’angoscia di ingrassare; inadeguata percezione degli stimoli neurofisiologici legati alla fame, alla sazietà e alla stanchezza (per esempio, stressante attività fisica nonostante le scadenti condizioni fisiche); anamnesi infantile con sistematica presenza di alcune caratterizzazioni personologiche e relazionali: bambina “particolare”, generalmente figlia unica o figlia di genitori emotivamente iperprotettivi, rigidi o ossessivi, legame ambivalente e stretto con una delle figure genitoriali (generalmente quella materna), conflitto con il cibo. il disturbo è solitamente associato a conflitti emozionali riguardanti l’accettazione del ruolo femminile e delle responsabilità adulte, il disagio psico-relazionale vissuto con le figure genitoriali, le negative valutazioni nei confronti della propria corporeità, percezioni che producono insicurezza, isolamento e bassa autostima. patologia invalidante e a volte a esito infausto, il dsm-v [4] colloca l’anoressia nervosa tra i disturbi dell’alimentazione identificando la patologia tramite un principale criterio diagnostico differenziale basato sull’indice di massa corporea (imc): il rifiuto a mantenere il peso a un normale livello, che gli specificatori di gravità dell’imc fissano a un valore di 17 kg/m², al di sotto del quale esiste la possibilità di patologia anoressica, sino ad arrivare a un imc grave tra 15-15,99 kg/m² o estremo quando minore di 15. inoltre, tale quadro clinico presenta alcune caratteristiche psicopatologiche, quali l’angoscia di acquistare peso e diventare “grassa” senza obiettivi riscontri, che motiverebbero tale preoccupazione, alterazione del vissuto rispetto alle oggettive dimensioni corporee, che pone il soggetto nella condizione di sentirsi sovrappeso nonostante l’evidente normalità o magrezza del corpo. l’età d’insorgenza si situa tra 12 e 18-20 anni e l’esordio è solitamente collegato a vissuti stressanti di queste personalità. nell’anamnesi infantile, questi soggetti sono generalmente descritti come “bambine modello e perfezioniste”. le determinanti psicodinamiche e psicopatologiche nello sviluppo della sindrome anoressica allo scopo di valutare le dinamiche psico-emotive e cognitive implicate nella costruzione della sindrome alimentare, e data l’importanza che queste hanno nell’orientare l’intervento clinico-terapeutico, sono stati analizzati i fattori dei due stadi evolutivi implicati nell’origine e nella manifestazione anoressica: il periodo infantile (personalità genitoriale, stile di attaccamento, atteggiamento alimentare) e adolescenziale (vissuto dell’immagine corporea, relazione tra cibo-corpo-sessualità, sollecitazioni intrae inter-personali), unitamente alle variabili psico-emotive che partecipano attivamente alla costruzione e al rinforzo dell’organizzazione anoressica, tratti che il lavoro psicoterapeutico ha costantemente evidenziato come patogenetici e che sia l’esperienza professionale che la letteratura scientifica ritengono maggiormente implicati nella sindrome alimentare. le considerazioni proposte nel lavoro sono state validate tramite una ricerca fatta su un campione di 597 individui (casistica proveniente dal lavoro professionale svolto dall’autore), comprendente 122 soggetti anoressici (dca) e 259 affetti da depressione (dep) confrontati con 216 controlli (con), a cui sono stati somministrati test che riguardano la personalità (tratti, sessualità, alimentazione, vissuto di sé, modello psichico), unitamente a un questionario sull’infanzia atto a reperire informazioni su questo stadio evolutivo. i dati ottenuti sono stati elaborati statisticamente (regressione logistica e chi-quadrato). stadio infantile lo stadio infantile prevede nel bambino una personalità in formazione, dimensione che mostra una forte plasticità psichica, una scarsa capacità difensiva (impotenza), una facile influenzabilità e un forte bisogno di complicità emotivo-affettiva delle figure genitoriali quale sostegno per sviluppare il potenziale modo di essere. nei primi periodi dello stadio infantile si assiste all’iniziale costruzione dell’importante e inalterabile sequenza psico-emotiva e cognitiva del sentire-pensare (cui si aggiungeranno progressivamente la comunicazione e il comportamento), precoci costrutti che, a seconda del profilo assunto dal processo di attaccamento e dal vissuto correlato, influiranno sensibilmente sul modello evolutivo del bambino (e degli stadi successivi). tale struttura assumerà il ruolo di “suggeritore interno” del sentire e pensare soggettivo, che condizionerà la valenza psico-emotiva e cognitiva della nascente personalità, esercitando, nella potenziale anoressica, anche una considerevole influenza sulla condotta alimentare e sul vissuto del corpo [5-8]. nell’ampio e fragile scenario dell’età pediatrica è così possibile individuare nell’interazione con le figure genitoriali e con l’ambiente familiare le condizioni che, con valenza positiva o avversa, saranno memorizzate nella sequenza del sentire e pensare, attività con le quali il bambino entra quotidianamente in contatto, che possono sollecitare (anche) la patologia anoressica e la sua espressività. in questa prospettiva un tratto correlato (particolarmente alla madre) si evidenzia in una scarsa alimentazione, atteggiamento significativamente più frequente nei dca (odds ratio = 2,3; confidence interval ci = 1,1-4,9; p = 0,0016) rispetto agli altri gruppi (dep e con), inequivocabile segno di un precoce conflitto con il cibo e particolarmente con il (negativo) significato ad esso associato (madre = cibo?). di fatto, in tale stadio evolutivo la caratterologia genitoriale tende a condizionare sensibilmente la nascente identità, potendo assumere un profilo affettivo, ma anche iperprotettivo, anaffettivo o autoritario. inoltre, esclusa la coppia affettiva, queste personalità formano combinazioni di coppia che presentano conflitti e divisioni, profili relazionali sfavorevoli e confusivi che provocano un’alterazione dell’atteggiamento naturale della bambina. la frequenza del tipo di caratterologia genitoriale nei soggetti dca e dep, confrontati statisticamente con quella del gruppo di controllo (con), viene presentata nelle tabelle i e ii. personalità materna odds ratio ci 95% anaffettiva dca 2,1 0,9-4,4 dep 4,1 2,4-6,9 autoritaria dca 0,9 0,4-2,0 dep 3,4 2,1-5,4 iperprotettiva dca 8,5 2,5-29,1 dep 4,2 1,3-13,5 tabella i. regressione logistica tra dca e dep e personalità materna (n = 597). chi-quadrato = 61,99; df = 6; p = 0,00000 ci = confidence interval; dca = soggetti anoressici; dep = soggetti affetti da depressione personalità paterna odds ratio ci 95% anaffettiva dca 1,5 0,4-6,2 dep 5,9 2,5-13,8 autoritaria dca 1,0 0,4-2,4 dep 3,1 1,9-5,2 iperprotettiva dca 4,0 1,7-8,9 dep 2,9 1,6-6,3 tabella ii. regressione logistica tra dca e dep e personalità paterna (n = 597). chi-quadrato = 52,21; df = 6; p = 0,00000 ci = confidence interval; dca = soggetti anoressici; dep = soggetti affetti da depressione le tabelle evidenziano come lo stile genitoriale iperprotettivo rappresenti un fattore di rischio per lo sviluppo del disturbo anoressico. tale legame, già sostenuto da bruch [9], che definisce la genitrice dell’anoressica come «una madre aggressivamente iperprotettiva e impervia», è stato confermato da diversi studi che forniscono verifiche alla tesi clinica che la genitorialità iperprotettiva nell’infanzia è associata al successivo sviluppo dell’anoressia nervosa [10,11]. dormire con i genitori odds ratio ci 95% dca 2,4 0,9-6,8 dep 1,2 0,7-2,2 tabella iii. regressione logistica tra dca e dep e desiderio di dormire con i genitori (n = 597). chi-quadrato = 9,87; df = 4; p = 0,032 ci = confidence interval; dca = soggetti anoressici; dep = soggetti affetti da depressione inoltre, alcune combinazioni di coppia tra le personalità genitoriali aumentano la probabilità di separazione, evento traumatico non infrequente nella storia infantile dell’anoressica, che tende a rinforzare nella bambina i vissuti svalutativi della propria persona (non degna di amore e vicinanza affettiva) e di una corporeità non gradevole a cui può venire addebitato l’abbandono («venivo definita grassottella»). tale percezione produce una forte disistima e disprezzo verso questa dimensione, che inizierà a manifestarsi compiutamente nell’adolescenza. di fatto, le combinazioni di coppia che prevedono una figura genitoriale iperprotettiva (13,3% del campione) evidenziano anche una elevata frequenza di separazione. nella casistica analizzata la frequenza di separazione coniugale nelle combinazioni tra una madre iperprotettiva e un padre anaffettivo (odds ratio = 4,8; ci = 2,0-11,6) e quella formata da una madre iperprotettiva e un padre autoritario (odds ratio = 3,9; ci = 1,3-11,4) mostrano una frequenza elevata dell’evento di separazione nei dca rispetto a quanto accade negli altri soggetti (dep e con). questi presupposti psico-emotivi sembrano spingere la bambina al convincimento di non essere in grado di attrarre l’affetto e le attenzioni dei genitori, condizione che genera una progressiva chiusura in se stessa, ostacolando o bloccando la capacità di riconoscere le proprie emozioni, di comunicarle e distinguerle dalle sensazioni fisiche (tratti peraltro tipici dell’alessitimia). questa modalità di sentire e pensare determina una rappresentazione interna (r.i.) di sé non amabile e non degna di amore, e dell’altro come indisponibile e/o temibile, impronta psico-emotiva che tenderà a influenzare in modo significativo gli atteggiamenti della bambina e le sue interpretazioni delle vicende infantili. non pare quindi casuale che il bisogno infantile di vicinanza con le figure genitoriale, prossimità fonte di rassicurazione della propria importanza, si realizzi anche attraverso il bisogno di dormire con i genitori (tabella iii). anoressia e vissuto del cibo-alimentazione, del corpo e della sessualità corpo, alimentazione e sessualità sono tre dimensioni complesse e intimamente legate che accompagnano il viaggio esistenziale dell’individuo dalla nascita alla maturità, triade che interessa anche il profilo anoressico coinvolgendo sensibilmente il suo sentire-pensare-comunicare-agire tali aspetti. questa sequenza psico-cognitiva, comunicativa e comportamentale assume nell’anoressica un profilo particolare. il sentire e pensare evidenziano un andamento circolare ansiogeno fortemente influenzato dalla corporeità (percepita come “grassa”) intorno alla quale ruota (quasi) tutta la quotidianità, condizione cui si conformano rigidamente la comunicazione (afona) e il comportamento (costrittivo). inoltre, il disturbo alimentare appare caratterizzato da un’altra tendenza ossessiva verso il cibo, dinamica che produce il repentino e impulsivo passaggio dal sentire (negativo e intimorente) all’agire che genera il rifiuto degli alimenti, il vomito autoindotto, i lassativi, comportamenti tesi a combattere ed espellere il “nemico” che sostiene la normalità corporea. cibo e alimentazione il cibo è l’originario strumento che avvia un rapporto con la realtà esterna. tale condizione lascerà una profonda traccia divenendo il primo e arcaico elemento su cui inizia l’interazione con la figura materna (allattamento), processo che lascerà tracce sulla costruzione della propria identità. a tale riguardo, freud [12] afferma che l’atto alimentare non può essere considerato esclusivamente fisiologico poiché – almeno nell’infanzia – implica componenti di natura psichica ed emozionale in quanto la caratterizzazione nutritiva avviene all’interno della modalità dell’accudimento materno, facendo assumere a questo fattore un ruolo che concorre al processo evolutivo. al contrario, nel disturbo anoressico cibo e alimentazione sono sottoposti a una alterazione semantica: essi vengono vissuti come principali “nemici da ridurre al silenzio”, in quanto ritenuti colpevoli della realizzazione di un corpo rifiutato che nullifica e allontana l’affettività e l’accoglienza della propria persona. in questo contesto è pertanto possibile affermare che l’anoressica respinge il cibo in quanto ha fame di “affetto”. in altre parole, ha bisogno della sicurezza di essere amata, voluta e accolta per quello che è. tale scenario pare addebitabile a una madre iperprotettiva (cfr. tabella i). in effetti, l’iperprotettività può apparire una manifestazione di affettuosità e premura, ma un’analisi più accurata la descrive come il prodotto di una personalità che non intrattiene nessuna parentela con il concetto di empatia e di affettività, tratti materni – questi – orientati a interpretare e comprendere i messaggi del bambino (sintonizzazione affettiva) allo scopo di agevolare un genuino sviluppo delle sue naturali aspettative permettendo un positivo accudimento e consentendo al bambino di sentire di essere sentito dalla genitrice. inoltre, la personalità iperprotettiva ostacola il naturale sviluppo di importanti processi evolutivi, quali l’attaccamento e la separazione-individuazione, determinando nel figlio un’identità incerta e un’ambivalente percezione di sé. di fatto, le madri iperprotettive sono inconsapevolmente impositive, controllanti, ansiose, non permettono al bambino l’esplorazione soggettiva della realtà circostante, tendono a gestire la sua vita emotiva, la sua alimentazione e le dimensioni del suo corpo, vedono il pericolo da tutte le parti, hanno una scarsa capacità di tollerare l’attesa della richiesta da parte del bambino, ritenendo di sapere quali sono i suoi bisogni. le madri iperprotettive giustificano questi atteggiamenti sostenendo «lo faccio per il suo bene», ma in realtà spostano (proiettano) sul figlio sentimenti, desideri e aspetti personali che rifiutano di riconoscere in se stesse (la propria “bambina interiore”). tale modalità illusoria e problematica serve a sedare l’ansia, i sentimenti di fragilità, l’inadeguatezza, l’insicurezza, i sensi di colpa e la bassa autostima nel tentativo di risanare le avverse vicende della propria infanzia. si tratta, in breve, di un mondo emozionale sempre attivato e in allarme. questo, pur inconsapevole, comportamento materno diviene una modalità attraverso cui tale figura genitoriale richiede “nutrimento affettivo” dalla bambina, atteggiamento sistematico che produce nella piccola “fame affettiva” e rabbia verso la genitrice, creando un profilo di sé costruito su dipendenza emotiva, inadeguatezza, insicurezza, confusione, sfiducia nelle proprie capacità, scarsa intraprendenza, timore del non conosciuto, scarsa capacità di regolazione emotiva e sviluppo di problematiche legate all’ansia e alla bassa autostima. le (ossessive) sollecitazioni materne verso l’alimentazione («mangia tutto amore. fallo per la mamma»; «la mamma sa cosa devi mangiare per crescere»; «questa pappa l’ho fatta solo per te»), oltre a non sostenere la capacità di autoregolazione alimentare del bambino favorendo le sue tendenze senza imposizioni, ostacolano anche la fase appetitiva (preferenza del cibo per la sua appagante gustosità che produce una relazione e un’appartenenza verso l’alimento), determinando rabbia e rifiuto verso la madre. la reiterazione di tale situazione relazionale tende a sollecitare nella bambina una similarità psichica tra madre e cibo, spazio dove il rifiuto verso la madre-cibo diviene rifiuto verso il cibo-madre. corpo il rapporto intrapersonale tra l’anoressica e la percezione del proprio corpo (dimensione intimamente legata al cibo-madre) sembra mettere in luce un mondo interno che prevede la presenza di due immagini corporee in contrapposizione. il vissuto della propria corporeità reale (solitamente normale) rivela una forte conflittualità e rifiuto poiché ritenuta responsabile di una serie di eventi e vissuti dolorosi dell’infanzia (dispercezione degli stessi), interpretati come distacco e indifferenza affettiva della figura materna nei confronti di questo aspetto (per esempio «sei grassottella per fare danza»). inoltre, durante l’adolescenza, frasi o valutazioni negative dei coetanei nei confronti della propria persona possono divenire un rinforzo alla percezione infantile ed essere addebitati, direttamente o indirettamente, alla propria corporeità. a tali esperienze il soggetto anoressico pare aver contrapposto una (falsa) immagine corporea idealizzata, costruita su fattezze filiformi: questa rappresentazione è ritenuta rassicurante e fonte di accettazione affettiva. tale manipolazione psichica, una volta attivata, tende a perpetuarsi. siffatta dinamica psico-emotiva mette in evidenza la stretta relazione tra alterazione della percezione dell’immagine corporea (che può assumere il profilo di una vera e propria dispercezione psicogena) e gli atteggiamenti anoressici assunti verso il proprio corpo. un esempio tratto dalla pratica clinica chiarisce ulteriormente quanto affermato. alla richiesta di indicare con le mani la circonferenza della propria pancia, una giovane anoressica le colloca in una posizione che lascia uno spazio di circa dieci centimetri dal reale confine addominale, un vuoto evidente che per l’anoressica è un pieno concreto: nel sentire anoressico il vuoto reale è pieno di grasso (irreale). in questo scenario di natura ossessivo-compulsiva, l’unico atteggiamento difensivo verso l’angosciante sentire e pensare anoressico (rifiuto della propria corporeità) diviene l’impulso alla magrezza. questo scopo viene ottenuto attraverso la paura del cibo (sitofobia) e la restrizione alimentare, comportamenti che permettono all’anoressica di poter raggiungere il desiderato e rassicurante corpo conforme a quello dell’immagine idealizzata (filiforme). tale dinamica pare addebitabile a rappresentazioni psichiche nelle quali il corpo filiforme garantisce affetto e accettazione e quello “grasso” genera rifiuto e separazione. questo vissuto della corporeità appare come una distorsione percettiva che conduce l’anoressica ad avere una visione alterata, per dimensioni e sensazioni somatiche, di questo importante aspetto della personalità. le considerazioni proposte trovano una conferma statistica in alcune scale dell’eating disorder inventory – edi), che mostrano la maggiore frequenza con cui tali tratti si presentano nei soggetti anoressici rispetto a quelli depressi (tabella iv). scala edi odds ratio ci 95% χ2 p impulso alla magrezza dca 4,2 2,2-8,0 22,26 0,00001 dep 1,4 0,8-2,3 insoddisfazione corpo dca 4,3 2,1-8,7 18,66 0,00009 dep 1,4 0,8-2,4 percezione negativa corpo dca 6,0 2,7-13,1 28,17 0,00001 dep 1,6 0,9-2,8 test edi positivo dca 7,8 3,9-15,3 54,22 0,00000 dep 5,9 3,3-10,4 tabella iv. regressione logistica tra dca e dep e frequenza scale edi (n = 597) ci = confidence interval; dca = soggetti anoressici; dep = soggetti affetti da depressione; edi = eating disorder inventory sessualità e identità sessuale nell’anoressica la sessualità è una dimensione importante nella qualità della vita, un fenomeno molto delicato e multiforme, costituito da elementi neurofisiologici miscelati con dimensioni psicodinamiche, sociali e valoriali. poiché, per esprimersi compiutamente, la sessualità ha bisogno di un partner, a differenza di altre funzioni autonome (neurofisiologiche), tale manifestazione assume un profilo di relazione, condizione che può (anche) rievocare l’arcaica relazione madre-bambino. la sessualità non soggiace così alla sola funzione generativa (procreazione), ma anche alla ricerca del piacere, sollecitando tale istanza alla relazione matura, condizione che prevede il definitivo abbandono dell’originaria onnipotenza tipica dell’infanzia al fine di permettere l’incontro con l’altro (evoluzione semantica di questa architettura esistenziale). l’attività sessuale, che include necessariamente l’incontro tra due corporeità e particolarmente del vissuto soggettivo delle stesse, assume il profilo di un’importante componente della vita, che trova le sue fondamenta originarie nei quattro basilari bisogni psicodinamici dell’individuo: attaccamento, autonomia, identità sessuale e autostima. in tale contesto si inserisce l’identità, intesa come la capacità di comportarsi in maniera assennata e ragionevolmente libera da condizionamenti e come l’acquisizione della coscienza delle proprie responsabilità individuali e sociali. il soggetto sente questa dimensione come unica, separata e distinta da quella degli altri e permanente nel tempo [13]. oltre a tale struttura, tra l’infanzia e l’adolescenza si completa anche l’identità sessuale, dimensione che prevede l’interazione dinamica tra le sue diverse componenti: il sesso biologico, l’identità di genere, il ruolo di genere e l’orientamento sessuale. l’identità sessuale si evidenzia quindi un costrutto multidimensionale che nasce dalla reciproca influenza tra aspetti biologici, psicologici, educativi e socioculturali, e rappresenta la profonda consapevolezza che ogni persona ha di sé come essere umano sessuato, condizione dove il vissuto del corpo è fortemente coinvolto. nel disturbo anoressico, l’identità e l’identità sessuale appaiono due costrutti fluidi che non hanno trovato un ragionevole completamento e integrazione e una loro stabilità nel tempo. l’identità si evidenzia instabile per la conflittualità intrapsichica e relazionale generata dalla svalutazione di sé conseguente al profondo rifiuto della propria corporeità, condizione che non permette una stabile percezione della personale e complessiva autenticità e, nei casi gravi, determina una ostinata alterazione dell’immagine corporea (vissuto psicogeno). l’identità sessuale non presenta un profilo diverso, mostrando un cromatismo psico-emotivo grigio (particolarmente nel vissuto dell’identità di genere). la sessualità sentita, pensata e agita dell’anoressica rivela uno schema difensivo, afono e passivo, mancante di vivacità e desiderio di sperimentare e vivere questa dimensione nella sua globalità, realtà rintracciata in molti atteggiamenti che mettono in luce la relazione tra attaccamento, disfunzioni sessuali, alterazioni dell’immagine corporea e riduzione del desiderio sessuale [14]. peraltro, per realizzarsi la sessualità ha bisogno del corpo, assioma che prevede la presenza fisica (ma anche psico-emotiva) di questa dimensione. non pare quindi casuale che il disturbo alimentare evidenzi un legame con la sessualità problematica, ulteriore verifica della profonda affinità tra le stesse. di fatto, la relazione tra l’edi [15] e il sexual dysfunction questionnaire (sdq) [16] mette in luce una significativa relazione statistica tra le scale, verificata sia attraverso la regressione lineare (r = 0,3636; p = 0,00000), sia attraverso la regressione logistica (odds ratio = 2,4; ci: 1,5-3,7; χ2 = 13,57; p = 0,0051). per tale premessa, le esperienze sessuali dell’anoressica presentano un profilo molto singolare: pur essendo una situazione che riguarda due persone, l’io anoressico (autocentrato sui propri bisogni psicopatologici) “partecipa” a questo momento rimanendo passivo e distaccato a livello psico-emotivo. in tale situazione il corpo non può divenire protagonista essendo un “corpo estraneo” da respingere, un corpo rifiutato e fonte di tormento che non può essere una dimensione che procura piacere. i colloqui con le pazienti anoressiche, peraltro, suggeriscono l’ipotesi che il “piacere” sia ottenuto prevalentemente attraverso il controllo del corpo (magrezza) e della alimentazione (restrizione) e non dalla sessualità, dimensione marginale rispetto ai propri bisogni psico-emotivi. inoltre, l’esperienza professionale suggerisce che tale irrazionale atteggiamento, l’incapacità anoressica di con-fondersi sessualmente con l’altro vivendo il “noi”, sia causato dal rifiuto del corpo e da sentimenti di paura a formare strette relazioni interpersonali, memore che tale coinvolgimento, originariamente, ha prodotto rifiuto e abbandono. non pare quindi accidentale che la sessualità anoressica, oltre a presentare una scarsità di fantasie sessuali, l’evitamento delle situazioni che possono stimolare la sessualità, l’assenza di parole durante l’intimità, un ruolo passivo, mostri anche una sostanziale assenza del piacere. infatti, la comparazione statistica dell’assenza di piacere sessuale (anorgasmia) tra tale quadro e quello dep (confrontati con i soggetti di controllo), risulta decisamente più frequente nei dca (tabella v). anorgasmia odds ratio ci 95% χ2 p dca 8,1 1,7-32,1 10,56 0,0050 dep 1,4 3,9-17,9 tabella v. regressione logistica tra dca e dep e orgasmo (n = 597) ci = confidence interval; dca = soggetti anoressici; dep = soggetti affetti da depressione le considerazioni riguardanti l’interazione dinamica tra i fattori cibo, corpo e sessualità, peraltro, hanno trovato un evidente riscontro in diversi studi che confermano le argomentazioni cliniche e psicodinamiche presentate [17-20]. in questo scenario, la personalità anoressica mette in luce altri atteggiamenti che favoriscono e concorrono a sostenere il disturbo alimentare e una sessualità immatura (infantilizzata), coinvolgendo la sfera psico-emotiva, quella cognitiva e comunicativa. tale dinamica si evidenzia nella scarsa capacità di riconoscere le proprie emozioni e comunicarle verbalmente, nella difficoltà a distinguere le emozioni dalle sensazioni fisiche e descrivere i propri sentimenti (le emozioni si confondono con le sensazioni corporee percepite), nell’impoverimento della capacità di pensiero simbolico (rappresentazione mentale della realtà secondo l’esperienza vissuta), nella rilevante difficoltà nell’identificazione delle emozioni altrui, aspetti che caratterizzano la struttura alessitimica [21]. l’anoressica pare quindi portatrice di una afasia dei sentimenti per cui il linguaggio non può essere usato per esprimere sentimenti che, inibiti nella loro manifestazione, risultano assenti. questo tratto significativo è rintracciato anche nella letteratura scientifica [22,23]. in aggiunta, l’interazione degli indicatori argomentati produce altri atteggiamenti e comportamenti anoressici che impediscono o ostacolano sensibilmente lo sviluppo di competenze relazionali autentiche con sé e con gli altri, poiché i bisogni risultano assorbiti totalmente dall’ossessivo e conflittuale rapporto con cibo e corpo (presenza di una sovrastruttura operante quale “critica” e “controllo”), rigida selezione che determina lo spostamento dell’attenzione sulla realtà corporea e interna, producendo una sospensione dell’esame di realtà, una percezione statica o molto rallentata del fluire del tempo. tale situazione genera l’isolamento dell’io nel proprio mondo interiore con sporadici sconfinamenti nella realtà esterna, uno scarso interesse per le relazioni interpersonali e per la nascita di un rapporto fondato sul noi (amicizia, affetto, sessualità), terreno dove l’io anoressico è un “io in disparte” e la comunicazione un afono monologo individualistico, mentre noi è dialogo e reciprocità [24]. conclusioni il lavoro ha evidenziato che l’anoressia si propone come un quadro sindromico (complesso di sintomi che si presentano insieme), impegnativo e composito profilo clinico che necessita di un intervento integrato cui partecipano discipline diverse (psicologico-psichiatriche, internistiche, nutrizionali, ginecologiche e pediatriche), unitamente alla ricerca di un coinvolgimento attivo-collaborativo della paziente. in tale contesto, il disturbo alimentare appare come un puzzle personologico formato da diversi tasselli che nell’infanzia (periodo evolutivo sensibile e sprovvisto di difese) hanno subìto una patologica alterazione nel sentire-pensare il proprio corpo e il cibo producendo un ossessivo e ostile vissuto verso tali dimensioni (che esordirà nell’adolescenza), condizione sulla quale deve indirizzarsi l’intervento terapeutico. la personalità con disturbo anoressico mostra come la maggior parte della sua attenzione risulti autocentrata sui propri conflitti interni (negativi vissuti del corpo e del cibo), dinamica circolare che non consente di avere una relazione con la realtà esterna e di acquisire competenze relazionali a livello personale e interpersonale (compresa la sessualità). tale presupposto ostacola il passaggio da un’economia psichica singolare (io) a una plurale (noi), mutamento che produrrebbe una graduale modificazione nell’organizzazione del sentire-pensare-comunicare-agire. tali aspetti del quadro clinico (attenzione monotematica sul cibo-corpo) pongono l’anoressica nella condizione di riservare al mondo reale solo ritagli di interesse e coinvolgimento. questo spazio esistenziale ristretto non suscita un pensiero produttivo ma solo riproduttivo. tale importante dinamica evidenzia come l’intervento sul disturbo debba necessariamente orientarsi (anche) sul lavoro di recupero del naturale bisogno di sperimentare relazioni interpersonali (amicali, affettive e sessuali), situazioni in grado ampliare lo spazio esperienziale sollecitando l’evoluzione individuale. i dati ottenuti orientano l’impegnativo lavoro terapeutico principalmente verso la comprensione della genesi dell’ostile significato assegnato al cibo-corpo (rifiuto ad alimentarsi, intensa paura di acquistare peso o diventare “grassottelli” anche in condizione di sottopeso) e alle ragioni per cui l’anoressica attribuisce alla bilancia un ruolo antropomorfo in cui lo strumento diviene la personificazione di un “giudice” che può emettere una temuta sentenza sulla corporeità. questa rappresentazione psichica della presenza di una sovrastruttura operante quale “critica” e “controllo” determina un sentire-pensare alterato e ossessivo sul cibo-corpo (rifiuto degli stessi). su tali problematiche l’indagine ha fornito elementi che consentono di sostenere che il naturale significato del corpo e del cibo hanno subìto nell’infanzia una alterazione percettiva della loro naturale semantica, dimensioni alle quali è stata e viene attribuita la responsabilità dei vissuti di rifiuto/abbandono, negatività personale, insicurezza, distanza affettiva, svalutazione e separazione coniugale sperimentati. in questo terreno la magrezza (a volte esasperata) assume il desiderato e rassicurante profilo opposto: produttrice di affetto, sicurezza, tranquillità, accoglienza e valorizzazione. in questo multiforme panorama, mangiare in modo naturale è decisamente difficoltoso per l’ostile accanimento verso il cibo che determina anche una sensibile alterazione degli stimoli di fame e sazietà (regolati dall’ipotalamo). pertanto si tende a sconsigliare il ricorso all’alimentazione meccanica almeno nei primi periodi, in cui il rifiuto del cibo è indiscusso protagonista. questo intervento verrebbe vissuto come imposizione (ritorno agli atteggiamenti materni del passato), in conflitto con le pur alterate esigenze del momento, e potrebbe rinforzare ulteriormente l’atteggiamento difensivo-oppositivo: se il cibo-alimentazione è la sostanza che mantiene il corpo (fonte di angoscia), l’inserire cibo alimenta l’angoscia e la conseguente paura di ingrassare che rinforza il vissuto di rifiuto. le argomentazioni sostenute nel lavoro mettono in evidenza come l’approccio terapeutico al quadro anoressico si presenti difficoltoso e di non breve durata, implicando dinamiche psico-emotive, cognitive e comportamentali pervase da significati alterati e patogeni del cibo e del corpo appresi nello stadio infantile e rinforzati in adolescenza. per tali motivi, il principale intervento dovrebbe essere psicoterapeutico e dovrebbe consistere in una laboriosa attività indirizzata alla attenuazione-comprensione nell’anoressica delle dinamiche intrapsichiche che hanno prodotto un sentire e pensare che imputa alla propria corporeità e al cibo che la sostiene la responsabilità dei negativi e svalorizzanti vissuti di sé. la natura psicogena del quadro anoressico, basata su interpretazioni provenienti dall’infanzia, stadio evolutivo di massima fragilità e instabilità psico-emotiva e cognitiva, dovrebbe essere approfondita tramite il colloquio. si tratta di un momento di analisi della comunicazione verbale e particolarmente di quella non verbale, di un terreno che “parla” delle originarie vicende vissute. tale attività deve quindi essere orientata alla graduale modificazione dell’ostile sentire-pensare originario che avvolge le dimensioni cibo-corpo e, pur senza aspettative irrealistiche, al tentativo di produrre un iniziale cambiamento di questa (dis)percezione, dal rifiuto al non-rifiuto. si punta pertanto a ottenere una accettazione formale non aggressiva verso tali dimensioni, risultato che, pur se incompleto, produrrebbe una probabile modificazione coinvolgendo anche la comunicazione e il comportamento, unitamente a una iniziale integrazione del corpo e del cibo nell’identità. il lavoro psicologico dovrebbe cercare di instaurare un rapporto empatico con la “bambina interiore” dell’anoressica, importante dimensione depositaria di antiche impronte psico-emotive, rappresentazioni interne del corpo e del cibo avvertite come angoscianti e pericolose. in tale contesto, l’atteggiamento del terapeuta deve divenire ed essere vissuto come una base sicura all’interno della quale la paziente possa sentirsi compresa e gradualmente riconoscere la sua vera identità, iniziando un tragitto esistenziale diverso. fonti di finanziamento questo articolo è stato pubblicato senza il supporto di sponsor. conflitti d’interesse l’autore dichiara di non avere conflitti d’interesse in merito agli argomenti trattati in questo articolo. box finale la ricerca ha proposto un profilo psicodinamico della psicopatologia anoressica è emerso che tale struttura origina nell’infanzia e si manifesta nell’adolescenza, insieme a una serie di tratti personologici negativi. il lavoro clinico sulla personalità e sul comportamento anoressico dovrebbe pertanto orientarsi alla comprensione dei significati attribuiti a sé, al cibo-alimentazione e al corpo. il lavoro psicologico dovrebbe cercare di ottenere un graduale mutamento dei significati a loro attribuiti, per agevolare un graduale cambiamento dell’originario sentire e pensare questi aspetti. bibliografia 1. agenzia giornalistica italia. tre milioni di italiani soffrono di anoressia o bulimia. il 95% sono donne. disponibile all’indirizzo: https://www.agi.it/salute/anoressia_bulimia_disturbi_alimentari-3795701/news/2018-04-22/#:~:text=i%20dati%20del%20ministero%20della%20sanit%c3%a0&text=in%20italia%20si%20stima%20che,giornata%20sulla%20salute%20delle%20donne (ultimo accesso giugno 2023) 2. rymarczyk k. the role of personality traits, sociocultural factors, and body dissatisfaction in anorexia readiness syndrome in women. j eat disord 2021; 17: 51; https://doi.org/10.1186/s40337-021-00410-y 3. achamrah n, coëffier m, déchelotte p. physical activity in patients with anorexia nervosa. nutr rev 2016; 74: 301-11; https://doi.org/10.1093/nutrit/nuw001 4. dsm-v manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. milano: raffaello cortina, 2014 5. bowlby j. attaccamento e perdita. vol. 1: l’attaccamento alla madre. torino: boringhieri, 1972 6. doba k, nandrino jl. cognitive and emotional empathy in anorexia nervosa: the role of attachment insecurity, intrapersonal, and interpersonal emotional competences. j nerv ment dis 2020; 208: 312-8; https://doi.org/10.1097/nmd.0000000000001130 7. keating l, tasca ga, hill r. structural relationships among attachment insecurity, alexithymia, and body esteem in women with eating disorders. eat behav 2013; 14: 366-73; 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abstract pleural effusion is a clinical manifestation shared by several underlying pathologies. the differential diagnosis is based on the clinical history, the physical examination, the analysis of the pleural fluid, and the laboratory data (mainly blood tests). there are cases, such as the patient described, where tc is not enough, and unusual imaging techniques are required for the study of pleural effusion, i.e. magnetic resonance cholangiography, cholangiopancreatography (mrcp) and endoscopic retrograde cholangiopancreatography (ercp). this case analyses a 42-year-old female patient who arrived with progressive dyspnoea, chest pain, cough, a history of alcohol abuse, and a recent episode of acute pancreatitis. the physical examination revealed signs of right-sided pleural effusion. these features, together with laboratory data, made it possible to pose the diagnosis of pancreaticopleural fistula, to treat it, and to obtain a complete healing in a two-month period. keywords: pleural effusion; pancreaticopleural fistula; alcohol abuse; acute pancreatitis versamento pleurico massivo in una giovane donna cmi 2012; 6(4): 141-147 case report corresponding authors paolo ghiringhelli ghiringhellipaolo@virgilio.it disclosure the authors declare they have no financial competing interests why we describe this case we describe this case to show that the differential diagnosis of pleural effusions should always be kept in mind and not to overlook rare causes, to show the way to deal with a diagnostic and therapeutic plan of pleural effusions, and to stimulate to treat the patient, with equal effectiveness, with less invasive methods introduction the presence of a pleural effusion enables a physician to easily obtain a specimen of a body cavity fluid. with a systematic analysis of the pleural fluid, in conjunction with the clinical features and ancillary laboratory data, a clinician should be able to make either a presumptive or definitive diagnosis in approximately 90% of cases [1,2]. the differential diagnosis of exudate poses difficult challenge for clinicians. clinical case a 42-year-old female patient presented with a progressive dyspnoea, chest pain, coughing. she had no fever. she was suffering from depressive syndrome with alcohol abuse for a long time. she was hospitalized about 3 months before for an episode of acute pancreatitis which resolved rapidly. the physical examination revealed that the patient was thin, tachypnoic (20 breaths per minute), tachycardic, and there were features of a right-sided pleural effusion; the abdominal examination was unremarkable. there was no oedema. chest x-ray (figure 1) showed a massive right pleural effusion. figure 1. chest x-ray of the patient showing a massive right pleural effusion. frontal (a) and lateral (b) views parameter value obtained reference range erythrocyte sedimentation rate (esr) 29 mm/h (in the first hour) 0-21 mm/h c-reactive protein 1.46 mg% < 5 mg% serum amylase 868 u < 195 u lipase 339 u < 60 u serum ldh 410 ui/l 350-450 ui/l serum protein 6.58 g/dl 6-8 g/dl table i. the blood tests of the patient ldh = lactic acid dehydrogenase parameter value obtained white blood cells 520/µl* ldh 711 ui/l^ protein 3.28 g/dl§ table ii. the results of laboratory tests performed on the pleural effusion ldh = lactic acid dehydrogenase *counts above 50,000/µl are usually found only in complicated parapneumonic effusions, including empyema [3,4]. exudative effusions from bacterial pneumonia, acute pancreatitis, and lupus pleuritis usually have total nucleated cell counts above 10,000/µl [3,4]. chronic exudates, typified by tuberculous pleurisy and malignancy, typically have nucleated cell counts below 5,000/µl [3,4] ^ldh ratio with plasma was 1.73, ratio greater than 0.6: the fluid is defined as an exudate §pleural fluid protein/serum protein ratio greater than 0.5: the fluid is defined as an exudate figure 2. ct abdominal scan showing the persistence of a residual right pleural effusion and two pseudocysts in the head of pancreas a thoracentesis was performed and the fluid sent for chemical, physic, bacterioscopic, cultural, and cytological analyses. the blood tests revealed the values reported in table i. transaminases and bilirubin were normal. 1,800 ml of cloudy, dark and brown coloured fluid were removed with the thoracentesis. the results of the laboratory tests on the pleural effusion are shown in table ii. a ct chest and abdominal scan (figure 2) showed the persistence of a residual right pleural effusion and two pseudocysts in the pancreatic head of 10 and 20 mm respectively. after a week the pleural effusion reformed and became greenish. the colour of the liquid, that looked like the biliary fluid, the absence of fever, the anorexia, and the previous detection of pancreatic cysts induced research of amylase in the pleural fluid. the fluid amylase in the pleural fluid was 44,000 u/l. afterwards, the patient was treated with octreotide, oral pancreatic enzyme supplement, opiates, enteral feeding and imipemen. the patient preferred to continue the thoracentesis instead of pleural talc pleurodesis. a chest x-ray after two months detected only a fibrotic area on the front surface of the right pleura (figure 3). the general conditions of the patient improved progressively. she returned to work after two months. figure 3. chest x-ray after two months from the beginning of treatment. in the frontal (a) and lateral views (b) the pleural effusion appears resolved; only a fibrotic area on the front surface of the right pleura is visible discussion as in our case report, pleural effusion generally indicates an underlying disease process, that may even be of non-pulmonary origin [1]. the differential diagnosis of pleural effusion is difficult, due to the huge variety of originating causes (table iii). for this reason, a thoracentesis is indicated. transudative pleural effusions congestive heart failure (chf) cirrhosis nephrotic syndrome superior vena caval obstruction fontan procedure urinothorax peritoneal dialysis glomerulonephritis myxoedema cerebrospinal fluid leak to pleura hypoalbuminaemia exudative pleural effusions neoplastic diseases metastatic disease mesothelioma body cavity lymphoma pyothorax-associated lymphoma infectious diseases bacterial infections tuberculosis fungal infections parasitic infections viral infections pulmonary embolization gastrointestinal disease pancreatic disease subphrenic abscess intrahepatic abscess intrasplenic abscess esophageal perforation postabdominal surgery diaphragmatic hernia endoscopic variceal sclerosis postliver transplant heart diseases postcoronary artery bypass graft (post-cabg) surgery postcardiac injury (dressler) syndrome pericardial disease pulmonary vein stenosis postcatheter ablation of atrial fibrillation obstetric and gynaecologic disease ovarian hyperstimulation syndrome fetal pleural effusion postpartum pleural effusion meigs syndrome endometriosis collagen vascular diseases rheumatoid pleuritis systemic lupus erythematosus drug-induced lupus immunoblastic lymphadenopathy sjögren syndrome familial mediterranean fever churg-strauss syndrome wegener granulomatosis drug-induced pleural disease nitrofurantoin dantrolene methysergide ergot drugs amiodarone interleukin 2 procarbazine methotrexate clozapine miscellaneous diseases and conditions asbestos exposure postlung transplant postbone marrow transplant yellow nail syndrome sarcoidosis uraemia trapped lung therapeutic radiation exposure drowning amyloidosis milk of calcium pleural effusion electrical burns table iii. causes of pleural effusion. modified from [5] thoracentesis in two circumstances diagnostic thoracentesis is usually not required: when there is a small amount of pleural fluid (< 500 cc with an ecographic evaluation) and a clear clinical diagnosis (e.g., viral pleurisy), or when there is clinically obvious heart failure (hf) without atypical features [1]. atypical features that should prompt consideration of diagnostic thoracentesis in a patient with hf are shown in the box. thoracentesis procedure needs to be performed with carefulness, especially in some high-risk patients, such as elderly and clinically compromised people. some complications may occur in every patient, in particular [7]: pain at the puncture site; bleeding; pneumothorax (the most common clinically important complication) [8]; empyema; soft tissue infection; spleen or liver puncture; vasovagal events; seeding the needle tract with tumour; adverse reactions to the anaesthetic or topical antiseptic solutions; retained intrapleural catheter fragments [9]. a proper thoracentesis requires first of all to obtain the informed consent by the patient, which, in turn, requires a thorough explanation of the entire procedure. there are two possible positions, according to the patient’s ability to sit upright: if he/she is able, the sitting position with his/her arms resting on a table is preferred; otherwise, the lateral recumbent position should be used. the use of opiates, anxiolytics, or sedatives is rarely necessary, and atropine isn’t routinely administered [10]. the standard selection of the puncture site is performed under ultrasound guidance, because the increased accuracy of this method has resulted in the decrease of pneumothorax rate from 8.6% to 1.1% if compared to the previously used physical examination alone [11,12]. in case of complex pleural and lung parenchymal disease, the additional support of chest-computed tomography may be necessary. however, physical examination is still performed for patients with a nonloculated free-flowing effusion and when ultrasound technique is not available: particular care should be taken in avoiding lacerations of tortuous intercostal arteries, especially in elderly patients [13], and a follow-up after thoracentesis is required. the sterilization of the skin area surrounding the puncture site is generally performed by means of 0.05% chlorhexidine or 10% povidone-iodine solution: immunocompromised patients or those with severe pre-existing pleural injury are at higher risk if the sterilization is performed in the wrong way. anaesthetisation is performed by placing lidocaine 1% or 2% in the epidermidis with a syringe with a 22-gauge needle. intermittent injection of lidocaine is needed to anesthetise also the deeper tissues, rib periosteum and parietal pleura [14]. finally, a 50 ml syringe with a 16 or 14-gauge needle is used to withdraw the pleural fluid; the addition of 1 ml of 1:1000 heparine is suggested in order to prevent clotting of haemorrhagic or highly proteinaceous fluid (it improves also the quality of the cytologic examination of the pleural fluid). about 30-75 ml of pleural fluid are withdrawn for analytic purposes. in the majority of patients, asymptomatic and non-ventilated, a chest radiograph after thoracentesis is not required [15]. as in our case, large volume thoracentesis is required. large volume thoracentesis refers to the removal of more than one litre of pleural fluid during a therapeutic thoracentesis. large volume thoracentesis is performed to relieve dyspnoea associated with a pleural effusion. assessment of the initial pleural fluid pressure and the changes in pressure as fluid is removed (known as the pleural space elastance) can be used to guide fluid removal. pleural effusion the large majority of pleural effusion cases are due to congestive heart failure, pneumonia, malignancy, or pulmonary embolism. after the formation of the effusion, the flattening or inversion of the diaphragm occur, as well as the mechanical dissociation of the visceral and parietal pleura and a restrictive ventilator defect [2]. pleural effusions are classified into: transudate pleural effusions; and exudate pleural effusions. by definition, a transudative effusion occurs when the systemic factors, hydrostatic or oncotic pressures, influencing the formation and reabsorption of pleural fluid are altered such that pleural fluid accumulates. an effective method to identify the pathogenesis of pleural transudate is the measurement of pro-bnp in pleural fluid. several studies have demonstrated that n-terminal pro-brain natriuretic peptide (nt-probnp) is elevated in the pleural fluid of patients who have heart failure and pleural effusion [16]. in contrast, an exudative pleural effusion occurs when pleural fluid accumulates due to alterations in local factors. the first step in the clinical workup of a patient with a pleural effusion is to determine if the patient has a transudative or an exudative pleural effusion. if the patient has a transudative effusion, no additional diagnostic studies need to be directed towards the pleura. alternatively, if the patient has an exudative pleural effusion, as in this case, additional efforts should be made to determine what disease process is affecting the pleura. the separation of transudative from exudative pleural effusions is best made by simultaneous measurements of the protein and lactic acid dehydrogenase (ldh) levels in the pleural fluid and in the serum. if one or more of the following criteria are met, the patient probably has an exudative pleural effusion [1]: pleural fluid protein/serum protein > 0.5; pleural fluid ldh/serum ldh > 0.6; absolute pleural fluid ldh > 2/3rds the upper limit of normal for serum. if none of these criteria are met, then the patient has a transudative pleural effusion [1,2]. the clinical case described met all 3 criteria indicated above. no single pleural fluid tumour marker is accurate enough for routine use in the diagnostic evaluation of pleural effusion [17]. situations possibly requiring diagnostic thoracentesis [6] unilateral effusion (especially in the left side) bilateral effusions of disparate sizes pleurisy fever normal cardiac silhouette on chest radiograph echocardiogram inconsistent with heart failure b-type brain natriuretic peptide (bnp) levels inconsistent with heart failure alveolar-arterial oxygen gradient larger than expected effusion not resolved after heart failure therapy pancreaticopleural fistula pancreaticopleural fistula (ppf) is a rare cause of pleural effusion (< 1%) [18]. the main cause is represented by acute or chronic pancreatitis, due essentially to rupture of the pseudocyst or to leakage of pancreatic duct with collection of pancreatic juice in retroperitoneum. the fistulous tract can pass either through the aortic or oesophageal diaphragmatic hiatus [19] or directly through erosion of diaphragmatic dome by the pseudocyst [19]. ppf is generally diagnosed in middle-aged men with history of alcoholism and chronic pancreatitis [20]. the effusion is generally on the left side of the thorax (76%) [21]. main symptoms are dyspnoea, cough, chest pain, fever, and septicaemia. the effusion is typically recurrent, in first instance, not responsive to thoracentesis. the main complications are low grade infection, weight loss, and failure to thrive. diagnosis is often delayed (range from 12 to 49 days) [21]. it’s postulated on the basis of biochemical analysis of pleural fluid (elevated values of amylase and albumin > 3 g/dl). the diagnosis of ppf pleural fluid amylase levels should be greater than serum levels and typically exceed 1,000 iu/l [22,23] (see box). differential diagnoses for amylases-rich pleural effusion [9] acute pancreatitis cancer lung rectum breast female reproductive system metastatic carcinoma pneumonia oesophageal perforation lymphoma leukaemia liver cirrhosis hydronephrosis pulmonary tuberculosis instrumental techniques provide important data. ct scan of thorax represents the gold standard for detection of pleural effusion, but, in order to identify anatomical alterations of pancreas and for detection of fistulous tract, the better tools are magnetic resonance cholangiopancreatography (mrcp), endoscopic retrograde cholangiopancreatography (ercp) and ct scan, with success rates of 80%, 78% and 47% respectively [20]. ppf is a difficult-to-treat condition, due to the complexity of anatomical alterations. there are three options for the treatment of ppf: conservative and medical treatment, based on repeated thoracentesis and administration of octreotide; endoscopic treatment by ercp with sphincterotomy and/or stent placement; surgical treatment in patients unresponsive to previous treatments. conservative treatment represents the first choice in ppf when there is no evidence of stenosis of pancreatic duct; ercp is useful in case of stenosis of pancreatic duct [24]; surgical approach is mandatory in case of failure of endoscopic treatment and its main aim is to avoid septic complications, in particular intra-abdominal abscess or pleural empyema. that’s why before starting treatment of ppf an imaging exam must be performed in order to study pancreatic anatomy [5]. although mrcp can be considered the gold standard for not invasive diagnosis of ppf, in the case described it was not performed for unavailability of the tool in our hospital [11]. that’s why ct was performed: it didn’t show injuries of pancreatic duct, but two pseudocysts alone. the peculiarity of this case relies on the female gender of the patient and on the localization of the effusion (on the right side of the thorax). ppf is difficult to diagnose; it has to be ever suspected in presence of recurrent pleural effusion in patients with history of pancreatitis. references longo d, fauci a, kasper d, et al. harrison’s principles of internal medicine, 18th edition. columbus, oh: mcgraw-hill prof med/tech, 2012; chapter 263 cagle pt, allen tc, beasley mb. diagnostic pulmonary pathology, 2nd edition. london: informa healthcare, 2008 sahn sa. state of the art. the pleura. am rev respir dis 1988; 138: 184-234 sahn sa. the diagnostic value of pleural fluid analysis. semin respir crit care med 1995; 16: 269-78 light rw. pleural effusions. med clin north am 2011; 95: 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management of pancreaticopleural fistula. jop 2005; 6: 152-61 rockey dc, cello jp. pancreaticopleural fistula. report of 7 patients and review of the literature. medicine (baltimore) 1990; 69: 332-44 machado no. pancreaticopleural fistula: revisited. diagn ther endosc 2012; 2012: 815476 dhebri ar, ferran n. nonsurgical management of pancreaticopleural fistula. jop 2005; 6: 152-61 cmi 2012;6(3)105-115.html the use of vasoconstrictors in patients with liver cirrhosis: how, when, why claudio puoti 1 1 department of internal medicine and liver unit, marino general hospital, rome abstract portal hypertension (ph) is a severe complication of liver cirrhosis. patients with ph run the risk of developing gastro-esophageal varices and massive gastrointestinal bleeding, ascites, hepatorenal syndrome, and hepatic encephalopathy. portal blood flow in its turn increases because of enhanced production of vasodilators, increased enos activity and no release, systemic and splanchnic vasodilation, hyperkinetic circulation, and hyposensitivity to vasoconstrictors. thus, it is now widely recognized that this hyperkinetic (hyperdynamic) circulation that characterizes liver cirrhosis is the main cause of the complications of the disease. this review is aimed at addressing the role of vasoconstrictor treatment in patients suffering from complications of decompensated cirrhosis, offering practical suggestions for the management of this treatment at bedside. in particular, the management of terlipressin in patients with cirrhosis, its side effects and the efficacy of this vasoconstrictor will be examined. keywords: cirrhosis; portal hypertension; terlipressin; vasoconstrictors l’impiego di vasocostrittori in pazienti con cirrosi epatica: come, quando, perché cmi 2012; 6(3): 105-115 clinical management corresponding author claudio puoti, md marino general hospital viale xxiv maggio 00047 marino, rome fax : +39-06-9327-3047 puoti@epatologia.org disclosure the author declares no conflict of interest. introduction portal hypertension (ph) is a severe complication of liver cirrhosis [1]. patients with ph run the risk of developing gastro-esophageal varices and massive gastrointestinal bleeding, ascites, hepatorenal syndrome, and hepatic encephalopathy [2]. the portal pressure gradient is the difference between portal pressure and the pressure at the hepatic veins/inferior vena cava level; it represents the hepatic perfusion pressure [3]. in patients with cirrhosis, portal pressure increases because of increased intrahepatic vascular resistance and increased portal blood flow [4]. the interaction between portal blood flow and the vascular resistance that opposes that flow is defined by the ohm’s law (∆p = q × r), where ∆p is the portal pressure gradient, q is portal blood flow and r is the vascular resistance [5]. increased resistance is due to: liver architectural disturbance, with distortion of vascular architecture by fibrosis, scarring, regenerative nodules, thrombosis (mechanical or fixed component, not modifiable by pharmacological treatment); and functional hepatic microcirculation alterations (active contraction of portal/septal myofibroblasts, activated stellate cells, portal venules – the so-called dynamic component, modifiable by drugs). this active intrahepatic vascular contraction is a consequence of an unbalance between vasoconstrictor substances (endothelin, angiotensin ii, vasopressin, tromboxane a2, leukotrienes, etc.) and vasodilators (nitric oxide [no], co, prostacycline, etc.) [6]. portal blood flow in its turn increases because of enhanced production of vasodilators, increased enos activity and no release, systemic and splanchnic vasodilation, hyperkinetic circulation, and hyposensitivity to vasoconstrictors [7]. thus, it is now widely recognized that this hyperkinetic (hyperdynamic) circulation that characterizes liver cirrhosis is the main cause of the complications of the disease [8]. this review is aimed to address the role of vasoconstrictor treatment in patients suffering from complications of decompensated cirrhosis, offering practical suggestions for the management of this treatment at bedside. what is already known about this issue? portal hypertension (ph) is a severe complication of liver cirrhosis. it is secondary to increased intra-hepatic resistance to portal blood flow and to massive splanchnic arteriolar vasodilation, due to an excess of no within the splanchnic circulation the hyperkinetic (hyperdynamic) circulation that characterizes liver cirrhosis is the main cause of the complications of the disease, such as hepatorenal syndrome (hrs) hrs is a common complication of patients with cirrhosis, due to functional renal impairment without an identifiable cause the arterial vasodilation in the splanchnic circulation plays a central role in the renal function deterioration, with activation of renin-angiotensin and sympathetic nervous systems, leading to an uncontrolled renal vasoconstriction   pathophysiology of ph and hyperkinetic circulation increased intra-hepatic resistance to portal blood flow is the primary factor leading to portal hypertension in cirrhosis [1]. as underlined above, the increased intra-hepatic resistance is the consequence of both the architectural disturbances caused by the cirrhotic process and of an active contraction of several cellular elements [8]. this latter represents the dynamic and modifiable component of intra-hepatic resistance, accounting for up to 30-40% of the intra-hepatic vascular resistance in cirrhosis [9]. contractile elements influencing the hepatic vascular bed include vascular smooth muscle cells of the intra-hepatic vasculature, activated hepatic stellate cells (hscs) and hepatic myofibroblasts, that may compress the regenerating nodules or venous shunts within the fibrous septa [8]. vasoactive mediators, either vasoconstrictors or vasodilators, may modulate intrahepatic vascular resistance either in health or during liver disease, whatever the location where they act [8,9]. in normal liver, the hepatic endothelium produces vasodilatory substances in response to increased blood volume, blood pressure, or vasoconstrictor agents, in an attempt to counteract the concomitant increase in intravascular pressure [10]. however, the cirrhotic liver cannot attenuate the increased portal blood flow caused by ph [3]. this so-called “endothelial dysfunction” in cirrhosis has been attributed to reduced nitric oxide (no) bioavailability and to increased vasoconstrictor substances [8]. such imbalance between endogenous vasoconstrictor and vasodilator factors observed in the cirrhotic liver is thought to be implicated in the pathogenesis of the dynamic component of the increased intra-hepatic resistance of the cirrhotic liver [10]. in other words, during the course of cirrhosis an excess of vasoconstrictors with respect to vasodilators does progressively occur. the main vasoconstrictors are cox1-derived prostanoids, thromboxane, endothelin, angiotensin, vasopressin, and norepinephrine [3,8,10]. in addition, reduced no bioavailability within the cirrhotic liver leads to failure to counteract the increased intrahepatic vasoconstriction [11]. endothelial no synthase (enos) is responsible for most of the vascular no produced into the normal liver [12]. by contrast, in the cirrhotic liver, there is a reduced no bioavailability that plays a major role in increasing intra-hepatic vascular resistance and thereby worsening portal hypertension [13]. decreased no production occurs despite a normal expression of enos mrna and normal levels of enos protein [8,10], and has been attributed, at least in part, to reduced enos activity caused by several posttranslational alterations in the regulation of the enzyme such as increased caveolin expression, or a defect of the essential cofactor of enos (tetrahydrobiopterin), decreased enos phosphorylation, and increased levels of asymmetric dimethylarginine among others [10]. finally, in patients with decompensated cirrhosis there is a massive splanchnic arteriolar vasodilation, due to an excess of no within the splanchnic circulation. this vasodilation is thought to be secondary to ph and shear stress, that determines hyperactivation of enos gene within the extra-hepatic splanchnic smooth cells, with increased enos activity and excess no production. this reduced no availability within the intrahepatic circulation and the no excess within the splanchnic extrahepatic circulation has been defined as “the paradox of no in liver cirrhosis”: too much (outside the liver), not enough (within the liver) [14]. ph measurements the definition of portal hypertension is based on a pressure measurement [15]. portal pressure measurement is usually determined indirectly , by subtracting the free hepatic venous pressure (fhvp) from the wedged hepatic venous pressure (whvp). in liver cirrhosis, whvp equals portal (sinusoidal) pressure, and fhvp equals inferior vena cava pressure [16]. this gradient, the so-called hepatic venous pressure gradient (hvpg), accurately reflects the degree of ph in the majority of liver diseases [16,17]. the technique of hepatic vein catheterization with measurement of the hvpg is safe and reproducible [3]. several studies have shown a good correlation between direct portohepatic measurements and hvpg measurements (using a balloon catheter) both in alcoholic and viral cirrhosis [3]. thus, the hvpg measurement using a balloon catheter is now considered the gold standard for portal pressure evaluation [16]. ph is defined by a pathological increase of the hvpg values above the normal upper limit of 5 mmhg, while clinically significant ph (csph) is defined by an increase in hvpg values to a threshold above approximately 10-12 mmhg [2,16,17]. varices do not bleed when the hvpg is below 12 mmhg [1]. hvpg determination is a safe and reliable tool to measure the degree of portal hypertension, with a very low rate of complications. however, it is an invasive technique, not inexpensive, which requires well-experienced hepatologists, specific equipments and expensive disposable materials [18]. thus, due to these methodological and technical difficulties, the measurement of ph is not immediate and is performed only in a limited number of specialized centres [19]. in clinical practice, hvpg measurement could have several applications [20-23], such as: evaluation of the risk of variceal haemorrhage. assessment of haemodynamic response to pharmacological therapy. definition of prognosis (cirrhosis and acute variceal bleeding). pre-operative evaluation of cirrhotic patients candidates to hepatic resection. furthermore, hvpg measurement could have a prognostic value. it has been shown that the hvpg at different cut-off levels is a predictor of long-term survival in cirrhotic patients without previous variceal bleeding at inclusion in the study [24]. several studies have found a significant higher survival in patients in whom hvpg levels were below the cut-off than in those with hvpg above the cut-off [25]. the predictive hvpg value was identified between 12 and 20.8 mmhg. further, it has been found that early measurement of hvpg in patients with acute variceal bleeding could have a negative prognostic value if ≥ 20 mmhg [26,27]. pharmacological profile of vasoconstrictors in clinical practice, at least four vasoconstrictors are used: somatostatin, octreotide, terlipressin and midodrine. somatostatin (sms) is a 14-aminoacid peptide, with well-known vasoconstrictive properties. sms provokes splanchnic vasoconstriction with a decrease in portal blood flow, acting through inhibition of endogenous vasodilators (glucagon, vip, p substance), although it exerts also a direct vasoconstrictive effect, mediated by activation of receptor subtype 2. although sms treatment is generally safe and well tolerated, in some patients several side effects are seen. the main reported side effects of sms are: hyper/hypoglycaemia, diarrhoea, hypertension, chest pain, flushing [28]. octreotide (oct) is a synthetic 8-peptide, sharing with sms the 4 aminoacids responsible for biological effects. reported side effects of oct are: dizziness, fatigue, headache, diarrhoea, abdominal pain, flushing, nausea [8]. on the whole, sms and oct have a lower incidence of complications, major adverse events (aes) and mortality than vasopressin and terlipressin. terlipressin (triglycyl-lysine-vasopressin) is a synthetic analogue of the natural hormone arginin-vasopressin. terlipressin is the most used drug in the treatment of hepatorenal syndrome (hrs). terlipressin is a prohormone of lysine-vasopressin (triglycyl-lysine-vasopressin). following intravenous administration, the glycyl residues are cleaved from the prohormone by endothelial peptidases, allowing prolonged release of lysine-vasopressin. this mechanism prolongs the half-life of terlipressin, enabling administration in divided doses without the need for an infusion as with vasopressin and minimizes systemic toxicity [29]. terlipressin has affinity for both v1 and v2 receptors. terlipressin selectively causes splanchnic and extrarenal vasoconstriction by stimulation of v1 receptors, which are predominantly located in the smooth muscles of the arterial vasculature in the splanchnic region, and thereby reduces splanchnic blood flow and portal pressure [30]. following terlipressin administration for 30 minutes there is an increase in mean arterial pressure and systemic vascular resistance while the heart rate, cardiac output, hepatic venous pressure gradient, and portal venous blood flow decrease [31]. reduction in portal pressure results in amelioration in the hyperdynamic circulation, thereby improving the effective circulatory volume, and renal perfusion pressure [32]. v2 receptor stimulation by terlipressin increases water reabsorption in the renal collecting ducts by increasing the number of aquaporin-2 water channels in the apical plasma membrane [14,16]. hyponatraemia may occur in some patients [33]. due to prolonged vasoconstrictor action terlipressin can be given by intermittent i.v. injections (preferably in bleeding) or by continuous infusion (hrs). although terlipressin is slowly cleaved in vivo to vasopressin, it is also believed to have an intrinsic vasoconstrictor effect on its own. terlipressin has a much greater effect on vascular vasopressin receptors (v1) than on renal vasopressin receptors (v2) [34]. midodrine is an alpha1-adrenergic agonist [29]. data supporting the use of midodrine were mostly observational in nature and have not been compared directly to treatment with terlipressin or noradrenaline. oral administration of this alpha-adrenergic agonist improved systemic and renal haemodynamics in nonazotaemic cirrhotic patients but had no effect in patients with hrs [30]. however, when midodrine was combined with plasma volume expansion and octreotide, a nonspecific inhibitor of the release of endogenous vasodilators, there was significant improvement in both the systemic and renal haemodynamics and urinary sodium excretion, although renal function did not return to normal despite suppression of all measured neurohormonal systems to within the normal range [33]. the role of vasoconstrictors in the treatment of complication of cirrhosis gastroesophageal varices gastroesophageal varices are present in almost half of patients with cirrhosis at the time of diagnosis, with the highest rate among patients with child-turcotte-pugh class b or c [35]. development and growth of gastroesophageal varices each occur at a rate of 7% per year [1]. the 1-year rate of a first variceal haemorrhage is approximately 12% (5% for small varices and 15% for large varices) [35]. besides variceal size, red wale marks on varices and advanced liver disease (child class b or c) identify patients at a high risk for variceal haemorrhage [1]. the 1-year rate of recurrent variceal haemorrhage is approximately 60% [35]. the 6-week mortality with each episode of variceal haemorrhage is approximately 15 to 20%, ranging from 0% among patients with child class a disease to approximately 30% among patients with child class c disease [1,2]. available therapies for varices and variceal haemorrhage can be classified according to whether they act on the physiologic mechanisms of portal hypertension [36]. acute variceal bleeding is the most severe consequence of portal hypertension. the treatment of this entity should involve the initial control of haemorrhage and prevention of early rebleeding [37]. endoscopic sclerotherapy or band ligation have been shown to be highly effective in the control of both these processes [38]. both procedures stop bleeding in about 80% to 90% of patients [1]. on the other hand, vasoactive drugs, such as somatostatin and terlipressin, are as effective as endoscopic sclerotherapy for the arrest of the acute episode of bleeding and prevention of early rebleeding [39]. however, haemodynamic and clinical data are not so consistent when other agents such as octreotide are employed [40]. patients who have child class a or b disease or who have an hvpg of less than 20 mmhg have a low or intermediate risk and should receive standard therapy – specifically, the combination of a safe vasoconstrictor (terlipressin, somatostatin, or analogues such as octreotide or vapreotide, administered from the time of admission and maintained for 2 to 5 days) and endoscopic therapy (preferably endoscopic variceal ligation, performed at diagnostic endoscopy < 12 hours after admission), together with short-term prophylactic antibiotics (either norfloxacin or ceftriaxone) [41]. a recent metanalysis showed that the efficacy of endoscopic therapy in achieving initial control of bleeding and 5-day haemostasis is significantly improved when somatostatin or its derivatives are added to the endoscopic treatment regimen [42]. hepatorenal syndrome (hrs) hrs is a common complication of patients with cirrhosis, due to functional renal impairment without an identifiable cause [43,44]. approximately 39% of patients with cirrhosis and ascites will develop hrs during the course of the disease. criteria for the diagnosis of hrs developed by the international club of ascites [45] include the following: presence of cirrhosis and ascites, serum creatinine higher than 1.5 mg/dl, no improvement in serum creatinine (decrease equal to or less than 1.5 mg/dl) after at least 48 hours of diuretic withdrawal and volume expansion with albumin, absence of shock, no current or recent treatment with nephrotoxic drugs, absence of parenchymal kidney disease as indicated by proteinuria (500 mg/day), microhaematuria (50 red blood cells/high power field), and/or abnormal renal ultrasound scanning. type 1 hrs was defined as a rapidly progressive reduction in renal function, e.g., a doubling of serum creatinine to greater than 2.5 mg/dl in less than 2 weeks and failure of renal function to improve following diuretic withdrawal and plasma volume expansion. type 2 hrs was defined as serum creatinine greater than 1.5 mg/dl, which follows a steady or slowly progressive course [46]. again, hrs pathogenesis involves the interplay between the activation of vasoconstrictor systems and the reduction in the activity of vasodilator systems [44]. the arterial vasodilation in the splanchnic circulation plays a central role in the renal function deterioration and the haemodynamic changes and is mediated by an increased production and/or activity of local vasodilators, with nitric oxide being the most important. as the liver disease progresses in severity, a critical level of hypoperfusion is achieved, with subsequent activation of renin-angiotensin and sympathetic nervous systems [47]. renal vasodilatory systems are not able to offset the maximal effect of endogenous vasoconstrictors, leading to an uncontrolled renal vasoconstriction [2,4,5]. this peripheral arterial vasodilation theory for hrs has resulted in several pharmacologic treatment of hrs with systemic vasoconstrictors [10,11]. preliminary studies have been reported using α-adrenergic agonists (midodrine and noradrenaline), vasopressin analogues (ornipressin and terlipressin), and somatostatin analogue (octreotide) [12,13]. octreotide in combination with midodrine and albumin infusion improved renal and systemic haemodynamics by the systemic vasoconstrictor effect of midodrine and the inhibition of endogenous vasodilator release action of octreotide [14]. the choice of drug and the schedule of treatment varied across these studies. to date, terlipressin is the most widely used vasoconstrictor in the treatment of type-1 hrs [48,49]. partial or complete reversal of type-1 hrs was observed in almost 59% of patients [50,51]. nevertheless, the preliminary results of the two first controlled clinical trials comparing terlipressin and albumin with albumin alone did not confirm a beneficial effect of terlipressin and albumin on 2or 3-month survival in patients with type-1 hrs [50,51]. more recently, caraceni et al. suggested long-term treatment with terlipressin plus albumin (62 days to eight months) as a bridge to liver transplantation in cirrhotic patients with recurrent hrs [52]. in clinical practice, italian regulatory agency suggests the use of terlipressin in cirrhotic patients with hrs type i, provided that they fulfil the criteria for the diagnosis of hrs as defined by the international ascites club [45]; terlipressin should be administered at a dosage of 2-3 mg/die by continuous infusion or by intermittent i.v. boli of 0.5 mg every 4-6 hours. results with other vasoconstrictors (octreotide, midodrine, adrenaline) are still preliminary and conflicting [53-55]. which are the new findings? type-1 hrs is a life-threatening complications of cirrhosis, with high mortality rates in the short term period the use of vasoconstrictors in combination with plasma expanders (terlipressin plus albumin) seems to be able to reverse rapidly progressive renal failure partial or complete reversal of type-1 hrs was observed in up to 60% of patients receiving treatment with terlipressin plus albumin, and more recent data suggest that terlipressin seems to be able to reduce mortality in these subjects results with other vasoconstrictors are still preliminary and conflicting   refractory ascites ascites is a common complication of liver cirrhosis, occurring in more than 50-60% of the patients within 10 years of the diagnosis. it develops late during the course of the disease, when there are severe portal hypertension and hepatic insufficiency; its appearance represents a critical landmark in the natural history of the disease, with a significant worsening of the prognosis [56]. furosemide and spironolactone – together with salt restriction – are the diuretics more commonly used in the treatment of mild to moderate cirrhotic ascites [57]. furosemide inhibits chloride and sodium reabsorption in the thick ascending limb of the loop of henle, but has no effect on the distal nephron. spironolactone undergoes extensive metabolism leading to numerous biologically active compounds, the most important quantitatively being canrenone. in the kidney, these compounds act by competitively inhibiting the tubular effect of aldosterone in the distal nephron [58]. in 5-10% of patients, ascites cannot be mobilized, or its early recurrence (e.g. after therapeutic paracentesis) cannot be prevented by medical treatment. this condition is known as “refractory ascites” [59]. this condition might be secondary to the lack of response to sodium restriction and maximal diuretic treatment (160 mg/day of furosemide and 400 mg/day of spironolactone – diuretic-resistant ascites) or to the development of diuretic-induced complications that might preclude the use of an effective diuretic dosage (diuretic-intractable ascites) [60]. the first-line treatment of refractory ascites consists in repeated total paracenteses [56]. in the case of exceedingly high frequency of paracentesis, the use of transjugular intrahepatic portosystemic shunts (tips) should be taken into consideration [61]. patients may continue to receive diuretic treatment, if tolerated. terlipressin has been proposed for the treatment of refractory ascites, in association with the prolonged infusion of human albumin, but to date its use in cirrhotic patients with refractory ascites and normal renal function should be considered still preliminary [62]. a recent study [63] showed a synergistic effect of terlipressin when added to albumin and diuretics in patients with refractory ascites and normal renal function, suggesting that albumin might enhance the vasoconstrictive response to terlipressin. this might contribute to counterbalance the negative effects of systemic vasodilation, which characterize the hyperdynamic circulation of cirrhotic patients [63]. management of side effects of vasoconstrictors in everyday clinical practice the most used vasoconstrictors in cirrhotic patients are somatostatin and terlipressin. the use of sms is limited to the control of acute variceal bleeding, whilst terlipressin treatment is employed for the management of several complications of cirrhosis: acute variceal bleeding, hrs type i, refractory ascites with normal renal function. however, while adverse events during treatment with sms are rather rare and usually not severe (hyper/hypoglycaemia, diarrhoea, hypertension, chest pain, flushing), side effects of terlipressin are much more frequent, more severe, more difficult to manage, and – although rarely – even life threatening [29-33]. the main adverse events during terlipressin therapy myocardial ischaemia or infarction, cardiac arrhythmias arterial hypertension severe hyponatraemia, seizures, loss of consciousness pulmonary hypertension, dyspnoea headache abdominal pain, intestinal ischaemia or infarction peripheral ischaemia acute vasculitis-like lesions raynaud’s phenomenon peripheral tissue necrosis   a randomized prospective double-blind, placebo-controlled trial of terlipressin for type i hrs [50] showed an higher incidence of severe adverse events up to 30 days post-treatment in patients treated with terlipressin (8.9% vs. 1.8%), with a rate of withdrawal due to adverse events (aes) up to 7 days of 5.4% vs. 0%. in another patients’ series, there were 4% of myocardial infarction, 13% of intestinal ischaemia, 9% of arrhythmias, and 30% of circulatory overload [51]. due to its adh-like action (arginin-vasopressin effects), terlipressin might induce severe hyponatraemia, that might be misinterpreted as hepatic encephalopathy. solà et al. [64] found that the development of hyponatraemia was common in cirrhotic patients treated with terlipressin because of gi bleeding. during the 5-days treatment period, 67% of the patients developed acute reduction in serum sodium concentrations, which was marked (reduction > 10 meq/l) in up to 36% of them, and associated with neurological manifestations in some patients. similar findings were reported by krag and coworkers [65]. as to cardiovascular adverse events, terlipressin treatment might induce myocardial infarction [66], severe bi-ventricular dysfunction [67], and tako-tsubo syndrome (also known as transient left ventricular apical ballooning syndrome), a clinical entity characterized by reversible left ventricular apical wall motion abnormalities, typical electrocardiographic features, and minor increase of serum heart enzymes [68]. other relevant side effects, sometimes severe, are peripheral ischemia [69], cutaneous necrosis [70,71], haemorragic blistering of the skin [72], and even severe extensive epidermal necrosis [73]. predictors of adverse events during terlipressin elderly male gender coronary heart disease arterial hypertension history of arrhytmias illicit drug abuse (cocaine) heavy smokers obesity chronic obstructive pulmonary disease (copd) previous raynaud’s phenomenon spontaneous bacterial peritonitis (sbp) peripheral venous insufficiency in table i some advice are listed in order to avoid and diagnose the adverse events caused by terlipressin. timing as to treatment advice to manage terlipressin adverse events before carefully consider risk factors for adverse events use terlipressin cautiously in patients with known coronary heart disease or history of arrhytmias evaluate baseline serum sodium concentrations avoid terlipressin treatment in patients with ekg abnormalities or echocardiographic changes (e.g., dyskinesia) when major aes might be expected, in patients with esophageal bleeding choose somatostatin first-line treatment, or consider endoscopic treatment during do not prolong treatment beyond 14 days strictly monitor serum sodium concentrations carefully evaluate mental status of the patient early identify neurological symptoms or signs (hepatic encephalopathy?) strictly monitor heart rate/rhythm, blood pressure, electrocardiogram (ekg) consider combination treatment with transdermal nitrates immediately withdraw treatment in the case of major aes in bleeding patients, consider shift to sms after continue follow-up remember that aes might appear up to 30 days after treatment weekly evaluate the patients monitor heart rate, blood pressure, ekg in the case of abnormal mental status or dizziness, evaluate serum na+ concentrations (diagnosis of hyponatraemia versus hepatic encephalopathy) table i. how to manage terlipressin adverse events   conclusions despite these adverse events, it should be underlined that terlipressin decreases failure of initial haemostasis by 34%, decreases mortality by 34%, and is considered a first-line treatment for esophageal bleeding [74]. terlipressin in combination with albumin reverses type 1 hrs in 33-60% of cases and is the only treatment with proven efficacy in randomized trials [75]. thus, we can conclude that the safety profile is favourable when considering the clinical efficacy and the high mortality caused by the complications of cirrhosis. mortality and withdrawal of terlipressin due to adverse events occurs in less than 1% of cases. mild adverse events related to terlipressin treatment occur in 10-20% of patients. among available vasoactive drugs, terlipressin is probably the most effective pharmacological therapy for bleeding and the only accepted treatment for hrs, but sms appears to be also effective with less side effects in variceal bleeding [1]. which are the implications in clinical practice? side effects of terlipressin are more severe and more difficult to manage than those of other vasoconstrictors, and – although rarely – even life threatening hyponatraemia and acute ischaemia (heart, gut, skin, etc.) have been frequently reported anyway, the safety profile is favourable when considering the clinical efficacy and the high mortality caused by the complications of cirrhosis among available vasoactive drugs, terlipressin is probably the most effective pharmacological therapy for bleeding and the only accepted treatment for hrs, but sms appears to be also effective with less side effects in variceal bleeding   references de franchis r. revising consensus in portal hypertension: report of the baveno v consensus workshop on methodology of diagnosis and therapy in portal hypertension. j hepatol 2010; 53: 762-8 bosch j, abraldes jg, groszmann r. current management of portal hypertension. j hepatol 2003; 38: s54-s58 thalheimer u, bellis l, puoti c, et al. should we routinely measure portal pressure in patients with cirrhosis, using hepatic venous pressure gradient (hvpg) as a guide for prophylaxis and therapy of bleeding and 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and accuracy of the contents. simonetta caria piergiorgio chiriacò claudia cicala christopher collins rosario iannacchero federica invernizzi alfonso iudice enrico lupia roberto manfredi luca masotti giuseppe mulé lucia palmisano claudio puoti giulio radeschi ali sabzghabaee salvatore sollima valentina svicher lidia usnarska-zubkiewicz andré van zundert mauro viganò umberto vitolo jan wnent cmi 2015;9(4)109-114.html utilizzo in monoterapia di tenofovir in una coorte di detenuti ristretti nei penitenziari della regione molise e affetti da epatite cronica lieve da hbv roberto patriarchi 1, antonio di nicola 2, orazio grassi 2, giuseppe de bartolomeo 3 1 uo medicina penitenziaria asrem 2 uo malattie infettive po “a. cardarelli”, campobasso – asrem 3 uo medicina generale po “veneziale”, isernia – asrem abstract inmates are a population at risk for hepatitis b virus infection. it affects about 2% of italian prisoners, while the prevalence in the molise region seems to be higher, accounting for around 4% of the inmates. the authors report their experience in a penitentiary in the management of chronic hepatitis b with tenofovir. in particular, 10 male patients affected by hbv-related chronic hepatitis naïves to treatment confined in the prisons of the molise region were treated with tenofovir 245 mg/die. the results show a satisfactory response, excellent tolerance, and no interruptions. keywords: tenofovir; hbv; hepatitis b; hbv-dna; hbsag use of tenofovir monotherapy in a cohort of prisoners confined in the prisons of the molise region and affected by mild hbv-related chronic hepatitis cmi 2015; 9(4): 109-114 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i4.1218 case series corresponding author roberto patriarchi patriarchi@hotmail.com disclosure il presente articolo è stato realizzato con il supporto incondizionato di gilead sciences srl introduzione nel mondo, l’organizzazione mondiale della sanità (oms) ha stabilito che circa 240 milioni di persone sono portatori cronici dell’antigene di superficie dell’epatite b (hbsag+). in italia fortunatamente l’epidemiologia dell’epatite b ha subìto profondi cambiamenti grazie al miglioramento delle nostre condizioni socio-economiche e sanitarie, prevalentemente dovute all’introduzione della vaccinazione obbligatoria contro l’epatite b dal 1991. ciò ha comportato una progressiva riduzione dell’incidenza dei casi di epatite acuta b che, per i nuovi casi, riguarda quasi esclusivamente soggetti adulti nei quali la trasmissione dell’infezione da hbv si verifica per lo più per via sessuale. l’infezione cronica da hbv rappresenta un problema sanitario tutt’altro che risolto in italia, incrementato dall’aumento della immigrazione da aree in cui la circolazione del virus è ancora endemica e anche dalle cosiddette popolazioni fragili, quali tossicodipendenti, senza fissa dimora (sfd) e detenuti. giovani, sovrappeso, fumatori, affetti da almeno una patologia cronica: è questo il quadro dei detenuti delle carceri italiane scattato dall’agenzia regionale di sanità (ars) toscana attraverso un’indagine condotta nel 2014 in 6 regioni (toscana, lazio, umbria, veneto, liguria, campania-asl salerno), finanziata dal centro di controllo delle malattie (ccm) del ministero della salute e pubblicato nell’aprile 2015 [1]. in tutto sono stati presi in esame 15.751 detenuti, per il 96,5% uomini e per il 60% appartenenti alla fascia di età compresa tra 30 e 49 anni (l’età media è 39,6 anni). la nazionalità straniera costituisce il 46,3% del campione (i nordafricani sono il gruppo etnico più rappresentato, seguito dagli est europei). il 67,5% dei detenuti in esame è risultato affetto da almeno una condizione patologica, anche non grave. dalla ricerca emerge, in particolare, l’importanza che ricoprono, nella popolazione detenuta, i disturbi psichici, le malattie infettive e quelle dell’apparato digerente. le malattie infettive e parassitarie colpiscono l’11,5% di tutti i detenuti sottoposti a visita, confermando di essere un gruppo di patologie ad alta prevalenza nella popolazione detenuta. in particolare, l’epatite c costituisce la malattia infettiva più diffusa all’interno delle strutture penitenziarie partecipanti al nostro studio, con una prevalenza del 7,4%, seguita da epatite b e aids che colpiscono, entrambe, il 2% degli arruolati. nella regione molise sono presenti tre istituti penitenziari (campobasso, isernia e larino), con una presenza media giornaliera di circa 300 detenuti. a fine 2014 è stato condotto uno studio epidemiologico sulle principali patologie presenti, che sembra confermare sostanzialmente il dato nazionale. il 70% dei detenuti ristretti nelle case circondariali presenti nella regione molise è affetto da almeno una patologia: si confermano soprattutto disturbi psichici, malattie infettive e dell’apparato digerente. il 18% ha una patologia infettiva e parassitaria. il 70% è fumatore (contro il 23% della media della popolazione generale), con una prevalenza di disturbi dell’apparato respiratorio pari all’8%. fra le malattie infettive e parassitarie, l’epatite c pertanto costituisce la malattia infettiva più diffusa all’interno della strutture penitenziarie del molise, con una prevalenza del 7%, seguita da epatite b, che, nel molise, colpisce il 4% dei detenuti arruolati. l’epatite cronica hbv-correlata rappresenta oggi nel mondo un importante problema di salute pubblica, collocandosi al primo posto come causa di cirrosi epatica ed epatocarcinoma [2]. la storia naturale dell’epatopatia hbv-correlata è caratterizzata dall’alternanza di fasi di attiva replicazione e fasi di bassa o assente replicazione virale, che dipendono dall’interazione tra il virus e il sistema immunitario. l’andamento nel tempo è variabile, ma sostanzialmente progressivo passando dall’epatite cronica attiva con vari gradi di fibrosi, alla cirrosi e alle sue temibili complicanze, fino all’epatocarcinoma fatale. la tendenza alla progressione della malattia è determinata da fattori propri del virus e dell’ospite (eventuale presenza di coinfezioni hcv, hiv, hdv, eventuale abuso alcolico, sovrappeso, malattie metaboliche e stato immunitario dell’ospite). molti dei detenuti sono anche extracomunitari e vanno considerati immunodepressi in senso lato (perché spesso sono malnutriti, senza fissa dimora e hanno vissuto in condizioni precarie di igiene) e pertanto esposti a una più facile progressione della malattia epatica verso la cirrosi. l’indicazione al trattamento è identica per i pazienti hbeag-positivi e negativi e si basa prevalentemente sulla combinazione di livelli sierici di hbv-dna, valori di alt e valutazione della fibrosi epatica effettuata con esame istologico da agobiopsia epatica o con elastografia transiente (fibroscan®) [3,4], una tecnica semplice e riproducibile che permette di misurare la rigidità del fegato per una diagnosi non invasiva della fibrosi epatica. seguendo le linee guida della european association for the study of the liver (easl) [5], i pazienti devono essere considerati da trattare quando i livelli di hbv-dna sono > 2.000 cp/ml e/o i livelli di alt sono anche di poco al limite superiore della norma e viene evidenziata una fibrosi moderata/grave. l’endpoint ideale della terapia viene considerato la scomparsa dell’hbsag con successiva sieroconversione ad antihbs, evento significativamente associato al miglioramento della prognosi del paziente. ma l’endpoint più desiderabile consiste nel sopprimere efficacemente e persistentemente la replicazione di hbv. l’obiettivo prioritario nel trattamento dei pazienti affetti da epatite cronica b è rappresentato dalla soppressione persistente e prolungata della viremia: l’inibizione persistente e prolungata della replicazione virale comporta lo spegnimento della necroinfiammazione e il successivo rallentamento della progressione verso la fibrosi-cirrosi e le sue temibili complicanze (scompenso e epatocarcinoma – hcc) [6], in ultima analisi migliorando la qualità della vita e aumentando la sopravvivenza. dalle nuove direttive easl emerge in maniera imperiosa il concetto di intervenire quanto più precocemente possibile per modificare la storia naturale dell’epatite cronica b prima che evolva verso una cirrosi epatica avanzata. nella nostra esperienza abbiamo trattato una coorte di 10 pazienti adulti di sesso maschile detenuti in molise con epatite cronica hbv-correlata (mai trattati precedentemente) con tenofovir 245 mg/die. pazienti, metodi e risultati numero pazienti 10 pregresse terapie no epatite cronica lieve (fibrosi f0-f2) marker hbv positivi hbsag, antihbc e antihbe hbv-dna (media) 8.300 cp/ml alt (media) 50 ui/l tabella i. caratteristiche generali della coorte e soglie utilizzate per la diagnosi e la stadiazione dell’epatite cronica da hbv abbiamo utilizzato un insieme di esami che viene indicato dalle linee guida dell’easl, anche seguendo le linee guida dell’associazione italiana per lo studio del fegato (aisf), per la gestione dei soggetti affetti da infezione cronica da hbv, che prevede: marcatori biochimici (ast, alt, γgt, fosfatasi alcalina, bilirubina, protidogramma elettroforetico, emocromo e ptt), hbv-dna qualitativo e quantitativo espresso in cp/ml ed effettuato tramite pcr, marcatori virologici per la ricerca di eventuali coinfezioni (hcv, hiv, hdv), valutazione di eventuale presenza di comorbilità, come danno epatico da alcol, steatosi o steatoepatite, valutazione della fibrosi con fibroscan® [7], ecografia epatica. l’indicazione al trattamento viene posta per i soggetti con hbv-dna > 2.000 cp/ml, eventuale rilievo di ipertransaminasemia anche lieve, con presenza di eventuale fibrosi anche lieve-moderata [5,8,9]. già alla quarta settimana di trattamento abbiamo considerato endpoint primario valutare la risposta virologica (hbv-dna < 12 ui/ml) ricontrollata poi a 3 e 6 mesi di trattamento. endpoint secondari sono stati nella nostra valutazione l’eventuale normalizzazione delle alt (controllo mensile), l’eventuale sieroconversione ad antihbs (valutazione a 6 mesi), l’eventuale comparsa di breakthrough virologico (> 1 log cp/ml), l’eventuale modificazione della stiffness epatica con fibroscan® (controllo a 6 mesi), l’eventuale tollerabilità del trattamento (controllo mensile di azotemia, creatinina, valutazione del filtrato glomerulare con controllo di creatinina-clearance, fosforemia, dosaggio di cpk ed emogasanalisi arteriosa). hbv-dna è stato valutato in pcr a 1, 3 e 6 mesi dall’inizio della terapia [10]. l’indicazione al trattamento a lungo termine con un analogo a elevata efficacia e ottimo profilo di resistenza come tenofovir [11-14] viene fortemente consigliata in prima linea come monoterapia, ottenendo una remissione virologica nella stragrande maggioranza dei soggetti. il pattern di risposta virologica a tenofovir viene definita in caso di hbv-dna negativo secondo la pcr valutato ogni 3-6 mesi. abbiamo valutato l’eventuale assenza di risposta (definita come una riduzione dei valori di hbv-dna inferiori a 1 log cp/ml al terzo mese di terapia) e l’eventuale comparsa di breakthrough virologico (definito come un incremento > 1 log cp/ml dei valori di hbv-dna rispetto al valore nadir). i pazienti sono stati valutati per 6 mesi dall’inizio della terapia. le caratteristiche generali della coorte, le soglie utilizzate, i parametri al basale e l’andamento della viremia sono riportati nelle tabelle i e ii e nella figura 1. pazienti età comorbilità hbv-dna (cp/ml) 0, 1, 6 mesi conoscenza della malattia (anni) fattore di rischio 1 30 3.000, 0, 0 5 tossicodipendenza 2 23 12.000, 0, 0 2 3 30 13.000, 0, 0 8 4 24 18.000, 0, 0 2 tossicodipendenza 5 25 14.000, 0, 0 3 6 22 16.000, 0, 0 2 7 24 6.000, 0, 0 2 8 40 diabete mellito non insulino-dipendente 4.000, 0, 0 8 tossicodipendenza 9 48 ipertensione arteriosa in trattamento 10.000, 0, 0 15 10 23 3.000, 0, 0 5 tabella ii. parametri dei pazienti al basale. tutti i pazienti erano di sesso maschile figura 1. distribuzione dei pazienti per età tutti i pazienti risultavano all’inizio essere hbsag-positivi e hbeag-negativi, con valori di hbv-dna compresi tra > 2.000 ui/ml e 20.000 ui/ml, valori di alt al limite della normalità (con valori di riferimento fino a 40 ui/l) ed evidenza di malattia lieve (f1) secondo fibroscan®. sono stati esclusi dallo studio i pazienti coinfetti per hcv, hiv e hdv, i pazienti con storia di abuso alcolico e altre cause di epatopatia (metabolica, autoimmunità, ecc.). tutti i pazienti sono stati sottoposti a esame ecografico dell’addome superiore all’inizio del trattamento e successivamente rivalutati al sesto mese di trattamento: solo sei pazienti presentavano all’esame basale lieve epatomegalia, con ecostruttura epatica lievemente disomogenea e iperecogena, come da epatopatia steatosica, ma con vasi (vena porta e vene sovraepatiche) normali e non segni di scompenso (non segni di cirrosi, non versamento endoperitoneale e milza normale); gli altri quattro pazienti presentavano al basale un esame ecografico assolutamente normale. l’aderenza al trattamento per i 6 mesi di osservazione è stata totale e non si è verificata alcuna sospensione per insorgenza di effetti collaterali (astenia, cefalea, vertigini, nausea, dolori addominali) del farmaco. nessuno dei pazienti ha sviluppato eventi avversi. tenofovir si è rivelato un farmaco potente, sicuro e tollerato in tutti i pazienti trattati, nonché farmaco di costo inferiore ad altri similari. non si è verificato nessun incremento né della creatinina sierica né del fosforo sierico, valutati mensilmente: i valori mediani della creatinina, della stima del filtrato glomerulare e del fosforo non sono variati durante i 6 mesi di trattamento. la clearance della creatinina basale risultava in tutti i pazienti nei limiti della norma, ed è rimasta immodificata nel corso dei 6 mesi di trattamento. ma l’elemento fondamentale del trattamento è stato rilevare che tutti i pazienti hanno ottenuto una soppressione virologica completa con valori di hbv-dna rientrati al di sotto della rilevabilità sierica (< 12 ui/ml), mantenendo la negatività lungo tutto il periodo di osservazione di 6 mesi (tabella ii). tutti i detenuti hanno presentato livelli negativi di hbv-dna già dopo il 1° mese di trattamento (figura 2), a conferma della assoluta efficacia di tenofovir nel determinare una valida soppressione virologica per frenare l’evolutività della malattia epatica cronica verso la cirrosi. il valore medio di stiffness (fibroscan®) è stato pari a 3,7 kpa e sostanzialmente non si è modificato al controllo effettuato al 6° mese di trattamento: confrontando i valori al basale con l’elastometria al 6° mese di controllo, non si sono evidenziate modifiche sostanziali considerando il lieve grado di fibrosi iniziale. tutti i pazienti, inoltre, hanno normalizzato la lieve ipertransaminasemia evidenziata al basale già alla quarta settimana di trattamento (figura 3). figura 2. andamento della viremia al momento 1 (pretrattamento) e al momento 2 (dopo un mese di terapia) figura 3. andamento della transaminasi durante la terapia in nessun paziente abbiamo evidenziato fino ad ora la perdita di hbsag e la conseguente sieroconversione ad antihbs, endpoint ideale che però si verifica solo raramente con i farmaci attualmente a nostra disposizione [10]. discussione la popolazione detenuta è da considerare a rischio di malattie infettive croniche [15], che possono essere causa di trasmissione all’interno dei penitenziari, ma anche possibili focolai una volta che i soggetti tornano in libertà. in quest’ultimo caso, spesso non si rivolgono alle strutture pubbliche per controlli e terapie delle loro patologie infettive. pertanto il luogo migliore per una corretta diagnosi e una terapia controllata (dot, directly observed therapy) è l’ambiente penitenziario. è essenziale, pertanto, individuarli ed eventualmente trattarli in maniera tempestiva con farmaci efficaci, potenti e vantaggiosi in termini di farmacoeconomia, come tenofovir. nella nostra esperienza abbiamo raggiunto dopo 6 mesi di trattamento una risposta virologica ideale e soddisfacente. nessuno dei soggetti trattati ha presentato breakthrough virologico e tutti hanno ottenuto una soppressione virologica completa. abbiamo confermato l’ottima tollerabilità del farmaco: nessuno dei pazienti trattati ha lamentato la comparsa di sintomatologia accreditabile alla terapia effettuata. tenofovir si è dimostrato maneggevole e dotato di un ottimo profilo di sicurezza. per le ragioni riportate, a nostro giudizio è essenziale trattare anche i casi lievi di malattia hbv-correlata: hbv è un virus carcinogeno diretto e la sua potenziale azione oncogena va arrestata il più precocemente possibile inibendo con un farmaco potente ed efficace come tenofovir i fenomeni di necrosi e degenerazione epatocellulare che fatalmente porteranno nel tempo i pazienti verso cirrosi avanzata ed epatocarcinoma potenzialmente letale, con elevati costi sociali. punti chiave hbv è causa di forme croniche, che possono evolvere in cirrosi epatica ed epatocarcinoma l’epatite cronica b è frequente nella popolazione detenuta nella presente case series sono stati valutati e seguiti per 6 mesi 10 pazienti detenuti nelle carceri del molise affetti da una forma lieve di epatite cronica da hbv trattati con tenofovir tenofovir si è dimostrato efficace (nessun breakthrough virologico e soppressione virologica completa in tutti i pazienti già a partire dal primo mese) e ben tollerato (non è stato rilevato alcun effetto collaterale attribuibile a tenofovir) bibliografia 1. di fiandra t, voller f, bazzerla g, et al. la salute dei detenuti in italia: i risultati di uno studio multicentrico. collana documenti dell’agenzia regionale di sanità della toscana 2015; 83: 1-454. disponibile all’indirizzo https://www.ars.toscana.it/it/pubblicazioni/collana-documenti-ars/pubblicazioni-2015/2977-la-salute-dei-detenuti-in-italia-i-risultati-di-uno-studio-multicentrico-2015.html (ultimo accesso dicembre 2015) 2. world health organization. hepatitis b. luglio 2015. disponibile all’indirizzo http://www.who.int/mediacentre/factsheets/fs204/en/ (ultimo accesso dicembre 2015) 3. poynard t, morra r, halfon p, et al. meta-analyses of fibrotest diagnostic value in chronic liver disease. bmc gastroenterol 2007; 7: 40; http://dx.doi.org/10.1186/1471-230x-7-40 4. castera l. noninvasive methods to assess liver disease in patients with hepatitis b or c. gastroenterology 2012; 142: 1293-302; http://dx.doi.org/10.1053/j.gastro.2012.02.017 5. european association for the study of the liver. easl clinical practice guidelines: management of chronic hepatitis b virus infection. j hepatol 2012; 57: 167-85; http://dx.doi.org/10.1016/j.jhep.2012.02.010 6. brancaccio g, giuberti t, andreone p, et al. the evolving clinical profile of chronic hbv infection – the italian master b cohort. hepatology 2012/10/1 – aasld 2012; 56: 639a-640a 7. boyd a, lasnier e, molina jm, et al. liver fibrosis changes in 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mmwr morb mortal wkly rep 2001; 50: 529-32 cmi 2012;6(suppl 1)5-9.html un caso di febbre non risolta elena guidetti 1, monica cevenini 1, maria luigia cipollini 1, maria camilla fabbri 1, paola tomassetti 1, roberto corinaldesi 1 1 dipartimento di medicina clinica. università degli studi di bologna. ospedale policlinico s. orsola malpighi, via massarenti 9, 40138, bologna, italia abstract fever of unknown origin (fuo) is extremely difficult to diagnose. it is defined as an illness lasting more than 3 weeks with a temperature exceeding 38 °c on several occasions and with an uncertain diagnosis after 1 week of intensive investigations in the hospital. the major causes of fuo are infection, neoplasm, and collagen vascular disease, but the percentages of each of these categories are subject to change due to improvements in diagnostic capability. the diagnostic workup of fuo is complex and, to date, there is no consensus published in the literature regarding guidelines as to the correct approach. a number of diagnostic tests and numerous non-invasive and invasive procedures, which however sometimes fail to explain the fever, are often necessary. in about 20% of cases of fuo the diagnosis is never established. in this article the case of a young man with fever of unknown origin is presented, the cause of which remains undiagnosed, in order to illustrate the difficulties of the diagnostic process. a “watch and wait” approach seems to be acceptable in a clinically stable patient for whom no diagnosis can be made after extensive investigation, and the prognosis is likely to be good. keywords: fever of unknown origin; differential diagnosis of fever; diagnostic workup an unsolved case of fever cmi 2012; 6(suppl 1): 5-9 caso clinico corresponding author prof.ssa paola tomassetti paola.tomassetti@unibo.it perché descriviamo questo caso il caso riportato è esplicativo delle difficoltà del processo diagnostico che il clinico incontra nella valutazione di una febbre di origine sconosciuta, nonostante i continui progressi delle risorse diagnostiche a disposizione, e a causa della mancanza di linee guida di riferimento condivise introduzione nella pratica clinica spesso si presentano pazienti che lamentano una febbre di origine sconosciuta (fever of unknown origin – fuo): tale condizione richiede un attento e complesso inquadramento clinico e diagnostico. “fuo” è un termine coniato da petersdorf e beeson nel 1961 per indicare una febbre prolungata nel tempo (almeno 3 settimane), che supera 38 °c in alcune occasioni, in assenza di una causa definita, nonostante un’approfondita valutazione clinica, di laboratorio e strumentale, di almeno una settimana [1]. in assenza di criteri prestabiliti e univoci di procedimento, la valutazione di una febbre criptica necessita di una diagnosi personalizzata caso per caso e la sua gestione, che spesso richiede un approccio multidisciplinare, rimane tra i problemi più impegnativi per il clinico. a tutt’oggi non esistono ancora linee guida specifiche e condivise, ma solo, da una revisione della letteratura, uno schema di approccio diagnostico ipotetico-deduttivo, basato su singoli casi e studi prospettici con casistica limitata [2,3], che ancora necessitano di ulteriore discussione. caso clinico un paziente di 22 anni veniva ricoverato nel settembre 2011 nella u.o. di medicina interna per l’insorgenza di febbricola persistente (37,2 °c) da circa cinque mesi, con occasionali picchi (fino a 40 °c), associata a un rialzo marcato e oscillante delle transaminasi di natura da determinare. il paziente riferiva inoltre, nel corso degli accessi febbrili, la presenza di artromialgie diffuse, faringodinia e astenia marcata. negava viaggi all’estero recenti. i parametri vitali e l’obiettività polmonare erano nella norma. l’addome si presentava trattabile, dolente alla palpazione profonda in ipocondrio destro e mesogastrio, senza segni obiettivi di organomegalia. i segni di murphy e di blumberg erano negativi. l’esame obiettivo del cavo orale dimostrava un’iperemia delle tonsille palatine. non erano invece apprezzabili linfoadenomegalie superficiali e palpabili, tumefazioni articolari né rash cutanei. dall’anamnesi raccolta emergeva un abuso di sostanze anabolizzanti a scopo culturistico, della durata di circa 7-10 giorni e sospeso da circa un mese. le sostanze utilizzate erano state: gonadotropina corionica umana, clomifene, mesterolone, liotironina, clenbuterolo e stanazolo. gli esami bioumorali eseguiti all’ingresso evidenziavano esclusivamente un’ipertransaminasemia (got = 169 u/l, gpt = 402 u/l), mentre non erano presenti alterazioni degli indici di colestasi e di flogosi. l’emocromo, la funzionalità epatica, renale e tiroidea, il sangue occulto fecale (sof), l’assetto anticorpale completo per l’autoimmunità e i marker neoplastici risultavano negativi. lo striscio di sangue periferico osservato al microscopio ottico documentava la presenza di un quadro di normalità, come pure la tipizzazione linfocitaria, richiesta nel sospetto di un’alterazione ematologica. la radiografia del torace escludeva lesioni pleuroparenchimali in atto o versamenti pleurici. l’elettrocardiogramma e l’ecocardiogramma risultavano nella norma, escludendo un quadro di endocardite batterica. nell’ipotesi di un’eziologia infettiva, sono stati eseguiti esami sierologici per epatite c, b, treponema pallidum, citomegalovirus, adenovirus, parvovirus b19, virus di epstein-barr, brucella spp., salmonella typhi, borrelia burgdorferi, legionella pneumophila, aspergillus spp., leishmania donovani, toxoplasma gondii, toscana virus, chikungunya virus e west nile virus, i quali sono risultati tutti negativi per infezione in atto. l’esame parassitologico delle feci non evidenziava parassiti o uova di elminti. nel corso del ricovero il paziente ha presentato due accessi febbrili accompagnati da brivido scuotente con temperatura fino a 40 °c, della durata ciascuno di circa 3 giorni e che si sono risolti spontaneamente senza alcuna terapia antibiotica. durante tali episodi sono stati ripetutamente prelevati campioni di sangue e urine per esami colturali, i quali sono però risultati tutti negativi. da un approfondimento anamnestico è emerso un pregresso contatto con un familiare affetto da tubercolosi, ma gli accertamenti condotti hanno escluso la possibilità di malattia tubercolare in atto. nella ricerca di un possibile focus infettivo da sede non identificata, è stata richiesta una pet total body con 18-fluorodesossiglucosio (18-fdg), che non ha però mostrato alcun reperto patologico. al fine, invece, di escludere un disordine di natura neoplastica, o un possibile ascesso intraddominale, frequenti cause di fuo, è stata eseguita una tc torace-addome, la quale ha evidenziato la presenza di multipli linfonodi mesenteriali e un’area di ispessimento dell’ultima ansa ileale con captazione del mezzo di contrasto. alla luce di tale reperto, nel sospetto di una malattia infiammatoria intestinale, è stata eseguita un’ecografia dell’addome con studio delle anse intestinali, la quale però non ha confermato il reperto osservato alla tc. la pancolonscopia condotta fino all’ileo terminale non ha documentato alterazioni significative e l’esame istologico appariva caratterizzato da mucosa ileale con espansione dei follicoli linfoidi e aggressione ghiandolare. tale dato era insufficiente per porre diagnosi di malattia infiammatoria cronica intestinale. quindi, al fine di escludere l’eventualità di una malattia delle vie biliari alla base della febbricola e dell’ipertransaminasemia, è stata eseguita una colangio-rmn, che è risultata negativa. si procedeva, infine, a biopsia epatica al fine di chiarire la possibile presenza di malattia epatica. il quadro istopatologico, sottoposto a discussione collegiale fra clinici e patologi, è risultato a favore di una forma di epatite aspecifica, di non univoca interpretazione, con aspetti dismetabolici e tossici. tale dato potrebbe essere inquadrato nel contesto di una patologia sistemica, la cui eziologia, nonostante i numerosi esami strumentali e laboratoristici effettuati, non è stata chiarita e sulla quale si sarebbe inserito il recente danno tossico da abuso di anabolizzanti. il caso riportato rientra in quel 20% circa dei casi di fuo riportati in letteratura [4] che, nonostante i progressi delle risorse diagnostiche a nostra disposizione, rimangono non diagnosticati. discussione classificazione della fuo classica nosocomiale associata a immunodepressione (pazienti neutropenici e trapiantati) associata a infezione da hiv tabella i. classificazione della fuo (fever of unknown origin) [5,6] la classificazione della fuo è riportata nella tabella i. le cause principali di fuo sono riferibili a infezioni (circa il 28% delle casistiche), a neoplasie (17%) e a malattie infiammatorie a patogenesi non infettiva quali malattie reumatologiche e granulomatose (21%) [1,7] (tabella ii). nell’ambito delle infezioni, studi clinici riportano una maggiore prevalenza di tubercolosi, ritenuta scomparsa da alcuni decenni sul nostro territorio, ma in progressivo aumento negli ultimi anni. sul versante neoplastico, invece, i tumori più comuni che si presentano con un quadro di fuo appartengono soprattutto alla sfera ematologica (es. linfomi e leucemie), ma tra le principali patologie sottostanti si annoverano anche l’epatocarcinoma, i tumori metastatici del fegato e il carcinoma renale [8]. la febbre può essere correlata alla malattia stessa o a infezioni concomitanti, ostruzioni localizzate da tumore, complicazioni operatorie o post-operatorie. tuttavia il numero di casi di fuo maligna sono in diminuzione rispetto ai dati del passato, a causa dell’aumento delle possibilità diagnostiche offerte dall’imaging più moderno. tra le forme collageno-vascolari, le più rappresentate sono l’artrite reumatoide, il morbo di still dell’adulto, il lupus eritematoso sistemico (les), la sarcoidosi, la polimialgia reumatica e l’arterite di horton nell’anziano. infezioni localizzate: endocardite ascessi intraddominali infezioni del tratto urinario infezioni del tratto respiratorio osteomielite generalizzate: batteriche micobatteriche virali fungine neoplasie disordini linfoproliferativi tumori solidi forme collageno-vascolari morbo di still dell’adulto polimialgia reumatica arterite a cellule giganti altre forme di vasculite (es. arterite di takayasu, ecc.) altri disordini reumatologici (es. lupus eritematoso sistemico, artrite reumatoide, ecc.) febbre da farmaci febbre fittizia altre (es. febbre mediterranea familiare, ipertiroidismo, tiroidite, insufficienza cortico-surrenale, ecc.) tabella ii. le cause principali di fuo (fever of unknown origin) [1,7] un’ulteriore origine di fuo che va sempre tenuta in considerazione è l’ipertermia da farmaci (antibiotici, farmaci antinfiammatori non steroidei, farmaci psicotropi e antitumorali) e la febbre da inganno o fittizia. quest’ultima molto spesso viene attribuita a simulazione al fine di ottenere vantaggi concreti, ma talora riconosce cause oscure di natura psicologica, come la ricerca di vantaggi secondari o la fuga da situazioni stressanti [8]. motivi clinici che possono portare il medico a porne il sospetto sono un andamento atipico della febbre, associato ad anamnesi complicate e illogiche e all’assenza di segni indiretti di rialzo della temperatura corporea come cute calda, tachicardia e brivido. per il vasto spettro di morbilità chiamate in causa, la gestione deve essere multidisciplinare e plurispecialistica. nell’approccio diagnostico non si può prescindere da un’attenta anamnesi e dal tradizionale esame obiettivo, che deve essere ripetuto con attenzione più volte al giorno. per ciò che concerne l’anamnesi, è importante considerare se altri membri della famiglia siano stati affetti o siano affetti da una malattia simile. in tal caso la causa potrebbe risiedere nell’esposizione a un agente infettivo, oppure la malattia potrebbe avere una base ereditaria (es. febbre mediterranea familiare). una malattia multisistemica che si manifesti episodicamente, più volte nell’arco di anni, deve porre il sospetto di una collagenopatia. l’occupazione del paziente deve essere sempre investigata in quanto può fornire indizi importanti su una eventuale esposizione professionale responsabile della fuo. di pari importanza è altresì l’indagine su un viaggio all’estero pregresso, poiché la conoscenza della località geografica in cui il paziente è stato può indirizzare la ricerca su malattie endemiche tipiche del luogo piuttosto che su quelle comunemente presenti nel paese di origine. da una revisione sistematica che ha preso in esame la letteratura pubblicata tra gennaio 1966 e dicembre 2000 riguardante la fuo, emergono diversi livelli di evidenza associati ai vari test diagnostici [9]. nella tabella iii sono elencati gli esami diagnostici di primo, secondo e terzo livello per l’indagine sulle cause della fuo. esami di primo livello esame emocromocitometrico con formula indici di flogosi funzionalità renale ed epatica elettroforesi delle sieroproteine transaminasi, lattato deidrogenasi, creatinfosfochinasi e gamma gt esame delle urine e urinocoltura sangue occulto fecale, coprocoltura emocolture (almeno 3 campioni per germi aerobi e anaerobi) intradermoreazione alla tubercolina rx torace, ecografia dell’addome completo esami di secondo livello indagini sierologiche, marcatori neoplastici, autoimmunità ecocardiografia visite specialistiche esami endoscopici tc, rmn esami di terzo livello pet con 18-fdg biopsia epatica biopsia arteria temporale biopsia midollare tabella iii. elenco degli esami diagnostici raccomandati nella ricerca dell’eziologia della fuo in particolare emerge come la tc torace-addome costituisca la metodica maggiormente in grado di discriminare tra due delle più comuni cause di fuo: l’ascesso addominale e i disordini linfoproliferativi. a tal fine anche la medicina nucleare può essere di ausilio. in particolare recenti studi dimostrano un’alta specificità (94%) del radiotracciante tecnezio (tc), associata, però, a una bassa sensibilità (40-75%), e presentano risultati promettenti riguardo all’utilizzo del fluorodesossiglucosio [10,11]. nel sospetto di un’endocardite, responsabile dell’1-5% dei casi di fuo, l’applicazione dei criteri di duke maggiori, quali la dimostrazione della presenza del germe patogeno nell’emocoltura, il reperto di lesioni endocardiche e di un nuovo soffio, e minori risulta avere un’alta specificità (99%) e sensibilità (82%) [12]. tra gli esami invasivi di terzo livello la biopsia epatica presenta un elevato livello di evidenza [13], così come la biopsia dell’arteria temporale. la biopsia midollare, per la sua bassa sensibilità, non è raccomandata di routine e l’indicazione viene lasciata alla discrezionalità del clinico in quei casi in cui persista il dubbio di una malattia ematologica sottostante. di incerta utilità e vantaggio rimangono invece l’esecuzione di un’esplorazione chirurgica e l’inizio di una terapia empirica a base di antibiotici o corticosteroidi, i quali potrebbero essere un elemento confondente la diagnosi e il quadro clinico del paziente. conclusioni in letteratura non si trovano approcci sistematizzati per questo tipo di patologia, ma solo algoritmi non formali basati sulle esperienze cliniche e non sottoposti a un adeguato processo di validazione. nei pazienti in cui la messa in atto di tutte le strategie a nostra disposizione non abbia portato ad alcun risultato diagnostico, appare ragionevole continuare con il solo follow-up e la rivalutazione clinica frequente al fine di poter cogliere eventuali nuovi elementi diagnostici, evitando di perseverare in ulteriori indagini di tipo invasivo e con dubbio vantaggio in termini di costo-beneficio [8]. spesso infatti la causa risiede più che in una patologia rara, in una comune malattia con presentazione insolita. punti chiave il termine fuo indica una febbre prolungata nel tempo (almeno 3 settimane), che supera 38 °c in diverse rilevazioni, in assenza di una causa definita, nonostante un’approfondita valutazione clinica, di laboratorio e strumentale, di almeno una settimana si classifica in: classica, nosocomiale, associata a immunodepressione (pazienti neutropenici e trapiantati) e associata a infezione da hiv le cause principali di fuo sono riferibili a infezioni, neoplasie e malattie infiammatorie a patogenesi non infettiva quali malattie reumatologiche e granulomatose in assenza di criteri prestabiliti e univoci di procedimento, la sua gestione richiede un attento e complesso inquadramento clinico e diagnostico nei casi di fuo, come quello riportato, in cui la messa in atto di tutte le strategie a disposizione non abbia portato ad alcun risultato diagnostico, appare ragionevole continuare con la sola osservazione e rivalutazione clinica bibliografia petersdorf rg, beeson pb. fever of unexplained origin (fuo): report on 100 cases. medicine (baltimore) 1961; 40: 1-30 kejariwal d, sarkar n, chakraborti sk, et al. pyrexia of unknown origin: a prospective study of 100 cases. j postgrad med 2001; 47: 104-7 bleeker-rovers cp, vos fj, de kleijn em, et al. a prospective multicenter study on fever of unknown origin: the yield of a structured diagnostic protocol. medicine (baltimore) 2007; 86: 26 mourad o, palda v, detsky as. a comprensive evidence-based approach to fever of unknown origin. arch intern med 2003; 163: 545-51 tolia j, smith lg. fever of unknown origin: historical and physical clues to making the diagnosis. infect dis clin n am 2007; 21: 917-36 durack d, street a. fever of unknown origin: reexamined and redefined. curr clin top infect dis 1991; 11: 35-51 varghese gm, trowbridge p, doherty t. investigating and managing pyrexia of unknown origin in adults. bmj 2010; 341: c5470 hirschmann jv. fever of unknown origin in adults. clin infect dis 1997; 24: 291-302 mourad o, palda v, detsky as. an evidence-based approach to fever of 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di bologna, ospedale policlinico s. orsola malpighi, via massarenti 9, 40138, bologna, italia abstract we report the case of a 48-year-old woman, with a rapidly progressing acth neuroendocrine tumour of the pancreas (pnet) and multiple liver metastases. the patient had previously suffered from a peptic ulcer which was responsive to ppi inhibitors and hypertension which was poorly controlled by therapy. admitted to the hospital for severe asthenia and abdominal pain, she was diagnosed with poorly differentiated pnet with liver metastases, which were positive for synaptophysin, cytokeratin 7 and 9 and neuron specific enolase (nse). octreoscan scintigraphy was positive for somatostatin receptors in the pancreas and in two liver lesions. a rapidly progressive cushing’s syndrome developed, presenting with the classical physical symptoms, hypokalemia and lysteria monocytogenes meningitis. ectopic acth production was confirmed and eventually the patient died from a septic shock within two months. the case reported focuses on the malignity and the rapid progression of an acth-producing pnet and calls attention to the possible fatal progression of these cases. keywords: ectopic adrenocorticotropic hormone syndrome; cushing’s syndrome; nets; pancreatic neuroendocrine tumours a case of ectopic acth secretion cmi 2012; 6(suppl 1): 17-22 caso clinico corresponding author prof.ssa paola tomassetti paola.tomassetti@unibo.it perché descriviamo questo caso il caso clinico da noi descritto è un esempio di tumore neuroendocrino pancreatico a secrezione di acth. riteniamo che sia di notevole interesse sia per la rarità di tale malattia, sia per la modalità improvvisa e paradigmatica con cui la sindrome di cushing si è manifestata nella nostra paziente introduzione la sindrome di cushing endogena è una patologia che si riscontra più frequentemente nelle donne e può essere suddivisa in sindrome acth-dipendente e acth-indipendente (tabella i). la forma acth-dipendente ricopre l’80% dei casi: di questi, l’80% è dato da un adenoma ipofisario secernente acth (malattia di cushing), mentre il restante 20% da una neoplasia non ipofisaria secernente acth (sindrome da produzione ectopica) [1-3]. la forma acth-indipendente, invece, è dovuta, nella maggior parte dei casi, a un adenoma surrenalico (60%) o a un carcinoma (40%) monolaterale; raramente è secondaria a una iperplasia surrrenalica macronodulare [1,2,4]. la sindrome di cushing causata dalla secrezione di acth ectopico è una delle più comuni sindromi endocrine paraneoplastiche; nella metà dei casi è determinata da un tumore a piccole cellule del polmone, nella restante parte da tumori neuroendocrini del polmone, del timo, del pancreas, da un carcinoma midollare della tiroide o dal feocromocitoma. nell’8-19% dei casi il tumore primitivo rimane occulto [1,2,5]. tipo di sindrome di cushing cause prevalenza in percentuale rispetto al tipo acth-dipendente (80%) adenoma ipofisario secernente acth (malattia di cushing) 70% tumore non ipofisario secernente acth (sindrome da produzione ectopica) 10% acth-indipendente (20%) adenoma surrenalico 10% carcinoma surrenalico monolaterale 5% iperplasia surrenalica macronodulare < 2% malattia pigmentata nodulare surrenalica < 2% sindrome di mccune-albright < 2% tabella i. tipologie di sindrome di cushing, cause e prevalenze caso clinico figura 1. biopsia di tessuto epatico: valutazione dell’indice di proliferazione. ki67 = 55,9% (nec, g3) una donna di 48 anni viene ricoverata in ambiente ospedaliero nell’agosto del 2011 per la presenza, da circa un mese, di astenia marcata, gonfiore addominale e incremento ponderale. l’anamnesi patologica remota evidenzia un’ipertensione arteriosa scarsamente controllata dalla terapia farmacologica e una storia di ulcera gastrica, in terapia con inibitori di pompa protonica con risoluzione del quadro. durante il ricovero vengono effettuati esami ematochimici con riscontro di: marcata anemia (hb = 9,8 g/dl, vn = 12,0-16,0 g/dl); riduzione dell’ematocrito (ematocrito = 31,9%, vn = 37,0-47,0); leucocitosi neutrofila con linfocitopenia (neutrofili = 10,66 × 10³/μl, vn = 1,50-8,00 × 10³/μl; linfociti = 0,52 × 10³/μl, vn = 0,90-4,00 × 10³/μl); lieve rialzo delle transaminasi (got = 56 u/l, vn < 32 u/l; gpt = 89 u/l, vn < 31 u/l). all’esame obiettivo non sono presenti alterazioni di rilievo. per ricercare la causa dell’anemia vengono eseguite una esofagogastroduodenoscopia, che rileva una gastrite cronica in fase di lieve attività, e una pancolonscopia, risultata nella norma. una ecotomografia dell’addome mostra la presenza di una massa in sede cefalo-pancreatica e di multiple formazioni nodulari a livello del parenchima epatico. la tc torace-addome conferma il quadro addominale e non evidenzia alterazioni patologiche a livello toracico. per meglio caratterizzare la massa tumorale viene effettuata una biopsia epatica con riscontro di tessuto infiltrato da carcinoma neuroendocrino scarsamente differenziato (nec con ki67 = 55,9% secondo who 2010 [6]) (figura 1), positivo per sinaptofisina, enolasi neuronospecifica (nse), cromogranina a (cga) e citocheratina 7 e 9 (figura 2). il dosaggio dei marcatori aspecifici di neoplasia neuroendocrina mostra un marcato incremento dell’nse (nse = 235 ng/ml, vn < 12,5 ng/ml) e della cga sierica (cga sierica = 354 ng/ml, vn < 35 ng/ml) e una scintigrafia con octreoscan una debole positività per i recettori della somatostatina (sstr) a livello della lesione pancreatica e di solo due lesioni epatiche. a novembre dello stesso anno la paziente viene nuovamente ricoverata per l’insorgenza di uno stato settico secondario a meningite da listeria monocytogenes e per multipli focolai bronco-pneumonici da staphylococcus aureus meticillino-resistente. gli esami ematochimici rilevano una severa leucopenia e ipokaliemia, quest’ultima scarsamente responsiva alla terapia con potassio per via parenterale. si osserva inoltre la comparsa di un quadro clinico caratterizzato da incremento glicemico e modificazione dell’obiettività con comparsa di cute bronzina, ittero, ipertricosi, alterata distribuzione del pannicolo adiposo sottocutaneo con gibbo. figura 2. a e b: biopsia di nodulo non captante alla pet con 68gallio con marcatura per sinaptofisina (a) e colorazione con ematossilina-eosina (b); c e d: biopsia di nodulo captante alla pet con 68gallio con marcatura per sinaptofisina (c) e colorazione con ematossilina-eosina (d) l’elevata suscettibilità alle infezioni, l’ipertensione, l’ipopotassiemia, il riscontro di elevati livelli glicemici e un caratteristico habitus, in presenza di una neoplasia endocrina pancreatica pongono il sospetto di sindrome di cushing da secrezione ectopica di acth. per confermare tale sospetto viene effettuato il dosaggio degli ormoni corticotropi con riscontro di elevati livelli di acth (acth = 338 pg/ml, vn = 5-60 pg/ml), di cortisolo circolante (cortisolo circolante > 630 ng/ml, vn = 62-194 ng/ml) e di cortisolo libero urinario (cortisolo libero urinario > 630 mg/die, vn = 36-137 mg/die). successivamente viene eseguita una nuova valutazione immunoistochimica su tessuto tumorale che evidenzia una forte positività per cellule secernenti acth, confermando quindi definitivamente la diagnosi di neoplasia neuroendocrina a produzione di acth. a novembre del 2011 l’instaurarsi di uno stato di shock settico determina il decesso della paziente per arresto cardio-circolatorio. discussione i tumori neuroendocrini del pancreas (pnet) sono neoplasie rare, rappresentando il 5-7% di tutti i tumori neuroendocrini (net) e meno del 3% dei tumori pancreatici [7]. i tumori non funzionanti costituiscono il 90% di tali neoplasie, quelli funzionanti il 10%. i pnet funzionanti sono costituiti da [8]: insulinomi; gastrinomi; glucagonomi; vipomi; somatostatinomi (i più rari). i pnet secernenti acth sono neoplasie estremamente rare: rappresentano infatti solo l’1,2% dei pnet e costituiscono il 15% dei casi di sindromi da acth ectopico [9]. si presentano più frequentemente in donne adulte [10] e nella maggior parte dei casi sono neoplasie ben differenziate; solo in una piccola parte sono tumori scarsamente differenziati [11-13]. si tratta di neoplasie maligne con comportamento aggressivo; alla diagnosi spesso presentano metastasi a linfonodi, fegato, reni, tiroide, ossa e peritoneo. in un solo caso sono state descritte metastasi ovariche [14]. a causa della rapida progressione di malattia, la prognosi è negativa, con un tasso di sopravvivenza a 2 e 5 anni rispettivamente del 40% e del 16% [15]. in queste neoplasie la sindrome può presentarsi con un decorso acuto, rapidamente progressivo, o cronico. la presentazione acuta è associata a una rapida insorgenza di ipertensione, edema, ipokaliemia, diabete e il classico habitus può non essere presente. questa forma è generalmente data da un carcinoma a piccole cellule del polmone [16-18]. nel nostro caso, invece, nonostante la rapida insorgenza di malattia, la paziente presentava una forma florida con tutte le caratteristiche della sindrome. la forma cronica, invece, è caratterizzata dalla presentazione classica con obesità centrale, gibbo e strie rubre. la sindrome, inoltre, può rappresentare la prima manifestazione della malattia che permette la diagnosi di neoplasia oppure può insorgere in un secondo momento, quando la malattia è già stata diagnosticata [3,19]. il primo caso è associato alla presenza di una malattia indolente, mentre il secondo a una malattia aggressiva. in letteratura è stato descritto, in questo tipo di neoplasie, uno switch fenotipico fra il tumore primitivo e le metastasi, cioè fra un fenotipo non secernente acth e un fenotipo secernente. sono stati descritti, infatti, tumori pancreatici secernenti acth già alla diagnosi in assenza di metastasi, ma anche tumori che hanno iniziato a produrre acth solo alla comparsa della malattia epatica [20]. ciò è indicativo di un processo di differenziazione a cui vanno incontro le cellule tumorali nel corso della progressione di malattia. nel nostro caso l’elevata aggressività della malattia e il breve lasso di tempo intercorso tra la diagnosi di tumore metastatico e la comparsa di sindrome di cushing non hanno permesso di accertare se la produzione ectopica di ormone corticotropo fosse dovuta alla lesione pancreatica e ai secondarismi epatici o alle sole metastasi epatiche. infatti l’immunoistochimica è risultata positiva a livello di una biopsia di un’unica lesione epatica. in letteratura è stata comunque riportata, in tumori secernenti acth, la presenza di subpopolazioni di cellule non secernenti [8,21,22]. inoltre, la negatività per l’acth potrebbe indicare una continua e non pulsatile secrezione di tale ormone in cellule secernenti, senza stoccaggio endocellulare, per cui nemmeno una negatività all’immunoistochimica del tumore primitivo avrebbe potuto escludere la produzione primitiva di peptidi. delle numerose lesioni epatiche evidenziate alla tc, solamente due sono risultate captanti alla scintigrafia con octreoscan. questo quadro è compatibile con una ridotta espressione dei recettori della somatostatina conseguente alla perdita di differenziazione dei cloni cellulari metastatici, di solito associata a una maggiore aggressività della malattia. conclusioni la storia clinica della nostra paziente è stata segnata dalla severa immunodepressione indotta dal cortisolo, che ha portato rapidamente all’exitus, inficiando la prognosi e non permettendo l’attuazione di una terapia mirata che, in questo caso, avrebbe previsto un intervento di surrenalectomia, non essendo possibile la resezione del tumore primitivo, e una terapia a lungo termine con analoghi della somatostatina a scopo citostatico e citoriduttivo. la resezione radicale del tumore primitivo, in questo tipo di malattia, rappresenta il miglior approccio terapeutico [1,2]. quando questa non sia possibile, al fine di ovviare alla secrezione incontrollata di cortisolo, si pratica la surrenalectomia bilaterale, come era stato proposto per la nostra paziente. la terapia medica di supporto prevede la somministrazione di farmaci inibitori della sintesi e secrezione di cortisolo, come ketoconazolo, metirapone e mitotano [23,24]. ketoconazolo e metirapone hanno rapida azione, ma spesso il controllo dell’ipercortisolismo viene perso a causa dell’ipersecrezione di acth conseguente a feedback [25]. nella nostra paziente era stata iniziata la terapia con ketoconazolo sia a scopo profilattico antifungino, a causa della sua immunodepressione, sia sintomatico. il decorso infausto e rapidamente progressivo della malattia non ha permesso di prendere in considerazione alcuna terapia chirurgica. per quanto riguarda invece la terapia medica, non si è potuta constatare l’efficacia di alcuna terapia, né delle terapie mirate alla riduzione della sintesi di cortisolo né della terapia con analoghi della somatostatina, non potendo in questo caso verificare il loro effetto nel controllo della sintomatologia e del loro effetto citostatico sulla massa, né tanto meno vi è stato il tempo per prendere in considerazione una terapia con chemioterapici, indicata dall’alto indice di proliferazione. algoritmo diagnostico punti chiave la sindrome di cushing si distingue in due forme: acth-dipendente (80%) e acth-indipendente (20%) la forma acth-dipendente nell’80% dei casi è data da un adenoma ipofisario secernente acth (malattia di cushing), nel restante 20% da un tumore non ipofisario secernente acth (sindrome da produzione ectopica) i tumori neuroendocrini del pancreas (pnet) costituiscono il 3% delle neoplasie pancreatiche e il 5-7% di tutti i net il 90% dei pnet è non-secernente, mentre il restante 10% è secernente i pnet secernenti acth sono neoplasie estremamente rare e costituiscono il 15% dei casi di sindrome da secrezione di acth ectopico i pnet secernenti acth sono neoplasie maligne ad andamento aggressivo, con un tasso di sopravvivenza a 2 e 5 anni rispettivamente del 40% e del 16% la sindrome di cushing si può presentare in forma acuta o cronica le conseguenze dell’iperincrezione di cortisolo influenzano in modo significativo il decorso della malattia bibliografia ilias i, torpy dj, pacak k, et al. cushing’s syndrome due to ectopic corticotropin secretion: twenty years’ experience at the national institutes of health. j clin endocrinol metab 2005; 90: 4955-62 isidori am, kaltsas ga, pozza c, et al. the ectopic adrenocorticotrophin syndrome: clinical features, diagnosis, management and long-term follow-up. j clin endocrinol metab 2006; 91: 371-7 wajchenberg bl, mendonca bb, liberman b, et al. ectopic adrenocorticotropic hormone syndrome. endocr rev 1994; 15: 752-87 lacroix a, ndiaye n, tremblay j, et al. ectopic and abnormal hormone receptors in adrenal cushing’s syndrome. endocr rev 2001; 22: 75-110 salgado lr, fragoso mc, knoepfelmacher m, et al. ectopic acth syndrome: our experience with 25 cases. eur j endocrinol 2006; 155: 725-33 bosman ft. who classification of tumor of the digestive system. lyon: iarc press, 2010 yao jc, hassan m, phan a, et al. one hundred years after “carcinoid”: epidemiology of and  prognostic factors for neuroendocrine tumors in 35,825 cases in the united states. j clin oncol 2008; 26: 3063-72 halfdanarson tr, rabe kg, rubin j, et al. pancreatic neuroendocrine tumors (pnets): incidence, prognosis and recent trend toward improved survival. ann oncol 2008; 19: 1727-33 aniszewski jp, young wf, thompson gb, et al. cushing syndrome due to ectopic adrenocorticotropic hormone secretion. world j surg 2001; 25: 934-40 la rosa s, furlan d, sessa f, et al. the endocrine pancreas. in: lloyd rv (a cura di). endocrine pathology. differential diagnosis and molecular advances. 2nd ed. new york: springer, 2010; pp. 367-413 corrin b, gilby ed, jones nf, et al. oat cell carcinoma of the pancreas with ectopic acth secretion. cancer 1973; 31: 1523-7 kitchens cs, alexander rw. cushing’s syndrome secondary to a 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(june 2016 june 2017) the editorial staff of clinical management issues (cmi) would like to thank all the reviewers who, with their support and their active cooperation, have contributed to improving the scientific rigor, precision and accuracy of the contents. fabrizio anniballi filippo antonini simonetta bernardini béatrice bouvard francesco paolo cantatore giuseppe caparrotti simonetta caria luis josé catoggio andrea cestari giuseppe fagone paolo fascio pecetto ilaria izzo vincenzo la milia marco lanzillotta pier luigi meroni franco mongini marta mosca giuseppe mulè nariman nawar marica pecis raffaele pezzilli matteo piga maurizio pompili gian domenico sebastiani olivier sitbon marco sparaco serena vita valerio vizzardi cmi 2016;10(3)63-67.html s.va.m.di.: a new opportunity for the national health system simona de simoni 1, cecilia arriga 2, silvia dari 3, giuseppe cimarello 4 1 uos formazione, asl viterbo 2 corso di laurea magistrale in scienze riabilitative delle professioni sanitarie, università la sapienza, roma 3 coordinamento vaccinazioni, dipartimento di prevenzione, asl di viterbo 4 dipartimento per il governo dell'offerta e cure primarie, asl di viterbo abstract multi-dimensional assessment is still evolving today. object of our study is not only the transition from the s.va.m.a form («scheda per la valutazione multidimensionale dell’anziano» – questionnaire for multidimensional evaluation of the elderly) to the s.va.m.di form («scheda di valutazione multidimensionale del disabile» – questionnaire for the multidimensional assessment of disabled individuals), but the administration of s.va.m.di to subjects included in a «pai» («piano assistenziale individuale» – individual assistance plan). this integration is designed to facilitate the access of patients to home care, integrated home care and residential and semi-residential care. during 2015 the s.va.m.di questionnaire was administered on an experimental basis within the adult disability service of asl viterbo to a random mode selected sample of 108 residents of the viterbo province with a diagnosis of mental retardation (mild, moderate, moderate/severe and severe). s.va.m.di is an anamnestic, diagnostic, evaluative and prescriptive tool, useful for an integrated approach in the patient’s care in the health, social health and / or social dimensions; it is a tool that describes the decision processes and allows statistical and epidemiological analysis. the analysis of the results showed that the s.va.m.di is certainly a very complex questionnaire to be completed, in terms of working hours devoted to the writing and the complexity in processing. however, it has considerable advantages as regards the completeness and accuracy of the data collected. essential for its implementation and adoption is the adequate training of health professionals involved. keywords: multi-dimensional assessment; mental retardation; pai (piano assistenziale individuale); s.va.m.di. (scheda di valutazione multidimensionale del disabile); disability s.va.m.di.: una nuova opportunità per il servizio sanitario nazionale cmi 2016; 10(3): 63-67 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v10i3.1265 brief report corresponding author silvia dari silvia.dari@asl.vt.it disclosure the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article introduction multi-dimensional assessment is still evolving today, as reflected by the different questionnaires which are used for social and health services. in italy multi-dimensional assessment questionnaires are activated by general practitioners and pediatricians as a result of the access to the social and health care system through the «pua» («punto unico di accesso» –single access point). they are organized by the social and rehabilitation district which always acts on behalf of the district director. the evaluation and taking charge carried out by the «uvma» («unità di valutazione multidimensionale distrettuale» – district multidimensional assessment unit) also serves as a monitoring and database tool [1]. in italy there are two main tools used for this purpose: the s.va.m.a form («scheda per la valutazione multidimensionale dell’anziano» – questionnaire for multidimensional evaluation of the elderly) and the s.va.m.di form («scheda di valutazione multidimensionale del disabile» – questionnaire for the multidimensional assessment of disabled individuals). both forms have been created in the veneto region. in 1999 the veneto region approved s.va.m.a for the elderly, valid for the whole region, and used it for the definition of the self-sufficiency and for access to home and residential care services [2]. s.va.m.a did not sufficiently describe the disability of the user, and the veneto region introduced a first version of the s.va.m.di, based on the icf (international classification of functioning, disability, and health) framework, testing it in 10 local health care systems (a.ulss) of the region [3-4]. at the end of this first trial, the veneto region approved the use of s.va.m.di throughout the whole region and introduced the questionnaire in the uvma [1] with the aim to define individual plans, synthetic profiles and priorities for access to services for users with disabilities. in august 2007, the veneto region launched a special experimental project, in order to validate the evaluation system, to produce measurable and comparable results, and to manage the waiting lists. the scientific responsibility of this trial was entrusted to the centre don calabria in verona [5]. from 2007 to 2009, the s.va.m.di was used in the veneto region and an updated version was made official [6]. in addition, the «osservatorio regionale» (regional observatory) was involved in the project, with a dual task: a) to establish training courses for the operators; b) to coordinate the management of the questionnaire through the web, by facilitating the access to icd-x (international classification of diseases 10th revision) and icf [7]. in those years, an extended use of the questionnaire was implemented in every sphere of adulthood, including evaluation, taking charge, access to residential and semi-residential care services, interventions and services provided by regional law and labor integration. between september and december 2009, a training for all local health care systems (a.ulss) was organized, selecting a contact in the healthcare area and one in the social area, who in turn become trainers, thereby enlarging the analyzed sample to 1,500 cases [3]. at last, in 2012 the s.va.m.di was introduced in the veneto region [8], with all the changes and additions made to the previous official version [6]. after years of trial, it reaches its final form in 2014 [3,9]. several italian regions, including valle d’aosta, calabria, campania, puglia and lazio, have adopted it. the s.va.m.di questionnaire is developed on the icf structure and conceptual organization and completes the icd-x classification, including information on diagnosis and etiology of the disease. the icf is structured into four main components: body functions, body structures, activities and environmental factors [10,11]. the s.va.m.di includes 137 codes (icf checklist adults), in which the interaction between ability and disability of a person is seen in terms of process or results. it consists of 4 sections which include [3,4,7,10,11]: part 1a, impairments of the body functions; part 1b, impairments of body structures (compiling 1a and 1b rests with a doctor) part 2, limitations (to be compiled by a psychologist or professional educator/therapist); part 3, environmental factors; part 4, more information about the context (part 3 and 4 are compiled by a social worker or a professional educator therapist – the same as part 2); social evaluation (to be compiled by a social worker). it can be accompanied by additional descriptive pages of relevant situations. the questionnaire is aimed mainly at improving access to the system of services and not primarily for case management. in addition, it can also be useful to have a first picture of the user’s economic situation and, as a result, to quantify the welfare and rehabilitation charge for the national health system. following the participation of some healthcare professionals to a conference on the use of s.va.m.di held in 2015 at the opera don calabria in rome [12], the s.va.m.di has been the subject of study by the adult disability service («servizio disabile adulto») of the local health authorities (asl) of viterbo. besides, professionals have felt the need to update and discuss the method of use of the «pai» («piano assistenziale individuale» / individual assistance plan) which is also based on icf, and its integration with the s.va.m.di, as an aid to facilitate the access of patients to home care services, residential and semi-integrated care. the pai was adopted by the adult disability service of asl viterbo in 2012, with the taking charge of the users of the services of children neuropsychiatry («neuropsichiatria infantile» – npi) when they turn 18 and join the adult users group. the pai is developed by a team and is a summary document that collects and describes in a multidisciplinary perspective the assessment of each user, in order to start an assistance, care and rehabilitation plan for a specific user [13,14]. object of the present study is not only the transition from s.va.m.a form used for elderly people to the s.va.m.di form used for people with disabilities, but also the application of the s.va.m.di form to subjects included in the pai [3]. materials and methods during 2015 the s.va.m.di questionnaire was administered on an experimental basis within the adult disability service of asl viterbo to a random mode selected sample of 108 residents of the viterbo province with a diagnosis of mild, moderate, moderate/severe and severe mental retardation. many patients present comorbidity with other diseases and all are subject to a pai, carry out rehabilitative and welfare activities, and some of them take part in social rehabilitation training. the s.va.m.di form was administered by professional members of a highly specialized team, composed of doctors, psychologists, therapists, social workers and other rehabilitation professionals. the scenario has been identified and processed through windows access and excel. the results were expressed as mean, range, and ratios. results as reported in table i, the population consists of 108 people, the average age is 33 years and the age range is between 19 and 66. there is a predominance of males, 57% of the total. patients male female total number 62 46 108 average age 32 34 33 age range 19-56 20-66 19-66 table i. distribution by sex table ii highlights that half of the males are between 18 and 29 years old, while the older patient (66 years) is a female. in general, the 18-29 age group is the most populous (51 patients). age male female total n % n % n % 18-29 31 50 20 43 51 47 30-39 19 31 11 24 30 28 40-49 9 15 11 24 20 19 50-59 3 5 3 7 6 6 60-69 0 0 1 2 1 1 table ii. distribution by age group, according to sex table iii represents the clinical situation of the sample: a moderate mental retardation is seen in 53% of cases. 58% of patients present comorbidity with other diseases (for example, the most frequent are down syndrome, autism, language and/or motor deficit). as to work, only 6% (3 females and 4 males) have an employment as laborer, hospital auxiliary worker or shop assistant. clinical situation male female total n % n % n % mild mental retardation 21 34 16 35 37 34 moderate mental retardation 32 52 25 54 57 53 moderate/severe mental retardation 4 6 3 7 7 6 severe mental retardation 5 8 2 4 7 6 table iii. distribution by clinical situation, according to sex discussion and conclusion the difference between the s.va.m.a and the s.va.m.di is the introduction of disability: in fact, in s.va.m.a disability is omitted in all aspects [3,7,4]. environmental factors are at the same time “facilitators” and “barriers” of the person’s well-being, and their analysis is essential for territorial/regional planning in order to access services [7,10]. for these reasons, the questionnaire has been restructured in order to identify the environmental factors that have a direct impact on the choice of the service, and the thresholds to access care and welfare services to be provided by the region have been determined on the basis of the s.va.m.di assessment [4]. the professionals who collected data and processed the s.va.m.di encountered difficulties in terms of working hours devoted to the writing and the complexity in processing. however, after the initial effort, the completeness and accuracy of the s.va.m.di became clear, even though it requires a big effort and a high level of preparation on the part of professionals. table iv reports the differences between pai and s.va.m.di. although the s.va.m.di provides more information on the patient, the two questionnaires are complementary and the one can be considered as an integral part of the other. while the pai explicitly and concisely indicates the objectives and actions to be taken, the s.va.m.di is an anamnestic, diagnostic, evaluative and prescriptive tool, useful for an integrated approach in the care of the health, social health and /or social dimensions; a tool that describes the decision processes and allows statistical and epidemiological analyses. pai s.va.m.di date (compilation date) name and surname place and date of birth address phone tax code legal status (interdiction) doctor diagnosis disability profile (cod. icf) pai objectives measures to be implemented personal data (like pai, but in addition sex, check and follow-up, co-pay fee exemptions, social security card, citizenship, doctor who referred the patient to the service) contact (general practitioner / pediatrician, reference person) health assessment (current diagnosis, summary information, nursing) functional assessment (part 1a, 1b) social assessment (marital status, education, school attended, work experience, current employment status, certifications, family background, living and economic situation) multidimensional assessment result (assessment team) reassessment of welfare and care needs (verification outcome, evaluation team, further planned verification) table iv. comparison between pai and s.va.m.di during the trial, many strong points of s.va.m.di emerged: s.va.m.di can provide a swift response to the requests of the user, whose complete medical history is recorded at the time of the taking charge; it is based on the icf, which provides an universal language for professionals, through codes and qualifiers which serve as reference for the description of health and related health status (the icf is also used in pai [7,10]); it offers an integration of the disability, unlike the s.va.m.a form, used for the elderly; it provides a common language that considers the disabled person in terms of operation and available resources; it is a valuable aid to supplement data collection for the drafting of a pai; it facilitates access to services regulated by the national health system, bringing benefits to both the service that drafts it and the patient in the development of a personalized plan; since it can be administered only by previously trained staff, there is a reduction of evaluation bias. a point of weakness was the difficulty encountered in the administration and in the compilation of the questionnaire, given the lack of adequate specific and practical training on the part of all staff; therefore, before a new trial is undertaken or a possible official adoption of the questionnaire is envisaged, it is necessary to provide a medical continuing education (mce) training on this tool. for example, the lazio region has shown an interest in this training requirement by the health professionals including in the regional mce training plan for the 2016/2018 an area specifically dedicated to the multidimensional assessment, the pai and the s.va.m.di (area number 5 «cronicità e fragilità» – chronicity and fragility) [15]. similarly, it is desirable that the asl viterbo as mce provider will be able to set up specific training courses dedicated to the adult disability service staff and to other services that deal with the adult disability, with the aim to raise awareness, understanding and learning the use of this assessment tool. in conclusion, s.va.m.di is a valuable aid that complements and does not replace the drafting of the pai, reinforcing the clinical and bio-psychosocial knowledge of the user [3,4,7,10,11] because the district multidimensional assessment is a priority in the access of the patient to care. its elaboration should therefore become necessary to provide access to care services. the adoption of this tool for evaluating patients referred to adults with disability services presents clinical, organizational and economic advantages for patients, for the asl and for the society. bibliografia 1. deliberazione della giunta regionale del veneto n. 331 del 13 febbraio 2007. valutazione multidimensionale delle persone con disabilità secondo icf, classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute: approvazione e introduzione di s.va.m.di per l’accesso ai servizi sociali e socio sanitari. bur n. 22 del 02 marzo 2007. available on http://bur.regione.veneto.it/burvservices/pubblica/dettagliodgr.aspx?id=195364 (last accessed september 2016) 2. deliberazione della giunta regionale 3979 del 9 novembre 1999. valutazione multidimensionale dell’adulto e dell’anziano. approvazione scheda s.v.a.m.a. 3. bollori s. sperimentazione della scheda multidisciplinare s.va.m.di. introdotta dalla regione veneto. a.ulss 5 ovest vicentino. available on http://www.bottegadelpossibile.it/wp-content/uploads/2013/12/15-sabrina-bollori-relazione.pdf (last accessed september 2016) 4. bollettino ufficiale della regione veneto n. 13 del 3 febbraio 2015. available on http://bur.regione.veneto.it (last accessed september 2016) 5. deliberazione della giunta regionale del veneto n. 2632 del 2 agosto 2007 6. deliberazione della giunta regionale del veneto n. 2575 del 4 agosto 2009. individuazione e approvazione dei criteri per la messa a regime della nuova scheda di valutazione multidimensionale disabili (svamdi). bur n. 78 del 22 settembre 2009. available on http://bur.regione.veneto.it/burvservices/pubblica/dettagliodgr.aspx?id=217824 (last accessed september 2016) 7. materiali formazione regionale icf. dalla svamdi al progetto di vita. centro don calabria, verona, 2009 8. deliberazione della giunta regionale del veneto n. 2960 del 28 dicembre 2012. approvazione modifiche ed integrazioni alla scheda svamdi di cui alla dgr 2575 del 4 agosto 2009. available on http://bur.regione.veneto.it/burvservices/pubblica/dettagliodgr.aspx?id=245515 (last accessed september 2016) 9. deliberazione della giunta regionale del veneto n. 1804 del 6 ottobre 2014. approvazione del documento “linee guida per la codifica icf e compilazione della scheda di valutazione multidimensionale svamdi”, del modello della svamdi aggiornato semanticamente al linguaggio icd e dell’algoritmo per il calcolo dei punteggi di gravità e di funzionamento esitati svamdi. available on http://extraospedaliero.regione.veneto.it/provvedimenti (last accessed september 2016) 10. organizzazione mondiale della sanità. icf classificazione internazionale del funzionamento della disabilità e della salute. trento: edizioni centro studi erickson, 2002 11. regolamento uvmd ulss 5 ovest vicentino. approvato dal consiglio di distretto del 10 giugno 2010. available on http://www.ulss5.it/binary/ulss5/regolamenti_doc/uvmd_uls_5_ovest_vicentino.1291044102.pdf (last accessed september 2016) 12. atti del convegno “che cos’è la svamdi?”. opera don calabria, roma, 27 febbraio 2015 13. legge 5 febbraio 1992, n. 104. legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. gazzetta ufficiale del 17 febbraio 1992, n. 39, supplemento ordinario 14. legge regionale n. 20 del 23 novembre 2006. regione lazio. istituzione del fondo regionale per la non autosufficienza. bollettino ufficiale della regione lazio n. 34 del 9 dicembre 2006 15. regione lazio. piano formativo regionale triennio 2016/2018. indirizzi strategici per la formazione degli operatori sanitari. available on https://www.regione.lazio.it/binary/rl_sanita/tbl_contenuti/piano_formativo_2016_2018.pdf (last accessed september 2016) 115 clinical management issues franco mongini 1 un social network per la prevenzione e l’abbattimento di cefalea e dolore cervicale nella popolazione: fondamenti di ricerca e sue caratteristiche editoriale 1 sezione cefalee e dolore faciale, dipartimento fisiopatologia clinica, università di torino corresponding author dott. franco mongini franco.mongini@unito.it introduzione cefalea e dolore cervicale rappresentano un problema estremamente diffuso nella popolazione di tutto il mondo [1-4]. un’indagine sui dati relativi alla prevalenza mondiale di cefalea condotta da stovner e collaboratori ha rilevato una presenza di cefalea del 46% [5]. secondo la world health organization la cefalea rientra nelle dieci patologie più disabilitanti per ambedue i sessi e nelle cinque patologie più disabilitanti per le donne [5]. la cefalea comporta inoltre una forte spesa farmaceutica: è stato calcolato che la spesa annuale italiana in farmaci analgesici ammonta a circa 57 milioni di euro. inoltre la cefalea assume spesso caratteristiche di cronicità e/o intermittenza tali da ridurre cospicuamente la qualità della vita dei pazienti e comportare, tra l’altro, una notevole perdita di ore di lavoro. si stima che essa comporti annualmente la perdita di circa 25 milioni di giornate lavorative [6]. questi dati verrebbero ulteriormente aggravati qualora a essi si aggiungessero quelli relativi al dolore cervicale. tale dolore può frequentemente associarsi a cefalee di vario tipo [7]. questi temi vengono tuttavia generalmente affrontati dalla comunità scientifica e dalla stampa limitatamente al profilo delle terapie di cura e raramente l’approccio è di tipo preventivo. specie nei casi di cefalea e dolore cervicale cronici più fattori eziologici (di natura neurologica, psicogena, muscolare, articolare, ecc.) possono sovrapporsi nello stesso paziente. inoltre possono essere presenti delle comorbilità, singole o associate, che devono essere individuate e convenientemente trattate. tali comorbilità possono essere a carico di diversi organi e sistemi. due in particolare sono di frequente riscontro: la comorbilità psichiatrica e l’iper-parafunzione della muscolatura cranio-cervico-faciale. la presenza di disturbi d’ansia e/o depressivi nelle diverse forme di cefalee, in particolare dell’emicrania, è stata dimostrata in numerosi studi epidemiologici e prospettici [8-16]. il rapporto tra depressione ed emicrania è bidirezionale [14] e la presenza di comorbilità psichiatrica in pazienti emicranici influisce negativamente sulla storia naturale della malattia [15]. la possibile presenza di una comorbilità psichiatrica in pazienti cefalalgici e, in particolare, in emicranici cronici è quindi un elemento ben noto e dibattuto. ciò non avviene invece per l’iper-parafunzione muscolare, che resta un problema ampiamente sottovalutato se non del tutto ignorato nonostante essa sia di ancor più frequente riscontro nei pazienti cefalalgici. l’iper-parafunzione muscolare nelle cefalalgie il termine “iper-parafunzione muscolare” definisce uno stato di eccessiva contrazione, persistente o frequentemente reiterata, di determinati gruppi muscolari. tale condizione è del tutto priva di un significato funzionale. questo problema è particolarmente frequente a livello dei muscoli craniocervico-faciali. 116 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) editoriale un tipico esempio di iper-parafunzione è rappresentato dal frequente e marcato stringimento dei denti durante il giorno e/o la notte. questo fenomeno comporta una eccessiva e prolungata contrazione isometrica dei muscoli massetere e temporale. anche in assenza di un contatto interdentario numerosi soggetti mantengono comunque tali muscoli in uno stato di prolungata ed mordicchiamento delle labbra, la prolungata contrazione dei muscoli frontali. inoltre in molti soggetti si osserva parallelamente una tendenza a mantenere la muscolatura di collo e spalle in condizione di eccessiva contrazione (figura 1). questa attitudine è particolarmente pronunciata in quanti trascorrono lungo tempo di attività lavorativa o extra-lavorativa alla scrivania o al computer. ciò può nel tempo condurre a una diminuzione o perdita della fisiologica lordosi cervicale. un caratteristico segno di iper-parafunzione muscolare è rappresentato dall’ipertrofia del massetere o del temporale o di ambedue questi muscoli (figura 2). in presenza di iper-parafunzione la palpazione dei muscoli interessati provoca dolenzia o dolore e può rivelare la presenza di siti di contrattura e punti grilletto. infatti, la contrazione muscolare prolungata, specie se isometrica, provoca fatica muscolare e, successivamente, dolore. le “parafunzioni” aumentano in situazioni di stress che possono conseguentemente scatenare un dolore miogeno e facilitare l’insorgenza di cefalea. è stato inoltre dimostrato che in soggetti sofferenti di cefalea o dolore faciale di vario tipo il livello di dolenzia dei muscoli cranio-cervico-facciali alla palpazione è significativamente più elevato se questi soggetti soffrono di un disturbo d’ansia e/o depressivo [17-19]. le due comorbilità, quella psichiatrica e l’iper-parafunzione muscolare, possono quindi esaltarsi a vicenda. mentre la comorbilità psichiatrica è gestita anche con un corretto trattamento farmacologico, l’approccio al problema dell’iperparafunzione muscolare si avvale essenzialmente di un approccio non farmacologico, salvo l’eventuale aggiuntiva prescrizione di farmaci. il trattamento dell’iperparafunzione: risultati di ricerca da lungo tempo applichiamo con soddisfazione un programma comportamentale e di esercizi che, associato all’opportuna terapia farmacologica, risulta di grande ausilio nei pazienti cefalalgici in cui si riscontri, tra le altre problematiche, la presenza di iper-parafunzione muscolare. il nostro programma possiede una componente cognitiva in quanto mira innanzitutto a far sì che il soggetto prenda coscienza delle situazioni figura 1. paziente sofferente di emicrania frequente associata a intenso dolore cranio-cervico-faciale persistente. all ’ispezione è evidente una contrazione intensa e persistente dei muscoli cervicali figura 2. ipertrofia dei muscoli massetere e temporale sinistro conseguente a iperparafunzione in giovane donna con cefalea e dolore faciale prevalenti a sinistra eccessiva contrazione. una iperattività di questi muscoli insieme a quella dei muscoli pterigoidei laterali è anche presente nel bruxismo (digrignamento dentario), un problema estremamente frequente in soggetti di tutte le età. tra le altre parafunzioni vanno ricordate: la pressione linguale, l’onicofagia, il 117 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) f. mongini in cui i suoi muscoli sono soggetti a contrazione eccessiva. il programma prevede l’esecuzione di un semplice esercizio di rilassamento, di alcuni esercizi per il ricondizionamento dei muscoli del collo e delle spalle, nonché di alcuni accorgimenti per abbattere o quantomeno ridurre l’espletamento di abitudini viziate. la validità dell’associazione del programma all’opportuna terapia farmacologica è stata comprovata da numerosissime osservazioni cliniche (un esempio in figura 3). al fine di ottenere una conferma non semplicemente aneddotica dell’efficacia di tale programma sono stati eseguiti studi longitudinali condotti su larghe fasce di popolazione lavorativa. un primo studio longitudinale controllato [20] ha coinvolto circa 400 lavoratori del comune di torino, suddivisi in due gruppi, gruppo di studio (gruppo 1) e gruppo di controllo (gruppo 2). nei primi due mesi tutti i soggetti si sono limitati a compilare giornalmente appositi diari relativi alla cefalea e al dolore cervicale, compilazione che è poi continuata per tutta la durata dello studio. nel terzo mese al gruppo di studio è stato impartito il programma mentre al gruppo di controllo non è stata impartita alcuna istruzione ma tutti i soggetti hanno continuato a compilare i diari. a conclusione della sperimentazione (ottavo mese) il gruppo di studio presentava valori significativamente più bassi (del 40% circa) di frequenza di cefalea e dolore cervicale (figure 4 e 5). si sono inoltre osservati una significativa riduzione del consumo di farmaci e un aumento dell’efficacia dei farmaci antiemicranici sintomatici. l’analisi per sottogruppi ha dimostrato che tali risultati si riscontravano nelle varie forme di cefalea: emicrania, cefalea di tipo tensivo e loro sovrapposizione. nella seconda fase della sperimentazione (mesi 9-14) le istruzioni sono state impartite al primitivo gruppo di controllo (gruppo 2) mentre i soggetti appartenenti al gruppo di studio (gruppo 1) nella prima fase non hanno più ricevuto istruzioni. tutti i partecipanti hanno continuato a compilare i diari giornalieri della cefalea e del dolore al collo e spalle fino a conclusione dello studio, 14 mesi dopo il suo inizio. i dati raccolti al termine della seconda fase hanno dimostrato che i benefici del programma si erano mantenuti intatti nel gruppo 1 [21] mentre il figura 3. stessa paziente della figura 1. dopo 6 mesi di applicazione del programma cognitivo e di esercizi associata a blanda terapia farmacologica, la diminuzione del grado di contrattura muscolare è evidente all ’ispezione figura 4. giorni di mal di testa al mese nel gruppo di studio e nel gruppo di controllo durante la prima fase della sperimentazione. il programma è stato somministrato al gruppo di studio nel maggio 2005 dopo due mesi di baseline 118 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) editoriale di testa cronici e rilevanti dovrebbe essere rimodulato tenendo conto delle comorbilità frequentemente presenti in questi soggetti e associando all’opportuna terapia farmacologica il programma descritto. inoltre i risultati ottenuti hanno posto le basi per la programmazione di un intervento a più ampio raggio sulla comunità, in considerazione anche del rapporto costo/ beneficio estremamente positivo. a un primo sito web per i residenti in piemonte ha fatto seguito il lancio di un social network internazionale (in italiano e inglese) che rappresenta la logica espansione, in misura potenzialmente illimitata, delle precedenti iniziative. chiunque al mondo può gratuitamente accedervi digitando uno figura 5. andamento del dolore cervicale e alle spalle nel gruppo di studio e nel gruppo di controllo durante la prima fase della sperimentazione figura 6. la homepage del social network www.nomalditesta.it gruppo 2 aveva beneficiato di un miglioramento analogo [22]. tali dati sono stati confermati in un successivo studio longitudinale controllato e randomizzato applicato a circa 2.000 dipendenti comunali [23]. nasce un social network dedicato i dati da noi ottenuti, unitamente alle numerose osservazioni aneddotiche condotte sui pazienti da noi trattati, permettono di avanzare con forza l’ipotesi che l’approccio al trattamento dei pazienti sofferenti di dolori 119 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) f. mongini di questi tre indirizzi: www.nomalditesta.it, www.nocervicale.it, www.noheadneckpain. com (figura 6). a quanti accedono viene richiesto, oltre che di comunicare i dati anagrafici, di compilare delle schede relative a caratteristiche della cefalea (figura 7) e del dolore cervicale, abitudini di vita, assunzione di farmaci e presenza di altre patologie. essi devono inoltre compilare un questionario per la valutazione della frequenza del dolore nell’ultimo mese, del suo impatto sulla qualità della vita e sull’eventuale perdita di ore lavorative negli ultimi tre mesi. una volta fornite queste informazioni il soggetto può accedere, tramite password, al programma di istruzioni. in tal modo è possibile fruire del programma di istruzioni già applicato con successo a un gran numero di soggetti. vengono messi a disposizione video e materiale stampabile (figura 8). il servizio viene continuamente arricchito con nuove informazioni e iniziative. ciascun afferente può, se lo desidera, interagire con il sito, descrivere il proprio problema (come è insorto e come si è evoluto), porre quesiti, scambiare esperienze. il network comprende anche un’area riservata ai medici dove essi possono acquisire informazioni, esprimere pareri e discutere i risultati di loro esperienze cliniche o di ricerca. in questo spazio possono altresì accedere al materiale didattico e scientifico che viene progressivamente messo a loro disposizione (figura 8). scopo del social network è dunque anche quello di fornire un supporto strategico al medico per aiutarlo a gestire in prima persona almeno una parte di queste patologie. il medico può invitare il proprio paziente che soffre di mal di testa e/o di dolore cervicale a iscriversi al programma fornendo tutte le indicazioni richieste e sollecitarlo a eseguire coscienziosamente le istruzioni impartite e a compilare il diario giornaliero figura 7. scheda relativa alla localizzazione e caratteristiche della cefalea figura 8. i video a disposizione degli iscritti. la croce rossa indica quelli riservati ai medici 120 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) editoriale del dolore messo a sua disposizione dal programma (figura 9). sarà sufficiente che il paziente fornisca al medico di fiducia i suoi username e password perché questi possa esaminare le risposte date dal paziente sulle caratteristiche del suo dolore e sull’eventuale presenza di altri sintomi concomitanti. in questo modo egli potrà farsi un’idea abbastanza precisa del tipo di cefalea e dolore di cui il paziente soffre. esaminando i diari compilati dal paziente può altresì accertare la misura in cui questi abbia beneficiato dell’applicazione del programma. a questo punto il medico può integrare la terapia nel modo che più ritiene opportuno. a settembre 2011 risultavano iscritti al social network 6.107 soggetti, con la seguente distribuzione per patologie: emicrania (m) = 660 (10,8%); y cefalea di tipo tensivo (tth) = 256 y (4.2%); dolore miogeno cervicale e alle spalle y (mp) = 263 (4,3%); m + tth = 152 (2,5%); y m + tth + mp = 1.020 (16,7%); y m + mp = 2.455 (40,2%); y tth + mp = 1.301 (21,3%). y la prevalenza è significativamente più alta nelle donne in tutti i gruppi salvo tth. la sovrapposizione di mp aumenta significativamente la prevalenza di ogni tipo di cefalea. si è inoltre riscontrata la presenza di dolore faciale unio bilaterale in sede zigomatica e geniena con una prevalenza variabile da un minimo di 6,8% in m e un massimo di 19,9% in m + tth + mp. tale prevalenza è comunque significativamente più alta nelle donne in tutti i gruppi di cefalea, salvo m + tth e tth. il dato ha una particolare rilevanza in considerazione del fatto che la presenza di dolore faciale può essere a volte erroneamente attribuita a un disturbo dell’articolazione temporo-mandibolare distogliendo l’attenzione dalle reali problematiche di cui il paziente soffre. in conclusione è possibile affermare che il social network rappresenta un mezzo di prevenzione a espansione potenzialmente illimitata nonché un supporto dell’attività clinica del medico. esso può altresì venire utilizzato per indagini epidemiologiche su larga scala. ringraziamenti un particolare ringraziamento va alla mia collaboratrice dott.ssa chantal milani per l’indefesso e fondamentale lavoro che ha svolto e svolge per l’elaborazione, lo sviluppo e la gestione del social network. figura 9. una pagina del diario compilabile per via telematica bibliografia stovner lj, zwart ja, hagen k, terwindt gm, pascual j. epidemiology of headache in europe. 1. eur j neurol 2006; 13: 333-45 wiendels nj, knuistingh neven a, rosendaal fr, spinhoven p, zitman fg, assendelft wj, 2. et al. chronic frequent headache in the general population: prevalence and associated factors. cephalalgia 2006; 26: 1434-42 ghaffari m, alipour a, farshad aa, yensen i, vingard e. incidence and recurrence of disabling 3. low back pain and neck-shoulder pain. spine 2006; 31: 2500-6 riddle dl, schappert sm. volume and characteristics of inpatient and ambulatory medical care 4. for neck pain in the united states: data from three national 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antonio monaco 7 il trattamento farmacologico dei tic nella sindrome di gilles de la tourette andrea e. cavanna 1,2, andrea nani 1 in caso di ipertensione, quando andare sino in fondo con gli accertamenti? andrea semplicini 1, chiara sandonà 1, federica stella 1, tommaso grandi 1 cmi 2017;11(1)45-48.html usefulness of the blood chemistry screening associated with dxa imaging in a case of secondary osteoporosis in a young adult valerio massimo magro 1, michele caturano 2, giovanni scala 3 1 department of internal medicine and geriatrics, university of campania “luigi vanvitelli”, naples 2 geriatrician, asl na1 centro, naples 3 medical director and geriatrician manager at the center home care (cad), asl roma 2, rome abstract multiple myeloma is rare in young patients and may be undiagnosed or characterized by a significant delay in diagnosis. we report the association of stage i myeloma (according to durie-salmon classification) and osteoporosis in a 37-year-old male patient complaining of worsening pain in the spine. pain attacks resulted in increases in blood pressure with hypertensive episodes. the investigations (on the basis of an unclear radiological picture and the presence of hypertensive state) led to the diagnosis of low grade osteoporosis. since the young subject was symptomatic at the diagnosis, we continued evaluations on the basis of imaging data (dxa) and laboratory tests, revealing the presence of multiple myeloma. clinical, laboratory, and therapeutic implications of this clinical case are discussed. keywords: osteoporosis; young patient; hematologic tests; multiple myeloma utilità dello screening ematochimico associato a dxa in un caso di osteoporosi secondaria dell’adulto cmi 2017; 11(1): 45-48 https://doi.org/10.7175/cmi.v11i1.1288 case report corresponding author dr. valerio massimo magro department of internal medicine and geriatrics, university of campania “luigi vanvitelli”, piazza l. miraglia 2, 80100, naples, italy tel: 3492224922 valerio_magro@hotmail.com disclosure the authors declare that they have no conflict of financial interest in the topics covered in this article why we describe this case the described case report highlights the issue of evaluation of secondary osteoporosis and osteoporosis in young patients, because the complications of these cases, too often misunderstood until the fracture event, can be serious and the prognosis is significantly related to the delay in the diagnosis introduction multiple myeloma is rare under the age of 30 (less than 0.3%) and may be undiagnosed or characterized by a significant delay in diagnosis, which usually occurs at the first event of fracture [1]. moreover, treatment outcomes in younger adults are better than those observed in older patient groups, thus confirming the importance of early detection in these pathologies. the current guidelines recommend the use of both imaging (dual-energy x-ray absorptiometry, dxa) and laboratory tests, in order to evaluate various conditions, among which osteoporosis is the common denominator. the minimum cost-effective group of tests to be performed in order to investigate the presence of occult metabolic disorders in adults at risk of falls and fractures or in case of suspected osteoporosis should include erythrocyte sedimentation rate, complete blood count, complete and fractional proteinemia, serum calcium and urinary calcium, phosphorus, creatinine (with estimated glomerular filtration rate—egfr), and alkaline phosphatase. however, second-level laboratory tests are indicated when in first-level exams the clinical picture is associated with abnormalities possibly suggestive of the disease: ionized calcium, thyroid-stimulating hormone—tsh, serum parathyroid hormone—pth, 25-oh-vitamin d, dexamethasone suppression test, total testosterone (in men), serum and urine immunofixation, serum ferritin, anti-transglutaminase antibodies, and serum tryptase levels [2]. although secondary osteoporosis accounts for a small minority (< 5%) of the total cases of osteoporosis in women, it represents an important cause of disease in male patients, and may indicate the presence a serious illness, sometimes with poor prognosis (especially in case of delayed diagnosis). in this case report, the assessment of musculoskeletal and cardiovascular systems in a young male patient led to an early diagnosis of a potentially fatal disease. case presentation a 37-year-old patient, construction worker, came to our hospital for pressure control and complaining about a pain localized in the dorsal and lumbar spine. vital signs were within limits, except blood pressure—bp = 140/100 mmhg. pain was present on percussion of the spinous processes from 5th to 7th, with a mild paresthesia in the right upper limb, reported to be present for many years. his recent blood count, thyroid function, renal, and lipid profile tests were all normal. 24-hour monitoring of the blood pressure showed “daytime diastolic blood pressure at upper limit of normal and occasional nighttime systolic and diastolic blood pressure levels slightly exceeding the limits, with preserved circadian rhythmicity”. chest x-ray revealed a right-convex scoliosis, in the absence of pulmonary foci or pleural abnormalities. the patient started antihypertensive therapy (ace-inhibitor) and a regimen of nsaids, with poor blood pressure control and pain (number rating scale—nrs = 4/10). a new lumbar spine and pelvis x-ray showed hyperlucency of the lumbar spine with unscathed pelvis and a mild osteoporosis framework, as evidenced by another dxa (the exam was performed privately, with a t-score = -2.6 at the level of l2 vertebral body and a total t-score at the spine = -2.0). the radiological image did not show any vertebral fracture. analyzing the morphometry of the vertebral bodies, no significant decrease (as to fall within the definition of fracture) in the height of the vertebrae was detected (semi-quantitative method of h. k. genant). at this stage, 1th level blood tests were performed, showing normal levels, except the percentage of β2-globulins and γ-globulins, as reported in table i and figure 1. parameter detected level (g/dl) normal levels (g/dl) detected level (%) normal levels (%) albumin 4.7 3.5-5 56.8 55.8-66.1 α1-globulins 0.23 0.2-0.4 3.5 2.9-4.9 α2-globulins 0.63 0.4-0.8 9.8 7.1-11.8 β1-globulins 0.43 0.6-1 6 4.7-7.2 β2-globulins 1.15 0.6-1 14.3 3.2-6.5 γ-globulins 0.70 0.9-1.4 9.6 11.1-18.8 total proteins 7.6 a/g ratio 1.43 1.10-2.40 table i. results about proteins in the blood tests (percentage and absolute levels) a/g ratio = total protein and albumin/globulin ratio figure 1. electrophoretic test showing an electrophoretic pattern of proteins with anomalies owing to the suspected monoclonality in β2 zone, immunofixation and other blood tests were performed, showing the results reported in table ii. κ chains were absent, while the λ chains were present (3,67 g/l; normal values: 0.90-2.10; figure 2). parameter detected level normal levels iga (mg/dl) 1144 63-484 igg (mg/dl) 727 540-1822 igm (mg/dl) 73 33-293 β2-microglobulin (mg/l) 2.32 0.97-2.64 total serum calcium concentration (mg/dl) 9 (correct calcium 8.79) 8.5-10.5 table ii. results from immunofixation and other blood tests figure 2. results from electrophoretic test, highlighting an increase in immunoglobulin a a fine needle aspiration of bone marrow was performed, finding plasma cells infiltrate in 15% of the examined bone marrow. multiple myeloma was staged according to durie-salmon staging and the new international staging system (stage 1). the patient was taken in charge by a multi-disciplinary team formed by hematologists and orthopedists to carry on the diagnostic (scintigraphy) and therapeutic management (careful observation with seriated controls over time; possible preventive osteosynthesis), while we advised to start therapy with bisphosphonates. discussion multiple myeloma is a malignant tumor arising from plasma cells, frequently with bone involvement (including vertebral bodies and pelvis). solitary lesions without systemic involvement may remain silent for many years, and often diagnosis is occasional: in this case, our diagnosis was due to hypertension (hyperviscosity?) and algic issues, the latter being difficult to investigate, because of the patient’s scoliosis and work history. the electrophoretic test (among the routine tests for the evaluation of osteoporosis) put in evidence a peak with migration (seen at lower frequency) in the β zone, with a iga peak in the pre-γ-area. generally, altered immunoglobulins tend to associate with alterations in calcium metabolism: hypercalcemia, which is absent in this case, is found in about 30-40% of patients. perhaps, our patient was the bearer of a previously unidentified and unstudied or unfollowed monoclonal gammopathy of uncertain significance (mgus) over time, already with initial bone damage (but the patient was not able to report tests or previous diagnosis of this condition) [3,4]. the pain after spine percussion was an important warning signal that led to a deepening of diagnostic investigation. however, back pain is a common sign and fortunately most cases are due to benign causes. anyway, serious causes such as cancer, infection, and even fractures must been considered [5]. as in the scenarios described in the literature, unexplained changes in bone mineral density – as in the present case – may trigger a more extensive evaluation, including the search for monoclonal components [6]. conclusions unquestionably osteoporosis in young individuals is less frequent than in adults and the elderly. but in this population group, the development of osteoporosis is often associated with secondary causes [7,8]. in fact, almost 50% of young people with osteoporosis have diseases or therapies related to the development of this disorder. in order to rule out secondary causes of osteoporosis, laboratory studies should be extensive. therefore, it is important to perform blood chemistry tests in all patients with osteoporosis or a recent clinical fracture. if necessary, additional tests can be performed. national and international guidelines are focused on the diagnosis of secondary osteoporosis in the field of differential diagnosis with postmenopausal and senile forms [9,10]. recommendations are less accurate about osteoporosis in the youth and even more so about secondary causes of osteoporosis in young patients. considering that prevention plays a key role in reducing the consequences of serious diseases, the laboratory plays an even more important role. laboratory studies may show potentially reversible abnormalities that must be assessed and corrected, if possible, before starting pharmacological therapy, or silent secondary osteoporosis, requiring other types of treatment. in fact, secondary osteoporosis has a different etiology and can evolve asymptomatically until obvious signs of fracture or osteoporosis emerge, so that many subjects in the young adult age or adult but not elderly individuals may escape the assessments because for a long time they are considered healthy subjects, at least until the time of the first event of fracture [11,12]. therefore, the prompt recognition of secondary osteoporosis may have significant repercussions both on the patient’s quality of life and the quoad vitam prognosis. key points the presence of pain on percussion of spinous processes should be a warning signal even in young patients with predisposing factors to back pain secondary osteoporosis has a different etiology as compared to primary osteoporosis, and can evolve asymptomatically until the first event of fracture laboratory studies play a key role in the diagnosis secondary osteoporosis may be due to multiple myeloma multiple myeloma is rare under the age of 30 and may be undiagnosed or characterized by a significant delay in diagnosis. a timely diagnosis is crucial in this life-threatening disease references 1. jurczyszyn a, nahi h, avivi i, et al. characteristics and outcomes of patients with multiple myeloma aged 21-40 years versus 41-60 years: a multi-institutional case-control study. br j haematol 2016; 175: 884-91; https://doi.org/10.1111/bjh.14328 2. mirza f, canalis e. management of endocrine disease: secondary osteoporosis: pathophysiology and management. eur j endocrinol 2015; 173: r131-r151; https://doi.org/10.1530/eje-15-0118 3. drake mt. unveiling skeletal fragility in patients diagnosed with mgus: no longer a condition of undetermined significance? j bone miner res 2014; 29: 2529-33; https://doi.org/10.1002/jbmr.2387 4. murray dl, seningen jl, dispenzieri a, et al. laboratory persistence and clinical progression of small monoclonal abnormalities. am j clin pathol 2012; 138: 609-13; https://doi.org/10.1309/ajcpt6owwmhita1y 5. dugan lo, dugan da, dugan wm jr. back pain: the primrose path – a case report. indiana med 1990; 83: 114-6 6. faiman b, licata aa. new 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quickly lead to maternal shock and death. many efforts have been made to create international and multisectoral guidelines that allow to face an event that represents the cause of about one quarter of maternal deaths. it is crucial to create a team able to act promptly in accordance with shared protocols. the availability of shared guidelines and protocols and the organization of periodic simulations and teamwork training are part of the fundamental initiatives that can promote the safety of perinatal care. the purpose of this document is to give clinicians the tools to minimize the risks associated with inadequate management of hemorrhagic emergency, avoiding the risk of “too little or too late” and giving patients maximum safety. keywords: postpartum hemorrhage; obstetric labor complications; pregnancy complications; shock, hemorrhagic; blood coagulation disorders; uterine inertia gestione dell’emorragia postparto: l’importanza della tempistica cmi 2018; 12(1): 11-15 https://doi.org/10.7175/cmi.v12i1.1326 clinical management corresponding author claudia claroni department of obstetric anesthesia s. g. calibita fatebenefratelli hospital rome, italy mobile: +393925786892 claroni@icloud.com received: 4 september 2017 accepted: 22 january 2018 published: 6 february 2018 introduction obstetric hemorrhage remains one of the major causes of maternal mortality in both developing and industrialized countries, representing a clinically and socially significant problem. given the critical nature of the problem, it is particularly important to effectively manage the clinical risk and respond aggressively at the beginning of a potentially dramatic event. the creation of a multidisciplinary team trained to act quickly to identify and treat the causes of hemorrhage according to shared protocols remains crucial. the availability of shared guidelines and of protocols, together with the organization simulations and training, are initiatives of the utmost importance in the promotion of the safety of perinatal care. this protocol is intended to provide all the specialists involved with clear guidelines on prophylaxis and therapy, implemented in compliance with national and international literature as well as the regulations in force in italy [1,2]. issue description according to the world health organization, postpartum hemorrhage (pph) causes about one quarter of the maternal deaths each year [3]. in most cases, deaths occur in the first 24/48 hours after delivery and, despite the significant improvements in the last three years, 66% of deaths due to pph are still due to substandard care, according to the latest report of the center for maternal and child inquiry on maternal mortality [4]. in addition, numerous studies have shown, in industrialized countries, an increase in the incidence of postpartum hemorrhage in recent years [5], reflecting in part the changes in obstetrical practice of the last decade (for example, the increase in the rate of caesarean sections or the increased trend toward practice of spontaneous delivery after caesarean section). definition postpartum hemorrhage is defined as a blood loss equal to or greater than 500 ml, occurring early in the first 24 hours after delivery (primary postpartum hemorrhage) or up to six weeks postpartum (secondary postpartum hemorrhage), and which, if not identified and treated, can quickly lead to mother shock and death [6]. we talk about minor pph if the estimated blood loss is between 500 and 1000 ml, but if the loss exceeds 1000 ml, it is defined as major pph, which can be defined as controlled in the case of controlled blood loss, with impairment of maternal clinical conditions requiring thorough monitoring, or massive or persistent pph in case of blood loss over 1500 ml and/or signs of clinical shock and/or transfusion of 4 or more packed red blood cells units, with impairment of maternal conditions which poses an immediate threat to the woman’s life.[7,8] the pregnant woman undergoes a series of physiological modifications that allow her to withstand substantial blood loss effectively, and is generally a young patient with good cardiovascular reserve; this condition, associated with the difficulty of correctly and timely estimation of blood loss, can lead to an underestimation of the problem. it is always important to consider that significant blood loss, > 2000 ml, can induce a rapidly worsening condition, with an inexorable decrease in blood pressure and signs and symptoms of severe shock (paleness, agitation, oliguria, followed by mood and collapse), while these symptoms might be absent in significant but less severe blood loss. etiology there are many alterations that can lead to a pph, but the main causes of postpartum hemorrhage are: uterine atony (90%), cervical and/or perineal lacerations (5%), placental fragments retention (4%), coagulation deficiencies or alterations, uterine inversion, uterine rupture. the morbidly adherent placenta, i.e. placenta accreta, increta or percreta, is nowadays an important cause of primary hemorrhage. previous uterine surgery, such as caesarean section, significantly increases the risk of morbidly adherent placenta [9]. attention must also be paid to the assessment of possible clotting disorders and the prevention and treatment of anemia. according to the authors, there are other important risk factors to be considered: multiple pregnancy, previous pph, preeclampsia, birth weight above 4000 g, failure to progression of the second stage, prolongation of the third stage of labor, episiotomy [9,10]. in clinical practice, the multiple causes of pph are briefly synthesized through the formula “4t” [11]: tone (uterine atony); tissue (placenta-related problems: placental, placental implants, etc.); trauma (uterine rupture, lacerations, uterine inversion); and thrombin (in relation to clotting disorders). pph management protocol crucial in postpartum hemorrhage management is prophylaxis and, eventually, therapy of anemia or congenital clotting disorders, treated in collaboration with the hematologist. the pph treatment hubs are: identification of the cause of pph (4t); maintenance of uterine contractility, obtained through physical or pharmacological means; maintaining and supporting cardiovascular parameters with appropriate rehydration and volume expansion; maintaining physiological parameters, such as temperature and acid/base status; and prevention or therapy of hemorrhagic coagulopathy [1]. management in the “golden hour” is particular important to increase patient survival. if possible, in patients with high hemorrhagic risk it is advisable the use of the cell separator (cell sorter with continous flow) and the presence of an interventional radiologists in the surgery room (with portable digital angiography). a blood loss between 500 and 1000 ml without signs of hemodynamic imbalance ask for the collaboration of all paramedical and medical figures, alert the transfusion centre, the operating room and, if available, interventionist radiology. contemporary involve the whole team ensuring the highest level of consultation. ensure two large caliber venous accesses. estimate blood loss as soon as pph is diagnosed and monitor vital parameters every 10 minutes at least initially on appropriate graphics. a graduate sterile bag for the evaluation of blood loss is recommended. administer tranexamic acid 30 mg/kg [12] (clinicaltrials.gov registration number: nct00872469; isrctn76912190, and pactr201007000192283). send request for availability of blood products to the transfusion centre. increase prophylactic oxytocin at therapeutic dose (20 iu in 500 ml saline in two hours). if after 20 minutes there is no effect, go to second line uterotonic agents (ergometrine: 2 vials 0.2 mg im; sulprostone: 1 vial 0.50 mg in 250 ml iv, then with a controlled infusion: 0.1 to 0.4 mg/h up to a maximum of 1.5 mg in 24 hours). effectuate a type&screen test, recurrent blood count, and coagulation tests (fibrinogen by clauss method or, if available, point-of-care coagulation tests such as thromboelastography—teg or rotational thromboelastometry—rotem). avoid or correct hypothermia, acidosis, and desaturation. look for the origin of bleeding through the rule of the four t: tone (evaluation and measures for atony/uterine inversion: bimanual uterine compression, endocavitary uterine infusion by hydrostatic balloon catheter and uterotone drug use). in the absence of the hydrostatic balloon, it is possible to use a latex glove or a condom with good results, as suggested by the international federation of gynecology and obstetrics (figo) 2012 guidelines [13]. it is important to note that uterine gauze packing is not recommended today; tissue (exploration and evacuation of the uterus); trauma (repairing vaginal tears, cervix, and/or uterine tears); thrombin (evaluate and correct any coagulatory defect, if available, with thromboelastometric/graphic evaluation via point-of-care monitoring). targeted transfusion therapy: packed red blood cells to maintain hematocrit between 21% and 27% and hemoglobin between 7 and 9 g/l. evaluate fibrinogen infusion 30-50 mg/kg or fresh frozen plasma 20-30 ml/kg if fibrinogen is below 200 mg/dl. b blood loss greater than 1000 ml, hemodynamically unstable patient do all the operations under point a. reintegrate circulating volume with crystalloids or, if necessary, colloid by evaluating sensory, diuresis, lactate, and excess bases level. maintain transfusion therapy and hemostatic support. transfusion in the presence of pph is performed by clinical indication and not on the basis of information derived from hematocrit examinations. keep in mind that a packed red blood cells unit contains 280 ml and increases the hematocrit of 2-3%: it is advisable to use a 1:1:1 ratio of units of plasma and platelets to red blood cells administered, pending laboratory values; for the constitution of the package to be transfused, depending on the availability of blood products, the following alternatives are suggested: 4 packed red blood cells units : 4 single dose donor or industrial plasma units; or 4 packed red blood cells : 2 plasma units from apheresis; platelet concentrates, it is recommended to use 1 unit from apheresis or from buffy coat every 8 unit of packed red blood cells. it is worth emphasizing the suggestion of the alternatives mentioned above, whose application may vary depending on the different realities present on the territory and the availability of the components and monitoring tools. it is also desirable that each hospital prepares a mass transfusion protocol to be activated in case of critical hemorrhage with signs of hemodynamic instability and hypoperfusion. when the result of the hemocoagulatory examinations is available, if the prothrombin time ratio—pttr or international normalized ratio—inr is > 1.5, it is necessary to infuse the plasma at the initial dose of 20 ml/kg with the packed red blood cells, up to 30 ml/kg in case of persistent or ingraining coagulopathy. use heating and infusion devices. always guarantee basic conditions: hematocrit > 21%, temperature > 34 °c, ph > 7.20, ca++ > 1 mmol/l. cases nonresponders to the aforementioned therapies require a conservative surgical-intervention approach: compression sutures, uterine tamponation with hydrostatic balloon, association of devascularizing sutures of uterine, ovarian or internal ileus arteries, selective embolization of pelvic vessels. if no response to the therapy, use recombinant activated clotting factor vii—rfviia (60-90 μg/kg bolus repeated within 15-30 min) as an extrema ratio, before performing hysterectomy. keep in mind that rfviia to function requires: normal ph, temperature, adequate levels of platelets (> 50,000/mm3), and fibrinogen (> 200 mg/dl). if no response occurs, proceed to subtotal or total hysterectomy. there is no agreement in the literature on the use and choice of thromboprophylaxis after major bleeding. there are different clinical protocols depending on the different realities [14] and the reluctance for a predetermined plan of thromboprophylaxis reflects the awareness that women following intractable hemorrhage are at increased risk for disseminated intravascular coagulopathy rather than deep vein thrombosis [15]. conclusions in conclusion, we want to emphasize the importance of the rapidity of action and the management organization of the obstetric emergency. given the dramatic nature of the hemorrhagic event in the postpartum, it is important that all women with known risk of uterine bleeding should be directed to a hospital equipped with a transfusion center and laboratory analysis. it is imperative to never overlook the assessment of blood loss in order not to delay the beginning of care procedures, which, if performed at the first hour, “golden hour”, ensure to the woman a better chance of survival. it should always be kept in mind that one of the main causes of death for pph in western countries is the delay in blood transfusion. last but not least, it is important to emphasize the importance of creating a dedicated and well-trained team, even through simulation scenarios, who can rapidly implement the previously shared guidelines and protocols. key points given the rapid and devastating evolution of postpartum hemorrhage, it is critical to act quickly and aggressively in the first hour to avoid maternal shock to create an efficient team, sharing management protocols and periodic simulation are of paramount importance the multiple causes of pph are briefly synthesized through the formula “4t”: tone (uterine atony); tissue (placenta-related problems: placental, placental implants, etc.); trauma (uterine rupture, lacerations, uterine inversion); and thrombin (in relation to clotting disorders) the key points for pph treatment are: maintenance of uterine contractility; maintaining and supporting cardiovascular parameters; and prevention or therapy of hemorrhagic coagulopathy funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. sigo, aogoi, agui, et al. gestione multidisciplinare emorragia post partum. algoritmo. 2014. available at: www.sigo.it/wp-content/uploads/2015/10/algoritmo-epp1.pdf (last accessed january 2018) 2. affronti g, agostini v, brizzi a, et al. the daily-practiced post-partum hemorrhage management: an italian multidisciplinary attended protocol. clin ter 2017; 168: e307-e316; https://doi.org/10.7417/t.2017.2026 3. world health organization. who recommendations for the prevention and treatment of postpartum haemorrhage. geneva: who, 2012 4. cantwell r, clutton-brock t, cooper g. et al. saving mothers’ lives: reviewing maternal deaths to make motherhood safer: 2006-2008. the eighth report of the confidential enquiries 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anni, operaio, fumatore (20 sigarette al giorno), giungeva all’osservazione per ipertensione arteriosa non controllata da circa 2 anni nonostante fosse in terapia con felodipina e clonidina. in anamnesi veniva riferita una diagnosi clinica e istologica di glomerulonefrite da iga, posta alcuni anni prima dopo recidivanti episodi di macro/microematuria. all’ecografia renale di follow-up veniva segnalata ectasia calicopielica sinistra in assenza di calcoli. il paziente riferiva alvo e diuresi regolari e dichiarava di assumere regolarmente la terapia; diceva anche di non assumere altri farmaci che potessero alterare i valori pressori e che i valori pressori erano elevati anche alle rilevazioni domiciliari, il che ci consentiva di escludere un’ipertensione da “camice bianco” anche senza effettuare un monitoraggio pressorio delle 24 ore e un’ipertensione pseudo-resistente. alla visita, i valori pressori erano elevati sia in clinostatismo (170/110 mmhg) sia in perché descriviamo questo caso l’ipertensione secondaria ha una bassa prevalenza e la ricerca di cause di ipertensione secondaria tra tutti gli ipertesi comporta costi elevati e rischi non trascurabili, connessi all ’esecuzione dei vari accertamenti. in questo articolo vengono delineate le caratteristiche cliniche e gli elementi di sospetto di ipertensione secondaria, che devono guidare il medico nella scelta del work up diagnostico ottimale corresponding author prof. andrea semplicini medicina interna 1 ospedale ss. giovanni e paolo campo ss. giovanni e paolo castello 6777 – 30122 venezia tel. 041 5294360(1) fax 041 5294651 andrea.semplicini@ulss12.ve.it andrea.semplicini@unipd.it caso clinico abstract the case of a 34-year-old patient with uncontrolled hypertension is described in this article, together with the diagnostic path followed in order to make the diagnosis, that finally reveals an arteriovenous fistula due to an old kidney biopsy. uncontrolled or resistant hypertension may be caused by unrecognized secondary hypertension: we revise the clinical and laboratory criteria for selecting hypertensive patients in whom to look for secondary hypertension through the most appropriate diagnostic work up. a synthesis of the main causes of secondary hypertension is also provided in the discussion. keywords: resistant hypertension; secondary hypertension; arterial hypertension who should be screened for secondary causes of hypertension? cmi 2011; 5(4): 157-164 1 uoc medicina interna 1, ospedale ss. giovanni e paolo, ulss 12 veneziana, venezia, e dipartimento di medicina, università degli studi di padova andrea semplicini 1, chiara sandonà 1, federica stella 1, tommaso grandi 1 in caso di ipertensione, quando andare sino in fondo con gli accertamenti? 158 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) in caso di ipertensione, quando andare sino in fondo con gli accertamenti? mia erano nella norma. l’esame delle urine evidenziava una proteinuria di 0,30 g/l con rari eritrociti nel sedimento. veniva pertanto associato un diuretico tiazidico a basso dosaggio (idroclorotiazide 12,5 mg al giorno) per alcune settimane, che risultava inefficace a migliorare il controllo pressorio. la resistenza alla terapia incoraggiava a cercare una possibile ipertensione secondaria. l’iter diagnostico ha previsto il dosaggio dell’attività reninica plasmatica (pra) e dell’aldosteronemia nel sangue periferico, di base e dopo stimolazione con captopril (50 mg per os), nel sospetto di iperaldosteronismo. i risultati hanno dimostrato un quadro di iperaldosteronismo secondario, con valori di renina elevati sia di base (9 ng/ml/h; vn 0,3-3,0 ng/ml/h) sia dopo stimolazione (15,1 ng/ml/h; vn < 12 ng/ml/h) e livelli di aldosteronemia al di sopra della soglia al basale (196 pg/ml; vn < 160) e ulteriormente stimolati dalla somministrazione di captopril (525 pg/ml). l’ecografia renale riscontrava numerose formazioni anecogene tortuose nel rene sinistro che al doppler venivano interpretate come vasi venosi ectasici con dilatazione della vena renale omolaterale. la scintigrafia renale sequenziale evidenziava un deficit perfusorio a livello del rene sinistro, con rallentato deflusso del radiofarmaco dai calici e dal bacinetto. dato il forte sospetto di una patologia nefrovascolare (profilo biochimico da iperaldosteronismo secondario, alterazioni vascolari al doppler, ipoperfusione renale alla scintigrafia), il paziente è stato sottoposto ad arteriografia renale che ha mostrato una biforcazione precoce dell’arteria renale sinistra in un’arteria segmentale craniale allungata e ipertrofica, che alimentava una fistola artero-venosa ad alta portata. il rene omolaterale risultava ipoperfuso nel suo polo superiore (figura 1). il quadro clinico e strumentale suggeriva, quindi, che la resistenza dell’ipertensione alla terapia farmacologica fosse causata da ipoperfusione renale generata dalla fistola artero-venosa, con attivazione permanente del sistema renina-angiotensina-aldosterone. l’origine della fistola renale artero-venosa era verosimilmente da ricercarsi nella biopsia renale cui il paziente era stato sottoposto in passato per micro/macroematuria. si tratta di una complicanza relativamente frequente, in quanto complica il 9-15% circa di tutte le biopsie renali [1-3]. le fistole post-bioptiche sono per la maggior parte clinicamente silenti e si risolvono spontaneamente nell’arco di uno o due anni, mentre le fistole sintomatiche, come nel caso in questione, sono ormai rare. queste ultime si presentano con ematuria, iper/ipotensione o scompenso cardiaco ad alta gittata. un’altra complicanza post-bioptica causa di ipertensione secondaria è il cosiddetto page kidney, nel quale l’ischemia renale è dovuta a un ematoma sottocapsulare che comprime il parenchima renale [4-6]. il trattamento definitivo delle fistole artero-venose sintomatiche è l’embolizzazione selettiva dei vasi affetti mediante tecniche di radiologia interventistica che permettono l’occlusione dei vasi lesionati, preservando il parenchima renale sano; dopo il trattamento i segni e i sintomi della malattia scompaiono completamente. la nefrectomia, parziale o totale, rimane, tuttavia, l’unica opzione nei casi di sanguinamento severo, acuto o non controllabile [7-9]. come primo approccio terapeutico si è tentata, quindi, l’embolizzazione con spirali che, tuttavia, hanno superato il versante arterioso, andandosi a localizzare una, la maggiore, a livello del sinus renale, l’altra, la minore, in un ramo arterioso di v ordine del lobo medio polmonare. pertanto si è deciso di procedere con la terapia chirurfigura 1. arteriografia renale che mostra una biforcazione anomala dell ’arteria renale sinistra che alimenta una fistola arterovenosa ad alta portata. il rene sinistro risulta ipoperfuso a livello del polo superiore 159 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) a. semplicini, c. sandonà, f. stella, t. grandi da parte dei pazienti stessi. va detto, inoltre, che questi pazienti non presentano segni di danno d’organo o sintomi suggestivi di un’ipertensione cronica. le caratteristiche che possono predire un difficile controllo pressorio includono: alti valori pressori basali (in particolare i valori sistolici), presenza di ipertrofia ventricolare sinistra, età avanzata, obesità, razza afroamericana, patologie renali croniche e diabete. altri fattori di rischio sono reversibili, quali lo stile di vita, la dieta ricca di sodio, la ridotta attività fisica, l’abuso di alcol e soprattutto i regimi terapeutici non adeguati. infatti molti farmaci possono provocare un rialzo dei valori pressori; tra questi sono da tenere presenti i farmaci psicostimolanti, simpaticomimetici, fans, i corticosteroidi, gli estroprogestinici, l’eritropoietina, i farmaci vasodilatatori (che comportano ritenzione di sodio), certi antidepressivi, gli inibitori della calcineurina (ciclosporina e tacrolimus), alcuni prodotti naturali come la liquirizia e componenti di preparati d’erboristeria quale l’efedra. una volta escluse le cause sopra riportate di ipertensione pseudo-resistente, dobbiamo considerare la possibilità che alla base del cattivo controllo pressorio ci possa essere un’ipertensione secondaria. infatti le caratteristiche obiettive che ci possono indirizzare verso una possibile ipertensione secondaria sono: raccomandazioni nel paziente iperteso che non risponde alla terapia antipertensiva verificare la compliance alla terapia y escludere la pseudoresistenza y effettuare un work up diagnostico mirato nei pazienti con ipery tensione resistente, considerando con attenzione gli elementi clinici e laboratoristici di sospetto che fanno ipotizzare una particolare forma di ipertensione secondaria e non indistintamente in tutti gli ipertesi gica mediante resezione del polo superiore del rene sinistro con legatura e resezione del ramo polare arterioso superiore. dopo tale procedura chirurgica il paziente ha mantenuto un ottimo controllo pressorio mediante terapia con ace-inibitore e calcioantagonista. la diagnosi clinica del caso in esame è, pertanto, «fistola artero-venosa renale post-bioptica persistente con ipertensione arteriosa secondaria di tipo nefrovascolare, trattata con embolizzazione e nefrectomia polare, in paziente con pregressa glomerulonefrite da iga». discussione il medico, di fronte a un paziente con ipertensione arteriosa non controllata dalla terapia, come nel caso descritto, dovrebbe domandarsi se tale ipertensione è resistente, se è secondaria e quale sia l’approccio diagnostico e terapeutico ottimale. per “ipertensione resistente” si intende un’ipertensione arteriosa che rimane costantemente al di sopra di valori di norma nonostante l’utilizzo contemporaneo e a dosi piene di almeno tre farmaci antipertensivi di classi diverse, tra le quali un diuretico. anche i pazienti con valori pressori nei limiti che assumono quattro o più farmaci anti-ipertensivi sono da considerarsi come affetti da ipertensione resistente. sebbene i pazienti con ipertensione resistente possano avere valori elevati di pressione sistolica e diastolica, l’ipertensione sistolica isolata è la forma più comune. ipertensione “resistente o refrattaria” non è sinonimo di “ipertensione non controllata”. altre cause di ipertensione non controllata sono i regimi terapeutici non adeguati e la pseudo-resistenza. il termine “pseudo-resistenza” fa riferimento a un’ipertensione non controllata che sembra resistente alla terapia, ma che è in realtà attribuibile ad altri fattori. i più comuni sono: la non corretta misurazione pressoria (ad esempio per l’utilizzo di un bracciale troppo piccolo/grande), la ridotta compliance alla terapia, l’interferenza farmacologica, l’assunzione di farmaci che aumentano la pressione arteriosa e l’ipertensione da camice bianco. quest’ultima, presente nel 20-30% dei pazienti, può essere esclusa mediante monitoraggio pressorio indiretto delle 24 ore [10] o con la dimostrazione che la pressione arteriosa è elevata anche a un’accurata misurazione a domicilio le domande che il medico dovrebbe porre a se stesso o al paziente nel caso in esame la terapia prescritta è appropriata? y il paziente assume regolarmente tutta la terapia prescritta? y ha un’ipertensione resistente? y è un’ipertensione secondaria? y vista la precedente diagnosi di malattia renale, l ’ipertensione nel y paziente in esame è di origine renale? renoparenchimale o renovascolare? 160 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) in caso di ipertensione, quando andare sino in fondo con gli accertamenti? ipertensione grave o resistente; y un improvviso incremento dei valori presy sori al di sopra di un valore precedente stabile, soprattutto negli anziani; l’insorgenza di ipertensione in un pazieny te al di sotto dei 30 anni, non obeso, non afro-americano, senza storia familiare o altri fattori di rischio per ipertensione; ipertensione insorta prima della pubertà; y l’assenza di un ritmo circadiano pressoy rio. altri elementi di sospetto per ipertensione secondaria sono riportati nella tabella i. il caso descritto non è certo una delle più comuni forme di ipertensione secondaria (tabella ii), che sono l’iperaldosteronismo primitivo, la stenosi dell’arteria renale, le patologie croniche renali, il diabete mellito e la sindrome da apnee notturne. cause meno comuni includono il feocromocitoma, la sindrome di cushing e la coartazione aortica. il work up diagnostico di primo livello per le varie forme di ipertensione secondaria è riportato in tabella iii, dove sono elencati anche gli esami di secondo livello che si debcaratteristiche della sindrome di cushing (strie rubre, gibbo, facies lunare, ecchimosi, ecc.) stigmate cutanee della neurofibromatosi (feocromocitoma) palpazione di un aumento volumetrico dei reni (rene policistico) auscultazione di soffi addominali (ipertensione nefrovascolare) auscultazione di soffi precordiali o toracici (coartazione aortica o malattia dell’aorta) forte russamento e apnee notturne (osas) ridotto e ritardato polso femorale e ridotta pressione femorale (coartazione aortica, malattia dell’aorta) tabella i. alcuni elementi clinici di sospetta ipertensione secondaria ipertensione nefroparenchimale (rene policistico, nefropatie post-infettive, postischemiche, malformative) ipertensione nefrovascolare (stenosi aterosclerotica, displasia fibromuscolare) feocromocitoma iperaldosteronismo primitivo (iperplasia surrenalica, adenoma surrenalico, carcinoma surrenalico, iperaldosteronismo sensibile ai glucocorticoidi autosomico dominante) sindrome di cushing sindrome delle apnee notturne coartazione aortica ipertensione iatrogena da farmaci tabella ii. classificazione delle ipertensioni secondarie bono eseguire per confermare il sospetto sollevato da anamnesi, obiettività ed esami di primo livello. iperaldosteronismo primitivo nell’iperaldosteronismo primitivo si ha un’iperproduzione surrenalica dell’ormone mineralcorticoide aldosterone indipendente dall’attività del sistema renina-angiotensina. la prevalenza tra i pazienti ipertesi è del 10% [11], ma sale al 15% tra i pazienti con ipertensione grave e al 20% tra quelli con ipertensione resistente [12]. le cause più comuni sono l’iperaldosteronismo idiopatico bilaterale e l’adenoma surrenalico aldosterone-secernente; cause più rare di iperaldosteronismo primitivo includono l’iperplasia unilaterale o l’iperplasia surrenalica primitiva, generate dall’iperplasia della zona glomerulare di una singola ghiandola. l’iperaldosteronismo primitivo è fortemente associato a danno d’organo e a un’elevata incidenza di eventi cardiovascolari, quali alterazioni della funzione ventricolare cardiaca, sia sistolica sia diastolica, insorgenza di fibrillazione atriale, microalbuminuria, aumento dell’incidenza di ictus ischemico ed emorragico, edema polmonare e infarto miocardico [13]. la presenza di un’ipopotassiemia è uno dei principali indizi della presenza di un iperaldosteronismo primitivo, sebbene più del 50% dei pazienti con diagnosi di malattia abbia valori di potassiemia nei limiti al momento della diagnosi. secondo le recenti linee guida [10], i casi di ipertensione resistente sono candidati al test di screening per l’iperaldosteronismo primitivo. l’esame diagnostico di screening più affidabile è la valutazione del rapporto aldosterone/attività reninica plasmatica (arr): un valore superiore a 30, con aldosterone espresso in ng/ml e l’attività reninica plasmatica espressa in ng/ml/h, è un indizio particolarmente suggestivo di una secrezione autonoma di aldosterone. sono però necessari altri test di conferma, tra cui il test di soppressione al fludrocortisone, il test da carico salino intravenoso o per os o il test al captopril. quest’ultimo è il più economico, sicuro, tollerato e di facile esecuzione. per l’alto numero di falsi positivi, è da riservare a quei pazienti a rischio di espansione volemica. tutti i pazienti con alterati valori di arr dovrebbero essere sottoposti anche a una tac surrenalica. altri esami strumentali, quali la risonanza magnetica e la scintigrafia surrenale, sono meno specifici e sensibili. 161 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) a. semplicini, c. sandonà, f. stella, t. grandi ipertensione moderata-grave in pazienti y con episodi ricorrenti di edema polmonare acuto o di scompenso cardiaco inspiegato. l’edema polmonare acuto è più frequente nei pazienti con stenosi bilaterale. i fattori che contribuiscono allo scompenso cardiaco acuto sono l’aumento del postcarico dovuto all’ipertensione, il deficit di funzione diastolica causato dall’ipertrofia ventricolare sinistra e la ritenzione salina dovuta all’attivazione del sistema reninaangiotensina; reperto di un soffio sisto-diastolico addoy minale monolaterale (specificità del 99%, ma sensibilità del 40% circa). a questi criteri è prudente aggiungere la sincope o grave ipotensione da prima dose di ace-inibitore o sartano, inibitore del recettore at1 dell’angiotensina ii. in caso di sospetto di malattia nefrovascolare è indicata l’esecuzione di un ecocolordoppler dell’arteria renale, esame laborioso ma che ha un’alta capacità diagnostica quando eseguito da personale esperto. alternative sono rappresentate dall’arteriografia renale, dall’angio-rm, dell’angio-tac e dalla scintigrafia renale [16]. sindrome delle apnee notturne è una patologia spesso misconosciuta assai comune tra la popolazione obesa maschile con sonnolenza diurna e forte russamento. questi pazienti presentano ripetuti episodi bono eseguire per confermare il sospetto sollevato da anamnesi, obiettività ed esami di primo livello. iperaldosteronismo primitivo nell’iperaldosteronismo primitivo si ha un’iperproduzione surrenalica dell’ormone mineralcorticoide aldosterone indipendente dall’attività del sistema renina-angiotensina. la prevalenza tra i pazienti ipertesi è del 10% [11], ma sale al 15% tra i pazienti con ipertensione grave e al 20% tra quelli con ipertensione resistente [12]. le cause più comuni sono l’iperaldosteronismo idiopatico bilaterale e l’adenoma surrenalico aldosterone-secernente; cause più rare di iperaldosteronismo primitivo includono l’iperplasia unilaterale o l’iperplasia surrenalica primitiva, generate dall’iperplasia della zona glomerulare di una singola ghiandola. l’iperaldosteronismo primitivo è fortemente associato a danno d’organo e a un’elevata incidenza di eventi cardiovascolari, quali alterazioni della funzione ventricolare cardiaca, sia sistolica sia diastolica, insorgenza di fibrillazione atriale, microalbuminuria, aumento dell’incidenza di ictus ischemico ed emorragico, edema polmonare e infarto miocardico [13]. la presenza di un’ipopotassiemia è uno dei principali indizi della presenza di un iperaldosteronismo primitivo, sebbene più del 50% dei pazienti con diagnosi di malattia abbia valori di potassiemia nei limiti al momento della diagnosi. secondo le recenti linee guida [10], i casi di ipertensione resistente sono candidati al test di screening per l’iperaldosteronismo primitivo. l’esame diagnostico di screening più affidabile è la valutazione del rapporto aldosterone/attività reninica plasmatica (arr): un valore superiore a 30, con aldosterone espresso in ng/ml e l’attività reninica plasmatica espressa in ng/ml/h, è un indizio particolarmente suggestivo di una secrezione autonoma di aldosterone. sono però necessari altri test di conferma, tra cui il test di soppressione al fludrocortisone, il test da carico salino intravenoso o per os o il test al captopril. quest’ultimo è il più economico, sicuro, tollerato e di facile esecuzione. per l’alto numero di falsi positivi, è da riservare a quei pazienti a rischio di espansione volemica. tutti i pazienti con alterati valori di arr dovrebbero essere sottoposti anche a una tac surrenalica. altri esami strumentali, quali la risonanza magnetica e la scintigrafia surrenale, sono meno specifici e sensibili. causa esami i livello esami ii livello ipertensione nefroparenchimale ecografia renale, esame delle urine, creatininemia, proteinuria 24 ore ipertensione nefrovascolare creatininemia, potassiemia, potassiuria, ecodoppler renale-arterie renali, nefroangiofotoscintigrafia, tac spirale angiografia arteriosa feocromocitoma catecolamine plasmatiche e urinarie, metanefrine urinarie, stimolo con glucagone, soppressione con clonidina ecografia addominale, tac, rmn, scintigrafia con mibg iperaldosteronismo primitivo potassiemia, potassiuria, aldosterone/ attività reninica plasmatica, attività reninica plasmatica e aldosterone prima e dopo captopril, soppressione con fludrocortisone tac-rmn addominale, scintigrafia con colesterolo marcato, sampling venoso surrenalico sindrome di cushing cortisolemia ore 8-18, cortisoluria 24 ore, test di soppressione con desametasone acth, tac-rmn, scintigrafia con colesterolo marcato, tacrmn cerebrale sindrome delle apnee notturne polisonnografia coartazione aortica esame obiettivo, indice di winsor tac, arteriografia iatrogena da farmaci tabella iii. esami di i e ii livello per la diagnosi di ipertensione secondaria acth = ormone adrenocorticotropo; mibg = metaiodobenzilguanidina; rmn = risonanza magnetica nucleare ipertensione nefrovascolare la stenosi dell’arteria renale è un reperto non raro tra i pazienti con ipertensione resistente: molti studi riferiscono una frequenza tra il 12 e il 15%. più del 90% delle stenosi dell’arteria renale ha un’origine aterosclerotica, con un’incidenza maggiore tra fumatori, anziani, panvasculopatici [14]. curiosamente, tale patologia è più frequente nei caucasici che negli afro-americani, nei quali i casi di ipertensione severa trovano più spesso un’origine essenziale. nel 10% dei casi, specialmente tra le donne, la stenosi è causata da displasia fibromuscolare. le linee guida del 2005 dell’american college of cardiology/american heart association (acc/ aha) [15] suggeriscono che lo screening per la stenosi dell’arteria renale debba essere intrapreso in caso di: reperti indicativi di ipertensione secony daria; ipertensione severa insorta dopo i 55 y anni; un incremento acuto dei valori di creatinina y plasmatica dopo l’introduzione nella terapia di farmaci ace-inibitori o inibitori del recettore per l’angiotensina ii (sartani); ipertensione moderata-grave in pazienti y polivasculopatici; ipertensione moderata-grave in un pazieny te con un’inspiegata atrofia renale o asimmetria delle dimensioni renali > 1,5 cm; 162 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) in caso di ipertensione, quando andare sino in fondo con gli accertamenti? di apnea durante la notte, causati dal collasso dei muscoli faringei e la conseguente temporanea ostruzione delle vie aeree. il corteo sintomatologico è rappresentato inoltre da: ipertensione arteriosa, cefalea, astenia, deficit di concentrazione. l’apnea notturna sembra causare e mantenere l’ipertensione arteriosa aumentando il tono del sistema nervoso simpatico generato dall’ipossiemia intermittente. ai fini diagnostici è utile interrogare anche il compagno di letto. l’impiego della ventilazione meccanica a pressione positiva (cpap) durante il sonno è in grado di diminuire il tono adrenergico, migliorare la qualità del sonno, diminuire i valori pressori e ridurre il rischio cardiovascolare [17]. lo studio polisonnografico rappresenta il gold standard diagnostico mentre la pulsossimetria notturna è un esame di primo livello, a basso costo, con un’inferiore affidabilità diagnostica. patologie renali parenchimali queste patologie sono sia causa sia conseguenza dell’ipertensione non controllata. valori di creatininemia > 1,5 mg/dl sono forti indici prognostici negativi [18] relativamente al successo della terapia antipertensiva, a causa della ritenzione idrosalina e la conseguente espansione del volume intravascolare. va detto, però, che non sempre la creatininemia è una stima fedele della filtrazione glomerulare. questo è il caso soprattutto dell’anziano con ridotte masse muscolari e che svolga una limitata attività fisica, per cui vi può essere una marcata decurtazione funzionale renale con un modesto aumento della creatininemia. diabete mellito diabete e ipertensione sono fortemente associati, in particolare nei pazienti con ipertensione resistente. si suppone che l’insulino-resistenza possa contribuire direttamente allo sviluppo dell’ipertensione mediante stimolazione del tono simpatico, proliferazione delle cellule muscolari lisce e ritenzione idrosalina [19]. feocromocitoma il feocromocitoma rappresenta solo una minima porzione dei casi di ipertensione resistente secondaria. la prevalenza varia dallo 0,1% allo 0,6% tra i pazienti ipertesi e, anche se la prevalenza tra i casi di ipertensione resistente è sconosciuta, bisogna sottolineare che il 95% dei casi di feocromocitoma si manifesta con ipertensione, di cui il 50% è resistente [20]. è da sospettare in ogni paziente iperteso che lamenti cefalea, palpitazioni e sudorazione, tipicamente occasionale; non tutti i feocromocitomi si manifestano con questi segni tipici, e per tale motivo si ha spesso un ritardo nella diagnosi. inoltre, il feocromocitoma è caratterizzato da un aumento della variabilità della pressione arteriosa causato dall’incostante rilascio di catecolamine in circolo; tale variabilità rappresenta un ulteriore fattore di rischio cardiovascolare che si aggiunge all’ipertensione stessa [21]. sindrome di cushing all’origine della sindrome di cushing vi è una sovrastimolazione da parte del cortisolo del recettore non selettivo per i mineralcorticoidi, ma ulteriori fattori, quali la sindrome delle apnee notturne e l’insulino-resistenza, contribuiscono all’ipertensione. il cortisolo è l’ormone maggiormente secreto nella sindrome di cushing e l’ipertensione è presente nel 70-85% dei pazienti affetti. in tali casi l’ipertensione è spesso resistente, a causa dell’attività vascolare del cortisolo; difatti i farmaci antipertensivi più comuni (inibitori del sistema renina-angiotensina, calcioantagonisti, inibitori del sistema adrenergico e diuretici) sono spesso inefficaci. i farmaci che hanno dato i migliori risultati sono gli antagonisti del recettore per i mineralcorticoidi (come spironolattone e canrenoato di potassio); spesso, tuttavia, solo la rimozione chirurgica di un adenoma ipofisario acth-secernente per via transnasale o di un tumore che causa una produzione ectopica di acth permettono un buon controllo pressorio. il danno a livello degli organi bersaglio e l’aumento del rischio cardiovascolare nella sindrome di cushing è molto più grave rispetto all’ipertensione primitiva, poiché la patologia in questione è spesso associata ad altri fattori di rischio cardiovascolari come la sindrome metabolica, il diabete mellito, l’obesità, la sindrome delle apnee notturne e le dislipidemie [22]. coartazione aortica la coartazione dell’aorta è una delle cause principali di ipertensione dell’età pediatrica ma può interessare anche l’adulto. i reperti classici all’esame obiettivo sono il riscontro di ipertensione agli arti superiori, la diminuzione o l’abolizione dei polsi femorali 163 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) a. semplicini, c. sandonà, f. stella, t. grandi (“ritardo brachio-femorale”) e una pressione bassa o non rilevabile agli arti inferiori. l’età del paziente, la sede dell’origine dell’arteria succlavia, e la severità della coartazione condizionano i reperti fisici. ad esempio, se l’origine dell’arteria succlavia sinistra è immediatamente distale alla sede della coartazione, il polso brachiale sinistro sarà ridotto rispetto al destro e uguale a quello femorale. secondo le ultime linee guida acc/aha [15] i pazienti ipertesi dovrebbero essere valutati relativamente alla coartazione aortica. il primo approccio consta dell’esame dei polsi arteriosi periferici, valutando contemporaneamente i polsi brachiali e femorali per confrontarne l’ampiezza; si raccomanda inoltre la misurazione della pressione arteriosa agli arti superiori bilateralmente in posizione supina e degli arti inferiori in posizione prona. infine, vanno ricordati l’ipertiroidismo e l’iperparatiroidismo primitivo, quest’ultimo suggerito dal riscontro di ipercalcemia, che possono essere all’origine di un’ipertensione resistente. conclusioni in conclusione, chi dovrebbe essere sottoposto a screening per la ricerca di un’ipertensione secondaria? vista la bassa prevalenza dell’ipertensione secondaria nella popolazione generale non è utile sottoporre tutti i pazienti ipertesi indistintamente a uno screening completo. bisogna piuttosto concentrare l’attenzione sui pazienti nei quali, per le caratteristiche anamnestiche, obiettive e di laboratorio, sia ipotizzabile l’esistenza di una particolare forma di ipertensione secondaria. tra questi, in primo luogo i pazienti con ipertensione resistente, quando siano state escluse le cause di pseudoresistenza. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. bibliografia tarif n, dunne pm, parachuru pr, bakir aa. life-threatening hematuria from an arteriovenous 1. fistula complicating an open renal biopsy. nephron 1998; 80: 66-70 schwarz a, hiss m, gwinner w, becker t, haller h, keberle m. course and relevance of 2. arteriovenous fistulas after renal transplant biopsies. am j transplant 2008; 8: 826-31 jiang w, wang h, ma j, han h. arteriovenous fistula and pseudoaneurysm as complications 3. of renal biopsy treated with percutaneous intervention. chin med j 2010; 123: 2736-8 mccune tr, stone wj, breyer ja. page kidney: case report and review of the literature. 4. am j kidney dis 1991; 18: 593-9 bakri rs, prime m, haydar a, glass j, goldsmith dj. three “pages” in a chapter of accidents. 5. nephrol dial transplant 2003; 18: 1917-9 patel tv, goes n. page kidney. 6. kidney int 2007; 72: 1562 takebayashi s, hosaka m, kubota y, ishizuka e, iwasaki a, matsubara s. transarterial 7. embolization and ablation of renal arteriovenous malformations: efficacy and damages in 30 patients with long-term followup. j urol 1998; 159: 696-701 maleux g, messiaen t, stockx l, vanrenterghem y, wilms g. transcatheter embolization of 8. biopsy-related vascular injuries in renal allografts. long-term technical, clinical and biochemical results. acta radiol 2003; 44: 13-7 loffroy r, guiu b, lambert a, mousson c, tanter y, martin l, et al. management of post-9. biopsy renal allograft arteriovenous fistulas with selective arterial embolization: immediate and long-term outcomes. clin radiol 2008; 63: 657-65 mancia g, de backer g, dominiczak a, cifkova r, fagard r, germano g, et al. 2007 guidelines 10. for the management of arterial hypertension: the task force for the management of arterial hypertension of the european society of hypertension (esh) and of the european society of cardiology (esc). j hypertens 2007; 25: 1105-87 rossi gp, bernini g, caliumi c, desideri g, fabris b, ferri c, et al. a prospective study of the 11. prevalence of primary aldosteronism in 1,125 hypertensive patients. j am coll cardiol 2006; 48: 2293-300 164 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) in caso di ipertensione, quando andare sino in fondo con gli accertamenti? mosso l, carvajal c, gonzález a, barraza a, avila f, montero j, et al. primary aldosteronism 12. and hypertensive disease. hypertension 2003; 42: 161-5 sechi la, novello m, lapenna r, baroselli s, nadalini e, colussi gl, et al. long-term renal 13. outcomes in patients with primary aldosteronism. jama 2006; 295: 2638-45 aqel ra, zoghbi gj, baldwin sa, auda ws, calhoun da, coffey cs, et al. prevalence of 14. renal artery stenosis in high-risk veterans referred to cardiac catheterization. j hypertens 2003; 21: 1157-62 hirsch at, haskal zj, hertzer nr, bakal cw, creager ma, halperin jl, et al. acc/aha 15. 2005 guidelines for the management of patients with peripheral arterial disease. j am coll cardiol 2006; 47: 1239-312 leiner, t, de haan, mw, nelemans, pj, van engelshoven jm, vasbinder gb. contemporary 16. imaging techniques for the diagnosis of renal artery stenosis. eur radiol 2005; 15: 2219-29 grassi g, facchini a, trevano fq, dell’oro r, arenare f, tana f, et al. obstructive sleep apnea 17. dependent and -independent adrenergic activation in obesity. hypertension 2005; 46: 321-5 buckalew vm jr, berg rl, wang sr, porush jg, rauch s, schulman g. prevalence of 18. hypertension in 1,795 subjects with chronic renal disease: the modification of diet in renal disease study baseline cohort. modification of diet in renal disease study group. am j kidney dis 1996; 28: 811-21 bakris gl. a practical approach to achieving recommended blood pressure goals in diabetic 19. patients. arch intern med 2001; 161: 2661-7 omura m, saito j, yamaguchi k, kakuta y, nishikawa t. prospective 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marialuisa ventruto 2, maria adalgisa police 2, alessandro morella 3, alfonso fortunato 4, lanfranco musto 5, patrizia fiori 1, mario nicola vittorio ferrante 6, antonio monaco 7 il trattamento farmacologico dei tic nella sindrome di gilles de la tourette andrea e. cavanna 1,2, andrea nani 1 in caso di ipertensione, quando andare sino in fondo con gli accertamenti? andrea semplicini 1, chiara sandonà 1, federica stella 1, tommaso grandi 1 cmi 2018;12(1)105.html editorial staff disclosure (2018) laura fascio pecetto is the managing editor of cmi journal. she declares to have no personal conflicts of interests. she works for seed medical publishers, that in 2018 has worked with adres srl, amgen srl, bayer spa, biogen italia srl, clicon srl, csl behring spa, gilead sciences srl, hps-health publishing & services srl, icon clinical research, roche spa. rossella iannone is editor of cmi journal. she declares to have no personal conflicts of interests. she works for seed medical publishers, that in 2018 has worked with adres srl, amgen srl, bayer spa, biogen italia srl, clicon srl, csl behring spa, gilead sciences srl, hps-health publishing & services srl, icon clinical research, roche spa. enzo cappelluti is the layout editor of cmi journal. he declares to have no personal conflicts of interests. he works for seed medical publishers, that in 2018 has worked with adres srl, amgen srl, bayer spa, biogen italia srl, clicon srl, csl behring spa, gilead sciences srl, hps-health publishing & services srl, icon clinical research, roche spa. cmi 2017;11(1)7-16.html fine-needle aspiration accuracy in the diagnosis of primary epithelioid angiosarcoma of the adrenal gland: a case report and review of the literature tullio torelli 1, stefano radaelli 2, maurizio colecchia 3, biagio paolini 3, mario achille catanzaro 1, nicola nicolai 1, davide biasoni 1, luigi piva 1, silvia stagni 1, roberto salvioni 1 1 department of urology, irccs istituto nazionale dei tumori, milan, italy 2 department of surgery, melanoma and sarcoma, ircss istituto nazionale dei tumori, milan, italy 3 department of pathology, irccs istituto nazionale dei tumori, milan, italy abstract primary epithelioid angiosarcoma of the adrenal gland is extremely rare. only 37 cases have been reported in the scientific literature. here we describe the case of a 55-year-old woman affected by metastatic angiosarcoma in the right adrenal gland, who died few days after the histological diagnosis made by fine-needle aspiration (fna). this is the second case of primary epithelioid angiosarcoma diagnosed by fna among scientific articles published in english in pubmed. microscopically, the tumor showed a predominant epithelioid differentiation, thus making the diagnostic process more difficult than usual. immunohistochemical examination revealed positive reactivity for cytokeratin, cd31, and cd34. the literature shows that epithelioid adrenal angiosarcoma has poor clinical outcome, especially when metastatic at presentation. keywords: adrenal glands; hemangiosarcoma; biopsy, fine-needle; primary epithelioid angiosarcoma; fine-needle aspiration accuratezza diagnostica dell’agobiopsia nell’angiosarcoma epitelioide primario della ghiandola surrenale: caso clinico e review della letteratura cmi 2017; 11(1): 7-16 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v11i1.1256 case report corresponding author tullio torelli tullio.torelli@istitutotumori.mi.it disclosure the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article why we describe this case epithelioid angiosarcoma of the adrenal gland is a very rare and aggressive tumor, with no specific clinical or radiological patterns. diagnosis requires detailed pathologic examination accompanied by immunohistochemical studies using endothelial markers. when fna is used for diagnosis, this process becomes much challenging due to the minimal amount of tissue available for examination introduction angiosarcomas are malignant tumors arising from the endothelial lining of blood vessels and accounting for less than 1% of all soft tissue sarcomas, which represent 1% of all solid tumors in adults. that means that the incidence of angiosarcoma is 0.1-0.2/100,000 per year. adrenal gland is an uncommon site for angiosarcoma. usually, it occurs in skin, soft tissue, breast, bone, liver, and spleen and has poor long-term prognosis [1]. no predisposing factors for primary adrenal angiosarcoma have been identified yet. case report a 55-year-old woman was admitted to our urology unit on january 2014 to undergo a biopsy of right adrenal mass. clinically, the patient suffered from continuous pain in the right lumbar region, a significant weight loss in the past two months (about 15 kg), and severe asthenia. before hospitalization, ultrasonography showed a nonspecific mass located around the upper pole of the right kidney and abdominal computed tomography revealed a right adrenal neoplasm measuring 45 × 29 mm in diameter and bulging out toward the liver (figures 1 and 2). figure 1. ultrasonography showing right adrenal mass (red arrow) infiltrating the upper pole of kidney and liver (one month before hospital admission) figure 2. abdominal computed tomography revealing the same adrenal mass (red arrow) in trasversal plan (one month before hospital admission) physical examination revealed a tender palpable right upper quadrant mass. laboratory studies were significant for anemia (6.2 g/dl) and leukocytosis (1.19 × 103/µl). hormone panel including serum and urinary metanephrines, serum and urinary cortisol, plasma aldosterone, and serum adrenocorticotropic hormone was normal. ten days after hospitalization, follow up chest-abdomen and pelvis ct scan revealed enlargement of the adrenal mass from 45 × 29 mm to 65 × 45 mm. new bilateral lung nodules were also noted (figures 3 and 4). figure 3. ct scan revealing growing adrenal mass (red arrow) with extensive infiltration of liver and upper pole of kidney (longitudinal plan, ten days after hospital admission) figure 4. ct scan showing evidence of lung metastasis (red arrow) in right pulmonary lobe (ten days after hospital admission) therefore, fine-needle aspiration (fna) was performed. histological sections showed sheets of epithelioid cells in a fibrotic stroma and focal necrosis. cells have eosinophilic cytoplasm, prominent nucleoli and frequent mitotic figures. these histologic features were consistent with malignant neoplasm. further studies with pax8, cytokeratin 19, claudin, calretinin, synaptophysin, chromogranin a, glypican-3, human melanoma black 45 and mart-1, and cytokeratin (ae1/ae3) were performed. the tumor cells were positive for cytokeratin and negative for all the remaining markers. a second panel of immunostains including cd31, cytokeratin, and erg-1 was performed. tumor cells were strongly positive for all (figure 5). hence, the diagnosis of epithelioid angiosarcoma was made. unfortunately, the patient died few days after the histological diagnosis. figure 5. hematoxylin-eosin (h.e.) staining and immunohistochemical studies ck = cytokeratin what should the clinician ask him/herself or the patient adrenal mass is rapidly growing? are there general symptoms as asthenia, malaise, and mild fever? hormonal activity is normal? discussion angiosarcomas are very rare malignant tumors, which derive from the vascular endothelium and can occur at any site in the body [2]. epithelioid angiosarcoma (ea) of the adrenal gland has poor prognosis: 5-year overall survival ranges between 25% and 45% in primary tumors, while is shorter than 12 months in metastatic patients [3]. to our knowledge, just 37 case reports have been reported in literature. nevertheless, among them, only 29 are available for full review in english, according to pubmed systemic research through mesh terms (table i) [4-33]. the etiology of ea remains unknown: apart from a case of exposure to arsenic [6] and a case of exposure to vynil chloride [29], the published case reports didn’t succeed in identifying a clear correlation with the patients’ exposure to carcinogens or with a significant incidence of other diseases, even though three patients had concomitant adrenal cortical adenoma [26,31,32] (table i). case gender (age) clinical findings ct scan findings side other disease therapy follow up ref. 1 m (54) abdominal pain 6 cm solid mass l none adrenalectomy + chemotherapy relapse after 7 months 4 2 f (54) fatigue, weight loss, paraneoplastic syndrome 6 cm soft tissue upper pole right kidney r none adrenalectomy ned 6 months 5 3 m (58) abdominal pain 8 cm solid mass r chronic arsenical intoxication adrenalectomy died after surgery 6 4 m (41) epigastric pain 10 cm rounded mass r mesenteric fibromatosis adrenalectomy + radiotherapy na 7 5 m (67) abdominal pain inhomogeneous mass (13 cm) l none adrenalectomy died 2 months for lung mts 8 6 m (85) incidental findings (autopsy) na r none none none 9 7 f (60) abdominal pain na r none adrenalectomy ned 13 years 9 8 f (64) weight loss 10 cm suprarenal mass l none adrenalectomy died 12 months 9 9 f (60) left flank pain adrenal mass l none adrenalectomy died 2 months 9 10 m (82) incidental finding na na na adrenalectomy died 24 months (lung mts) 9 11 f (45) cushing’s syndrome adrenal mass r none adrenalectomy ned 11 years 9 12 m (56) fever, weakness adrenal mass r none adrenalectomy died 6 months (lung mts) 9 13 f (56) flank pain adrenal mass l none adrenalectomy + chemotherapy ned 6 years 9 14 m (50) nausea, diarrhoea 5.5 solid mass, peritoneal mts r none adrenalectomy died 9 months (ileus) 10 15 m (50) fever, lumbar pain 6 cm solid mass bone, liver mts r none adrenalectomy + partial hepatectomy died after surgery 11 16 m (62) anorexia adrenal mass (10 cm) l none adrenalectomy died 7 weeks 12 17 m (63) incidental finding 3 cm solid mass l none laparoscopic adrenalectomy na 13 18 m (70) abdominal pain 8 cm solid mass r none adrenalectomy died 3 weeks 14 19 m (34) cushing’s syndrome 4 cm irregular mass l pituitary adenoma adrenalectomy ned 2 years 15 20 f (70) abdominal pain 5 cm solid mass r cistobiliary adenoma adrenalectomy ned 18 months 16 21 m (61) abdominal pain 12 cm irregular mass r none adrenalectomy + nephrectomy ned 3 years 17 22 m (71) na na na na adrenalectomy na 18 23 m (60) abdominal pain 11 cm solid and cystic mass l colon polyposis adrenalectomy + radiotherapy + chemotherapy died 6 months (lung mts) 19 24 m (60) na na na na adrenalectomy + chemotherapy ned 3 years 20 25 m (50) renal colic 7 cm mass at the upper pole kidney l none adrenalectomy + nephrectomy ned 12 years 21 26 m (69) incidental na na prostate carcinoma na na 22 27 m (49) incidental large and cystic mass r blunt abdominal trauma adrenalectomy ned 1 year 23 28 m (55) abdominal mass, weight loss 10 cm solid mass r none adrenalectomy died 12 months (lung mts) 24 29 f (69) legs swellings 12.5 cm inhomogeneous mass r chronic renal failure adrenalectomy + nephrectomy na 25 30 m (35) hypertension 6 cm inhomogeneous mass r adrenocortical adenoma laparoscopic adrenalectomy ned 2 years 26 31 m (61) fatigue, weight loss hypo-dense space-occupying lesion (pet) r epicardial mts adrenalectomy na 27 32 m (42) flank pain hypervascular solid mass (14 cm) r cystic lesion of the adrenal gland adrenalectomy and nephrectomy died 3 months (liver mts) 28 33 m (68) left sided chest pain heterogeneous mass (7 cm) l vynil chloride exposition laparoscopic adrenalectomy died 7 months (bone mts) 29 34 m (55) abdominal mass, weight loss 14 cm solid mass l none adrenalectomy na 30 35 f (60) hypertension 5 cm solid mass l adrenal cortical adenoma laparoscopic adrenalectomy ned 9 months 31 36 m (63) weight loss 8 cm solid mass r adrenal cortical adenoma adrenalectomy na 32 37 m (67) hypertension 16 cm heterogeneous mass r left renal cell carcinoma adrenalectomy ned 12 months 33 table i. case reports on epithelioid angiosarcomas retrieved in pubmed l = left; mts = metastasis; na = not available; ned = no evidence of disease; r = right the disease occurs more frequently in males (m/f= 28/9), ranges from 34 to 85 years of age, with a mean peak at 57 years. patients can either be asymptomatic or suffer from weight loss, slight fever, anorexia, fatigue, weakness, and chronic pain in the upper abdominal quadrants, as in our patient. no increase in adrenal gland hormones production is noted in most of the reported cases, even though two patients had cushing’s syndrome [9,15] and in three patients the disease was discovered for the sudden onset of hypertension, despite none of them had increased plasmatic aldosterone or metanephrines [26,31,33]. actually, ct scan is the most used radiological tool for diagnostic purpose, even if f18 fdg pet/ct may be useful too [27]. although adrenal angiosarcoma does not have a distinct gross pattern, a review of the literature showed that it tends to have a round, solid, and heterogeneous aspect. frequently, it is a cystic mass and can range in size from 3 cm to 16 cm (table i). clinicians and pathologists should include primary adrenal angiosarcoma in the differential diagnoses list for large adrenal gland mass [34]. one can speculate that the rich adrenal vasculature may create a favorable milieu for hemorrhagic and necrotic changes, while the high mitotic index may explain both the solid pattern and the huge volume of the tumor that is often found. in this case, the differential diagnosis includes metastatic malignancy and other primary adrenal tumors. epithelioid angiosarcomas can imitate carcinomas morphologically and immune-phenotypically. metastatic or primary melanoma can also show both epithelioid and spindled morphology. among benign and malignant neoplasms that may simulate epithelioid angiosarcoma, there are adrenal adenoma undergoing massive hemorrhage and epithelioid hemangioendothelioma. moreover, the diagnosis of angiosarcoma can be a challenge due to pathohistologic features mimicking intravascular papillary endothelial hyperplasia (ipeh – masson’s tumor). ipeh is a benign, reactive process that cannot be radiologically differentiated from other benign or malignant lesions [35]. because of its rarity, in literature there is only one previous case of adrenal angiosarcoma diagnosed by fine-needle aspiration (fna) [25]. in fact, owing to its epithelioid morphology, this tumor may be mistaken for other neoplasms. sometimes, the difficult diagnosis may cause an insufficient surgical approach. if the tumor is confined to the adrenal gland, it is suggested to remove it, and also take the periadrenal fat tissue and pericaval or periaortic tissue out in order to eradicate any site of potential local tumor microinfiltration. involved organs, such as liver, spleen, pancreas, kidney, or bowel must be removed [16]. too often, patients undergo surgery before a proper diagnosis is made and the high incidence of local relapses may sometimes be explained by inadequate approaches. laparoscopy may be used carefully in district surgeries: among the studied case reports, it was used in four patients with a follow up no longer than one year [13,26,29,31]. so far, diagnostic process is supported by histopathology and immunohistochemistry. epithelioid angiosarcomas are morphological variants of angiosarcomas, in which polygonal endothelial cells with “epithelioid” appearance predominate and are often arranged in solid nests and sheets, mimicking carcinoma. although irregular, anastomosing vascular channels are commonly identified within the lesion, supporting the diagnosis. malignant cells stain positively for endothelial markers cd31, factor viii, and fli-1. cd34 is reported to be less sensitive even though it is present in about 40% of cases (table ii). case gross finding ck cd31 cd34 factor viii ki-67 ref. 1 solid and hemorrhagic mass na na na na na 4 2 solid mass with a central hemorrhagic mass pos na na pos na 5 3 na na na na na na 6 4 hemorrhagic cyst pos na na pos na 7 5 necrotic mass with nodules na na na pos na 8 6-13 solid cystic mass pos na pos pos na 9 14 na na na na na na 10 15 hemorrhagic cystic lesion pos pos pos pos na 11 16 hemorrhagic mass pos pos pos pos na 12 17 hemorrhagic mass neg na pos pos na 13 18 solid mass replacing the adrenal gland pos pos pos pos na 14 19 multiple soft reddish nodules neg pos pos pos 30% 15 20 hemorrhagic lesion na pos na na na 16 21 hemorrhagic cystic mass pos pos neg neg na 17 22 na na na na na na 18 23 cystic mass with hemorrhagic areas neg pos pos pos na 19 24 hemorrhagic cyst pos pos pos na na 20 25 bilocular cyst containing thick material neg pos na pos na 21 26 na na na na na na 22 27 hemorrhagic mass na na na na na 23 28 solid mass with hemorrhagic foci weak pos pos pos pos na 24 29 biopsy: epithelioid cell pos pos pos na na 25 30 lobulated mass with hemorrhagic foci pos pos pos pos na 26 31 na na na na na na 27 32 cystic changes with old hemorrhage pos pos neg neg 60% 28 33 infiltrating hemorrhagic noduli focal pos pos neg pos na 29 34 na na na na na na 30 35 solid mass with hemorrhagic areas pos pos weak pos weak pos na 31 36 areas of hemorrhage and necrosis pos pos neg na na 32 37 hematoma na pos pos pos na 33 table ii. immunohistochemical and gross findings of reported cases ck = cytokeratin; na = not available most epithelioid angiosarcomas co-express cytokeratin and diagnostic errors may be promoted by immunohistochemical reactivity for this marker. in fact, cytokeratin reactivity may also occur in non-epithelial tumors like mesenchymal ones and the literature shows a lot of studies documenting the presence of cytokeratin in these tumors. therefore, cytokeratin immunoreactivity may be considered as “aberrant expression” or “cross-reactivity” of this marker [36]. surgery, combined with chemotherapy, represents the mainstay of treatment. chemotherapy is preferably used in neoadjuvant setting to shrink the tumor and eventually prevent local or distant spread. in these cases, histological diagnosis is mandatory, before therapy and fna may play an important role, because this tumor has not specific clinical or radiological patterns. most active agents are anthracycline, ifosfamide, gemcitabine, and taxanes. in advanced or metastatic disease, cytotoxic chemotherapy based on the same active drugs is the treatment of choice. even if the response rate of angiosarcoma to these treatments is higher than other tumors, in most cases their dose-limiting toxic effects (mostly cardiac and neurological) do not allow to use these therapies longer than 6 months [3]. thus, new and non-toxic drugs are strongly needed. among new anti-angiogenetic therapies, activity of sorafenib, sunitinib, bevacizumab, and thalidomide has been recently described, obtaining response rates up to 15% [37,38]. especially in palliative setting, where the goal is to increase survival and preserve the quality of life, the sequential use of taxanes and gemcitabine could be, probably in most cases, more advisable than their combination [39]. conclusions epithelioid adrenal angiosarcoma is a very rare tumor and only 37 cases are reported in scientific literature. it is very aggressive and has poor long term prognosis. such data show that early diagnosis is mandatory. nevertheless, early diagnosis is rarely made since the tumor may be asymptomatic or present with aspecific symptoms, like slight fever, anorexia, fatigue or general pain or discomfort in the upper parts of the abdomen. actually, endocrine tests are not indicative and the radiology workup may suggest just an indistinct malignancy. even if histomorphological and immunohistochemical studies are time-consuming, they are an essential part of the definitive diagnosis and fna may be an helpful tool to obtain a preoperative and definitive diagnosis. unfortunately, sometimes diagnosis is made when disease is advanced, with no therapeutic options, as happened in this case. key points epithelioid adrenal angiosarcoma is a very rare and aggressive tumor even if early diagnosis is mandatory, endocrine tests are not indicative and radiology workup shows an indistinct malignancy histological diagnosis, supported by histopathology and immunohistochemistry, is essential for the best management performed by neoadjuvant chemotherapy and district surgery it may be important for clinicians to obtain a preoperative diagnosis by fna references 1. hart j, mandavilli s. epitheliod angiosarcoma. a brief diagnostic review and differential diagnosis. arch pathol lab med 2011; 135: 268-72 2. fayette j, martin e, piperno-neumann s, et al. angiosarcoma, a heterogeneneous group of sarcomas with specific behavior depending on primary site: a retrospective study of 161 cases. ann oncol 2007; 18: 2030-6; https://doi.org/10.1093/annonc/mdm381 3. young rj, brown nj, reed mw, et al. angiosarcoma. lancet oncol 2010; 11: 983-91; https://doi.org/10.1016/s1470-2045(10)70023-1 4. kareti lr, katlein s, siew s, et al. angiosarcoma 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asbestosis. no acute neurological signs were observed by the consultant neurologist. a diagnosis of right basal pneumonia complicated by delirium was made and an empiric antibiotic therapy with ceftriaxone plus azithromycin was started. as patient’s conditions did not improve in the following 48 hours, a lumbar puncture was performed, with the microbiological isolation of l. monocytogenes. according to the indications of the infectious disease consultant, a new antibiotic regimen with ampicillin/sulbactam plus gentamicin was introduced. the chest ct scan performed as further examination revealed right pleural thickening highly suspicious for mesothelioma. the patient was discharged after 4 weeks with no neurological deficits. keywords: altered mental status; fever; meningitis; listeria monocytogenes un sessantaseienne con febbre e stato mentale alterato: un caso clinico cmi 2018; 12(1): 37-42 https://doi.org/10.7175/cmi.v12i1.1350 case report corresponding author paolo ghiringhelli paolo.ghiringhelli@asst-valleolona.it received: 31 january 2018 accepted: 15 may 2018 published: 24 may 2018 why do we describe this case we describe this case to point out how difficult could be to reach a correct diagnosis when signs and symptoms are nonspecific and could be referred to many different causes. additionally, our patient had radiological sign of pneumonia which could explain the clinical presentation, but the absence, at the onset, of typical signs of lower respiratory tract infections could suggest a hematogenous pulmonary localization of listeria. the alteration of his mental status was considered subsequent to age and fever introduction differential diagnosis of fever is probably one of the most challenging topics in internal medicine, especially if not associated with specific symptoms or signs. altered mental status can be related to the underlying infectious disease or be a symptom itself. a detailed investigation of patient’s past medical history and risk factors, a complete physical examination and the execution of cultures before starting an antibiotic therapy are essential for the definition of diagnosis and treatment. this case report allows to show the complexity of reaching the correct diagnosis and, consequently, the appropriate therapy. case description antibiotic listeria monocytogenes s/r/i amoxicillin/clavulanate s ampicillin s cefotaxime r chloramphenicol r erythromycin i moxifloxacin r rifampicin r tetracycline r co-trimoxazole i table i. antimicrobial susceptibility of listeria monocytogenes. i = intermediate; mic = minimal inhibitory concentration; r = resistant; s = susceptible a 66-year-old man was admitted to the emergency department of our hospital complaining of high fever (39.5°c), hypotension (bp at the admittance 90/60), occasional urinary incontinence, asthenia, and altered mental status characterized by drowsiness and lethargy from the previous night. moreover, a lipothymic episode while he was going to the toilet was reported. glasgow come scale was 12. his previous medical history was significant for a duodenal ulcer occurred approximately 25 years before for which he was in treatment with proton pump inhibitors, benign prostatic hypertrophy, and solitary pulmonary nodules known since 2011 and considered likely related to asbestosis (he worked in the construction sector); at that time, a nodule biopsy was proposed, but the patient declined. a chest x-ray showing a right basal reduced transparency and the already known solitary pulmonary nodules was performed; blood tests were remarkable for neutrophilic leukocytosis (wbcs 12.0 × 109/l with 88% of neutrophils) and high c-reactive protein (22 mg/dl, normal values < 0.5 mg/dl). the consultant neurologist did not observe any focal neurological sign (particularly, kernig’s and brudziński’s signs were negative) and considered lethargy and altered mental status as consequent to high fever and dehydration. the patient was therefore admitted to the internal medicine unit with the diagnosis of right basal pneumonia complicated by delirium. hence, three blood cultures from different sites, urine test, as well as legionella and pneumococcal urinary antigen tests were performed and an intravenous empiric antibiotic therapy with ceftriaxone plus azithromycin was then started, as well as intravenous fluids. urine test and antigen test turned out all negative. blood samples were analyzed also for interferon gamma release assays (in our hospital the igra test is executed with the quantiferon® tb gold), which appeared to be positive; a chest ct scan with contrast was then scheduled. finally, the patient underwent to a head ct scan without contrast, which was negative for acute focal lesions, cerebral masses, or abscesses. since the patient’s conditions did not improve in the following 48 hours, especially he was increasingly asthenic and lethargic and he answered to simple questions only if pressured, a new neurological consultation was requested, suspecting a central nervous system (cns) involvement. a lumbar puncture was eventually carried out, showing a moderately turbid cerebrospinal fluid (csf). the microscopic examination revealed 112 cells/μl (normal values 0-5 cells/μl) with prevalence of polymorphonuclear neutrophils and no bacterial cells; at the biochemical analysis, csf glucose was reduced (13 mg/dl, with plasma glucose of 122 mg/dl, with normal values among 60-70% of plasma glucose, i.e. 73-85 mg/dl) while csf proteins were increased (129 mg/dl, normal values 15-45 mg/dl), suggesting a bacterial meningitis. few hours later, a gram positive bacillus highly suggestive for l. monocytogenes was identified in the csf culture. table i reports antimicrobial susceptibility of listeria monocytogenes. antibiotic therapy was then shifted, according to the indications of the infectious disease consultant, from ceftriaxone plus azithromycin to ampicillin/sulbactam plus gentamicin; on the 4th hospital day, also one of the three blood cultures became positive for l. monocytogenes, susceptible to penicillin. in few days the patient’s clinical and neurological conditions improved and the fever disappeared. the antibiotic regimen was prescribed for 21 days. moreover, the chest ct scan organized to better define the pulmonary nodules showed right pleural thickening with focal enhancement and significant pleural effusion, as well as right pulmonary nodules with pathologic enhancement, confirmed by the following position emission tomography (pet) and suggestive for pleural mesothelioma. the patient was discharged after 4 weeks of hospitalization without neurological deficits. after 1 month a video-assisted thoracoscopic surgery (vats) for pleural biopsy and pleurodesis was performed. histological examination revealed malignant cells compatible with primitive lung adenocarcinoma. therefore, the patient was referred to an oncologist and a thoracic surgeon in order to define his further therapeutic plan. discussion l. monocytogenes is the most frequent human pathogen of listeria genus, followed by l. ivnovii [1]. listeria is a gram positive, facultatively anaerobic, no spore-forming, motile, rod-shaped bacterium. it is a facultative intracellular bacillus, which can be isolated in soil, vegetation, wood, animals and decaying matter in the natural environment, thanks to its ability to survive in extreme conditions, as wide ph range, high salt concentrations, or at refrigeration temperatures [2]. listeriosis is a bacterial food-borne infection, with a fatality rate of up to 30% when involves cns, despite adequate antibiotic treatment [3]. transmission occurs through the ingestion of contaminated food, especially undercooked food, raw vegetables or seafood, non-pasteurised cheese and milk [4,5]. it is responsible for the highest hospitalization and mortality amongst food-borne [5]. proton pump inhibitors (which our patient was taking due to his previous history of duodenal ulcer) and other drugs reducing gastric acid increase the risk of illness, because gastric low ph represents an important barrier to listeria [6]. its incidence in europe is 0.34-0.52 per 100,000 inhabitants per year [7], and it mainly occurs in particular at-risk groups: pregnant women, elderly (considered as aged over 50 years old), immunosuppressed transplant recipients, patients with impaired cell-mediated immunity, diabetics, and neonates. malignancy is the main predisposing risk factor [8]. in immunocompetent people, l. monocytogenes might cause febrile gastroenteritis, which is usually mild and self-limiting in few days, after a incubation period variable from 24 hours to 3 weeks. in at-risk groups, this bacterium is an important cause of life-threatening infections including sepsis, meningitis, or meningoencephalitis and less commonly rhomboencephalitis, due to its tropism to the central nervous system [9]. less often, brain abscesses due to listeria have been reported [10]. l. monocytogenes is the fourth most frequent cause of bacterial meningitis [11]. the typical triad of fever, neck stiffness, and altered mental status is described only in 44% of patients with meningitis, but 95% has at least two of the four symptoms among headache, fever, neck stiffness, and altered mental status [12]. however, the incidence of meningeal signs among patients with l. monocytogenes is lower than that among cases of meningitis due to other causes of bacterial meningitis [13]. patients with l. monocytogenes meningitis are frequently comatose and they do not develop a rapid progression to respiratory failure, suggesting that the disease is not as rapidly progressive as pneumococcal meningitis [14]. in elderly people, clinical presentation could be troublesome, as main clinical symptoms such as fever or neck stiffness may be absent [15] or related to other diseases typical of aging patients, as parkinson’s disease or cervical arthritis; an altered mental status could be expression of several infectious or non-infectious underlying causes [16]. moreover, its incidence approaches to 9% in this group [17]. our patient did not present headache nor neck stiffness and denied dubiously preserved food ingestion; moreover, the chest x-ray showed a soft right basal opacity consistent with early radiological sign of pneumonia, which could explain the patient’s symptoms. antibiotic therapy for community-acquired pneumonia (cap) was thus started. as the symptoms did not improve, actually the level of consciousness worsened, a cns involvement was suspected and the csf examination showed pleocytosis associated with an increase in protein concentration and low csf glucose as compared to the blood concentration, which are the typical findings of bacterial meningitis [12]. csf cultures yielded l. monocytogenes susceptible to ampicillin and amoxicillin/clavulanate, resistant to cefotaxime, chloramphenicol, moxifloxacin, rifampicin, and tetracycline, and intermediate to erythromycin and co-trimoxazole (table i). susceptibility to gentamicin was not reported. real-time polymerase chain reaction (pcr) assay is a relatively new and rapid test to detect l. monocytogenes, especially helpful when patients have received antibiotic therapy before the lumbar puncture execution, with a moderate sensitivity and specificity of 80% [18]. we did not perform pcr analysis because, unfortunately, it is not available in our hospital. however, pcr assays must not replace csf and blood cultures, as these are the only techniques which test antimicrobial susceptibility. according to guidelines [19,20], the treatment of choice of l. monocytogenes meningitis is ampicillin plus a synergistic aminoglycoside for at least 3 weeks. in patients with β-lactams allergy, co-trimoxazole is the best alternative thanks to its favorable penetration through the blood-brain barrier [21]. fluoroquinolones accumulate in monocytes, which are the target cells of l. monocytogenes, and are rapidly bactericidal; however, their clinical activity is not as high as in experimental models, apparently because these antibiotics are less active against intracellular than extracellular forms of l. monocytogenes [22]. linezolid has a proven in vitro activity against this bacterium, but clinical data are currently limited [23]. meropenem has reported to cause a higher mortality compared to penicillin, in spite of its low minimum inhibitory concentration (even lower than that of ampicillin) against l. monocytogenes, supposedly due to some difference in their intracellular activity [24]. vancomycin is bactericidal within six hours, but it is not able to cross the blood-brain barrier reaching therapeutic concentration, thus its use is limited in cases of meningitis [25]. cephalosporins are ineffective while steroids are not recommended [26]. we initially considered pneumonia as consequent to the systemic dissemination of l. monocytogenes; then, after the improvement of the patient’s conditions, we performed a chest ct and a whole body pet scan which suggested the likely neoplastic nature of the pulmonary nodules, subsequently confirmed by histological examination, attesting malignancy as the main risk factor for l. monocytogenes meningitis. conclusion this case emphasizes the need of considering l. monocytogenes meningitis in the differential diagnosis of fever and altered mental status in any patient, even if immunocompetent, especially in the elderly, due to its high mortality rate. moreover, with the increasing number of the elderly population and the spread of vaccinations against h. influenzae, s. pneumoniae, and n. meningitis, l. monocytogenes meningitis is expected to become more frequent in adult population. finally, when a l. monocytogenes meningitis is diagnosed in an immunocompetent patient, a detailed investigation of risk factors should be done to rule out underlying neoplastic diseases. the most common errors not investigating the past medical history not performing complete physical examination not considering disturbance of consciousness as expression of an underlying neurological disease but only age-related or fever-related; it is always necessary to ask about the previous mental status delaying blood cultures and lumbar puncture delaying antibiotic prescription funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests authors declare they have no competing financial interests concerning the topic of this article. references 1. guillet c, join-lambert o, le monnier a, et al. human listeriosis caused by listeria ivanovii. emerg infect dis 2010; 16: 136-8; https://doi.org/10.3201/eid1601.091155 2. vázquez-boland ja, kuhn m, berche p, et al. listeria pathogenesis and molecular virulence determinants. clin microbiol rev 2001; 14: 584-640; https://doi.org/10.1128/cmr.14.3.584-640.2001 3. arslan f, meynet e, sunbul m, et al. the clinical features, diagnosis, treatment, and prognosis of 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narcotic and non-narcotic medications in a patient with worsening lumbar spinal stenosis that was unable to proceed with surgical intervention for the next several months and had failed his prior outpatient pain regimen. proper titration of a basal narcotic dose in addition to optimizing non-narcotic medications, including muscle relaxants, proved to better control pain in the interim until surgical intervention. our case shows how several different teams of physicians and non-physician providers collaborated to optimize pain control using several different treatment regimens with different doses and routes until a safe and effective plan was created for long-term use. keywords: spinal stenosis; spinal diseases; analgesia; pain management ottimizzazione del controllo del dolore in un paziente con stenosi spinale lombare: un caso clinico cmi 2018; 12(1): 17-21 https://doi.org/10.7175/cmi.v12i1.1336 case report corresponding author raymond e kennedy ray.e.kennedy.jr@gmail.com received: 2 november 2017 accepted: 23 february 2018 published: 27 march 2018 why do we describe this case in a time where media and the us government claim opioid medications provide more harm than benefit, we shed light on their positive effects. with collaboration and expertise management, it is possible to safely titrate these medications in order to control pain in patients who are otherwise very difficult to treat, while maintaining pain control and patient safety introduction the us international classification of diseases, 10th revision, clinical modification (icd-10-cm), has 93,000 different codes for diagnosing patients who seek medical care; and one of the most common reasons for seeking medical attention is low back pain, with a lifetime prevalence of up to 84% [1]. to further narrow the cause of the broad diagnosis of low back pain, lumbar spondylosis, or degenerative spine disease specifically, is the most common etiology that can profoundly affect functionality and quality of life, and is the biggest culprit of missed work days [2]. those diagnosed with lumbar spondylosis undergo initial non-operative management consisting of a 6-to-8 week trial with narcotic and non-narcotic medications, muscle relaxants, steroid injections, and physical therapy. although a majority of patients will show improvement with this initial management, those still in pain seek out a more invasive solution, i.e. spinal surgery [2]. lumbar spinal stenosis (lss) is the most common indication for spinal surgery in the aging population [3]. while low back pain may be the initial chief complaint or symptom, other issues arise from the initial cause. neurogenic claudication (nc) or pseudo-claudication, is commonly due to lss and is caused by inflammation, swelling, and impingement of the nerves of the spinal cord presenting as pain, weakness, and/or numbness in the calves, buttocks, or thighs. in specific relation to nc secondary to lss, recent clinical studies have failed to demonstrate any benefit of opioid medication used to control symptoms, stating the risks of chronic opioid use far outweigh the benefits of pain relief [4]. despite the conclusions of single study literature, opioid medications continue to be used to treat the chronic pain and acute pain crises in patients diagnosed with lumbar spinal stenosis. opioids, both the prescription and illicit, have been identified as the main driver of drug overdose deaths [5]. the annual cost of patients suffering from chronic pain in the united states alone is estimated to be between $560 and $635 million according to the institute of medicine [6]. this accounts for all health care costs and loss of productivity as well. in today’s news, america’s opioid crisis makes headlines as it has been declared a public health emergency. many states have chosen to respond differently to this agenda, some by shortening opioid prescription durations while others limiting physicians from prescribing this class of medication in its entirety. in addition, many, if not all, have begun to finely tune their prescription drug monitoring programs (pdmps), which is an electronic database that allows for tracking of controlled substance prescriptions in that state [5]. while narcotics are not indicated for the long-term treatment of every disease, or even all types of chronic pain, they can be an alternative for those who wish to forgo surgical and/or other interventional procedures to manage their condition. america’s epidemic of opioid abuse is not only leading to tighter regulations surround prescriptions, but also causing many physicians to be fearful of the repercussions (media attention, lawsuits, etc.) of prescribing opioids in what the media considers too high of a dose, or too long of a duration. as in our case below, properly titrating with confidence in pharmacology, paired with the expertise of pain management physicians, opioids can be prescribed in higher doses and/or quantities while maintaining patient safety and achieving the specific goal of pain relief.  case presentation the patient is a 77-year-old male with a past medical history notable for severe ischemic cardiomyopathy (ejection fraction—ef = 20-25% demonstrated on recent transthoracic echocardiogram—tte), coronary artery disease, myocardial infarction (3 times), implantable cardioverter defibrillator (icd) pacemaker placement, paroxysmal atrial fibrillation on warfarin, and spinal stenosis with chronic back pain treated with 15 mg immediate release (ir) oral morphine at home. the patient presented with acute worsening of lower back pain, rating as severe while recumbent or standing upright, minimally improved with hip flexion. he believed the symptoms had been progressively worsening, particularly over the past 4-5 days to the point where he is bedridden and unable to ambulate. on the day of presentation, he reported one episode of urinary incontinence, which he described as having been due to an inability to get out of bed in time to make it to the bathroom, due to limitations of his mobility by severe back pain. he denied other instances of urinary or fecal incontinence, saddle anesthesia, fevers, or chills. of note, anal sphincter tone was normal per the emergency department (ed) physician’s exam. computed tomography (ct) myelogram 1 month ago showed severe l4-l5 central and foraminal spinal stenosis with complete spinal canal effacement, as well as severe facet arthropathy and multi-level degenerative joint disease (djd). ct imaging of the lumbar spine taken at that same time is shown in figure 1. these changes showed advancement of his disease since prior imaging in 2008. the patient was evaluated by neurosurgery at the time of imaging and was determined to have neurogenic claudication with bilateral l5 radiculopathies with severe l4-l5 central and foraminal spinal stenosis and grade 1 spondylolisthesis (refer to figures 1 and 2). figure 1. sagittal computed tomography (ct) image demonstrating severe central spinal stenosis and spondylolisthesis. figure 2. axial magnetic resonance imaging (mri) demonstrating severe central spinal stenosis. discussions of possible surgical decompression and fusion were deferred until the patient abstained from smoking for at least 4 weeks from admission. in the ed, he received 0.5 mg intravenous (iv) hydromorphone up to 2 mg, with modest relief from pain and was admitted for further pain management (table i). as expected, the patient tolerated each pain regimen differently over his 6-day admission. in addition to medications, physical therapy was provided daily to aid the patient in exercise and ambulation with session length progressively increasing throughout admission but was ultimately dependent on patient cooperation. despite the differing pain strategies, the patient continued to rate his pain as a 6/10 at rest and 10/10 with movement. regimen medications total oral morphine equivalents 1 morphine ir bid 15 mg 30 mg 2 hydromorphone pca 10 mg acetaminophen q6h 975 mg topical lidocaine 150 mg 3 morphine er 30 mg-15 mg-30 mg morphine ir bid 15 mg gabapentin tid 200 mg cyclobenzaprine 5 mg-acetaminophen 975 mg q6h topical lidocaine required additional morphine ir 30 mg 135 mg 4 morphine er tid 30 mg morphine ir bid 15 mg gabapentin tid 300 mg cyclobenzaprine 5 mg-acetaminophen 975 mg q6h topical lidocaine required additional morphine ir 7.5 mg 127.5 mg 5 morphine er tid 30 mg morphine ir bid 15 mg gabapentin tid 400 mg methocarbamol tid 1000 mg acetaminophen q6h 975 mg topical lidocaine 120 mg table i. pain medication regimens with 25% cross tolerance conversion bid = bis in die (twice a day); er = extended release; ir = immediate release; pca = patient-controlled analgesia; q6h = quaque sex hora (every 6 hours); tid = ter in die (thrice a day) the patient’s home medication consisted of regimen 1 (see table i), which no longer treated his worsening back pain and this medication failure with progressive disease was ultimately what brought him to the emergency department. for advanced pain control, regimen 2 (see table i) was implemented on admission and proved effective in decreasing pain but was at the expense of the patient becoming bedridden, dependent on the pca (patient-controlled analgesia) pump and uncooperative in participating with physical therapy. the pca was discontinued and the patient was transitioned to oral medications with strict limitations to avoid further iv opioid analgesia. chronic pain services were also consulted at this stage in treatment, with recommendations to up-titrate non-opioid medications in addition to the current regimen. despite increasing the dose of extended-release morphine, the total amount of oral morphine equivalents decreased. discussion as the media continues to promote the war on opioids and attempts to decrease the number of medical prescription narcotics, it is becoming increasingly difficult to adequately control pain in patients who would benefit from a tailored regimen of pain medications. the current media has caused many physicians to become “gun shy” when prescribing opioids, and, for those that do, the doses may be too low to cause any benefit. this is ultimately leading to a time in medicine where useful medication will be set aside for “safer” alternatives. in our case, pain medications were tailored to the desired effect: a balance between pain control and patient well-being. initial regimens consisted of shorter acting, and patient-controlled analgesics. while pain was controlled with these methods, fear for the patient’s safety and well-being caused for a change in approach. starting off with a low basal rate with intermittent short-acting dosing available for breakthrough should be used as a starting point for any patient with chronic pain, as it aims to control pain long term while also starting at low enough doses to allow for titration based on patient response. the optimal regimen in our case consisted of a higher basal rate of opioids with the addition of short-acting opioids and several non-narcotic medications. ironically, the higher dose of basal rate morphine provided a smaller daily amount of opioids, while maintaining adequate control of pain. the reason as to why this regimen succeeds over the other attempts can be due to several reasons: a higher basal rate of pain control was achieved with the extended-release morphine; an effect of medically optimizing non-opioid medications; or perhaps, a synergism between the two. regardless identifying the exact cause, pain was ultimately under better control based on decreased additional dosing required overnight, increased length of physical therapy sessions, and clinical examination. as the leading cause of drug abuse deaths in america’s epidemic, the first step of identifying the problem has been accomplished. however, the next several steps required to solve or at least minimize this nation-wide problem is not as simple. the nation’s current focus is on prescription opioids administered by physicians. while this is only half of the problem, the other being illicit production, distribution and abuse of opioids, the already heavily regulated industry of prescription medications is much easier to regulate and restrict further, and that is exactly what is happening. with greater checks-and-balances surrounding the administration of certain prescription medications (i.e. with pdmp’s, tighter prescription laws for physicians, etc.), it should be concluded that this epidemic would immediately cease to exist. in reality, regardless of the number of restrictions placed on physicians who only intend to treat their patient, the abuse of prescription medications will remain astronomical. the only foreseeable difference is in the ratio of abuse potential from prescribed medications versus illicit forms, and as tighter control is placed on prescriptions, the numbers will sway in favor of illicit abuse as long as the medications can be produced and distributed amongst the community. key points narcotics can safely and effectively manage pain in patients long term non-opioid medications can provide a synergistic effect in pain control and help reduce the overall dose of opioids while achieving the desired pain goal collaboration with physicians, pain specialists, and non-physician providers is crucial for successful management multiple changes in treatment plans may be necessary to discover a regimen that is safe and beneficial patient safety and comfort should be the main priorities in treating chronic pain funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. waddell g. the back pain revolution. ed. 2. london: churchill livingstone, 2004 2. parker sl, godil ss, mendenhall sk, et al. two-year comprehensive medical management of degenerative lumbar spine disease 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education, and research. washington, dc: national academies press, 2011 cmi 2017;11(1)31-37.html gestione delle osas dell’adulto in medicina generale: un nuovo modello per la prevenzione del rischio carla bruschelli 1, germano bettoncelli 1, giorgio carlo monti 1 1 simg – società italiana di medicina generale abstract obstructive sleep apnea syndrome is a condition characterized by paused breathing during sleep due to complete or partial obstruction of the upper airways. it is still underdiagnosed and underestimated, despite its respiratory, cardiovascular, and neurocognitive complications. polysomnography is the gold standard for diagnosis. the treatment protocol, that has to be agreed with the patient, is behavioral, ventilator, and sometimes surgical. the role of general practitioners is essential for early identification of patients with high probability of osas. physicians are supported by specific instruments of general practice, such as continuity of care, computerized medical records for oriented problems, medical history, and diagnostic-therapeutic methodology for an exclusive management model. among their duties, there is also the management of care priorities for patients’ comorbidities. keywords: general practitioners; sleep apnea, obstructive; 4q model management of adult obstructive sleep apnea syndrome in general practice: a new model of risk prevention cmi 2017; 11(1): 31-37 https://doi.org/10.7175/cmi.v11i1.1291 gestione clinica corresponding author germano bettoncelli gerbet@alice.it disclosure gb dichiara di aver ricevuto fee da glaxosmithkline e chiesi farmaceutici non correlati al presente articolo. cb e gcm dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo introduzione negli ultimi dieci anni la rilevanza epidemiologica in termini di morbilità e mortalità correlata alle malattie respiratorie ha sempre più coinvolto la medicina del territorio e in particolare la medicina di famiglia nell’identificazione di interventi efficaci di appropriatezza prescrittiva e di clinical governance [1]. in tale ambito si colloca l’attività svolta dalla gard-italia (global alliance against chronic respiratory diseases-italia), promossa presso il ministero della salute per discutere e promuovere iniziative relative alla salute respiratoria. in tale campo nel 2013 è stato prodotto il volume “la formazione nell’ambito delle malattie respiratorie: il punto di vista del medico di medicina generale”, elaborato con l’obiettivo di dare una prima strutturazione al tema della diagnosi precoce delle patologie respiratorie [2]. nel documento si evidenzia come il settore delle cure primarie rivesta particolare importanza per le malattie respiratorie croniche, poiché la maggior parte delle consultazioni per questi problemi avviene proprio nel contesto della medicina generale. un potenziamento dell’assistenza multiprofessionale integrata per queste patologie rappresenta una delle possibili soluzioni individuate dal servizio sanitario, poiché un’adeguata assistenza sul territorio al paziente con malattie respiratorie può ridurre le esacerbazioni e i ricoveri ospedalieri e incidere in modo decisivo sulla storia naturale delle malattie [3]. inoltre, quando il ricovero si rende necessario, un buon coordinamento tra medicina generale e specialistica ospedaliera può mettere in atto accessi e dimissioni protette, in grado di ridurre sensibilmente i tempi di degenza. protagonista principale di questa assistenza è il medico di medicina generale che oggi, come previsto anche dalle ultime elaborazioni del patto per la salute, deve possedere cultura, strumenti gestionali e metodologia organizzativa innovativi, spendibili in ragione di adeguati investimenti e trasferimenti di risorse, da indirizzare specialmente verso la prevenzione e le strategie di management [4]. il medico di medicina generale e le osas la sindrome delle apnee ostruttive nel sonno (obstructive sleep apnea syndrome – osas) è una condizione caratterizzata da pause nella respirazione durante il sonno, dovute all’ostruzione parziale o totale delle prime vie aeree [5]. si è in presenza di tale sindrome quando si verifica un numero di apnee o di eventi respiratori ostruttivi incompleti (ipopnee o respiratory effort related arousal – rera) uguale o superiore a 5 episodi per ora di sonno, con evidenza di sforzo respiratorio durante l’ostruzione e presenza di altri sintomi come la sonnolenza diurna, oppure quando si verifica un numero di eventi uguale o superiore a 15 con evidenza di sforzi respiratori. questa condizione è molto più comune nelle persone in sovrappeso o francamente obese, in chi ha ostruzioni delle prime vie aeree (a livello del naso, della bocca o della gola), ed è più frequente negli uomini (3-7%) che nelle donne (2-4%), come pure nei fumatori e in chi abusa di alcol. in italia ne soffrono oltre 1.600.000 persone e tale condizione è responsabile di circa il 22% degli incidenti stradali [6]. essa rappresenta tuttora un fenomeno clinico sottodiagnosticato e sottovalutato, malgrado le conseguenze sul piano respiratorio, cardiovascolare e neurocognitivo. la sonnolenza diurna è una delle complicanze più gravi dell’osas ed è definita come l’impossibilità a rimanere svegli e attenti durante la maggior parte dei momenti della giornata che normalmente richiedono la veglia. i pazienti, o se questi sono ignari del problema i loro partner, dovrebbero dunque rivolgersi al medico per la presenza di incapacità acuta o cronica di dormire adeguatamente durante la notte, per affaticamento cronico, sonnolenza e spossatezza durante il giorno, o per altre manifestazioni comportamentali associate con il sonno stesso. sul piano fisiopatologico l’osas si caratterizza per il collasso delle vie aeree superiori ed episodi ciclici di chiusura parziale o completa dell’ipofaringe, che si traducono nella presenza di eventi apnoici e/o ipopnoici e allo stesso tempo nella riduzione della saturazione in ossigeno del sangue arterioso (spo2) o ipossiemia; i successivi sforzi inspiratori messi in atto dal soggetto per consentire il passaggio dell’aria possono provocare micro-risvegli ripetuti durante il sonno, che rendono quest’ultimo inefficace e poco ristoratore [7]. uno dei segni più suggestivi di osas è l’improvviso arresto del russare. le potenziali conseguenze cardiovascolari, metaboliche e neurocognitive dell’osas sottolineano la necessità di una diagnosi precoce e di un altrettanto precoce trattamento. la sintomatologia infatti è spesso aggravata, ancora di più nell’obeso, da complicanze gravi e talvolta mortali che riguardano apparati vitali, primi fra tutti quello cardiocircolatorio e il sistema nervoso centrale [8]. inoltre la sonnolenza secondaria all’osas, che ha una prevalenza del 2-4%, rappresenta uno dei problemi principali in tema di sicurezza stradale [9,10]. i soggetti con osas moderata o grave hanno infatti dei veri e propri colpi di sonno, per definizione improvvisi, inattesi e incoercibili. per i medici non è facile stabilire la reale abilità e i relativi rischi alla guida dei pazienti con osas, ancor più comprendere se ciò comporti reali rischi per questi pazienti o verso terzi. molti di loro, infatti, potrebbero non avere mai avuto un incidente stradale. essendo quindi necessario definire il livello di gravità della malattia, è compito del medico di famiglia e del medico del lavoro/medico competente identificare soprattutto i pazienti ad alto rischio, quelli con chiari sintomi clinici, ovvero con grave sonnolenza diurna, con storia di frequenti incidenti stradali, con un punteggio della epworth sleepiness scale compreso nell’intervallo 16-24. questi pazienti dovrebbero essere inviati in un centro per i disturbi del sonno, soprattutto quando si tratta di autisti di professione. la diagnosi di osas viene effettuata tramite il monitoraggio cardiorespiratorio notturno che monitora il flusso aereo, gli sforzi toraco-addominali, la saturazione ossiemoglobinica, la frequenza cardiaca, l’ecg e la posizione corporea durante il sonno. l’esame polisonnografico completo, riservato ai casi clinici più complessi o di difficile interpretazione, viene effettuato mediante la polisonnografia completa di elettrodi elettroencefalografici, elettromiografia, elettrooculogramma per la stadiazione degli stadi del sonno ed elettrodi tibiali per la misurazione dei movimenti degli arti inferiori. per convenzione si stabilisce la gravità dell’osas sulla base del numero di apnee e ipopnee per ora di sonno (apnea-hypopnea index – ahi): un valore di ahi compreso tra 5 e 15 viene definito lieve, tra 15 e 30 moderato, sopra i 30 grave [11]. secondo alcune stime recenti, circa il 20% della popolazione generale mostra un quadro di osas lieve, mentre il 6-7% della popolazione è affetto da osas moderata e grave (ahi > 15) [6]. una volta effettuata la diagnosi, il protocollo terapeutico, da concordare con il paziente, è prevalentemente di tipo comportamentale, ventilatorio e talvolta chirurgico. la terapia comportamentale è affidata quasi esclusivamente al regime dietetico, con l’imposizione di un drastico calo ponderale qualora vi sia sovrappeso o obesità. altrettanto importante è l’abolizione del fumo. in alcuni casi, nelle forme lievi, quando il russamento è associato alla posizione supina, viene consigliata la terapia posizionale, insegnando al paziente a imparare a dormire sul fianco, per evitare che le vie respiratorie superiori collassino durante il sonno. la terapia ventilatoria è il trattamento più diffuso e universalmente riconosciuto delle forme di osas più gravi. esistono due modalità principali: la pressione continua positiva nelle vie aeree (cpap) e la pressione su 2 livelli (bpap). la cpap è generalmente preferita per la maggior parte dei pazienti poiché è la modalità meglio studiata, più semplice da utilizzare e meno costosa [12]. consiste nel far respirare al soggetto aria a una pressione superiore a quella ambientale, superando così le eventuali ostruzioni presenti e dilatando le vie aeree superiori [13,14]. numerosi trial randomizzati controllati hanno confermato che la cpap riduce la frequenza degli eventi respiratori ostruttivi durante il sonno, la sonnolenza diurna e la pressione arteriosa sistemica, migliorando la qualità della vita [15]. dati più limitati suggeriscono che la cpap possa migliorare la prognosi dei pazienti con scompenso cardiaco, il rischio di recidive di fibrillazione atriale (fa) parossistica e le aritmie notturne. i vantaggi che si possono ottenere dalla terapia con cpap sono oggi decisamente evidenti, anche se in alcuni pazienti possono insorgere difficoltà ad accettare tale trattamento a lungo termine, in quanto l’applicazione della maschera durante il sonno può risultare eccessivamente fastidiosa. il mmg, in collaborazione con gli altri operatori e la famiglia, deve saper svolgere un costante intervento educazionale di supporto volto a promuovere l’accettazione della cpap da parte del paziente e aiutando a rimuovere gli eventuali ostacoli (es. decubiti da maschera) al suo regolare utilizzo. la terapia chirurgica ha lo scopo di eliminare i fattori ostruttivi che impediscono la regolare aerazione delle vie aeree superiori. ha una primaria indicazione in età pediatrica per la frequente associazione con l’ipertrofia tonsillare e adenoidea. dovrebbe essere sempre successiva a un drastico tentativo di calo ponderale e di raggiungimento del peso-forma. nonostante numerosi studi e tentativi, non disponiamo oggi di farmaci sicuramente efficaci per la terapia dell’osas. certamente il trattamento delle patologie concomitanti può migliorare le condizioni del paziente. la somministrazione orale di teofillina (una sostanza appartenente al gruppo delle xantine, come la caffeina), ancora usata, seppur più raramente, per i suoi effetti broncodilatatori in malattie broncostruttive come asma e broncopneumopatia cronica ostruttiva (bpco), può ridurre il numero di episodi di apnea, ma può anche produrre effetti collaterali come palpitazioni e insonnia. di solito la teofillina è inefficace negli adulti con osas: è stata studiata in associazione alla cpap nel trattamento delle apnee centrali del sonno con risultati non sicuramente efficaci [16]. strumenti di diagnosi e di monitoraggio clinico di osas per il mmg di fronte al proprio assistito, il medico di medicina generale può avvalersi di strumenti clinico-diagnostici quali: anamnesi ed esame obiettivo, orientati in particolare ai soggetti obesi o in sovrappeso, ai fumatori, ai portatori di anomalie anatomiche del nasofaringe, quali l’ipertrofia dei turbinati, la poliposi nasale, l’ipertrofia adenotonsillare e la deviazione del setto nasale, condizioni come il collo corto, l’aumento della circonferenza del collo (frequente negli obesi), la retrognazia, la macroglossia; software gestionali con cartella clinica orientata per problemi, che offre possibilità di audit e rilevazione dei dati. tali strumenti consentono di effettuare indagini retrospettive nella popolazione assistita alla ricerca dei soggetti con fattori di rischio (ad esempio indice di massa corporea – bmi elevato, fumo, ecc.) e possono permettere di porre in atto interventi proattivi di richiamo dei pazienti o interventi occasionali in caso di accessi allo studio medico per motivi differenti; questionari di tipo soggettivo rapidi e di facile somministrazione, come la epworth sleepiness scale (ess) o la stanford sleepiness scale (sss) [17]. la sss misura la sonnolenza in determinati momenti della giornata secondo una scala che va da 1 a 7: più alto è il valore indicato dal paziente, più elevato è il suo livello di sonnolenza. la ess [18], invece, valuta la probabilità di addormentarsi durante la giornata in 8 situazioni specifiche, per ciascuna delle quali è possibile attribuire un punteggio che va da 0 a 3: prevede, pertanto, un punteggio massimo di 24, che indica la situazione patologica più grave. i questionari più brevi sono quelli più adatti al mmg; consulenze di 2° livello (diagnostica di laboratorio, diagnostica strumentale di i livello, diagnostica strumentale di ii livello e videat specialistici). il modello 4q della simg figura 1. analisi diagnostica secondo il metodo dei 4 quadranti (4q) all’interno del gruppo di lavoro dell’area pneumologica della simg (società italiana di medicina generale e delle cure primarie) è stata elaborata l’ipotesi di una metodologia clinica di approccio alle patologie croniche respiratorie in grado di tener conto del setting e del tipo di persone che abitualmente si rivolgono al medico di famiglia [19]. adattando a questo specifico contesto medico strumenti e metodologie di analisi quali la “finestra di johari”, ideata da joseph luft e harry ingham [20] al fine di indagare gli aspetti relazionali e di comunicazione interpersonale (il conosciuto e lo sconosciuto), e il modello dei quattro quadranti di ken wilber [21], si è convenuto di proporre un nuovo strumento in grado di aiutare il medico generale a identificare con maggior sensibilità e specificità i possibili bisogni assistenziali dei pazienti affetti da una data patologia o a rischio per essa. il sistema di analisi a 4 quadranti (4q) utilizza uno schema composto da un quadrato, suddiviso in quattro quadranti (figura 1). nella dimensione orizzontale si misura la presenza di sintomi o procedure correlati alla patologia, mentre la dimensione verticale evidenzia la presenza o meno di una data diagnosi. la combinazione di questi due parametri porta all’identificazione delle quattro aree descritte di seguito. il primo quadrante (scenario 1), corrisponde all’“area nascosta” e rappresenta l’area in cui il medico ha riportato in cartella una diagnosi, ma senza ulteriori correlazioni sintomatiche o terapeutiche. il secondo quadrante (scenario 2), che identifica l’“area nota”, rappresenta il contesto in cui vi è già una diagnosi registrata: occorre pertanto monitorare l’andamento della patologia per verificare che sia ben controllata e rilevare e trattare prontamente gli eventuali nuovi sintomi. nel terzo quadrante (scenario 3), chiamato “area ignota”, non esiste una diagnosi registrata né traccia di sintomatologia o altro che possa al momento far pensare alla malattia. in questo caso di tratta di soggetti con fattori di rischio per i quali il medico può formulare un sospetto di patologia eventualmente da indagare. il quarto quadrante (scenario 4) descrive un’“area cieca” e coincide con l’area in cui non esiste ancora la diagnosi, ma nella cartella clinica vi è documentata una sintomatologia compatibile o comunque sono presenti procedure diagnostico-terapeutiche correlate. applicando questo schema di volta in volta alle patologie interessate all’analisi è possibile identificare e raggruppare i pazienti in quattro aree specifiche. per ognuna di esse potrà successivamente essere definita una strategia investigativa che consentirà, attraverso iniziative proattive, in base a quanto definito dalle linee guida e dall’evidence based medicine (ebm), di confermare la diagnosi per mezzo degli strumenti diagnostici previsti, identificare i pazienti affetti da malattia utilizzando le procedure diagnostiche previste e non ancora effettuate, approfondire la diagnosi nei pazienti sintomatici e identificare i pazienti semplicemente a rischio di malattia. applicazione del modello 4q all’osas la metodologia 4q può essere applicata all’osas, consentendo di individuare le quattro aree illustrate nella figura 2 e descritte qui di seguito. figura 2. metodologia a 4 quadranti applicata alla sindrome delle apnee ostruttive nel sonno (osas) area nascosta – paziente con diagnosi nota di osas asintomatico il compito del medico consiste nel verificare l’effettivo controllo della malattia mediante: anamnesi accurata; somministrazione di questionari o valutazione di diari clinici; verifica dell’effettuazione di eventuali controlli diagnostici secondo le problematiche di quel determinato paziente; verifica di aderenza al trattamento con farmaci e/o cpap qualora prescritti. nel caso sussistano un reale controllo e una buona aderenza alla terapia, il dato anamnestico e l’esame obiettivo siano soddisfacenti (incluso impatto e controllo di eventuali comorbilità) e siano passati almeno tre mesi in queste condizioni, potrà essere preso in considerazione lo step down. area nota – paziente con diagnosi nota di osas sintomatico il medico deve verificare se la sintomatologia si è manifestata con insorgenza acuta o se i sintomi si sono succeduti nel tempo con frequenza variabile: in caso di manifestazione acuta occorre cercare e trattare rapidamente le cause (verosimilmente di pertinenza otorinolaringoiatrica – orl); in caso di frequenza variabile, è necessario rivalutare eziologia e gravità della malattia, grado di aderenza alla eventuale terapia, se necessario rimodulare la terapia di fondo con uno step up, eventualmente avvalendosi di consulenza specialistica attinente il caso. particolare attenzione deve essere prestata ai soggetti con comorbilità bpco, poiché la presenza di osas in soggetti con bpco facilita la comparsa di ipossiemia e ipercapnia, nonché di ipertensione polmonare stabile, anche quando il grado di ostruzione bronchiale è relativamente lieve. area ignota – paziente senza diagnosi nota di osas asintomatico quando il mmg incontra un paziente che si è presentato per altri motivi e che non ha una diagnosi di osas, deve valutare i fattori di rischio, quali: obesità; russamento. se tutti gli indicatori anamnestici e obiettivi sono negativi, si effettua il controllo a un anno. area cieca – paziente senza diagnosi nota di osas con sintomi compatibili nei casi in cui il medico identifichi dei sintomi compatibili con osas in un paziente, deve eseguire: un’accurata indagine anamnestica per integrare e completare le conoscenze già in possesso e caratterizzare con precisione le modalità di insorgenza dei sintomi accusati e del contesto in cui si presentano, per confermare il sospetto diagnostico; l’esame obiettivo con particolare attenzione al bmi e all’obiettività orl rilevabile; il controllo dei fattori di rischio e delle cause in caso di obesità; il rinvio a eventuali consulenze specialistiche, ad es. una visita orl. in ogni caso il paziente sintomatico dovrà immediatamente essere informato sui fattori di rischio per e da osas e occorrerà stabilire un follow up. conclusioni la gestione delle principali cronicità, in un contesto di organizzazione territoriale complessa e con ottimizzazione delle risorse umane ed economiche disponibili (strutture di cure primarie complesse multiprofessionali), deve sempre più prevedere il controllo clinico e strumentale di i livello ad opera del medico di medicina generale, che si avvale di metodologie di governance specifiche, secondo una tempistica costituita in primis dalla valutazione globale del singolo paziente e in secondo luogo dalla diagnostica raccomandata dalle migliori linee guida, necessariamente da personalizzare per ciascun paziente. la consulenza specialistica per interventi di ii livello dovrebbe essere dispensabile nelle stesse strutture organizzate territoriali, limitando l’accesso ospedaliero alla diagnostica complessa e alle problematiche acute gravi. in particolare, data l’entità del problema delle osas a fronte di una carenza di disponibilità di centri per la diagnosi specifica, il ruolo del medico di medicina generale è fondamentale per selezionare precocemente i pazienti con maggiori probabilità di avere la malattia, avvalendosi di strumenti alla portata della medicina generale quali la longitudinalità assistenziale, le cartelle cliniche informatizzate orientate per problemi, la metodologia anamnestico-diagnostico-terapeutica di un modello gestionale esclusivo; spetta dunque a questo professionista il compito di coordinare le priorità sia nella prevenzione sia nella dispensazione delle cure al malato affetto da plurimorbilità, in considerazione di complessità e criticità clinico-terapeutiche della cronicità e, nel caso delle osas, anche nella prevenzione del danno sociale costituito da incidenti stradali correlati al problema. punti chiave l’osas è una condizione caratterizzata da pause nella respirazione durante il sonno, dovute all’ostruzione parziale o totale delle prime vie aeree riconosce diverse cause, tra cui la più frequente è l’obesità è una patologia diffusa ma sottodiagnosticata che presenta un elevato grado di morbilità e mortalità è compito del mmg individuare i pazienti a rischio, far eseguire i test diagnostici più opportuni, controllare l’aderenza alla terapia ed eseguire i necessari aggiustamenti terapeutici il modello a 4 quadranti costituisce un valido aiuto per il mmg allo scopo di fornire il processo assistenziale più adeguato alle caratteristiche del singolo paziente bibliografia 1. world health organization. global 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wilber k. una sintesi del pensiero. milano: alba magica edizioni, 2005 cmi 2019;13(1)19-21.html the ups and downs of non-insulin therapies: the agony of choice roger chen 1,2,3,4, ashish munsif 5 1 st vincent’s hospital, sydney 2 conjoint associate professor, university of new south wales 3 clinical associate professor, university of sydney 4 visiting scientist, garvan institute of medical research, new south wales, australia 5 endocrinology registrar, nepean hospital, sydney, new south wales, australia cmi 2019; 13(1): 19-21 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v13i1.1426 editorial corresponding author roger chen roger.chen@sydney.edu.au received: 18 march 2019 accepted: 18 march 2019 published: 3 april 2019 the last decade has seen a rise in the number of new classes of non-insulin anti-hyperglycemic pharmacological therapies for type 2 diabetes, following a dearth of pharmacological developments. the “ups” include the ability of physicians to have an ever growing armamentarium of medications to use. however, coincident with this increase comes about confusion as to which medications might be most suitable for a particular patient. this confusion might be better described as the agony of choice, an inadvertent “down”. all anti-hyperglycemic medications lower glucose levels and glycated hemoglobin (hba1c) to variable degrees, a feature necessary for regulatory approval. what is recognized now is that the way in which these medications may achieve the hba1c improvements as well as their non-glycemic effects are important, particularly cardiovascular safety. also important to consider is that a significant proportion of those living with diabetes may be from countries where cost of the newer medications may be prohibitive for a number of reasons. it is fortuitous that the updated american diabetes association (ada)/european association for the study of diabetes (easd) guidelines (2018) [1] recognize this large subgroup of patients, in addition to emphasizing the need for patient-centered care, education and engagement of the patient as well as health literacy and lifestyle changes at each stage. the “new kids on the block”, although now not so “new”, include the sodium/glucose cotransporter-2 (sglt-2) inhibitors, dipeptidyl peptidase iv (dpp-iv) inhibitors, and glucagon-like peptide 1 receptor agonists (glp-1 ra). recent cardiovascular outcome trials (cvots) have demonstrated benefits of sglt-2 inhibitors in decreasing hospitalization for heart failure in populations with and without existing cardiovascular disease (cvd), with less consistent effects on other outcomes such as cardiovascular (cv) death. the empa-reg study [2] was the first of these studies to be presented. it demonstrated that, in a population with established cvd, those randomized to empagliflozin had a decreased risk of cv death. the canvas [3] and declaretimi [4] studies included populations with and without established cvd, the former showing superiority of the drug on mace outcomes (major adverse cardiovascular events, a composite of death, myocardial infarction, or repeat coronary revascularization of the target lesion), whilst the latter study demonstrated that the use of dapagliflozin was non-inferior for mace outcomes and decreased the risk of renal disease, a feature also of the use of sglt-2 inhibitors in the other two studies. these cv and renal benefits were the first seen for any class of oral anti-hyperglycemic agents. however, these benefits or “ups” need to be balanced with potential side effects. these include the well-known risk of mycotic genitourinary infections, hypotension and increased urination, as well as a rarer but recognized association with a new entity of euglycemic diabetic ketoacidosis [5]. a tantalizing signal of increased lower limb amputations and small bone fractures was also seen in the canvas study [3]. these similarities and differences have sparked considerable debate as to whether there are within class differences which might account for these disparities and whether differences in sglt-1 and sglt-2 receptor affinity are relevant [6]. however, it should always be noted that studies involved different populations and that direct comparisons may be fraught with limitations. however, these “downs” seem to be relatively small in comparison with the “ups” which include cv as well as renal benefits. nevertheless, the physician will need to be familiar with these potential side effects, to have a checklist when prescribing and to ensure that these side effects and precautions are explained to the patient. the results of dedicated studies in renal impairment such as credence as well as those addressing heart failure specifically including emperor-preserved and emperor-reduced will strengthen our knowledge of where and when these drugs might fit in [7]. the dpp iv inhibitors seem to be overall neutral in their effects of cv risk, although there was an unexplained increase in hospitalizations for heart failure in those subjects taking the active drug in the savor-timi study [8]. however, overall these medications appear to be moderate in their potential glucose-lowering effects and in general safe and simple to prescribe, particularly when combined with metformin, especially in the older patient. in some cases, dose reductions need to be made where there is renal dysfunction. there are a variety of glp-1 ra which can be divided into short-acting, where daily or twice daily administration is required, to longer-acting agents, which can be administered daily to weekly. longer-acting agents, which may be able to be given monthly or even 6 monthly, are in development. results of the leader [9] and sustain-6 [10] study indicate potential cv benefits of liraglutide and semaglutide when administered to a population at high risk of cvd whilst others have been non-inferior for cv outcomes (elixa—lixisenatide and exscel—bydureon) [11,12]. the yet unpublished topline results of the rewind study (dulaglutide) indicate cv benefits in those receiving dulaglutide. the other benefits of this class are that weight loss can occur together with improvements in blood pressure and other metabolic parameters. however, ways in which to predict who will respond best remain elusive and emphasize the need always to individualize therapy. the “old dogs” such as metformin, sulphonylureas, and thiazolidinediones (tzds) cannot be forgotten as these are often either prescribed as first-line medications (metformin) or are affordable in many parts of the world in comparison to the newer agents and, as such, are the only medications which are available for use in these countries. sulphonylureas are potent glucose-lowering agents, but carry an increased risk of hypoglycemia compared with all other non-insulin agents. the results of the carolina study, in which linagliptin is compared with glimeperide, will be presented at the american diabetes association scientific sessions in 2019 and will potentially provide important data regarding the safety of sulphonylureas. the cv safety of pioglitazone was demonstrated in the proactive study [13]. however, this drug class is associated with weight gain, which many patients do not consider favorable, as well as an increased risk of heart failure when combined with insulin [14]. nevertheless, when used in low dose early in combination with metformin and exenatide, the authors of the edict study have demonstrated sustained effects on hba1c with low rates of hypoglycaemia [15]. one can see from the above that the prescriber now has a variety of classes of medications to choose from; or an “agony of choice”. each class has its “ups and downs” and there may be within class differences, particularly when considering the newer agents. guidelines are important, but the medication choice ultimately results from the physician and patient interaction. every “up” and “down” influences the choice of pharmacotherapy, and published benefits such as weight loss may not be perceived by some patients as an advantage. cvots and registration studies indicate to the physician what can happen (good and bad) over the defined length of the study. however, what eludes us at this time is how to determine in which person a drug will be effective or ineffective, hence the need for personalized medicine. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests roger chen reports personal fees as speaker in educational meetings/adviser from novo nordisk, sanofi, eli lilly, boehringer ingelheim, astra zeneca and msd outside the submitted work. ashish munsif declare he has no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. davies mj, d’alessio da, fradkin j, et al. management of hyperglycaemia in type 2 diabetes, 2018. a consensus report by the american diabetes association (ada) and the european association for the study of diabetes (easd). diabetologia 2018; 61: 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accuracy of the contents. sakir ahmed osaree akaraborworn eduardo anguita shane belvedere antonio bertoletti steve carlan elio castagnola luis josé catoggio stefania chetcuti zammit francesco cortese adolfo rafael de roodt michael eddleston antonino faillaci khursheed n. jeejeebhoy jagadeesh kalavakunta ramesh kumaresan marco lenzi antonella lezo filomena longo guglielmo mantica giuseppe murdaca dimitri peterlana anja potthoff ittichai sakarunchai vishal sharma nadeem ahmed sheikh stefano stella kritika subramanian pieter van der bijl junior mauro viganò umar zein noam zevit cmi 2018;12(1)43-48.html stress: how to help patients? cristina aguzzoli 1, anna maria de santi 2 1 physician, specialist in hygiene and preventive medicine. master in psychoneuroimmunology. aas n.2. “bassa friulana isontina”, gorizia, italy 2 sociologist, first researcher, neuroscience department, istituto superiore di sanità, roma, italy stress: come aiutare i pazienti? cmi 2018; 12(1): 43-48 https://doi.org/10.7175/cmi.v12i1.1359 editorial corresponding author cristina aguzzoli cristina.aguzzoli@gmail.com received: 28 may 2018 accepted: 29 may 2018 published: 1 june 2018 introduction every physician has to face patients whose main pathologies are burdened by high and chronic degrees of stress. sometimes, stress-related symptoms are their main pathology. according to herbert benson, who pioneered mind-body research and is founder of the benson-henry institute for mind body medicine at massachusetts general hospital in boston, stress is the main cause of medical visits in the usa [1]. therefore, it is of the utmost importance for the healthcare personnel to know origin and consequences of stress and be able to suggest and teach patients some possible techniques for its management. mechanisms and clinical consequences stress comes from a well-understood mechanism which aims at preparing the body to a change, that is something that discards the homeostasis (like the attack of a beast or a work stressor). walter cannon called this mechanism “fight or flight response” and identified the activation of sympathetic nervous system and the release of epinephrine as its main triggers [2]. after the change occurs (the beast was beaten or the work issue was resolved), the homeostasis is restored. in this view, stress is useful, and even necessary, to face changes in life. in the best cases, homeostasis is restored at a higher level, allowing the individual to obtain an evolutionary advantage [3]. however, if the stress persists too long, several systems are damaged: hippocampal, endocrine, and central nervous system circuits are deregulated, resulting in worsened cognitive and general health conditions [4]. in addition, the secretion of corticotropin-releasing hormone (crh), norepinephrine, and cortisol activates the fear system, thus resulting in anxiety, anorexia, or hyperphagia; reduces the satisfaction coming from the reward system, causing depression and eager search for ever greater rewards, often consisting in food; and suppresses the sleep system, determining insomnia, night awakenings, and daytime sleepiness. in addition, the immune system produces cytokines, responsible for the onset of fatigue, nausea, headache, and other pains [3]. together, all these negative signs are called “sickness syndrome”. both sides of the stress coin are well caught by yerkes-dodson law, represented in figure 1 [5,6]. eustress is helpful to improve the performance, but too high or too prolonged levels of stress are called “distress” and are responsible for the sickness syndrome. the most common distress signs are listed in the box [7]. physical signs tachycardia, breathless breathing migraine back pain digestive disorders dry mouth buzzing sweating in the hands behavioral signs compulsive chewing gum being hypercritical towards others bruxism alcohol abuse food disorders emotional signs frequent crying boredom, loss of meaning feeling of impotence towards change solitude unmotivated sadness cognitive signs lack of creativity memory loss constant concern loss of sense of humor decision-making incapacity some of them are more often referred to as “medically unexplained symptoms” or mus [8]. several studies showed that 15-30% of patients in primary health care area have mus, i.e. physical symptoms without evidence of underlying diseases [9]. frequently, mus require urgent diagnostic tests and hospitalizations, whose costs burden the already overwhelmed health systems. according to a multicenter study, which analyzed almost 100,000 patients, mus are reliable indices of chronic stress and inflammation [10]. figure 1. yerkes-dodson law. the optimal performance may be obtained when the stress level is moderate. modified by [6] it is up to healthcare professionals to agree on a comprehensive action plan with the patient in order to eradicate his/her symptoms [11]. possible solutions helping people managing the stress is equivalent to teach the resilience. the resilience is the ability to overcome stress in an adaptive way, maintaining at the same time the normal psychological and physical functioning [12-14]. resilience could be learnt in several ways. resilience may be improved through the development of life skills. the world health organization (who) defined “life skills” as «abilities for adaptive and positive behavior that enable individuals to deal effectively with the demands and challenges of everyday life» [15]. according to who, life skills are: decision making; problem solving; creative thinking; critical thinking; effective communication; interpersonal relationship skills; self-awareness; empathy; coping with emotions; and coping with stress. these qualities could be better developed by ad hoc programs targeting children and teenagers, which have been prepared by who itself and are recommended in schools. among the most important steps towards the management of stress, there is a healthy lifestyle, which includes mainly healthy diet and physical activity. chronic stress may alter glucose metabolism, promote insulin resistance, affect leptin, ghrelin and hypothalamic neuropeptides [16], and trigger the secretion of glucocorticoid hormones, which favor the deposition of abdominal fat [17]. in addition, the rewarding properties of comfort food may help people feel better. on the other side, scientific evidence underline that a healthy diet may help in the treatment of several pathologies. however, physicians, before prescribing a diet, should help patients know their own targets, rhythms, limits, teaching also how to relax and reward themselves in order to reduce stress in a natural way. otherwise, even if an energy-restricted diet is prescribed, metabolism slows down and results in weight gain (thrifty metabolism [18]). the exercise results in an increase in the volume of muscle fibers and in the ability to manage stress, as it increases glycogen and therefore the energy available. in addition, it may trigger endorphin release, thus contributing to the creation of the “flow” [19], a mental status of deep well-being and pleasure, known to be related to the development of resilience [20]. finally, physical activity delays cell senescence [21] and results in the release of brain derived neurotrophic factor (bdnf), which increases cerebral plasticity [22]. also in this case the physician prescribing physical activity to stressed patients should be careful while suggesting type, timetable, and mode, since they have to be chosen according to the individual’s preferences, body composition, and circadian rhythms, in order to avoid the development of further stress. lifestyle medicine deals exactly with the dissemination of the knowledge regarding the importance of exercise, healthy diet, behavioral change and self-care, and the eradication of unhealthy lifestyles, including also tobacco addiction. healthy lifestyles have been proven effective in the reduction of all-cause mortality [23]. several associations and initiatives all over the world promote lifestyle medicine [24-29]. professor herbert benson, starting from the known mutual influence between mind and body, pioneered and refined the mind-body medicine, another effective mode to manage stress. since the increased emotional stress results in the onset and worsening of physical symptoms of malaise and exacerbates clinical conditions, benson suggested that mind-body therapies have significant therapeutic effects in several pathological conditions, eliciting an intrinsic anti-stress response, which includes a reduction in the sympathetic and cerebral cortical activity [30]. he called this intrinsic response to stress “relaxation response” and found that it can be elicited by prayers (in every religious tradition) and meditative practices. his colleague jon kabat-zinn chose one of them, vipassana meditation, and turned it in an appreciated occidental version, called “mindfulness” [31]. mindfulness improves immune system [32]; reduces pain [33]; reduces cell inflammation [34]; reduces depression [35]; and reduces anxiety and stress [36]. it consists in paying attention on purpose, in the present moment, and non-judgmentally [37]. this technique could be learnt in professor kabat-zinn’s clinic, center for mindfulness in medicine, health care, and society at the university of massachusetts medical school [38], but also in several other centers all over the world, as its success was planetary. finally, several environmental and good habits may help reduce stress, such as: everything eliciting the flow [19]; music [39]; creativity [40]; rituals [41]; and sense of humor [42,43]. stress in organizations stress may affect also organizations. this phenomenon occurs especially during or before a change. as in individuals, in order to avoid pathological consequences, the organization should be resilient. the resilience of an organization may be assessed through analyzing protection factors in processes concerning efficacy and efficiency. the who developed international standards for the self-assessment [44] in healthcare settings by means of health promoting hospitals & health services (hph) strategy [45], putting in place the ottawa charter for health promotion [26]. an italian compendium about standards 1 and 4 focusing on psycoemotional well‑being has been developed [46]. it aims at being used in parallel with the risk assessment and promoting the organizational and personnel empowerment concerning the protection factors of health at work. it comes of a rapid self-assessment model on three levels: top management, staff, and individual. conclusion although stress is necessary to face changes and obtain goals, its permanence and too elevated levels may negatively affects several aspects of people’s life, influencing also the course of pathologies and determining itself signs and symptoms. however, several techniques to reach a psychological balance can be learnt. patients should rely on healthcare professionals able to teach these techniques or to refer them to the most suitable teachers, according to the patient’s nature and preferences. similarly, pathological consequences of stress in organizations should be prevented through specific standards for self-assessment developed by who. to know more 100 domande sulla gestione dello stress (available in italian) cristina aguzzoli, anna maria de santi first edition april 2018 paperback isbn 978-88-97419-51-8 17×24 cm price: 15,00 € ebook isbn 978-88-97419-52-5 price: 5,99 € purchase on www.edizioniseed.it and amazon stress is a common issue, especially in the modern society. this book aims at guiding healthcare professionals towards a greater knowledge about both physiological and pathological mechanisms underlying stress in the first phases of life and in the adulthood, helping them recognizing the physical, psychological, and behavioral consequences, suggesting structured techniques and practical tips tailored according to the psychological characteristics of patients, and providing the tools necessary to understand and manage the work-related stress. the text is made up of 100 short questions concerning 6 aspects of the topic: every question is stand-alone and is enriched by several intratextual links to other questions, where a specific aspect is treated in detail. the presentation is by ranieri guerra, who assistant director-general funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors published with seed the book “100 domande sulla gestione dello stress”. references 1. benson-henry institute for mind body medicine at massachusetts general hospital. https://www.bensonhenryinstitute.org/ (last accessed may 2018) 2. cannon wb. bodily changes in pain, hunger, fear and rage. whitefish, mt (usa): literary licensing, llc, 2014. original title: “bodily changes in pain, hunger, fear and rage”, 1920 3. chrousos gp. stress and disorders 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strategies to prevent and treat important complications as osteoporosis is needed. we present the clinical case of a female sle patient treated simultaneously with belimumab (anti-blys) for the underlying disease, and denosumab (anti-rankl) for concomitant severe osteoporosis. as these monoclonal antibodies have been recently introduced into the market, their combination has not been reported in literature yet. in this case, the combined administration proved a viable option for a sle patient with osteoporosis and bisphosphonates contraindications. keywords: lupus erythematosus, systemic; belimumab; denosumab sicurezza di belimumab in associazione a denosumab in una paziente affetta da lupus eritematoso: un caso clinico cmi 2017; 11(1): 39-43 https://doi.org/10.7175/cmi.v11i1.1286 case report corresponding author marco scarati mscarati@cittadellasalute.to.it disclosure this article has been published with the unconditional support of glaxosmithkline s.p.a. sp reports personal fees from pfizer, abbvie, msd, outside the submitted work. ef reports personal fees from actelion, abbvie, msd, sobi, pfizer, and italfarmaco, outside the submitted work. why we describe this case the occurrence of osteoporosis in sle patients has been widely described in literature. however, often in sle patients kidney dysfunction or kidney failure concur, for which bisphosphonates are contraindicated. therefore, it is mandatory to find osteoporosis treatments compatible with the therapy for the underlying disease introduction systemic lupus erythematosus (sle) is a heterogeneous autoimmune disorder characterized by multisystemic involvement. although the exact etiology has not been determined, it has been shown that genetic, environmental, and hormonal factors play a role in its pathogenesis. sle is characterized by disturbances of both innate and adaptive immune systems, with dysregulation of t and b cells, cytokines secretion, and autoantibodies production [1]. its prevalence ranges from 40 to 200 cases per 100,000 [2]. women are affected by sle nine times more frequently than men, particularly after puberty and before menopause [2]. for reasons not entirely understood, sle is also more frequent in certain ethnic groups, e.g. african-americans and hispanics [2]. the broad spectrum of clinical presentations makes the sle the prototypic multisystem autoimmune disease. it may present with very different clinical manifestations, ranging from fatigue and mild skin rash to end-stage renal failure [2,3]. a wide spectrum of clinical and serological findings often misleads and delays the diagnosis. therefore, sle diagnosis still represents a challenge, remaining largely based on clinical judgment [3] and requiring often an interdisciplinary approach [4]. in 2012, the systemic lupus international collaborating clinics (slicc) network presented a set of criteria (slicc-12) to classify the disease [5]: in the validation set, the slicc classification criteria resulted in fewer misclassifications compared with the revised 1997 american college of rheumatology (acr) classification criteria [6]; besides, it had a greater sensitivity (97% versus 83%) but a lower specificity (84% versus 96%) [5]. according to the slicc criteria, the classification of sle seems to be achieved more frequently than with the previous 1997 acr criteria [3,7]. the clinical course of sle is characterized by spontaneous or treatment-induced remissions and flares. steroids and immunosuppressive drugs are the cornerstone of sle treatment, but their use, especially in high doses and for long periods, may be burdened by the onset of medication-induced adverse effects. the occurrence of osteopenia, osteoporosis (op), and fragility fractures (ffx) in sle patients has been widely described in literature [8-13]. osteopenia and osteoporosis are reported in 25-74% and in 1.4-68% of sle patients, respectively, and the occurrence of symptomatic fractures is increased 5-fold in women with sle [14]. these frequencies vary widely as a consequence of differences in size, age, sex, ethnicity, disease severity, and medication use between the patient groups investigated [14]. the etiology of bone loss in sle is supposed to be multifactorial, including traditional osteoporosis risk factors, inflammation, contraindications to sun exposure and subsequent reduction of activation of vitamin d, metabolic factors, hormonal factors, serologic factors, and medication-induced adverse effects [12,14,15]. we report the case of a woman affected by sle and severe osteoporosis with osteoporotic fractures, contraindication to bisphosphonates due to a history of renal insufficiency, and concomitantly treated with belimumab and denosumab, two recently marketed monoclonal antibodies. belimumab’s mechanism of action is based on the known pathological functions of b lymphocyte stimulator (blys), a tumor necrosis factor (tnf) superfamily ligand. blys plays a critical role in the development and homeostasis of b lymphocytes. under pathological conditions (as occurs in sle), b lymphocytes produce the auto-antibodies responsible for the clinical features of sle. by inhibiting blys, belimumab is able to effectively block this pathological pathway [8,16,17]. denosumab is an anti-receptor activator of nuclear factor-kappab (nfκb) ligand antibody, a fully human monoclonal antibody that binds the cytokine rankl (receptor activator of nfκb ligand), an essential factor initiating bone turnover. rankl inhibition blocks osteoclast maturation, function and survival, thus reducing bone resorption [18-20]. to date, there are no studies in literature on the efficacy and safety of combination therapy with belimumab and denosumab. this is probably due to the recent introduction on the market of these monoclonal antibodies. case presentation parameter detected value normal values wbc (n/l) 2800 4000-10,000 neutrophils (n/l) 1800 1500-8000 lymphocytes (n/l) 800 1000-4000 plts (n/l) 98,000 140,000-450,000 ana 1/160 < 1/80 anti-dsdna (ui/l) 89 < 10 c3 (mg/dl) 25 83 c4 (mg/dl) 8 15 table i. laboratory analyses performed in 2004 ana = antinuclear antibodies; anti-dsdna = anti-double-stranded dna; plts = platelets; wbc = white blood cells we report the case of a 54-year-old female patient. in 2004, she came to our attention with malar rash, migratory arthralgias, recurrent epistaxis, and morning articular stiffness lasting more than one hour. her previous medical history was significant for arterial hypertension, turbinate hypertrophy, and occasional leukopenia. laboratory analyses showed leukopenia, thrombocytopenia with antinuclear antibodies (ana) = 1/160 with granular pattern on immunofluorescence, anti-dsdna positive, hypocomplementemia (table i), presence of lupus anticoagulant antibodies and anti-beta2-glycoprotein i igg, and anticardiolipin igg positive at low levels. after a deep vein thrombosis with pulmonary thromboembolism, the patient had to start warfarin therapy. furthermore, a mri of the encephalon, requested for the suspicion of neurological involvement, showed signs of microischemic strokes. according to the acr 1997 criteria, a diagnosis of sle was made, and the patient started a therapy with prednisone (initially at high dose, 25 mg/die) and hydroxychloroquine (200 mg/die), while awaiting the therapy with cyclophosphamide, which was started in september 2004 and shortly afterwards suspended owing to pancytopenia and gastrointestinal intolerance. due to incomplete disease control with steroid and hydroxychloroquine therapy (hypocomplementemia, anemia, and arthralgia were still present) she was given a therapy based on azathioprine, which was suspended, alongside hydroxychloroquine, because of the worsening of leukopenia (august 2005). from 2005 to 2013, the disease went to partial remission with steroid only therapy (treatment range between 10 and 12.5 mg/die). in march 2013, during treatment with prednisone 12.5 mg/die, her renal function worsened: serum creatinine was 3.1 mg/dl and proteinuria increased to 0.9 g/24 hours. even though lupus nephritis was suspected, renal biopsy was not performed because serum creatinine and proteinuria decreased after starting ace-inhibitors; however, bisphosphonates, that she had been taking since 2011 for a high risk of bone fracture documented by a dual-energy x-ray absorptiometry (dxa) with a vertebral t-score -3.0, were suspended. as osteoporosis-prophylaxis, the patient continued therapy with calcium carbonate and vitamin d (calcifediol). march 2014 – first administration of belimumab august 2014 – after 5 months of therapy with belimumab december 2014 – first administration of denosumab june 2015 – after six months of belimumab/denosumab combined therapy december 2016 – last visit sledai 13 10 6 6 wbc (n/l) 3340 3216 3412 3945 6440 hb (g/dl) 10.9 11.1 11 11.4 10.4 plts (n/l) 130,000 126,000 146,000 126,000 254,000 creatinine (mg/dl) 1.89 1.95 2.01 2.05 1.71 proteinuria no no no no no c3 (mg/dl) 32 79 82 68 85 c4 (mg/dl) 11 18 21 17 12 arthritis yes no no no no ana 1/640 1/320 1/320 1/640 1/320 anti-dsdna (ui/l) 72 22 40 64 38 table ii. laboratory analyses performed from march 2014 to december 2016 ana = antinuclear antibodies; anti-dsdna = anti-double-stranded dna; hb = hemoglobin; plts = platelets; sledai = systemic lupus erythematosus disease activity index; wbc = white blood cells alongside ace-inhibitor treatment, she started therapy with mycophenolate (500 mg twice a day) and her serum creatinine stabilized, reaching mean values = 1.2-1.4 mg/dl, denoting stage 2 renal insufficiency according to kidney disease outcomes quality initiative (nkf kdoqi)™ classification. in february 2014, mycophenolate was suspended for gastrointestinal intolerance and a mild non erosive poliarthritis; her renal situation was stable, with no proteinuria. she presented in march 2014 with anti-dsdna persistently positive (table ii), low complement levels, persistent fatigue, and oligoarthritis on wrists and small joints of the hand. after proper literature searches and discussion with nephrologists, she was given a therapy with belimumab (benlysta®) at the dosage of 10 mg/kg (600 mg) once every month. after six infusions, in august 2014 the patient had a good clinical and serological response: no drug adverse event arose during treatment, arthritis reached clinical remission, renal function (creatininemia and proteinuria) remained satisfactory, and no flares of sle had happened. complement levels improved (table ii), anti-dsdna reduced, no hematological alterations occurred, and total dosage of prednisone could be reduced to 7.5 mg/die. in december 2014, the patient had a spontaneous rib fracture and right metatarsal heads stress fractures. dual-energy x-ray absorptiometry (dxa) showed reduced bone mineral density with vertebral t-score = -3.2. at that time, her osteoporosis was treated with calcifediol 50.000/ui per month and calcium carbonate every day. bisphosphonates were suspended due to contraindications for renal insufficiency. given this clinical picture, the patient started denosumab (prolia®) 60 mg administered as a single subcutaneous injection once every 6 months, in association with calcium 1000 mg daily and supplementation of already set vitamin d. in february 2016, dxa documented a vertebral t-score = -1.7. no new spontaneous fractures occurred. the patient continued the treatment with belimumab 10 mg/kg/month and denosumab 60 mg/6 month, and we could reduce the dosage of prednisone to 5 mg/die. to date, she has had thirty-two infusions of belimumab and five injections of denosumab. discussion and conclusion in literature, there are no case reports about the concurrent use of two monoclonal antibodies as belimumab and denosumab. the etiology of bone loss in sle is supposed to be multifactorial, including traditional osteoporosis risk factors, inflammation, metabolic factors, and medication-induced adverse effects. osteoporotic fractures are present in 20-26.1% of sle patients and often an appropriate treatment is mandatory. at the same time, a large number of sle patients suffer from many comorbidities and many organ involvement by the underlying disease [2,3,11,12,14]: therefore, they need a basic therapy able to ensure an absent or a low sle disease activity, and at the same time an appropriate therapy for the osteopenia/osteoporosis. nowadays, an increasing number of patients are treated with belimumab, due to its proven efficacy in reducing flares. as a result, case reports and trials concerning this association and its interactions are required. in this case report, the treatment with belimumab and denosumab resulted in improved patient’s conditions. by considering the mechanisms of action of the two drugs (anti-rankl and anti-blys), we do believe that the combined administration could be a viable option for patients with sle, osteoporosis, and bisphosphonates contraindications. finally, the six-month administration of denosumab is particularly suitable for patients who are exhausted because of their multiple chronic therapies; furthermore, it ensures an effective alternative therapy, since no side effects concerning kidneys (as opposed to bisphosphonates) and hearth (a known side effect of strontium ranelate) were detected. key points etiology of bone loss in systemic lupus erythematosus (sle) is multifactorial, including traditional osteoporosis risk factors, inflammation, metabolic factors, and medication induced adverse effects in sle patients, often kidney dysfunction or kidney failure concur, thereby contraindicating the use of bisphosphonates considering the mechanisms of action of belimumab (anti-blys) and denosumab (anti-rankl), two monoclonal antibodies acting upon two different molecular pathways, combined administration could be a worth option to be considered for patients with sle, renal insufficiency, and osteoporosis references 1. rahman a, isenberg da. 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in una migrante minorenne silvia dari 1, anna maria cassano 2, sabrina di lorenzo 1, marta testa 3, silvia aquilani 1 1 coordinamento vaccinazioni, dipartimento di prevenzione, asl di viterbo 2 direzione sanitaria ospedale belcolle, asl di viterbo 3 fisioterapista, viterbo abstract meningococcal disease is a worldwide infection associated with different forms and degrees of severity. in europe and italy, the most frequent capsular serogroups of neisseria meningitidis are b and c. the incidence of the disease is higher in 0-4-year-old children and very significant (or elevated) also in adolescents and young adults. numerous cases of serogroup w have recently been reported during episodes of mass gathering, as well as outbreaks in the african meningitis belt. in 2016, also the local health unit of viterbo had to deal with a case of serogroup w meningitis in a two-year-old nigerian migrant child, hosted in a hospitality center. health surveillance procedures and chemoprophylaxis for contacts were quickly activated and no secondary cases were found. this experience allowed us to make considerations about the meningococcal disease from a clinical, epidemiological, and preventive point of view, emphasizing the usefulness of the current italian surveillance system. keywords: meningitis, meningococcal; serogroup w; migrants; child; epidemiology meningococcal meningitis: a case of serogroup w in an underage migrant cmi 2017; 11(1): 49-56 https://doi.org/10.7175/cmi.v11i1.1298 caso clinico corresponding author silvia dari silvia.dari@asl.vt.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo perché descriviamo questo caso l’emergenza di sierogruppi diversi da quelli considerati “tipici” nella nostra area geografica consente di porre attenzione all’importanza del monitoraggio della situazione epidemiologica esistente per orientare nel tempo i necessari interventi dal punto di vista preventivo. inoltre, in presenza di un caso di malattia invasiva meningococcica, è necessaria non solo una rapida diagnosi sul paziente, ma anche l’attuazione tempestiva di protocolli operativi che consentano di individuare, sorvegliare e, se indicato, trattare adeguatamente i contatti a rischio al fine di tutelare la salute pubblica introduzione l’infezione meningococcica costituisce una patologia universalmente diffusa, manifestantesi sotto diverse forme a differente livello di gravità [1]. circa il 50% dei casi si manifesta come sepsi o meningite/sepsi [2]. l’agente eziologico è neisseria meningitidis, o meningococco, un batterio gram-negativo alla cui famiglia appartengono anche altri generi non patogeni per l’uomo, comuni commensali delle mucose delle prime vie aeree [1]. la malattia generalmente presenta un andamento stagionale con prevalenza massima in inverno e primavera [3], anche se casi sporadici si verificano durante tutto l’anno [4]. situazioni di sovraffollamento, tuttavia, possono favorire le condizioni ideali per la trasmissione del patogeno e lo sviluppo della malattia, a prescindere dal periodo dell’anno [5]. colpisce tutti i gruppi di età, con una maggiore incidenza nell’età infantile [3], negli adolescenti e nei giovani adulti [4]. vista la scarsa resistenza del batterio nell’ambiente esterno, la trasmissione avviene esclusivamente per contagio diretto e le secrezioni nasali costituiscono il più frequente veicolo di infezione [1]. la principale causa di contagio è rappresentata dai portatori sani del batterio: solo nello 0,5% dei casi vi è trasmissione da persone affette dalla malattia [4]. dal 2 al 25% della popolazione sana alberga meningococchi nel naso e nella gola senza presentare alcun sintomo, e i portatori raramente (in meno dell’1% dei casi [5]) vanno incontro a malattia invasiva [6]. il periodo di incubazione è variabile da 2 a 10 giorni, con una media di 3-4 giorni [1]. la contagiosità è comunque bassa, e i casi secondari sono rari, anche se possono verificarsi focolai epidemici [4]. sono stati individuati sulla parete meningococcica diversi costituenti antigenici, tra cui molecole polisaccaridiche che ne permettono la classificazione in 13 diversi gruppi sierologici (a, b, c, d, x, h, i, k, l, 29e, y, z, w135) [1]. considerando i sierogruppi capsulari e specifici genotipi denominati complessi clonali st, attualmente la maggior parte delle malattie invasive sono causate da: sierogruppo a (st-5, st-7), b (st-41/44, st-32, st-18, st-269, st-8, st-35), c (st-11), y (st-23, st-167), w-135 (st-11) e x (st-181) [7]. la malattia può manifestarsi sotto forma di casi sporadici o di epidemie di dimensioni variabili. la maggior parte dei casi si riscontra nella cosiddetta african meningitis belt, che comprende i paesi dell’africa sub-sahariana, dove possono osservarsi annualmente circa 10 casi /100.000 abitanti e dove si verificano periodicamente, nella stagione secca e con intervalli di 7-14 anni, ondate epidemiche anche di notevoli dimensioni (figura 1). figura 1. african meningitis belt: aree con frequenti epidemie di meningite meningococcica. modificata da [8] qui la malattia è endemica e l’80-85% dei casi riscontrati sono da attribuire al meningococco di sierogruppo a [5], anche se ultimamente vengono segnalate variazioni di tendenza [7]. anche nel medio oriente e in nord africa il sierogruppo a è la principale causa di malattia, mentre casi dovuti ai gruppi sierologici b, w e y hanno fatto registrare un aumento negli ultimi decenni in alcune zone [9]. in turchia i sierogruppi w e b sono i predominanti nella malattia invasiva durante l’infanzia, mentre il c non è stato identificato negli ultimi anni tra i casi, né sono stati osservati picchi di malattia negli adolescenti [10]. nei paesi con elevate condizioni socio-economiche e a clima temperato la malattia assume carattere sporadico e non vengono registrati importanti focolai epidemici [5]. negli stati uniti l’incidenza è bassa: 0,18 casi/100.000 abitanti, attribuibili prevalentemente ai sierogruppi b, c e y [5]. anche nella zona del centro-sud america, ad eccezione dell’uruguay (ad alta endemia), del brasile e di cuba (a moderata endemia), l’incidenza si mantiene bassa [5]. in europa i sierogruppi b e c sono i più frequenti [4]; è da segnalare, inoltre, negli ultimi anni un aumento di casi da y [5]. secondo quanto pubblicato nel 2015 dall’european centre for disease prevention and control (ecdc), in europa il tasso di notifica per tale patologia è passato da 0,98/100.000 abitanti nel 2008 a 0,68/100.000 abitanti nel 2012 (anno in cui lituania, regno unito e irlanda hanno segnalato i valori più alti): il gruppo maggiormente colpito è stato quello dei bambini sotto i 5 anni (5,1 casi/100.000), seguito dalla fascia 15-24 anni (1,11/100.000) [4]. in italia dal 1994 è attivo un sistema di sorveglianza dedicato alle meningiti batteriche che dal 2007 si è ampliato per includere tutte le malattie invasive da meningococco (oltre che da pneumococco e da h. influenzae). la sorveglianza, coordinata dall’istituto superiore di sanità, è estesa a tutto il territorio nazionale [4], secondo quanto raccomandato dall’organizzazione mondiale della sanità [6]. nel nostro paese, nel 2015, sono stati segnalati 196 casi di malattia invasiva da meningococco, con un’incidenza (pari a 0,32 casi /100.000) in aumento rispetto agli anni precedenti (0,23 nel 2012; 0,29 nel 2013; 0,27 nel 2014) [2]. nella maggior parte delle regioni l’andamento è pressoché stabile o presenta piccole oscillazioni nel triennio 2011-2014, ad eccezione della toscana, dove i dati consolidati del 2015 mostrano un marcato aumento di casi di meningococco di tipo c in adulti [2,11]. l’incidenza della malattia è maggiore nella fascia di età 0-4 anni, in particolare nel primo anno di vita (più di 4 casi/100.000), si mantiene elevata fino alla fascia 15-24 anni (0,30 casi/100.000 abitanti nel 2014 e 0,69/100.000 abitanti nel 2015) e diminuisce dai 25 anni in poi. vi è stato un aumento delle incidenze nell’adulto a seguito dell’incremento dei casi di meningococco c della toscana del 2015 [2]. esaminando il numero assoluto di casi per sierogruppo, il meningococco di tipo b ha rappresentato quello più frequente sino al 2014, mentre dal 2015 il c ha riportato la frequenza più alta, come conseguenza dell’aumento dei casi registrati in toscana [4] (tabella i). sierogruppo 2011 2012 2013 2014 2015 2016* n (%) n (%) n (%) n (%) n (%) n (%) a 1 (1%) 1 (1%) 0 (0%) 1 (1%) 0 (0%) 0 (0%) b 76 (65%) 55 (51%) 56 (48%) 55 (48%) 49 (36%) 53 (28%) c 20 (17%) 32 (30%) 36 (31%) 36 (31%) 63 (44%) 57 (52%) w 4 (3%) 1 (1%) 5 (4%) 8 (7%) 7 (5%) 12 (2%) y 16 (14%) 18 (17%) 19 (16%) 15 (13%) 23 (14%) 16 (17%) totale casi sierotipizzati 117 107 116 115 142 138 tabella i. casi di malattia invasiva da n. meningitidis sierotipizzati in italia dal 2011 al 2016* (sul totale dei casi segnalati). modificata da [2] *dati parziali, aggiornati al 16/11/2016 rimane alto (approssimativamente il 30%) il numero delle infezioni segnalate per cui non è disponibile l’informazione relativa al sierogruppo capsulare [2]. nello specifico evidenziamo che anche la provincia di viterbo, nel lazio, risulta in linea con i dati epidemiologici nazionali [12]. per quanto riguarda l’anno 2016, siamo in possesso di dati ancora incompleti (aggiornati al 16/11/2016) che evidenziano 138 casi di meningite con un’incidenza in lieve aumento rispetto al triennio 2012-2014, ma in diminuzione rispetto al 2015 [13] e un marcato aumento di casi di meningococco di tipo c in adulti [2,4]. la letalità della meningite meningococcica risulta essere attualmente di circa il 12% e aumenta sino al 23% nel caso in cui il ceppo sia il c [13]. una particolare considerazione, in questa trattazione, vogliamo rivolgerla al sierogruppo w di n. meningitidis, che si sta diffondendo a livello globale e di cui numerosi casi sono stati riportati in occasione di eventi di mass gathering [5]. focolai si sono verificati in relazione al pellegrinaggio a la mecca (hajj), in arabia saudita [5]. dopo un focolaio in questa città nel 2000, ceppi di meningococco di sierogruppo w sono emersi a livello mondiale come importante causa di malattia invasiva. il ceppo in questione (clone hajj-w cc11) sembra essere analogo a quello responsabile di sporadici episodi prima del 2000. va considerata però la presenza nel mondo di ulteriori ceppi w cc11, a esso non correlati, e con significative eterogeneità genetiche tra loro [14]. nella meningitis belt, dopo l’introduzione del vaccino coniugato contro il meningococco a dal dicembre 2010, l’incidenza di meningite dovuta a tale sierogruppo è marcatamente diminuita e, attualmente, il w rappresenta la maggioranza dei casi [15]. in burkina faso, primo paese che ha introdotto il sopraccitato vaccino [16], dopo un anno di bassa incidenza di meningite, si sono verificati a livello distrettuale nel 2012 diversi focolai epidemici dovuti al sierogruppo w [17], che è stato identificato nel 62% dei 2.353 casi di meningite confermati, caratterizzato dal complesso clonale cc11 [16]. in gambia, un focolaio da meningococco w si è sviluppato nel 2012. su 90 casi confermati come meningite presso il reparto pediatrico dell’ospedale di bansang, tale ceppo è stato riscontrato in 89 (98,9%) di essi, con un’incidenza di 74,9/100.000 nei bambini (0-14 anni) e con un tasso di mortalità intraospedaliera del 7,9%. il più alto tasso di attacco si è verificato nel gruppo di età 12-49 mesi [18]. i fattori di rischio associati sono stati: sesso maschile, contatti con malati di meningite e problemi respiratori [19]. studi su portatori di n. meningitidis sono stati condotti in 7 paesi della meningitis belt, 5 dei quali avevano già introdotto il nuovo vaccino contro il meningococco a. è emerso che il 3,4% delle persone esaminate (1.687 su 48.490 persone) risultava portatore di meningococco, con frequenza maggiore negli individui di 5-14 anni rispetto a quelli di età compresa tra 15-29 anni. il 48% degli isolati aveva geni codificanti per le capsule polisaccaridiche associate alla malattia; il genogruppo w risultava il predominante, mentre quello a è stato riscontrato più raramente. ad esempio nel ciad la prevalenza del genogruppo a è scesa dallo 0,7% allo 0,02% dopo la sopraccitata vaccinazione di massa [20]. anche in turchia uno studio multicentrico ha riscontrato la presenza di portatori nel 6,3% (96 casi) della popolazione studiata (1.518 persone di età compresa tra 10 e 24 anni): il sierogruppo a è stato rilevato in 5 campioni (5,2%), il b in 9 campioni (9,4%), il w in 64 campioni (66,6%) e l’y in 4 (4,2%); 14 sono stati classificati come non raggruppabili (14,4%). gli adolescenti e i giovani adulti portatori sembrano essere quindi un serbatoio potenziale per la malattia [10]. un aumento inaspettato di casi dovuti al sierogruppo w è stato osservato anche in diverse regioni del cono sud nell’america latina [21]. recente è il focolaio manifestatosi dopo il 23° raduno mondiale di scout in giappone, nel 2015. nei 9 giorni seguenti la fine dell’incontro, 6 casi di malattia meningococcica invasiva da sierogruppo w si sono verificati tra gli scout e i loro contatti stretti in scozia e in svezia. dei 4 ceppi individuati tutti erano appartenenti al complesso clonale w cc11 [22]. in francia, nel 2012, si sono avuti 16 casi di malattia invasiva da meningococco w: di questi, 8 avevano una storia di recente viaggio nell’africa sub-sahariana e si sono verificati in concomitanza con la stagione epidemica in africa [23]. in italia 3 diversi casi di meningite da ceppo w si sono verificati in centri di accoglienza per migranti, nel 2014: 2 casi in sicilia, a giugno e luglio, in migranti provenienti dal mali e dall’eritrea, e un caso in calabria, a novembre, in un uomo di 37 anni che lavorava nella struttura [24]. il caso clinico che segue riporta un episodio di meningite verificatosi in una minorenne, ospite di un centro di accoglienza a viterbo. caso clinico una bambina di due anni, ospite di un centro di accoglienza per migranti sito nella città di viterbo, arrivò al pronto soccorso dell’ospedale belcolle (vt) il giorno 11/10/2016. la piccola, di nazionalità nigeriana, era giunta in città quattro giorni prima, dopo essere sbarcata presso il porto di augusta (siracusa) e trasferita in autobus nel lazio assieme ad altri migranti diretti a viterbo e a frosinone. all’osservazione dei medici la paziente presentava opistotono e altri segni meningei positivi per cui veniva urgentemente trasferita presso la u.o. di pediatria dello stesso ospedale. all’anamnesi non emersero pregresse patologie degne di rilievo, tranne la comparsa di febbre e tosse (quest’ultima presente anche nella madre) da circa quattro giorni. era stata segnalata l’assenza di vaccinazioni. la piccola, del peso di circa 10 kg, era al momento apiretica, ma alquanto disidratata, con lesioni vescicolari diffuse su tutto il corpo, alcune crostose, altre di aspetto pustoloso; non erano però presenti petecchie. venivano evidenziati inoltre iperemia faringea e rumori umidi sparsi all’auscultazione toracica. all’esame neurologico appariva sonnolenta, ma reattiva e risvegliabile, con presenza di opistotono, rigidità nucale, sofferenza al movimento del capo (che le provocava pianto) e segni di lasègue e di brudzinski; le pupille erano isocoriche, isocicliche e normoreagenti alla luce. veniva subito sottoposta agli esami del caso e a terapia con ceftriaxone per via e.v., oltre a somministrazione di gentamicina, protratta fino alla seconda giornata di degenza. il liquido cefalorachidiano prelevato (3 ml di liquor torbido a pressione aumentata) mostrava un aspetto torbido, grigiastro, con glucosio < 5,0 mg/dl, proteine = 1.462 mg/l e leucociti = 29.000/mm3. l’esame microscopico evidenziava numerosi granulociti neutrofili e l’esame colturale deponeva per la presenza di varie colonie di n. meningitidis. gli esami ematici, oltre a una marcata anemia ferrocarenziale, evidenziavano valori particolarmente alterati di proteina c reattiva, leucociti, neutrofili, piastrine (666 × 1.000/mm3) e pro-calcitonina (108,48 ng/ml) (tabella ii). 11/10/2016 1° giornata di degenza 13/10/2016 3° giornata di degenza 19/10/2016 9° giornata di degenza proteina c reattiva (mg/l) intervallo di riferimento (0,0-5,0) 366,9 99,1 11,3 leucociti (× 1.000/mm3) intervallo di riferimento (5,20-13,10) 46,3 19,9 7,55 neutrofili (× 1.000/mm3) intervallo di riferimento (1,90-8,00) 40,6 12,1 1,92 tabella ii. andamento dei parametri ematici della bambina durante le diverse giornate di degenza in ospedale l’emocoltura risultava negativa per la ricerca sia di anaerobi sia di aerobi. l’rx torace effettuato non evidenziava lesioni pleuro-parenchimali in atto. in seconda giornata le condizioni di salute rimanevano stazionarie, in assenza di febbre fino alla tarda serata; in terza giornata, pur in presenza di rigidità nucale e segni meningei, la bambina appariva più vigile e reattiva agli stimoli esterni e gli esami ematici ripetuti evidenziavano parametri di coagulazione nella norma, ma fibrinogeno e d-dimero con valori superiori. si assisteva inoltre alla riduzione di valori (rispetto al precedente controllo) della proteina c reattiva, dei leucociti, dei neutrofili, delle piastrine (574 × 1.000/mm3) e della pro-calcitonina (38,5 ng/ml). due accessi febbrili si manifestavano nel corso della terza giornata (37,7°c e 37,8°c) (con quadro clinico stabile, persistenza di atteggiamento “a cane di fucile”, modesta irritabilità) e uno nella quarta (38,2°c), quando si assisteva a un lieve miglioramento, pur con la positività dei segni di lasègue e brudzinski. la normotermia, dalla quinta giornata, rimaneva costante per tutto il periodo di ricovero. già in settima giornata i segni meningei non erano più presenti, le condizioni generali apparivano buone e la bambina si presentava vigile e reattiva. la consulenza dermatologica richiesta per la persistenza di lesioni squamo-crostose sul cuoio capelluto deponeva per la diagnosi di pseudotinea amiantacea (con campione negativo per la ricerca di miceti dermatofiti), che veniva trattata con soluzione topica di rifamicina e shampoo antibatterico. a seguito del progressivo miglioramento la bambina venne dimessa in nona giornata dopo aver eseguito per altrettanti giorni terapia con ceftriaxone (alla dose di 1 g e.v. una volta al giorno, corrispondente a circa 100 mg per kg di peso corporeo, nei primi tre giorni di degenza e di 1 g ogni 12 ore dal quarto giorno di degenza sino alla dimissione) e con esami che mostravano un miglioramento dei valori, rispetto ai precedenti, della proteina c reattiva e dei leucociti, con neutrofili nella norma, mentre permaneva la piastrinosi. il successivo controllo, dopo qualche giorno dalla dimissione, confermava le condizioni generali buone e la normalità dell’esame obiettivo. l’identificazione di n. meningitidis come agente eziologico (avvenuta il 12/10/2016) e la conseguente segnalazione e notifica da parte dell’ospedale al servizio di igiene e sanità pubblica (sisp) ha permesso a quest’ultimo: di eseguire la procedura prevista dalle misure di sorveglianza sulle meningiti batteriche con invio al servizio regionale per l’epidemiologia, sorveglianza e controllo delle malattie infettive (seresmi) della notifica, della scheda di sorveglianza e della piastra contenente la coltura di n. meningitidis per la tipizzazione; di attivare il protocollo operativo previsto in caso di meningite meningococcica nei confronti dei contatti del caso. è stata immediatamente avviata l’indagine epidemiologica per individuare ulteriori casi e soprattutto per identificare in tempi rapidi i soggetti esposti da sottoporre a sorveglianza sanitaria ed eventualmente a chemioprofilassi (se contatti stretti). la terapia antibiotica è stata somministrata a: 33 migranti ospiti del centro di accoglienza di viterbo (27 hanno assunto ciprofloxacina, 4 donne in stato di gravidanza ceftriaxone e 2 minori rifampicina); 25 operatori della questura di viterbo, della croce rossa e del centro di accoglienza (ciprofloxacina); 5 operatori sanitari dell’ospedale di viterbo (ciprofloxacina); 4 migranti che avevano viaggiato con la bambina ma che sono stati ospitati in altra struttura in provincia di viterbo (ciprofloxacina). la chemioprofilassi, a fini cautelativi, è stata proposta anche a chi non corrispondeva esattamente alla definizione di “contatto stretto”. data la labilità della sopravvivenza del batterio al di fuori dell’organismo, non è stata necessaria la disinfezione ambientale o la chiusura del locale comunitario. il sisp ha applicato indirettamente misure preventive anche nei confronti degli altri migranti che hanno condiviso il viaggio con la bambina per essere successivamente accolti in altri ambiti territoriali. sono infatti state informate immediatamente la asp di siracusa e la asl di frosinone affinché queste persone fossero sottoposte a sorveglianza. nessun caso secondario è stato successivamente riscontrato tra i contatti. il 19/10/2016 veniva comunicato dal seresmi alla asl di viterbo che il sierogruppo in questione di n. meningitidis era stato identificato come w dal dipartimento di malattie infettive, parassitarie ed immuno-mediate dell’iss. domande che il medico dovrebbe porsi di fronte a un caso come questo come si trasmette il microrganismo responsabile della malattia? qual è il periodo di incubazione della malattia? chi sono i contatti a rischio? quali farmaci possono eventualmente essere utilizzati per la chemioprofilassi sui contatti a rischio? è importante la valutazione delle situazioni individuali (es. bambini, donne in gravidanza, allergie a farmaci) per la scelta del farmaco appropriato esistono misure di prevenzione efficaci per la malattia (es. vaccini)? discussione quanto finora esposto ci permette di fare alcune considerazioni. dal punto di vista clinico abbiamo potuto notare, nel caso esaminato, la presenza, all’esame obiettivo neurologico, delle caratteristiche semeiotiche tipiche della meningite, in una paziente che rientra nella fascia di età in cui l’incidenza di tale patologia è maggiore. l’esame del liquor e i parametri ematici alterati hanno mostrato anch’essi il quadro proprio dell’infezione da n. meningitidis. per quanto concerne la sintomatologia va sottolineato che, trattandosi di un bambino, a volte i sintomi classici possono non essere presenti o comparire in maniera atipica: infatti la temperatura corporea ha manifestato, durante l’osservazione ospedaliera, solo tre accessi (in due giornate) su un andamento pressoché costantemente afebbrile, prevalendo così, nel nostro caso, la sintomatologia da irritazione meningea. dal punto di vista epidemiologico il sierogruppo w riscontrato ci permette di focalizzare l’attenzione su un dato fondamentale: la variabilità delle caratteristiche sierotipiche e dell’incidenza della malattia da meningococco, sia geograficamente sia nel corso del tempo [7]. infatti, sia in europa sia, in scala più ampia, a livello mondiale, emergono casi singoli o focolai attribuibili a sierogruppi diversi da quelli endemici, considerati propri di una determinata area geografica. questo può avvenire per propagazione di casi da nuovi focolai (di cui gli eventi di mass gathering possono essere fattori favorenti) [14,21,22] o anche in seguito a interventi di prevenzione e sanità pubblica, come ad esempio l’introduzione di vaccinazioni di massa contro un dato sierogruppo, con la conseguente emergenza di altri ceppi [15-17]. l’epidemiologia del meningococco cambia e, anche in corrispondenza della meningitis belt, sembra che il sierogruppo w si stia affermando in maniera concreta, come suggeriscono i casi verificatisi e gli studi sulla sierotipizzazione nei portatori. dal punto di vista preventivo appare fondamentale l’attività del sistema di sorveglianza esistente nel nostro paese che, con la collaborazione delle asl territoriali, ha lo scopo di monitorare la situazione epidemiologica esistente. l’individuazione del sierogruppo ci permette infatti di conoscere l’incidenza di malattia causata dai diversi ceppi (la cui propagazione geografica può essere favorita, in modo particolare, dall’interazione tra gruppi etnici diversi e dai viaggi sempre più frequenti [22,23]), che è indispensabile per valutare la quota dei casi prevenibili con la vaccinazione [2,4]. la profilassi assume pertanto un ruolo determinante. i sierogruppi di meningococco per cui, ad oggi, è disponibile un vaccino sono: a, b, c, y e w. poter stimare costantemente la quota (e la tipologia) di queste infezioni prevenibili da vaccino ci consente di attuare strategie vaccinali adeguate (come potrebbe essere, ad esempio, l’offerta attiva, agli operatori dei centri di accoglienza, del vaccino tetravalente coniugato a, c, w135, y [24], ora offerto gratuitamente agli adolescenti in base al nuovo piano nazionale prevenzione vaccinale 2017-2019 [25]. i dati relativi alla copertura vaccinale sono strumenti indispensabili, a loro volta, per seguire l’evoluzione della malattia e attuarne il controllo. va inoltre evidenziato il ruolo centrale assunto dalla asl, nel caso clinico menzionato, nel coordinare efficacemente l’attività di prevenzione: la tempestiva comunicazione e collaborazione con le istituzioni locali e sanitarie ha infatti garantito un’appropriata sorveglianza anche al di fuori del proprio territorio di competenza, facendo fronte alle criticità che spesso impediscono, all’interno di un sistema, un adeguato scambio di informazioni [26]. fondamentale e auspicabile è quindi poter modulare nel tempo, sulla base delle informazioni sistematicamente acquisite e delle variabilità riscontrate, le conseguenti azioni per la tutela e la promozione della salute pubblica, anche contro le malattie invasive da meningococco. punti chiave le caratteristiche sierotipiche e l’incidenza della malattia meningococcica variano sia a livello geografico sia nel corso del tempo in particolare, il sierogruppo w di n. meningitidis si sta diffondendo a livello globale anche nella asl di viterbo, nel 2016, si è verificato un caso di meningite da sierogruppo w in una bambina migrante proveniente dalla nigeria si evidenzia l’importanza del sistema di sorveglianza nazionale, che ha lo scopo di monitorare costantemente la situazione epidemiologica esistente e di modulare nel tempo le eventuali azioni preventive nei confronti della malattia meningococcica si evidenzia l’importanza a livello territoriale, qualora si verifichi un caso di malattia invasiva meningococcica, di una tempestiva attuazione dei protocolli operativi previsti nei confronti dei contatti per evitare l’insorgenza di ulteriori casi e garantire la tutela della salute pubblica bibliografia 1. meloni c, pelissero g. igiene. rozzano (mi): casa editrice ambrosiana, 2007 2. iss (istituto superiore di sanità). dati di sorveglianza delle malattie batteriche invasive aggiornati al 16 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important events in the natural history of this condition because they negatively impact health status, rate of hospitalization, disease progression, and mortality. viral and/or bacterial infections are the main cause of exacerbations. the treatments include systemic corticosteroids, bronchodilators, anticholinergics and/or shortor long-acting β2-agonists, and antibiotics in case of bacterial infections. in some cases, oxygen-therapy is indicated. this article focuses on several aspects of aecopd, including epidemiology, diagnostic approach, i.e. investigations and management of aecopd. keywords: pulmonary disease, chronic obstructive; exacerbations; bronchitis; bronchodilator agents acute exacerbations in chronic obstructive pulmonary disease (copd) cmi 2017; 11(2): 63-70 https://doi.org/10.7175/cmi.v11i2.1308 gestione clinica corresponding author dott. domenico lorenzo urso u.o. pronto soccorso-obi ospedale “n. giannettasio” rossano (cs) tel. e fax 0983968330 cell. 3479953941 mimmourso71@yahoo.com disclosure l’autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo introduzione la broncopneumopatia cronica ostruttiva (bpco) costituisce una delle principali cause di malattia, la cui prevalenza, sebbene variabile nelle diverse aree geografiche a seconda dell’esposizione ai diversi fattori di rischio [1] e dell’invecchiamento della popolazione [2], è stimata, nei soggetti ultratrentenni, pari a 11,7% [3]. la bpco è definita dalle linee guida (lg) della global initiative for chronic obstructive lung disease (gold) come una malattia infiammatoria cronica delle vie aeree e/o del parenchima polmonare conseguente all’esposizione a particelle nocive e gas. la limitazione al flusso aereo, scarsamente reversibile, è secondaria alla presenza di bronchiolite ostruttiva e di enfisema, variamente associati nel singolo soggetto ed è responsabile della sintomatologia respiratoria persistente, caratterizzata da tosse con espettorazione e dispnea [4]. la diagnosi di bpco, sospettata sulla base dell’anamnesi positiva per l’esposizione a fattori di rischio (quali fumo di sigaretta e/o esposizione a inquinanti indoor e/o outdoor) e dei sintomi clinici (quali tosse con espettorazione e/o difficoltà respiratoria da sforzo e successivamente anche a riposo), è posta con l’esame spirometrico post-broncodilatazione che dimostri una limitazione al flusso aereo scarsamente reversibile (indice di tiffenau: volume espiratorio forzato al primo secondo [fev1]/capacità vitale [cv] < 70%) [5]. la gravità della limitazione al flusso aereo (grado gold, tabella i), l’intensità dei segni clinici, misurata con la scala medical research council modificata (mmrc) o con il copd assessment test (cat), e la frequenza delle riacutizzazioni nei precedenti 12 mesi (gruppo gold) (tabella ii) costituiscono i criteri stabiliti dalle linee guida gold per definire la gravità della malattia nel singolo paziente [4]. grado gold rilevazione fev1 gold 1 lieve fev1 > 80% del valore teorico gold 2 moderato 50% < fev1 < 80% del valore teorico gold 3 grave 30% < fev1 < 50% del valore teorico gold 4 molto grave fev1 < 30% del valore teorico tabella i. classificazione della ostruzione bronchiale post-broncodilatatore [1] fev1 = volume espiratorio forzato al primo secondo; gold = global initiative for chronic obstructive lung disease riacutizzazioni negli ultimi 12 mesi sintomi clinici mmrc 0-1 o cat < 10 mmrc ≥ 2 o cat ≥ 10 ≥ 2 c d ≤ 1 a b tabella ii. gruppo gold cat = copd assessment test; mmrc = scala medical research council modificata le riacutizzazioni rappresentano un evento comune nella storia naturale della bpco e sono responsabili di un aumento dei costi di malattia (diretti e indiretti), di un progressivo peggioramento della funzione respiratoria e di un aumento della mortalità [4,6]. epidemiologia la frequenza [7], la gravità [8] e il rischio di mortalità [9] correlati alle riacutizzazioni della bpco aumentano nelle forme più gravi di malattia [10]. nei pazienti con fev1 > 60% (bpco lieve-moderata) la frequenza di riacutizzazioni/anno è 1,6 rispetto a 2,6 nei pazienti con fev1 < 40% (bpco grave) [11], e la mortalità intraospedaliera è il 4% nei pazienti con bpco lieve-moderata rispetto a frequenze fino al 29% nei pazienti gravi ricoverati in unità di terapia intensiva (uti) [12]. definizione non esiste, nelle diverse lg internazionali, una definizione condivisa di riacutizzazione di bpco. le lg gold definiscono le riacutizzazioni di bpco come «un acuto peggioramento dei sintomi respiratori che necessita di terapia aggiuntiva» [4]. le lg del national institute for health and care excellence (nice) definiscono la riacutizzazione di bpco come «un netto peggioramento, a esordio acuto, dei sintomi del paziente rispetto alla fase di stabilità clinica che va oltre la variabilità giornaliera. i sintomi sono rappresentati da peggioramento della dispnea, tosse, aumento della quantità di muco e cambiamento del suo colore. la modificazione dei sintomi spesso necessita di un adeguamento terapeutico» [13]. contrariamente alle lg gold e alle lg nice, le lg della canadian thoracic society (cts), introducendo un criterio temporale, definiscono la riacutizzazione di bpco come «un peggioramento della dispnea, della tosse o dell’espettorazione, presente da almeno 48 ore, che determina la necessità di aumentare le dosi della terapia farmacologica in atto e/o di aggiungere ulteriori farmaci» [14]. classificazione di gravità non c’è accordo nemmeno sulla valutazione di gravità delle esacerbazioni. le lg gold distinguono, sulla base delle necessità terapeutico-assistenziali, tre diversi livelli di gravità di riacutizzazione distinte in: lievi, se trattabili con broncodilatatori a breve durata d’azione; moderate, se trattabili con broncodilatatori a breve durata d’azione, antibiotici e/o corticosteroidi orali; gravi, se richiedono una visita urgente al pronto soccorso e/o l’ospedalizzazione [4]. le lg nice individuano la necessità di ospedalizzazione nei casi in cui la riacutizzazione sia accompagnata da comorbilità cardiovascolari e/o metaboliche, alterazioni dello stato di coscienza e/o peggioramento dello stato di ossigenazione [13]. le lg cts non distinguono le riacutizzazioni per gravità, ma sulla base della presenza di fattori di rischio quali: fev1 < 50%; > 4 esacerbazioni per anno; presenza di ossigenoterapia a lungo termine (otlt), uso di steroidi e impiego di antibioticoterapia nei tre mesi precedenti [14]. anche se datata, per semplicità di approccio, merita di essere considerata la classificazione di gravità proposta da anthonisen e colleghi [15] secondo la quale i pazienti con riacutizzazioni di bpco sono distinti in tre diversi gruppi di gravità a seconda dei sintomi clinici. classificazione di gravità delle riacutizzazioni di bpco secondo anthonisen e colleghi [15] tipo 1: comparsa o peggioramento della dispnea o aumento di volume dell’espettorazione o comparsa di espettorato purulento tipo 2: almeno due sintomi tra comparsa o peggioramento della dispnea o aumento di volume dell’espettorazione o comparsa di espettorato purulento tipo 3: almeno un sintomo tra comparsa o peggioramento della dispnea o aumento di volume dell’espettorazione o comparsa di espettorato purulento; in aggiunta ad almeno uno dei seguenti sintomi: infezioni delle alte vie respiratorie nei 5 giorni precedenti, febbre senza altra causa, incremento del wheezing o tosse, o un aumento del 20% della frequenza cardiaca o respiratoria eziologia le infezioni respiratorie, virali e/o batteriche, rappresentano il principale fattore di rischio per la riacutizzazione di bpco. cause di riacutizzazione della bpco infezioni delle vie respiratorie inquinamento atmosferico o2-terapia inappropriata farmaci (ipnoinducenti, benzodiazepine, neurolettici, ecc.) malnutrizione calorico-proteica disidratazione miopatia e/o fatica dei muscoli respiratori fumo di sigaretta le infezioni virali sono responsabili di circa un terzo degli episodi di riacutizzazione [16]. tra i virus i più importanti, vi sono i rhinovirus, l’influenza-virus, il parainfluenza-virus, il coronavirus, l’adenovirus e il virus respiratorio sinciziale [17]. sebbene il ruolo delle infezioni batteriche sia in fase stabile nei pazienti con bpco, esse sono presenti in oltre il 50% dei soggetti con riacutizzazione di malattia. haemophilus influenzae e streptococcus pneumoniae sono i germi più frequentemente isolati, mentre i batteri atipici sono presenti nel 5-10% dei casi [18]. le infezioni da pseudomonas aeruginosa e da germi gram negativi enterici di solito si associano alle forme molto gravi di bpco, alle bronchiectasie, a condizioni di defedamento, all’uso prolungato di corticosteroidi per via sistemica, e all’uso di antibiotici nei 3 mesi precedenti [19]. tra le cause non infettive di riacutizzazione di bpco, l’esposizione agli inquinanti atmosferici è la più importante. la gestione della riacutizzazione di bpco la gestione di una riacutizzazione di bpco varia a seconda della gravità della stessa, valutata sulla base dell’anamnesi, della sintomatologia clinica all’esame obiettivo e di alcuni esami strumentali e di laboratorio utili ai fini della diagnosi differenziale con altre malattie respiratorie e cardiache che ne possono simulare il quadro clinico. sintomi associati a riacutizzazione di bpco polmonari dispnea tosse aumento del catarro presenza di espettorato purulento costrizione toracica wheezing extrapolmonari febbre astenia malessere generale sonnolenza confusione torpore e coma patologie in diagnosi differenziale con la riacutizzazione di bpco asma scompenso cardiaco embolia polmonare bronchiectasie polmonite pneumotorace tubercolosi la gestione delle forme moderato-gravi di riacutizzazione necessita di una valutazione intraospedaliera poiché, solitamente, queste si manifestano in pazienti con bpco grave o molto grave [4,13,14]. trattamento farmacologico il trattamento farmacologico di una riacutizzazione di bpco prevede il cosiddetto abc approach, acronimo derivato dalle iniziali delle classi di farmaci utilizzati (antibiotici, broncodilatatori e corticosteroidi), sebbene l’impiego degli antibiotici debba essere riservato alle riacutizzazioni a patogenesi batterica, riconoscibili di solito dalla presenza di espettorato purulento [20]. i farmaci broncodilatatori i farmaci broncodilatatori per via inalatoria short-acting (sabd), rappresentati dai farmaci β2-agonisti short-acting (saba) e dai farmaci antimuscarinici short-acting (sama), costituiscono la principale classe di farmaci utilizzati nel corso di una riacutizzazione di bpco. farmaci broncodilatatori short-acting per via inalatoria (sabd) farmaci broncodilatatori β2-agonisti short-acting (saba) salbutamolo fenoterolo terbutalina farmaci broncodilatatori antimuscarinici short-acting (sama) ipratropio bromuro ossitropio bromuro non c’è sostanziale differenza in termini di broncodilatazione (range di incremento di fev1: 150-250 ml) a 90 minuti tra le due classi di sabd. tuttavia, i saba hanno un inizio di azione rapido (entro 5 minuti dalla somministrazione), con un picco di azione a 30 minuti, mentre i sama hanno un inizio di azione più lento (dopo 10-15 minuti dalla somministrazione, con un picco di azione a 30-60 minuti): per entrambe le classi di farmaci gli effetti tendono a ridursi entro 3 ore, fino a esaurirsi entro 4-6 ore [21-23]. una revisione cochrane ha dimostrato che la somministrazione di saba erogati mediante metered-dose inhaler (mdi) con distanziatore è efficace quanto la somministrazione con nebulizzatore, ma ha il vantaggio di un minor tempo di somministrazione (da 4 a 8 puff in 2 minuti vs 10-20 minuti di ogni singola nebulizzazione) [24]. la contemporanea somministrazione di un sama e un saba determina un effetto dilatatore aggiuntivo [25]. i farmaci broncodilatatori per via inalatoria long-acting (labd), sia β2-agonisti (laba) sia antimuscarinici (lama), da soli o in associazione, non sono indicati nella fase acuta di malattia [4,13], sebbene costituiscano il cardine della gestione finalizzata al mantenimento del controllo e alla stabilizzazione della bpco, in quanto comunque determinano sia un miglioramento dei sintomi clinici, sia una riduzione della frequenza e della gravità delle riacutizzazioni. farmaci broncodilatatori long-acting per via inalatoria (labd) farmaci broncodilatatori β2-agonisti long-acting (laba) salmeterolo formoterolo indacaterolo villanterolo farmaci broncodilatatori antimuscarinici long-acting (lama) tiotropio aclidinio glicopirronio umeclidinio i corticosteroidi il trattamento con corticosteroidi, per via orale o parenterale, è, unitamente ai broncodilatatori, la terapia di scelta nelle riacutizzazioni moderate-gravi di bpco. è documentata la sua efficacia in termini di miglioramento dei sintomi, incremento di fev1 e della pao2. l’impiego di corticosteroidi, inoltre, riduce la comparsa di insufficienza respiratoria e la durata della degenza ospedaliera [26]. le lg gold suggeriscono il trattamento con prednisone 40 mg per 5 giorni [4,27]. antibioticoterapia il trattamento antibiotico è indicato nei pazienti con riacutizzazione di bpco il cui quadro sintomatologico è compatibile con la presenza di un’infezione batterica (aumento della tosse, con presenza di espettorazione purulenta). una metanalisi di 11 studi controllati ha valutato l’impatto dell’antibioticoterapia sulla riacutizzazione di bpco trattata in diversi setting assistenziali (ambulatorio, ricovero ospedaliero, ricovero in uti), dimostrando che questa riduce del 46% il fallimento terapeutico rispetto al placebo, ma i benefici sono più evidenti nei pazienti ricoverati rispetto a quelli ambulatoriali [28]. un’ulteriore revisione cochrane sull’uso degli antibiotici in corso di bpco ha dimostrato una riduzione della mortalità a breve termine nei pazienti in cui l’esacerbazione è caratterizzata da tosse con espettorazione purulenta [29]. la scelta dell’antibiotico deve tenere conto di alcuni criteri decisionali, fra i quali: la distribuzione delle resistenze batteriche agli antibiotici nelle diverse aree geografiche; la gravità della bpco; l’età; le eventuali comorbilità; l’anamnesi farmacologica (frequenza di cicli di antibioticoterapia, eventuale presenza di germi multiresistenti in precedenti esami batteriologici dell’escreato, tendenza all’autoprescrizione). una metanalisi di 12 diversi trial clinici randomizzati che ha confrontato l’efficacia di antibiotici di prima linea (amoxicillina, doxiciclina, trimetoprim/cotrimossazolo) con quella di antibiotici di seconda linea (cefalosporine di ii e iii generazione e chinolonici) ha dimostrato, a parità di sicurezza, una minore frequenza di insuccesso terapeutico nei pazienti trattati con antibiotici di seconda linea [30]. trattamento non farmacologico l’o2-terapia con occhialini nasali (prongs), o con maschera facciale con effetto venturi, rappresenta un presidio terapeutico fondamentale in corso di riacutizzazione di bpco complicata da insufficienza respiratoria (pao2 < 60 mmhg con o senza paco2 > 45 mmhg). la somministrazione di o2 riduce la vasocostrizione ipossica e la positive airway pressure (pap) polmonare, previene l’insorgenza di ischemia miocardica e di acidosi metabolica, ma può favorire l’insorgenza di ipercapnia (paco2 > 45 mmhg) per soppressione del drive respiratorio. la frazione inspirata di o2 (fio2) deve essere tale da garantire una saturazione ossiemoglobinica (sahbo2) > 90% (pao2 > 60 mmhg). la presenza di ipercapnia non costituisce controindicazione alla o2-terapia, ma rappresenta un’indicazione all’integrazione della o2-terapia con la ventilazione meccanica [31,32]. ventilazione meccanica numerosi studi hanno dimostrato che la ventilazione non invasiva a pressione positiva (nppv) riduce la necessità di intubazione oro-tracheale (iot), la durata della degenza ospedaliera e la mortalità nei pazienti con riacutizzazione di bpco [33]. una revisione sistematica di keenan e collaboratori ha suggerito che i pazienti che traggono maggiori benefici dalla nppv sono quelli con riacutizzazioni gravi, associate a una riduzione del ph < 7,3 [34]. questa osservazione non è stata confermata in successive revisioni. in particolare, la revisione sistematica di ram e colleghi [35], confermando le osservazioni di conti e collaboratori [36], ha concluso che la nppv deve essere iniziata precocemente nella riacutizzazione di bpco complicata da insufficienza respiratoria, poiché un ritardo nell’inizio del trattamento ventilatorio ne annulla i benefici in termini di mortalità, durata della ventilazione, degenza in uti e complicanze. merlani e colleghi, in uno studio retrospettivo che ha analizzato 104 pazienti con bpco trattati nel dipartimento di emergenza e accettazione, hanno dimostrato che i fattori associati al fallimento della nppv includono la glasgow coma scale < 13, la frequenza respiratoria ≥ 20 atti/min e il ph ≤ 7,35 dopo un’ora dall’inizio della nppv [37]. la biphasic positive airway pressure (bipap) è una modalità di nppv indicata nelle riacutizzazioni di bpco, che fornisce una pressione inspiratoria (ipap o inspiratory positive airway pressure) in aggiunta a una pressione di fine espirazione (epap o expiratory positive airway pressure) in respiro spontaneo. i valori di pressione impostati possono prevedere due diversi approcci definiti high or low approach. i valori di ipap sono rispettivamente di 20-25 cmh2o e 8-10 cmh2o. i valori di epap sono pari a 3-4 cmh2o. i valori di ipap impostati dipendono dall’adattamento del paziente al ventilatore, che si traduce in una riduzione della dispnea, della frequenza respiratoria, in un aumento del volume corrente e dello stato di ossigenazione. il fallimento della nppv costituisce indicazione alla ventilazione invasiva a pressione positiva (ippv). punti chiave le riacutizzazioni sono un evento comune nella storia naturale della bpco, e nelle forme più gravi di malattia aumentano a livello di frequenza, gravità e rischio di mortalità sebbene non esista una definizione condivisa di riacutizzazione della bpco, essa è caratterizzata da un peggioramento dei sintomi respiratori di entità tale da determinare un modificazione del trattamento terapeutico le infezioni virali e/o batteriche rappresentano la principale causa di riacutizzazione il trattamento farmacologico è basato sulla somministrazione di corticosteroidi per via sistemica, broncodilatatori, anticolinergici e/o β2-agonisti, a breve o lunga durata d’azione per via inalatoria e, nel caso di espettorazione giallo-verdastra, di antibiotici per via sistemica nelle forme di riacutizzazione complicate da insufficienza respiratoria è indicata la somministrazione di o2-terapia, con fio2 tale da garantire una sahbo2 > 90%, associata a ventiloterapia nella forme complicate da acidosi respiratoria bibliografia 1. buist as, mcburnei ma, vollmer vm, et 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sono i gangli della base e la corteccia associativa. la quasi totalità degli studi di neuroimaging, infatti, ha rivelato una ridotta attività dei gangli della base in soggetti tourettici rispetto ai controlli sani. i risultati sono stati confermati anche da studi sul metabolismo e sul flusso ematico cerebrale, i quali evidenziano, a livello dei gangli basali, un’alterazione del circuito dopaminergico cortico-striato-talamo-corticale, specialmente nei pressi delle porzioni del nucleo caudato dello striato ventrale, una delle regioni essenziali per l’espressione del comportamento motorio [6]. tic e sintomatologia correlata nonostante la st sia stata a lungo considerata come entità nosologica rara, si calcola che lo 0,5-1% della popolazione pediatrica introduzione la sindrome di gilles de la tourette – più brevemente sindrome di tourette (st) – è un disturbo cronico ed evolutivo caratterizzato da tic motori multipli, e da almeno un tic vocale, non necessariamente concomitanti, presenti per un periodo di tempo superiore a un anno [1]. i tic sono definiti come movimenti o vocalizzi rapidi, improvvisi, ricorrenti, non ritmici e stereotipati [2]. il disturbo esordisce in età giovanile, prima dei 18 anni, con frequenza quasi quotidiana oppure intermittente, senza che si verifichi un periodo libero da tic superiore a 3 mesi consecutivi. l’eziologia della st è complessa: le influenze genetiche sono forti e rilevanti, accompagnate da ripetute infezioni streptococciche e da complicanze pree perinatali che possono interessare il fenotipo [3]. diverse varianti geniche sono state identificate in pazienti affetti da st, sollevando la possibilità che la sindrome comprenda corresponding author andrea e. cavanna a.cavanna@ion.ucl.ac.uk gestione clinica abstract tourette syndrome is a neurodevelopmental disorder characterised by the chronic presence of multiple motor tics (e.g. eye blinking, shoulder shrugging, etc.) and at least one vocal/phonic tic (e.g. grunting or sniffing). the clinical picture of patients with tourette syndrome is often complicated by tic-related behavioural problems and associated psychopathology. the pathophysiology of tourette syndrome is poorly understood, however converging evidence from neuroimaging studies suggests abnormalities within the fronto-striatal pathways. the pharmacological management of the tic symptoms focuses on the dopaminergic and noradrenergic pathways and aims to improve the health-related quality of life of patients. keywords: psychopathology; pharmacological treatment; tourette syndrome; tics pharmacological treatment of tics in gilles de la tourette syndrome cmi 2011; 5(4): 145-155 1 michael trimble neuropsychiatry research group, university of birmingham and bsmhft, birmingham, uk 2 sobell department of motor neuroscience and movement disorders, institute of neurology and university college london, uk andrea e. cavanna 1,2, andrea nani 1 il trattamento farmacologico dei tic nella sindrome di gilles de la tourette 146 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) il trattamento farmacologico dei tic nella sindrome di gilles de la tourette in età scolare possa soddisfare gli attuali criteri diagnostici per questa patologia, in gradi diversi di severità [7]. generalmente l’età media in cui si presentano i primi sintomi motori della st è compresa tra i 5-7 anni, mentre i tic vocali compaiono di norma intorno a 10 anni d’età. a proposito dei tic vocali, alcuni autori suggeriscono che sarebbe più corretto descriverli come tic fonici, in quanto non in tutti è specificamente coinvolto l’uso delle corde vocali [7]. in generale, si possono identificare: tic motori semplici, che coinvolgono prey valentemente la muscolatura mimica del volto (quali l’ammiccamento, la rotazione degli occhi, la protrusione della lingua, le smorfie del viso, ecc.); tic motori complessi (quali gli atti di y saltare, di accovacciarsi, di aggiustarsi i vestiti); tic vocali (quali grugniti, colpi di tosse, y schiarirsi la voce, fischiare, ecc.). nel corso della giornata i tic si presentano a ondate, e possono aggravarsi a seconda di situazioni di tensione e di circostanze stressanti o dell’inattività, mentre, al contrario, la loro frequenza diminuisce con l’attività fisica e la concentrazione [2]. anche con gli anni la loro intensità e cadenza oscillano incostantemente. è indicativo che gli stessi tic offrano un temporaneo sollievo a sensazioni soggettive di tensione e di disagio, o anche dette “tic sensitivi”, che li precedono. tali sentori sono chiamati, nella letteratura di lingua inglese, premonitory urges e, caratteristicamente, la maggioranza dei pazienti con st dichiara di esserne affetta (80-90%) [8,9]. sembra inoltre che la manifestazione di queste sensazioni premonitrici aumenti con l’età dei pazienti. banaschewski e collaboratori, intervistando 254 giovani affetti da st, hanno riscontrato che il 24% degli intervistati tra 8 e 10 anni, il 34% degli intervistati tra 11 e 14 anni, e il 57% degli intervistati tra 15 e 19 anni d’età riportavano di percepire tali sensazioni [10]. non è chiaro, tutcriteri dsm-iv-tr per la diagnosi della sindrome di gilles de la tourette [1] presenza, non necessariamente concomitante, di più tic motori e uno o più tic vocali1. i tic si manifestano più volte al giorno (solitamente in accessi), con frequenza quasi quo-2. tidiana oppure intermittente per più di un anno, durante il quale non si è verificato un periodo libero da tic superiore a 3 mesi consecutivi l’età di esordio è prima dei 18 anni3. il disturbo non è dovuto agli effetti diretti dell ’assunzione di una sostanza (es. stimolanti) 4. o a una condizione medica generale (es. malattia di huntington o encefalite postvirale) tavia, se questi fenomeni esistano in misura minore nei soggetti più giovani o se invece siano comunque presenti, ma non riportati perché i pazienti, a causa dell’età immatura, non sono ancora in grado di identificarli e/o descriverli appropriatamente. diversi studi, tuttavia, suggeriscono che tali sensazioni diventino rilevanti intorno a 10 anni d’età [8] e che siano più frequenti di quanto inizialmente ci si aspettasse [11-15]. inoltre le premonitory urges sono fenomeni spesso comuni a un’altra psicopatologia correlata e in certi casi concomitante alla st: il disturbo ossessivo-compulsivo (doc) [16]. alcuni autori, pertanto, allo scopo di introdurre i tic sensitivi nella valutazione clinica dei pazienti, hanno proposto una scala psicometrica (premonitory urge for tics scale) per la loro misurazione [17], anche in considerazione del fatto che molti pazienti con st descrivono la loro lotta contro le sensazioni premonitrici addirittura più prostrante dello sforzo di trattenere i tic veri e propri. i pazienti sono comunque in grado di estinguere i tic volontariamente per periodi di tempo variabili (secondi-minuti-ore), incrementando tuttavia la propria “tensione interna” che provoca un susseguente rebound [2]. sono solitamente presenti anche sintomi tic-correlati. a questo proposito sono stati ampiamente riportati in letteratura la balbuzie, l’ecolalia (la ripetizione di parole pronunciate da altri), la palilalia (la ripetizione di parole appena pronunciate), la paliprassia (la ripetizione di azioni appena compiute), la coprolalia (il proferimento di espressioni volgari e/o oscene) e la coproprassia (il compimento di gesti volgari e/o osceni). la coprolalia, che di solito insorge intorno ai 14 anni, è stata riportata approssimativamente in un terzo dei pazienti in ambito clinico. è tuttavia importante evidenziare che essa scende a percentuali più basse, non superiori al 10%, in campioni più ampi [7]. la coproprassia è riportata in un intervallo compreso tra 3% e 21% dei pazienti, men147 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) a. e. cavanna, a. nani tre gli ecofenomeni in un intervallo tra 11% e 40%. anche la presenza di palilalie e di paliprassie è significativa, come frequenti sono altri sintomi correlati quali l’impulso a percuotere, spingere, stringere o toccare oggetti o persone o parti del proprio corpo [7]. spesso si riscontrano comportamenti autolesivi, per lo più minori (onicofagia, tricotillomania, ecc.). alcuni pazienti, inoltre, riferiscono di provare attrazione verso oggetti pericolosi o potenzialmente dannosi (utensili taglienti, fonti di calore) [18]. più comunemente, infine, sono stati descritti in pazienti con st comportamenti antisociali, attività sessuale inappropriata, discontrollo degli impulsi e disturbi del sonno [19]. la natura neuropsichiatrica della st è sintomatologicamente frastagliata e complessa, tanto più che la st risulta spesso associata a patologie psichiatriche in comorbilità, quali il doc, il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (attention deficit and hyperactivity disorder, adhd), i disturbi del tono dell’umore e di personalità. a tale proposito packer [20] e robertson [21] hanno suggerito di distinguere diversi sottotipi nell’ambito della st, ai fini di giungere a una caratterizzazione fenotipica più accurata. si distingue così tra una forma pura di st (pure tourette syndrome), una forma completa di st (full-blown tourette syndrome) e una forma di st “plus” (tourette syndrome plus). la forma “pura” di st sarebbe caratterizzata unicamente da tic motori e vocali. la forma completa di st, invece, oltre i tic motori e vocali, contemplerebbe anche i fenomeni tic-correlati: ecolalia/prassia, palilalia/prassia, coprolalia/prassia, ecc. a sua volta, la forma di st “plus” comprenderebbe, oltre alle manifestazioni sintomatologiche delle due forme precedenti, uno o più disturbi psichiatrici associati: doc, adhd, depressione, ecc. sindrome di tourette e psicopatologia associata un ampio studio clinico multicentrico di freeman e collaboratori, che ha considerato un campione di 3.500 pazienti in tutto il mondo, ha mostrato che soltanto il 12% dei soggetti con st non presenta psicopatologia concomitante [22]. la più comune comorbilità risulta essere l’adhd, seguita da doc e depressione. indicativo è il fatto che la sintomatologia correlata ai tic, quale i disturbi del sonno, il discontrollo degli impulsi, la coprolalia e i comportamenti autolesivi raggiungono livelli elevati unicamente in individui che presentano comorbilità, compresi i disturbi di personalità [23]. disturbo da deficit di attenzione e iperattività l’adhd è un disturbo psichiatrico di comune riscontro in età infantile. le statistiche sulla presenza dell’adhd nella popolazione variano a seconda dei criteri diagnostici impiegati: 1-2% seguendo la definizione fornita dalla world health organization e 5-10% seguendo la definizione meno rigida dell’american psychiatric association [24]. l’esatta relazione tra st e adhd è complessa e continua a stimolare dibattiti. a riguardo sono state avanzate le seguenti ipotesi: una correlazione genetica delle due sin-1. dromi [25]: sebbene questa eventualità sia stata messa in discussione [26], è probabile che vi siano due tipologie di pazienti con st e adhd, una ove la presenza dell’adhd è indipendente dalla st e un’altra in cui l’adhd è secondario alla st [27]; l’adhd nella sua forma pura e l’adhd 2. associato alla st potrebbero essere entità fenomenologiche distinte [28], sebbene la natura delle due manifestazioni e il loro rapporto non siano stati ancora chiariti. ovviamente queste due ipotesi non sono mutualmente esclusive. i dati indicano che il 60-80% dei pazienti con st manifesta anche l’adhd [29,30]. i disturbi dell’attenzione e i fenomeni di iperattività normalmente precedono l’insorgenza dei tic [31]. è stato suggerito, inoltre, che in pazienti con st sono spesso i sintomi dell’adhd a contribuire maggiormente ai disturbi comportamentali, alle difficoltà nelle prestazioni scolastiche e ai deficit riscontrati nelle funzioni esecutive [31]. pertanto, nella valutazione clinica dei pazienti con st e adhd, riveste molta importanza l’individuazione dei sintomi più problematici, ai fini della scelta della strategia di trattamento [32]. disturbo ossessivo-compulsivo come la st, il doc esordisce normalmente in età giovanile [33]. nello studio multicentrico di freeman e colleghi sono stati riscontrati sintomi ossessivo-compulsivi nel 32% dei casi e doc vero e proprio nel 148 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) il trattamento farmacologico dei tic nella sindrome di gilles de la tourette 27% [22]. diversi studi hanno evidenziato una percentuale compresa tra l’11% e l’80% di pazienti che presentavano sia la st sia sintomi ossessivo-compulsivi o diagnosi di doc [34]. indicazioni circa l’associazione tra le due patologie si ricavano anche dalla rilevazione di un’elevata comorbilità inversa (presenza di tic in pazienti affetti da doc) [35,36]. inoltre, l’osservazione che spesso i parenti dei pazienti con st manifestano sintomi ossessivo-compulsivi o doc depone a favore dell’associazione tra st e doc [37-39]. infine, da tempo si è visto che la st e il doc condividono certe caratteristiche neurochimiche e neuroanatomiche [40]. in entrambe le patologie si ritrovano descrizioni di anomalie a livello della corteccia frontale e dei gangli della base. specifiche alterazioni funzionali del corpo striato e di strutture del sistema limbico sembrano essere implicate nella generazione di tic motori e vocali (interessando i circuiti dopaminergici e noradrenergici) o di ossessioni e compulsioni (interessando i circuiti serotoninergici) [41]. nella st i tic tendono a rispondere a sensazioni di disagio, riducendone lo sconforto; analogamente nel doc le compulsioni spesso rispondono a un involontario processo mentale (l’ossessione), al fine di ridurre le sensazioni di malessere. in conseguenza di ciò, alcuni autori hanno avanzato l’ipotesi che certi sintomi o comportamenti ossessivo-compulsivi rappresentino un’espressione fenotipica alternativa della st [38,42]. disturbi del tono dell’umore e disturbi di personalità lo studio di freeman e collaboratori ha indicato che il 20% dei pazienti con st presenta anche sintomi depressivi [22]. sembra che la manifestazione di sintomi depressivi aumenti con l’età dei pazienti [43]. d’altronde, nei pazienti con st la presenza di depressione sembra dipendere dal grado di severità e di durata dei tic, dalla presenza di ecofenomeni e di coprofenomeni, delle sensazioni premonitrici, del doc, dell’adhd, dei disturbi del sonno e dei comportamenti autolesivi [32]. stante l’eziologia multifattoriale dei sintomi depressivi, si ritiene che questi non abbiano una correlazione genetica con la st, né che possano essere associati per se alla st, come avviene per altre comorbilità (adhd e doc) [44]. i sintomi depressivi possono inoltre rappresentare un effetto collaterale dovuto all’assunzione di alcuni farmaci [7]. i disturbi di personalità sono relativamente comuni nei pazienti affetti da st. in uno studio condotto su 102 pazienti, il 15% ha ricevuto una diagnosi di disturbo della personalità applicando i criteri del dsm-iv [45]. inoltre, la presenza di comorbilità è positivamente correlata alla manifestazione di tratti schizotipici. trattamenti farmacologici dei tic nella sindrome di tourette è opportuno evidenziare che ad oggi sono pochi i trial clinici condotti su campioni sufficientemente numerosi da consentire di fissare linee guida evidence-based per la somministrazione di farmaci [46]. premesso ciò, la scelta della terapia nei confronti di pazienti con st è delicata fin dall’obiettivo che ci si vuole prefiggere: se sia, cioè, necessario dirigere l’intervento sui tic o se, al contrario, si preferisca intervenire in prima istanza sui comportamenti patologici associati, in considerazione del fatto che, in certi casi, i sintomi delle psicopatologie correlate possono avere conseguenze più severe per la qualità di vita del paziente [47,48]. la difficoltà a fornire indicazioni precise in merito al trattamento farmacologico della st dipende dall’alta variabilità interindividuale dei sintomi, dalle fluttuazioni con cui si presentano i tic e dalle condizioni psicopatologiche concomitanti, le quali possono interferire con gli effetti della terapia farmacologica. pertanto, al fine di decidere se un disturbo da tic debba essere trattato farmacologicamente, occorre tener conto dell’intensità, della frequenza, della complessità, dell’andamento temporale e della severità dei tic, avendo però presente che alla severità dei tic non sempre corrisponde un disagio elevato in termini soggettivi: alcuni pazienti, infatti, possono sperimentare un disagio lieve o moderato a fronte di tic relativamente severi, mentre altri possono risultare psicologicamente provati in seguito alla presenza di tic di mite intensità [46]. la tabella i propone alcune linee guida generali per la scelta del trattamento dei tic, associati o meno alla st, con e senza comorbilità. finora gli studi indicano che nessun farmaco ha la capacità di migliorare la sintomatologia ticcosa in tutti i pazienti. la scelta del medico è pertanto volta a individuare la combinazione di agenti farmacologici più appropriata, tenendo conto dello spettro 149 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) a. e. cavanna, a. nani combinazione con propanololo o tetrabenazina [58]. una controindicazione che rende meno appetibile la terapia con clozapina è che questo farmaco può portare all’agranulocitosi e a un aumento di peso più marcato rispetto agli altri antipsicotici atipici [59]. altri studi in aperto hanno mostrato che sia olanzapina sia quetiapina possono ridurre la gravità e la frequenza dei tic [60,61], a fronte di effetti collaterali quali l’aumento di peso e la sonnolenza. olanzapina, inoltre, può essere utile in terapie che mirino a ridurre anche i sintomi dell’adhd e l’aggressività. a differenza dei precedenti antipsicotici atipici, aripiprazolo opera con un meccanismo parzialmente agonista nei confronti dei recettori d2 della dopamina. inoltre questo agente possiede un’azione specifica su molteplici recettori: è un antagonista del recettore serotoninergico 5-ht2a, un agonista parziale del 5-ht2c e ha una certa affinità per i recettori alfa-adrenergici [62]. tra gli antipsicotici atipici, aripiprazolo è di più recente generazione ed è generalmente ben tollerato: infatti presenta moderati e temporanei effetti collaterali, i più comuni dei quali sono l’insonnia, la spossatezza, la sonnolenza, la nausea, la cefalea e l’irrequietezza [63]. oltre a ciò, aripiprazolo ha il vantaggio di essere solo debolmente associato ad altri effetti collaterali più severi, quali l’aumento di peso, l’iperprolattinemia e la sintomatologia extrapiramidale [64]. è stato inoltre riportato in letteratura che aripiprazolo migliora la risposta terapeutica agli ssri nei pazienti con forme severe di doc [65]. altri agenti farmacologici un ultimo cenno deve essere fatto ad agenti farmacologici con altri meccanismi d’azione utilizzati per il trattamento dei tic i disturbi di personalità sono relativamente comuni nei pazienti affetti da st. in uno studio condotto su 102 pazienti, il 15% ha ricevuto una diagnosi di disturbo della personalità applicando i criteri del dsm-iv [45]. inoltre, la presenza di comorbilità è positivamente correlata alla manifestazione di tratti schizotipici. trattamenti farmacologici dei tic nella sindrome di tourette è opportuno evidenziare che ad oggi sono pochi i trial clinici condotti su campioni sufficientemente numerosi da consentire di fissare linee guida evidence-based per la somministrazione di farmaci [46]. premesso ciò, la scelta della terapia nei confronti di pazienti con st è delicata fin dall’obiettivo che ci si vuole prefiggere: se sia, cioè, necessario dirigere l’intervento sui tic o se, al contrario, si preferisca intervenire in prima istanza sui comportamenti patologici associati, in considerazione del fatto che, in certi casi, i sintomi delle psicopatologie correlate possono avere conseguenze più severe per la qualità di vita del paziente [47,48]. la difficoltà a fornire indicazioni precise in merito al trattamento farmacologico della st dipende dall’alta variabilità interindividuale dei sintomi, dalle fluttuazioni con cui si presentano i tic e dalle condizioni psicopatologiche concomitanti, le quali possono interferire con gli effetti della terapia farmacologica. pertanto, al fine di decidere se un disturbo da tic debba essere trattato farmacologicamente, occorre tener conto dell’intensità, della frequenza, della complessità, dell’andamento temporale e della severità dei tic, avendo però presente che alla severità dei tic non sempre corrisponde un disagio elevato in termini soggettivi: alcuni pazienti, infatti, possono sperimentare un disagio lieve o moderato a fronte di tic relativamente severi, mentre altri possono risultare psicologicamente provati in seguito alla presenza di tic di mite intensità [46]. la tabella i propone alcune linee guida generali per la scelta del trattamento dei tic, associati o meno alla st, con e senza comorbilità. finora gli studi indicano che nessun farmaco ha la capacità di migliorare la sintomatologia ticcosa in tutti i pazienti. la scelta del medico è pertanto volta a individuare la combinazione di agenti farmacologici più appropriata, tenendo conto dello spettro persistenza gravità trattamento transitorio lieve osservazione moderato o severo farmacoterapia e follow-up cronico o presenza di sindrome di tourette in assenza di comorbilità lieve interventi non farmacologici* moderato o severo farmacoterapia e interventi non farmacologici (potrebbe essere necessario ricorrere a un esperto) cronico o presenza di sindrome di tourette in presenza di comorbilità ogni caso deve essere valutato e trattato individualmente (si raccomanda di ricorrere a un esperto) tabella i. schema terapeutico per il trattamento dei disturbi da tic * i trattamenti non farmacologici comprendono il sostegno psicologico del paziente e dei genitori, un’adeguata educazione e preparazione del personale scolastico, e la terapia comportamentale sintomatologico presentato dal singolo paziente, delle controindicazioni e delle interazioni tra i diversi agenti [49]. i trattamenti farmacologici più comunemente utilizzati vengono presentati qui di seguito. neurolettici i neurolettici, come aloperidolo e pimozide, sono tra gli agenti dimostratisi più efficaci nel trattamento dei tic. tali agenti operano bloccando i recettori di tipo 2 della dopamina. è stato appurato che maggiore è l’effetto antagonista del farmaco, maggiore è l’efficacia nel trattamento dei tic [46]. tuttavia è ben noto che i neurolettici alterano anche i circuiti colinergici, serotoninergici, istaminergici e alfa-adrenergici, conducendo a possibili effetti collaterali. tra questi i più comuni sono l’aumento del peso corporeo e la sonnolenza, unitamente a iperprolattinemia (associata ad amenorrea, galattorrea e ginecomastia) e a sintomi extrapiramidali. uno studio clinico randomizzato in doppio cieco ha mostrato che pimozide può essere efficace quanto aloperidolo e avere meno controindicazioni [50], tuttavia può portare a episodi di aritmia. l’ecg del paziente deve essere pertanto controllato periodicamente. antipsicotici atipici gli antipsicotici atipici agiscono sui recettori d2 della dopamina in modo più selettivo. rientrano in questa categoria risperidone, clozapina, olanzapina, quetiapina e un agonista parziale, aripiprazolo. i risultati di alcuni studi in aperto suggeriscono che risperidone abbia un’efficacia simile ad aloperidolo [51,52]. tuttavia un altro studio in aperto ha valutato che a lungo termine soltanto il 20-30% dei pazienti sarebbe in grado di tollerare la terapia con risperidone [53]. questo agente causa comunemente stanchezza e sonnolenza, nausea, vomito, disturbi del sonno, aumento di peso, labilità emotiva [54,55]. l’iperprolattinemia e la galattorrea possono verificarsi ad alte dosi [56]. il vantaggio di risperidone è che, aumentando l’effetto degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (selective serotonin reuptake inhibitors, ssri), può contribuire a migliorare alcuni sintomi ossessivo-compulsivi e i comportamenti aggressivi [55]. clozapina agisce più debolmente sui recettori d2 della dopamina. nondimeno alcuni studi in aperto riportano una riduzione dei tic in monosomministrazione [57] o in 150 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) il trattamento farmacologico dei tic nella sindrome di gilles de la tourette da diversi anni, quali tetrabenazina e clonidina. tetrabenazina agisce come antagonista e depletore della dopamina, bloccandone i recettori postsinaptici e riducendo le riserve presinaptiche di monoamine. può portare a un senso di spossatezza, di sonnolenza, di nausea, a sintomi depressivi, a insonnia e, più raramente, al parkinsonismo. a basse dosi, però, può essere ben tollerata, anche a lungo termine. alcune revisioni retrospettive della casistica clinica comprendente pazienti sottoposti in media a 2 anni di terapia con tetrabenazina hanno riportato miglioramenti [66] e benefici prolungati nell’80% dei casi [67]. clonidina, uno dei principali farmaci in uso negli stati uniti, è un agonista alfa-2adrenergico che inibisce il rilascio di noradrenalina. gli effetti negativi associati a questo agente comprendono sonnolenza, ipotensione, cefalea, capogiri, costipazione, nausea, secchezza del cavo orale e bradicardia. nei pazienti con st e adhd clonidina ha mostrato effetti positivi [7], anche in combinazione con metilfenidato [68]. è stato tuttavia prospettato che, per ottenere benefici a seguito di somministrazione di clonidina, il paziente con tic debba protrarre la terapia per almeno 4-6 mesi [69]. in sintesi, vi è ancora una grande scarsità di studi che valutino la sicurezza e l’efficacia nel lungo periodo dei diversi agenti psicofarmacologici. con la sola eccezione dei neurolettici (aloperidolo e pimozide), gli studi clinici randomizzati in doppio cieco hanno largamente trascurato la popolazione di pazienti con st. per esempio, nel corso dell’ultimo decennio solamente risperidone tra gli antipsicotici atipici è stato oggetto di trial clinici metodologicamente rigorosi, con risultati nel complesso positivi. per la (limitata) letteratura evidence-based si rimanda il lettore alla recente revisione cochrane curata da cavanna e colleghi [70]. altri farmaci antipsicotici atipici (es. aripiprazolo) che hanno fornito risultati incoraggianti in termini di efficacia e tollerabilità negli studi in aperto sono ancora in attesa di una conferma da trial clinici randomizzati in doppio cieco. la scelta dei farmaci da utilizzare dipende, pertanto, dalle esperienze personali del clinico. recentemente, i clinici della european society for the study of tourette syndrome (essts) hanno prodotto delle linee guida basate sul consenso di esperti circa la terapia farmacologica della st [71]. i risultati principali sono riassunti nella tabella ii. gli autori delle linee guida europee sottolineano la scarsità di dati basati sulle evidenze e suggeriscono risperidone come farmaco di prima scelta per il trattamento dei tic (soprattutto in comorbilità con doc). nei casi resistenti, pimozide si è rivelata essere meglio tollerata di aloperidolo, mentre viene riconosciuto il potenziale terapeutico di aripiprazolo, in presenza di buona tollerabilità, in attesa di ulteriori conferme da trial clinici dedicati. infine, clonidina viene indicata quale valida alternativa terapeutica, soprattutto nei pazienti con adhd in comorbilità. approcci terapeutici associati al trattamento farmacologico e refrattarietà in aggiunta alla terapia farmacologica, e nel tentativo di potenziarne gli effetti, possono essere somministrati altri trattamenti per ridurre la frequenza e la severità dei tic. tra questi vi sono la terapia comportamentale, l’impiego della tossina botulinica e la stimolazione cerebrale profonda o deep brain stimulation (dbs). per quanto riguarda la terapia comportamentale, due tecniche si sono distinte negli ultimi anni per efficacia in casi selezionati: habit reversal training ed exposure and response prevention. entrambe le tecniche sono di tipo cognitivo-comportamentale e prevedono l’abituazione alle premonitory urges, tramite l’adozione di una competing response nel primo caso e tramite la soppressione forzata per tempi progressivamente più lunghi nel secondo caso. farmaco punteggio risperidone 60 clonidina 37 aripiprazolo 33 pimozide 32 sulpiride 24 tiapride 21 aloperidolo 17 tetrabenazina 9 ziprasidone 6 quetiapina 4 tabella ii. raccomandazioni degli esperti (n = 22) della european society for the study of tourette syndrome (essts) per il trattamento farmacologico dei tic in pazienti affetti dalla sindrome di gilles de la tourette [70]. a ciascun esperto è stato chiesto di indicare il farmaco di prima (4 punti), seconda (3 punti) e terza scelta (2 punti), e i farmaci di riserva (1 punto). a ogni farmaco è stato attribuito un punteggio totale, ottenuto sommando i punti ottenuti dalle preferenze espresse da ciascun esperto. sono indicati solamente i farmaci che hanno ottenuto un punteggio superiore a 3 151 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) a. e. cavanna, a. nani un ampio studio clinico randomizzato recentemente pubblicato ha fornito utili indicazioni circa l’efficacia dell’habit reversal training nell’ambito di un programma multidisciplinare di tipo psicoeducativo e cognitivo-comportamentale (cmit, comprehensive multidisciplinary intervention for tic disorders) [72]. l’impiego della tossina botulinica (botox) è attestato nel trattamento dei tic motori e vocali. la tossina riduce l’attività muscolare inibendo localmente il rilascio di acetilcolina. viene pertanto somministrata direttamente nel gruppo muscolare coinvolto nel tic motorio, o nei muscoli della laringe nel caso di tic vocali. uno studio in doppio cieco ha riportato un miglioramento del 40% nel gruppo di pazienti trattati mediante tossina botulinica rispetto al gruppo placebo [73]. in riferimento ai tic vocali, la tossina botulinica si è rivelata utile per ridurre sia la coprolalia sia le premonitory urges [74]. in uno studio condotto su 70 pazienti (29 con età 10-16 anni e 41 con età 19-55 anni), valutati 15 giorni dopo l’iniezione della tossina e in seguito 4 volte nel corso dei 12 mesi successivi, ha mostrato un miglioramento dei tic vocali nel 94% dei casi, di cui il 41% libero da tic. la qualità di vita dei pazienti era migliorata e le premonitory urges si erano ridotte, senza che vi fossero seri effetti collaterali, ad eccezione dell’ipofonia, riportata nell’84% dei casi [75]. la stimolazione cerebrale profonda (dbs) mediante elettrodi è una tecnica neurochirurgica reversibile, i cui bersagli più comuni, nel trattamento dei tic, sono i nuclei talamici centromediano/parafascicolare/ventro-orale, il globus pallidus-pars interna e il nucleus accumbens. in studi in aperto su casistiche limitate, la stimolazione dei nuclei talamici si è rivelata efficace sia nel trattamento degli aspetti comportamentali della st sia nel controllo dei tic [76,77]. in studi analoghi, la dbs del globus pallidus ha prodotto buoni risultati nella riduzione dei tic motori e del loro controllo, e della severità dei sintomi psicopatologici [78]. la stimolazione del nucleus accumbens è risultata utile nel trattare pazienti con sintomi ossessivo-compulsivi e disturbo d’ansia [79]. complessivamente, la dbs può ridurre la frequenza e la severità dei tic motori e vocali, i comportamenti autolesivi, ossessivo-compulsivi e l’impulsività. la tollerabilità di questa tecnica invasiva nei pazienti con st, tuttavia, è legata in gran parte al feedback sensoriale e ai disturbi comportamentali associati. in letteratura si è osservato, infatti, un caso importante di aumento di comportamenti compulsivi dopo il trattamento [77]. ciò suggerisce che è opportuno prestare grande attenzione nel valutare, soprattutto dal punto di vista psicologico, le caratteristiche dei pazienti da sottoporre alla dbs. tale tecnica dovrebbe perciò essere utilizzata come una misura aggiuntiva rispetto alle terapie farmacologiche, nei casi di maggiore invalidità e disagio sociale; oppure nei casi in cui vi sia o sia subentrata refrattarietà agli stessi trattamenti farmacologici. in merito a quest’ultimo punto, una definizione di “paziente refrattario” risulta molto importante ai fini di una corretta gestione terapeutica della st. tuttavia, non si è ancora formato un consenso unanime su tale definizione. in questo lavoro, pertanto, faremo riferimento alla definizione proposta da porta e colleghi [80], secondo i quali sono refrattari i pazienti che: hanno mostrato un’inadeguata risposta y clinica o effetti collaterali tali da rendere necessaria la sospensione del trattamento se trattati con almeno due delle seguenti categorie di farmaci: antipsicotici tipici e atipici, depletori delle catecolamine, ssri, tossina botulinica; non hanno mostrato miglioramenti cliy nici dopo 6-12 mesi di terapia comportamentale. pertanto, i criteri principali utilizzati per la definizione di “paziente refrattario” sono una scarsa risposta al trattamento farmacologico oppure la presenza di effetti collaterali non tollerabili, e privi di miglioramento in seguito a una terapia conservativa di almeno 6 mesi. pazienti di questo tipo, e con impairment sociale elevato, possono essere possibili candidati per l’intervento di dbs. conclusioni a proposito della st, il celebre neuropsicologo aleksandr lurija scrisse in una lettera a oliver sacks: «la comprensione di una tale sindrome amplierà necessariamente, e di molto, la nostra comprensione della natura umana in generale. non conosco alcun’altra sindrome che abbia un interesse paragonabile» [81]. la st è chiaramente una patologia complessa e affascinante, entità nosografica di confine tra neurologia e psichiatria, tra disturbo del movimento e psicopatologia. qualora i tic o i sintomi comportamentali tic-correlati ri152 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) il trattamento farmacologico dei tic nella sindrome di gilles de la tourette sultino invalidanti (soprattutto in termini di impatto sulla qualità di vita salute-correlata [82]), è opportuno impostare un intervento terapeutico. in molti casi l’uso accorto e informato dei trattamenti neuropsicofarmacologici può dare buoni risultati, qualora accompagnato da un adeguato supporto psicosociale ed, eventualmente, dall’associazione con una terapia comportamentale di comprovata efficacia come l’habit reversal training. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. bibliografia american psychiatric association. diagnostic and statistical manual on mental disorders (41. th edn, text revision) (dsm-iv-tr). washington, dc: apa, 2000 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bonaccini 1, paola piccini 1, daniele serranti 1, paola gervaso 1, luisa galli 1 i fattori di rischio nell’ictus giovanile e l’enigma dei polimorfismi trombofilici: descrizione di un caso clinico linda iurato 1, marialuisa ventruto 2, maria adalgisa police 2, alessandro morella 3, alfonso fortunato 4, lanfranco musto 5, patrizia fiori 1, mario nicola vittorio ferrante 6, antonio monaco 7 il trattamento farmacologico dei tic nella sindrome di gilles de la tourette andrea e. cavanna 1,2, andrea nani 1 in caso di ipertensione, quando andare sino in fondo con gli accertamenti? andrea semplicini 1, chiara sandonà 1, federica stella 1, tommaso grandi 1 cmi 2018;12(1)63-66.html post-angiography acute kidney injury richard solomon 1 1 professor of medicine, larner college of medicine, university of vermont l'insufficienza renale acuta da mezzo di contrasto cmi 2018; 12(1): 63-66 https://doi.org/10.7175/cmi.v12i1.1371 editorial corresponding author richard solomon md, fasn, facp, professor of medicine larner college of medicine university of vermont richard.solomon@uvmhealth.org received: 10 september 2018 accepted: 18 september 2018 published: 25 september 2018 introduction the association of a decrease in glomerular filtration rate following the administration of iodinated contrast was first described over 60 years ago [1]. the name has changed from contrast-induced nephropathy (cin) to contrast-associated acute kidney injury (ca-aki) to post-angiography acute kidney injury (pa-aki), reflecting an ongoing controversy regarding the association. since the original publication, over 1700 publications have documented this association, attempted to unravel the pathophysiologic mechanism, described the short and long-term consequences, and advised practitioners on how to prevent this association. the most common definition is an absolute increase in serum creatinine of 0.5 mg/dl or a relative increase of 25% compared to baseline that occurs over the 48-72 hours following exposure to contrast. however, many controversies remain. guidelines from the major groups using iodinated contrast have been published and revised over the years [2,3]. in this brief editorial, we will review the three major tenets of these guidelines. 1. identify patients most at risk for developing pa-aki it is generally agreed that not all patients are at equal risk for pa-aki. figure 1 describes the pathogenesis of this form of aki and divides it between patient-related factors and procedure-related factors. central to the heightened risk of this form of aki is a vulnerable kidney. the kidney may be vulnerable because of hemodynamic alterations that either decrease blood flow (for example congestive heart failure) or perfusion pressure (hypotension), and/or impair the renal vasculature’s ability to respond to contrast-induced decreases in blood flow (for example, renal insufficiency, diabetes) or drugs such as nonsteroidal anti-inflammatory drugs (nsaids) and renin-angiotensin-aldosterone system (raas) inhibitors. chronic kidney disease is associated with both vascular changes and decreases in renal reserve that also make the kidney more vulnerable to subsequent injury. a number of risk models have been presented to enable anticipation of kidney injury and to focus prophylactic efforts on those more in danger of developing pa-aki. in cardiology, the most widely used risk model uses a small number of patientand procedure-related factors to divide patients into 4 categories of risk [4]. the categories are not only predictive of aki but also the need for dialysis and in-hospital mortality. patients in the 2 highest risk categories are targeted for specific prophylactic interventions (see below). figure 1. model of post-angiography acute kidney injury (pa-aki) pathogenesis that emphasizes the factors that make the kidney vulnerable to contrast. how contrast gets into body (iv or ia) doesn’t alter how it gets to the kidney. ros = reacting oxygen species 2. reduce the amount of contrast administered the evidence from animal and in vitro studies suggests that iodinated contrast is directly nephrotoxic (see figure 1) [5]. review of large patient databases indicates that patients who receive more contrast have a higher incidence of aki [6]. therefore, another recommendation in the guidelines points to using as little contrast as necessary. this includes consideration of other imaging techniques that don’t require use of contrast. there have also been a number of attempts to diminish the volume of contrast administered using pressure sensitive manifolds [7], automatic injectors [8], or coronary sinus removal of contrast [9]. hemodialysis immediately after contrast administration has also been proposed [10]. while many of these maneuvers do decrease the amount of contrast administered, the evidence that the incidence of aki is also reduced is not compelling. 3. provide adequate fluid intake there are many strategies to minimize the risk of pa-aki, but the only consensus involves the use of fluids to induce a high urine output. there are many uncertainties about this approach, which have been studied in high-risk patients. although intravenous fluids have been most often recommended, there is increasing evidence that oral fluids may be equally efficacious [11]. for intravenous fluids, isotonic saline and isotonic bicarbonate have been most often compared and there doesn’t seem to be any difference in efficacy [12]. the timing of fluid administration has been less well studied but in general, the longer the administration the better the outcomes [13]. the mechanism of benefit with fluid administration is unknown, but a growing body of evidence suggests that at least part of the benefit lies in inducing a high urine flow rate. this may dilute out the contrast in the nephron and decrease the contrast contact time with the renal tubular epithelium. additionally, high urine output seems to increase blood flow in the medulla, the most sensitive part of the kidney with respect to ischemia [14]. an algorithm for managing patients is shown in figure 2. figure 2. algorithm for managing patients undergoing exposure to contrast media. ace inhibitors = angiotensin-converting-enzyme inhibitors; arbs = angiotensin receptor blockers; nsaids = nonsteroidal anti-inflammatory drugs controversies as mentioned above, there are many areas that are hotly debated. one is whether we have grossly overestimated the impact of contrast on renal injury. certainly, in the cardiology space, other sources of injury may be present such as hemodynamic effects and atheromatous embolic disease. while these are less of a problem in patients undergoing outpatient ct exams, no difference in the incidence of aki between patients receiving contrast-enhanced ct and non-contrast ct has been reported [15]. these two groups have been propensity matched on the reasons for the imaging study. conclusion post-angiography aki continues to be a concern and much has been learned over the past 60 years. a reasonable approach is outlined in figure 2. central to preparing all patients for exposure to contrast is the induction of a high urine output. high-risk patients should have an assessment of renal function in the 72 hours post-exposure to ensure that aki has not occurred. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the author declares he has no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. bartels ed, brun gc, gammeltof a, et al. acute anuria following intravenous pyelography in a patient with myelomatosis. acta med scand 1954; 150: 297-302; https://doi.org/10.1111/j.0954-6820.1954.tb18632.x 2. wright rs, anderson jl, adams cd, et al. 2011 accf/aha focused update of the guidelines for the management of patients with unstable angina/non-st-elevation myocardial infarction (updating the 2007 guideline): a report of the american college of 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economics, outcomes & epidemiology, nopain onlus, roche s.p.a., swedish orphan biovitrum srl, ucb pharma s.p.a. rossella iannone is editor of cmi journal. she declares she has no personal conflicts of interests. she works for seed medical publishers, that in 2020 has worked with adres srl, amgen srl, asst fatebenefratelli sacco, biogen italia srl, boehringer ingelheim italia s.p.a., cd pharma group srl, csl behring spa, fondazione charta, linkhealth s.r.l. health economics, outcomes & epidemiology, nopain onlus, roche s.p.a., swedish orphan biovitrum srl, ucb pharma s.p.a. enzo cappelluti is the layout editor of cmi journal. he declares he has no personal conflicts of interests. he works for seed medical publishers, that in 2020 has worked with adres srl, amgen srl, asst fatebenefratelli sacco, biogen italia srl, boehringer ingelheim italia s.p.a., cd pharma group srl, csl behring spa, fondazione charta, linkhealth s.r.l. health economics, outcomes & epidemiology, nopain onlus, roche s.p.a., swedish orphan biovitrum srl, ucb pharma s.p.a. cmi 2020;14(1)7-9.html adult adhd agnese raponi 1, giancarlo giupponi 2, andreas conca 3 1 psychologist, psychiatric services in bolzano, italy 2 psychiatrist, psychiatric services in bolzano, italy 3 psychiatrist, director of psychiatric services in bolzano, italy cmi 2020; 14(1): 7-9 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v14i1.1459 editorial corresponding author agnese raponi agnese.rapo@gmail.com received: 14 february 2020 accepted: 17 february 2020 published: 25 february 2020 introduction attention deficit and hyperactivity disorder (adhd) is a neurodevelopment disorder with child-onset, characterized by inattention, hyperactivity, and impulsivity. several of the individual’s adhd symptoms must be present prior to age 12 and lead to functional impairment on multiple levels of life (family, social, academic, and working life) [1]. the predominance of symptoms varies among individuals and at the same time in the same individual, giving rise to 3 different configurations of the disease: predominantly inattentive; predominantly hyperactive-impulsive; or with a mixed clinical presentation of the two domains [1,2]. the prevalence of adhd in the general adult population is about 2.8%, ranging from 0.6% to 7.3% [3]. clinical features the heterogeneity of clinical presentations depends on the various symptoms frequently observed in clinical practice and the high rate of psychiatric comorbidities. therefore, in addition to the core symptoms, there are often other symptoms such as restlessness, talkativeness, inability to relax, excessive agitation, impatience, irritability, sensation-seeking behaviors, disorganization, distractibility, difficulty in decision making, hyper-sensitivity to stress, emotional dysregulation, feelings of internal tension, etc. these symptoms may deeply affect the quality of life and sometimes lead to dangerous life habits such as smoking, alcohol and drug abuse, risky sexual behavior, and altered sleep patterns [2,4]. the clinical pictures observed can be different from each other and they tend to change, thus adults with adhd often complain about different symptoms [5]. in the adult population, adhd is frequently associated with comorbid psychiatric diseases and many studies report the presence of adhd in subjects with at least one psychiatric disorder. the most common conditions associated with adhd are depressive and bipolar disorder, anxiety, substance use, and personality disorders. the percentages of patients with adhd and bipolar disorder in comorbidity have been estimated in a range between 5.1% and 47.1%, with a higher prevalence for bipolar i than bipolar ii disorder [5,6]. prevalence rates of depression in patients with major depression and comorbid adhd range from 18.6% to 53.3%, with a lower self-reported quality of life compared to patients with major depressive disorder alone [7]. the risk of anxiety disorder is higher in people with adhd than in the general population, with rates close to 50% and adhd is more prevalent in social phobia than panic disorder [8]. substance use disorder (sud) is twice as common in individuals with adhd compared to the general population, particularly in the use of alcohol, nicotine, cannabis, and cocaine [9]. these people often report using substances to manage their mood and sleep. personality disorders, mainly clusters b and c, are present in more than 50% of adults with adhd, leading to increased impairment and decreased response to treatment [5]. the overlapping of symptoms between adhd and comorbid psychopathologies in the past has meant that people with adhd were not recognized and the neglect of underlying psychopathological picture lead to an easier chronicization of symptoms with earlier onset and more severe comorbid conditions. there is evidence of a positive association between adhd and risk of suicide, especially in female patients. for example, a large population study based on swedish registries revealed a higher increase in women than men in the risk of suicide attempts in adhd patients compared to corresponding controls in the general population [10]. the presence of psychiatric comorbidities could be an additional risk factor for suicide in adhd patients. in a sample-study based on long-term outcomes of adhd patients compared to the general population, barbaresi et al. found that the adhd group had significantly higher suicide rates than controls [11]. additionally, the mortality risk is higher when the disorder is undiagnosed, thus an early diagnosis could be an essential factor in decreasing mortality rates in the adhd population. treatment undoubtedly, it is of the utmost importance to diagnose and treat this disorder in adults [12]. nevertheless, there is still a lack of psychiatric services with specific expertise in adult assessment and treatment of adhd in italy. the only drug available in public services, based on scientific evidence, is atomoxetine, while the only drug available of the class of psychostimulants, methylphenidate, is still off-label for adults. furthermore, there are only few centers prescribing these drugs to patients who receive a diagnosis as adults. this is in contrast to european guidelines, which indicate amphetamines and methylphenidate as the first choice among drug treatments, in different release formulations, and atomoxetine as the second choice treatment [13]. the european guidelines also highlight the importance of a multimodal approach in treatment of adhd, including psychological interventions such as: psychoeducation, cognitive behavioral therapy, psychosocial interventions. in particular, a recent study has highlighted how cognitive behavioral therapy, combined with pharmacological treatment, is more effective than pharmacotherapy alone in reducing the amount and intensity of adhd symptoms in the adult population [14]. conclusion due to the proven clinical consequences and the individual burden related to the failure of diagnosis, and the scientific evidence proving the effectiveness as well as the safety of drugs still off-label for the treatment of the disorder, it is essential to raise the knowledge about of adhd in adults among health care professionals. the aim is to increase the number of specialized psychiatric services in which clinicians with specific training and expertise in the assessment and treatment of adhd enable faster diagnosis and implement effective treatment. funding this article has been written without the support of sponsors. conflict of interest the authors declare they have no competing financial interest concerning the topics of this article. references 1. american psychiatric association. diagnostic and statistical manual of mental disorders (dsm-v). washington (dc, usa): apa, 2013, 5nd edition 2. faraone sv, asherson p, banaschewski t, et al. attention-deficit/hyperactivity disorder. nat rev dis primers 2015; 1: 15020; 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multipotent hematopoietic stem cell that becomes stem-cell-like in its ability to survive, expand, and self-renew. pnh is a rare condition characterized by intravascular hemolysis. pnh can arise anew or in the setting of an underlying bone marrow disorder such as aplastic anemia (aa), myelodysplastic syndrome (mds), or primary myelofibrosis (pmf). this case presentation documents the challenging diagnosis of pnh in the obstetric setting, in which other possible causes for a hemolytic anemia could be considered. we discuss the management of a pregnancy in the presence of pnh in a low-to-middle income setting. keywords: hemoglobinuria, paroxysmal; anemia; obstetrics cmi 2019; 13(1): 1-5 https://doi.org/10.7175/cmi.v13i1.1392 case report corresponding author garrick laudin garrick.laudin@yahoo.com received: 25 november 2018 accepted: 7 january 2019 published: 16 january 2019 why do we describe this case this case highlights a rare disease with a prevalence of 1-2 cases per million people with data on the existence of this disease in the gravid population being limited to case report data. the rarity of this condition in the general population and in maternal medicine poses a dilemma for available therapeutic options and this case demonstrates the lack of availability of drugs such as eculizumab in resource-limited countries introduction paroxysmal nocturnal hemoglobinuria is a rare disease and the estimated prevalence of this disorder is in the range of one to ten cases per million population with estimates in the pregnant population being limited to case report data [1]. the median age of onset of pnh is in the mid-thirties and can affect women of childbearing age and in some instances pnh may be diagnosed in pregnancy for the first time [1,2]. there is no demonstrable ethnic or geographic distribution of the disease [1]. pnh represents the clonal expansion of hematopoietic stem cells that have an acquired somatic mutation in the phosphatidylinositol glycan-complementation class a (pig-a) gene with a consequent deficiency of glycosyl phosphatidylinositol-anchored proteins including the complement-regulatory proteins cd55 and cd59. the clinical sequelae of the deficiency of these complement-regulatory proteins renders affected cells susceptible to lysis mediated via complement [3]. laboratory investigations corroborating the diagnosis of pnh includes the presence of hemoglobinuria, a peripheral blood smear demonstrating red blood cell fragments and an elevated lactate dehydrogenase assay [4]. clinical diagnosis of pnh may be confirmed with peripheral blood flow cytometry demonstrating the absence or severe deficiency of gpi-anchored proteins on at least two cell lines. the detection of gpi-anchored proteins may be performed by labelling cells with monoclonal antibodies or a fluorescein-tagged proaerolysin (flaer) reagent [4]. bone marrow biopsy is not usually indicated in most cases. pregnancy is generally discouraged in patients with pnh due to the high risk of both fetal and maternal mortality. anemia in a pregnant patient with pnh is sometimes more severe and more frequent transfusions of packed red blood cells (prbcs) are required [5]. owing to the occurrence of thrombosis in up to 40% of patients with pnh, the administration of low-molecular-weight heparin (lmwh) is advised [1]. lmwh is generally administered from the time of confirmation of pregnancy to the end of the postpartum period [5]. eculizumab is a humanized monoclonal antibody directed against the complement c5 protein terminal, which reduces erythrocytic cellular lysis and stabilizes the plasma hemoglobin levels [6]. eculizumab is the only drug approved for the treatment of pnh in usa, eu, and several other countries. it is currently not available in south africa for the treatment of pnh. case presentation miss ap was a 25-year-old female who was born in malawi and had re-located to south africa with her husband one year prior to consultation by the internal medicine service at kalafong tertiary hospital. she was a primigravida and had a normal antenatal record except for the presence of a low hemoglobin. other than her re-location to south africa, our patient had no recent travel history to a malaria endemic area within south africa. vital signs value blood pressure (mmhg) 104/76 heart rate (beats per minute) 121 respiratory rate (breaths per minute) 13 oral temperature (degrees celsius) 37.2 oxygen saturation (pulse oximetry %) 95 finger-prick glucose (mmol/l) 5.3 table i. vital signs. at the time of consultation miss ap had an estimated gestational age of 14 weeks with the initial consultation from the obstetric service being for the establishment of the route cause of miss ap’s anemia. miss ap had been previously diagnosed with an anemia in malawi for which she recalls numerous admissions for blood transfusions and specifically recalls receiving transfusions of prbcs during bouts of malaria. limited workup for the anemia had been performed in malawi and a tentative diagnosis of a suspected aplastic anemia was made. vital signs recorded in table i revealed a resting tachycardia with other vitals being within normal limits. urine dipsticks revealed trace proteinuria and 1+ blood (weak positivity for blood). general examination of our patient was unremarkable except for the presence of conjunctival rim pallor and non-pitting pedal edema. systems examination revealed a resting tachycardia with a left parasternal border systolic murmur. abdominal examination revealed a palpable gravid uterus with the height of the uterine fundus at 14 cm. there was no palpable lymphadenopathy and no hepatosplenomegaly. examination of the musculoskeletal system did not demonstrate any discrepancy in the diameter of the calves. blood tests revealed low levels of: white cell count, hemoglobin, and serum iron (table ii). investigation result normal range white cell count (× 109/l) 2.39 3.9-12.6 hemoglobin (g/dl) 4.9 11.6-16.4 mean cell volume (fl) 105.6 76-100 mean cell hemoglobin (pg) 29.3 26.1-33.5 red cell distribution width (%) 23.1 12.4-17.3 platelets (× 109/l) 249 186-454 smear scanty rbc fragments c-reactive protein (mg/l) 9 <10 total bilirubin (µmol/l) 30 5-21 direct/conjugated bilirubin (µmol/l) 5 0-3 alanine transaminase (u/l) 14 7-35 aspartate transaminase (u/l) 106 13-35 international normalized ratio (inr) 1.01 ≤1.1 fibrinogen (g/l) 4.3 2-4 d-dimers (mg/l) 5.24 0-0.25 serum iron (µmol/l) 5.0 8-252 serum ferritin (µg/l) 22 22-265 table ii. basic investigations. rbc = red blood cells elevated levels of mean cell volume, red cell distribution width, total and direct/conjugated bilirubin, aspartate transaminase, fibrinogen, and d-dimers were also detected (table ii). the smear showed the presence of scanty red blood cell fragments. bone marrow aspirate demonstrated features of a megaloblastosis which may be in keeping with chronic hemolysis. overall bone marrow aspirate revealed marked hypercellularity with normal lymphocyte morphology. the bone marrow aspirate did not reveal any features of plasmacytosis with no other foreign cells noted. parvovirus b19 polymerase chain reaction performed on peripheral blood was negative. hemolysis specific investigations detected elevated levels of lactate dehydrogenase and low levels of haptoglobin (table iii). investigation result normal range malaria antigen/smear negative anti-nuclear antibodies negative extractable nuclear antigen negative direct antibody testing (coombs) negative lactate dehydrogenase (u/l) 2673 208-378 haptoglobin (g/l) 0.07 0.3-2.0 hemoglobin electrophoresis no abnormal hemoglobin variant glucose-6-phosphate dehydrogenase levels normal vitamin b12 levels (pmol/l) 484 133-675 serum folate levels (nmol/l) 55 7.0-45.1 urine hemosiderin positive flaer test and flow cytometry pnh clone present table iii. hemolysis specific investigations. flaer test and flow cytometry detected the presence of a pnh clone. table iv shows the pnh panel. the expression of the gpi anchored proteins, cd55 (daf) and cd59 (mirl) was abnormal on both neutrophils and erythrocytes. expression of the gpi-linked proteins (cd14 on monocytes and cd16 on neutrophils) was normal. in summary, there was phenotypic evidence of pnh based on analysis of a variety of gpi-linked antibodies on red blood cells and granulocytes. cell line pnh clone (percent %) cd55erythrocytes 11 cd59erythrocytes 11 cd14monocytes 0.0 cd55granulocytes 71 table iv. pnh panel (national health laboratory service—nhls, south africa). a diagnosis of classical pnh was made after systematically excluding other probable causes of a process of intravascular hemolysis. miss ap was referred from her antenatal clinic at kalafong tertiary hospital to the obstetric service at steve biko academic hospital. she was jointly managed by obstetric medicine, maternal fetal medicine as well as the hematology service. she declined termination of pregnancy after careful counselling about a guarded prognosis. miss ap was commenced on enoxaparin (lmwh) from time of diagnosis (16 weeks) until the birth of her infant at 37 weeks. as the post-natal period in pnh is associated with a high incidence of thrombosis, she was placed on warfarin for 3 months post-delivery. miss ap was supported during her pregnancy with folic acid and other hematinics, as well as transfusions of packed red blood cells when her hemoglobin dropped below 7g/dl. miss ap had an uneventful pregnancy with no episodes of thrombosis and delivered a live male baby via spontaneous vaginal delivery at 37 weeks. discussion pnh or paroxysmal nocturnal hemoglobinuria is a rare disease entity which has a prevalence of 1-2 cases per million people [1]. the disease has a slight female preponderance and women of child-bearing potential are also affected [2]. the exact incidence of pnh in pregnancy is unknown and only case report data on pnh in pregnancy exists. pnh is a non-neoplastic human disease caused by a somatic mutation of the x-linked phosphatidylinositol glycan-complementation class a gene in hematopoietic stem cells which makes red blood cells more vulnerable to lysis mediated by complement [1,2]. the long-term complications of pnh include a chronic intravascular hemolysis complicated by anemia, venous thromboembolism as well as bone marrow failure [1,4]. the clinical diagnosis of pnh in the setting of an obstetric patient can be a diagnostic challenge as the range of signs and symptoms present can be confounded with various pregnancy complications like pre-eclampsia, hellp syndrome or pregnancy-associated thrombocytopenia. it is particularly important to try and distinguish a hellp syndrome from a pnh crisis as the two entities may show overlap in symptomatology (i.e. nausea, abdominal discomfort) and abnormal laboratory findings of intravascular hemolysis (elevated lactate dehydrogenase, elevated unconjugated bilirubin, low haptoglobin, and low platelet count) [2]. pnh in pregnancy is associated with increased risks of complications such as thromboembolic diseases (e.g. budd-chiari syndrome), hypertensive disorders like preeclampsia, and cerebrovascular diseases. pnh in pregnancy can cause significant feto-maternal morbidity and mortality with the estimated maternal mortality ranging from 5.8% to 20.8%. more than 45% of pregnancies in women with pnh result in either spontaneous miscarriage or termination. of the women who give birth, more than half deliver prematurely, an event that can have negative implications for the health of the new-born baby [3,5]. eculizumab is a humanized monoclonal antibody that binds to the complement protein c5 and blocks terminal complement activation. during pregnancy eculizumab has shown a low rate of maternal complications up to now. however, expertise in managing pregnant patients with pnh with eculizumab is limited. in fact, prospective trials are unlikely to be initiated, due to the rarity of the disease. the drug is still listed in pregnancy as a category c drug («animal reproduction studies have shown an adverse effect on the fetus and there are no adequate and well-controlled studies in humans, but potential benefits may warrant use of the drug in pregnant women despite potential risks» [7]), but potential benefits may outweigh potential risks [5]. the cost of eculizumab, trade name soliris®, is approximately 18,000 usd per dose, making it one of the most expensive drugs in the united states [8]. the exorbitant cost of the drug makes its use in pnh in resource-constrained countries almost unjustified. key points pnh is a rare acquired disease with an estimated incidence of 1 to 5 cases per million individuals the exact incidence of pnh in pregnancy is unknown as only case report data on the condition exist pnh results in intravascular hemolysis and other conditions in pregnancy causing hemolysis also require consideration as diagnoses thrombosis is one of the most feared complications of pnh in pregnancy as it can result in fetal loss as well as significant maternal morbidity/mortality standard of care for patients in resource-limited settings is mainly supportive with the use of hematinics and with the appropriate transfusion of blood products funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. brodsky ra. pathogenesis of paroxysmal nocturnal hemoglobinuria. 2017. available at https://www.uptodate.com/contents/pathogenesis-of-paroxysmal-nocturnal-hemoglobinuria (last accessed january 2019) 2. lauritsch-hernandez ls, kraehenmann f, balabanov s, et al. eculizumab application during pregnancy in a patient with paroxysmal nocturnal hemoglobinuria: a case report with review of the literature. clin case rep 2018; 6: 1582-7; https://doi.org/10.1002/ccr3.1634 3. miyasaka n, miura o, kawaguchi t, et al. pregnancy 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mortality. fortunately, most of these patients respond very well to standard antituberculous therapy. here, we have reported the case of a young female patient who presented with chronic ascites, mild abdominal tenderness, and later, scrofula. ultimately, she was diagnosed with ptb based on her test results. we expect that this case report will contribute to the existing literature on this subject. keywords: chronic ascitis; extrapulmonary tuberculosis; ovarian neoplasms; peritonitis, tuberculous; tuberculosis, lymph node cmi 2019; 13(1): 29-34 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v13i1.1416 case report corresponding author galina bogoslovskaya albogoslovsky@gmail.com received: 27 february 2019 accepted: 20 may 2019 published: 14 june 2019 why do we describe this case tuberculosis (tb) has become a global problem with the increasing number of immunocompromised patients. this disease is also spread by overcrowding, poverty, and drug resistance. the abdominal tb rates are rising, and the nonspecific features of this type of extrapulmonary tb create difficulties in establishing a diagnosis. however, the prompt initiation of treatment can help prevent morbidity and mortality. this article should encourage clinicians to consider the possibility of abdominal tb in the correct clinical setting in order to ensure a timely diagnosis and appropriate treatment introduction despite the availability of effective treatments and the use of live attenuated vaccines in many parts of the world, tuberculosis (tb) remains one of the deadliest communicable diseases. peritoneal tb (ptb) is seen in 4.9% of all extrapulmonary tb (etb) cases [1]. although tb affects the lungs in the majority of patients, etb is the initial presentation in approximately 20% of adults, and it primarily involves the lymph nodes, pleura, and abdomen. etb occurs more commonly in immunosuppressed individuals and young children. in those individuals with the human immunodeficiency virus (hiv), it occurs in more than 50% of the cases [1]. although the republic of south africa has made notable progress in reducing the tb prevalence and deaths due to tb, as well as improving the treatment outcomes for new sputum smear-positive tb cases, the tb burden is still enormous [2,3]. ovarian cancer is one of the most difficult gynecological cancer types to diagnose because of its nonspecific symptoms. in these cases, ptb is one of the differential diagnoses because it can mimic the pattern of advanced ovarian cancer while increasing the serum markers, such as cancer antigen 125 (ca125), that are classically associated with this cancer type. in a study by oge et al., among 612 patients who underwent surgery for suspected ovarian cancer, 20 of the cases (3.2%) were diagnosed postoperatively with ptb [4]. here, we have reported a new case of ptb that simulated ovarian cancer. case description a 27-year-old female patient who had a normal vaginal delivery six months previously was referred to the internal medicine department for an evaluation of massive ascites causing severe abdominal distension, nausea, vomiting, bloating, and a weight gain of 4 kg in five months. she had no associated past medical history, and her symptoms became progressively more severe during the subsequent two months. primarily, she underwent diagnostic testing for ascites by her general practitioner (gp), and it was determined that her ca125 level was elevated (428 ku/l; the normal limit is 0-35 ku/l). an exploratory laparotomy was performed by a gynecologist based on the suspected diagnosis of an ovarian malignancy. however, an ovarian malignancy was not found during the operation, and a peritoneal biopsy was conducted. she was discharged after the surgery. while awaiting the results of the peritoneal biopsy, this patient experienced pain and tenderness in the right side of her neck, and she felt a small lymph node in the cervical region. at the same time, she began to exhibit a low-grade fever and sweating. based on the above mentioned background information, she was referred to the pietersburg provincial hospital internal medicine department (south africa) for a diagnostic review and admission. upon examination, this patient appeared ill but afebrile, with no acute respiratory distress (respiratory rate of 18) or unstable vital signs. a visual inspection showed a single diffuse swollen area of approximately 4 × 3 cm with ill-defined borders in the right cervical region. the overlying skin was the same color as the surrounding skin. upon palpation, the mass was slightly tender, fluctuant, compressible, mobile, and showed signs of matting (figure 1). however, her other lymph nodes were not palpable, her lungs were clear, and her cardiovascular examination was normal. her markedly distended abdomen was notable for massive ascites with no signs of peritonitis. there was mild tenderness in the abdomen upon palpation. moreover, there was no lower extremity swelling. the remainder of the exam was significant for an unhealed low laparotomy scar that was oozing a yellow-colored fluid. there were no stigmata of chronic liver disease or a hernia. she had mild anemia, with a hemoglobin level of 11 g/dl and a normal white blood cell count (7.300 × 109/l) and her blood biochemical profile was normal. in addition, her viral hepatitis test and hiv profile were negative. chest radiographs findings did not indicate pulmonary tuberculosis (figure 2). the sputum was negative (genexpert®; cepheid, sunnyvale, ca, usa). her abdominal and thoracic ultrasound revealed massive ascites with mild septation. figure 1. single diffuse swollen area of approximately 4 × 3 cm with ill-defined borders in the right cervical region. figure 2. chest radiographs showing no pathological signs. at the time of presentation, this patient was taking furosemide 40 mg daily and spironolactone 25 mg daily, which were prescribed by her gp one month before her admission. we stopped these medications and admitted the patient to the medical ward. a puncture of the cervical mass resulted in the aspiration of 15 ml of yellow turbid liquid with marked caseous necrosis. laparocentesis revealed a yellow-color translucent fluid. the ascites fluid had a high protein content, low glucose level, and marked lymphocytes with a serum ascites albumin gradient (saag) lower than 1.1 excluding portal hypertension. furthermore, the ascites fluid adenosine deaminase (ada) levels were markedly high (45 u/l; the normal limit is < 30 u/l). the histological examination of the peritoneal biopsy revealed numerous caseating epithelioid granulomas with multinucleated langhans giant cellslymphocytes, and focal caseation. special staining, such as the ziehl-neelsen stain, identified occasional pathological acid-fast bacillus organisms that were consistent with tb. therefore, the ovarian malignancy diagnosis was ruled out, and ptb with tuberculous lymphadenitis was established. afterwards, patient was prescribed the antituberculous treatment rifafour® 3 tablets (each tablet contains: rifampicin 150 mg, isoniazid 75 mg, pyrazinamide 400 mg, and ethambutol 275 mg) [5].two days after the antituberculous treatment began, the general condition of this patient improved significantly, and she was discharged from the hospital 10 days after her admission to the medical ward. a careful retrospective evaluation of her respiratory system showed no evidence of pulmonary tb. however, the later results of her ascitic fluid culture were positive for mycobacterium tuberculosis. the mycobacterial culture of the lymph node aspirate showed negative result. discussion ptb can be acute or chronic, and traditionally, it has been divided into four types: the wet ascitic type is more common, and it is associated with a large amount of free or loculated fluid in abdomen. the ascitic fluid usually exhibits a high density due to the increased protein content of the inflammatory exudate. in addition, associated peritoneal enhancement is usually present; the dry, fixed, fibrotic type of ptb includes the involvement of the omentum and mesentery, and it is characterized by presence of matted bowel loops upon imaging. this type of ptb exhibits a fibrous peritoneal reaction, peritoneal nodules, and the presence of adhesions; occasionally, loculated encysted ascites can be present, which constitutes the third type of ptb [6,7]. abdominal cocoon formation is an uncommon manifestation of fibrotic type of ptb that is characterized by development of fibrous membrane-like sac around of small intestine loops. the clinical presentations included predominantly abdominal pain and intestine obstruction [8]; finally, the purulent and rare form of ptb usually develops secondarily to tuberculous salpingitis, with the pockets adherent to the intestine and omentum containing tb pus (“cold” abscesses). however, a combination of these features is usually noted [6]. ptb exhibits a diverse and nonspecific symptomatology, and no single test is adequate for this diagnosis in all patients [7]. liver cirrhosis, chronic ambulatory peritoneal dialysis, diabetes mellitus, and hiv are all risk factors for ptb. however, abdominal tb in a non-hiv patient is still a challenging diagnosis requiring a high index of clinical suspicion. in this particular case, the postpartum condition could have been a risk factor for the development of etb, specifically ptb with scrofula [9-11]. the extrapulmonary forms of tb constitute approximately one-sixth of all cases, and the prevalence of etb seems to be rising, particularly due to the increasing prevalence of acquired immunodeficiency syndrome. the abdomen is involved in 12% of the patients with etb, and gastrointestinal involvement is found in 66% to 75% of the abdominal cases, with the terminal ileum and ileocecal regions being the most common sites of involvement. this frequency is higher, and it could double or even triple, in hiv-positive subjects. etb can affect all age groups, with a predilection for women between 20 and 50 years of age [9]. the peritoneal transplantation of m. tuberculosis is hematogenous, and it is mainly transplanted from primary infections that often go unnoticed. more rarely, it can be transplanted after a first gastrointestinal infection. in other cases, the peritoneal infection represents seeding from the abdominal lymph nodes [12]. clinically, ptb can mimic advanced ovarian cancer, with pelvic pain, abdominal distension, weight loss, and palpation of an abdominopelvic mass being present in both conditions. however, the search for and absence of other signs, such as menstrual disorders (55% of the cases) and infertility (5% to 10% of the cases), can be useful for the diagnosis of abdominal tb [13]. an association with other localizations, especially pulmonary, should be investigated, but its absence does not eliminate the diagnosis of ptb, as in our case. several imaging techniques, such as ultrasonography and computed tomography, can sometimes guide the diagnosis. the existence of ascites with septas, peritoneal thickening, and heterogeneous enhancement are typical for inflammatory processes like tb. in addition, the ca125 level, which is an ovarian cancer biomarker of epithelial origin, can be high in several benign gynecological diseases (endometriosis, uterine fibroids, and pelvic inflammatory processes), extragynecological diseases (peritonitis, pancreatitis, hepatitis, nephrotic syndrome, and ptb), and nongynecological cancers with peritoneal metastases. in ptb cases, very high ca125 values (> 1,000 u/ml) can be seen [14]. moreover, 90.1% of ptb patient have elevated plasma ca125 levels with a mean value of 565 u/ml [13]. therefore, ca125 has no place in the differential diagnosis between ovarian cancer and ptb. however, a decrease in the ca125 level has been correlated with the tb treatment response, and it has been indicated as a surveillance marker in antituberculous therapy [14]. ascitis may be the first manifestation of a systemic disease or an otherwise unsuspected abdominal disease. in most cases, ascitis appears as part of a well-recognized illness, e.g. cirrhosis, congestive heart failure, nephrosis, or disseminated carcinomatosis. occasionally, it may develop as an isolated finding in the absence of a clinically evident disease. in such cases, a thorough analysis of the ascitic fluid helps identify the etiology [11]. for instance, a saag value of > or < 1 g/dl can differentiate between a transudate and an exudate fluid. a saag value of > 1 is usually related to uncomplicated cirrhosis, alcoholic hepatitis, congestive heart failure, and budd-chiari syndrome, while a saag value of < 1 is related to other causes, such as peritoneal carcinomatosis, tuberculous peritonitis, pancreatitis, serositis, pyogenic peritonitis, and nephritic syndrome. a certain diagnosis via an ascitic fluid analysis is made only after the detection of m. tuberculosis using either a direct examination or after a lowenstein-jensen medium culture. the ascitic fluid ada ratio was also higher in patients with peritoneal tuberculosis than with other causes of ascites. ada is useful diagnostic test for establishment of tuberculosis [15]. at present, an ascites ada activity of 30 u/l is generally accepted as the cut-off level expected to yield the best results [16,17]. tissue xpert™ mtb/rif is of limited use in diagnosis of peritoneal tb [18]. the other laboratory tests results are nonspecific, including mild anemia, inflammatory biomarker elevations, and an intradermal reaction to tuberculin [19]. however, serum c reactive protein (crp) is a very useful tool in the assessment of response to anti-tubercular therapy in abdominal tuberculosis [20]. in our case, the anatomopathological examination after the caseous granulation biopsy was sufficient to confirm the diagnosis. in addition, the search for mycobacteria using polymerase chain reaction can be useful for the diagnosis, with a sensitivity of 75-80% and a specificity of 85-95%, but this technique is often unavailable in south african hospitals. as in the case of our patient, surgical exploration is necessary to confirm or rule out the suspicion of a malignant ovarian tumor. the first route can consist of either a laparotomy or laparoscopy. however, transvaginal or transabdominal ultrasound-guided biopsies can be used in cases with a strong suspicion of tb, thus limiting postoperative complications [19,21]. the histological study of biopsies makes it possible to correct the diagnosis by showing gigantocellular granulomas with caseous necrosis specific for koch’s bacillus. the treatment of ptb is essentially medical, and it is based on the daily administration of a quadritherapy combining isoniazid, rifampicin, ethambutol, and pyrazinamide for two months. then, a four-month maintenance treatment is begun, using daily dual therapy combining isoniazid and rifampicin [5]. steroids may be of benefit in peritonitis, but the evidence is scant and the routine use of steroids cannot be recommended [22]. a surgical procedure is especially indicated in cases with a compressive, obstructive or fistulised mass in order to flatten the caseous cavities [5,23]. overall, ptb prevention is based on a bacillus calmette-guérin vaccination, the detection of asymptomatic and atypical forms, chemoprophylaxis in the case of contact, and improvements in the hygiene of populations at risk [23]. conclusion here we reported a case of postpartum ptb mimicking a malignant tumor. a 27-year-old woman who had a normal vaginal delivery six months previously presented to our department with ascites and an elevated serum ca125 level. ptb was diagnosed via a peritoneal biopsy. after undergoing treatment using the four-drug anti-tb regimen including isoniazid, rifampicin, ethambutol, and pyrazinamide, the patient recovered with the disappearance of ascites and a normal ca125 serum level after six months. these findings may lead to a misdiagnosis of ovarian cancer. this case emphasizes the fact that tuberculosis peritonitis should be considered as a differential diagnosis of ovarian cancer metastasis in patients with elevated serum ca125 values. key points tuberculosis (tb) can spread from the lungs and lymph nodes through the bloodstream to many sites, including the abdomen, particularly the peritoneum the tb symptoms depend on the affected organ, but they may be very atypical and nonspecific ca125, an ovarian cancer biomarker, can be elevated in ptb cases the diagnosis of ptb is based on the identification of m. tuberculosis in the infected fluid or a microscopic examination of the peritoneal tissue and culture a decrease in the ca125 level is correlated with the tb treatment response in patients with peritoneal tuberculosis the ascitic fluid and serum ada activity was significantly higher than for other types of ascites serum crp remains very useful tool in the assessment of response to anti-tubercular therapy in abdominal tuberculosis funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interest the authors declare they have not competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. peto hm, pratt rh, harrington ta, et al. epidemiology of extrapulmonary tuberculosis in the united states, 1993-2006. clin infect dis 2009; 49: 1350-7; https://doi.org/10.1086/605559 2. churchyard gj, mametja ld, mvusi, et al. tuberculosis control in south africa: successes, challenges and recommendations. south africa med j 2014; 104 (3 suppl 1): 244-8; https://doi.org/10.7196/samj.7689 3. padayatchi n, daftary a, naidu n, et al. tuberculosis: treatment failure, or failure to treat? lessons from india and south africa. bmj glob health 2019; 4: e001097; https://doi.org/10.1136/bmjgh-2018-001097 4. oge t, ozalp s, yalcin ot, et al. peritoneal tuberculosis mimicking ovarian cancer. eur j obstet gynecol reprod biol 2012; 162: 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https://www.msdmanuals.com/professional/infectious-diseases/mycobacteria/extrapulmonary-tuberculosis-tb?query=abdominal%20tuberculosis (last accessed june 2019) cmi 2020;14(1)11-13.html the imprecision of “precision medicine” in pancreatic adenocarcinoma stefano cascinu 1 1 department of oncology, vita-salute university, san raffaele; irccs san raffaele hospital, milano, italy cmi 2020; 14(1): 11-13 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v14i1.1463 editorial corresponding author stefano cascinu cascinu@yahoo.com received: 15 march 2020 accepted: 16 march 2020 published: 23 march 2020 pancreatic adenocarcinoma is one of the most lethal cancers. the 5-year survival of only 10%, the presence of metastatic disease in about 60% of patients at diagnosis, as well as the recurrence and death in 80% of even radically resected patients make pancreatic cancer really a challenge for oncologists [1]. across these 20 years, the only advancement in its treatment has been the development of chemotherapeutic regimens such as folfirinox (made up of folinic acid, fluorouracil, irinotecan, and oxaliplatin) or gemcitabine/nab-paclitaxel [2,3]. no biological agents have been demonstrated to be effective in this cancer. genomic studies supported the opinion that pancreatic cancer is homogeneous with mutations in 4 genes: kras, cdkn2a, tp53, and smad-4. unfortunately, none of these genes are druggable or, as it happened with kras, no benefit was observed by targeting them [4]. the progress in understanding the biology of pancreatic adenocarcinoma led to the identification of other molecular alterations deemed to be responsible for cancer initiation or progression. recently, olaparib, a poly (adp-ribose) polymerase—parp inhibitor, has been reported to improve progression-free survival—pfs in metastatic pancreatic cancer patients harboring a brca1/2 mutation without a progressive disease after > 16 weeks of a first-line platinum-based chemotherapy [5]. of 3315 screened patients, 247 (7.5%) had a brca mutation. 158 patients were randomized to receive olaparib (92) or placebo (62), since 38% of patients had a disease progression at the first-line chemotherapy. median pfs was significantly better for the olaparib group: 7.4 months vs. 3.8 months, as well as response rate, 23.1% vs. 11.5%. unfortunately, survival was not improved: 18.9 months vs. 18.1 months. this is the first positive trial of a targeted agent in pancreatic adenocarcinoma. however, the lack of a survival advantage and the results of another randomized trial with veliparib associated to gemcitabine and cisplatin, that failed to show any benefit, question the role of parp inhibitors in pancreatic cancer [6]. once again, pancreatic ductal adenocarcinoma—pdac seems to remain an orphan cancer for targeted therapies. recently, in lancet oncology a retrospective analysis has been published on matched therapies following molecular profiling in pancreatic cancer patients [7]. actionable molecular alterations were identified in 282 out of 1082 (26%) tumor samples. 46 patients received matched therapies, while 143 unmatched therapies. overall survival was better in patients receiving matched therapies (hr 0.42; p = 0.0004). although these findings are really of interest, there are some concerns about their interpretation. in fact, they could be due not only to the molecular selection of the treatment, but also to different patient characteristics, known as prognostic in pancreatic cancer in the two groups. in fact, 94% of patients in the matched group received a cisplatin-based regimen versus only 73% in unmatched group. furthermore, 85% of patients received 2 or more lines of treatment in the matched group versus 58% of patients in unmatched group. these differences may explain at least in part the observed results in the two groups. furthermore, the only clear effective matched therapies are those based on msi (immunotherapy), brca1/2 mutations, and ntkr fusions. why is precision medicine so imprecise in pancreatic cancer? there are some possible explanations. the first one is that pancreatic cancer is not only a kras mutated tumor, as believed for a long time. there are 10-15% of pancreatic tumor with a non-mutated kras. these tumors are really different and probably a targeted therapy may be already an option. in fact, they present msi, brca1/2; palb2 mutations or ntrk fusions. for all these alterations there are molecularly-based treatments. the issues concern the about 90% of pancreatic tumors harboring the classical pancreatic mutations: kras, tp53; cdkn2a and smad-4, for whom, actually, we do not have target agents. a small step forward in the interpretation of kras mutated tumors has been done when transcriptomic and genomic analyses have shown that these tumors present two different subtypes: basal-like and classical [8]. more recently, it has been shown that basal-like exists at two states: basal-like a and basal-like-b and their expression is different in resectable or metastatic tumors, suggesting that basal-like phenotype is acquired and it is a hallmark of progression [9]. this may be relevant because when and where we obtain tumor samples may be not irrelevant for the tumor-profiling assay and the treatment decisions. another critical aspect is that many tumors harbor more than one actionable molecular alterations and some of them are not drivers. the knowledge of this aspect matters for improving the therapy. finally, in pancreatic cancer there are two other critical aspects: the relationship of tumor cells with stroma and the presence of epithelial-mesenchymal transition (emt). the interaction of tumor cells and stroma may be not the same even in the presence of a similar pattern of molecular alterations. it may depend on the features of the host and this gets more difficult the interpretation of tumor profiling. emt may modify continuously the genomic profile of the tumors and make useless or problematic a molecularly-guided treatment [10]. furthermore, this phenomenon may be induced or promoted even by chemotherapy by adding further variables in the interpretation of the molecular profile [11]. in conclusions, the availability of multiplatform tumor profiling may open new room for the treatment of pancreatic cancer. nevertheless, before designing and carrying out new clinical trials based on matched therapies following molecular profiling, our first task should be to improve the knowledge about the biology of this tumor. pancreatic cancer may be compared to proteus, the ancient god of the rivers and the oceans, who was capable of assuming many forms. he could foretell the future, but he changed his shape to avoid doing so. he answered only to those who were capable of capturing him. pancreatic will be captured only if we are able to catch its biology. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests dr. cascinu reports grants from eisai and celgene outside the submitted work. references 1. bray f, ferlay j, soerjomataram j, et al. global cancer statistics 2018: globocan estimates of incidence and mortality worldwide for 36 cancers in 185 countries. ca cancer j clin 2018; 68: 394-424; https://doi.org/10.3322/caac.21492 2. conroy t, desseigne f, ychou m, et al. folfirinox versus gemcitabine for metastatic pancreatic cancer. n engl j med 2011; 364: 1817-25; https://doi.org/10.1056/nejmoa1011923 3. von hoff dd, ervin t, arena fp, et al. increased survival in pancreatic cancer with nab-paclitaxel plus gemcitabine. n engl j med 2013; 369: 1691-703; https://doi.org/10.1056/nejmoa1304369 4. aguirre aj, nowak ja, camarda nd, et al. real time genomic characterization of advanced pancreatic cancer to enable precision medicine. cancer discov 2018; 8: 1096-111; https://doi.org/10.1158/2159-8290.cd-18-0275 5. golan t, hammel p, reni m, et al. maintenance olaparib for germline brca-mutated metastatic pancreatic cancer. n engl j med 2019; 381: 317-27; 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cardioembolism. diagnosis can be challenging because presenting symptoms are often non focal, such as headache, dizziness, and vertigo. the onset of the symptomatology can be abrupt without preceding events, abrupt with prodromal symptoms, or progressive and stuttering. finally, the severity of clinical presentation may range from isolated cranial nerve palsies to tetraplegia, locked-in state, or coma. if basilar artery occlusion is readily recognized and confirmed with the aid of neuroimaging, intravenous thrombolysis or endovascular treatment can be undertaken immediately in order to recanalize the occluded artery and thus reduce mortality and improve outcome. keywords: stroke; basilar artery occlusion; headache disorders; magnetic resonance image; thrombolysis occlusione dell'arteria basilare: gestione clinica e terapia cmi 2018; 12(1): 67-76 https://doi.org/10.7175/cmi.v12i1.1363 clinical management corresponding author marco sparaco division of neurology, department of neurosciences, azienda ospedaliera “san pio”, via pacevecchia 53, 82100 benevento, italy phone: +0039-0824-57492; fax: +0039-0824-57293 e-mail: marcosparaco@alice.it received: 15 june 2018 accepted: 20 september 2018 published: 9 october 2018 introduction the vertebrobasilar arterial system receives only 20% of cerebral blood flow and supplies the posterior portion of the brain including the brainstem, the thalami, the cerebellum, and parts of the occipital and temporal lobes [1,2]. posterior circulation ischemia (pci) is a clinico-pathological condition associated with an infarction within the vertebrobasilar arterial system and is characterized by a complex symptomatology, course, and outcome [1,2]. pci accounts for about 20-25% of all ischemic strokes and has an adjusted incidence of 18 per 100.000 person-years (95% confidence interval—ci: 10/100,000 to 26/100,000) [1,2]. basilar artery occlusion (bao) is a potentially life-threatening subset of pci, carrying > 80% fatality rate without treatment and accounts for about 1% to 4% of all ischemic strokes [3]. bao still represents one of the most challenging conditions to diagnose and manage. despite better imaging techniques, in fact, the diagnosis of this condition is often delayed, especially because in many cases presenting symptoms are non-focal, such as headache, dizziness, and vertigo [1-3]. the aim of this article is to provide clinicians with an easy and reliable tool for promptly recognizing and treating bao. etiology the most frequent causes of bao are local thrombosis and artery-to-artery thromboembolism originating from arteriosclerotic lesions [3]. other important etiologies are cardiac emboli and vertebral artery dissections, affecting respectively 30-35% and 6-8% of patients [3]. atherosclerosis preferentially involves the proximal and middle segments of the basilar artery (ba), while the occlusion of the distal segment is typically indicative of an arterioembolic or cardioembolic event [3-5]. vertebrobasilar dolichoectasia, an anatomic variant consisting of enlargement and dilatation of the vertebral/basilar artery, has been shown also to predispose to bao through a reduction in flow velocity leading to local thrombus formation [1,6]. rare causes include arteritis, meningitis, cervical trauma, coagulopathy, aneurysms, hereditary arteriopathies, as well as complications after endovascular procedures and neurosurgery [3]. finally, we recently described a case of reversible stenosis of the ba due to hemoconcentration, a condition frequently found in psychiatric patients, especially if suffering from a severe depression [7]. clinical features several aspects, described hereafter, contribute to make bao one of the most challenging conditions to diagnose and manage: presenting symptoms are often non-focal most common premonitory symptoms of bao are dizziness and vertigo, followed by headache and neck pain [3,8,9]. dizziness and vertigo are two terms used interchangeably by patients to indicate non-specific symptoms accounting for about 4 million emergency department visits annually in the united states [9]. dizziness is usually described as a feeling of light-headedness or lack of mental clarity [10]. vertigo more specifically describes a sensation of spinning and usually indicates dysfunction of the peripheral vestibular or central vestibule-cerebellar system [6]. vertigo and/or dizziness caused by bao are usually associated to other brainstem or cerebellar symptoms [6]. however, when vertigo is the only symptom and the neurologic examination is normal is not easy to establish the central or peripheral origin of the symptomatology. in these cases the head-impulse-nystagmus-test of skew (hints) can be a useful bedside test to distinguish between vertigo caused by peripheral or central lesions [11]. in patients with pci headache is a common presenting symptom that seems to be caused by irritation of trigeminovascular afferents located in brainstem [12]. in a study by ferbert et al. of 85 patients with bao, headache was reported in 25.8% of cases on admission [8]. the headache occurred during the 2 weeks before the stroke and had a predominantly occipital localization. the onset was both sudden and the main complaint, so that initially it was considered subarachnoid hemorrhage [8]. the onset of symptomatology is quite variable based on the symptoms onset, three major clinical types of bao presentation have been described [3,13]: abrupt without preceding events. this form is characterized by sudden onset of severe motor and bulbar symptoms (i.e. quadriplegia, ophthalmoplegia, and anarthria) combined with reduced consciousness. abrupt with prodromal symptoms. transient prodromal symptoms, such as double vision, dysarthria, vertigo, paresthesiae, etc., precede the monophasic bao symptoms by several days or even months. progressive and stuttering. this form is characterized by gradual or stuttering course of posterior circulation symptoms such as blurred vision, balance disturbance, dysarthria, bilateral paresthesiae, or motor weakness, which finally are associated with a reduced consciousness [3,13]. the clinical picture varies depending on the site and type of the ba obstruction owing to different degrees of the brainstem involvement, the severity of the clinical presentation may range from isolated cranial nerve palsies to tetraplegia, locked-in state, or coma [3]. occlusions of the proximal or middle segments of the ba usually cause large pontine strokes with quadriplegia, reduced consciousness, dysarthria and dysphagia, horizontal gaze paresis, and other cranial nerve palsies [3]. occlusions in the distal segment of the ba result in strokes bilaterally in the mesencephalon and thalamus with decreased consciousness, quadriparesis, and nuclear or supranuclear oculomotor and pupillomotor dysfunctions [3]. the disorder known as “top of the basilar syndrome” is characterized by visual, oculomotor, and behavioral abnormalities (i.e. somnolence, vivid hallucinations, and dreamlike behavior), often without substantial motor dysfunction [14,15]. large pontine strokes resulting from bao are the most frequent cause of locked-in syndrome, a disorder characterized by quadriplegia, bilateral facial plegia, anarthria, and aphagia [3]. the typical involvement of pontine tegmentum is responsible for horizontal gaze paresis. patients, that are awake and alert, can communicate just by blinking and vertical eye movements [3]. differential diagnosis any rapidly progressive clinical condition with multiple cranial nerve dysfunctions (i.e. cranial polyradiculitis, miller-fisher syndrome, botulism, or myasthenic crisis) can potentially be mistaken for a brainstem lesion. toxic or metabolic disturbances, such as drug abuse or hypoglycemia, may initially present with features resembling cerebrovascular disease. central pontine myelinolysis and wernicke’s encephalopathy usually present with brainstem deficits. a history of rapid correction of hyponatremia or of poor nutritional intake will clarify the diagnosis. neuroinflammatory disorders, such as sarcoidosis or behçet’s disease, may acutely affect the brainstem. however, these diseases often have systemic clinical features which are useful for correctly guiding the diagnosis. central nervous system (cns) infection by viruses (i.e. epstein-barr virus or west nile virus), bacteria (i.e., listeria monocytogenes), or fungi may mimic stroke [16]. clinical findings, cerebrospinal fluid examination, and magnetic resonance imaging (mri) features usually help to get a correct diagnosis. acute intracranial hemorrhage affecting brainstem, subarachnoid hemorrhage, and tumor mimicking ischemic stroke can be differentiated from bao only by imaging [16]. extensor jerks and spasms and decerebrate posturing arising with bao are sometimes mistaken for grand mal seizures [17]. finally, in the presence of a headache associated with posterior circulation symptoms, a clinician should also consider the diagnosis of a migraine with brainstem aura. this rare type of primary headache disorder, previously referred to as basilar migraine, is characterized by attacks preceded and/or accompanied by transitory focal neurologic symptoms pointing to dysfunction in the region supplied by the ba and its branches [18]. the diagnosis is based on the finding of at least two migraine attacks accompanied by at least two of the following fully reversible symptoms: dysarthria, vertigo, tinnitus, impaired hearing, double vision, ataxia, and decreased level of consciousness [18,19]. investigation computed tomography (ct), contrast-enhanced ct angiography (cta), mri, magnetic resonance angiography (mra), and doppler sonography can be used in the acute setting to evaluate patients with suspected bao. if a patient is a candidate for thrombolytic therapy, neuroimaging should be performed as soon as possible to reduce the door to needle time. non-contrast ct (ncct) is essential to quickly rule out hemorrhagic stroke and other intracranial space occupying lesions. the pc-alberta stroke program early ct score (pc-aspects) measuring early ischemic changes in 8 different brain regions has been recently proposed as a grading system to evaluate stroke extension and predict outcome in pci [20]. unfortunately, in pci beam hardening due to the skull base, reduces ct sensitivity, and stroke could be identified in the acute phase only in around 20-40% of patients [21]. a dense basilar artery sign is visible in only about two-thirds of patients, but, when present, it is highly specific for bao [3]. contrast-enhanced ct angiography (cta) has great value to detect vascular occlusions and is increasingly used in comprehensive stroke centers to select candidates for endovascular treatment. currently, great attention is given to the prognostic value of collateral blood flow in the hyperacute phase of stroke. recently, two semiquantitative cta-based grading systems have been proposed to quantify the potential collateral flow in patients with acute bao: the posterior circulation collateral score (pc-cs) and the basilar artery on computed tomography angiography (batman) score [22,23]. both of these scores proved to be strong predictors of functional outcome as well as mortality in bao and can help to select patients for endovascular treatment [22,23]. ct whole brain volume perfusion (pct) measures changes in hounsfield unit values per pixel over time after contrast injection, providing information about capillary-level hemodynamics of brain parenchyma. pct allows to measure parameters such as mean transit time (mtt), time to peak (ttp), cerebral blood flow (cbf), and cerebral blood volume (cbv) [24]. a mismatch between a hypoperfused area (reduced cbf and increased mtt and ttp) and the ischemic core (reduced cbv) may entail the presence of the so-called ischemic penumbra—hypoperfused still viable parenchyma. therefore, pct has been used to select patients with strokes with salvageable tissue, eligible for endovascular treatment also outside common time windows [25-27]. using multimodal ct, encompassing ncct, cta and pct, vertebrobasilar strokes were diagnosed in the acute phase in up to 76% of patients. sensitivity for pons/midbrain lesion was around 60% [28,29]. mri is more sensitive than ct in the assessment of pc infarcts, particularly in the brainstem, and can detect early evidence of infarction with diffusion-weighted imaging (dwi) sequences [1,2,30]. mri-dwi is considered the gold standard to evaluate infarct core [31]. mri-perfusion weighted imaging (pwi), likewise pct, can define the hypoperfused brain area during ischemic stroke. mri diffusion-perfusion mismatch may be helpful to select patients for acute recanalization therapies [31]. mra allows, even without contrast injection, to identify the type and location of ba occlusion or stenosis. angiography is still the gold standard for collateral evaluation in bao and is used in the hyperacute phase only for therapeutic purposes [1,3,9]. transcranial echo-color-doppler can show intracranial vascular occlusions [2,30]. however, ultrasound investigation is more operator-dependent and less sensitive in the diagnosis of posterior circulation disease than mra or cta, and can be rarely used as the sole or primary investigation for the assessment of pc strokes [1,30]. acute treatment acute bao treatment aims to restore the cerebral blood flow in the occluded vessel and salvage brain tissue. it has been shown that ba recanalization can substantially enhance a patient’s chances of survival and of good functional recovery [3]. a meta-analysis of 45 studies (n = 2056) on acute bao, in particular, has shown that recanalization of ba results in a two-fold reduction in mortality and 1.5-fold reduction in death or dependency [32]. furthermore, the existence of a relationship between the time from symptom onset to arterial recanalization and clinical outcome has been widely demonstrated. as evidenced in the basics registry, a significantly increased risk of poor outcome seems to occur when recanalization therapy is started > 6 hours after the estimated time of bao [33]. in this regard, it is necessary to clarify the concept of “time to recanalization therapy”, i.e. the interval between estimated time of bao and start of recanalization therapy. since bao is preceded by prodromal symptoms in > 60% of cases [3,34,35], most of these patients are likely to be excluded from any acute therapeutic option if it is considered as an inclusion criterion the time of onset of any symptom to treatment. therefore, as suggested in the basics registry, the estimated time of bao is defined as “time of onset of acute symptoms leading to clinical diagnosis of bao or, if not known, last time the patient was seen normal before onset of these symptoms” [33]. acute treatment options for bao include intravenous fibrinolysis (ivt), intra-arterial thrombolysis (iat), and/or endovascular mechanical treatment [1-3,23]. ivt. it is the first therapeutic strategy introduced for the management of acute ischemic stroke. this treatment was first evaluated in several randomized controlled trials (rcts) with recombinant tissue plasminogen activator (rt-pa), such as ninds, ecass, ecass ii, and atlantis [36-39]. in particular, the ninds study found a benefit of ivt when treatment was started within three hours of the onset of symptoms and demonstrated that patients treated with rt-pa were at least 30% more likely to have a good functional outcome than patients treated with placebo [36]. the safety and efficacy of ivt were then evaluated in three multicenter studies, that are the sits-most, the ecas iii, and the ist-3, with a therapeutic window of 3, 4.5, and 6 hours, respectively [40-42]. however, the vast majority of data from these studies concern patients with anterior circulation infarcts (aci). indeed, data regarding pc strokes in the sits-most and ecass iii studies are lacking and only 8.1% of patients included in the ist-3 trial had pci [42]. in the last years, several trials performed with angiographic assessment have reported a progressive improvement of the recanalization rate and functional outcome in patients with bao treated with iv rtpa. in a finnish single-center consecutive ivt series the rate of recanalization was 65% and 30 of 116 patients (26%) had good outcome (modified rankin scale [mrs] 0-2) by 3 months [43]. a study by strbian et al. on 184 patients with angiography-proven bao treated with ivt showed that recanalization of bao produced good outcomes in 50% of patients without extensive baseline ischemia (pc-aspect ≥ 8) [44]. iat. findings from uncontrolled and controlled studies with iat have shown a high recanalization rate, ranging on average from 63% to 65% [13,45]. the results of an analysis of 420 non-randomized patients with bao treated with iat (82%) or with ivt (18%) showed not significant differences between the two groups of patients in death, dependency, and favorable outcomes, although the recanalization rate was higher in patients treated with iat (65% vs. 53%) [13]. the basilar artery international cooperation study (basics), a prospective, observational study of patients with bao, compared efficacy of antithrombotic treatment, ivt and iat [46]. in patients with mild-to-moderate basilar stroke, a good outcome (mrs 0-2) was achieved in higher proportion in the iv thrombolysis group compared to intra-arterial treatment group (respectively 53% vs. 30%). outcome did not differ significantly when considering patients with severe stroke (mrs ≤ 2 in 20% vs. 11%). recanalization occurred in 72% of patients treated with endovascular procedures compared to 63% of patients treated with iv thrombolysis and was associated with increased independency [46]. endovascular mechanical treatment. in the last years, mechanical thrombectomy (mt) has been performed using many different types of devices. currently, the so-called “stent retrievers” are the most commonly used ones. these new devices can be deployed within the clot, quickly removing the clot and restoring the blood flow once retrieved. compared to previous treatments, mt methods reach higher recanalization rates and have lower risk of hemorrhages and wider time window [45,47]. recently, an observational, multicenter study, including 148 consecutive patients with bao treated with endovascular procedures, the endostroke study, reported a good outcome (mrs 0-2) in up to 34% of treated patients, irrespectively of stroke severity, and complete recanalization in 79% of cases [48]. more recently, gory and colleagues analyzed 22 consecutive patients with basilar stroke treated at their hospital with solitairetm stent-retrievers and performed a systematic review of published data (15 studies involving a total of 312 subjects). the recanalization rate reached 81% (95% ci: 73% to 87%), good outcome was found in 42% (95% ci: 36% to 48%), and symptomatic intracranial hemorrhage was observed in 4% (95% ci: 2% to 8%) of cases [49]. over the past decade, treatment for acute ischemic stroke has evolved to include both ivt and endovascular procedures. phan et al. analyzed six randomized controlled trials involving 1943 patients to assess the functional outcomes and complications of ivt with and without endovascular treatment. in this study, patients who received ivt with endovascular treatment had significantly higher rates of excellent functional outcomes (mrs 0-1) (95% ci: 1.29-2.39; rr: 1.75) in comparison with those who received ivt alone. endovascular treatment increased the rr of a good functional outcome by at least 30% compared to ivt alone [50]. perfect timing for endovascular treatment in bao is not well established. recently, published american guidelines suggest to perform mt in pci only within 6 hours from stroke onset [51]. however, most centers, considering the poor prognosis associated with bao, apply recanalization therapies for this pathology up to 12-24 hours after symptom onset [52]. an analysis of 19 published cohorts of patients with bao showed that higher recanalization rates, such as those obtained with endovascular mechanical treatments, decrease mortality but do not necessarily translate into better outcomes [3,53]. therefore, even if it is widely agreed that significant survival after bao requires rapid access to revascularization, straightforward evidence about efficacy of endovascular therapy (i.e. iat or mt) over systemic fibrinolysis in basilar stroke is still missing [53]. in-hospital management and secondary prevention patients with bao should be carefully monitored with mri to evaluate burden lesion and cerebellar edema. the latter generally peaks 3 to 5 days after infarction and may cause compression of the fourth ventricle and/or herniation [9]. after initial stabilization, patients should undergo an extensive systematic etiological work-up including the following assessments: laboratory testing: complete blood count, fasting lipids, c-reactive protein, erythrocyte sedimentation rate, coagulation panel, antiphospholipid and/or anticardiolipin antibodies, lupus anticoagulant, and glycated hemoglobin a1c; genetic analysis focusing on inherited prothrombotic states: factor v leiden/g1691a, prothrombin/g20210a, etc.; mra (or cta) and ultrasound investigation of the head and neck: to evaluate for atherosclerotic disease, dissection, vertebrobasilar dolichoectasia, luminal narrowing, or occlusion; echocardiogram: to evaluate for potential cardiac sources of emboli such as a valvular vegetation, ventricular thrombus, etc. patients should be placed on continuous cardiac monitoring to detect cardiac arrhythmias (i.e. atrial fibrillation, etc.) and to check the blood pressure. patients with bao may be particularly sensitive to changes in blood pressure [9]. however, so far the balance of risk and benefit in lowering blood pressure in these cases is not yet clear. in a study that analyzed the association between blood pressure and stroke in patients undergoing endarterectomy for symptomatic carotid stenosis it was found higher risk of stroke at lower blood pressure, especially if systolic blood pressure < 140 mmhg [54]. there are no similar studies in patients with bao, but the same possibility of hemodynamic insufficiency at lower blood pressures exists. therefore, caution is advised in lowering the pressure aggressively in these patients, particularly if they have limited or absent posterior communicating arteries as well as other collateral flow abnormalities [1]. the choice of the appropriate medical therapy for secondary prevention of bao should be based on the causative stroke mechanism (i.e. cardioembolic, atherosclerotic, etc.) as well as on the risk stratification for recurrence [1-3,30]. therefore, possible medical treatments include antiplatelet agents or anticoagulants, as well as lipid-lowering drugs. recommended treatment is detailed in recent guidelines [51,55]. in patients with indications for anticoagulation (i.e. atrial fibrillation), treatment should be started generally within two weeks after an acute ischemic stroke, to avoid the risk of hemorrhagic transformation of the infarct. key points bao is a potentially life-threatening neurologic emergency that requires high suspicion index patients presenting with sudden onset of headache or vertigo need an accurate neurological and neuroradiological evaluation multimodal ct (if available) or mri must be promptly used in the acute setting to confirm the diagnosis of bao as soon as bao is confirmed with neuroimaging, intravenous thrombolysis or endovascular treatment can be undertaken shortening the time from the symptoms onset to start of the treatment can give patients better chance to survive and avoid severe complications identification causes of bao is essential for choosing the most appropriate secondary medical therapy screening of uncommon causes of bao is mandatory mri is a gold standard for follow up of bao proposed algorithm for acute bao management bao = basilar artery occlusion; ct = computed tomography; cta = computed tomography angiography; mra = magnetic resonance angiography; mri = magnetic resonance imaging *“time of onset of acute symptoms leading to clinical diagnosis of bao or, if not known, last time the patient was seen normal before onset of these symptoms” [33]. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the author declares he has no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. markus hs, van der worp hb, rothwell pm. posterior circulation ischaemic stroke and transient ischaemic attack: diagnosis, investigation, and secondary prevention. lancet neurol 2013; 12: 989-98; https://doi.org/10.1016/s1474-4422(13)70211-4 2. nouh a, remke j, ruland s. ischemic posterior circulation stroke: a review of anatomy, 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[ist-3]): a randomised controlled trial. lancet 2012; 379: 2352-63; https://doi.org/10.1016/s0140-6736(12)60768-5 43. sairanen t, strbian d, soinne l, et al, for the helsinki stroke thrombolysis registry (hstr) group. intravenous thrombolysis of basilar artery occlusion: predictors of recanalization and outcome. stroke 2011; 42: 2175-9; https://doi.org/10.1161/strokeaha.110.605584 44. strbian d, sairanen t, silvennoinen h, et al. thrombolysis of basilar artery occlusion: impact of baseline ischemia and time. ann neurol 2013; 73: 688-94; https://doi.org/10.1002/ana.23904 45. rha j-h, saver jl. the impact of recanalization on ischemic stroke outcome: a meta-analysis. stroke 2007; 38: 967-73; https://doi.org/10.1161/01.str.0000258112.14918.24 46. schonewille wj, wijman cac, michel p, et al. on behalf of the basics study group. treatment and outcomes of acute basilar artery occlusion in the basilar artery international cooperation study (basics): a prospective registry study. lancet neurol 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for management of ischaemic stroke and transient ischaemic attack 2008. cerebrovasc dis 2008; 25: 457-507; https://doi.org/10.1159/000131083 cmi 2016;10(2)33-48.html use of natural and homeopathic remedies in children ailments stephen buskin 1, maría pilar riveros huckstadt 2, silvia salatino 3 1 international health centre, the hague, netherlands 2 centro de salud la cala,servicio andaluz de salud, mijas costa, spain 3 deutsche homöopathie-union, dhu-arzneimittel gmbh & co. kg, karlsruhe-germany abstract in recent decades the use of cam (complementary and alternative medicine) has increased significantly, not only among adults but also in the pediatric population. perceived efficacy of homeopathic or natural treatments, fear of drug adverse effects, dissatisfaction with conventional medicine, and the need for more personal attention are the main reasons given by parents who treat their children with homeopathy. in the present paper the use of natural and homeopathic remedies for the treatment of children ailments are considered. in particular we focus on minor disorders of early childhood with a major impact on the well-being of the whole family, namely infant colic, teething, upper respiratory tract infections (urtis) and tonsillopharyngitis. the results of recent studies on homeopathic products for the treatment of these disorders are presented and discussed. keywords: homeopathy; children; infant colic; teething; upper respiratory tract infections (urtis); tonsillopharyngitis cmi 2016; 10(2): 33-48 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v10i2.1252 clinical management corresponding author silvia salatino silvia.salatino@dhu.de disclosure stephen buskin and maría pilar riveros huckstadt are members of the dhu advisory board. silvia salatino is an employee of dhu. the writing of this article was supported by dhu introduction the national institutes of health (nih) has defined complementary and alternative medicine (cam) as “a group of diverse medical and health care systems, practices, and products that are not presently considered to be part of conventional medicine” [1,2]. the national center for complementary and alternative medicine (nccam) classifies cam therapies into five categories: alternative medical systems (homeopathic and naturopathic, chinese, and ayurvedic medicine), mind-body interventions, biologically based therapies (herbs, foods, etc.), manipulative and body-based methods, energy therapies [1,2]. in recent decades the use of cam has increased significantly, not only among adults but also in the pediatric population. zuzak et al. recently conducted a pan-european review about cam in pediatrics, realized by combining data published in international journals, data from local or national surveys in original language conveyed by local experts, and expert perspectives about cam availability, quality, use and popularity in their countries. according to this study, conducted in 20 european countries, 56% of the european population in general has used cam at least once during the year preceding the survey. for the pediatric population the rate was similar (52%), confirming the growing interest in cam reported by pediatricians and institutions. homeopathy and herbal medicine was identified as the most popular cam therapies in europe [3]. in the united states the percentage of healthy children seen in outpatient pediatric clinics that uses cam is between 20-40% and rises to values above 50% in the case of children with chronic diseases, almost always in conjunction with mainstream care [4]. an interesting analysis on the extent of homeopathic prescriptions in children was conducted by ekins-daukes and colleagues in scotland. majority of these prescriptions were made for children under 1 year of age (8.0/1000 registered children) and the most common conditions for which homeopathic medicines were prescribed were colic (85%), cuts and bruises (52%), teething (49%), dermatological conditions (32%), earache (21%), influenza and upper respiratory tract infections (16%), cough (16%), vomiting (16%), irritability (15%) and diarrhea (12%) [5]. recently an international survey was performed in order to provide insights into physician’ attitude towards the use of homeopathy and natural remedies in pediatric practice. 582 general pediatricians and general practitioners treating pediatric conditions in 6 countries (germany, spain, russia, bulgaria, colombia, israel) were involved. herbal medicine and homeopathic products amounted to 17% and 15% of total prescriptions in pediatrics, respectively. upper respiratory tract infections (urtis), infant colic, sleep disturbances and recurrent infections were the main causes for which natural remedies and homeopathic products were used. in the majority of cases they are used as complementary treatment together with conventional drugs. the study confirms high interest of physicians in natural remedies and homeopathy, however their knowledge level is heterogeneous. the concern about side effects and the use for themselves are the main factor that drives parents to the use of homeopathy and natural remedies [6]. perceived efficacy of homeopathic or natural treatments, fear of drug adverse effects, dissatisfaction with conventional medicine, and the need for more personal attention are the main reasons given by parents who treat their children with homeopathy [4]. recognizing the increasing use of cam in children, many institutions, like the american academy of pediatrics (aap), have decided to provide information and support for health professionals. in the 2001 aap periodic survey of fellows, 73% of pediatricians agreed that it is the role of pediatricians to provide patients/families with information about all potential treatment options for the patient’s condition, and 54% agreed that pediatricians should consider the use of all potential therapies, not just those of mainstream medicine, when treating patients [7]. efforts to include education and training for cam therapies in medical school programs have also become popular in some european countries [8,9]. despite the long tradition of homeopathy, and its spread around the world, the debate on this issue is always very heated. in recent years a number of studies have been published on the effectiveness of homeopathy in children. for example, several studies conducted in different countries on the management of acute respiratory infections and acute otitis media showed a significant rapid improvement upon homeopathic medications compared to conventional treatment and less use of antibiotics [10-12]. some researchers have highlighted an interesting peculiarity: publication bias in cam research is «opposite that of conventional medicine; that is, negative studies are more likely to be published in well-known journals, and positive studies are more likely to be published in non-english language and often complimentary medicine journals» [13].the most controversial aspect of homeopathy is the ultra-dilutions and the lack of solid data on the mechanism of action. theories on the possible explanation of mechanism of action of homeopathy within the context of nanomedicine have been recently published, although still hotly debated [14]. a recent publication by rutten et al. explores the current evidence for homeopathy reporting three meta-analyses by kleijnen, linde and cucherat published from 1991-2000 that reached positive conclusions and a review by shang in 2005 that reached negative conclusions [15-19]. in the present paper the use of natural and homeopathic remedies for the treatment of children ailments are considered. in particular we focus on minor disorders of early childhood with a major impact on the well-being of the whole family namely infant colic, teething, upper respiratory tract infections (urtis) and tonsillopharyngitis. the results of recent studies on homeopathic products for the treatment of these disorders are presented and discussed [20-24]. infant colic definition a common definition of infantile colic comes from morris a. wessel and colleagues, the so-called “rule of 3”: a condition of a healthy, well-fed baby in which it shows periods of intense, unexplained crying lasting more than at least 3 hours a day, on at least 3 days (per week), of at least 3 weeks [25]. the prevalence of infantile colic given in the scientific literature widely varies and ranges from 5-40%, depending on the study methodology, the population and the definition of infantile colic used [26]. although benign and self-limiting, it is associated with higher levels of maternal stress and anxiety: the impact of prolonged and inconsolable crying in children with infantile colic causing sleepless nights, stress, frustration and exhaustion, especially in first-time parents [27-29]. despite being a very common disorder, the causes are not yet completely clarified. etiopathology of this condition includes both gastrointestinal and non-gastrointestinal factors, such as hypersensitivity to baby formula, alteration in gut microflora, excessive gas in the intestine, intestinal hypo/ hypermotility, immature digestive system, over-stimulation and (hyper-)sensitivity to the environment, reflection of problems in parent-infant interaction, maternal smoking. treatment the above possible causes of infantile colic have led to a variety of available treatments, ranging from pharmaceutical therapies, dietary interventions, behavioral strategies, and physical remedies. at first, the most commonly recommended approach is to discuss the usually natural and self-limiting character of infantile colic with parents and to offer some methods to parents for calming the baby. pharmaceutical therapies includes simethicone, dicyclomine hydrochloride and cimetropium bromide, but results from literature on simethicone and dicyclomine for infantile colic do not suggest these to be fully effective or appropriate treatment options [30-33]. a trial by savino et al. found cimetropium bromide more effective than placebo in reducing the duration of crying in children with infantile colic but there were reported side effects in terms of increased sleepiness [34,35]. safety is a critical issues in infants, and a major concern for parents: in literature there have been reports of infants who experienced serious adverse events, such as serious respiratory symptoms seizures, syncope, pulse rate fluctuations and muscular hypotonia after taking dicyclomine hydrochloride syrup; no causal relationship has been established but dicyclomine hydrochloride is now contraindicated in infants < 6 months and in nursing mothers [35,36]. recent research is now targeting the promising role of lactobacillus reuteri in the treatment of infantile colic [37,38]. nutritional interventions are closely related to the type of feeding received by the child. in case of breast-fed infants, a monitored low allergen maternal diet avoiding cow’s milk and dairy food with appropriate intake of vitamins and minerals may be suggested, while the first-line for bottle-fed infants is represented by formulas based on partially hydrolyzed whey proteins with prebiotic oligosaccharides [39]. a considerable number of behavioral strategies and physical remedies resulting from tradition and practical experience are suggested, such as offering an atmosphere of security to the baby, decreasing stimulation, offering “white noise”, massaging or rocking the baby. despite the lack of evidence published in the literature, this type of remedies may be useful for some children [39]. in the absence of standard of care for treatment of infant colic, cam has assumed an increasingly important role in the management of infantile colic. in particular, it is recognized the use of herbal supplements (i.e. containing chamomile, fennel, vervain, licorice, balm-mint) [40,41] and homeopathic products [42]. colikind® (use and dosage) active ingredient therapeutic action / characteristics chamomilla d6 infant colic with flatulence (infant gaseous colic) hypersensitivity to pain restlessness together with dissatisfaction cina d6 spasms of the gastrointestinal tract aversion to breast-milk (ingestion causes colic and diarrhoea; the baby frequently spits up sour milk) marked irritability, physical and mental colocynthis d6 colic / colicky pain better by pressure and heat (warm applications) griping pain around the navel lac defloratum d6 digestive disorders due to intolerance of milk general aggravation of symptoms from drinking milk magnesium chloratum d6 constipation with dry, pellet-like stool problems to digest milk (especially during difficult dentition) table i. colikind® active ingredients and therapeutic action colikind® (deutsche homöopathie union, dhu, karlsruhe, germany) is natural combined medication that is indicated for the treatment of infantile colic and flatulence. it is composed of a combination of 5 single remedies: chamomilla d6, cina d6, colocynthis d6, lac defloratum d6 and magnesium chloratum d6 [43]. in table i colikind® active ingredients and therapeutic action are reported. colikind® is available in drops. the medication can be used on its own or in combination with prescribed medication. colikind® drops should be kept within the mouth before swallowing. in babies and small children, the drops can also be diluted in a little bit of water and administered with a plastic spoon. an interval of approximately 30 minutes should be kept between the intake of colikind® and eating or drinking [43]. in case of acute condition, colikind® can be administered at a dose of 3 drops up to a max. of 6 times a day; after improvement, treatment can be continued with 3 drops 3 times a day [43]. from literature in 2010 an open, prospective, multicenter, comparative study on colikind® was published by ilyenko and colleagues [20]. aim of the study was the evaluation of the effectiveness, safety and tolerability of colikind® compared to simethicone in children with infantile colic and/or meteorism. the study population was 200 pediatric patients aged 2 months to 6 years of both sexes. table ii summarized the treatment options. colikind® group (n=100) simethicone group (n=100) children 0-6 years acute symptoms: 3 drops / hour (max. 6 times a day) afterwards: 3 drops 3 times a day 1 measuring spoon of the emulsion taken 3-5 times a day during meals (from a baby bottle or mixed with food and drink) table ii. treatment options [20] comparative evaluation of the efficacies of the study agents was performed in terms of changes in the severity of subjective complaints and objective symptoms at 3, 7, and 10 day after the start of treatment. in table iii subjective complaints and objective symptoms are reported. clinical symptoms were assessed by the physician at each visit, while overall outcome of treatment, treatment satisfaction, safety and tolerability of study medication were assessed both by physicians and parents. on day 10, both treatment groups showed a significant improvement of their subjective and objective symptoms, whereas colikind® showed to be significantly more effective (p < 0.0001). consequently, the decrease in total sum score (subjective complaints + objective symptoms) was more pronounced in the group of children treated with colikind® (figure 1). subjective complaints unexplained restlessness sleep and appetite disturbances increased crying while feeding regurgitation vomiting stool softening constipation and flatulence objective symptoms abdominal bloating intestinal rumbling tenderness and intestinal spasm on palpation changes in stool dryness of the skin and mucosa skin pallor coating and geographism of the tongue table iii. subjective complaints and objective symptoms assessed in the study [20] figure 1. decrease in total sum score (subjective + objective symptoms). adapted from [20] after 10 days of treatment, 96 % of patients treated with colikind® showed a “remission” or a “significant improvement” of symptoms according to the physicians’ assessment (figure 2). figure 2. overall outcome of treatment on day 10, assessed by physicians. adapted from [20] parents’ assessment of overall outcome after 10 days of treatment with colikind® was even better. in total, 98 % benefitted from the treatment with colikind® there of 75 % of patients showed a “remission” of symptoms (figure 3). figure 3. overall outcome of treatment on day 10, assessed by parents. adapted from [20] significantly more parents were “very satisfied / satisfied” with treatment in the colikind® group compared to the simethicone group (p < 0.001). in addition, none of the parents in the colikind® group was “dissatisfied” with treatment, whereas this applied to 22 % of parents in the simethicone group. tolerability of colikind® was rated “very good” or “good” in all patients, whereas in the simethicone group, there were 6 % of parents and 7 % of physicians who rated tolerability only as “satisfied”. in the study group treated with colikind® 1 adverse event (ae) but no drug-related ae (i.e. adverse drug reaction (adr)) was reported. in the control group 5 children (5/100, 5 %) treated with simethicone were observed to suffer from an ae, whereas 1 event was assessed as being related to the intake of simethicone (adr). according to the results of this study, both medications (colikind® and simethicone) were effective and safe and can thus be recommended. however the authors highlighted that in the colikind® group more benefits were reported, such as quicker remission, faster decrease in the degree of the severity of subjective complaints and objective symptoms, the greater parents’ satisfaction, the tolerability and the excellent safety profile of colikind®, emphasized by the lack of adverse drug reaction. teething definition teething is known as a natural process by which the first teeth appear in children. a variety of symptoms has been shown to accompany teething, including fever, pain, irritability, sleep problems, mouthing/biting, drooling, decreased oral intake, gum inflammation, runny nose, and diarrhea [44]. the onset of the primary incisors is usually around 6-12 months: in the same period the circulating maternal humoral immunity decreases, and the child’s own humoral immunity develops [45]. the simultaneous presence of these events often makes this period difficult and distressing for both the child and their respective parents and accompanied by a number of relatively minor symptoms [45]. teething symptoms in children can create much distress in parents [21]. treatment there are many remedies used by parents to relieve the symptoms of teething, often derived from tradition or experience of friends and family. pharmacological therapies include topical local anesthetics (i.e. lidocaine based preparations and topical benzocaine gel), topical choline salicylate-based products, and systemic analgesics. however, a standard of care is not established in the treatment of teething disturbances, use of some medications might be associated with unwanted side effects and for some topical teething gels cases of potential life-threatening risks have been reported [21,46]. in 2011 the us food and drug administration (fda) has released a document to recommend not to used benzocaine products on children < 2 years without medical advice [47]. non pharmacological remedies include teething rings, pacifier, hard food like bread, frozen fruits and vegetables. the relief derived from the low temperature of the objects, that cause local vasoconstriction, and by the pressure exerted on the gums through the biting on hard objects [21,45]. these remedies are widely used and have few contraindications. it is crucial, however, to be very careful to avoid the chocking risk. it is also recommended to use only sugar-free objects and not to add medicine to food or feeding bottles, as their dosage cannot be checked. dentokind® (use and dosage) dentokind® (deutsche homöopathie-union, dhu, karlsruhe, germany) is a complex homeopathic product containing five individual homeopathic substances: belladonna d6, chamomilla d6, ferrum phosphoricum d6, hepar sulfuris d12 and pulsatilla d6 [48]. it is indicated for the treatment of teething symptoms such as irritability, restlessness, earache, painful gums, mild fever and softened stools in babies and children. it is available as tablets allowed to dissolve slowly in the mouth. for usage in small children, tablets can be dissolved in a little bit of water. for children < 1 year the suggested dosage is 1 tablet every hour, up to a maximum of 6 tablets a day, in acute condition; the treatment can be extended after improvement at a dosage of 1 tablet, 3 times a day. for children 1-6 years the suggested dosage is 2 tablets every hour, up to a maximum of 12 tablets a day, in acute condition; the treatment can be extended after improvement at a dosage of 2 tablet, 3 times a day. an interval of at least half an hour to meals should be kept [48]. from literature subjective complaints unmotivated anxiety gingival tenderness and appetite disorder otalgy stool softening sleep-onset insomnia and frequent awakenings clinical signs skin pallor gingiva hyperemia gingiva swelling hematoma and hyperemia around the mouth drooling and hyperthermia table iv. subjective complaints (tssc) and clinical signs (tscs) assessed in the study [21] in 2015 a prospective, multicenter, randomized, open-label, comparative, controlled clinical trial on the clinical use of dentokind® was published by jong and colleagues [21]. the study, required for dentokind® marketing authorization in russian federation, compared dentokind® to another homeopathic product already authorized in the federation. the study population consisted of 200 pediatric patients up to 6 years of age. dentokind® was administered orally for seven days. children aged up to one year received dentokind® tablets with a dosage regime of one tablet every hour up to six tablets per day (acute symptoms). after symptoms reduced one tablet three times a day was administered. children aged 1-6 years received two tablets every hour up to a maximum of twelve tablets per day (acute symptoms). after symptoms reduction the dosage was two tablets three times per day. the other homeopathic medication was administered rectally for a period of seven days. for children aged up to six months the maximum daily dose was two suppositories a day. children older than six months of age received a maximum of four suppositories (at a body temperature of ≥ 37.5°c) a day. when body temperature normalized one suppository was used for further 3-4 days 1-2 times per day (with preventive purpose). primary endpoints were changes in total severity scores of subjective complaints (tssc) and changes in total severity scores of clinical signs (tscs) after treatment with study medication for 3-5-7 days. in table iv subjective complaints and clinical signs are reported. in the dentokind group the assessment of tscc recorded a reduction from 7.0 (baseline median value) to 3.0 (day 3-5) and 1.0 at day 7, while in the control group tssc values decreased from 5.0 (baseline median value) to 3.0 (day 3-5) and 1.0 at day 7. the study showed a reduction also in the tscs values, which decreased from 6.0 (baseline median value) to 3.0 (day 3-5) and 1.0 (day 7) in the dentokind group, and from 5.0 (baseline median value) to 4.0 (day 3-5) and 1.0 (day 7) in the control group. figure 4. overall outcome on day 7, assessed by physicians. adapted from [21] improvement of individual complaints and individual signs after 7 days of treatment was observed in both treatment groups-except for the complaint sleep-onset insomnia. compared to the other homeopathic medication improvement of the individual complaints gingival tenderness and appetite disorder and of the signs gingival hyperemia and gingival swelling was observed in significantly more children of the dentokind® group (armitage trend test: p<0.05; fas). after 7 days of treatment children treated with dentokind® had a 5-times higher odds of showing improvement in total severity score of subjective complaints than children treated with the other homeopathic medication and a 2.5-times higher odds of showing improvement in the total severity score of objective clinical signs. after 7 days of treatment with dentokind® almost all parents and investigators (n=99 out of 100 each) of the dentokind® group rated “no complaints” or “major improvements” (figure 4). almost all parents (n=99 out of 100) of the dentokind® group were very satisfied or satisfied with the treatment. in comparison with the other product, the treatment satisfaction in dentokind® group was significantly better (armitage trend test: p<0.0001; fas) (figure 5). figure 5. treatment satisfaction on day 7, assessed by parents. adapted from [21] during the treatment period 1.5% children experienced aes. the aes occurred in 3 children of the control group. in dentokind® group no aes occurred. almost all parents and investigators rated the tolerability of dentokind® as “very good” or “good”. compared to the control group the outcome in the dentokind® group was significantly better (armitage trend test: p<0.0001; fas). the study demonstrated that dentokind® reduced total severity scores of subjective complaints, including individual symptoms such as unmotivated anxiety, gingival tenderness, appetite disorders and otalgy in teething children after 7 days of treatment. total severity scores of clinical signs also lowered after 7 days of treatment in both groups. dentokind®seems therefore a “pragmatic treatment alternative” to conventional otc teething gels for symptoms relief of painful teething in children [21]. upper respiratory tract infections (urtis) definition upper respiratory tract infections (urtis) or common colds represent the most frequently occurring illness in the world. although they are usually self-limiting conditions, they are a leading cause of missed days from work and school, with a relevant economic burden [49]. sore throat, runny nose, general malaise, fever, nasal congestion and cough are most common symptoms [22]. the specific immune status of children in the first years of life makes them especially vulnerable to viral infections [50]. in literature about 4-8 episodes of viral infection per year per child are recorded [50]. the majority of urtis are caused by viral pathogens, most commonly rhinoviruses, but also influenza viruses [22]. urtis are even the most frequent cause of antibiotic prescriptions in pediatric outpatient care. this represents a serious health problem globally since inappropriate use of antibiotics has a strong impact the increase of bacterial respiratory pathogens [51,52]. treatment since there is no approved specific therapy for urtis, treatment is mainly symptomatic. the most common pharmacological treatments are antipyretics, anti-inflammatory drugs, expectorants, decongestants, and cough suppressants [21]. a number of other remedies are available, such as vitamins, herbal supplements and homeopathic medicine. data relating to the germany showed that about 7% of all pediatric prescriptions for the respiratory tract system are not officially licensed for use in children [53]. as mentioned above, a key issue concerns the prescription of antibiotics, that are widely prescribed, but often inappropriate; overuse can lead to the development of community-acquired resistant pathogens which are an increasing and serious health burden [50]. the results of a nationwide us survey published in 2004 showed 38% of more than 6.5 million visits (primary practice, outpatient, and emergency department) by children and adults with a diagnosis of influenza were associated with antibiotic prescriptions. studies limited to children demonstrated even higher rates of antibiotic treatment in children diagnosed with viral infections [54]. there are many factors that contribute to an inappropriate antibiotic prescription, including diagnostic uncertainty, lack of knowledge, socio-cultural and economic pressures, meeting parental expectations [51]. natural remedies, and homeopathy in particular, can be used in the management of urtis. an integrative approach to these infections may help reduce excessive antibiotic prescription [55]. influcid® (use and dosage) influcid® (deutsche homöopathie-union, dhu, karlsruhe, germany) is a homeopathic preparation containing a fixed combination of 6 homeopathic singles substances: aconitum d3, bryonia d2, eupatorium perfoliatum d1, gelsemium d3, ipecacuanha d3 and phosphorus d5 [56]. launched in germany in 1928, now it is marketed in 22 countries worldwide [22]. in acute conditions, and in children below 12 years, the suggested dose is 1 tablet every 2 hours, up to a maximum of 8 tablets per day, until improvement occurs; for subsequent treatment the dose is 1 tablet 3 times per day. the same dosage (1 tablet 3 times per day) is suggested for prevention of infections. tablets should be dissolved slowly in the mouth: for small children, they can be dissolved in a little bit of water. an interval of at least half an hour to meals should be kept [56]. efficacy and safety of influcid® (ifc) in the treatment of flu-like infections and urtis were demonstrated in several studies: in the multicenter open study conducted by heger on a total of 600 patients (333 adults and 267 children) with urtis, about 90% of patients reported an improvement after 3 days [57]. from literature in 2015 a randomized, standard-treatment controlled, parallel group, open, multicenter and multinational clinical trial was published by thinesse-mallwitz and colleagues [22]. aim of the study was to evaluate the effectiveness and safety of ifc as an add-on to symptomatic standard treatments of urtis. a total of 523 patients presenting with clinical signs and symptoms of an urti with a duration up to 24 h, accompanied by fever were randomized. the standard treatment (st) group received paracetamol, ambroxol and/or oxymetazoline; the ifc group received the same symptomatic treatment plus ifc for 7 days. patients evaluation was performed by investigators at baseline (day 1), and on day 4, 8, 15. during the first 72 hours, patients ≥ 12 years took 12 tablets a day (1 tablet every hour) while patients < 12 years took 8 tablets per day (1 tablet every 2 hours); during the following 96 hours the ifc dosage was 2 tablets 3 times a day for patients ≥ 12 years and 1 tablet 3 times a day for children. the primary outcome was “treatment response” defined as a combination of mean axillary body temperature ≤ 37.2° c and absence or very mild degree of symptoms. patients in the ifc group showed an attenuated and shortened course of illness: at day 4 a percentage of 76.8% in the ifc group was free of fever vs 56.7% in the st group and 17.0% had absence or very mild symptoms vs 7.5% of st group. considering the entire study period of 14 days, data highlighted a more prompt occurrence of “treatment response” in the ifc group (figure 6). figure 6. between-group differences in the percentage of treatment responders (ifc minus st) by study day (including 95% cis) adapted from [22] as a consequence to the significantly better response to treatment, patients in the ifc group showed a shorter time to symptom alleviation (1-2 days), a faster resumption of normal activities (ifc 48% vs st 28%) (figure 7) and a significantly lower median disease severity. simultaneously, significantly less standard symptomatic medication was needed in the ifc group (figure 8). safety results confirmed the good tolerability of ifc. figure 7. ability to perform normal daily activities. adapted from [22] figure 8. cumulated intake of standard symptomatic medication. adapted from [22] according to authors’ conclusions, ifc as an add-on therapy improved response, shortened the duration of urtis, and lowered symptoms severity. the results suggest that ifc enhanced the self-recovery of the patients, and partly replaced the need for conventional symptomatic treatment. tonsillitis and pharyngitis definition tonsillopharyngitis is an infection of the palatine tonsils and pharynx that can be either acute or recurrent. acute pharyngitis is caused by group a beta-hemolytic streptococcus (gabhs) in the 15-30% of cases in children, and in 5 to 20 percent in adults [58]; the remaining cases are considered viral [59]. tonsillopharyngitis is a common reason for pediatric health care visits: in the usa, approximately 10% of children seen by medical care providers each year have pharyngitis, and 25-50% of these children have gabhs pharyngitis [60]. among school-aged children, the incidences of acute sore throat, swab-positive gabhs, and serologically confirmed gabhs infection are 33, 13, and 8 per 100 children/years, respectively [58]. the signs and symptoms of acute tonsillitis can be similar to other infectious causes (e.g. painful swallowing, sore throat, cervical lymphadenopathy), while recurrent tonsillitis is characterized by more specific symptoms (e.g. enlarged tonsils, caseous detritus or liquid pus in the cryps, ridged thickening and chronic hyperemia of the edges of the palatine arches). diagnosis is based on clinical findings. to positively identify whether the etiology is bacterial or viral, a rapid strept test (rst) or a throat swab culture can be performed. if tonsillopharyngitis is not properly treated, serious complications, as rheumatic fever and related cardiovascular disorders or post-streptococcal glomerulonephritis, can occur. treatment the goals of treatment are to: attenuate the severity of symptoms, shorten the course of disease, reduce the number of disease-related absences in school or at work, help prevent serious complications, and improve the quality of life [61]. the treatment of tonsillitis, both in acute and in recurrent form, is based on pharmacological measures, as symptomatic medications, antipyretics and analgesics, and on other measures, as gargling, throat compresses, and ultrasound. only gabhs infections diagnosed by rst or culture should be treated with antibiotics [62]. according to a recent us study [63], antibiotics were prescribed during 60% of pharyngitis visits for children, while bacteria are responsible for pharyngitis only in 37% of cases: the inappropriate antibiotic treatment, suggested by this study, is becoming a major issue, in relation to development of resistances and hypersensitivity. to date, the management of bacterial pharyngitis remains controversial, and there is a lack of uniformity between different guidelines [64]. tonsillectomy is indicated for repeated gabhs tonsillitis and severe acute tonsillitis persistent despite antibiotics. according to a recent cochrane review, the results of surgery are controversial: the effects are modest, and they should be balanced with the risks related to the surgical procedure [65]. as for the other urtis, natural remedies and homeopathy are used for tonsillitis and pharyngitis: according to data from a recent international survey, conducted on 138 pediatricians, general practitioners and ear-nose-throat specialists in 7 countries, homeopathic remedies were prescribed as a supportive therapy by 62% of participants in case of acute tonsillopharyngitis, and by 59% of participants in case of recurrent tonsillopharyngitis [55]. tonsilotren® (use and dosage) tonsilotren® (deutsche homöopathie union, dhu, karlsruhe, germany) is a homeopathic complex composed of a combination of 5 single remedies: atropinum sulfuricum d5, hepar sulfuris d3, kalium bichromicum d4, mercurius bijodatus d8, and silicea d2 [66]. in acute tonsillitis, the suggested dosage for children < 1 year is 1 tablet (250 mg) 3 times a day; for children 1-11 years, the initial dose is 1 tablet every 2 hours (maximum 8 times a day) and the subsequent dose is 1 tablet 3 times a day. in recurrent tonsillitis, the dosage for children < 12 years is 1 tablet 3 times a day: the treatment should continue for 6-8 weeks in 3-4 treatment cycles per year. tonsilotren® can be used on its own or in combination with prescribed medication. an interval of approximately 30 minutes should be kept between the intake of tonsilotren® and eating or drinking [66]. from literature tonsilotren® has been studied in a series of clinical studies, since the early nineties [23,24,67-73]. here we present the main results of the two most recent studies in the pediatric setting, one in patients with acute tonsillitis [23] and one in patients with recurrent tonsillitis [24]. friese et al. [23] performed a multicenter, randomized, placebo-controlled, double-blind study on 158 patients aged 6-10 years affected by acute tonsillitis and without indication for an antibiotic treatment. the study group received tonsilotren® at dosage of 1 tablet for hour (max. 12 times a day) until onset of improvement, afterwards the dosage was 1 tablet 3 times a day; the control group received placebo. the primary outcome criterion was the decrease of total sum score of tonsillitis typical symptoms from baseline to day 4; the 5 tonsillitis typical symptoms included difficulties swallowing, pain in throat, salivation, reddening and fever, rated on a 4-point-scale. secondary outcome criteria were: the remission of tonsillitis typical single symptoms assessed on day 4, the time until onset of treatment effect, the outcome of treatment , and the safety and tolerability of tonsilotren®. the overall observational period was 6 days. the decrease of total sum score of tonsillitis typical symptoms from baseline to day 4 was significantly higher in the study group (7.2 vs 2.7), as well as the remission of tonsillitis typical single symptoms assessed on day 4 (figure 9). figure 9. remission of tonsillitis typical single symptoms assessed on day 4. adapted by [23] moreover, 92.4 % of patients showed a full recovery or at least a moderate improvement after 6 days of treatment, compared to the 43.1 % in the control group. the complete recovery rate was 75.9% in the study group vs 16.5% in the control group, and the deterioration rate was 3.8% in the study group vs 22.8% in the control group. tonsilotren® showed an excellent safety and tolerability: no adverse event was related to the treatment and almost 100% of patients and physicians rated the tolerability as “very good” or “good”. the most recent study on tonsilotren® were performed by palm and colleagues between january 2013 and april 2015, and the results were presented at the 13th congress of the european society of pediatric otorhinolaryngology (espo) [24]. a randomized, controlled, clinical trial was conducted in germany, spain and ukraine on 256 patients aged 6-60 years (86 ≤ 12 years, 51 between 12-18 years, 119 ≥ 18 years) with moderate recurrent tonsillitis (rt). conventional symptomatic drugs were allowed to be prescribed to all the patients involved, while the test group received additionally tonsilotren® for 3 treatment periods of 8 weeks, each treatment period being followed by a 8 to 12 weeks period without tonsilotren®. the estimated rate of diagnosed acute throat infections per year was the primary outcome measure; other outcome measures were the severity of rt symptoms and the antibiotics consumption due to acute throat infections. the primary outcome was significantly lower in the test group compared to the control group (0.59; 95%-ci: 0.41-0.85 vs. 1.35; 95%-ci: 1.09-1.66; p=0.0002; poisson regression model) [24]. the rt symptoms occurred in a significantly lower percentage of patients in the test group compared to the control group: difficulties in swallowing / sore throat were seen in 25% of test group vs. 52.5% of control group (p<0.0001; chi2 test), halitosis in 30.5% vs. 67.5% (p<0.0001; chi2 test) and caseous purulent plugs in the tonsillar crypts in 45.3% vs. 66.7% (p=0.0007; chi2 test) [24]. significantly lower was also the antibiotics consumption due to acute throat infections: 37% in the test group vs. 58.2 in the control group (95%-ci: 9.13-33.36; p=0.0008; chi2 test) [24]. positive results were also registered about the safety of tonsilotren®: in the test group 225 adverse events were reported, three of these were related to tonsilotren® [24]. conclusion in recent years the use of herbal remedies and homeopathic products in children is highly increasing, as outlined by analysis carried out in the usa and in europe [3-6]. very often parents ask the pediatricians to give children these kind of remedies, especially in the early childhood years or for the treatment of mild ailments, such as those related to teething or infantile colic. the biggest concern for parents comes generally from the risk of adverse events due to conventional drugs; furthermore, for some disorders, there is no standard of care in mainstream medicine. in these cases the use of homeopathic products confer the advantage of having an excellent profile of safety and tolerability together with efficacy, as demonstrated by recent studies presented and discussed in this article [20-24]. homeopathy can also be useful as adjunctive therapy for conventional drugs: recent studies show that, even in children, very often homeopathic products are used together with conventional therapies. in these cases the use of homeopathic medicines demonstrated to alleviate symptoms, contributing to shorten the duration of the disease and decreasing the use of symptomatic drugs, as here reported by the study on influcid® [22]. in some pathologies, in particular, such as recurrent respiratory infections in children, the use of symptomatic drugs is very high, although not particularly effective. a recent cochrane review confirmed the controversial results on non-prescription, over-the-counter (otc) medicines for acute cough due to urtis: in the absence of good evidence for or against the effectiveness of otc medicines in acute cough, the authors stressed the importance of prescribing these drugs with caution, to avoid the risk of adverse events [74]. there is a strong interest of pediatricians towards herbal products and homeopathic: many studies have reported a growing demand for validated information, also to better address the demands and needs of patients and their parents [7]. in recent years it has also increased the number of pediatricians and physicians who choose to treat themselves with natural and homeopathic remedies. although homeopathy is still debated, there are some studies that attest to the efficacy and safety in children. in this article we present and discuss five studies that have shown the effectiveness of homeopathic products for the treatment of infantile colic, teething, urtis and tonsillopharyngitis [20-24]. as authors active in clinical practice we hope that such issues will be investigated with further trials and updated reviews on existing literature. references 1. national institutes of health. complementary and alternative medicine. collection development manual. https://www.nlm.nih.gov/tsd/acquisitions/cdm/subjects24.html (last accessed june 2016) 2. ventola cl. current issues regarding complementary and alternative medicine (cam) in the united states: part 1: the widespread use of cam and the need for better-informed health care professionals to provide patient counseling. pt 2010; 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distension, bilious emesis, and obstipation. computed tomographic imaging showed a twisted, dilated cecum within the lesser sac with the base of the volvulus at the foramen of winslow and mass effect against a decompressed stomach. in the operating room, the patient underwent exploratory laparotomy, reduction of the cecal volvulus through the lesser sac, and right hemicolectomy with primary ileocolic anastomosis. given the substantial morbidity and mortality risk if a closed loop obstruction is left untreated, it is of paramount importance to consider internal hernias as a potential cause to allow an early diagnosis and an urgent surgical treatment. keywords: cecal volvulus; internal hernia; foramen of winslow cmi 2022; 16(1): 1-5 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v16i1.1514 case report corresponding author ava yap ava.yap@ucsf.edu received: 13 november 2021 accepted: 12 april 2022 published: 29 april 2022 why do we describe this case in some rare cases, cecal volvulus has a highly unusual anatomy, i.e., with internal herniation through the foramen of winslow. as it comes of a surgical emergency, a prompt diagnosis is mandatory. successful surgical reduction of the cecum through the foramen of winslow requires a combination of gentle and firm detorsion and decompression of the distended cecum introduction cecal volvulus, which is the torsion of the cecum and ascending large intestine, makes up 1-3% of all large bowel obstructions and has a greater prevalence in young females [1]. mortality from cecal volvulus is approximately 6.6%, and is often caused by a closed loop obstruction leading to ischemia, gangrenous bowel, perforation, and peritonitis [2]. this condition usually arises from a spontaneous twist of redundant colon, though it can also be induced by colonic contents traversing through an internal hernia. naturally occurring intra-abdominal spaces in which internal hernias can arise include paraduodenal, foramen of winslow, transmesenteric, paracecal, intersigmoid, and paravesical [3]. herniation through the foramen of winslow is the rarest form of internal hernia, accounting for about 8% of all internal hernias and 0.1% of all abdominal hernias [4]. we report a case of cecal herniation through the foramen of winslow. case presentation a 73-year-old woman with a history of hypothyroidism, obstructive sleep apnea, gastroesophageal reflux disease (gerd), inflammatory bowel syndrome (ibs), and no prior surgical history presented to the emergency department after one day of lower abdominal pain, bilious emesis, and nausea. a home bowel regimen did not relieve her pain, which she reported as radiating to the epigastric area. her vitals on presentation were overall unremarkable (table i). parameter detected level normal range blood pressure (mmhg) 140/70 90–120/60–80 temperature (°f) 97.8 95.0–99.5 heart rate (beats/min) 61 60–100 oxygen saturation (%) 99 ≥92 respiratory rate (breaths/min) 16 12–20 body mass index (kg/m²) 21.5 18.5–24.9 white blood cells (cells/µl) 8700 4500–11,000 table i. objective quantitative patient’s data. figure 1. a computerized tomography in axial orientation shows the distended cecal loop (c) containing an air fluid level, situated inside the lesser sac behind the relatively decompressed gastric bubble (g). the foramen of winslow is also visualized (fw) with colonic gas spanning either side. her body mass index was 21.5 kg/m2. physical examination demonstrated a very distended abdomen with mild tenderness at the epigastrium without rebound and guarding. laboratory values were unremarkable, with normal white blood count (table i). a computerized tomography (ct) scan of the abdomen and pelvis with intravenous contrast demonstrated apparent cecal displacement, with volvulus into the lesser sac without any bowel compromise or signs of ischemia (figure 1). following nasogastric tube placement for decompression and antibiotic administration, she was brought to the operating room for an exploratory laparotomy. after entry into the abdomen, the transverse colon was noted to be floppy and redundant. the length of the small bowel was run from the ligament of trietz to the fold of treves. at this point, it was noted the terminal ileum was tethered towards the posterior right upper quadrant. after exposing the right paracolic gutter, the ascending colon was noted to be floppy and recoiling back up behind the stomach through the foramen of winslow. after further dissection, it was noted the cecum, appendix, terminal ileum, and proximal ascending colon traveled through the foramen of winslow and volvulized around its mesentery into the lesser sac, consistent with an internal hernia with closed loop obstruction. the lesser sac was entered at the location of the transverse mesocolon as well as above the lesser curvature of the stomach, where the dilated cecum was delivered through the newly created defect (figure 2). after multiple rounds of manual decompression of obvious stool and gas of the involved intestine, we were able to decompress the cecum into a size that could be reduced through the foramen of winslow (figure 3). figure 2. the lesser sac (arrow) was opened to externalize the entrapped and congested cecal volvulus (arrowhead) before its detorsion and decompression. figure 3. the decompressed and reduced cecum with appendix and terminal ileum, once reduced through the foramen of winslow. the right colon, terminal ileum with appendix were resected and a side-to-side stapled anastomosis was made between the transverse colon and ileum, and the foramen of winslow was approximated with a vicryl stitch. the abdomen was then closed in standard fashion. the patient’s postoperative course was remarkable only for clostridium difficile infection, which was detected on postoperative day 5 and was treated with oral vancomycin. she tolerated stepwise diet advancement and, by the day of discharge on postoperative day 9, she was ambulating independently, had pain controlled with oral medications, and was tolerating a regular diet. pathology demonstrated attenuation of bowel wall with vascular dilation and congestion compatible with volvulus, along with four benign lymph nodes and an appendix notable for a low grade appendiceal mucinous neoplasm. what should the clinician ask him/herself or the patient? has the patient had this constellation of symptoms before? if so, how did it resolve? when did the abdominal discomfort start, and was it triggered by anything? when looking at the ct scan, where is the position of the cecum in relation to the stomach? does the stomach look decompressed? does the cecum appear very distended, which may warrant an open surgical approach? during the surgery, what might be the most atraumatic way to reduce the internal hernia without causing a bowel perforation? discussion cecal volvulus requires a timely diagnosis due to its significant potential morbidity and mortality from the resulting closed loop obstruction. occasionally, internal hernias can become the lead points to a cecal volvulus. here we report the case of a patient with the cecum herniated through the foramen of winslow, causing a volvulus and closed loop obstruction requiring urgent laparotomy. herniation through the foramen of winslow is a rare cause of cecal volvulus, with risk factors including a dilated foramen, an intraperitoneal right colon, and a surplus of mesentery [5]. cecal herniation presents uncommonly and can occur in patients with prior abdominal surgeries and ventral hernias due to adhesive disease or abdominal wall hernias. when the mobile cecum herniates through an inguinal hernia with involvement of the appendix in the hernia sac, it is known as an “amyand’s hernia” [6]. several cases of cecal herniation through the foramen of winslow have been reported in the literature dating back to 1973, some with a bascule formation of the cecal volvulus, where the cecum folds anteriorly on itself to create an obstruction, rather than twisting at its mesenteric axis. multiple organs have been reported as internal hernia contents through the foramen of winslow including the small bowel, ascending and transverse colon, omentum, gallbladder, meckel’s and small diverticulum [7-9]. in this particular case, it is notable that final surgical pathology demonstrated a low-grade appendiceal mucinous neoplasm. there have been a few reports that appendiceal tumors may be present as cecal volvuli and serve as a potential lead point [10,11]. however, no prior reports have associated an appendiceal neoplasm with a cecal volvulus complicated by an internal hernia through the foramen of winslow. appendiceal mucinous neoplasms are very uncommon and are present only in 0.2–0.3% of appendectomy specimens [12]. nevertheless, it is possible that this was a presentation of a rare entity. abdominal plain films can demonstrate a “coffee bean” sign with concomitant pneumoperitoneum or pneumatosis consistent with complications such bowel perforation and ischemia [13]. however, plain film is unable to confirm diagnosis in up to 85% of cases [1]. ct scan is the diagnostic imaging of choice, given its high sensitivity (96%) and specificity (93%) for large bowel obstruction, and is also able to identify important anatomy and concurrent incidental findings [14]. in this scenario, the decompressed stomach and the large retrogastric airspace containing a colonic conformation were telling signs that the colon had entered into and became obstructed in the lesser sac. frequently, laparotomy is required to decompress the volvulus and reduce the hernia, given the sizable distension of the bowel. nevertheless, there has been successful reports of a laparoscopic approach. we opted for a laparotomy given the markedly dilated cecum of over 12 centimeters in diameter, and the possibility of bowel wall compromise. notably during exploration, the cecal volvulus was surprisingly hard to identify given its posterior location in the lesser sac behind the stomach, though running the bowel, tracing the terminal ileum distally, and the transverse colon proximally towards the hepatic flexure can help triangulate the volvulus’ lead point. the duodenum can also be kocherized to further mobilize the hepatoduodenal ligament, and the pars flaccida of the gastrohepatic ligament can be divided to exteriorize the volvulus. reduction of the cecal volvulus hernia back through the foramen of winslow remains a challenging aspect of the surgical treatment. the foramen of winslow is only approximately an inch in diameter. it is not possible to enlarge this space to free incarcerated bowel, given the critical biliary and vascular structures contained within the hepatoduodenal ligament abutting the foramen. additionally, the massive cecal distension from the closed loop obstruction further prevents easy bowel reduction through this diminutive foramen. if bowel viability is not immediately compromised, one can enter the lesser sac through the pars flaccida and detorse the volvulus to decompress the cecum while it remains obstructed within the lesser sac. once the cecum has been unwound from the mesenteric twist, gentle manual decompression of the cecum can release its gas and contents into the distal or proximal limbs of bowel to improve the cecal distension. common management of the redundant colon involves resection of the affected portion of bowel to prevent recurrent volvulus. risk for anastomotic leak in the general population after resection and primary anastomosis is approximately 4% [15]. nevertheless, there have been reports of cecopexy, which can be an alternative option in patients who are frailer with multiple medical comorbidities, albeit with inferior results in terms of preventing future recurrence. surgeons should weigh the risk of an anastomotic leak of a colectomy with the higher potential recurrence of a cecopexy, which can range from 0% to 16% [16]. closing the foramen of winslow is not necessary, and this maneuver should be performed with an abundance caution given the proximity and potential grievous injury to the crucial structures of the biliary tree, portal vein, or hepatic artery [17]. conclusion the presentation of a cecal volvulus through the foramen of winslow is a rare and ambiguous case. patients may describe vague abdominal pain and gastrointestinal obstructive symptoms and may not initially have an impressive abdominal exam besides distension. most definitive diagnosis can be made via axial ct imaging, and prompt work-up and surgical management are indicated to avoid grave complications such as bowel ischemia and perforation from closed-loop obstruction. recommendations regardless of unusual anatomy, cecal volvulus from any etiology requires prompt surgical management. the origin of the cecal volvulus can be hard to identify and isolate when it is trapped within the internal hernia through the foramen of winslow. tracing the small bowel from the proximal ligament of treitz to distal terminal ileum may help orient the anatomy and ensure no other small bowel abnormalities are missed. surgical reduction of the internal hernia of the cecal volvulus through the foramen of winslow may require opening the lesser sac to unravel the twisted cecum and allow for manual decompression of the volvulus. the foramen of winslow need not be closed after successful reduction of the internal hernia, as this may risk injury to the structures within the hepatoduodenal ligament. consent we confirm that informed consent was obtained from the patient, who has given full permission to publish this case and the accompanying images. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. swenson br, kwaan mr, burkart ne, et al. colonic volvulus: presentation and management in metropolitan minnesota, united states. dis 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2020;14(1)1-5.html a rare case report on plummer-vinson syndrome with a complication of oral cancer in a south-asian woman ayisha 1, sheema masood ali 1 1 department of clinical pharmacy & pharmd, vaagdevi college of pharmacy, warangal, telangana, india abstract plummer-vinson syndrome (pvs), also called "paterson-brown-kelly syndrome“, is a rare medical syndrome generally affecting middle-aged women. iron deficiency anemia is the prime etiological factor and other probable factors include malnutrition, genetic predisposition, or autoimmune processes characterized by three distinctive features: iron deficiency anemia, dysphagia, and esophageal web. the dysphagia is generally painless and intermittent or progressive over years, restricted to solids, and associated with weight loss. the exact pathogenesis of pvs is still indistinguishable, but it is interconnected with iron deficiency anemia. plummer-vinson syndrome, if left untreated, carries an increased risk of developing squamous cell carcinoma of the upper alimentary tract. in this case report, a 40-year-old female patient presented long-standing dysphagia for months, which progressively developed to postcricoid squamous cell carcinoma by the time she approached to medical treatment. diagnosis was confirmed through laboratory tests, showing iron deficiency anemia and whole-body positron emission tomography-computed tomography (pet-ct) presenting squamous cell carcinoma in postcricoid region (hypopharynx). keywords: paterson-brown-kelly syndrome; plummer-vinson syndrome; iron deficiency anemia; dysphagia; squamous cell carcinoma; postcricoid region cmi 2020; 14(1): 1-5 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v14i1.1448 case report corresponding author ayisha itzayisha@outlook.com received: 4 october 2019 accepted: 2 december 2019 published: 30 january 2020 why do we describe this case despite plummer-vinson syndrome (pvs) is very rare today, its identification is imperative as it affects a set of patients at increased risk of squamous cell carcinoma of the pharynx and the esophagus introduction plummer-vinson syndrome (pvs) or paterson-brown-kelly syndrome is a rare entity associated with the classical triad of symptoms including microcytic hypochromic anemia, esophageal strictures, and dysphagia [1]. it affects predominantly females, in their 4th to 7th decade of life and is due to deprived nutritional status, multiparity, and menstrual blood loss. three to fifteen percent of the patients affected by pvs have been reported to develop esophageal or pharyngeal cancer [2,3]. precise data about incidence and prevalence of the syndrome are not identified, but in the first half of the 20th century it appeared to be common in caucasians of northern countries [4]. it is also common in countries with high possibility of iron deficiency; though, with improvement of nutritional status, it is extremely erratic nowadays [5]. it is hardly diagnosed in males and has also been described in children and adolescents [6,7]. the chief clinical features of paterson-brown-kelly syndrome are postcricoid dysphagia, upper esophageal webs, and iron deficiency anemia. the dysphagia is generally painless and intermittent or progressive over years, restricted to solids, and occasionally accompanied with weight loss. symptoms subsequent to anemia such as weakness, pallor, fatigue, and tachycardia may lead the clinical presentation. additionally, it is characterized by glossitis, angular cheilitis, and koilonychia (spoon-shaped finger nails). enlargement of the spleen and thyroid may also be detected [8,9]. the diagnosis of paterson-brown-kelly syndrome relies on detailed clinical history, general clinical examination, hematological investigation, and radiological examination. however, in the evolving countries numerous patients underestimate the importance of medical history about dental health and treatment. parameter detected level normal range hemoglobin (g%) 6.5 12-16 total rbc count (million/mm3) 2.7 4.7-6.5 mcv (mm3) 74 78-95 mch (%) 24 25-30 pcv (vol%) 20 40-54 iron (µg/dl) 18 60-170 ferritin (ng/dl) 10 12-150 transferrin (mg/dl) 222 170-370 total iron binding capacity (µg/dl) 270 240-450 table i. laboratory findings at admission mch = mean corpuscular hemoglobin; mcv = mean corpuscular volume; pcv = packed cell volume; rbc = red blood cells case presentation a 40-year-old female patient was admitted in mahatma gandhi memorial hospital (mgmh), warangal, telangana, india with chief complaints of gradually progressive dysphagia for solids in the past 3 months, hoarseness of voice, pain in both ears, and history of weight loss. on physical examination, the patient was cachectic with conjunctival pallor, pedal edema, cheilosis but without koilonychia. she had no history of smoking cigarettes, chewing tobacco, alcohol use, or drinking hot liquids. there was no family history of esophageal cancer. table i reports laboratory findings at admission. in particular, iron deficiency anemia should be noticed. diagnosis was made by performing the following tests: whole-body positron emission tomography-computed tomography (pet-ct) was done for stage evaluation of postcricoid growth (figures 1 and 2). it was performed from vertex of skull to mid-thigh after injecting 10.9 mci of f-18 fludeoxyglucose (fdg) and ct images were acquired after injecting iv contrast medium. in the neck region, an irregular heterogeneously enhancing lesion was detected, involving posterior pharyngeal wall and postcricoid region and measuring 2.7 cm × 1.7 cm. therefore, the pet-ct scan confirmed hypermetabolic irregular enhancing soft tissue thickening in posterior pharyngeal wall and postcricoid region. the solid mass was neoplastic in nature; biopsy revealed well differentiated squamous cell carcinoma with stage t2 n2 m0; esophageal endoscopy was also performed and it showed ulcerated lesion in esophagus. figure 1. whole-body positron emission tomography, neck region. figure 2. whole-body positron emission tomography-computed tomography (pet-ct). therefore, this patient was finally diagnosed with paterson-brown-kelly syndrome with a complication of postcricoid carcinoma. she was planned for radiation therapy. as her hemoglobin level was low, blood transfusion of 2 pints of packed red blood cells (prbcs) was given and iron supplement medications (inj. orofer, tab. iron folic acid, tab. neurokind) were suggested in the treatment plan. a slow improvement of dysphagia occurred after 2 weeks of oral iron therapy. what should the clinician ask him/herself or the patient? what is the clinical history of the patient in terms of dysphagia and diet? does the physical examination reveal any anemic symptoms, like pallor, fatigue, malaise, and light-headedness? does the patient notice any weight loss? what is the clinical history of the patient in terms of diseases, medications used, and blood transfusions? what is the clinical history of the patient in terms of menstrual health (amenorrhea/menorrhagia) discussion the pathogenesis of paterson-brown-kelly syndrome is unknown. the most significant etiological factor is iron deficiency. this theory is chiefly based on the conclusion that iron deficiency is a part of the classic triad of paterson-brown-kelly syndrome composed with dysphagia and esophageal webs and that dysphagia can be improved by iron supplementation. certainly, impaired esophageal motility has been defined in paterson-brown-kelly syndrome [10,11]. myasthenic changes arise in muscles involved in the swallowing mechanism due to the depletion of iron-dependent oxidative enzymes. the rapid loss of iron-dependent enzymes causes web formation and ultimately lead to cancer development of the upper gastrointestinal tract [12-14]. it has been reported that malignity in the upper digestive system occurs in 3-16% of patients with pvs, and thus it has been suggested that yearly endoscopic controls should be performed for such patients [15,16]. tissue iron plays a vital role in the propagation of epithelial cells. the physical signs of tissue iron deficiency include smooth tongue, angular cheilitis, and koilonychia, which were also observed in our patient, except koilonychia. besides, the epithelial layer of the upper alimentary tract is particularly liable to iron deficiency because of its high cell turnover [17-19]. atrophy of the esophageal mucosa and formation of webs is seen as mucosal complications. these dysregulations were evident in the present case. other etiologic factors, including malnutrition, genetic predisposition, or even autoimmune processes, have been proposed. the latter is based on the connotation between paterson-brown-kelly syndrome and certain autoimmune disorders such as celiac disease (which was the most often mentioned associated disease in the case reports published in recent years), thyroid disease, and rheumatoid arthritis [20]. it has been proposed that dysphagia associated with paterson-brown-kelly syndrome is improved by iron supplements [21], though in several cases the dysphagia did not respond to iron therapy and eventually required endoscopic dilatation or incision [22,23]. here, we presented a rare case report on paterson-brown-kelly syndrome in a 40-year-old woman, who developed postcricoid carcinoma. if this patient had presented earlier, when she had intermittent progressive dysphagia, her paterson-brown-kelly syndrome could have been potentially treated and the cancer might have been prevented for further progression. early diagnosis is of utmost importance for a better prognosis and can be managed by iron supplementation and mechanical dilation. likewise, esophageal webs may well relapse if iron deficiency recurs; therefore, careful follow-up is mandatory for these patients. endoscopic surveillance is also crucial because of the risk of cancer. conclusion paterson-brown-kelly syndrome is a rare disease generally affecting middle-aged females. dysphagia is slowly progressive and patients often present with iron deficiency anemia. an early diagnosis is of the utmost importance, since, if left untreated, patients may develop upper alimentary tract cancer, as in the patient described in this article. she was treated with oral iron therapy, which deliberately improved dysphagia, and was planned for radiation therapy. key points paterson-brown-kelly syndrome or plummer-vinson syndrome (pvs) is a rare entity associated with the classical triad of symptoms, including microcytic hypochromic anemia, esophageal strictures, and dysphagia it generally effects middle-aged women after the initial diagnosis is confirmed, it can be managed by iron supplementation and mechanical dilation noticeably, in this case report a slow improvement of dysphagia occurred after 2 weeks of oral iron therapy early diagnosis is of extreme importance for better prognosis, since negligence may worsen the patient’s condition, by increasing the risk for upper alimentary tract cancer, as in this patient, who developed postcricoid carcinoma acknowledgments we all express our gratitude to the patient, who kindly gave her consent for this case to be presented in this paper. funding none received. conflicts of interests the authors declare that they have no competing interests. consent for publication written informed consent was obtained from the patient for publication of this case report and any accompanying images. references 1. lanke g, koduru p, bhutani ms. plummer-vinson syndrome presenting as squamous cell carcinoma of esophagus. j dig endosc 2016; 7: 71-3; https://doi.org/10.4103/0976-5042.189156 2. goel a, lakshmi cp, bakshi ss, et al. single-center prospective study of plummer-vinson syndrome. dis esophagus 2016; 29: 837-41; https://doi.org/10.1111/dote.12393 3. hoffman rm, jaffe pe. plummer-vinson syndrome. a case report and literature review. arch intern med 1995; 155: 2008-11; https://doi.org/10.1001/archinte.155.18.2008 4. novacek g. 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frequently can affect kidneys, thyroid, and parathyroid. here, we report the case of a patient with lithium neurotoxic effects complicated by parathyroid and renal adverse effects. the patient was a 52-year-old woman treated with lithium, who was recently diagnosed with hypercalcemia and hyperparathyroidism. she was admitted for severe agitation, confusion, and diffuse tremor. despite serum lithium and calcium normalization, laboratory tests revealed a life-threatening hypernatremia caused by nephrogenic diabetes insipidus (ndi). hemodialysis was started, but after the first treatment the patient died for cardiac arrest. neurological symptoms of li may occur even if the dosage is close to the normal therapeutic range. hypercalcemia and ndi are rare, but should be promptly diagnosed and treated. in case of poor clinical outcome, hemodialysis should be performed independently of lithium serum level. keywords: lithium toxicity; hypercalcemia; nephrogenic diabetes insipidus; hypernatremia cmi 2020; 14(1): 45-49 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v14i1.1461 case report corresponding author arturo de falco arturodefalco@tin.it received: 7 march 2020 accepted: 11 may 2020 published: 30 september 2020 why do we describe this case lithium is an effective medication but has a narrow therapeutic index and, thus, toxicity is frequent. intoxication commonly involves central nervous system, but less frequently can cause rare and life-threatening adverse effects such as hypercalcemia and nephrogenic diabetes insipidus. these adverse effects should be promptly recognized and treated introduction lithium is the most effective long-term therapy for bipolar and schizoaffective disorder, protecting against both depression and mania and reducing the risk of suicide and short-term mortality. it is also used as add-on therapy in patients with treatment-resistant unipolar and recurrent major depression and in cluster headache prophylaxis [1]. although its efficacy, lithium has a narrow therapeutic window and a clearance variability due to several individual and environmental factors. therefore, lithium toxicity is frequent and routine monitoring of serum concentrations is required. lithium intoxication (li), whether intentional or unintentional, can be a severe occurrence carrying a significant risk for permanent sequelae, mainly neurologic, and can even lead to death. li is categorized as: acute intoxication in lithium-naïve patients; acute-on-chronic intoxication in patients taking long-term lithium treatment; or chronic intoxication due to the gradual accumulation of lithium during chronic exposure [2]. the effective therapeutic range of lithium is 0.6-1.0 mmol/l, but in long-term therapy levels equal or greater than 1.2 mmol/l are considered toxic. several factors are associated with increased risk for li: medications (i.e., neuroleptics, ssris, and amiodarone); dehydration; renal failure; infections; fever. further potential causes are intentional or accidental overdoses [3]. li is associated with a variety of clinical manifestations depending on pathologic lithium accumulation in different organs including neurologic, gastrointestinal, endocrine, and renal disorders. acute li is most often associated with gastrointestinal symptoms, cardiotoxic effects, and late developing neurological signs, whereas chronic forms are predominantly characterized by neurological symptoms including tremor, extrapyramidal and/or cerebellar signs, hyperreflexia, agitation, confusion, myoclonus, seizures, and consciousness impairment [3]. lithium therapy is also associated with renal impairment [2,4,5]. young women had higher hazard ratios than other groups, suggesting that they are at greatest risk of renal disorder [5]. a patient receiving lithium is at high risk of developing at least stage 3 chronic kidney disease. a subset of these patients might develop end-stage renal failure with an absolute risk of approximately 0.5-2% [4,5]. increased serum lithium concentrations and young age in women seem to be associated with increased risk of decline in renal function [5]. nephrogenic diabetes insipidus (ndi) is a rare adverse effect of li: tubular cells lose their ability to respond to antidiuretic hormone (adh). this effect is initially reversible, but can progress to structural and irreversible changes [2,6]. in this setting, the risk of hypernatremia increases and may lead to serious or even life-threatening conditions if not promptly and properly treated [7]. antithyroid effects of lithium are well established and more evident in young women [4,5]. multiple mechanisms are probably involved. the most important is the inhibition of thyroid hormone release from the thyroid gland. however, lithium may also decrease iodine trapping within the gland and inhibit thyroid hormones synthesis [8]. although thyroid dysfunction is the most common endocrine adverse effect, patients receiving lithium have an absolute risk of 10% (vs. 0.1% of the general population) of developing primary hyperparathyroidism. this is probably caused by lithium inactivation of the calcium-sensing receptor leading to an increased release of parathyroid hormone, which raises calcium concentration in blood [9,10]. moreover, in a review of 88 case reports of lithium-induced hyperparathyroidism, 42 cases were found to have parathyroid adenomas and 29 were found to have hyperplasia [9,10]. lithium treatment is also associated with cardiac conduction abnormalities and electrocardiographic changes such as transient st depression, bradycardia, sinus node dysfunction, and inverted t-waves in lateral precordial leads [2,11]. lithium-treated patients who have hypercalcemia have been reported to have higher prevalence of cardiac conduction disturbances compared with lithium-treated patients with normal calcium levels [9,11]. the standard treatment strategy of lithium toxicity generally begins with cessation of lithium administration and medications that may reduce lithium elimination, hydration, and gastrointestinal decontamination. because of its favorable pharmacokinetic parameters, the most effective treatment to remove lithium from serum is intermittent hemodialysis [12,13]. the prognosis of patients with li varies, ranging from full recovery to long-lasting neurologic deficits. the most concerning long-term deficit or dysfunction of lithium toxicity is the syndrome of irreversible lithium-effectuated neurotoxicity (silent). silent is characterized by a broad spectrum of neuropsychiatric symptoms that follows lithium toxicity and may persist long after serum lithium normalization. clinical features may include brainstem and/or cerebellar dysfunction, extrapyramidal features, and cognitive impairment [14]. prognosis is worst when symptoms persist for a longer period. recent data suggest a low mortality (less than 1%) [3]. case presentation the patient was a 52-year-old woman admitted to the neurology unit for severe agitation and mental confusion. she had a history of schizoaffective disorder and was on chronic treatment with lithium carbonate 300 mg bid, olanzapine 10 mg qd, and clonazepam 0,5 mg qd during the last 2 years. moreover, she had a history of hypertension and dyslipidemia. hyperparathyroidism and hypercalcemia were recently diagnosed. a parathyroid adenoma was also reported. five days before neurological symptoms onset she had an episode of fever and diarrhea. neurological examination showed agitation, confusion, and disorientation. she also presented akathisia and diffuse tremor. at admission, laboratory investigations showed high serum lithium, hypercalcemia, high serum parathormone, mildly elevated serum creatinine, while blood count, na+, calcitonin, hepatic, and thyroid values were normal (table i). electroencephalogram (eeg) showed background activity disorganization with periodic bursts of diffuse sharp waves. brain magnetic resonance imaging (mri) and mr-angiography were normal. cerebrospinal fluid analysis including virologic dna detection, bacterial antigens, and cultures were unremarkable. screening for autoimmune encephalitis was negative. lithium was discontinued and in the next 3 days serum lithium and serum calcium levels decreased within the normal range (table i), but the patient showed a progressive consciousness impairment evolving in coma state. during the next 4 days, despite a high intake of glucose 5% solutions and free water by naso-gastric tube, laboratory tests showed a progressive rise of na+ up to 184 mmol/l and an acute renal failure with increased serum creatinine and blood urea nitrogen (table i). urine specific weight was low. ultrasound showed slight reduced kidney dimension and parenchyma hyperechogenicity. diagnosis of nephrogenic diabetes insipidus (ndi) was made and hemodialysis was started. after the first treatment, na+ serum level decreased to 164 mmol/l without clinical improvement and patient died the day after for cardiac arrest. parameter at admission 3 days after admission 7 days after admission normal range lithium (mmol/l) 1.3 0.8 0.6-1.2 calcium (mg/dl) 11.9 9.4 8.6-10.2 creatinine (mg/dl) 1.33 1.97 2.49 0.57-1.11 bun (mg/dl) 45 89 145 10-50 sodium (mmol/l) 138 173 184 136-145 pth (pg/ml) 427 12-75 calcitonin (pg/ml) 4 0-10 usg (n) 1004 1005-1035 potassium (mmol/l) 4.5 3.5-5.1 table i. laboratory findings at admission, 3, and 7 days after the admission bun = blood urea nitrogen; pth = parathyroid hormone; usg = urine specific gravity what should the clinician ask him/herself or the patient? is the patient in therapy with neuroleptics, selective serotonin reuptake inhibitors (ssris), or amiodarone? has the patient a history of thyroid or parathyroid dysfunction? has the patient a history of renal failure? does the patient report a recent condition of dehydration, such as fever or diarrhea? are the clinical features attributable to central nervous system lithium intoxication, hypercalcemia, or hypernatremia? is hemodialysis indicated for lithium intoxication? when should hemodialysis be started? discussion lithium is the first-line therapy for bipolar disorder and is also widely used in refractory depression and in cluster headache prevention. lithium has a narrow therapeutic index and toxicity is frequent in patients taking this agent [1,2,4,5]. long-term lithium use may lead to episodes of intoxication, that represent a considerable risk for long-term morbidity and even mortality. in our patient, who was on long-term lithium treatment, an episode of fever and diarrhea and consequently dehydration contributed to induce intoxication. our patient had a spectrum of severe neurological symptoms despite a very mild increased lithium serum level (1.3 mmol/l; therapeutic range 0.6-1.2), as already reported in other studies [1,3]. this may be partially explained by the lithium characteristics: it is one of the lightest elements of the periodic table, is easily distributed throughout total body water, and does not bind serum proteins. lithium is rapidly absorbed by kidneys, thyroid, and bones and lately by the brain. in case of acute and acute-on-chronic intoxication, only lithium serum concentrations determined at least 6 hours after ingestion allow adequate interpretation of intoxication severity. in long-term lithium therapy, serum concentration may not reflect tissue levels, resulting in a poor correlation between lithium level and toxicity as in our patient. indeed, intoxication can occur even despite normal lithium level, as it was described in the literature [3]. moreover, in our patient symptoms such as tremor, confusion, consciousness impairment may be worsened by hypercalcemia, which can overlap neurologic li symptoms. in our patient, hypercalcemia was associated with hyperparathyroidism. parathyroid involvement is a rare adverse effect of lithium therapy [4,5,9] and was already ongoing in this patient. lithium was promptly discontinued and hypercalcemia corrected, but the patient did not improve. three days after, she developed acute renal failure and ndi, another rare effect of li [6,7]. this condition lead to severe hypernatremia despite a high intake of fluids. hemodialysis was started, but, after the first treatment, the patient died for cardiac arrest. autoptic examination was not performed, but probably the patient died due to the neurotoxicity of severe and prolonged hypernatremia. generally, treatment guidelines for lithium intoxication vary depending on the degree of toxicity. in case of mild toxicity, lithium discontinuation may be sufficient. in moderate intoxication, fluid infusion with saline solutions are recommended along with gastric lavage and bowel irrigation to enhance lithium elimination. in the most severe cases, defined by lithium serum levels > 4.0 mmol/l or severe clinical symptoms, especially consciousness impairment, hemodialysis should be performed. when hemodialysis is required, it is usually repeatedly performed to avoid lithium rebound with a paradoxical deterioration in consciousness, caused by a redistribution of lithium from tissues to the plasma. serum lithium levels and renal function should be monitored, so that the treatment can be adjusted as necessary [13]. in our case, hypercalcemia features overlapping with neurological symptoms of li and the renal failure associated with ndi causing a severe and refractory hypernatremia lead the patient to death. despite overlapping symptoms, probably ndi and the associated severe and non-responsive hypernatremia were responsible for the clinical worsening. conclusions in patient with li, clinicians should recognize common neurotoxic symptoms, but also rare and life-threatening adverse effects such as hypercalcemia and ndi. the serum lithium concentrations should be only a guide to avoid toxicity and should always be considered in the context of patient history and clinical findings. therefore, any patient suspected of li requires immediate and appropriate care. in most cases, renal failure, hypernatremia, and hypercalcemia can be safely managed without needing intensive care. hemodialysis is indicated for lithium serum level > 4 mmol/l, but, in case of severe adverse effects or poor clinical outcome, it should be promptly performed regardless of lithium serum level. in conclusion, recommendations for the safe use of lithium include correct patient selection and periodic laboratory and clinical monitoring. this may contribute to prevent the potentially harmful intoxication of this effective and widespread medication. key points in lithium intoxication, neurological symptoms are common and may occur when the dosage is close to the therapeutic range or even in the normal therapeutic range less frequently, lithium therapy is associated with hyperparathyroidism and hypercalcemia, which can overlap neurotoxic symptoms nephrogenic diabetes insipidus is a rare adverse effect of lithium intoxication, which can lead to a life-threatening hypernatremia hemodialysis should be promptly started in case of severe adverse effects or poor clinical outcome, independently of lithium serum level consent to publication the consent to publication was obtained from a relative of the patient here described. funding no funding has been obtained for this article. conflicts of interests the authors declare that they have no conflicts of interests concerning the topics of this article. references 1. oruch m, elderbi ma, khattab ha, et al. lithium: a review of pharmacology, clinical uses, and toxicity. eur j pharmacol 2014; 740: 464-73; https://doi.org/10.1016/j.ejphar.2014.06.042 2. ott m, stegmayr b, salander renberg e, et al. lithium intoxication: incidence, clinical course and renal function a population-based retrospective cohort study. j psychopharmacol 2016; 30: 1008-19; https://doi.org/10.1177/0269881116652577 3. baird-gunning j, lea-henry t, hoegberg lcg, et al. lithium poisoning. j intensive care med 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viterbo local health unit (lhu) area, italy. hospital discharge sheets (hdss) and the notifications of infectious diseases (noids) were used. we were able to trace the distribution of the disease both in the general population and, in particular, among the staff of belcolle hospital in viterbo. in 2017, 50 cases of measles were detected among the population in the area of viterbo. of these, 10 concerned healthcare professionals and 3 employees of the viterbo lhu. due to the education and information campaign on the measles, mumps, and rubella (mmr) vaccine and the close monitoring of the vaccination coverage among the employees of the hospital (performed for the first time), only 4 cases were registered from january 1, 2018 to december 31, 2018 in the same area, and no healthcare workers were involved. keywords: measles; outbreak; healthcare professionals; vaccine; index case; adults cmi 2019; 13(1): 41-47 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v13i1.1433 clinical management corresponding author silvia dari silvia.dari@asl.vt.it received: 17 april 2019 accepted: 24 september 2019 published: 9 october 2019 introduction measles is an acute exanthematous viral disease, that is extremely contagious and widespread worldwide. it is caused by a rna virus belonging to the family of paramyxoviridae, of the genus morbillivirus. measles virus is transmitted by aerosols, through infected dried droplets secreted during a cough or sneeze, or even when talking. humans are the only natural hosts and the virus survival in the air, on objects, or on surfaces is inversely proportional to the relative humidity [1]. morbillivirus is highly infectious and contagiousness is particularly high in closed environments, where the virus may be detected until two hours after its dispersion by an infected subject. the reproduction rate of the virus (r0 = average number of secondary cases, i.e. subjects that fall ill, after contact with a primary case, in a susceptible population) is high, i.e. r0 = 17-18. the disease is contagious from the prodromal stage (for 4-5 days before the onset of the exanthem) and continues to be active in the acute phase. it considerably decreases in intensity up to 4-5 days after the disappearance of the rash. the virus penetrates the body through the respiratory tract, where a first local replication begins, and then it rapidly spreads to the regional lymphoid organs, where a second and massive replication occurs. after the first phase of viremic replication, a second phase follows, in which the virus, affecting the mononuclear phagocyte system, quickly and massively reaches all the body districts through the lymphocytes. despite the classic manifestations of the disease, the clinical diagnosis of measles must necessarily be accompanied by laboratory confirmation [2]. before the vaccine was available, measles was one of the most frequent infectious diseases of infancy. although vaccination significantly reduced the incidence, measles still remains one of the main causes of disease (40 million/year in the world) and death (1-2 millions) among the non-vaccinated pediatric population [2]. in italy, death occurs in 1/5000 cases and it is mainly linked to two determinants: the age and the complications of the disease. mortality is high under one year of age, low in children, and again high in adolescents and adults [1]. in 2017, the european region of the world health organization (who) recorded a total of 14,451 cases of measles. the european countries with the highest number of cases were: romania (5560), italy (4991), greece (967), and germany (929) [3]. among the cases reported in italy, 87% were not vaccinated and 8% had received only one dose of vaccine; 35% had at least one complication; 44% was hospitalized; 378 cases of pneumonia, 2 cases of encephalitis and other complications such as stomatitis (730 cases), keratoconjunctivitis (496 cases), and hepatitis (444 cases) have been reported. among the infected cases, 315 were healthcare workers. the region with the highest incidence rate was lazio, accounting for 1699 cases (28.8 cases/100,000 inhabitants) [4]. starting from the early months of 2017, the “integrated surveillance system measles-rubella” has recorded on the national area a growth beyond the expectation of measles cases in the population. from january 1 to april 2, 2017, a total of 1333 measles cases were notified to italian lhus [5]. the ministry of health-office sent the circular “prevention of communicable diseases and international prophylaxis” (april 4, 2017) to all regions with the subject: “the epidemiological situation of measles—operating guidelines for the management of the outbreak”. the circular stated that the majority of cases occurred in people aged ≥15 years (58% in the age range 15-39 years and 16% in the age range 40-64 years), with a median age of 27 years. several nosocomial outbreaks and 315 cases have been reported among healthcare professionals. therefore, the vaccination against measles (for subjects aged 0 to 16 years), which previously was just “strongly advised”, became mandatory according to the “decree-law prevention vaccination”, converted into law by the parliament on july 31, 2017. to be effective, the vaccine must necessarily be administered in two doses: one at the 13th-15th month of life and the second at 5-6 years [6]. vaccination against measles remains strongly recommended among the healthcare staff, that is always at high risk of contracting measles [7]. the trend of measles infections in recent years shows that: there is a shift concerning the age of the subjects involved (increasingly infecting adolescents and young adults); some of the cases had benefited from a single dose of vaccine (whereas it is necessary to reach a 95% coverage with two doses in order to effectively prevent the propagation of the disease); the healthcare staff susceptible to the disease must be identified and educated on the importance, usefulness, and social value of vaccination (each local health unit—lhu—should know the vaccination status of its employees) [3,4]. with regard to health surveillance, measles, being part of class ii diseases, must be notified to the lhu by the diagnosing physician by using the “compulsory complaint card of infectious disease”, as reported in the ministerial decree of december 15, 1990. in case of measles, susceptible subjects who may get in touch with the index case (contacts) must also be traced. with regard to the prevention of susceptible subjects, it is necessary to: record the starting date of the symptoms of the index case and the infectious period; identify the case contacts during the infectious period and trace them; establish active surveillance in the communities where the infected subject lives or identify those who have come in contact with him/her during the 14 days preceding the onset of the symptoms; continue the investigation on the contacts of the cases who are subsequently identified. the vaccine [4] is always and strongly recommended in subjects considered susceptible, i.e. those without vaccination or who have not previously been infected. a descriptive epidemiological study was carried on in the viterbo lhu area [8] in order to investigate the extension of the measles outbreak phenomenon and the size of the population involved. subsequently, data were compared with those acquired in 2018, in order to check whether the operational response of health surveillance adopted by the viterbo lhu had proved effective in decreasing or preventing new cases of disease. materials and methods for data acquisition, the hospital discharge forms—hdss (schede di dimissione ospedaliera—sdo) and the notifications of infectious diseases (noids) were used. afterwards, the cases of interest notified were selected according to inclusion and exclusion criteria (see below), with the aim of obtaining a reliable picture about the disease distribution in the viterbo lhu area, italy, for the year 2017. data about the year 2017 were then compared with those of 2018, in order to obtain information on the progress of the disease in two consecutive years. inclusion criteria were: the diagnosis of measles made in 2017 and the residence in the province of viterbo. patients with suspected diagnosis of measles not confirmed by virological examination and patients hospitalized for measles in 2017, but diagnosed prior to january 1, 2017, were excluded from the study. the following data were collected: nationality (to distinguish between autochthonous and non-autochthonous cases), sex, year of birth, start date of symptoms, date of disease notification (which allowed to highlight the timeliness of the diagnosis), residence, possible hospitalization, hospital, and ward. data obtained were analyzed after creating a database. the epidemiologic scenario, once defined, was then analyzed through “windows access”, “windows office”, and “excel” softwares. averages, weighted averages, ratios, ranges, and percentages were calculated. data about the resident population in the province of viterbo were taken from the national institute of statistics (istituto nazionale di statistica—istat) [9]. results a total 50 measles cases were identified in 2017 in the population in the area of viterbo. of these cases, 43 were notified directly by physicians working in the viterbo lhu and 7 cases were notified by physicians of regional structures not belonging to the viterbo lhu and extra-regional structures. two cases of patients non-resident in the province of viterbo were also included in the study: one was admitted to belcolle hospital of viterbo following the complications of the disease and the other was a healthcare worker of the same hospital. ten cases were healthcare professionals and 3 cases were other workers employed in the viterbo lhu. significant variations were detected in the outbreak event in comparison with the epidemics of previous years, i.e. a change in the age distribution of the disease at the local level. in fact, more than 90% of cases were patients aged over 18, while underage subjects accounted just for 4 out of 50 total cases. just one case was registered over 50 years of age, as this population grew up at a time when vaccination for measles did not exist and thus was infected, presumably, in the pediatric age. there were also few measles cases recorded in foreign patients (only 10% of cases). most cases (38 out of 50) were recorded in the age group between 18 and 39 years, clearly shifting the onset of measles from a predominantly pediatric to an adult age disease. age range covered 55 years, showing a significant widening in the distribution of the disease in the population. considering the age groups, the characteristics of the outbreak highlighted by our study showed that the trend of measles in the viterbo lhu area perfectly matches the trend at the national level. in the viterbo lhu only 4 cases were registered from january 1, 2018 to december 31, 2018, and among them no healthcare worker was involved. the cases among the healthcare workers of this outbreak event were related to a case of measles notified on march 2, 2017 (“index case”, hospitalized), as emerged from the investigation we carried out. the index case was a male subject who carried out his activity on the emergency vehicles and was an employee of a roman lhu, and probably had contracted the infection while working. the second case was a female subject, arrived at the emergency room of belcolle hospital to receive medical treatments. a possible link between these two cases was initially ruled out, considering that both subjects had reported they did not know each other. afterwards, the woman, until that moment unaware that the man was infected, reported having had personal contact with the index case, thus revealing the way of contagion. the third case of illness was the first aid physician who treated the woman, when the diagnosis was not made yet. the woman was admitted to the hospital and, due to lack of beds in the ward of destination, was temporarily accepted in another ward, where she infected the fourth case, a nurse, and the fifth case, a student of the health professions who was doing the internship there. the notification board of “suspected epidemic event” was drafted on april 5, 2017, following these 5 initial episodes of measles. new cases had emerged, although sporadically, involving other healthcare professionals and other workers within the hospital. of these, the last case was an attendant at the hospital canteen, notified on september 3, 2017. considering the notification date of the disease between the index case (march, 2, 2017) and the last case (september 3, 2017), we concluded that outbreak affected the belcolle hospital for 7 months. the modes of transmission were sometimes not clearly identifiable. the infection involved the most disparate professionals of the hospital, i.e.: 10 healthcare professionals, including physicians, nurses, midwives, department nursing coordinators, and students of the health professions; 2 non-sanitary employees (excluding the index case) in the lhu: a cleaner and a clerk in the cafeteria (transport of food). the latter case in particular, thanks to the health surveillance and the measures taken, was promptly identified and did not infect anyone. starting from the index case, retracing the chain of contagion and tracking who had been exposed, it was possible to stop the spread of the infection with vaccination and the implementation of preventive measures in susceptible people. in order to respond to the urgent need of combating the spread of disease among healthcare professionals, the hospital health department of the viterbo lhu set up a “crisis unit” (consisting of several professionals: hospital health management, department of prevention, department of coordinating vaccinations, risk management, department of infectious diseases, department of clinical diagnostic, hospital pharmacy, competent physician) with the task of interacting with the hospital health management by implementing an operative protocol to stop the contagion. therefore, a general survey on the status of health staff vaccinations was carried out and the clinical risk of the population exposed was mapped on the basis of the previous immunization against the disease or vaccination. the search for susceptible subjects was extended to all the staff already employed in lhu, initially also through self-certification, thus obtaining an immediate picture on the vaccination coverage and the previous immunization of employees against the disease. subsequently, a procedure was undertaken in order to detect the presence of antibodies against measles. unimmunized subjects who were exposed and were clinically compatible with vaccination were identified. afterwards, a preventive vaccination campaign was carried out on the basis of priorities, clinical risk, and compatibility, as assessed on a caseby-case basis. contacts of healthcare professionals and other infected lhu workers were quarantined at their home, because they were deemed temporarily unfit for work. the search for the antibodies against measles was included in the occupational health check of healthcare workers of the viterbo lhu. discussion the possible involvement of healthcare professionals in a direct airborne infection (such as measles) should never be underestimated by a healthcare organization, especially when it is unaware of the vaccination and immune status of its employees. proper monitoring and careful surveillance not only of patients, but also of healthcare professionals themselves, are essential elements in preventing and controlling infections. measles has different symptoms in adulthood and pediatric age. in adulthood, frequently the rash (which often occurs atypically) is postponed, and the disease onset is characterized by fever, general malaise, and sore throat: therefore, the infection may go undetected, thus increasing the likelihood of contagion to susceptible subjects. the late diagnosis and the presence of a susceptible health practitioner in belcolle hospital were the main factors which allowed the measles virus to trigger an outbreak among its employees. the search for the cases involved among the hospital employees was very tricky. when retracing the chain of infection in case of suspected outbreak event, it is crucial to reconstruct the dynamics of the propagation of the infection and identify the “index case”, defined as the first case of disease. afterwards, the infectious period of the infected subject must be tracked, and all the susceptible subjects (highand low-risk contacts) who may have come into contact with the index case in that time have to be searched [10]. in viterbo, for the first time, the search for the antibodies against measles was included in the occupational health check. in the absence of vaccination certification, the antibody titration for the measles virus was detected with serological test. in this way, the immune status against measles became one of the defining elements of working suitability for health workers of the viterbo lhu. this was particularly important, especially considering the presence of fragile subjects and delicate context that characterize hospitals. the operational response we implemented was based on the indications reported in the ministerial circular of april 4, 2017 [8] and in the “national plan for the elimination of measles” [10]: actively offering vaccination to those contacts susceptible to measles within 72 hours of exposure and even beyond this interval to detect also the susceptible cases eventually uninfected; alerting general practitioners, pediatricians, gynecologists, hospital physicians, and first aid; monitoring people that receive measles, mumps, and rubella (mmr) or igg vaccines as post-exposure prophylaxis for the possible occurrence of signs and symptoms compatible with measles for at least a period corresponding to the disease incubation period; offering mmr vaccination to healthcare professionals at the time of hiring; checking whether employees are immunized against measles and vaccinating susceptible workers; verifying the vaccination coverage of all health professions’ students, in view of their hospital internship; maintaining a high level of awareness among the health staff about the possibility of measles transmission in the nosocomial field; quarantining at home, during the incubation period, susceptible healthcare workers who have been exposed to the disease; quarantining suspected cases that occur in the emergency room or other wards; searching for contacts at risk; strengthening surveillance on hospital cases. therefore, the measures taken in this situation have had the aim of: monitoring the current epidemic by interrupting the transmission chain; preventing secondary cases; preventing future epidemic measles events. conclusion according to this epidemiological study, the incidence of measles in this local microcosm and at national level perfectly overlap, thus confirming the existing gap from the 95% vaccination coverage target [5]. the operational response implemented by the lhu proved to be effective in blocking the spread of infection. in fact, only 4 cases of measles were diagnosed in 2018 (and among them no healthcare worker was involved) versus 50 cases in the year 2017 in the viterbo lhu area. notwithstanding the encouraging progress achieved at local level, measles is still a serious problem in italy even in 2018, despite a reduction in cases with respect to 2017: in january 1-december 31, 2018 period, 2526 cases of measles were notified in italy, 47% of which with at least one complication. overall, 4.6% (115 cases) were healthcare professionals. during that period, there were 8 measles-related deaths: 7 adults aged 25-75 and a 10-month-old child [11]. in this study, we monitored the evolution of what could be considered a “healthcare staff-related outbreak”. therefore, this close monitoring was useful in order to: define the problem; obtain information with regards to the population of the area; identify priorities of action; implement “catch-up” campaigns to recover subjects escaped from vaccination; set up a “keep-up” policy for new hires, in order to keep a high vaccination coverage within the healthcare facility; have a new look on the importance to vaccinate healthcare professionals through education campaigns and reliable information. in fact, the epidemic outbreak involved the employees and students of the health professions, who became both elements of susceptibility and possible sources of contagion. it is unacceptable that, even though an effective vaccination exists, those who have the duty to cure, assist, and re-enable patients become the cause of the problem. in this case “making prevention” includes also letting every healthcare worker understand and promote the validity and the importance of vaccination, for him/herself and for the others. the current evidence shows that the adhesion to vaccination by health workers is not optimal, and, in some cases, largely unsatisfactory. these data, if associated with the high number of cases of disease recorded, highlight that this topic is of the utmost importance and urgency [7]. therefore, the outbreak was an opportunity to implement a procedure to monitor for the first time the vaccination coverage against the measles of the actual and future employees of belcolle hospital and viterbo lhu, thus early identifying susceptible subjects in order to offer them the vaccination. the detection of igg and igm for measles has been included for the first time in the periodic occupational health check of lhu, in addition to the usual examinations. this research was also extended to the students of the health professions as a requirement for their internship. the immunization (due to a past infection or vaccination carried out correctly with two doses of vaccine) is checked by the competent physician of the lhu. an education and information campaign started within the hospital about the efficacy and safety of the mmr vaccine. we hope that our work can serve as an example or support for other health lhus, triggering hospitals and local health authorities to implement new operational protocols and actions aimed at preventing problems, such as that of measles, which currently has not found an effective and homogeneous resolution, considering the recurrent outbreaks and spread throughout the national and international area. key points measles is an acute exanthematous viral disease, that is extremely contagious and widespread worldwide this study traced the distribution of the disease among the staff of the belcolle hospital in viterbo, producing useful information for the development of preventive and control measures data were collected from the hospital discharge sheets (hdss) and the notifications of infectious diseases (noids) in 2017, 50 cases of measles were detected in the population in viterbo area, 10 of whom were healthcare professionals and 3 other professional workers employed in the viterbo lhu in 2018, an education and information campaign about the efficacy and safety of the mmr vaccine was initiated within the hospital the measles outbreak gave us the opportunity to monitor for the first time the vaccination coverage against the measles among the hospital employees disclosure this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article references 1. bartolozzi g. vaccini e vaccinazioni. amsterdam: elsevier, 2012 2. antonelli g, clementi m, pozzi g, et al. principi di microbiologia medica. rozzano (mi): casa editrice ambrosiana, 2017 3. european centre for disease prevention and control 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http://www.epicentro.iss.it/morbillo/bollettino/rm_news_2018_48%20def.pdf (last accessed september 2019) cmi 2022;17(1)9-12.html candida guilliermondii peritonitis during peritoneal dialysis. case report and literature review antonio mastroianni 1, valeria vangeli 1, maria vittoria mauro 2, francesca greco 2, filippo urso 3, roberto manfredi 4, sonia greco 1 1 infectious & tropical diseases unit, “annunziata” hospital, cosenza, italy 2 microbiology & virology unit, “annunziata” hospital, cosenza, italy 3 pharmacy hospital, “annunziata” hospital, cosenza, italy 4 infectious diseases institute, alma mater studiorum university of bologna, bologna, italy abstract peritonitis is the most frequent complication of peritoneal dialysis (pd) and 3–6% of episodes have fungal origin. candida guilliermondii is an uncommon species of candida with invasive behavior in patients affected by severe underlying disorders or using indwelling vascular devices. here we report the case of an 84-year-old woman undergoing outpatient pd for 4 years who had fever, chills, and diffuse increasing abdominal pain. after empiric antimicrobial therapy, based on teicoplanin in the dialytic circuit plus oral ciprofloxacin plus fluconazole, the patient was hospitalized. afterwards, the culture from the peritoneal fluid showed the presence of c. guilliermondii. pd-related fungal peritonitis is an infrequent event, but the morbidity and mortality rates are significant. in this scenario, appropriate prevention strategies including antifungal prophylaxis during antibiotic treated bacterial peritonitis should be evaluated. keywords: candida guilliermondii; nephrology; peritoneal dialysis; peritonitis cmi 2023; 17(1): 9-12 http://doi.org/10.7175/cmi.v17i1.1537 case report corresponding author dottor antonio mastroianni infectious & tropical diseases unit “annunziata” hub hospital azienda ospedaliera di cosenza viale della repubblica s.n.c. 87100 cosenza, italy mobile: +39 349 54.44.330 e-mail: antoniomastroianni@yahoo.it   received: 8 september 2022 accepted: 9 may 2023 published: 25 may 2023 why do we describe this case even though peritonitis is a well-known complication of peritoneal dialysis, fungal etiology is rare. as it is burdened by high morbidity and mortality rate, it is mandatory to raise awareness among physicians, who should put in place an effective permanent monitoring of infections introduction initially named endomyces guilliermondi by a. castellani [1], c. guilliermondii complex is a genetically heterogenous group of yeasts including four species, i.e., c. guilliermondii, c. fermentati, c. carpophila, and c. xestobii. c. guilliermondii has a broad environmental diffusion, as is also part of the normal human skin-mucous flora. the c. guilliermondii complex is sometimes misidentified as c. famata and vice versa, because these species share several biochemical characteristics. in the literature, studies reporting epidemiological and clinical information on candidemia and deep-seated infections caused by c. guilliermondii complex are limited. patients with candidemia caused by the c. guilliermondii complex had severe and debilitating underlying conditions. the main conditions predisposing to c. guillermondii infection include malignancy, immunosuppressive therapy, and neutropenia. as an emerging, opportunistic agent, it has an invasive behavior in patients with severe underlying disorders or with indwelling vascular devices. this non-albicans candida species determinates 1–3% of all episodes of candidemia according to geographical regions, with a greater frequency in latin america [2]. nosocomial transmission has been documented, although outpatient transmission has also been reported in nearly 30% of cases [3], the majority being healthcare-related, with central venous catheters (cvcs) involved in a high percentage of patients [3]. catheter removal plays an important role in the management of patients with candida carrying a cvc. overall, the isolates exhibit decreased in vitro susceptibility to fluconazole and echinocandins, whose activity may result dose-dependent [4], although poor biofilm formation and the low virulence have been associated with a favorable outcome [3]. the rate of true fluconazole resistance remains unknown [3] and the mics of micafungin and anidulafungin have been detected 16and 60-fold higher, respectively, than the mics against c. albicans [3]. however, the clinical significance of less susceptibility of c. guilliermondii to triazoles and echinocandins remains to be elucidated. case report an 84-year-old woman undergoing outpatient peritoneal dialysis (pd) for 4 years because of chronic kidney disease secondary to an adult polycystic renal disease developed fever, chills, and diffuse, increasing abdominal pain. the efflux peritoneal fluid proved cloudy, with increased leukocyte-neutrophil count, but there was no microscopical and culture evidence of microorganisms. moderate peripheral leukocytosis accompanied a marked increase of serum c-reactive protein (180 mg/ml). an empiric antimicrobial therapy based on teicoplanin in the dialytic circuit plus oral ciprofloxacin plus fluconazole was started, but patient conditions worsened, leading to hospital admission. while waiting for microbiological assessment, intravenous (i.v.) meropenem, metronidazole and voriconazole were added to intraperitoneal teicoplanin. after three days, from the peritoneal fluid candida guillliermondii grew. the yeast strain tested fully sensitive to voriconazole and all available echinocandins, with a lower fluconazole susceptibility. considering the diagnosis of fungal peritonitis, the antifungal therapy was continued, removing the tenckhoff catheter and activating the hemodialysis treatment. all antibacterial treatments were suspended. a progressive improvement of clinical conditions associated with repeatedly negative weekly cultures from peritoneal fluid allowed the switch from i.v. to oral formulation of voriconazole after two weeks, and its discontinuation after three weeks. discussion peritonitis is the most frequent complication of pd. it is burdened by an elevated frequency of failure of this ultrafiltration technique and a significant morbidity and mortality rate (up to 18% and 16% of subjects, respectively), in accordance with the eligibility criteria for pd and patient comorbidities, although it frequently remains under/misdiagnosed. recently, thanks to the improved prevention measures and the advancements of both biomaterials and techniques, a decreased infection rate was noticed. among the potential causative factors of pd, we underline the contamination of catheters exit sites subcutaneous tunnels, chronic gut disorders, catheter-related bacteremia, gynecologic infections and local invasive procedures, as well as prior antibiotic treatment administered for a peritonitis or a catheter-associated infection. yeast infections are more frequent when intestinal and/or gynecological diseases or procedures are of concern. fungal etiology accounts for 3–6% of episodes of pd-associated peritonitis [2]. it leads to longer hospitalization, higher morbidity and mortality rates, as well as shift to hemodialysis, compared with bacterial ones, because fp is associated with a significant risk of temporary or permanent membrane failure requiring hemodialysis. however, peritonitis caused by fungi carries a higher morbidity and mortality than bacterial infections. in addition, 40% of patients develop a peritoneal fibrosis which does not allow catheter repositioning, whereas the fatality rate may reach 20–30% [2,5]. the major predisposing factor of fungal pd is a previous antibiotic course, especially given for a bacterial peritonitis (34–80% of cases) [2]. as expected, antibiotics modify the normal gut microbiota, favoring the migration of fungi in the peritoneal cavity, which is often already altered in frail, comorbid subjects [2,5]. furthermore, advanced renal diseases lead to a suppression of non-specific defense mechanisms against many infections [5-9]. the largest study of fungal peritonitis in the setting of pd was authored by r. miles and coworkers: 162 cases were reported, with a prevalence of non-albicans candida spp. over c. albicans and other fungi. a two-week antifungal treatment was carried out with fluconazole in the large majority of episodes, but the mortality risk was more frequently related to antimycotic therapy alone (18%), as opposed to catheter removal strategies (13% overall) [10]. c. guillermondii peritonitis during pd was observed again by m. kim et al. in the year 2016 [11]. in conclusion, pd-related fungal peritonitis, although being a proportionally infrequent event, is burdened by a significant morbidity and mortality in subjects undergoing pd. an elevated clinical suspicion should address a prompt diagnosis and a timely treatment in a multidisciplinary setting (including nephrologists, microbiologists, and infectious diseases specialists). in this scenario, appropriate prevention strategies should be evaluated, including antifungal prophylaxis during bacterial peritonites treated with antibiotics that are still controversial, although it is recommended in international society for peritoneal dialysis guidelines, with a strength of recommendation indicated as level 1 (we recommend), and the quality of the supporting evidence as b (moderate quality) [12]. it has been observed that non-albicans candida species, including c. guilliermondii, c. tropicalis, and c. parapsilosis may exhibit higher adhesion abilities, while their biofilm-forming capabilities varied across species [13]. biofilm-forming candida species are more resistant to antimicrobial agents, but little information is available on non-albicans candida biofilms [13]. a permanent monitoring of infections with special attention devoted to emerging bacterial and fungal species, together with the resort to novel treatment strategies, will help in containing these significant nosocomial disorders. key points peritonitis is the most frequent complication of peritoneal dialysis, although it frequently remains under/misdiagnosed. fungal etiology accounts for a small percentage of episodes of peritoneal dialysis-associated peritonitis, but, compared to bacterial ones, it leads to higher morbidity-mortality rate, longer hospitalization, and a shift to hemodialysis. the major predisposing factor of fungal peritoneal dialysis is a previous antibiotic course, that favors the migration of fungi in the peritoneal cavity. consent to publication we confirm that informed consent was obtained from the patient, who has given full permission to publish this case. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. castellani a. observations on the fungi found in tropical bronchomycosis. lancet 1912; 179: 13-15; https://doi.org/10.1016/s0140-6736(00)51698-5 2. akpolat t. tuberculous peritonitis. perit dial int 2009; 29 suppl 2: s166-s169 3. marcos-zambrano lj, puig-asensio m, pérez-garcía f, et al; candipop study. candida guilliermondii complex is characterized by high antifungal resistance but low mortality in 22 cases of candidemia. antimicrob agents chemother 2017; 61: e00099-17; https://doi.org/10.1128/aac.00099-17 4. manfredi r. expansion of a recent class of broad-spectrum antifungal agents: the echinocandins. microbiologia medica 2009; 24: 9-21; https://doi.org/10.4081/mm.2009.2522 5. giacobino j, montelli ac, barretti p, et al. fungal peritonitis in patients undergoing peritoneal dialysis (pd) in brazil: molecular identification, biofilm production and antifungal susceptibility of the agents. med mycol 2016; 54: 725-32; https://doi.org/10.1093/mmy/myw030 6. miles r, hawley cm, mcdonald sp, et al. predictors and outcomes of 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recently diagnosed with decompensated type ii diabetes mellitus, admitted to our department for fever, asthenia, and detection of multiple lung abscesses and pulmonary embolism at chest tomography. his clinical history revealed just a recent orthopedic surgery of osteosynthesis on the left wrist with normal clinical and instrumental post-surgical evolution. empirical antibiotic therapy with piperacillin/tazobactam and clindamycin was initiated. during hospital stay, swelling and functional impotence in the right knee occurred. they were investigated by arthrocentesis and magnetic resonance, and diagnosed as septic arthritis. blood culture performed at admission tested positive for citrobacter koseri on several samples where meropenem was added according to antibiogram. on the other hand, the cultures of bronchoaspirate, pulmonary fine needle aspiration, and arthrocentesis were negative. antibiotic therapy was administered up to two weeks after discharge and radiological and physical features progressively improved. keywords: citrobacter koseri; septic arthritis; fever cmi 2021; 15(1):35-39 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v15i1.1501 case report corresponding author paolo ghiringhelli paolo.ghiringhelli@asst-valleolona.it received: 30 april 2021 accepted: 24 may 2021 published: 30 june 2021 perché descriviamo questo caso? nei pazienti sottoposti a interventi ortopedici e immunodepressi occorre valutare la possibilità di un’infezione da citrobacter koseri come diagnosi differenziale di un’artrite settica. tale patogeno può anche causare una grave infezione sistemica con localizzazioni ascessuali polmonari e muscolo-scheletrica in un’articolazione precedentemente non interessata da particolari patologie introduzione l’artrite settica è una delle principali complicanze della chirurgia ortopedica e spesso è causata da germi gram positivi, in particolar modo appartenenti alla categoria degli staphylococcus spp [1,2]. meno frequentemente sono coinvolti germi gram negativi, che prediligono i pazienti anziani e i soggetti immunodepressi. i citrobacter spp sono comunemente presenti nell’ambiente e nel tratto intestinale dei mammiferi e hanno maggior probabilità rispetto a escherichia coli di dare origine a infezioni nosocomiali; tra i citrobacter spp, citrobacter freundii e citrobacter koseri sono i più patogeni [3]. inoltre citrobacter koseri è una causa conosciuta di meningiti e ascessi cerebrali in epoca neonatale e l’isolamento colturale risulta spesso difficoltoso [4]. solo pochissimi casi di artrite settica da citrobacter koseri sono stati descritti in letteratura e tipicamente risultano coinvolte le articolazioni precedentemente sottoposte a un intervento chirurgico [5]. descrizione del caso parameter detected level normal range wbc (n × 103/µl) 26,500 4,0-10,0 pmn (n × 103/µl) 24,200 1,9-8,0 linfociti (n × 103/µl) 1,500 0,9-5,2 monociti (n × 103/µl) 8,00 0,16-1,00 eosinofili (n × 103/µl) 0 0-0,8 basofili (n × 103/µl) 0 0-0,2 pcr (mg/dl) 10 <0,5 hb (g/dl) 8,5 12-16 mcv (fl) 88 82-98 plt (n/µl) 164.000 150.000-450.000 creatinina (mg/dl) 0,95 0,51-0,95 ast (u/l) 39 <34 alt (u/l) 57 8-41 bilirubina totale (mg/dl) 1,18 <1,2 ck (u/l) 21 <145 ldh (u/l) 200 125-220 proteine totali (g/dl) 5,4 6,0-8,0 albumina (%) 35,9 54-65 ferro (µg) 57 53-167 ferritina (ng) 838 20-120 (donna) transferrina (mg/dl) 224 240-360 tabella i. risultati degli esami di laboratorio alt = alanina aminotransferasi; ast = aspartato aminotransferasi; ck = creatina chinasi; hb = emoglobina; ldh = lattato deidrogenasi; mcv = volume corpuscolare medio; pcr = proteina c reattiva; plt = piastrine; pmn = polimorfonucleati; wbc = leucociti un uomo di 53 anni è stato ricoverato presso il nostro reparto per malessere generale e febbre persistenti da tre settimane, condizionanti un sostanziale allettamento e insorti a distanza di circa due settimane da un intervento ortopedico di osteosintesi del polso sinistro per frattura traumatica metaepifisaria e distacco dell’apice del processo stiloideo dell’ulna. obiettivamente il polso operato non presentava segni di infiammazione e la ferita chirurgica mostrava una regolare evoluzione cicatriziale. in anamnesi emergeva anche una recente diagnosi di diabete mellito di tipo ii scompensato per cui era stata avviata una terapia ipoglicemizzante orale con metformina. in pronto soccorso il paziente si presentava emodinamicamente stabile in aria ambiente; negli esami ematochimici si riscontrava un netto rialzo degli indici di flogosi, come riportato nella tabella i. inoltre il tempo di coagulazione, la vitamina b12 e i folati risultavano nei limiti della norma. alla luce di quanto evidenziato dalla radiografia del torace, veniva richiesta un’indagine di secondo livello con una tc del torace con mezzo di contrasto iodato che confermava la presenza di plurime alterazioni focali polmonari escavate con livelli idroaerei, di cui la maggiore di 45 mm al lobo inferiore sinistro, di significato ascessuale. in concomitanza si rilevavano tromboembolie polmonari che interessavano le diramazioni principali a cavaliere per i lobi superiori e i rami segmentari dei lobi inferiori e medio (figura 1). all’ecocolordoppler venoso degli arti inferiori è stata documentata una trombosi venosa profonda della vena poplitea destra. venivano quindi eseguiti due set di emocolture e successivamente avviata una terapia antibiotica empirica con piperacillina/tazobactam e clindamicina. veniva impostata inoltre una terapia parenterale con enoxaparina a dosaggio scoagulante in funzione del peso corporeo (70 kg, h 170 cm) e dei valori di funzionalità renale. in reparto il test di intradermoreazione per ipersensibilità alla tubercolina e il quantiferon-tb gold test risultavano negativi, così come la ricerca di anticorpi anti-hiv1/hiv2 e di antigeni micotici aspergillari. risultavano negative anche la sierologia per le epatiti, per la sifilide e le indagini autoimmunitarie e veniva esclusa una sindrome da anticorpi antifosfolipidi e una predisposizione trombofilica allo screening effettuato. i valori di emoglobina glicata hba1c confermavano una malattia scompensata (10,8%, 95 mmol/mol). veniva effettuata precocemente un’indagine endoscopica con raccolta di broncoaspirato ed esecuzione di agoaspirato a carico della lesione polmonare maggiore, i cui colturali risultavano, nei giorni a seguire, negativi. risultava negativa anche la ricerca di cellule tumorali maligne in presenza, all’esame microscopico, di numerosi linfociti e macrofagi. le emocolture, cinque giorni dopo la raccolta, diventavano positive per citrobacter koseri mentre il paziente iniziava a manifestare, nonostante un iniziale miglioramento delle condizioni generali, senso di impotenza funzionale al ginocchio destro obiettivamente edematoso rispetto al controlaterale, arrossato e dolorabile alla palpazione. veniva quindi sottoposto ad artrocentesi per riscontro ecografico di versamento articolare, anch’esso risultato negativo per isolamenti colturali in un quadro fortemente sospetto per artrite settica dopo esame microscopico e chimico-fisico del liquido sinoviale ed esecuzione di una risonanza magnetica con mezzo di contrasto mirata (figura 2). figura 1. sezione trasversale della tomografia computerizzata del torace con mezzo di contrasto effettuata al momento del ricovero che mostra una evidente lesione escavata al lobo inferiore sinistro di 45 mm con livello idroaereo riferibile a raccolta ascessuale. concomita versamento pleurico omolaterale in sede antideclive in fase di organizzazione. un’altra formazione più piccola si visualizza in questa scansione al lobo inferiore destro figura 2. risonanza magnetica del ginocchio destro eseguita mediante sequenze multiplanari t1-t2 dipendenti senza e con soppressione del segnale adiposo, prima e dopo contrasto gadovist® 0,1 ml/kg endovena. l’immagine ottenuta in sequenza t2 documenta versamento endoarticolare che distende il recesso sovrapatellare con aumentato enhancement sinoviale in un quadro compatibile con artrite settica. veniva quindi modificata la terapia antibiotica con l’avvio di meropenem 1 g e.v. ogni 8 ore. il riscontro di sangue occulto nelle feci induceva a completare le indagini con esofagogastroduodenoscopia con riscontro di lieve candidosi esofagea e con colonscopia, negativa per lesioni organiche; nessun riscontro alla coprocoltura e all’esame coproparassitologico. successivamente le emocolture di sorveglianza risultavano negative. dopo due settimane di terapia antibiotica con meropenem gli esami mostravano una completa normalizzazione dell’emocromo e degli indici di flogosi. la tomografia del torace di controllo mostrava un regolare decorso dei reperti, ragion per cui veniva dimesso con indicazione a proseguire la terapia anticoagulante orale. la visita ortopedica a un mese dalla dimissione non poneva ulteriori indicazioni: proseguiva, pertanto, con la sola fisiochinesiterapia. gli errori più comuni non investigare la storia medica passata con attenzione non eseguire gli esami colturali prima dell’avvio di una terapia antibiotica non considerare la possibilità che la sepsi abbia avuto origine da un intervento chirurgico con una regolare evoluzione clinica non considerare la possibilità di isolare germi rari in pazienti immunodepressi escludere un’artrite settica in un’articolazione altrimenti sana discussione l’artrite settica è un’infezione di un’articolazione di solito a eziologia batterica causata principalmente da germi appartenenti alle specie neisseria, staphylococcus e streptococcus. neisseria è il maggior responsabile nei pazienti giovani sessualmente attivi, mentre gli altri casi si verificano prevalentemente nei soggetti anziani o immunodepressi a seguito di un intervento chirurgico ortopedico. la diagnosi è fondamentalmente clinica anche se vengono in aiuto gli esami bioumorali e colturali; gli esami radiologici sono di grande importanza per la valutazione del danno articolare e osseo anche se in modo aspecifico. il trattamento cardine è rappresentato dalla terapia antibiotica mirata e dall’eventuale revisione chirurgica [6,7]. citrobacter koseri è un bacillo gram negativo, aerobio, appartenente alla famiglia delle enterobacteriaceae, presenti nell’ambiente e nella flora di molte specie animali, tra cui l’uomo. citrobacter freundii e citrobacter koseri sono i principali patogeni nell’uomo [8,9]. oltre il 70% delle infezioni da citrobacter è nosocomiale. talora queste infezioni sono polimicrobiche e frequentemente risultano correlabili a procedure invasive: le condizioni più comuni sono rappresentate dalle infezioni del tratto urinario, seguite dalle infezioni intraddominali, talora post-chirurgiche, e dalle infezioni dei tessuti molli e del tratto respiratorio [10]. citrobacter koseri in epoca neonatale è in grado di determinare osteomieliti e gravi infezioni del sistema nervoso centrale con un alto tasso di mortalità e postumi neurologici [11-13]. le infezioni muscolo-scheletriche da citrobacter koseri nell’adulto sono estremamente rare, con pochi casi descritti in letteratura a partire dal 1980 e quasi tutti correlabili a interventi ortopedici. in questi casi l’insorgenza dei sintomi da artrite settica può risultare tardiva, anche dopo alcune settimane dall’intervento, e la terapia antibiotica è stata protratta per 6-8 settimane. non sorprende come queste condizioni siano state evidenziate più frequentemente nei soggetti anziani o a maggior rischio infettivo come i pazienti affetti da diabete mellito scompensato e alcolismo [14], anche se in un’occasione è stato descritto un caso di osteomielite vertebrale, diagnosticata un mese dopo una sepsi da citrobacter koseri a partenza dalle vie aeree inferiori in un soggetto senza apparenti gravi condizioni predisponenti [15]. inoltre può essere molto difficile isolare questo bacillo agli esami colturali, che spesso diventano positivi solo tardivamente. viene frequentemente riscontrata una resistenza alla penicillina e sono stati riportati casi di resistenza agli antibiotici più moderni. nonostante la sua aggressività in individui predisposti, citrobacter koseri risponde bene alle cefalosporine e ai beta-lattamici più moderni come i carbapenemi qualora non venga ritardata eccessivamente la diagnosi [5]. il nostro paziente non ha mostrato una complicanza infettiva in sede del recente intervento ortopedico di osteosintesi al polso, bensì una grave setticemia, a distanza di circa cinque settimane dall’intervento, da citrobacter koseri con plurime localizzazioni ascessuali polmonari e una localizzazione settica a carico dell’articolazione del ginocchio antecedentemente non patologica. l’isolamento colturale sul sangue è avvenuto abbastanza tardivamente rispetto alla raccolta delle emocolture e ciò ha comunque permesso di modificare la terapia antibiotica in modo mirato avviando la somministrazione di meropenem. nessun isolamento colturale è avvenuto invece con il broncoaspirato, con l’agoaspirato delle lesioni polmonari o con l’artrocentesi nonostante siano stati eseguiti precocemente rispetto alla presentazione della sintomatologia. dopo due settimane dall’avvio del carbapenemico si è verificata una pronta risoluzione del quadro infettivo sistemico con netto miglioramento radiologico del quadro polmonare e ripresa funzionale dell’articolazione per cui è stata interrotta la terapia antibiotica e il paziente è stato avviato a follow up ortopedico con buon recupero articolare a distanza di un mese. questo risultato, dopo due settimane di terapia con meropenem, inferiore in durata a quanto descritto in letteratura per le artriti da citrobacter koseri, può essere spiegato dal fatto che la plausibile embolizzazione settica articolare sia avvenuta su una articolazione in precedenza normale. conclusioni questo caso vuole sottolineare l’importanza di considerare un’infezione da citrobacter koseri nella diagnosi differenziale di una artrite settica, in particolar modo nell’ambito delle infezioni nosocomiali in pazienti anziani o immunodepressi come i soggetti affetti da diabete mellito in scarso controllo glicemico. inoltre si pone in evidenza come in casi simili questo bacillo possa dimostrarsi molto aggressivo determinando un grave stato settico a distanza di tempo dall’intervento con possibili localizzazioni ascessuali sistemiche, nel nostro caso polmonari e muscolo-scheletriche, anche in presenza di una normale guarigione locale post-chirurgica. punti chiave l’artrite settica è spesso insidiosa all’esordio è fondamentale l’analisi del liquido sinoviale alla ricerca dei parametri fondamentali per una diagnosi differenziale: trasparenza, colore, viscosità, numero di globuli bianchi, conta dei neutrofili e la coltura per guidare la terapia antibiotica. occorre valutare attentamente le condizioni cliniche del paziente, l’età e l’eventuale assunzione di farmaci immunosoppressivi fonti di finanziamento questo articolo è stato pubblicato senza il supporto di sponsor. conflitti d’interesse gli autori dichiarano di non avere conflitti d’interesse nella stesura di questo articolo. consenso alla pubblicazione il consenso alla pubblicazione è stato ottenuto dal paziente descritto in questo articolo. bibliografia 1. sharff ka, richards ep, townes jm. clinical management of septic arthritis. curr rheumatol rep 2013; 15: 332; https://doi.org/10.1007/s11926-013-0332-4 2. bauer t, boisrenoult p, jenny jy. post-arthroscopy septic arthritis: current data and practical recommendations. ortop traumatol surg res 2015; 101 (8 suppl): s347-s350 3. drelichman v, band jd. bacteremias due to citrobacter diversus and citrobacter freundii. incidence, risk factors and clinical outcome. arch intern med 1985; 145: 1808-10 4. doran ti. the role of citrobacter in clinical disease of children: review. clin infect dis 1999; 28: 384-94; https://doi.org/10.1086/515106 5. kwaees ta, hakim z, weerasinghe c, et al. muscoloskeletal infections associated with citrobacter koseri. coll 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1, dimitri peterlana 1, roberto bonmassari 2, angela zappaterra 3, walter spagnolli 4 1 dirigente medico unità operativa medicina interna, ospedale santa chiara, trento 2 direttore unità operativa cardiologia, ospedale santa chiara, trento 3 medico in formazione specialistica in medicina interna università degli studi di verona, unità operativa medicina interna, ospedale santa chiara, trento 4 direttore unità operativa medicina interna, ospedale santa chiara, trento abstract here we describe the case of a 68-year-old italian female who was admitted in our hospital for the occurrence of arthralgia, abdominal pain and general discomfort. the clinical picture was complicated by recurrent febrile episodes up to 40°c associated with skin rush and cardio-respiratory failure with ecg ischemic alteration, tnt-hs troponin elevation and an ipo-akinetic alteration of the apex at the echocardiogram examination. after an intensive workup, the diagnosis of an adult still’s disease was formulated according to the classification criteria. moreover, the patient underwent coronarographic study and cardiac mr that, collectively, supported the diagnosis of tako-tsubo syndrome. the patient was treated with steroid obtaining the remission of the disease. myocardial injury with adult still’s disease was been rarely reported. in our case we observed for the first time, to our knowledge, a case of adult still’s disease complicated by a tako-tsubo syndrome. keywords: fever of unknown origin (fuo); adult-onset still’s disease; tako-tsubo syndrome adult still’s disease and tako-tsubo syndrome cmi 2012; 6(4): 135-139 caso clinico corresponding author dott.ssa susanna cozzio dirigente medico unità operativa medicina interna ospedale santa chiara – largo medaglie d’oro 1 38122 trento tel. reparto 0461 903960 tel. casa 0461 925251 cell: 328 8730707 disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo perché descriviamo questo caso il caso clinico descritto focalizza l’attenzione sulla malattia di still dell’adulto, diagnosi spesso difficile sia per il medico internista sia per il reumatologo, e possibile solo dopo un adeguato percorso di diagnosi differenziale. l’interessamento cardiaco nella malattia di still è raro e l’associazione tra la sindrome di tako-tsubo, entità cardiologica di recente definizione, e il morbo di still non è stata mai descritta introduzione il termine “febbre di origine sconosciuta” o “febbre da causa ignota” (fever of unknown origin, fuo) fu introdotto da petersdorf e beeson nel 1961 per indicare: una febbre con temperatura superiore ai 38,3°c riscontrata in più occasioni; una durata della febbre superiore a tre settimane; l’impossibilità di formulare una diagnosi dopo una settimana di accertamenti in un paziente ricoverato. formulare una diagnosi corretta richiede un iter clinico-strumentale spesso lungo e complesso. fra le cause responsabili vanno annoverate le infezioni di varia natura, le neoplasie, le patologie autoimmuni, alcune malattie ereditarie e dismetaboliche e le alterazioni della termoregolazione [1]. il morbo di still dell’adulto è una malattia infiammatoria sistemica che spesso esordisce come una fuo e un corollario di segni e sintomi aspecifici; non esistono test di laboratorio né strumentali patognomonici e la diagnosi viene posta in accordo con i criteri classificativi di diagnosi e solo dopo aver escluso le altre cause di febbre. in letteratura è raramente riportato un interessamento cardiaco in corso di morbo di still dell’adulto; nei casi descritti il coinvolgimento miocardico si può manifestare come processo mio-pericarditico o come un danno miocardico su base microangiopatica [2]. nell’ultimo decennio sono accresciuti l’interesse e la consapevolezza verso una nuova entità sindromica di interessamento cardiaco denominata sindrome di tako-tsubo o apical ballooning syndrome (abs). questa cardiomiopatia reversibile si manifesta con un quadro clinico, elettrocardiografico e laboratoristico indistinguibile da una sindrome coronarica acuta e tipicamente viene innescata da situazioni di stress psicofisico di varia natura. descriviamo un caso di morbo di still dell’adulto associato a una sindrome di tako-tsubo. descrizione del caso parametro valore range di normalità hb 14 g/dl 12-16 g/dl ht 40% 35-48% gb 6.000/mm3 4.100-10.000/mm3 ptl 130.000/mm3 150.000-400.000/mm3 pcr 51 mg/l < 6 mg/l amilasi pancreatica 165 u/l 8-53 u/l ast 30 u/l 5-40 u/l alt 24 u/l 5-40 u/l ldh 1.582 u/l 87-241 u/l ferritina > 2.000 ng/ml 8-140 ng/ml tabella i. parametri bioumorali più significativi alt = alanina transaminasi; ast = aspartato transaminasi; gb = globuli bianchi; hb = emoglobina; ht = ematocrito; ldh = lattico deidrogenasi; pcr = proteina c reattiva; ptl = piastrine una donna di 68 anni viene inviata dal medico di medicina generale al nostro ospedale per comparsa da circa due mesi di astenia, dolore addominale ricorrente, inappetenza, alcuni episodi di febbre elevata e diarrea. tre mesi prima del ricovero si era manifestata la comparsa di artralgie diffuse, ancora presenti, per cui era stata formulata diagnosi di probabile artrite reumatoide sieronegativa con esordio senile e consigliata terapia con idrossiclorochina subito sospesa per comparsa di eruzione cutanea e metilprednisone assunto dalla paziente in modo discontinuo e sospeso dieci giorni prima del ricovero. all’ingresso si presentava in buone condizioni generali con esame obiettivo sostanzialmente normale; in particolare non vi erano segni di flogosi articolare né febbre. gli esami ematochimici più significativi sono mostrati in tabella i. dato il netto incremento della lattico deidrogenasi (ldh) e della ferritina sierica veniva posto il sospetto di febbre sistemica in patologia linfoproliferativa. alla tc addome erano riconoscibili alcuni linfonodi in sede para-aortica sinistra e nel ventaglio mesenteriale, lungo gli assi iliaci comuni di cui i maggiori di circa 1,9 cm. la tc pet rilevava una diffusa linfadenopatia aspecifica in tutte le stazioni linfonodali. la biopsia linfonodale non veniva eseguita per difficoltà nell’individuare ecograficamente linfonodi nelle stazioni superficiali. la biopsia osteo­midollare risultava nei limiti. la paziente durante la degenza presentava puntate febbrili fino a 40°c accompagnate da rash cutaneo evanescente al tronco e profonda astenia, per cui veniva posta in terapia antibiotica inizialmente con ceftriaxone e in seguito con meropenem. in tali occasioni gli esami ematochimici eseguiti, comprensivi di emocolture, urocolture e sierologia per autoimmunità, risultavano sempre nella norma. all’emocromo i globuli bianchi erano fra 2.500 e 5.000/mm3 con modica linfopenia alla formula leucocitaria e la pcr risultava solo modestamente elevata. in occasione di un rialzo febbrile la paziente manifestava edema polmonare acuto accompagnato da severo broncospasmo e dolore toracico, per il quale si rendeva necessario somministrare ossigenoterapia, furosemide e corticosteroide per via sistemica. veniva documentato, inoltre, il rialzo della troponina tnt-hs (289; vn < 14 pg/ml) con comparsa all’ecg di onde t negative diffuse, qtc nella norma (figura 1). figura 1. a: ecg all’ingresso. b: ecg durante dolore toracico, con comparsa di onde t negative in sede antero-laterale l’ecocardiogramma eseguito in urgenza evidenziava un quadro di ipo-acinesia dell’apice con aspetto globoso (aspetto tako-tsubo-like) associato a moderata depressione della funzione sistolica globale. in seguito si eseguiva una risonanza magnetica cardiaca (figura 2) che permetteva di escludere una miocardite; la coronarografia eseguita a completamento diagnostico escludeva stenosi coronariche emodinamicamente significative confermando quindi l’ipotesi di sindrome tako-tsubo. figura 2. rmn cardiaca – dilatazione apicale del ventricolo sinistro alla luce della risposta clinica alla terapia steroidea, della aspecificità delle indagini sierologiche e strumentali e sulla base dei criteri diagnostici della letteratura veniva formulata diagnosi di morbo di still dell’adulto. la paziente veniva posta in terapia steroidea con prednisone al dosaggio di 1 mg/kg/die per 7 giorni e in seguito a scalare con sospensione completa dopo 3 mesi. si osservava un netto e rapido miglioramento del quadro clinico con recupero ottimale della cenestesi. a distanza di sei mesi dal ricovero la paziente rimaneva asintomatica e in compenso emodinamico. nel corso del follow-up si raggiungeva una completa normalizzazione di ldh e ferritina. l’ecg e l’ecocardiogramma documentavano, rispettivamente, normalizzazione della ripolarizzazione ventricolare, della funzione sistolica globale e della cinetica ventricolare sinistra. discussione il morbo di still dell’adulto è una malattia infiammatoria sistemica a eziologia sconosciuta, caratterizzata da febbre, tipico rash cutaneo e coinvolgimento multi-organo [3,4]. nel caso da noi descritto è stata formulata la diagnosi di morbo di still dell’adulto in accordo con i criteri diagnostici di fautrel e yamaguchi, dopo aver escluso la patologia autoimmune, neoplastica e infettiva [5,6] (tabelle ii e iii). criteri maggiori criteri minori criteri di esclusione artralgie > 2 settimane febbre > 39°c, intermittente per più di 1 settimana eruzione cutanea tipica (macula papulare, non pruriginosa) leucocitosi > 10.000/mm3 (> 80% neutrofili) faringodinia linfoadenopatia/splenomegalia alterazione degli indici di citolisi epatica fr e ana negativi infezione/sepsi infezione da ebv neoplasie malattie infiammatorie tabella ii. criteri di classificazione proposti da yamaguchi [5] per il morbo di still dell’adulto: prevedono la presenza di 5 criteri per porre diagnosi di morbo di still, di cui 2 devono essere criteri maggiori ana = anticorpi anti-nucleo; ebv = virus di epstein-barr; fr = fattore reumatoide criteri maggiori criteri minori artralgie febbre > 39°c eruzione cutanea transitoria ferritina glicosilata < 20% neutrofili > 80% faringodinia eruzione maculopapulare leucocitosi > 10.000/mm3 tabella iii. criteri di classificazione proposti da fautrel e colleghi [6] per il morbo di still dell’adulto. per la diagnosi di morbo di still sono necessari almeno 4 o più criteri maggiori o 3 maggiori + 2 minori la peculiarità di questo caso è che, in coincidenza a una fase di acuzie con picco febbrile importante, la paziente ha manifestato un quadro di insufficienza cardio-respiratoria accompagnata da dolore toracico, modificazioni elettrocardiografiche di tipo ischemico, movimento troponinico e alterazioni ecocardiografiche con discinesia apicale. l’interessamento cardiaco in corso di still è raro nell’adulto e ritenuto secondario a un danno di tipo miocarditico e/o microangiopatico. nei pochi casi fino ad ora descritti in letteratura, la disfunzione cardiaca è caratterizzata da un’ipocinesia ventricolare diffusa dimostrata sia allo studio coronarografico sia allo studio scintigrafico. nel lavoro di ueda e colleghi [7], in particolare, era stato possibile documentare alla biopsia miocardica un infiltrato infiammatorio interstiziale come possibile causa della disfunzione che regrediva dopo terapia antinfiammatoria/immunosoppressiva. nel caso da noi descritto la disfunzione ventricolare era correlata a un interessamento della porzione apicale del ventricolo sinistro come documentato sia all’ecocardiogramma sia allo studio emodinamico. inoltre, mediante rmn cardiaca venivano escluse alterazioni del miocardio sia di tipo ischemico sia miocarditico, mentre si confermavano le alterazioni settoriali della cinetica ventricolare permettendo di porre diagnosi di sindrome di tako-tsubo. la sindrome di tako-tsubo, nota anche come apical ballooning syndrome, è un’entità di recente definizione caratterizzata da disfunzione ventricolare con caratteristiche cliniche simili alla sindrome coronarica acuta; essa è spesso precipitata da eventi “stressanti” sia di natura psichica, sia soprattutto fisica e tipicamente è transitoria e con buona prognosi [8-10]. criteri diagnostici della mayo clinic per la sindrome di tako-tsubo ipo-acinesia o discinesia transitoria dei segmenti medi del ventricolo sinistro con o senza coinvolgimento dell’apice; le anormalità di motilità della parete si estendono oltre il territorio di irrorazione di una singola arteria coronarica; un innesco stressante è spesso ma non sempre presente assenza di stenosi coronarica significativa e assenza di evidenza angiografica di rottura di placca acuta comparsa di alterazioni ecg (sia sopraslivellamento st sia inversione onda t) o modesto aumento della tnt assenza di miocardite e feocromocitoma diversi meccanismi patogenetici sono stati proposti, fra cui lo spasmo coronarico e lo stunning miocardico catecolamino-indotto. nel nostro caso, la comparsa della disfunzione miocardica di tipo tako-tsubo coincideva con l’aggravamento clinico; è pertanto ipotizzabile che la tempesta citochinica pro-infiammatoria che sostiene il morbo di still possa essere un fattore di danno vascolare/endoteliale a livello cardiaco che, nei soggetti predisposti, si estrinseca nella sindrome di tako-tsubo. riteniamo possibile che i casi riportati in letteratura di interessamento cardiaco in corso di morbo di still, in epoca antecedente l’introduzione della risonanza magnetica cardiaca e la formulazione della sindrome di tako-tsubo, possano essere assimilati al caso da noi descritto. punti chiave la febbre di origine sconosciuta (fuo) è un frequente motivo di accesso alle cure ospedaliere. una rara causa di fuo è rappresentata dal morbo di still dell’adulto la diagnosi di morbo di still dell’adulto è spesso difficile e presuppone, dopo aver adeguatamente escluso altre cause, di soddisfare i criteri classificativi proposti dalla letteratura l’interessamento cardiaco in corso di morbo di still, più frequente in età pediatrica, rappresenta un evento molto raro negli adulti e generalmente si manifesta sia come miocardite sia come pericardite la sindrome di tako-tsubo rappresenta una disfunzione ventricolare sinistra acuta, secondaria a ipo-acinesia transitoria dei segmenti medi del ventricolo sinistro, talvolta con coinvolgimento dell’apice, spesso precipitata da eventi stressanti per porre diagnosi di sindrome di tako-tsubo è necessario escludere, oltre a una stenosi coronarica significativa, una miocardite nel caso da noi descritto l’esecuzione di coronarografia e rmn cardiaca ha permesso di porre diagnosi di sindrome di tako-tsubo in corso di morbo di still bibliografia gelfand j, callahan m. febbre di origine sconosciuta. in: kasper dl, braunwald e, fanci as, et al. harrison, principi di medicina interna, 16° edizione. milano: mcgraw hill, 2005; 18: 137-42 nishimagi e, hirata s, kawaguchi y, et al. myocardial dysfunction in a patient with adult-onset still’s disease (aosd). clin exp rheumatol 2004; 22: 506-7 bywaters eg. still’s disease in the adult. 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transient left ventricular dysfunction under severe stress: brain-heart relationship revisited. am j med 2006; 119: 10-7 cmi 2021;15(1)25-29.html iatrogenic hypoglycemia induced by valproic acid in an adult patient eugenia rota 1, paola varese 2, luciano arena 1, lorenzo celli 1, irene pappalardo 1, nicola morelli 3 1 neurology unit, san giacomo hospital, novi ligure, al, italy 2 internal medicine unit, ovada hospital, al, italy 3 neurology and radiology unit, guglielmo da saliceto hospital, piacenza, italy abstract literature on antiepileptic-induced iatrogenic hypoglycemia is scanty. due to its broad spectrum of activity and mechanisms of action, valproic acid (vpa), a fatty acid, is one of the most widely prescribed epilepsy treatments worldwide. herein, we describe an adult epileptic patient, in whom persistent, otherwise unexplained, hypoglycemia was most likely induced by vpa, as suggested by the vpa and glucose blood level time course. indeed, no further hypoglycemic episodes occurred after vpa discontinuation and the diagnostic work-up ruled out other possible causes of hypoglycemia. this case supports the hypothesis that vpa may induce hypoglycemia, even in the absence of a vpa hepatotoxicity syndrome, due to still not well-defined metabolic mechanisms of action. moreover, it emphasizes the fact that an iatrogenic pathogenesis should be considered if an apparently unexplained hypoglycemia occurs in a patient on chronic therapy with vpa, even at a therapeutical dosage. keywords: hypoglycemia; valproic acid (vpa); epilepsy; side effects; diabetes mellitus; iatrogenic effects; seizure cmi 2021; 15(1): 25-29 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v15i1.1487 case report corresponding author eugenia rota, m.d. department of neurology, aslal san giacomo hospital via e. raggio 12, 15067, novi ligure, alessandria, italy tel. +39 0143-332431; fax +39 0523-332576 email: eugenia.rota.md@gmail.com received: 5 october 2020 accepted: 3 february 2021 published: 23 april 2021 why do we describe this case to the best of our knowledge, very few cases of adult hypoglycemia induced by therapeutical vpa levels have been reported to date. moreover, this case evidences that the suspicion of an iatrogenic pathogenesis should be explored in patients on chronic antiepileptic therapy with vpa if they have an apparently unexplained hypoglycemia introduction valproic acid (vpa), a branched short-chain fatty acid, is a widely used anti-epileptic drug with a broad spectrum of activity and mechanisms of action [1]. it is used for the treatment of several types of seizure and epileptic syndromes, including generalized and focal seizures [2]. moreover, it is commonly used for migraine prophylaxis and in the treatment of bipolar disorder, as a mood tone stabilizer. vpa, as a therapeutic agent, is commercially available as depakote®, depakote er®, depakene®, depacon®, stavzor®, mylproin®, ergenyl®, dipropylacetic acid, myproic acid, and convulex®. to date, its mechanism of action has not yet been fully clarified. although vpa does not directly interact with postsynaptic gaba receptors, it does increase regional neuronal gaba concentrations by both inhibiting its metabolism and increasing its synthesis [1]. preclinical research on animal models has shown the involvement of ion channels, monoamines, the corticotropin-releasing factor, and intracellular signaling proteins in the mechanism of action of vpa [2,3]. it has also recently emerged that vpa inhibits histone deacetylation and regulates the transcription of various genes. this effect implies it has a potential role as anti-cancer drug and as possible antidiabetic agent [4]. however, it has been demonstrated that vpa administration may cause numerous side effects and/or pharmacological interference and, thus, requires strict clinical and laboratory control, with serum level monitoring [5]. indeed, vpa can lead to hyponatremia due to an inappropriate antidiuretic hormone secretion. it can also cause hematologic toxicity (thrombocytopenia, leucopenia, macrocytic anemia), severe liver damage, kidney failure, hypothyroidism, hyperammonemia, rhabdomyolysis, hyperandrogenism, pancreatitis, as well as teratogenicity. the mechanisms underlying most of these side effects have not yet been completely understood [3,6,7]. it has been reported that drug-induced hypoglycemia as a cause of acute medical admissions ranges from 0.1% to 1.7% [8]. literature reports several types of non-diabetic drugs that may induce hypoglycemia, including: nsaids, analgesics, antibacterials, antimalarials, pentamidine, ß-adrenergic receptor antagonists (ß-blockers), antiarrhythmics, ace-inhibitors, fibrates, and antidepressants [9]. ben salem et al. also reported that some antiepileptic drugs (gabapentin, phentoin, topiramate) caused iatrogenic hypoglycemia [9]. it was hypothesized that the underlying mechanisms were insulin release or the reduction of its clearance, and/or an interference in the glucose metabolism [9]. herein, we report a case of persistent hypoglycemia episodes, which were most likely induced by vpa, administered at an appropriate dosage in an epileptic patient. case presentation a 49-year-old male, affected by an epileptic syndrome from the birth, was admitted to our neurology unit for recurrent focal seizures to bilateral tonic-clonic seizures. his clinical history included diabetes mellitus (dm) type 2 treated by metformin, oligophrenia, associated with the epileptic syndrome, which was probably structural, related to perinatal hypoxic damage, and secondary psychosis, treated with risperidone. he had been on vpa therapy, at 1000 mg bid, for about a year before being hospitalized in our department. two eegs performed in the previous 2 months had shown no evidence of epilepsy. the patient had been admitted to our emergency department the previous month for respiratory failure and bilateral pneumonia, which had evolved into septic shock requiring intensive care. although recurrent hypoglycemia was observed, it was attributed both to the septic state and his reduced food intake. his hepatic function was normal, i.e., alanine transaminase 30 mg/dl, aspartate transaminase 35 mg/dl, and ammonium levels were within normal levels (35 mg/dl), as was the renal function. when he arrived in our division, he was still on maintenance therapy, i.e., methylprednisolone (40 mg daily), prescribed when he had been admitted to the icu, and risperidone 1 mg daily: no variation was made to the treatment. he had continuous glucose infusions. the patient was transferred to an internal medicine department after a week, where the hypoglycemia episodes persisted and a generalized epileptic seizure occurred, even though his vpa plasma levels were in the therapeutic range. a more in-depth medical history brought to light two previous diabetology consultations for hypoglycemia in the previous year. as the first hypothesis was that his symptoms were attributable to metformin, it was discontinued. clinical investigations were made, firstly a diabetology assessment, dosing of c-peptide (it was within normal limits), and an abdomen ct scan. the simultaneous determination of insulinemia and blood glucose, the insulin-blood glucose ratio and the concomitant determination of insulinemia and blood glucose during 24-48-72 hours of fasting were unremarkable. no neuroendocrine tumor was found by the abdomen ct scan, and neuron-specific enolase and chromogranin a were normal. an iatrogenic effect was then hypothesized, with the suspicion that vpa played some kind of role. therefore, the patient was transferred back to the neurology unit for rapid vpa withdrawal (500 mg bid for two days, then withdrawn), switching to levetiracetam (lvt) at 1000 mg bid. the hypoglycemic episodes persisted for another week, especially during the morning. it took 7 days for the blood glucose values to normalize after vpa withdrawal (figure 1). a steady normoglycemic state was then maintained and epilepsy was kept under good control by levetiracetam. figure 1. glucose and valproic acid level time course (on the abscissa the days from admission to the neurology unit) discussion vpa is known to have several side effects, including teratogenicity and hyperammonemia, with possible serious encephalopathy [3,6] and it is difficult to predict the individual response to treatment and the appearance of side effects. the recent developments of pharmacogenomics has brought to light the fact that there are numerous genes which may influence vpa metabolism, efficacy and safety. this may, in part, explain the individual variability of plasma levels and the onset of some serious side effects, including liver toxicity and teratogenicity [7]. our patient had type 2 dm and a good metabolic compensation. he was hospitalized for sepsis associated with respiratory failure and admitted to the icu, where the emerging episodic hypoglycemia was attributed to his septic state. but the hypoglycemia progressed, despite the fact that the inflammatory state remitted. a diagnostic work up investigated into the possible pathogenesis of the hypoglycemia and reasonably ruled out: an iatrogenic nature (metformin), organic endogenous causes (insulin, congenital metabolic diseases, and extra-pancreatic cancers), as well as functional endogenous causes (postprandial reactive hypoglycemia, pituitary and cortico-surrenalic insufficiency, liver disease, malnutrition), and a vpa hepatotoxicity syndrome. as the c-peptide connects the insulin a-chain to its b-chain in the proinsulin molecule, it was dosed. proinsulin is the precursor of the insulin synthesized in the ß-pancreatic cells. as c-peptide and insulin are released into the circulation in equimolar quantities by pancreas ß-cells, assessing circulating c-peptide levels provides an indirect evaluation of insular ß activity. c-peptide assessment is often preferred to insulin assessment as it is metabolized in the proximal renal tubes and not by the liver and has a slower metabolism and lacks cross-reactivity with antibodies directed towards insulin [10]. in our patient, the c-peptide tuned out to within the normal limits. moreover, the vpa level decrease observed after withdrawal was followed by a blood glucose increase (figure 1), supporting the hypothesis that vpa played a direct role in hypoglycemia as a side effect, even though the decline in vpa serum concentrations took somewhat longer than expected. this time course of vpa level decrease and glucose rise, after a week interval from the vpa nadir, pointed to a possible role of other factors, mainly pharmacological (the other drugs co-administered), but also clinical (the comorbidities), which might have affected the vpa half-life and the restoration of a normal glucose metabolism. however, a vpa hepatotoxicity syndrome was ruled out by the normal liver function, including blood ammonia levels, and by the absence of jaundice. the relationship between vpa and hypoglycemia has been reported above all in animal models. experiments in diabetic rats treated with vpa showed a dose-dependent reduction in blood glucose, which peaked around the 21st day of administration (a reduction of 52.79%), whilst in normal glycemic rats the peak was reached over the same period at a percentage of 15.63% [11]. these results and further findings on animal models [12] suggest that vpa has antidiabetic properties. moreover, literature has described some cases of neonatal hypoglycemia after in utero exposure to valproate [13-15]. cases of vpa-induced hypoglycemia in adults have been reported almost exclusively in the context of hepatic failure due to vpa intoxication [16]. to the best of our knowledge, there are very few reports on hypoglycemia induced by therapeutical levels of vpa [17]. vpa has not been included in the list of non-diabetic agents reported as being responsible for hypoglycemia [18]. apart from hepatic failure, it may be hypothesized that there are some other underlying mechanisms that mediate the hypoglycemic effect of vpa, i.e., insulin release, or its reduced clearance and/or interference with the glucose metabolism at multiple levels [9]. indeed, on the basis that vpa may induce pancreatitis, it may be supposed that vpa has a metabolic influence on insulin release at a pancreatic level [9]. moreover, it has been hypothesized that vpa acts as a substrate for the fatty acid β-oxidation pathway, leading to carnitine consumption. therefore, when fatty acid β-oxidation is inhibited by a low carnitine level, the fasting hepatic gluconeogenesis may be decreased, leading to hypoglycemia [17]. conclusions antiepileptic-induced iatrogenic hypoglycemia, in particular vpa-induced, has not been commonly reported, nor is it included in the side effects described in the vpa datasheet. the case herein reported in an adult patient supports the hypothesis that vpa may induce hypoglycemia, by mechanisms and metabolic effects that remain to be defined, even at a therapeutical dosage. therefore, we strongly suggest that whenever there is a case of apparently unexplained hypoglycemia in a patient on chronic therapy with vpa, the possibility of there being an iatrogenic pathogenesis should be carefully evaluated. as currently only anecdotal reports are available, the effect of vpa on glucose metabolism should be better clarified by future investigations. indeed, a better understanding of these mechanisms may well lead to better and safer management of vpa therapy and may even prompt research on the possible, novel indications for metabolic control in patients with glucose intolerance. key points vpa may induce hypoglycemia, even at a therapeutical dosage. cases of apparently unexplained hypoglycemia in patients on chronic vpa therapy should be carefully evaluated to rule out an iatrogenic pathogenesis. hopefully, future studies will shed light on the mechanisms underlying the hypoglycemia induced by vpa and the effect vpa has on the glucose metabolism. consent to publication the consent to publication was obtained from the patient’s relative. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. owens mj, nemeroff cb. pharmacology of valproate. psychopharmacol bull 2003; 37 suppl 2: 17-24 2. beghi e. treating epilepsy across its different stages. ther adv neurol disord 2010; 3: 85-92; https://doi.org/10.1177/1756285609351945 3. johannessen cu, johannessen si. valproate: past, present, and future. cns drug rev 2003; 9: 199-216; https://doi.org/10.1111/j.1527-3458.2003.tb00249.x 4. yamato e. high dose of histone deacetylase inhibitors affects insulin secretory mechanism of pancreatic beta cell line. endocr regul 2018; 52: 21-6; https://doi.org/10.2478/enr-2018-0004 5. dreifuss fe, langer dh. side effects of valproate. am j med 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michele zaza 1, roberto bertolini 2, cinzia simoni 2, lorenzo bellintani 1, andrea agostinelli 1, federica macchi 1, sara limbiati 1, michela provisione1 1 medicina interna, ospedale di circolo di busto arsizio, asst valle olona, italy 2 medicina interna, ospedale di gallarate, asst valle olona, italy abstract common variable immunodeficiency (cvid) is a rare disorder characterized by primary antibody deficiency leading to hypogammaglobulinemia and increased risk of infections. pulmonary hypertension (ph) is an unusual complication of cvid and may be associated with chronic hypoxemic respiratory failure. we described the case of a 47-year-old female patient hospitalized with worsening dyspnea, which had emerged about 10 days before and was associated with productive cough. 26 years before, she was diagnosed with common variable hypogammaglobulinemia, that was treated with intravenous immunoglobulin infusions for at least 20 years. she had suffered from recurrent secondary infections of the respiratory tract with inveterate bronchiectasis, pulmonary hypertension, and chronic respiratory failure. this case suggests that internal medicine wards, due to their global vision of the patient, are well suited to manage subjects with serious, complex, and genetically determined pathologies. keywords: common variable hypogammaglobulinemia; respiratory failure; pulmonary hypertension cmi 2023; 17(1): 1-7 http://doi.org/10.7175/cmi.v17i1.1521 case report corresponding author paolo ghiringhelli paolo.ghiringhelli@asst-valleolona.it   received: 13 january 2022 accepted: 19 january 2023 published: 31 january 2023 why do we describe this case this case underlines the importance of correcting chronic hypoxemia with adequate long-term oxygen therapy in patients with common variable immunodeficiency and pulmonary hypertension introduction common variable immunodeficiency (cvid) is a rare immune system disorder characterized by primary antibody deficiency that leads to hypogammaglobulinemia. it affects between 1:25,000 and 1:196,000 patients worldwide and is usually diagnosed during the age range 20–45 years, although it can be identified earlier [1]. the cause is unknown, but a genetic mutation has been identified in around 10% of cases [2]. the diagnosis is based on biologic examinations and the differential diagnosis with other causes of hypogammaglobulinemia. in case of cvid, serum levels of immunoglobulin (ig) g are below the age-adjusted reference range on two samples more than 3 weeks apart (or on a single measurement if their level is very low) [3]. the levels of immunoglobulins a and/or m also are decreased. infectious complications are the main manifestations, mostly affecting respiratory tract and lungs and frequently resulting in the development of bronchiectasis. in addition, cvid patients can develop autoimmune, lymphoproliferative, and inflammatory complications. in recent years, several cases of cvid have been reported to be associated with elevations in pulmonary artery pressures [4-7]. treatment is based on intravenous or subcutaneous ig replacement therapy. patients with rare diseases are necessarily managed by dedicated centers, but sometimes they are referred to internal medicine wards, thus allowing an adequate monitoring of rare disease-related pathologies and complications arising from rare disease-related predispositions. case presentation a 47-year-old female patient, known for thalassemia trait and glucose-6-phosphate dehydrogenase deficiency was admitted to the internal medicine ward for respiratory failure in august 2021. in 1996, the diagnosis of common variable hypogammaglobulinemia associated with functional deficit of t lymphocytes was made and since then she has been in replacement treatment with monthly infusion of immunoglobulins. she reported repeated infectious episodes of the upper and lower respiratory tract in her remote medical history. she also reported previous laparotomy for appendectomy and hemoperitoneum from hemorrhagic corpus luteum and multiple hospitalizations for muscle and paravertebral abscess localizations subjected to surgical toilet and external drainage. in 2006, she underwent splenectomy and partial pancreatectomy for multiple abscess collections. for some years, she was known for multifactorial pulmonary hypertension and at admission she was in therapy with macitentan and sildenafil. in march 2020, she was hospitalized for sars-cov-2 pneumonia. in her last visit in the rare disease center, in april 2021, clinical stability was reported and her pulmonary hypertension was categorized as world health organization (who) class i. furthermore, home o2 was prescribed, but self-suspended thereafter due to reasons associated with subjective wellbeing. the problem was no longer evaluated. on the 17th of august 2021, she was sent to the emergency department by her general practitioner due to worsening dyspnea and low-grade fever for about 10 days and associated with productive cough. blood tests showed high levels of white blood cells (wbcs) and c-reactive protein (crp) (table i). parameter detected level normal range wbc (n/l) 22.050 4000–10,000 rbc (×106/μl) 5.77* 3.6–5.3 crp (mg/dl) 6 <0.5 hb (g/dl) 12.3 11.0–15.0 globular volume (fl) 74.1** 80–96 neutrophil granulocytes (%) 56.1 40–74 lymphocytes (%) 38.2 19–48 monocytes (%) 4.4 3.4–9.0 eosinophilic granulocytes (%) 0.8 0–7 basophilic granulocytes (%) 0.4 0–1.5 platelets (×103/μl) 817** 150–400 creatinine (mg/dl) 0.74 0.51–0.95 alt (iu/l) 18 8–41 total bilirubin (mg/dl) 0.25 <1.2 lactate dehydrogenase (iu/l) 163 125–220 total protein (g/dl)* 5.6 6.0–8.0 igm (mg/dl)** <5 40–230 iga (mg/dl)** <5 70–400 igg (mg/dl)* 215 700–1600 table i. patient’s clinical parameters at admission, in august 2021. alt = alanine transaminase; crp = c-reactive protein; hb = hemoglobin; rbc = red blood cells; wbc = white blood cells *pathological; **severely pathological chest x-ray (figure 1) and chest ct (figure 2), compared with the previous tests available, showed an unchanged picture of bilateral bronchiolitis characterized by millimetric center-lobular nodulations partly confluent and by thickening areas located in the medial segment of the middle lobe, in the lingula and in the postero-basal regions of both lower lobes, with greater extension to the left. instead, a small, faint left retrocardiac thickening had appeared. therefore, at ward admission, the patient was diagnosed with lower respiratory tract infection, with partial respiratory failure, in a cvid picture. figure 1. chest x-ray performed in august 2021. sx = left figure 2. chest ct performed in august 2021. therapy with amoxicillin and clavulanate 2 g every 8 hours was prescribed, together with oxygen therapy (first at 8 l/min for a simple mask, subsequently at 3 l/min). once clinically stabilized, the patient showed the following gas analysis values in room air: ph = 7.31; po2 = 49 mmhg; pco2 = 36 mmhg; so2 = 83%; and hco3- = 18 meq. therefore, the residual hypoxemia was secondary not to the respiratory inflammation, now in resolution, but to the pulmonary hypertension. after monitoring the nocturnal oximetry and the gait test, the oxygen prescription at discharge was optimized to 3 l/min at rest and 5 l/min during exercise. transthoracic echocardiogram during hospitalization showed that systolic pressure in pulmonary artery (paps) was equal to 65 mmhg. two months later, she was evaluated in outpatient’s clinic; she was autonomous and compliant with the prescribed oxygen therapy. she also had resumed going out, by carrying an 8-liter liquid oxygen stroller, that gave her the possibility to stay outside for a few hours. discussion cvid, a primary antibody deficiency characterized by hypogammaglobulinemia, is known to cause infectious, inflammatory, and autoimmune manifestations. cvid is not a single disease but rather a collection of hypogammaglobulinemia syndromes resulting from many genetic defects. in about 25% of cases, specific molecular defects have been identified, although in most patients, the causes are unknown [8]. cvid has been defined, as in our patient, by the following laboratory criteria [8,9]: markedly reduced serum concentrations of igg, in combination with low levels of iga and/or igm; poor or absent response to immunizations; an absence of any other defined immunodeficiency state; frequent respiratory infections favoring the formation of bronchiectasis. pulmonary hypertension (ph) is an unusual complication of cvid, with largely unknown characteristics. the underlying mechanisms have been described recently [4,6]. in many patients, the diagnosis of ph is made thanks to a variety of clinical findings and non-invasive tests. for example, a clinical diagnosis is commonly made in patients with ph due to significant left heart disease (lhd) or chronic lung disease (cld). conversely, some patients require hemodynamic diagnosis by right heart catheterization (rhc; e.g., patients with suspected idiopathic pulmonary arterial hypertension—pah) as recommended by the 2015 esc/ers guidelines [10]. precapillary ph is defined as mean pulmonary arterial pressure (mpap) ≥25 mmhg, pulmonary arterial wedge pressure (pawp) ≤15 mmhg, and pulmonary vascular resistance (pvr) ≥3 wood units (wu). cvid-associated ph is characterized by precapillary ph and is included in group 5 of the current ph classification (box 1). box 1. clinical classification of ph. modified from [10] 1. pah 1.1. idiopathic pah 1.2. heritable pah 1.3. drugand toxin-induced pah 1.4. pah associated with: 1.4.1. connective tissue disease 1.4.2. hiv infection 1.4.3. portal hypertension 1.4.4. congenital heart disease 1.4.5. schistosomiasis 1.5. pah long-term responders to calcium channel blockers 1.6. pah with overt features of venous/capillaries (pvod/pch) involvement 1.7. persistent ph of the newborn syndrome 2. ph due to left heart disease 2.1. ph due to heart failure with preserved lvef 2.2. ph due to heart failure with reduced lvef 2.3. valvular heart disease 2.4. congenital/acquired cardiovascular conditions leading to post-capillary ph 3. ph due to lung diseases and/or hypoxia 3.1. obstructive lung disease 3.2. restrictive lung disease 3.3. other lung disease with mixed restrictive/obstructive pattern 3.4. hypoxia without lung disease 3.5. developmental lung disorders 4. ph due to pulmonary artery obstructions 4.1. chronic thromboembolic ph 4.2. other pulmonary artery obstructions 5. ph with unclear and/or multifactorial mechanisms 5.1. hematological disorders 5.2. systemic and metabolic disorders 5.3. others 5.4. complex congenital heart disease lvef = left ventricular ejection fraction; pah = pulmonary arterial hypertension; pch = pulmonary capillary hemangiomatous; ph = pulmonary hypertension; pvod = pulmonary veno-occlusive disease in 2018, our patient had undergone right heart catheterization at the university of pavia, following the echocardiographic finding of severe pulmonary hypertension (60 mmhg). echocardiography is used to detect elevated pulmonary artery systolic pressures (epasp) as well as altered right-sided ventricle structure or dysfunction and evidence of left-sided heart disease. however, the definition of mild, moderate, and severe ph on echocardiography is ill-defined (and the cut-offs are somewhat arbitrary). in addition, echocardiography can be misleading, particularly in those with advanced lung disease [11,12]. right cardiac catheterization confirmed the presence of moderate pre-capillary pulmonary hypertension (34 mmhg) in accordance with the international classification, which includes 3 classes of severity [13-15] (table ii). echocardiography epasp (mmhg) pulmonary artery catheter mpap (mmhg) mild ≥20 and <40 ≥25* and <30 moderate ≥40 and <60 ≥30 and <35 severe ≥60 ≥35 or ≥25 and elevated ra pressure and/or ci<2 l/min/m2 table ii. pulmonary hypertension severity. modified from [15]. ci = cardiac index; epasp = estimated pulmonary artery systolic pressure; mpap = mean pulmonary artery pressure; ra = right atrial * those with mpap between 20 and 24 mmhg are considered to have borderline elevations in pap of uncertain significance the patient’s alveolar capillary diffusion, associated with alveolar ventilation, was severely impaired (38%) and correlated, as described in the literature, with the severity of ph [16]. in our patient, the pathogenesis of ph is complex. in fact, there are pulmonary causes belonging to group 3 and lesser-known causes probably associated with the known cvid. the prevalence of group 3 ph varies depending on the underlying disease and its severity, with rates ranging from 20% to 90%. most patients in group 3 ph have mild-to-moderate elevations in mean pulmonary artery pressure (e.g., mpap 25 to 34 mmhg) [17] (table ii). in contrast, to patients with group 1 pulmonary arterial hypertension (pah), few patients in group 3 ph (<5%) have severe ph (mpap ≥35 mmhg or mpap ≥25 mmhg and elevated right atrial pressure and/or a cardiac index <2 l/min/m2). the severity of ph appears to correlate with the severity of the underlying disorder [18]. in a recent study by thore et al. [4], cvid-associated ph seems to be a late complication of the disease (arising in a median time of 12 years). in that court, authors estimate that ph occurs in at least 0.37% of cvid patients, but they assume that the actual value should probably be much higher since screening for ph in cvid patients is not routinely performed due to the multifactorial nature of dyspnea in this population. this factor must be considered by physicians working in internal medicine, who sometimes supervise these patients if expert centers are far and may first suspect cvid as a new diagnosis [4]. its pathophysiological mechanisms are still unknown, but it seems to be due to the inflammatory nature of cvid: pulmonary vascular remodeling, pulmonary parenchymal involvement, extrinsic compression by mediastinal lymphadenopathies, and portal hypertension [10]. clinical evaluation of the patient and the rate of change over time are also indicative of prognosis. in this regard, the who has issued a specific classification (table iii). class who functional classification i patients with pulmonary hypertension but without resulting limitations of physical activity. ordinary physical activity does not cause undue fatigue or dyspnea, chest pain, or heart syncope. ii patients with pulmonary hypertension resulting in slight limitation of physical activity. they are comfortable at rest. ordinary physical activity results in undue fatigue or dyspnea, chest pain, or heart syncope. iii patients with pulmonary hypertension but without resulting in marked limitations of physical activity. they are comfortable at rest. less than ordinary physical activity cause undue fatigue or dyspnea, chest pain, or heart syncope. iv patients with pulmonary hypertension resulting in inability to carry on any physical activity without symptoms. these patients manifest signs of right heart failure. dyspnea and/or fatigue may be present even at rest. discomfort is increased by physical activity. table iii. pulmonary hypertension who classification. modified from [19]. who = world health organization by analyzing table iii, it is clear that our patient belongs to the second class. it is important to preserve the performance status as much as possible. in the care of our patient, oxygen therapy is crucial, but respiratory physiotherapy is also important. not many studies have been published in the literature where the various techniques of physio-kinesiotherapy (pkt) and their efficacy in non-cystic fibrosis (cf) bronchiectasis have been evaluated. for this reason, their indication is often extrapolated from other researchs, such as those published on cf and chronic obstructive pulmonary disease (copd) [20,21]. some caution is always required in importing these techniques into the therapeutic plan of patients suffering from non-cf bronchiectasis, due to the pathophysiological differences between the various diseases where they have been used [22,23]. the most described pkt techniques are: active cycle of breathing techniques (acbt); forced expiration techniques (fet); autogenous drainage; postural drainage; oscillating positive expiratory pressure (opep); high-frequency chest wall oscillation (hfcwo); physical exercise or pulmonary rehabilitation [23]. conclusions the presence of chronic hypoxemia worsens and exacerbates the pathogenetic mechanisms of precapillary pulmonary hypertension; hence, the importance of correcting chronic hypoxemia with proper long-term oxygen therapy with adequate flow at rest, under exertion and at night. respiratory physiotherapy, especially if assisted, motivates the patient to remove secretions that obstruct the airways. key points the pathogenetic basis of pulmonary hypertension is varied, often multiple, and complex. the role of hypoxia in pulmonary hypertension is important and therefore needs to be corrected. custom titration of prescribed long-term oxygen flows is critical to future patient survival. in the context of complex pathologies, hypoxemia should never be underestimated. consent to publication we confirm that informed consent was obtained from the patient, who has given full permission to publish this case and the accompanying images. funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. gathmann b, mahlaoui n; ceredih; gérard l, et al. european society for immunodeficiencies registry working party. clinical picture and treatment of 2212 patients with common variable immunodeficiency. j allergy clin immunol 2014; 134: 116-26; https://doi.org/10.1016/j.jaci.2013.12.1077 2. sullivan ke, puck jm, notarangelo ld, et al. usidnet: a strategy to build a community of clinical immunologists. j clin immunol 2014; 34: 428-35; https://doi.org/10.1016/10.1007/s10875-014-0028-1 3. quinti i, soresina a, spadaro g, et al. long-term follow-up and outcome of a large cohort 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cui il procedimento diagnostico è stato piuttosto macchinoso e difficile, aprendo delle questioni sulla reale eziologia dei sintomi (“un caso di febbre non risolta”), sull’origine del tumore (“un tumore neuroendocrino primitivo del fegato?” e “un caso di sindrome da produzione ectopica di acth”) e sull’assenza di elementi diagnostici dirimenti (“sindrome men1: un caso insolito”). in casi come quelli presentati, l’intuito, il ragionamento clinico e l’esperienza sono gli strumenti principali di cui il medico si deve avvalere per poter giungere a una diagnosi. la difficoltà diagnostica è particolarmente evidente nel primo caso descritto, “un caso di febbre non risolta”; si tratta di una situazione di comune riscontro in ambito medico: in caso di febbre persistente senza cause note (fuo), soprattutto nell’adulto e in assenza di compromissione del sistema immunitario è necessario sottoporre il paziente ad approfonditi esami volti alla ricerca eziopatogenetica, ma, ciononostante, in una discreta percentuale di casi la malattia di base non viene identificata. la cause più frequenti, tuttavia, sono riconducibili per lo più a infezioni e tumori [1], e bisogna considerare che la fuo è più spesso una manifestazione rara di una patologia frequente, piuttosto che riconducibile a una patologia rara [2]. si passa poi a due casi di riscontro decisamente più raro, ma particolarmente istruttivi per la patologia di origine, la difficoltà e al contempo l’importanza di una diagnosi precoce: “un tumore neuroendocrino primitivo del fegato?” e “un caso di sindrome da produzione ectopica di acth”. in entrambi i casi i protagonisti sono i tumori neuroendocrini o net. si tratta di un gruppo di tumori solidi che hanno origine a partire dalle cellule secretorie del sistema neuroendocrino, localizzate in diversi distretti corporei; gli organi maggiormente colpiti sono l’intestino tenue, il polmone e il retto [3]. i net possono essere funzionanti o non funzionanti: nel primo caso danno luogo a sindromi ormonali sintomatiche, che indirizzano la diagnosi, mentre nel secondo caso sono silenti e la loro diagnosi è per lo più accidentale [4]. per entrambi i tipi di net, purtroppo, la diagnosi è molto spesso tardiva, collocandosi a metastatizzazione già avvenuta e impedendo, di fatto, un intervento ad intento realmente curativo. la cura, infatti, è possibile quando non vi siano ancora metastasi, e consiste nell’asportazione chirurgica del tumore primario. ulteriori terapie di seconda linea per controllare i sintomi, la crescita e la metastatizzazione tumorale sono tuttavia possibili e fanno uso di tecniche chirurgiche, e di farmaci biologici e chemioterapici [4]. negli ultimi anni i casi di net sono decisamente aumentati [3], in parte perché erano precedentemente sottodiagnosticati. in effetti recentemente sono stati individuati e validati alcuni marker per la conferma diagnostica e il monitoraggio dell’andamento della malattia, ma la diagnosi è comunque multimodale, e si avvale anche della valutazione dei sintomi clinici, dei livelli ormonali, delle tecniche di imaging radiologico e nucleare e della conferma istologica. infine “sindrome men1: un caso insolito” riguarda una sindrome ugualmente di pertinenza endocrinologica, di tipo tumorale, in grado di causare una combinazione di più di 20 tipi di tumori [5]. il gene responsabile di tale malattia è men1, che codifica per un oncosoppressore. si tratta di una sindrome rara la cui forma sporadica viene diagnosticata sulla base della rilevazione di due dei tre principali tumori della sindrome (adenoma paratiroideo, tumori endocrini entero-pancreatici e tumore ipofisario), mentre per la forma familiare è sufficiente rilevare uno dei tumori della triade più un familiare affetto. la diagnosi si avvale anche dell’analisi genetica, e può essere particolarmente difficile perché una discreta percentuale di pazienti si presenta con endocrinopatie diverse dalle principali e in assenza di storia familiare per la patologia, con manifestazione talora lievi e quindi difficili da identificare e collocare nel quadro clinico [6]. i net maligni sono la principale causa di morte nei soggetti affetti da men1 [7]. la gestione di tale sindrome, parimenti alla sua diagnosi, è piuttosto complicata per via della varietà della presentazione clinica, che coinvolge molti tumori diversi, tra cui alcuni secretivi. naturalmente la selezione di casi qui presentata è limitata e non è certo esaustiva di tutte le possibili difficoltà diagnostiche che il medico può incontrare nelle patologie endocrinologiche. tuttavia casi di questo tipo ci sembrano un buon esempio di come, anche nell’epoca dell’evidence based medicine, il ragionamento clinico rimanga sempre parte imprescindibile del lavoro del medico. bibliografia bleeker-rovers cp, van der meer jw, oyen wj. fever of unknown origin. semin nucl med 2009; 39: 81-7 tolan rw jr. fever of unknown origin: a diagnostic approach to this vexing problem. clin pediatr (phila) 2010; 49: 207-13 yao jc, hassan m, phan a, et al. one hundred years after “carcinoid”: epidemiology of and prognostic factors for neuroendocrine tumors in 35,825 cases in the united states. j clin oncol 2008; 26: 3063-72 öberg ke. management of neuroendocrine tumors: current and future therapies. expert rev endocrinol metab 2011; 6: 49-62 brandi ml, gagel rf, angeli a, et al. guidelines for diagnosis and therapy of men type 1 and type 2. j clin endocrinol metab 2001; 86: 5658-71 asgharian b, turner ml, fathia g, et al. cutaneous tumors in patients with multiple endocrine neoplasm type 1 (men1) and gastrinomas: prospective study of frequency and development of criteria with high sensitivity and specificity for men1. j clin endocrinol metab 2004; 89: 5328-36 pieterman cr, vriens mr, dreijerink km, et al. care for patients with multiple endocrine neoplasia type 1: the current evidence base. fam cancer 2011; 10: 157-71 cmi 2020;14(1)15-19.html coronavirus disease 2019 (covid-19): a brief report domenico lorenzo urso 1 1 emergency department spoke hospital corigliano-rossano (cs), italy abstract severe acute respiratory syndrome (“sars-cov-2”, previously provisionally named “2019 novel coronavirus” or “2019-ncov”) disease (covid-19) in china, at the end of 2019, resulted in a large global outbreak. among patients with pneumonia caused by sars-cov-2, fever is the most common symptom, followed by dry cough. bilateral lung involvement with ground-glass opacities (ggos) is the most common finding from computed tomography (ct) images of the chest. at present, there are no specific antiviral drugs against sars-cov-2 infection for potential therapy of humans. current treatments are mainly focused on symptomatic and respiratory support in patients with covid-19. preventive measures are the current strategy to limit the spread of cases. the present report summarizes the point of the situation about this global emergency. keywords: sars-cov-2; coronavirus; pandemic; pneumonia; respiratory support cmi 2020; 14(1): 15-19 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v14i1.1467 brief report corresponding author domenico lorenzo urso mimmourso71@yahoo.com received: 2 april 2020 accepted: 2 april 2020 published: 3 april 2020 introduction since december 2019, an increasing number of cases of pneumonia of “unknown etiology” have been identified in wuhan, a large city of 11 million people, in mainland china [1]. these patients were epidemiologically linked to huanan seafood wholesale market, where wild and live animals were sold and, on january 1, 2020, wuhan public health authorities shut it down. a week later, on january 7, 2020, a new betacoronavirus was isolated from bronchoalveolar-lavage fluid samples of three patients with severe pneumonia. this virus was initially identified as “novel coronavirus 2019” (2019-ncov) and the illness likely to have been caused by 2019-ncov was named “novel coronavirus infected pneumonia” (ncip) [2]. on february 11, 2020, the world health organization (who) announced a new name for the epidemic disease caused by 2019-ncov: “coronavirus disease 2019” (covid-19) [3]. the coronaviridae study group (csg) of the international committee on taxonomy of viruses (ictv) has renamed the previously provisionally named 2019-ncov as “severe acute respiratory syndrome coronavirus-2” (sars-cov-2) [4]. the human-to-human transmission of sars-cov-2 is presumed to be primarily through droplets and fomites. r0, used to measure the transmission potential of a communicable disease in epidemiology, is the average number of secondary infections produced by an infectious case in a population where everyone is susceptible [5]. early epidemiologic studies estimate an r0 value of 2.2 [6] for sars-cov-2. due to the progressive spread of the virus to over 110 countries, with more than 118,000 cases and over 4200 deaths, sars-cov-2 infection was declared a pandemic by who on march 11, 2020 [7]. epidemiology as of march 31, 2020, there have been 750,890 cases of covid-19 globally, with 101,739 of those in italy; there have been 36,405 confirmed deaths globally with 11,591 of those in italy [8]. the chinese center for disease control and prevention recently published the largest case series to date of covid-19 in mainland china (72,314 cases, updated through february 11, 2020). among a total of cases records: 44,672 were classified as “confirmed cases of covid-19” (diagnosis based on positive viral nucleic acid test results on throat swab samples: 62%); 16,186 as “suspected cases” (diagnosis based on symptoms and exposures only: 22%); 10,567 as “clinically diagnosed cases” (15%); 889 “asymptomatic cases” (1.2%). most patients were 30 to 79 years of age (87%), 1% were aged 9 years or younger, and 3% were aged 80 years or older. most cases were classified as mild (81%), 14% as severe, and 5% as critical. the overall case-fatality rate (cfr) was 2.3% (1023 deaths among 44,672 confirmed cases). cfr was 8% in the group aged 70-79 years and 14.8% in the group aged 80 years and older. no deaths were reported among mild and severe cases. the cfr was 49.0% among critical cases. cfr was elevated among those with preexisting comorbid conditions: 10.5% for cardiovascular disease, 7.3% for diabetes, 6.3% for chronic respiratory disease, 6.0% for hypertension, and 5.6% for cancer [9,10]. clinical features according to who, a confirmed case of covid-19 is a person with laboratory confirmation of infection with sars-cov-2, irrespective of clinical signs or symptoms (box 1) [11]. box 1. definitions in covid-19 [11] confirmed case a confirmed case is a person with laboratory confirmation of infection with the covid-19 virus, irrespective of clinical signs and symptoms probable case a probable case is a suspected case for whom the report from laboratory testing for the covid-19 virus is inconclusive suspected case a patient with acute respiratory illness (that is, fever and at least one sign or symptom of respiratory disease, for example, cough or shortness of breath) and with no other etiology that fully explains the clinical presentation and a history of travel to or residence in a country, area or territory that has reported local transmission of covid-19 disease during the 14 days prior to symptom onset a patient with any acute respiratory illness and who has been a contact of a confirmed or probable case of covid-19 disease during the 14 days prior to the onset of symptoms a patient with severe acute respiratory infection (that is, fever and at least one sign or symptom of respiratory disease, for example, cough or shortness breath) and who requires hospitalization and who has no other etiology that fully explains the clinical presentation the symptoms of sars-cov-2 infection appear after an incubation period of approximately 5.2 days [12]. the main clinical manifestations of covid-19 are fever (90% or more), dry cough (around 75%), and dyspnea (up to 50%). other symptoms include headache, fatigue, sputum production, and hemoptysis. a small but significant subset has gastrointestinal symptoms [13-16]. the majority of infected people have uncomplicated or mild illness (81%), but some of them will develop severe illness (including dyspnea, respiratory frequency >30/min, blood oxygen saturation <93%, partial pressure of arterial oxygen to fraction of inspired oxygen ratio <300, and/or lung infiltrates >50% within 24 to 48 hours), which requires oxygen therapy (14%). a minority of them, around 5%, will require intensive care unit (icu) treatment (due to respiratory failure, septic shock, and/or multiple organ dysfunction or failure) (box 2) [9,17]. box 2. clinical syndromes associated with covid-19 in adult [17] mild illness uncomplicated upper respiratory tract viral infection may have non-specific symptoms such as fever, fatigue, cough (with or without sputum production), anorexia, malaise, muscle pain, sore throat, dyspnea, nasal congestion, or headache. rarely, patients may also present with diarrhea, nausea, and vomiting pneumonia pneumonia but no signs of severe pneumonia and no need for supplemental oxygen severe pneumonia fever or suspected respiratory infection, plus one of the following: respiratory rate >30 breaths/min; severe respiratory distress; or spo2 ≤ 93% on room air acute respiratory distress syndrome (ards) onset: within 1 week of a known clinical insult or new or worsening respiratory symptoms chest imaging (radiograph, ct scan, or lung ultrasound): bilateral opacities, not fully explained by volume overload, lobar or lung collapse, or nodules origin of pulmonary infiltrates: respiratory failure not fully explained by cardiac failure or fluid overload. need objective assessment (e.g. echocardiography) to exclude hydrostatic cause of infiltrates/edema if no risk factor present oxygenation impairment in adults: mild ards: 200 mmhg < pao2/fio2a ≤ 300 mmhg (with peep or cpap ≥ 5 cmh2o, or non-ventilated) moderate ards: 100 mmhg < pao2/fio2 ≤ 200 mmhg (with peep ≥ 5 cmh2o, or non-ventilated) severe ards: pao2/fio2 ≤ 100 mmhg (with peep ≥ 5 cmh2o, or non-ventilated) sepsis life-threatening organ dysfunction caused by a dysregulated host response to suspected or proven infection. signs of organ dysfunction include: altered mental status, difficult or fast breathing, low oxygen saturation, reduced urine output, fast heart rate, weak pulse, cold extremities or low blood pressure, skin mottling, or laboratory evidence of coagulopathy, thrombocytopenia, acidosis, high lactate, or hyperbilirubinemia septic shock persisting hypotension despite volume resuscitation, requiring vasopressors to maintain map ≥ 65 mmhg and serum lactate level > 2 mmol/l figure 1. chest ct: early features of covid-19 pneumonia. multiple patchy pure ground glass opacities (ggos) may be seen. the most common diagnosis in severe covid-19 patients is severe pneumonia [9]. the currently available data suggest that the most frequent abnormalities were lymphopenia (35-75% of cases), increased values of c-reactive protein (75-93% of cases), lactate dehydrogenase (27-92% of cases), erythrocyte sedimentation rate (up to 85% of cases) and d-dimer (36-43% of cases), as well as low concentrations of serum albumin (50-98% of cases), and hemoglobin (41-50%) [18]. covid-19 pneumonia is common. the early chest ct features are multiple patchy pure ground glass opacities (ggos) or ggos with consolidation in the peripheral zone of the lung, often with vascular thickening and the crazy paving pattern, air bronchogram sign, or halo sign (figure 1) [19]. lung ultrasonography is useful to manage covid-19 with respiratory involvement due to several characteristics: safety, repeatability, absence of radiation, low cost, and point-of-care use. chest ct may be performed in cases where lung ultrasonography is not sufficient to answer the clinical question. using a 12-zone method, characteristic findings include thickening of the pleural line with pleural line irregularity, b lines in a variety of patterns including focal, multifocal, and confluent, consolidations in a variety of patterns including multifocal small, non-translobar, and translobar with occasional mobile air bronchograms [20]. diagnosis confirmation of cases of covid-19 is based on real-time reverse transcription polymerase chain reaction (rrt-pcr). at minimum, respiratory material should be collected from the upper respiratory specimens (nasopharyngeal and oropharyngeal swab or wash in ambulatory patients) and/or from the lower respiratory specimens (sputum if produced and/or endotracheal aspirate or bronchoalveolar lavage in patients with more severe respiratory disease) [21]. treatment nowadays, there is no evidence from randomized clinical trials to support specific drug treatment against the new coronavirus in suspected or confirmed cases. therefore, current treatments mainly focus on symptomatic and respiratory support. infection control and prevention the who recommend infection control interventions to reduce the general risk of transmission of acute respiratory infection with sars-cov-2, including avoiding close contact with people suffering from acute respiratory infections, frequent hand washing especially after direct contact with ill people or their environment, and avoiding unprotected contact with farm or wild animals [22]. conclusions the outbreak of sars-cov-2 is a clinical threat to the general population and healthcare workers worldwide. scientists have made progress in the characterization of the novel coronavirus but, at present, there is not a specific treatment. preventive measures are the current strategy to limit the spread of cases. key points severe acute respiratory syndrome coronavirus-2 (sars-cov-2) is responsible for the current pandemic of coronavirus disease 2019 (covid-19) this new virus was first discovered in wuhan, china as of march 31, 2020, there have been 750,890 cases of covid-19 globally because of the absence of vaccinations and effective drugs, current treatments mainly focus on symptomatic and respiratory support the mainstays of prevention are avoiding contacts with people suffering from acute respiratory infections and frequent hand washing funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the author declares he has no competing financial interests concerning the topics of this article. references 1. lu h, stratton cw, tang yw, et al. outbreak of pneumonia of unknown etiology in wuhan china: the mystery and the miracle. j med virol 2020; 92: 401-2; https://doi.org/10.1002/jmv.25678 2. zhu n, zhang d, wang w, et al. a novel coronavirus from patients with pneumonia in china, 2019. n engl j med 2020; 382: 727-33; https://doi.org/10.1056/nejmoa2001017 3. world health organization, who director-general’s remarks at the media briefing on 2019-ncov on 11 february 2020. 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characteristics, such as comorbidity, polytherapy, age-associated biological impairment and compliance. among the various antiepileptic drugs available for the treatment of epilepsy, rational selection and combination of drugs should drive both initiation and maintenance of the treatment. choice of antiepileptic drugs should first focus on avoidance of adverse effects and potential drug interactions. the pharmacological control of seizures is usually favourable at this age, with a good prognosis. however, alternative therapeutic options should be considered as soon as drug-response is unsatisfactory. keywords: epilepsy; elderly patients; drug therapy epilepsy in elderly patients: focus on treatment cmi 2012; 6(3): 83-90 gestione clinica corresponding author dott. alfonso iudice università di pisa, dipartimento di neuroscienze, sezione di neurologia via roma 67 – 56126 pisa a.iudice@med.unipi.it disclosure gli autori dichiarano di non avere alcun conflitto d’interessi di natura finanziaria. introduzione l’epilessia, generalmente considerata una condizione propria del giovane, è invece una patologia di frequente riscontro anche nella popolazione anziana. infatti negli ultimi due decenni studi epidemiologici hanno dimostrato in modo consistente che, per le crisi epilettiche in generale e per l’epilessia in particolare, la più alta incidenza in assoluto si riscontra nell’anziano [1]. in uno studio condotto da hauser e collaboratori [2] su una popolazione di rochester, minnesota (usa), è stata documentata, in pazienti di età superiore a 60 anni, un’incidenza di crisi non provocate di 150 su 100.000 persone/anno, in contrasto con il dato riferito alla popolazione generale di 61 su 100.000. tale pattern di distribuzione risulta essere indipendente dal sesso, relativamente indipendente dalla definizione di disordine convulsivo e stabile nel tempo. con l’avanzare dell’età aumenta l’incidenza di fattori di rischio per l’epilessia, quali lo stroke, le neoplasie cerebrali, l’encefalopatia vascolare ischemica cronica, le demenze; queste patologie risultano fortemente correlate allo sviluppo di crisi epilettiche ed epilessia nella tarda età. infine l’invecchiamento stesso della cellula nervosa è considerato un fattore di rischio per le crisi parziali e probabilmente anche per le crisi generalizzate [3]. il trattamento delle crisi in questa particolare classe di pazienti risulta particolarmente importante poiché eventuali traumatismi conseguenti alle manifestazioni critiche possono portare a prognosi sfavorevole e perdita di autonomia. inoltre misconoscere la causa alla base delle crisi può determinare non solo il ricorso a terapie inutili, con i relativi effetti collaterali, ma anche conseguenze fatali che possono occorrere se non si discriminano patologie come sincopi cardiogene, attacchi ischemici transitori (tia) subentranti, insulti tossico-metabolici. nell’anziano più che in altre classi di pazienti si possono avere conseguenze più gravi, rispetto al giovane, dovute a uno stato post-critico più prolungato, più frequente insorgenza di stato epilettico e maggiore rischio di ricorrenza dopo una prima crisi. di contro, questa fascia d’età mostra una migliore risposta terapeutica ai farmaci antiepilettici, ancorché associata a una maggiore suscettibilità agli effetti collaterali dei farmaci. caratteristiche dell’epilessia nell’anziano in primo luogo la diagnosi di epilessia nell’anziano non è immediata. l’approccio iniziale al soggetto con crisi epilettica vede come primo step l’identificazione della natura della crisi: crisi provocata (o acuta sintomatica) o non provocata (sintomatica remota), ancorché nell’anziano sia possibile che l’eziologia delle crisi rimanga criptogenica. si stima che un’elevata proporzione di crisi epilettiche sia provocata da fattori identificabili, come insulti vascolari, metabolici o tossici, patologie sistemiche, infezioni opportunistiche, la cui incidenza è correlata all’età. le crisi sintomatiche acute, in quanto manifestazione di un danno neurologico acuto, hanno la tendenza a ricorrere per l’intero periodo in cui tale disturbo è in atto. in concomitanza di un ictus cerebrale o di un’infezione a carico del snc, il 5-10% dei soggetti avrà anche una crisi epilettica. le condizioni che più frequentemente causano crisi sintomatiche acute, oltre all’ictus cerebrale, sono le anomalie metaboliche come lo stato uremico o l’anossia cerebrale associata ad arresto cardiaco. inoltre numerosi farmaci hanno un potenziale epilettogeno molto alto, in particolare clozapina, fenotiazine, ciclosporina [4]. le cause più comuni di crisi sintomatiche remote sono costituite da tumori cerebrali (8-45%), traumi cerebrali (2-21%), patologie cerebrovascolari croniche (40%), atrofia cerebrale (5-13%) e malattia di alzheimer (9-17%) [5]. le patologie cerebrovascolari sono la causa più frequente di epilessia sintomatica remota nell’anziano, con una frequenza intorno al 40%, in relazione maggiormente con stroke ischemico ed emorragico, aterosclerosi, emorragie cerebrali post-craniotraumatiche. le neoplasie cerebrali primitive o metastatiche cerebrali risultano essere anch’esse una delle cause più frequenti di epilessia nell’anziano. i tumori cerebrali con potenzialità epilettogene sono più spesso tumori maligni come l’astrocitoma anaplastico e il glioblastoma, ma anche astrocitomi a basso grado, e in particolare meningiomi localizzati in sede frontale e temporale, linfoma cerebrale e metastasi da carcinoma del polmone, mammella, stomaco, e da melanoma. altra causa identificata di epilessia propria dell’anziano è la malattia di alzheimer. esiste infatti un incremento temporale di crisi epilettiche proporzionalmente alla durata e alla progressione della malattia di alzheimer, in relazione diretta con l’atrofia corticale e sottocorticale, e con le alterazioni patologiche specifiche. sebbene l’utilizzo delle neuroimmagini, soprattutto la risonanza magnetica cerebrale, abbia notevolmente aumentato la definizione eziologica, una significativa percentuale di crisi nell’anziano è tuttora classificata come criptogenica [6]. diagnosi differenziale la principale difficoltà nella diagnosi dell’epilessia nell’anziano è costituita da una serie di condizioni che possono mimare le crisi epilettiche, le quali sono spesso non testimoniate e non descritte dal paziente o dai familiari con la necessaria accuratezza. nella tabella i sono categorizzate le principali patologie da porre in diagnostica differenziale. classe della patologia patologia patologie neurologiche attacco ischemico transitorio (tia) emicrania amnesia globale transitoria disturbi cardiovascolari lipotimie-sincopi vasovagali lipotimie-sincopi da ipotensione ortostatica sincopi cardiogene cardiomiopatie strutturali sindrome del seno carotideo disordini endocrini e metabolici episodi ipoo iperglicemici iponatremia ipokalemia patologie psichiatriche crisi psicogene non-epilettiche (pseudocrisi) disturbi del sonno sindrome delle apnee ostruttive sindrome delle gambe senza riposo movimenti periodici degli arti in sonno (periodic limbs movements) comportamenti in fase rem (rem behaviour disorders) tabella i. patologie da porre in diagnostica differenziale con l’epilessia nel paziente anziano frequentemente le manifestazioni epilettiche parziali nell’anziano vengono attribuite a tia, in territorio carotideo o vertebro-basilare, così come le manifestazioni neurologiche associate a cefalea emicranica (ad es. disturbi visivi). i diversi quadri di amnesia globale transitoria, se non sono tipici nella loro manifestazione, possono essere interpretati come sintomatologia ictale e post-ictale di crisi parziali semplici o complesse. nella categoria dei disturbi cardiovascolari l’ipotensione ortostatica e le lipotimie/sincopi vaso-vagali e cardiogene possono essere non correttamente interpretate, così come altre patologie cardiache, strutturali o da alterazioni del ritmo per difetti della conduzione atrio-ventricolare. la patologia del sonno nell’anziano pone spesso un problema interpretativo diagnostico: le manifestazioni che accompagnano le apnee ostruttive del sonno possono essere riferite dal partner di letto in maniera non adeguata, così come i periodici movimenti degli arti in sonno e i comportamenti motori associati alla fase rem. più infrequente è invece l’interpretazione non corretta della sindrome delle gambe senza riposo. una serie di squilibri metabolici, e in particolare l’iponatriemia e le condizioni di ipo/iperglicemia, può provocare crisi epilettiche in età avanzata. per quanto riguarda l’iponatriemia, le crisi epilettiche sono più frequentemente osservate quando le concentrazioni del na+ diminuiscono rapidamente (valori inferiori a 125 meq/l) rispetto ai casi di iponatriemia cronica. l’ipoglicemia e l’iperglicemia non chetonica possono essere associate a crisi focali, che tuttavia non si osservano nell’iperglicemia chetonica, probabilmente a causa dell’azione anticonvulsivante della chetosi. cambiamenti nello stato mentale sono patognomonici dell’encefalopatia uremica, che coinvolge simultaneamente la depressione (ottundimento) e l’eccitazione neuronale (spasmi, mioclonie, convulsioni generalizzate). l’intossicazione da alcol, così come la sua brusca sospensione negli etilisti, che ha un picco d’incidenza nella quinta e sesta decade di vita, possono causare crisi sintomatiche acute. le crisi epilettiche da astinenza di etanolo si verificano in genere entro le prime 48 ore, e nel 66% dei casi si verificano tra 7 e 24 ore. difficoltà diagnostiche nel paziente anziano la diagnosi della natura epilettica delle manifestazioni critiche non è semplice ed è spesso errata, perché frequentemente gli episodi vengono riferiti indirettamente, per le difficoltà nel report soggettivo dovute ai deficit attentivi/cognitivi: si evidenziano segni/sintomi ambigui, si tende ad attribuire eccessivo significato ai fattori di rischio, inevitabilmente presenti a questa età, e soprattutto alla comorbilità. pertanto la diagnosi di epilessia nell’anziano è frequentemente ritardata di più di 2 anni rispetto al giovane/adulto. per effettuare una corretta diagnosi differenziale occorre in prima istanza porre attenzione alla semeiologia delle crisi, che sono più frequentemente parziali (1/4 dei casi a pronta generalizzazione) e con maggiore frequenza ad origine extratemporale (lobo frontale), mentre sono più rare le “aure” e gli automatismi. inoltre si osserva una più alta percentuale di segni e/o sintomi sensori-motori (crisi post-ischemiche, tumori) e spesso una semeiologia “vaga” costituita da sintomi confusionali, dismnesici e/o cognitivi, con stato post-critico prolungato (anche giorni). tra le indagini strumentali per la corretta diagnosi sono di fondamentale importanza l’ecg, gli esami ematologici ed ematochimici (emocromo, indici di funzionalità renale, elettroliti sierici, glicemia). l’eeg risulta assai poco specifico: è noto infatti che il 12-38% dei soggetti senza epilessia presenta anomalie elettriche, e che solo il 10-20% dei pazienti con epilessia sintomatica (stroke, tumori) presenta anomalie specifiche. se l’eeg standard non dà informazioni, anche nell’anziano è necessaria l’esecuzione di un eeg in sonno (spontaneo o dopo deprivazione ipnica notturna). la videoeeg può essere fondamentale per la diagnosi differenziale e l’approccio terapeutico, sebbene la sua potenzialità diagnostica sia direttamente proporzionale alla frequenza della crisi. la tendenza delle crisi epilettiche alla recidiva spontanea in presenza di fattori di rischio per la loro ricorrenza è condizione sufficiente per l’inizio precoce di un trattamento farmacologico antiepilettico. terapia nonostante la rilevanza epidemiologica dell’epilessia nel soggetto anziano, mancano evidenze terapeutiche robuste circa l’efficacia dei farmaci antiepilettici per la limitatezza degli studi clinici condotti in questa fascia di pazienti. la presenza di comorbilità tende infatti a escludere a priori gli anziani nei trial clinici. ad oggi, infatti, sono stati pubblicati solo due trial prospettici, randomizzati e controllati, in doppio cieco. il primo è stato condotto da brodie e collaboratori nel 1999 [7] e ha incluso 150 soggetti anziani con epilessia di nuova diagnosi, suddivisi in due gruppi paralleli di trattamento con lamotrigina e carbamazepina in monoterapia. in tale studio lamotrigina è risultata superiore a carbamazepina per efficacia e minori effetti collaterali: a 24 settimane il 71% dei pazienti che assumevano lamotrigina aveva completato lo studio rispetto al 42% dei pazienti in terapia con carbamazepina. il 39% circa dei pazienti in terapia con lamotrigina era libero da crisi in confronto al 21% dei pazienti in terapia con carbamazepina. l’altro trial disponibile è stato condotto dalla veterans administration statunitense (va coop study) [8] ed è iniziato prima della disponibilità in commercio di levetiracetam e oxcarbazepina; in questo trial carbamazepina è stata confrontata con lamotrigina e gabapentin. lo studio, multicentrico, in doppio cieco, condotto in pazienti anziani (età media = 72 anni), ha valutato il controllo delle crisi e il numero di interruzioni per eventi avversi per ciascun farmaco. i risultati hanno mostrato un’efficacia comparabile dei tre farmaci, con una migliore tollerabilità di lamotrigina e gabapentin rispetto a carbamazepina. la risposta terapeutica ai farmaci antiepilettici convenzionali nel paziente anziano è stata valutata in due trial in singolo cieco. nello studio di cameron e macphee [9] carbamazepina, fenitoina e valproato sono risultati associati a eventi avversi nel 27% dei pazienti, mentre tallis e colleghi [10] hanno evidenziato eventi avversi cognitivi e comportamentali nel 30% dei pazienti trattati con fenitoina (≤ 300 mg/die) e valproato (≤ 1.000 mg/die). la gestione dell’epilessia nell’anziano richiede la comprensione dell’unicità delle caratteristiche mediche di questi pazienti. il paziente anziano presenta problematiche di gestione che includono le variazioni fisiologiche nella funzionalità dei principali organi (specie fegato e rene) e che si riverberano nella farmacocinetica e farmacodinamica dei farmaci antiepilettici (tabella ii). variazioni fisiologiche modificazioni farmacocinetiche e farmacodinamiche ↓ acidità gastrica, ritardato svuotamento gastrico e alterazione della motilità intestinale inefficace assorbimento ↑ tessuto adiposo (donne: da 33% nella giovane a 48% nell’anziana; uomini: da 18% nel giovane a 36% nell’anziano), ↓ albumina sierica ↑ volume di distribuzione dei farmaci liposolubili (↑ emivita), ↓ volume di distribuzione dei farmaci idrosolubili (↓ margine di sicurezza) ↓ funzionalità epatica ↓ metabolismo dei farmaci (lamotrigina e valproato controindicati in caso di insufficienza epatica) ↓ filtrato glomerulare ↓ escrezione dei farmaci (evitare gabapentin, levetiracetam e topiramato, escreti totalmente a livello renale) tabella ii. modificazioni farmacocinetiche e farmacodinamiche nel soggetto anziano in relazione ai cambiamenti fisiologici l’elevato numero di comorbilità e la conseguente politerapia farmacologica costituiscono un altro aspetto da considerare nell’impostazione della terapia. in uno studio di ramsay e colleghi [11] in 593 pazienti anziani con epilessia di nuova diagnosi, il 64% dei pazienti era affetto da ipertensione arteriosa, il 50% circa dei pazienti aveva avuto un precedente ictus, la metà dei soggetti presentava una patologia cardiaca, circa un terzo era diabetico e meno di un quarto aveva una storia di pregressa neoplasia. gli antiepilettici convenzionali presentano un potenziale di interazione molto elevato con farmaci comunemente usati nella pratica clinica: antivirali, chemioterapici, antidepressivi, anticoagulanti, immunosoppressori, ipolipemizzanti, antipertensivi e antiaritmici [12]. ciò è in relazione principalmente all’induzione del metabolismo epatico attraverso il citocromo p450, deputato al metabolismo di vari farmaci. l’ottimizzazione della terapia con i farmaci antiepilettici si rende quindi necessaria in particolari situazioni di comorbilità e coterapia, frequentemente osservate nel paziente anziano. la valutazione delle funzioni cognitive nell’anziano risulta di fondamentale importanza prima di iniziare una terapia farmacologica. circa il 6% dei pazienti affetti da epilessia presenta disturbi psichici e la percentuale aumenta fino al 10-20% se si prendono in considerazione pazienti con epilessia farmaco-resistente. la maggior parte dei farmaci antipsicotici può deteriorare il controllo delle crisi epilettiche, specie in relazione alla dose utilizzata. gli antiepilettici convenzionali presentano un potenziale di interazione molto elevato e di conseguenza i livelli ematici di molti farmaci, come gli antidepressivi triciclici e i neurolettici convenzionali (aloperidolo e clorpromazina) e quelli di più recente introduzione (clozapina, risperidone, olanzapina e quetiapina) possono risultare ridotti fino a valori sub-terapeutici [13]. gli psicofarmaci possono d’altro canto alterare la farmacocinetica degli antiepilettici (carbamazepina, fenitoina e valproato) mediante un’inibizione degli enzimi della famiglia dei citocromi [14,15]. le interazioni farmacologiche tra gli antiepilettici di prima generazione e i farmaci comunemente usati nella prevenzione secondaria dello stroke (anticoagulanti orali, antiaggreganti, antiaritmici) complicano la gestione del paziente anziano con epilessia e malattia cerebrovascolare. warfarin, ad esempio, per il suo ristretto range terapeutico, l’elevato legame proteico e il suo metabolismo mediato da cyp2c9 e cyp3a4, può facilmente interagire con gli antiepilettici: mentre levetiracetam, lamotrigina, gabapentin e topiramato mostrano un basso potenziale di interazione, i vecchi antiepilettici risultano interferire più facilmente nel metabolismo di warfarin. non esistono conferme sugli effetti degli antiepilettici sul metabolismo di ticlopidina; tuttavia, per la sua azione inibitoria nei confronti del cyp2c19, sono possibili interazioni in associazione con fenitoina e carbamazepina [16]. gli inibitori delle colinesterasi, utilizzati nel trattamento delle demenze, hanno effetti limitati sugli enzimi implicati nel metabolismo dei farmaci, e quindi minime sono le interazioni potenziali con gli antiepilettici. tra i β-bloccanti, atenololo e sotalolo non sono metabolizzati per via epatica, e pertanto hanno un potenziale di interazione molto basso; viceversa i farmaci β-bloccanti lipofili (propranololo, metoprololo e timololo) possono incrementare la clearance degli antiepilettici. interazioni non trascurabili sono state documentate anche per i bloccanti dei canali del calcio. diltiazem e verapamil sono inibitori del cyp3a4 e aumentano i livelli circolanti di carbamazepina [17]. è stato dimostrato che l’uso concomitante dei classici antiepilettici determina una diminuzione nei livelli plasmatici dei calcioantagonisti diidropiridinici, substrati del cyp3a4 [18]. gli inibitori dell’hmg-coa reduttasi (atorvastatina, lovastatina e simvastatina) sono metabolizzati principalmente mediante reazione di ossidazione (cyp3a4); in un recente studio condotto in volontari sani, carbamazepina ha mostrato di ridurre la concentrazione plasmatica di simvastatina e dei sui metaboliti rispettivamente del 75% e 82% [19]. nella gestione terapeutica dell’epilessia nel paziente anziano in politrattamento vanno quindi attentamente considerate le possibili interazioni farmacologiche, e nel corso della terapia le concentrazioni plasmatiche degli antiepilettici dovrebbero essere monitorate più frequentemente (tabella iii). cbz pht vpa pb oxc tpm ltg gbp lev warfarin + + + + + + ? digossina + + + + + + ? neurolettici + + + + ? ? ? antiacidi + + + + ? ? ? ? antibiotici + + + + ? ? ? tabella iii. possibili interazioni di alcuni farmaci antiepilettici con altri farmaci frequentemente utilizzati nei pazienti anziani (+ interazione accertata; ? interazione dubbia; interazione non documentata) cbz = carbamazepina; gbp = gabapentin; lev = levetiracetam; ltg = lamotrigina; oxc = oxcarbazepina; pb = fenobarbital; pht = fenitoina; tpm = topiramato; vpa = valproato l’utilità di iniziare la terapia farmacologica dopo una singola crisi epilettica non provocata va valutata individualmente, considerando principalmente le possibili conseguenze fisiche e psicologiche di una ricorrenza delle crisi [20]. è importante altresì considerare i dati relativi a morbilità e mortalità associati alla ricorrenza delle crisi; una maggior incidenza di morte improvvisa è stata dimostrata in soggetti anziani con epilessia [21]. se da un lato i benefici della terapia antiepilettica sono sostanziali, i rischi legati alle possibili reazioni avverse in questa fascia di età sono ugualmente importanti. i farmaci antiepilettici, soprattutto quelli di vecchia generazione, sono tra quelli che più comunemente causano reazioni avverse negli anziani [22]. scelta del farmaco antiepilettico nell’anziano tutti gli antiepilettici di vecchia generazione, con l’eccezione di etosuccimide, sono risultati efficaci nel controllo delle crisi parziali, con o senza secondaria generalizzazione (la tipologia di crisi che più di frequente si riscontra nell’anziano). negli ultimi anni, tuttavia, un interesse crescente si è sviluppato intorno alla scelta dei farmaci antiepilettici di seconda generazione quali farmaci di prima linea nel trattamento dell’epilessia nell’anziano ancorché, ad oggi, pochi abbiano dimostrato di avere una risposta terapeutica superiore rispetto a quelli di prima generazione, sia nelle crisi parziali sia nelle crisi generalizzate tonico-cloniche [23]. gli antiepilettici di seconda generazione tuttavia hanno una maggiore biodisponibilità e un miglior profilo farmacocinetico (tabelle iv e v). le limitate evidenze disponibili sulla scelta dei trattamenti antiepilettici in questa fascia di età non consentono di suggerire criteri univoci nella selezione dei farmaci di prima, seconda e terza linea, né in monoterapia né in add-on. la personalizzazione della cura, primariamente sulla base dei criteri di tollerabilità e secondariamente su quelli di efficacia, costituisce il miglior indicatore disponibile nel trattamento dell’epilessia dell’anziano. farmaco biodisponibilità orale (%) legame proteico (%) via di eliminazione principale t½ h adulti cinetica fenobarbital 100 50 ossidazione e renale 50-150 lineare fenitoina 90 90 ossidazione 20-100 non lineare carbamazepina 80 75 ossidazione 10-30 non lineare etosuccimide 100 0 ossidazione 40-75 lineare valproato 100 90 ossidazione e coniugazione 10-20 non lineare tabella iv. principali parametri farmacocinetici degli antiepilettici classici farmaco legame proteico (%) via di eliminazione principale tempo allo steady-state (giorni) gabapentin 0 100% renale 2 lamotrigina 55 90% epatica (ugt) 3-15 levetiracetam < 10 66% renale, 24% epatica (idrolisi) 2 oxcarbazepina 40 50% epatica (ugt) 2-4 topiramato 15 60% renale 5 zonisamide 40 70% epatica < 14 lacosamide < 15 95% renale 3 tabella v. principali parametri farmacocinetici dei “nuovi” farmaci antiepilettici ugt = udp-glucuroniltransferasi tra i farmaci di nuova generazione gabapentin è un farmaco che non viene metabolizzato a livello epatico ma escreto a livello renale, e non determina interazioni con altri farmaci. per questo motivo è potenzialmente utile nel trattamento del paziente anziano. tuttavia a causa della ridotta funzionalità renale legata all’invecchiamento, le posologie devono essere necessariamente ridotte negli anziani. uno dei problemi pratici di gabapentin è la sua breve emivita e quindi la necessità di somministrazioni giornaliere multiple, che possono costituire un impedimento alla corretta compliance nell’anziano. oxcarbazepina ha una particolare tendenza a determinare iponatriemia, fattore fortemente limitante nella terapia dell’anziano. levetiracetam non è metabolizzato a livello epatico e per tale motivo non ha interazioni con il metabolismo di altri farmaci. il ridotto legame alle proteine plasmatiche (< 10%) evita i potenziali rischi di interazione con i farmaci altamente legati alle proteine (warfarin). per tali aspetti levetiracetam è ben tollerato nella popolazione anziana, ancorché siano stati segnalati effetti collaterali sul profilo comportamentale. la dose media giornaliera consigliata nell’anziano è di 750-1.500 mg. zonisamide e topiramato hanno generalmente un maggior potenziale di effetti avversi sulle funzioni cognitive rispetto ad altri farmaci di nuova generazione; tuttavia una attenta titolazione delle dosi e posologie adeguate possono limitarne i possibili effetti collaterali [24,25]. una corretta terapia antiepilettica nell’anziano richiede l’adeguamento della posologia del farmaco alle caratteristiche del singolo paziente. la variabilità della tollerabilità ai diversi trattamenti è attribuibile, in gran parte, alle differenze interindividuali riguardanti la farmacocinetica. pertanto risulta utile considerare in questo gruppo di pazienti il ricorso al monitoraggio delle concentrazioni plasmatiche per valutare la risposta clinica. i farmaci antiepilettici per i quali il monitoraggio viene più comunemente utilizzato sono i farmaci di vecchia generazione (fenobarbital, fenitoina, carbamazepina). il monitoraggio risulta utile anche per la ridotta compliance tipica dell’anziano, spesso per deficit di memoria o visivi. è raccomandabile pertanto fornire al paziente istruzioni scritte, monitorando con l’aiuto dei familiari l’aderenza alla terapia e scoraggiando la sospensione incontrollata dei farmaci [26]. naturalmente nel paziente anziano oltre alle epilessie di nuova insorgenza possono persistere forme di epilessia esordite in età giovanile/adulta. i relativi pattern elettro-clinici, gli aspetti sindromici, e la terapia farmacologica attuata vanno rivalutati e riconsiderati in rapporto ai diversi aspetti – medici, pratici, sociali, assistenziali – che l’invecchiamento del paziente aggiunge alla patologia pre-esistente. il ricorso ad altre opzioni terapeutiche non farmacologiche (chirurgia, stimolazione vagale, stimolazione cerebrale profonda) va considerato più precocemente possibile nei casi di insuccesso terapeutico, valutando individualmente la risorsa più appropriata. bibliografia hauser wa, kurland lt. the epidemiology of epilepsy in rochester, minnesota, 1935 through 1967. epilepsia 1975; 16: 1-66 hauser wa, annegers jf, kurland lt. incidence of epilepsy and unprovoked seizures in rochester, minnesota 1935-1984. epilepsia 1993; 34: 453-68 hauser wa. seizure disorders: the changes with age. epilepsia 1992; 33 (suppl 4): s6-s14 ruffmann c, bogliun g, beghi e. epileptogenic drugs: a systematic review. expert rev neurother 2006; 6: 575-89 brodie mj, stephen lj. epilepsy in elderly people. lancet 2000; 355: 1441-6 brodie mj, kwan p. 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infrasca 1 1 psicoterapeuta, la spezia personality structure in healthcare professionals in psychology-psychiatry cmi 2020; 14(1): 21-26 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v14i1.1477 editoriale corresponding author roberto infrasca roberto.infrasca@libero.it received: 15 april 2020 accepted: 24 april 2020 published: 15 july 2020 note introduttive il complesso lavoro psicologico-psichiatrico ha bisogno che gli operatori sanitari dispongano di personalità strutturate e ragionevolmente mature. questa caratteristica risulta essenziale perché tale operatività possa raggiungere i risultati migliori per il gruppo sanitario e quindi per il paziente e costituisce, pertanto, un’importante dimensione finale dell’attività terapeutica. attraverso questa modalità è possibile capire i bisogni del paziente costruendo un legame capace di uno sviluppo positivo. la comprensione del significato delle esperienze che hanno agevolato lo sviluppo della psicopatologia diventa così un passaggio significativo, non eliminabile o restringibile. di fatto, una relazione terapeutica non basata o che lasci in ombra questa prassi è deputata a un probabile fallimento. non casualmente, questa tipologia di lavoro si basa essenzialmente sulla capacità degli operatori sanitari di raggiungere il percorso di vita del paziente e non il tragitto inverso. in caso contrario, questa persona avvertirebbe di essere ancora un “nomade dell’esistenza”, percezione che bloccherebbe o ostacolerebbe ogni minimo tentativo di cambiamento. per queste ragioni gli operatori psicologico-psichiatrici devono disporre di strutture di personalità fornite di un’esperienza capace di comprendere il vissuto del paziente, evitando una relazione formale che sarebbe nociva e inconcludente. la struttura dell’operatore sanitario nel campo psicologico-psichiatrico in questo campo, l’operatore sanitario deve quindi possedere una struttura basata su presupposti di personalità che comprendano una serie di caratteristiche basate su una sequenza interna non alterabile. tale successione si evidenzia nel sentire > pensare > comunicare > comportarsi. questa sequenza permette alla capacità personale di poter affrontare il mondo circostante e i suoi problemi con un ragionevole buonsenso e padronanza. è importante, inoltre, sottolineare che delle quattro fasi il “sentire” rappresenta l’elemento essenziale che caratterizza profondamente quelle successive. infatti, il “sentire” è in grado di condizionare fortemente le altre tre fasi, ponendole nella condizione di rispondere quasi automaticamente al suo contenuto (povero o ricco che sia di esperienze, di valori, di principi etici, ecc.). in questa prospettiva, il “sentire” assume una sua sovranità psicodinamica regolativa di tutte le altre manifestazioni interne (pensiero) ed esterne (comunicazione e comportamento). tale susseguirsi prende forma precocemente (infanzia), consolidandosi attraverso le esperienze degli stadi evolutivi successivi (adolescenza e maturità) e al significato che viene attribuito alle stesse. il “magazzino degli elementi esperienziali” (mee) contiene questi tasselli esperienziali (umani, relazionali, lavorativi, culturali, sessuali, ecc.) dai quali l’individuo attinge fattori e panorami esistenziali che gli permettono di comporre nuove e oggettive elaborazioni e vissuti della realtà. un’esperienza, per essere archiviata definitivamente nel mee, abbisogna di alcune essenziali caratteristiche. la prima viene rintracciata nel vissuto implicato nell’esperienza stessa, vale a dire che rappresenti per la persona una notevole importanza soggettiva, condizione per cui diviene parte integrante della memoria storica individuale. l’altra si evidenzia nell’accettazione dell’esperienza negativa con un sentire imparziale che, nel rispetto della propria dignità, l’individuo ritiene che comunque arricchirà la sua memoria storica. partendo dal presupposto che il mee si organizza nell’infanzia, questo stadio evolutivo diviene essenziale a formare un’architettura mentale “fluida” o “rigida”, una visione del mondo e degli altri fondata particolarmente su elementi realistici oppure illusori e fantastici, una capacità relazionale prevalentemente organizzata su presupposti esperienziali soggettivi e obiettivi oppure soltanto sui propri bisogni e desideri individualistici. peraltro, in assenza di una memoria storica, qualsiasi esperienza già vissuta risulterebbe nell’attualità del tutto nuova, situazione che metterebbe l’individuo nella condizione di non sapere come valutarla, gestirla e comportarsi. qualora tale esperienza non venga interiorizzata nel mee (la memoria storica), ogni ulteriore e analoga situazione continuerà a essere vissuta come nuova e indecifrabile. quanto descritto significa che il mee risulta di alta significatività vitale per l’individuo, un attendibile “suggeritore” interno capace di orientare il modello mentale, comunicativo e comportamentale verso situazioni che prevedano la riduzione (a volte l’annullamento) di errori e quindi del probabile fallimento soggettivo. il mee assume così un profilo di notevole importanza nell’esistenza individuale (quindi relazionale), essendo in grado di permettere a una persona di accumulare esperienza. senza esperienza l’essere umano “nascerebbe” ogni giorno. senza esperienza non sarebbe in grado di decidere. senza esperienza si perderebbe nelle circostanze e situazioni quotidiane che la vita propone, che risulterebbero non distintamente comprensibili e quindi valutabili. se nel mee risiedono poche e scarne esperienze e ricordi persistenti delle stesse, queste non possono che presentare lo stesso profilo, situazione che pone il magazzino degli elementi esperienziali nella situazione di impoverirsi e così l’individuo che lo possiede. le esperienze e la memoria, peraltro, permettono la “plasticità del cervello”, vale a dire la capacità del cambiamento delle relazioni tra neuroni e quindi quello personologico e comportamentale. tali affermazioni sono ampiamente verificate nelle ricerche di kandel [1,2]. premio nobel per la medicina (2000), l’autore sostiene che l’essere umano sia il prodotto dell’interazione tra le sue esperienze, i suoi ricordi e l’apprendimento conseguente. kandel scoprì che il nostro apprendimento non avviene attraverso la modificazione dei neuroni, ma rafforzando le sinapsi (connessioni tra i neuroni) o costruendone di nuove, dinamica che modifica continuamente la nostra mente (cervello) rispetto alle esperienze vissute (processo tipico per la memoria a lungo termine – mlt, che riflette la complessità del mee). una breve parentesi può essere utile per comprendere meglio l’argomento trattato. la comunicazione si divide sostanzialmente in verbale e non verbale, ma pare importante inserire anche un’ulteriore e analoga suddivisione tra detto e non detto. il “detto” rappresenta la parte della realtà sentita e comunicata. il “non detto” è la realtà rimanente che invece non viene comunicata e che ostacola profondamente la comprensione da parte degli altri, della persona che usa questa tipologia di linguaggio [3]. la prima modalità comunicativa chiarisce e diviene di prossimità, la seconda nasconde e allontana. l’esperienza professionale permette di percentualizzare tali modalità nel modo seguente: “detto” tra il 20% e il 15%, “non detto” tra l’80% e l’85%, mentre una comunicazione ragionevolmente umana e genuina prevedrebbe percentuali inverse. il “non detto” rende quindi la persona che lo usa anonima e apolide a livello comprensivo ed esistenziale, occultando la vera sostanza personale e quindi una lettura ragionevole e accessibile della stessa. tale voluta indifferenziazione personologica necessita così di ulteriori e impegnative rielaborazioni tese a completare il profilo umano comunicato, rendendo impossibile la lettura personologica nell’80-85% delle situazioni. peraltro, il pensiero deve essere necessariamente comunicato: in caso contrario diviene un “pensiero afono”, che non assume una funzione e una coloritura personale, relazionale e culturale, quindi inutile a livello umano ed esistenziale. il mee, quindi, risulta il contenitore di tutti gli engrammi personali accumulati, che divengono la memoria storica dell’individuo senza il quale lo stesso “non è”. la scarsità di engrammi comporta un pensiero elementare, mentre la numerosità e la complessità degli engrammi implicano un pensiero complesso, che spazia per orizzonti complicati e ampi. senza memoria storica una persona (o una comunità) rischia di perdere e smarrire il significato profondo della propria identità culturale e civile. tra le diverse tipologia di memoria, solo quella critica è in grado di selezionare e discernere i ricordi in base a un atteggiamento rivolto a capire la vicenda umana (soggettiva e collettiva) per come si è sviluppata lungo la linea del tempo. nelle caratteristiche assunte dal mee, risiedono le basi del pensiero pensante o solo di forme alternative di pensiero. in questo terreno, il metodo educativo familiare diviene il modellatore del pensiero infantile (poi adolescenziale e maturo). le sistematiche sollecitazioni genitoriali orientate a dare al bambino una molteplicità di panorami esistenziali è all’origine della possibilità di una “multi-esperienza” oppure di una “mono-esperienza” della realtà personale e interpersonale di questa piccola e ancora informe dimensione umana. di fatto, mentre il pensiero infantile risulta molto duttile e quindi plasmabile, quello adolescenziale ha un profilo meno flessibile e quello maturo si presenta, generalmente, come maggiormente stabile (qualsiasi sia la sua valenza o orientamento). l’empatia umana deriva principalmente dalle esperienze immagazzinate nel mee, divenendo un diretto prodotto di questo. dalla premessa, si comprende come la struttura caratterologica dell’operatore sanitario nel lavoro psicologico-psichiatrico debba necessariamente essere il più possibile conforme alle prerogative delineate. il ruolo dell’empatia nel lavoro psicologico-psichiatrico l’empatia, intesa come consapevolezza dei pensieri e dei sentimenti di un’altra persona, del “sentire” il mondo come questo lo vede e lo vive condividendone aspetti emozionali e cognitivi, diventa così indispensabile. l’empatia, non casualmente, è un requisito fondamentale nella psicoterapia, pratica nella quale il terapeuta partecipa profondamente all’esperienza del paziente pur conservando un’indipendenza emotiva dallo stesso. l’origine dell’empatia viene così rintracciata nella conformazione del mee, nella sua capacità di estendersi verso un panorama umano vasto e multiforme. il lavoro psicologico-psichiatrico non può quindi essere svolto positivamente senza questa essenziale capacità di base dell’operatore sanitario in quanto, deficitaria di questa caratteristica, la relazione terapeutica sarebbe solamente personale e non interpersonale. la preparazione clinica dell’operatore è decisamente necessaria ma non bastevole per un effettivo lavoro in questa delicata attività. tutte le attività che prevedono un’attività terapeutica sull’uomo, così, non possono prescindere da alcuni essenziali criteri di contributo. tra questi, possono essere elencati: la capacità di mettere in ombra le proprie aspettative e i propri bisogni soggettivi; l’attitudine a lavorare, se non unicamente, ma in maniera prevalente sui bisogni dell’altro; la tendenza a vedere nel paziente lo scopo principale e non un mezzo per il proprio successo; il bisogno di avvalersi delle diverse professionalità insite nel gruppo per aumentare la propria competenza e la coesione di questo nell’intervento sul disagio psichico. visto in quest’ottica il lavoro psicologico-psichiatrico (come in altri) assume così un valenza importante pur tra i rilevanti ostacoli che tale attività prevede. comprendere il tragitto vitale che ha percorso il paziente per diventare tale non è facile né veloce. di fatto, richiede un’interazione e un’introspezione lunga e quasi sempre dolorosa, che prevede l’importante domanda: chi sono io e chi è lui? posta in questo scenario, tale attività assume un profilo gratificante e difficoltoso, ed è qui che entra in campo la personalità dell’operatore sanitario. se pur professionalmente possa essere anche soddisfacente, affrontare la struttura psicopatologica risulta difficoltoso. questa è una consapevolezza individuale attraverso la quale l’operatore sanitario proseguirà il suo tragitto professionale, mentre in caso contrario sarà indotto a un discreto ma inesorabile abbandono per non mettere in forse le proprie “sicurezze” e, con queste, la propria struttura di personalità. tali affermazioni, infatti, trovano condivisione in molti lavori nella letteratura di ricerca che, pur partendo da ambiti e approcci differenziati, approdano a identiche conclusioni sull’importanza della personalità e della tipologia comunicativa messa in atto dall’operatore all’interno del lavoro psicologico-psichiatrico [4-7]. il lavoro psicologico-psichiatrico ha quindi bisogno di operatori sanitari che dispongano di una struttura di personalità “ragionevolmente organizzata”, per quanto umanamente possibile. nella realtà, invece, è possibile trovare architetture caratteriali negative e positive. di seguito proponiamo una panoramica delle stesse. aspetti negativi della personalità dell’operatore che svolge il lavoro sanitario tra le caratteristiche ritenute negative viene rintracciata l’empatia scambiata per confidenzialità, per collusione con il paziente, l’attingere (inconsapevolmente) dal paziente la propria autostima, la proiezione sul paziente dei propri problemi per curarli all’“esterno”. in questo panorama, alcune caratteristiche psico-comportamentali dell’operatore assumono un ruolo determinante. principalmente troviamo le note narcisistico-onnipotenti presenti nelle situazioni che prevedono una relazione con la psicopatologia. la presenza di tali tratti può condurre l’operatore a negare aspetti della realtà e quindi del paziente stesso, a causa del mancato riconoscimento o della non accettazione dei propri limiti (possibilità di dare risposte a tutto), originando nel paziente un’illusoria aspettativa di soluzione dei suoi problemi che determina una sua passività e la frequente cronicizzazione della relazione tra operatore e paziente. l’anticipazione dei bisogni è un meccanismo attraverso il quale l’operatore sposta sul paziente il proprio desiderio di sentirsi utile, con il rischio di bloccare la comunicazione dei suoi bisogni inespressi, frequentemente non individuati dalla figura sanitaria. la scarsa capacità di quest’ultima a tollerare i tempi comunicativi del paziente (che suscitano timori di inutilità), possono indurre l’operatore a un intervento soggettivo che invade il “territorio emotivo” dell’altro, restringendone il già ridotto spazio personale. in questa prospettiva, essere realmente un valido aiuto per l’altro significa imparare ad attendere rispettando i suoi tempi e i suoi silenzi. la proiezione delle parti “buone e cattive” dell’operatore tale per cui la vicinanza o la distanza dal paziente realizza un rapporto non reale con il paziente ma con i fantasmi dei propri vissuti emotivi. proprio la caratteristica professionale dell’operatore (relazione tra due soggettività) che prevede la messa in atto della proiezione si verifica spesso, poiché la soggettività dell’operatore deve confrontarsi con tante altre soggettività (i pazienti) e questo stimola nel sé vissuti personali e risposte psico-comportamentali (vicinanza o distanza) a seconda che i segmenti rievocati siano correlati a situazioni personali positive o negative, piacevoli o sgradite, appaganti o frustranti. spostando sul paziente le proprie problematiche e tentando di risolverle attraverso lui, l’operatore avrà l’illusione di non viverle come appartenenti a se stesso. l’eccedenza di autocentrismo (su di sé) o di eterocentrismo (sul paziente) implica un’assenza della realtà vissuta nella relazione terapeutica oppure vissuta interamente sul paziente e quindi fuori da sé, con l’inevitabile conseguenza di un’impossibilità dell’“ascolto”. in realtà, nel primo caso l’operatore non può costruire una relazione di ascolto con il paziente poiché sottomesso ai bisogni del proprio sé, mentre nel secondo la negazione dei propri bisogni per un univoco ascolto di quelli del paziente può fare smarrire i confini del sé e della realtà professionale, presentando un’immagine di precarietà e di inadeguatezza che genera insicurezza, compromettendo la serenità della relazione. aspetti positivi della personalità dell’operatore che svolge il lavoro sanitario gli aspetti positivi della personalità dell’operatore che svolge il lavoro sanitario sono quindi basati essenzialmente su alcune dimensioni tipiche dell’io adulto. tra queste, si evidenzia la fiducia (fiducia in sé e negli altri), dimensione costruita soprattutto nelle prime fasi dell’età evolutiva, nei rapporti con gli adulti nei primi anni di vita e nell’importanza delle esperienze successive. sulla fiducia si basa la sicurezza, vale a dire la fiducia nelle proprie capacità di affrontare la realtà e le difficoltà che la stessa implica senza sentirsi intimoriti. la sicurezza può essere definita nella sua forma più evoluta e consapevole come “autostima” (giudizio e valutazione di sé e delle proprie capacità). l’autonomia è legata alla sicurezza e alla fiducia, raffigurando concretamente il vissuto di un io separato dagli altri (originariamente dalle figure genitoriali), quindi in grado di affrontare la realtà, di assumersi responsabilità, di competere per la realizzazione di sé. l’immagine di sé è un altro importante tratto caratterologico (anche per l’operatore sanitario). il tragitto evolutivo della costruzione dell’io implica una rappresentazione sempre più organizzata e molteplice di sé come essere distinto dagli altri in quanto dotato di una propria individualità. l’immagine di sé si configura come concetto di sé, vale a dire quale rappresentazione consapevole della propria individualità (sentimenti, valori, capacità, aspirazioni, affetti, ecc.). ai tratti di personalità citati va aggiunto il principio di realtà inteso come «una funzione preconscia costantemente attiva che automaticamente sceglie le nostre esperienze per orientarci nel comprendere se si tratta di una percezione esterna o intrapsichica – una vera percezione dei sensi o un’illusione; un ricordo o un prodotto dell’immaginazione; e quale posizione occupi all’interno di queste categorie – un vero oggetto o il disegno di un oggetto, il ricordo di un fatto o il ricordo di una fantasia» [8]. in definitiva, una persona, per capire chi ha “di fronte a sé” deve capire chi ha “dentro di sé”. conclusioni il lavoro ha messo in luce come il magazzino degli elementi esperienziali (mee) coniughi il divenire di una persona e divenga importante nel lavoro psicologico-psichiatrico in quanto organizzatore interno che assume il ruolo di coordinatore della prassi messa in atto nella realtà dall’operatore sanitario. questa condizione strutturale della caratterologia soggettiva permette, oltre alle necessarie conoscenze cliniche, di muoversi fluidamente in una relazione terapeutica per niente semplice il cui esito non è scontato. il “sentire” diviene così il contenitore depositario di una serie di contenuti estremamente importanti (memoria storica delle esperienze, sentimenti, vissuti, valori, ecc.), “sapere” dal quale dipendono in modo strettamente dipendente il pensiero, la comunicazione e il comportamento. per tale ragione, un contenitore ricco e multiforme dà luogo a un pensiero altrettanto ricco e multiforme, a una comunicazione e un comportamento elaborati e sotto la sorveglianza del “sentire”. al contrario, un contenitore con contenuti mediocri o poveri determina un pensiero angusto e una comunicazione e un comportamento stereotipati e individualistici. la prima condizione di base, peraltro, permetterebbe all’operatore di comprendere, attenuare e governare quelli che vengono definiti i rischi delle professioni sanitarie (per esempio le note narcisistico-onnipotenti, l’anticipazione dei bisogni, la proiezione e, in parte, il fenomeno del burn-out), mentre un mee deficitario di una molteplicità esperienziale renderebbe la relazionalità rigida, formale e convenzionale, quindi antiterapeutica. in questa prospettiva, l’esperienza personale storicizzata diviene essenziale poiché orienta in modo significativo quella professionale. tale processo amplifica molto la risonanza delle informazioni cliniche formative, che divengono un importante supporto all’interno della relazione terapeutica messa in atto. la presenza nell’operatore di quanto delineato rende lo stesso maggiormente consapevole di sé e del paziente (l’altro da sé), aumentando la probabilità che il lavoro terapeutico trovi un approdo soddisfacente per entrambi. di fatto, la consapevolezza della propria personalità agevola parallelamente la consapevolezza della personalità del paziente (storia, vicissitudini, significato dell’espressività sintomatologica), divenendo un intervento terapeutico che si sviluppa “ in verticale” e non solamente “in orizzontale”. quanto argomentato diviene un attendibile indirizzo per i gruppi che svolgono un lavoro psicologico-psichiatrico, fornendo loro le determinanti di base che possono agevolare od ostacolare questa importante e delicata prassi terapeutica. fonti di finanziamento questo articolo è stato pubblicato senza il supporto di sponsor. conflitti di interesse l’autore dichiara di non avere conflitti di interesse riguardanti gli argomenti trattati nel presente articolo. bibliografia 1. kandel er. a new intellectual framework for psychiatry. am j psychiatry 1998; 155: 457-69; https://doi.org/10.1176/ajp.155.4.457 2. kandel er. biology and the future of psychoanalysis: a new intellectual framework for psychiatry revisited. am j psychiatry 1999; 156: 505-24; https://doi.org/10.1176/ajp.156.4.505 3. mehrabian a. nonverbal communication. chicago (usa, il): aldine-atherton, 1972 4. vigorelli m (a cura di). il lavoro della cura nelle istituzioni. progetti, gruppi e contesti nell’intervento psicologico. milano (italy): franco angeli, 2005 5. pellegrini  p. riflessioni sull’identità degli operatori in psichiatrica. psicoterapia e scienze umane 2009; 4: 545-58 6. lorettu l, nivoli gc, milia p, et al. il colloquio in situazioni psichiatriche di crisi [clinical interview in psychiatric difficult situations]. riv psichiatr 2017; 52: 150-7; https://doi.org/10.1708/2737.27907 7. montinari g. proteggere e comunicare in terapia psichiatrica. disponibile all’indirizzo http://www.giandomenicomontinari.it/index.php/pubblicazioni/proteggere-e-comunicare-in-terapia-psichiatrica/ (ultimo accesso luglio 2020) 8. rapaport d. le tecniche proiettive e la teoria del pensiero. in: rapaport d. il modello concettuale della psicoanalisi. milano: feltrinelli, 1977 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2) 43 clinical management issues maria rosa luppino 1 prescrizione off-label: un’assunzione di responsabilità editoriale 1 dirigente farmacista, azienda ulss 20, verona corresponding author dott.ssa maria rosa luppino mluppino@unime.it nell’accezione comune, la prescrizione al di fuori delle indicazioni terapeutiche autorizzate viene definita “off-label”. in realtà, la normativa in vigore nel nostro paese definisce “off-label” l’impiego di un farmaco non solo in termini di indicazioni terapeutiche ma anche di posologie non previste, secondo modalità di somministrazione non formalmente autorizzate oppure di prescrizioni in popolazioni di età non comprese o addirittura controindicate nell’ambito del riassunto delle caratteristiche del prodotto (rcp), ossia della scheda tecnica. tale materia, in italia, è regolamentata da normative ben precise che individuano sostanzialmente due modalità principali attraverso le quali, in mancanza di valide alternative terapeutiche, può essere effettuata una prescrizione off-label: legge n. 648/1996; y legge 94/1998. y la netta distinzione tra i due atti normativi può essere individuata, innanzitutto, nella rimborsabilità al cittadino della prescrizione off-label, che, nel caso della prima norma, viene consentita solo se il principio attivo rientra negli elenchi periodicamente aggiornati dalla agenzia regolatoria (aifa) mentre con la seconda non può essere implementata. va da sé che, per entrambe le tipologie di prescrizione, è perentorio rendere consapevole il paziente dei possibili rischi o dell’assoluta incertezza che sottende la prescrizione off-label attraverso la sottoiscrizione del cosiddetto “consenso informato”. se da un lato, tuttavia, il prescrittore che ritiene opportuno somministrare un farmaco incluso negli elenchi aifa ai sensi della legge n. 648/1996 può sentirsi legittimato alla prescrizione stessa dall’autorità regolatoria che ha già valutato le evidenze disponibili, la legge n. 94/1998 lascia al medico la responsabilità piena della scelta terapeutica. a questo proposito, tra le situazioni cliniche nelle quali più frequentemente si registra l’uso off-label va rilevato sicuramente l’impiego nella popolazione pediatrica di farmaci autorizzati nella popolazione adulta. ciò avviene a causa dell’esiguità e, in certi casi, della mancanza assoluta di sperimentazioni cliniche condotte in questo target di pazienti. a questo proposito, si pensi al paziente pediatrico affetto da patologie di tipo psichiatrico per il quale le opzioni terapeutiche disponibili, tra cui alcune sono propriamente off-label, sono state oggetto a più riprese di comunicazioni da parte delle agenzie regolatorie. questo è il caso della classe terapeutica degli antidepressivi ssri (inibitori selettivi del reuptake della serotonina), il cui utilizzo soprattutto nella popolazione pediatrica è stato correlato all’aumento del rischio di sviluppare comportamenti autolesivi o suicidari. altro target di popolazione “trascurato” potrebbe essere considerato quello costituito dalle donne in gravidanza, per le quali la maggior parte dei farmaci è controindicata a causa del potenziale teratogeno. può anche accadere che nell’ambito della medesima classe terapeutica, l’uso di alcuni principi attivi sia regolarmente autorizzato in gravidanza mentre altri non lo siano. emblematico il caso delle eparine a basso peso molecolare. mentre, infatti, per nadroparina, parnaparina e reviparina (e dalteparina solo ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2)44 editoriale per la formulazione da 100.000 ui/4 ml) i rispettivi rcp riportano chiaramente la controindicazione d’uso in gravidanza, per tutte le altre epbm, nella sezione gravidanza, si raccomanda cautela e/o la verifica della assoluta necessità della prescrizione ma non una controindicazione formale. le incertezze sulla sicurezza di impiego, come evidenziato nei casi sopra citati dovrebbero indurre il prescrittore a una maggiore cautela nella sua scelta terapeutica soprattutto se sono a disposizione alternative, con un rapporto rischio/beneficio meno sfavorevole. per chi desidera approfondire prescrizione off-label. normative e applicazioni (formato ebook) achille patrizio caputi, maria rosa luppino prezzo: 11,28 € isbn 978-88-8968-866-3 acquistabile su www.edizioniseed.it aggiornato ad aprile 2011 le domande che il medico si pone in relazione alla prescrizione dei farmaci in modalità off-label, ossia al di fuori di quanto previsto dal riassunto delle caratteristiche del prodotto autorizzato, sono numerose e spesso non è semplice trovare le risposte. a partire dalle normative che regolano la prescrizione off-label, il testo fornisce indicazioni per usare i farmaci in modo consapevole, sulla base delle evidenze scientifiche e in modo conforme a quanto stabilito dalle leggi italiane. alcuni esempi, nell ’ambito della pediatria, dell ’oncologia e della psichiatria, ne chiariscono l ’uso corretto nella pratica clinica. eb oo k http://www.edizioniseed.it/libro.aspx?id=443 prescrizione off-label: un’assunzione di responsabilità maria rosa luppino 1 sifilide congenita in una bambina di due mesi daniele serranti 1, danilo buonsenso 1, piero valentini 1 un caso di iperinflazione polmonare nello scompenso cardiaco cronico: il ruolo della terapia diuretica e della riabilitazione cardiorespiratoria claudio di gioia 1, giuseppe de simone 1, antonio di sorbo 1, gabriele borzillo 1, giovanni d’addio 1, alessandro ciarimboli 1, ilernando meoli 2, massimo romano 3, andrea bianco 4 possibili implicanze genetiche nella risposta alla terapia di resincronizzazione biventricolare in un paziente affetto da scompenso cardiaco natalia pezzali 1, marco metra 1, livio dei cas 1 sindrome di hopkins maria roberta longo 1, raffaele falsaperla 1, catia romano 1, eleonora passaniti 1, piero pavone 1 cmi 2018;12(1)77-88.html statins and immune-mediated necrotizing myopathy mauro turrin 1 1 former department of internal medicine, ospedali riuniti padova sud, monselice (padova), italy abstract statins are a well-recognized cause of a variety of skeletal myopathic effects, which generally resolve when discontinuing the treatment. among autoimmune manifestations associated with statins, there is immune-mediated necrotizing myopathy (imnm). the present article summarizes the main features of statin-related imnm, describing diagnosis, classification, epidemiology, treatment, and the main autoantibodies detected. although it is impossible to define the precise number, it evident that more than 550 statin-related imnm cases have been described in the literature. among imnm, two forms must be distinguished: with anti-3-hydroxy-3-methylglutaryl-coenzyme a reductase (hmgcr) and with anti-signal recognition particle (srp) antibodies. the differential diagnosis should be made between the imnm and self-limited statin-related myopathy, drug-induced rhabdomyolysis, and nonautoimmune myopathies. patients who have failed to normalize high creatine phosphokinase (cpk) after statin withdrawal should be tested for anti-hmgcr antibodies and, if these are positive, undergo muscle biopsy to confirm the diagnosis of imnm. pharmacological therapy of imnm, not yet based on evidence, involves the use of high-dose corticosteroids, immunosuppressant drugs used alone or in combination, intravenous immunoglobulins (ivig) or plasmapheresis. keywords: hydroxymethylglutaryl-coa reductase inhibitors; dermatomyositis; polymyositis; immune-mediated necrotizing myopathy; anti-hmgcr antibodies statine e miopatia necrotizzante immuno-mediata cmi 2018; 12(1): 77-88 https://doi.org/10.7175/cmi.v12i1.1367 clinical management corresponding author dr. mauro turrin monselice—padova tel. +39 328.9032440 m.turrin@libero.it received: 11 july 2018 accepted: 18 october 2018 published: 25 october 2018 statins statins are among the most widely prescribed drugs. they helped increase the survival rate in patients affected by cardiovascular disease. millions of prescriptions are written annually for this class of drugs. therefore, it is of the utmost importance to closely monitor patients for adverse and even life-threatening side effects. the most common side effects of statins include the development of toxic myopathies, which usually resolve after drug removal (about 2-20% of patients treated with statins [1]). the risk of statin myopathy and/or increased creatine phosphokinase (cpk) is dose-dependent. statin-related muscle side effects have recently been systematically classified [2]: as srm 6 class it is possible to find the rarest among muscle side effects, those concerning autoimmune phenomena (table i). in fact, recently, immune-mediated necrotizing myopathy (imnm) has been found to be sometimes associated with statin use. in addition, exposure to statins was reported in some cases of inflammatory myopathies such as polymyositis (pm) and dermatomyositis (dm). the association of statins and pm or dm is sustained by some authors, and criticized by others, who believe that these cases could be imnm. srm classification phenotype definition incidence srm 0 cpk elevation < 4 x uln no muscle symptoms 1.5-26% srm 1 myalgia, tolerable muscle symptoms without cpk elevation 0.3-33% srm 2 myalgia, intolerable muscle symptoms, cpk < 4 x uln, complete resolution on dechallenge 0.2-2/1000 srm 3 myopathy cpk elevation > 4 x uln with or without muscle symptoms, complete resolution on dechallenge 5/100,000 patient-years srm 4 severe myopathy cpk elevation > 10 x uln < 50 x uln, muscle symptoms, complete resolution on dechallenge 0.11% srm 5 rhabdomyolysis cpk elevation > 10 x uln with evidence of renal impairment + muscle symptoms or cpk > 50 x uln 0.1-8.4 /100,000 patient-years srm 6 autoimmune-mediated necrotizing myositis hmgcr antibodies, hmgcr expression in muscle biopsy, incomplete resolution on dechallenge ~2/million per year table i. statin-related myotoxicity phenotype classification. modified with permission to reuse from [2] cpk = creatin phosphokinase; hmgcr = 3-hydroxy-3-methylglutaryl-coenzyme a reductase; srm = statin-related myotoxicity; uln = upper limit of normal classification and diagnostic criteria in 2003, in the netherlands the category of immune-mediated necrotizing myopathy (imnm) was introduced for the first time by the european neuromuscular centre workshop [3]. in 2017, the european league against rheumatism/american college of rheumatology (eular/acr) defined the classification criteria of inflammatory myopathies (iims) [4]. in the same year an integrated classification of inflammatory myopathies, authored by allenbach and colleagues [5], was published. unlike the eular classification, the difference between pm, a very uncommon isolated disease, and imnm was well defined. in september 2018, selva-o’callaghan and colleagues published on lancet neurology a new classification of inflammatory myopathies in the adult based on the clinical characteristics of the main clinical and phenotype-specific autoantibody groups [6]. five main types of iim are recognized: dermatomyositis (with autoantibodies against mi2, nxp2, tif1, sae, mda5 or no autoantibodies detected), affecting mainly skin and muscle; immune-mediated necrotizing myopathy (with autoantibodies against srp, hmgcr or no autoantibodies detected), affecting mainly muscle in a severe manner; sporadic inclusion-body myositis, affecting muscle severely; overlap myositis (including antisynthetase syndrome, where autoantibodies against jo1, pl7, and pl12 may be detected, and three other forms, with autoantibodies against pm/scl, ku, and u1rnp), affecting mainly muscle and lung; and polymyositis, with heterogeneous clinical features. abbreviations of autoantibodies hmgcr: 3-hydroxy-3-methylglutaryl-coenzyme a reductase jo1: histidyl-trna synthetase mda5: melanoma differentiation-associated gene 5 nxp2: nuclear matrix protein 2 pl7: threonyl-trna synthetase pl12: alanyl-trna synthetase pm/scl: anti-polymyositis-scleromyositis sae: small ubiquitin-like modifier activating enzyme srp: signal recognition particle tif1: transcription intermediary factor 1 u1rnp: u1 ribonucleoprotein many patients previously classified as having pm could now be considered to have antisynthetase syndrome without a rash, imnm or sporadic inclusion-body myositis: the condition remains a diagnosis of exclusion. besides clinical criteria, magnetic resonance imaging (mri) [3,7] can be useful to make the right diagnosis. statins have also been implicated in other autoimmune diseases, such as interstitial lung disease, myasthenia gravis, systemic lupus erythematosus, cutaneous lupus, vasculitis, autoimmune hepatitis, and lichen planus pemphigoides [8-10]. several cases appeared in recent years in literature related to necrotizing myopathies associated with statins and with the coexistence of autoimmune phenomena [8,11]. in the list of rare diseases of orphanet [12], immune-mediated necrotizing myopathy appears at n. 206569 and has several synonyms: anti-hmg-coa myopathy, anti-srp myopathy, autoimmune necrotizing myositis, imnm, immune myopathy with myocyte necrosis, and necrotizing autoimmune myopathy (nam). the possible causes for the onset of imnm are: statins, connective tissue diseases, or cancer. until june 2018, the presence of 300 cases of imnm overall was reported in orphanet list [12], instead until february 2018 a french communication cited 390 cases in adults and 20 pediatric cases [13]. incidence of statin-related imnm was estimated to be 2-3 new cases in every 100,000 patients exposed to statins, with age at onset ranging from adulthood to elderly [14]. immune-mediated necrotizing myopathy is a serious muscle complication that may be associated with statin use and has recently been described. it has been defined after the discovery of anti-3-hydroxy-3-methylglutaryl-coenzyme a reductase antibodies (anti-hmgcr). the characteristics of statin-related imnm are described in table ii. the positivity of anti-hmgcr antibodies defines the imnm associated to them as “sinam”: statin-induced necrotizing autoimmune myopathy. muscle symptoms subacute, progressive, symmetrical, proximal muscle weakness (especially posterior thigh, medial thigh, and gluteal compartments) ck increased (6000-10,000; range: 1000-50,000) and persistent despite statins discontinuation emg myogenic pattern (usually with spontaneous activity in the form of fibrillations and positive sharp waves) mri muscle edema, extensive necrosis, atrophy, fatty replacement, fascial edema, minimal or absent inflammation t1 hyperintensity especially in posterior thigh; stir signal is increased and may be asymmetric risk factors statin drugs or supplements specific immunogenetic background adult: hla-drb1*11:01 allele children: hla-drb1*07:01 allele muscle biopsy necrotizing myopathy granular complement c5b-9 (mac) deposition on the sarcolemma of myofibers faint sarcolemmal mhc-i expression in non-necrotic/non-regenerating fibers therapy sensitive to prolonged therapy with corticosteroids + immunosuppressants, ivig table ii. diagnostic criteria for statin-induced immune-mediated necrotizing myopathy (imnm) or statin-induced necrotizing autoimmune myopathy (sinam). modified from [14-17] ck = creatine kinase; emg = electromyography; hmgcr = 3-hydroxy-3-methylglutaryl-coenzyme a reductase; ivig = intravenous immunoglobulin; mac = membranolytic attack complex; mhc = major histocompatibility complex class i antigen; mri = magnetic resonance imaging; stir = short-tau inversion recovery sequences in mri epidemiology i have recently described the clinical case [18] of an elderly woman with clinical manifestations suggestive for dermatomyositis/polymyositis: fatigue and progressive weakness for proximal deficit in the lower limbs, heliotrope rash on the face, erythema at the neck, back, and thighs, increase in cpk (peak 5968 iu/l) that did not regress with cortisone therapy, antinuclear antibody titer of 1:640 (fine speckled pattern), anti-jo-1 negative, irritative proximal myopathy to emg, muscle edema to the mri of the pelvis and lower limbs. the patient had been taking statins for at least 12 years (pravastatin, then rosuvastatin). this report, unfortunately not supported by the test for anti-hmgcr antibodies, has many similarities with the limited number of international case series [19-31] and with individual case reports described both before [32-40] and after the use of anti-hmgcr [41-66]. in italy, there are only nine cases in reports [67-71] of probable imnm. there are also 5 cases anti-hmgcr positive included in two large international case series [20,72]. in a european registry of 11 countries, 105 cases of imnm are included in 3067 patients with myositis [72]. a comprehensive systematic review of 100 published case reports and case series of patients with statin-associated autoimmune myopathy was written last year by american authors [73]. the communications presented in 2018 relate so far to new zealand [30] with the description of 4 cases: 2 males + 2 females, age 59-77 years, long-term exposure to atorvastatin, cpk peak between 4.200 and 21.856 μmol/l, high titer anti-hmgcr, myositis-associated autoantibodies (maa) and myositis-specific autoantibodies (msa) negative. electromyography (emg) reported myopathic changes, while mri showed extensive muscle edema. biopsy demonstrated the presence of prominent fiber necrosis with infiltrating macrophages. the patients were given therapies with corticosteroids, methotrexate, and intravenous immunoglobulin (ivig). a previous clinical series of 8 patients was described in 2016 [74], giving an overall incidence in new zealand of 1.7/million/year although it has been estimated at 2 million/year in a us population. two additional cases in the usa [75,76], one in brazil [77], four cases in uk [78,79] and five cases in france [80] have been so far described in the literature in 2018. the statin mainly implicated in the imnm was usually high dose atorvastatin, followed by simvastatin, pravastatin, and fluvastatin. rosuvastatin has been described in only 13 cases [19,22-24,41,61,81-84]. the high risk of neoplasia in autoimmune necrotizing myopathies has been reported [85]. increasingly frequent, even if anecdotal, are the reports of the positivity of anti-hmgcr in paraneoplastic necrotizing myopathy [77], especially in the japanese population [83,86-88]: prevalence rates of cancer association (detected within 3 years of anti-hmgcr myopathy diagnosis) ranges from 4% to 36% and no specific type of cancer was observed [86]. autoantibodies there are two forms of imnm respectively associated with positive anti-srp and anti-hmgcr antibodies. these two antibodies were positive in 2/3 of cases of autoimmune necrotizing myopathy. the detection of these antibodies associated with thigh mri defines the two subtypes that have different systemic and anatomical involvement, while muscle biopsy instead provides an identical result [7,89,90]. anti-hmgcr in 2010 cristopher-stine and colleagues [91] found in the sera of patients with necrotizing myopathy of unknown etiology the presence of a pair of immunoprecipitates of molecular weight 200 and 100 kda, not corresponding to those already known in the myositis. the autoantigens of these antibodies came from 3-hydroxy-3-methylglutaryl-coenzyme a reductase with muscle expression. this autoantibody, directed against the pharmacologic target of statins, were termed “anti-hmgcr” [92-96]. anti-hmgcr autoantibodies were specific for statin-related imnm: the prevalence of statin exposure was between 40% and 92% in patients with these antibodies [20,22,24,27,29,92,94-99], whereas they were found positive only in small proportion in inflammatory myopathies [20,24]. a 2015 chinese study confirmed a low positivity (5.4%) of anti-hmgcr in patients with iims [81]. a multicenter international research, published in 2016, has shown, in addition to a low prevalence in polymyositis (4.4%) and in dermatomyositis (1.9%), a high presence of such antibodies (76.5%) in a population of elderly, aged > 50 years, with imnm exposed to statins [81]. they were also found in 30-50% of subjects not exposed to statins. in patients with hmgcr antibodies and autoimmune myopathy but without statin exposure, including children [13,22,100], other possible sources of statin exposure have been hypothesized in consumption of red yeast rice (monascus purpureus, monacolina k), pu-erh tea (rich in aspergillus terreus), food containing certain type of oyster mushrooms, and other molds and yeasts all natural sources of statins [1,101]. pediatric anti-hmgcr positive cases were all negative for statin exposure [102] demonstrating that autoantibody may simply develop as an auto-immune reaction with an unknown trigger. it is reported that in asians the myopathy is not typically associated with statin use. a specific immunogenetic background in children is hla-drb1*07:01 [103] unlike drb1*11:01 allele in adults. tests for anti-hmgcr by elisa, currently limited to a few centers, presented high sensitivity (94%) and high specificity (99%). autoantibody levels are correlated with both creatine kinase and the degree of proximal muscle weakness [22,92,95,98], to be considered a highly specific biomarker of disease. hmgcr antibodies, although specific, do not appear to inhibit the target enzyme. this observation is consistent with the lack of specificity of the lipid profile [104]. the intake of atorvastatin and diabetes mellitus type 2 were the two most significant independent predictors for the onset of myopathy associated with anti-hmgcr [105,106]. anti-hmgcr antibodies persist even after cessation of statin therapy [107] and despite clinical improvement following immunosuppressive therapy. anti-srp anti-srp patients are weaker than anti-hmgcr patients, suggesting that imnm includes at least two distinct forms of myositis associated with these two autoantibodies. in the anti-srp positive imnm, neurological symptoms and muscular involvement are present with limb and neck muscle weakness, dysphagia and respiratory failure, symptoms always present and more severe than the form with hmgcr positive [89,108]. mri in anti-srp subjects detects a more extensive muscle atrophy and a higher adipose substitution, compared to anti-hmgcr demonstrating that autoantibodies define precisely these two distinct clinical subgroups [59,109-111]. while anti-srp and anti-hmgcr antibodies show a strong affinity for their antigenic target, affinity and clinical severity cannot be associated. differential diagnosis according to some authors, the majority of patients with necrotizing myopathy with a history of statins before the discovery of anti-hmgcr were classified as polymyositis. the statin-triggered imnm and polymyositis would therefore not be two distinct entities, but part of the same pathophysiological spectrum also because they respond well to immunosuppressive treatment [19,112]. in addition, a genetic risk factor in adult subjects was established by the class ii hla allele drb1*11: 01 [11]: it is strongly associated with the development of anti-hmgcr antibodies, even in patients without known exposure to statins. in the imnm, magnetic resonance detects a characteristic pattern of muscular abnormalities involving mainly hip rotators and glutei: imnm have significantly more widespread muscle edema, atrophy, and fatty replacement compared with those with polymyositis (pm) and dermatomyositis (dm), unlike the fascial edema is more common and widespread in dermatomyositis [7]. in the differential diagnosis of necrotizing myopathy, rhabdomyolysis produced by drugs should be excluded, in particular those responsible for the neuroleptic malignant syndrome. the list of drugs causing muscle necrosis is long [19,112,113], and cholesterol-lowering agents (statins, fibrates), the immunophilins cyclosporine and tacrolimus, nucleoside analogs (telbivudine and entecavir) and drugs causing neuroleptic malignant syndrome (nms)[114-116] are among the more common ones. in addition, alcohol intoxication (in binge drinking), cocaine and heroin are associated with muscle necrosis. snake venoms (rattlesnake and cobra) produce isolated muscle fiber necrosis and regeneration. nonautoimmune myopathies most frequently misdiagnosed as myositis in children include inherited dystrophy, due to relatively slow progression and myopathological similarity: dysferlinopathy (limb-girdle muscular dystrophy 2b—lgmd 2b), calpainopathy (lgmd 2a) and facio-scapulohumeral dystrophy (fshd) [22,77,100,117,118]. in the adult the differential diagnosis must be made with sporadic inclusion body myositis (sibm), hypothyroid myopathy and severe self-limited statin myopathy [119]. regarding statin myotoxicity, the main epidemiological studies have shown that neither statin myalgia nor cpk levels < 5 times upper limit of normal (uln) and without muscle weakness are associated with the presence of anti-hmgcr [97,98]. in all cases of severe myopathy, but self-limited by the discontinuation of the statin, there was no positive finding for anti-hmgr [120]. therefore, in these cases such antibodies should not be tested. in the self-limited statin-related myopathy a genomewide association study revealed a strong association with a single nucleotide polymorphism (snp) rs4363657 located within the slco1b1 (solute carrier organic anion transporter family, member 1b1) gene on chromosome 12 [11,121]. treatment pharmacological therapy of imnm, not yet based on evidence, involves the use of high-dose corticosteroids and immunosuppressant drugs used alone or in combination: methotrexate, azathioprine, mycophenolate mofetil, rituximab, cyclophosphamide, etanercept (results about its use are conflicting), abatacept, tocilizumab, tacrolimus and cyclosporine. in addition, intravenous immunoglobulins (ivig) or plasmapheresis may be beneficial in case of severe manifestations of the disease [6]. in a lot of drugs, an initial induction therapy is required before maintenance therapy. however, rigorous data from the literature are lacking: an international consensus regarding treatment recommendations for patients with anti-hmgcr and anti-srp myopathies has recently been presented [17] for the use of steroids, methotrexate, ivig and rituximab together with a review in 2018 [6] where the treatment of severe manifestations of the disease was described. conclusions even though it is a rare phenomenon (around 550 cases described in the literature), statins may cause an autoimmune disease called “statin-related immune-mediated necrotizing myopathy”. it is characterized by progressive rhabdomyolysis with intense and widespread muscular impairment and doesn’t respond to drug withdrawal. autoantibodies against hmgcr may be detected. the diagnosis is challenging and the treatment , not yet regulated by guidelines, is generally based on corticosteroids and immunosuppressants. on the basis of the cases described and literature review some practical applications may be summarized. practical applications patients taking high dose statins, over the age of 50, who develop myopathy with muscular asthenia associated with increased cpk > 5 times the upper limit are at risk of developing autoimmune necrotizing myopathy in subjects taking statins, testing for anti-hmgcr autoantibodies may help to discriminate between self-limited rhabdomyolysis and statin-associated autoimmune myopathy in myopathic patients positive for anti-hmgcr, especially in the elderly, it is necessary to verify the coexistence of neoplasia patients who have failed to normalize high cpk (> 10 times the upper range of normal) after statin withdrawal and after cortisone therapy should be tested for anti-hmgcr antibodies and, if these are positive, undergo muscle biopsy to confirm the diagnosis of imnm key points statin intolerance is the main reason for discontinuing therapy for hypercholesterolemia associated with or without cardiovascular disease besides the known side effects on muscle, statins can cause autoimmune phenomena a rare but serious complication is progressive rhabdomyolysis with intense and widespread muscular impairment that does not respond to drug withdrawal this new entity, called statin-related imnm, is associated with the presence of autoantibodies against 3-hydroxy-3-methyl-glutaryl-coa reductase, a key enzyme in the synthesis of inhibited cholesterol by statins the diagnosis is addressed by the positivity of these antibodies and confirmed by muscle biopsy exclusion of more common endocrine, genetic, and metabolic myopathies is essential inflammatory myopathies are a very heterogeneous group of illnesses that can present with a very different clinical phenotype drug therapy, not yet subject to guidelines, is challenging and requires, in addition to corticosteroids, immunosuppressive medications, and often immunoglobulins, and plasmapheresis the international literature has reported around 550 statin-associated imnm funding this article has been published without the support of sponsors. conflicts of interests the author declares that he has no conflicts of financial interest regarding the topics covered in this article. references 1. selva-o’callaghan a, alvarado-cardenas m, pinal-fernández i, et al. statin-induced myalgia and myositis: an update on pathogenesis and clinical recommendations. expert rev clin immunol 2018;14: 215-24; https://doi.org/10.1080/1744666x.2018.1440206 2. alfirevic a, neely d, armitage j, et al. phenotype standardization for statin-induced myotoxicity. clin pharmacol ther 2014; 96: 470-6; https://doi.org/10.1038/clpt.2014.12 3. hoogendijk je, amato aa, lecky br et al. 119th enmc international workshop: trial design in adult idiopathic inflammatory myopathies, with the exception of inclusion body myositis, 10-12 october 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of a neuroendocrine tumour (net) of the liver. during a routine ultrasound examination, a 51-year-old woman was diagnosed with a lesion in the second segment of the liver, suggestive of a metastasis. a well differentiated neuroendocrine carcinoma (g2, ki67 = 4.4%) was identified by liver biopsy, positive for chromogranin, synaptophysin and neuron specific enolase. an additional extensive examination aimed at finding the primitive lesion was unsuccessful and pet with 68gallium revealed a single liver lesion. a left lobectomy was performed, but 15 months later a second liver lesion with the same characteristics as the previous one was observed and was surgically treated, followed by therapy with octreotide lar 30 mg. a four-year follow-up did not show evidence of a different primitive net: therefore, while it is improbable that a metastatic g2 primitive tumour would not have presented in the 4-year period, a diagnosis of primitive net of the liver was made. the paper gives the opportunity of describing an unusual case of a primitive liver neuroendocrine tumour and of presenting the successful treatment of both surgery and cytoreductive pharmacological therapy. keywords: primary hepatic carcinoid; neuroendocrine tumours; hepatic carcinoid tumors a primitive neuroendocrine liver tumour? cmi 2012; 6(suppl 1): 11-15 caso clinico corresponding author prof.ssa paola tomassetti paola.tomassetti@unibo.it perché descriviamo questo caso i tumori neuroendocrini primitivi del fegato sono neoplasie molto rare e rappresentano pertanto un’importante sfida diagnostica per il clinico nella diagnosi differenziale con i tumori neuroendocrini metastatici il cui primitivo è in sede occulta. questo nostro caso è di interesse per l’approccio diagnostico con cui è stata e viene, ancora oggi, seguita la paziente introduzione i tumori neuroendocrini (net) originano da cellule neuroendocrine disseminate in molti organi e tessuti e il fegato è la più frequente sede di metastatizzazione [1]. nel 54% dei casi originano a livello del tratto gastrointestinale, nel 30% a livello polmonare, nel 2,3% a livello pancreatico e, con minor frequenza, in altre sedi. i net primitivi del fegato, come emerge dai dati della letteratura, costituiscono lo 0,3% di tutti i net, e da ciò risulta evidente l’estrema rarità di queste neoplasie. furono descritti per la prima volta nel 1958 da edmonson [2,3] e ad oggi sono riportati in letteratura solamente 95 casi [4,5]. sono più frequenti nelle donne (58,5%) e negli individui di mezza età (si presentano mediamente a 49,8 anni d’età) [6]. il fegato è l’organo più frequentemente sede di metastasi da net, e questo giustifica la relativa difficoltà a porre diagnosi differenziale fra tumore primitivo epatico e secondario, soprattutto per la possibilità dell’esistenza di un primitivo occulto a diagnosi tardiva. caso clinico una donna di 51 anni, asintomatica, si sottopone a un’ecografia addominale di controllo nel marzo del 2006, nel corso della quale viene diagnosticata una neoformazione di 3 cm in corrispondenza del ii segmento epatico, con vascolarizzazione periferica, di probabile natura secondaria. figura 1. immagine pet-tc rilevata nella paziente nel gennaio 2008: recidiva di malattia a livello del iii segmento epatico. la freccia indica la lesione epatica viene quindi eseguita una tc toraco-addominale per caratterizzare meglio la formazione epatica e individuare il tumore primitivo: la già nota lesione capta rapidamente il mezzo di contrasto in fase arteriosa, con rapido wash-out in fase portale; non vengono localizzate formazioni compatibili con un tumore primitivo in altra sede. la biopsia epatica eco-guidata, con tecnica immunoistochimica, pone diagnosi di carcinoma neuroendocrino ben differenziato g2 (ki67 = 4,4%), con positività per cromogranina a, sinaptofisina, enolasi neuronospecifica e per il recettore sstr2a, e negatività per amine e peptidi. nel sospetto che la lesione epatica sia di natura metastatica, la paziente viene sottoposta a ulteriori indagini: clisma del tenue, pancolonscopia e ultrasonografiaendoscopica (eus), che permettono di esplorare le vie digestive superiori, inferiori e il pancreas. tali indagini risultano tutte negative. la pet con fluorodesossiglucosio (fdg) risulta negativa, la pet con 68gallio, che rileva le lesioni che esprimono i recettori per la somatostatina, evidenzia la sola lesione epatica. negativi risultano i marker per neo­plasie del tratto digerente (cea, ca 19-9) e genitale (ca 125). nell’ottobre dello stesso anno la paziente viene sottoposta a intervento di lobectomia sinistra, con ricerca intraoperatoria del tumore primitivo, che risulta negativa. viene quindi eseguito uno stretto follow-up con tc torace-addome a cadenza dapprima trimestrale, poi semestrale. nel gennaio 2008 si evidenzia la presenza di una formazione di 2,7 cm a livello del iii segmento epatico, confermata anche da una pet con gallio (figura 1). una nuova biopsia epatica evidenzia la natura neuroendocrina della lesione con indice di proliferazione < 5%, e la paziente viene sottoposta a un secondo intervento chirurgico di lobectomia epatica. viene instaurata, quindi, una terapia con analoghi della somatostatina, octreotide lar 30 mg ogni 28 giorni, e follow-up semestrale con tc toraco-addominale. la paziente, all’ultimo controllo di gennaio 2012, risulta totalmente libera da malattia a livello epatico e, ad oggi, non è stata ancora identificata l’eventuale presenza di una neoplasia primitiva. discussione l’origine del tumore primitivo epatico non è ad oggi ben definita. si crede che questa neoplasia possa originare da cellule neuroendocrine disseminate nell’epitelio dei dotti biliari intraepatici, e la scarsità di tali cellule in questo epitelio ne spiegherebbe la rarità. altre ipotesi patogenetiche vedono l’origine di questi tumori nella proliferazione di tessuto ectopico pancreatico e surrenalico presente nel fegato o in uno stato di flogosi cronica dell’albero biliare, che potrebbe dare origine a una metaplasia intestinale predisponente lo sviluppo di net [7]. è sempre da tener presente che un tumore apparentemente primitivo epatico potrebbe essere una metastasi da primitivo occulto. infatti, la causa più frequente di diagnosi di primitivo epatico è il mancato ritrovamento del reale primitivo. nell’84% dei casi il sospetto di un primitivo epatico viene fugato da un accurato iter diagnostico e da uno stretto follow-up, che portano alla luce la neoplasia di origine [8,9]. domande da porsi di fronte a una singola lesione di natura neuroendocrina, istologicamente dimostrata, in sede epatica è presente un tumore primitivo in altra sede? se non presente: sono stati eseguiti tutti gli accertamenti del caso per individuarlo? se nonostante le indagini di imaging non si trova il tumore primitivo: che cosa si deve fare? se le tecniche diagnostiche a disposizione non permettono di individuare il tumore primitivo, è fondamentale eseguire uno stretto follow-up del paziente, al fine di accertare un’eventuale comparsa della malattia primitiva. se anche in questo caso l’indagine risulta negativa, si può verosimilmente porre diagnosi di tumore neuroendocrino primitivo del fegato. l’esordio clinico della malattia è generalmente aspecifico e correlato all’effetto massa a livello epatico e degli organi adiacenti; il dolore addominale è il sintomo più frequente (33%), associato ad astenia e calo ponderale, anche se nel 23% dei casi il tumore può essere del tutto asintomatico. solo nel 5% dei casi la neoplasia si presenta con la sindrome da carcinoide legata alla presenza di tessuto secernente serotonina [4]. indagini di primo livello ecografia addominale completa esofagogastroduodenoscopia/pancolonscopia indagini di secondo livello ultrasonografiaendoscopica clisma del tenue indagini di terzo livello tc torace-addome pet con 68gallio rm tabella i. esami per l’indagine diagnostica su una lesione endocrina epatica la diagnosi di net primitivo epatico si basa sulla diagnosi differenziale con altri tumori epatici, quali epatocarcinoma (hcc), colangiocarcinomi e tumori metastatici. per rilevare queste lesioni, che nella maggior parte dei casi non danno alcun segno clinico di sé nelle fasi iniziali, hanno grande importanza le metodiche di diagnostica per immagine, tra cui in prima istanza soprattutto l’ecografia, seguita dalla tc e dalla rmn, per la loro maggiore definizione e affidabilità nel riprodurre le scansioni degli organi addominali. tuttavia, benché tali metodiche possano porre una diagnosi presuntiva, è spesso necessario ricorrere alla biopsia e all’esame istologico, eco-guidato o tc-guidato. la tabella i riporta i principali esami per l’indagine diagnostica delle lesioni in sede epatica di natura endocrina. a differenza di quanto avvenuto per il carcinoma epatocellulare, per i net primitivi del fegato non sono stati delineati dei criteri diagnostici, data la rarità di questi tumori primitivi. di fronte a un nodulo epatico, la negatività all’immunoistochimica per marcatori specifici permette di escludere, nella diagnosi differenziale di nodulo epatico, la diagnosi di hcc o di metastasi da neoplasie del tratto gastrointestinale o polmonare. l’esame istologico con associate tecniche di immunoistochimica conferma la diagnosi di net per la positività per cromogranina a, sinaptofisina, enolasi neuronospecifica, i marcatori peculiari delle neoplasie neuroendocrine. marcatori aspecifici di neoplasia cromogranina a sinaptofisina enolasi neuronospecifica posta la diagnosi istologica di net, è necessario indagare sulla sua origine primitiva o secondaria: la sola indagine istologica non è infatti dirimente. si deve ricorrere quindi alle tecniche di imaging: l’indagine di primo livello è l’ecografia addominale, che mostra di solito una massa iperecogena con multiple aree cistiche. indagini di secondo e terzo livello sono invece la tc con mdc, che mostra una formazione captante il mdc in fase arteriosa con rapido wash-out in fase portale, la rm e la pet con gallio. alle tecniche di imaging i tumori primitivi del fegato si presentano generalmente come piccole masse, singole, a localizzazione centrale nel parenchima del lobo epatico. una localizzazione multicentrica, invece, è maggiormente indicativa per secondarismi. una volta posta la diagnosi, il trattamento di scelta è quello chirurgico, volto alla resezione radicale della massa, che è possibile nell’85% dei pazienti [10]. recenti studi hanno dimostrato una prognosi favorevole a 5 anni dall’intervento nel 74% dei pazienti operati, con un tasso di ricorrenza del 18%, con recidiva sia epatica sia linfonodale [11]. in quei pazienti in cui non sia possibile una chirurgia radicale, una chirurgia citoriduttiva palliativa associata alla chemioembolizzazione è il miglior compromesso. terapie sistemiche come la terapia radiorecettoriale o la terapia con analoghi della somatostatina sono di largo impiego. in pochi casi di tumore non resecabile è stato praticato il trapianto di fegato con buoni risultati [12]. conclusioni nel caso da noi descritto è possibile pensare a un tumore primitivo del fegato. infatti le caratteristiche della lesione, ovvero una formazione unica, centrale e non funzionante, sono in accordo con quanto riportato in letteratura per i tumori primitivi in tale sede [13]. inoltre l’accurata ricerca del primitivo e lo stretto follow-up, mediante tecniche di imaging, a cui è stata sottoposta la paziente fino ad oggi sono fortemente indicativi di tumore primitivo: non vi sono infatti segni di ricomparsa di malattia, dopo resezione chirurgica, a livello epatico o insorgenza di neoplasia in altra sede. la paziente, a quattro anni dalla recidiva, è libera da malattia: questo ci permette, con una certa sicurezza, di porre diagnosi di tumore primitivo. se infatti fosse presente un tumore primitivo in altra sede, con indice di proliferazione g2, già metastatico al fegato al momento della diagnosi nel 2006 e recidivato nel 2008, verosimilmente, ad oggi, si sarebbe nuovamente manifestato, sia in forma primitiva sia secondaria. ciò non deve escludere la paziente da un attento futuro follow-up. punti chiave i tumori neuroendocrini primitivi del fegato costituiscono lo 0,3% di tutti i net esistono solo 95 casi descritti in letteratura i net primitivi del fegato richiedono un accurato iter diagnostico nella diagnosi differenziale con le metastasi epatiche da tumore neuroendocrino in altra sede una lesione di piccole dimensioni, singola, a localizzazione centrale nel parenchima epatico, in assenza di tumore primitivo in altra sede, è fortemente indicativa di net primitivo epatico, mentre una localizzazione multicentrica è più sospetta per secondarismo un approfondito iter diagnostico e un lungo follow-up sono fondamentali nella diagnosi di questa patologia bibliografia maggard ma, o’connell jb, ko cy. updated population based review of carcinoid tumors. ann surg 2004; 240: 117-22 edmondson ha. carcinoid tumor. in: edmondson ha. tumors of the liver and intrahepatic bile ducts (atlas of tumor pathology). washington: armed forces institute of pathology, 1958; pp. 105-11 modlin im, lye kd, kidd m. a 5-decade analysis of 13,715 carcinoid tumors. cancer 2003; 97: 934-59 modlin im, kidd m, latich i, et al. current status of gastrointestinal carcinoids. gastroenterology 2005; 128: 1717-51 modlin im, shapiro md, kidd m. an analysis of rare carcinoid tumors: clarifying these clinical conundrums. world j surg 2005; 29: 92-101 gao j, hu z, wu j, et al. primary hepatic carcinoid tumor. world j surg oncol 2011; 9: 151 gravante g, de liguori carino n, overton j, et al. primary carcinoids of the liver: a review of symptoms, diagnosis and treatments. dig surg 2008; 25: 364-8 hoegerle s, altehoefer c, ghanem n, et al. whole-body 18f dopa pet for detection of gastrointestinal carcinoid tumors. radiology 2001; 220: 373-80 orlefors h, sundin a, garske u, et al. whole-body 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bucciero 1, giulia razzolini 1, maria marsico 1, maria rosa biagini 1, stefano milani 1 1 sod gastroenterologia 1, aou careggi, firenze abstract sarcoidosis is a multisystemic disease of unknown aetiology characterized by proliferation of noncaseating granulomas at disease sites. it commonly affects young and middle-age adults and frequently presents with pulmonary infiltration, bilateral hilar lymphadenopathy, ocular and skin lesions. the liver, spleen, lymph nodes, salivary glands, heart, nervous system, muscles, bones, and other organs may also be involved. a diagnosis of the disorder usually requires the demonstration of typical lesions in more than one organ system and exclusion of other disorder known to cause granulomatous inflammation. we present the case of a young woman with abdominal pain and weight loss. the finding of splenomegaly by abdominal ultrasound and the presence of hypercalciuria, hypercalcemia and mild renal impairment led us to include sarcoidosis in the differential diagnosis. the final diagnosis was established by demonstration of involvement of lymph nodes and lung parenchyma on ct scan, and typical histology in bioptic specimens collected from bronchial mucosa. keywords: sarcoidosis; splenomegaly; weight loss; abdominal pain; hypercalcemia sarcoidosis presenting with splenomegaly and abdominal pain: a case report cmi 2012; 6(3): 91-96 caso clinico corresponding author dott.ssa natalia manetti natalia.manetti@libero.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. perché descriviamo questo caso la sarcoidosi è una malattia che può interessare qualsiasi organo o apparato, cosicché i casi sono indirizzati a un’ampia gamma di specialisti, alcuni dei quali possono non considerare la sarcoidosi nella diagnosi differenziale. i sintomi, inoltre, non sono specifici e spesso indirizzano verso altre patologie polmonari con conseguente estremo ritardo della diagnosi introduzione la sarcoidosi è una malattia granulomatosa multi-sistemica idiopatica. è una patologia relativamente frequente che può colpire soggetti di entrambi i sessi e di quasi tutte le età, razze e aree geografiche. il suo esordio è più comune al di sotto dei 40 anni, con un picco di incidenza tra i 20 e i 29 anni [1]. sebbene la causa di tale malattia rimanga tuttora misconosciuta, è ormai opinione diffusa che il meccanismo patogenetico della sarcoidosi possa avere inizio con l’esposizione di soggetti geneticamente predisposti a numerosi agenti, infettivi e non, come virus (epstein-barr virus, herpes virus, retrovirus, citomegalovirus), borrelia burgdorferi, micobatteri e sostanze inorganiche come il berillio, l’alluminio e lo zirconio. la presentazione clinica è spesso aspecifica, dipendendo dalla sede prevalentemente coinvolta. può variare da una forma lieve asintomatica a una forma grave con interessamento di organi vitali quali il cuore, l’encefalo e il rene. la malattia si presenta più frequentemente con un quadro clinico di tipo respiratorio (circa nel 90% dei casi) che occorre differenziare da altre patologie polmonari più comuni come asma o bronchite cronica. più raramente i sintomi di esordio sono di tipo extra-polmonare e sono associati al coinvolgimento di altri organi e apparati come la cute, il cuore, l’occhio, l’apparato gastrointestinale e muscoloscheletrico. sintomi sistemici non specifici come astenia, febbre, sudorazione notturna e perdita di peso possono accompagnare il quadro clinico [1]. l’iter diagnostico è reso difficoltoso dall’ampia eterogeneità di presentazione clinica e la diagnosi di certezza richiede generalmente la dimostrazione istologica dei tipici granulomi non caseosi, l’esclusione di altre cause di infiammazione (infezioni da micobatteri, da miceti e neoplasie maligne), e l’evidenza clinico-strumentale del coinvolgimento di più organi. si riporta come oggetto di discussione il caso di una giovane paziente nella quale la sarcoidosi non si è manifestata con la classica sintomatologia di tipo respiratorio ma con segni e sintomi di tipo gastrointestinale, quali dolore addominale e riscontro ecografico di splenomegalia. caso clinico è giunta alla nostra attenzione la sig.ra pc di 30 anni per comparsa, da circa un mese, di dolore addominale continuo, esacerbato dal pasto, associato a calo ponderale di circa 15 kg negli ultimi tre mesi, in assenza di alterazioni dell’alvo. all’ingresso in reparto la paziente si presentava vigile, collaborante, orientata nel tempo e nello spazio, emodinamicamente stabile e apiretica. all’esame obiettivo non erano presenti edemi declivi, la cute si presentava normotrofica, normoidratata e priva di lesioni. l’addome era trattabile, dolente e dolorabile nei quadranti addominali superiori e al fianco sinistro, senza masse obiettivabili. la milza era palpabile e debordante 3 dita dal margine costale. il fegato era palpabile all’inspirazione profonda, con margini e consistenza normali. gli esami ematici e di laboratorio mostravano un’anemia microcitica (hb = 9,9 g/dl; mcv = 71,1 fl), iposideremia (ferro = 40 μg/dl), lieve insufficienza renale (creatinina = 1,78 mg/dl; urea = 0,73 g/l), aumento della β2-microglobulina (9,4 mg/l), aumento degli indici di colestasi (fosfatasi alcalina = 175 u/l; γgt = 142 u/l), ipercalcemia (12 g/dl) e ipercalciuria (900,9 = mg/24 h) con livelli sierici di paratormone nella norma. un’ecografia dell’addome metteva in evidenza una modesta epatomegalia con ecostruttura omogenea senza immagini a focolaio, una colecisti scarsamente distesa con numerose piccole immagini litiasiche, una splenomegalia (diametro bipolare = 16 cm) e tumefazioni linfonodali con dimensioni variabili da 25 a 30 mm nella regione dell’ilo epatico e in sede peripancreatica. esami di approfondimento per identificare possibili cause di splenomegalia, quali uno striscio di sangue periferico, test di coombs diretto e indiretto, indici di emolisi (aptoglobina, ldh, bilirubinemia indiretta, reticolociti), quantiferon®-tb, anticorpi per ebv, cmv, leishmania e brucella sono risultati tutti negativi. è stato inoltre effettuato il dosaggio dell’angiotensin-convertingenzyme (ace), che risultava nettamente superiore ai valori di riferimento (299,4 u/l). al fine di escludere una malattia linfoproliferativa la paziente ha eseguito una tc torace-addome con mezzo di contrasto. l’esame mostrava la presenza di numerose formazioni nodulari di dimensioni millimetriche con scarso carattere di confluenza su tutto l’ambito polmonare prevalentemente nei lobi superiori, nel lobo medio, nei segmenti apicali dei lobi inferiori e lungo le scissure bilateralmente. erano visibili numerose tumefazioni adenopatiche tra loro confluenti tra i vasi epiaortici, anteriormente alla trachea e alla carena, agli ili e in sede sottocarenale con un quadro compatibile per sarcoidosi linfoghiandolare con ampio interessamento polmonare. anche in sede addominale erano visualizzati numerosi linfonodi confluenti in sede celiaca, lungo l’origine della mesenterica superiore e lungo la catena lombo-aortica. il fegato e la milza erano di dimensioni aumentate senza alterazioni densitometriche significative. le anse dell’intestino tenue mostravano un’intensa impregnazione contrastografica, come per processo flogistico. la paziente è stata quindi sottoposta a fibrobroncoscopia con lavaggio bronco-alveolare (bal) e biopsie transbronchiali. l’analisi citologica del bal evidenziava la presenza di linfocitosi con fenotipo prevalente cd3/cd4, un rapporto cd4/cd8 pari a 7,32 e un quadro cellulare epiteliale normale. l’esame istologico della mucosa bronchiale dimostrava una flogosi granulomatosa non necrotizzante di tipo sarcoideo. le successive prove di funzionalità respiratoria evidenziavano un lieve deficit ventilatorio di tipo restrittivo (fev1 = 2,48 l; capacità vitale = 3,23 l; indice di tiffenau = 77) e una diminuzione della capacità di diffusione con rapporto tra capacità di diffusione del co e volume alveolare nei limiti della norma. l’ecocardiogramma e la visita oculistica escludevano la presenza di una granulomatosi attiva sia a livello cardiaco sia oculare. in conclusione, alla luce della sintomatologia e degli esami strumentali sopracitati, il quadro clinico della paziente risultava essere compatibile con la diagnosi di sarcoidosi in fase attiva. la paziente è stata dunque affidata alle cure dello specialista pneumologo che ha posto indicazione a iniziare terapia corticosteroidea con prednisone 25 mg per 2 volte al giorno, da scalare di 1/2 compressa ogni 7 giorni. attualmente la paziente è ancora sotto trattamento immunosoppressivo con 1/2 compressa al giorno di prednisone 25 mg in attesa di eseguire nuova tc torace di controllo ed esame spirometrico. domande da porsi di fronte a questo caso come ottenere la diagnosi di certezza di sarcoidosi? quanto è estesa la malattia? quali organi sono coinvolti? la malattia è stabile o in progressione? il paziente potrà trarre beneficio dalla terapia farmacologica? discussione la sarcoidosi è una patologia sistemica, cronica, caratterizzata da accumulo di linfociti t e di fagociti mononucleati negli organi interessati, dalla formazione di granulomi epiteliodi non caseosi e da un’alterazione della normale architettura tissutale. il quadro clinico della malattia è molto variabile e dipende dalla durata, dalla sede, dall’estensione e dallo stato di attività del processo granulomatoso [2]. classicamente si presenta con una sintomatologia di tipo respiratorio: nel 90% dei casi infatti il quadro clinico iniziale è caratterizzato da dispnea, tosse stizzosa, dolore toracico che talvolta può essere indistinguibile da un dolore di origine cardiaca e, raramente, da emottisi. sebbene l’approccio diagnostico al paziente con sospetta sarcoidosi sia sempre stato mirato alla ricerca di tali reperti polmonari tipici, è oggi diffusa la consapevolezza di come, in realtà, questa patologia debba considerarsi una vera e propria malattia multi-sistemica in cui sono frequenti anche le manifestazioni extra-polmonari a carico della cute, del sistema nervoso, del cuore, degli occhi, del tratto gastrointestinale, della milza, del fegato e dell’apparato muscolo scheletrico [1,3]. il caso clinico da noi preso in esame riguarda una giovane paziente che è giunta alla nostra osservazione per l’insorgenza di segni e sintomi del tutto aspecifici quali dolore addominale e calo ponderale. da un’accurata raccolta anamnestica sono risultati del tutto assenti i classici sintomi di tipo respiratorio così come i sintomi sistemici, quali febbre, marcata astenia, malessere generalizzato e sudorazione notturna che si ritrovano generalmente in circa 1/3 dei pazienti affetti. il rilievo ecografico di splenomegalia e il riscontro durante la degenza, attraverso esami di laboratorio, di ipercalcemia, ipercalciuria e lieve insufficienza renale hanno, però, permesso di considerare nella diagnosi differenziale anche la sarcoidosi [1,3,4]. l’iter diagnostico intrapreso ha avuto come obiettivo principale quello di escludere altre patologie, come malattie ematologiche e infettive, determinanti splenomegalia e successivamente quello di dimostrare con certezza la presenza del processo flogistico granulomatoso in fase di attività [1,5]. nel nostro caso la tc torace-addome ha confermato non solo la presenza di splenomegalia ma ha evidenziato anche la presenza di un quadro polmonare compatibile con la malattia sarcoidea stessa nonostante la paziente fosse del tutto asintomatica dal punto di vista respiratorio. dopo aver escluso con certezza l’eventuale presenza di malattie linfoproliferative, infettive e metaboliche come linfomi, tubercolosi, diabete mellito e ipertiroidismo, il riscontro di valori elevati di angiotensin-converting enzyme ha supportato il sospetto di malattia sarcoidea. tale reperto in associazione alla presenza di ipercalciuria e/o ipercalcemia, da attribuire a un aumento dell’assorbimento intestinale di calcio per la produzione di elevate quantità di 1,25-(oh)2 vitamina d3 (calcitriolo), è stato interpretato come segno di attività della malattia. è importante precisare, inoltre, che qualora l’alterazione del metabolismo del calcio, riscontrabile nel 10-20% dei casi, assumesse un decorso cronico, la paziente andrebbe incontro a un elevato rischio di sviluppare nefrocalcinosi, nefrolitiasi e non da ultimo insufficienza renale. per quanto riguarda il quadro addominale, i dati presenti in letteratura sottolineano che, sebbene l’interessamento della milza in corso di sarcoidosi sia un reperto molto frequente e un’eventuale biopsia d’organo risulti positiva per flogosi granulomatosa nel 60-70% degli affetti, i segni clinici dovuti al suo coinvolgimento sono inusuali e riportati solo nel 5-15% dei casi [5]. l’interessamento della milza può presentarsi con splenomegalia o, meno tipicamente, con lesioni focali multiple [6,7]. i pazienti, come già accennato, sono spesso asintomatici o possono giungere all’attenzione del medico curante per sintomi sistemici aspecifici, quali dolore addominale e calo ponderale o per alterazioni degli esami ematici, proprio come nel caso della paziente presa in considerazione [3,8]. la diagnosi di certezza di sarcoidosi non può basarsi solo sulle tecniche di immagine, ma necessita di una stretta correlazione tra il quadro clinico del paziente, i reperti emersi dalle indagini radiografiche e, non da ultimo, l’evidenza istopatologica di granulomi epitelioidi non caseosi. nei casi di sospetta sarcoidosi è quindi di primaria importanza ottenere dei campioni bioptici per poter confermare la diagnosi ed escludere, allo stesso tempo, altre possibili condizioni patologiche caratterizzate da un’infiammazione granulomatosa come la tubercolosi, l’istoplasmosi o le infezioni fungine [3,9,10]. l’unica situazione clinica in cui la diagnosi di sarcoidosi può essere confermata in modo del tutto sicuro senza bisogno di effettuare alcuna biopsia è la sindrome di löfgren, caratterizzata da artralgia, adenopatia mediastinica e eritema nodoso [5,11]. anche nel nostro caso, dunque, per giungere a una diagnosi di certezza di malattia sarcoidea è stata fondamentale la conferma istologica ottenuta mediante biopsia transbronchiale e successiva analisi del bal. non vi sono ancora, invece, sufficienti evidenze in letteratura di un possibile ruolo della pet con fluoro-desossiglucosio nella diagnosi di sarcoidosi. infatti, pur essendo uno strumento diagnostico tuttora di fondamentale importanza nella valutazione di un paziente con sospetta malattia linfoproliferativa, nella sarcoidosi l’uptake del tracciante non è specifico né per il pattern né per l’intensità della captazione [12]. una volta stabilita la diagnosi, si sono resi necessari ulteriori accertamenti, in particolare le prove di funzionalità respiratoria per poter valutare la compromissione polmonare iniziale e per ottenere un valore di base con il quale monitorare gli eventuali miglioramenti o peggioramenti della malattia polmonare della paziente. la paziente, inoltre, pur essendo asintomatica dal punto di vista cardiovascolare e pur non lamentando disturbi come offuscamento del visus, fotofobia o aumentata lacrimazione (segni tipici di un coinvolgimento oculare), è stata sottoposta a ecocardiogramma e visita oculistica. dati presenti in letteratura riportano, infatti, come circa il 5% dei pazienti presenti un interessamento cardiaco anche in assenza di sintomi. i reperti ecocardiografici di più frequente riscontro, non documentati però nel caso descritto, sono la presenza di numerose aree segmentali di ipocinesia e la presenza di una marcata disfunzione diastolica del ventricolo sinistro. anche la visita oculistica, indispensabile per individuare quella percentuale di soggetti affetti che presentino un coinvolgimento dell’apparato visivo (circa il 25%), non ha evidenziato alcun segno di flogosi granulomatosa attiva, escludendo dunque un quadro di uveite [12]. la storia naturale e la prognosi della sarcoidosi sono altamente variabili, con una tendenza all’alternarsi di periodi di riacutizzazione a periodi di remissione spontanea o indotta dalla terapia farmacologica. il 65-70% dei pazienti affetti guarisce con reliquati minimi o nulli. il 20% ha alterazioni permanenti della funzionalità polmonare o alterazioni visive permanenti. del rimanente 10-15%, alcuni muoiono di patologia cardiaca o per lesioni del sistema nervoso centrale, ma la maggior parte muore per fibrosi polmonare progressiva e cuore polmonare [1]. la sarcoidosi è in genere più aggressiva nelle persone di colore. il coinvolgimento cardiaco è invece la principale causa di morte per sarcoidosi tra i giapponesi. il problema principale nel prendere una decisione sulla terapia della sarcoidosi è rappresentato dalla necessità di valutare il grado di attività del processo infiammatorio (dati anamnestici, obiettivi, radiologici) negli organi a maggior rischio, come il polmone, gli occhi, il cuore e il sistema nervoso centrale e il rapporto rischio-beneficio della terapia corticosteroidea a lungo termine (solitamente almeno 6-9 mesi). è da sottolineare, infatti, come la terapia con corticosteroidi sia mirata esclusivamente alla soppressione della processo flogistico granulomatoso e quindi solo alla riduzione della sintomatologia, non modificando in alcun modo la storia naturale della malattia. in genere, a meno che non sia presente un’alterazione grave della funzionalità respiratoria, i pazienti con sola sarcoidosi polmonare attiva vengono tenuti in osservazione per circa 2-3 mesi; a questo punto se l’infiammazione non regredisce spontaneamente, viene iniziato il trattamento. la prima strategia terapeutica prevede la somministrazione di corticosteroidi, mentre l’utilizzo di immunosoppressori specifici, come metotrexato o azatioprina, è riservato a pazienti con numerose riacutizzazioni e con uno stadio di malattia più avanzato. conclusioni alla luce di quanto descritto, possiamo dunque concludere che la conoscenza della sarcoidosi splenica, delle sue eventuali manifestazioni cliniche e dell’aspetto radiologico tipico e una successiva valutazione globale mirata a individuare altri reperti suggestivi di sarcoidosi sistemica sono di primaria importanza per evitare una mancata o ritardata diagnosi. punti chiave nella valutazione del paziente con sarcoidosi anamnesi esame obiettivo radiografia antero-posteriore del torace prove di funzionalità respiratoria: spirometria e capacità di diffusione del co esami ematici: emocromo con formula, calcemia, calciuria, angiotensin-converting-enzyme, enzimi epatici, creatinina, azoto ureico analisi delle urine ecg e/o ecocardiogramma visita oculistica mantoux/quantiferon®   algoritmo diagnostico e terapeutico per la sarcoidosi [13] 18f-fdg = 18-fluorodesossiglucosio; ace = angiotensin-converting enzyme; bal = lavaggio bronco-alveolare; cmv = citomegalovirus; ebv = epstein-barr virus; pet = tomografia a emissione di positroni bibliografia hunninghake gw, costabel u, ando m, et al. statement on sarcoidosis. the joint statement of the american thoracic society, the european respiratory society, and the world association of sarcoidosis and other granulomatous disorders. am j respir crit care med 1999; 160: 736-55 lynch jp, sharma op, baughman rp. extrapulmunary sarcoidosis. semin respir infect 1998; 13: 229-54 raber el, haba j, beck p. splenic sarcoidosis: a case report and review of the imaging findings of multiple incidental splenic lesions as the initial presentation of sarcoidosis. can j gastroenterol 2011; 25: 477-8 elsayes km, narra vr, mukundan g, et al. mr imaging of the spleen: spectrum of abnormalities. radiographics 2005; 25: 967-82 vardhanabhuti v, venkatanarasimha n, bhatnagar g, et al. extra-pulmonary manifestations of sarcoidosis. clin radiol 2012; 67: 263-76 macarthur kl, forouhar f, wu gy. intra-abdominal 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græcia”, catanzaro editoriale corresponding authors prof. antonio brunetti cattedra di endocrinologia università “magna græcia” di catanzaro, viale europa (località germaneto) 88100 catanzaro brunetti@unicz.it introduzione la farmacogenetica è la scienza che studia la variabilità interindividuale che esiste nella risposta ai farmaci. l’imponente passo in avanti della biologia molecolare e delle tecnologie correlate ha permesso di rilevare la presenza di variazioni di sequenza sparse nel nostro genoma che presentano una frequenza superiore all’1% e che rappresentano una caratteristica distintiva di ogni singolo individuo. tali variazioni sono definite polimorfismi del dna e sono costituite principalmente da mutazioni di singoli nucleotidi (snps, pronuncia “snips”). un particolare aplotipo (combinazione di snps) può determinare o essere correlabile con uno specifico fenotipo in grado di influenzare non solo la predisposizione genetica a contrarre una malattia, ma anche la risposta individuale a un farmaco. pertanto, lo studio della genetica molecolare delle malattie umane può consentire, da una parte, di comprendere meglio i fattori patogenetici responsabili della malattia, dall’altra di sviluppare nuove e più efficaci terapie. il diabete mellito di tipo 2, come altre patologie complesse, è il risultato dell’azione combinata di geni e fattori ambientali, questi ultimi riconducibili essenzialmente alla ridotta attività fisica e all’iperalimentazione, tipiche dei paesi a più alto tenore di vita [1]. negli individui con varianti alleliche “predisponenti”, il rischio di sviluppare la malattia diabetica è maggiore in presenza di condizioni ambientali “scatenanti”. la conoscenza delle varianti genetiche “predisponenti” è importante per la corretta individuazione dei differenti sottotipi della malattia ed è particolarmente utile nell’ambito della farmacogenetica, essendo teoricamente in grado di predire la migliore risposta terapeutica nell’individuo portatore di una specifica variante. accanto alle forme poligeniche di diabete mellito, esistono forme monogeniche di questa malattia, quali il diabete mellito neonatale e il diabete mellito dell’adulto a insorgenza giovanile (mody). anche queste forme rare di diabete necessitano di essere classificate in sottotipi in base alle caratteristiche genetiche, in virtù delle quali sarà possibile applicare la terapia più appropriata. oggi la terapia farmacologica per la cura del diabete mellito di tipo 2 dispone di un numero di opzioni assai più vasto rispetto al passato e per alcuni sottotipi di malattia è già possibile procedere alla scelta preferenziale di un farmaco o di una combinazione di farmaci ritenuti più idonei alle caratteristiche genetiche del paziente. finora, tranne poche eccezioni, la terapia farmacologica non ha tenuto conto della variabilità genetica individuale, rappresentando – questo – il maggior limite della farmacogenetica. pertanto, chiarire i meccanismi molecolari riconducibili alla variante genetica negli individui affetti rappresenta un punto di assoluta importanza per stabilire il ruolo eziopatogenetico della variante, ma anche per identificare nuovi bersagli terapeutici personalizzati. ad esempio, nell’ambito del diabete mellito di tipo 2, sono state recentemente scoperte varianti funzionali del gene hmga1 presenti in circa il 10% dei soggetti affetti [2]. in questi pazienti selezionati è possibile ipotizzare una futura applicazione della farmacogenetica nella cura “personalizzata” della malattia. personalizzare la cura significherà, per esempio, prevedere e quindi evitare effetti collaterali indesiderati, garantendo una più mirata e più efficace azione del farmaco. cenni di farmacogenetica figura 1. variante genetica. il tipo di variante più frequente è il polimorfismo a singolo nucleotide (snp), caratterizzato dal cambiamento di una singola base tra due individui è evidente come la genetica del diabete mellito di tipo 2 si sia arricchita, in quest’ultimo decennio, di importanti elementi di novità che stanno contribuendo a chiarire alcuni interessanti aspetti non solo eziopatogenetici della malattia, ma anche clinici e terapeutici. proprio in quest’ultimo ambito si colloca la farmacogenetica, una disciplina emergente che studia il ruolo dei fattori genetici nella risposta individuale al trattamento farmacologico, risposta intesa sia come efficacia terapeutica sia come manifestazione di effetti collaterali o reazioni avverse indesiderate. essa nasce dall’osservazione clinica che individui con la stessa malattia non sempre rispondono in maniera univoca allo stesso trattamento farmacologico, alla stessa posologia. tra le cause di questa variabilità individuale nella risposta al farmaco, oltre ad alcune considerazioni fisiologiche (età, sesso, peso corporeo), patologiche (malattie intercorrenti in grado di compromettere l’integrità funzionale epatica o renale) e abitudini voluttuarie (fumo, consumo di alcol, abuso di farmaci, uso di sostanze stupefacenti), assumono importanza i fattori genetici, che pur essendo già noti in passato per avere un ruolo in tal senso, in questi ultimi anni hanno subito un’importante rivalutazione. già sul finire degli anni ’50 il termine “farmacogenetica” veniva coniato da friedrich vogel per sottolineare l’importanza dei fattori ereditari nella risposta ai farmaci [3]. tuttavia, elementi di farmacogenetica possono essere intravisti già ai tempi di pitagora (510 a.c.), allorquando era già noto il rischio di crisi emolitica, in alcuni individui, in seguito all’ingestione di fave [4], fatto che in tempi più moderni veniva attribuito ad anomalie genetiche specifiche a carico dell’enzima glucosio-6-fosfato deidrogenasi. non vi è dubbio che il maggior contributo alla farmacogenetica sia derivato dal completamento del sequenziamento dell’intero genoma umano avvenuto nel 2003. l’informazione derivata dalla decodificazione dell’intero genoma è che oltre il 99% dei tre miliardi di paia di basi è uguale nell’essere umano; sottintendendo che in meno dell’1% risiedono gli elementi genetici che stanno alla base delle differenze fenotipiche tra le razze, ma anche alla base della maggiore o minore suscettibilità alle malattie, nonché della variabilità interindividuale nella risposta ai farmaci. la variante o differenza genetica più frequente è il polimorfismo a singolo nucleotide, o snp, caratterizzato dal cambiamento di una singola base tra due individui (figura 1). il punto sugli snps 1-3 ogni 1000 basi 5-10 per gene 10 milioni nel genoma umano 1% significato biologico in quale maniera la variante genetica possa condizionare la risposta farmacologica e l’efficacia terapeutica di un farmaco dipende dal ruolo che il gene polimorfo ha nell’espressione di proteine e/o enzimi coinvolti nella farmacocinetica, cioè nella biodisponibilità del farmaco, o nella farmacodinamica (per es. recettori, enzimi, canali ionici o proteine regolatrici che rappresentano il bersaglio terapeutico del farmaco). farmacogenetica degli ipoglicemizzanti orali (sulfaniluree e metformina) tra i polimorfismi che influenzano la farmacogenetica degli ipoglicemizzanti orali attraverso meccanismi farmacocinetici, vi sono quelli che coinvolgono il citocromo cyp2c9, un enzima del complesso del citocromo p450, deputato alla farmacometabolizzazione (figura 2). figura 2. polimorfismi che influenzano la farmacogenetica degli ipoglicemizzanti orali attraverso meccanismi farmacocinetici il 68% della popolazione presenta la forma wild-type *1*1 (non mutata) del gene cyp2c9, mentre varianti alleliche di questo gene, denominate *1*2 e *1*3, in grado di ridurre l’attività enzimatica di cyp2c9 del 30% e dell’80%, rispettivamente, sono riscontrabili nel 32% della popolazione. una riduzione dell’attività catalitica nel metabolismo di varie sulfaniluree (da quelle di prima generazione a quelle di ultima generazione) è stata riportata in numerosi studi clinici [5-9], nei quali sono state valutate due varianti genetiche a livello dei codoni arginina144cisteina e isoleucina359leucina del gene cyp2c9 in grado di alterare la struttura aminoacidica della proteina enzimatica, con aumento della biodisponibilità di tali farmaci. in particolare, nei pazienti con variante genetica *2/*2, la clearance di tolbutamide era ridotta del 25%, mentre nei pazienti con variante genetica *3/*3 era ridotta dell’84% [5]. risultati simili sono stati riportati in alcuni pazienti diabetici sottoposti a trattamento con glibenclamide [6]. pertanto, varianti genetiche di cyp2c9 aumentano il rischio di ipoglicemia nei diabetici sottoposti a trattamento con sulfaniluree. d’altra parte, la genotipizzazione del gene cyp2c9 è utile per predire gli effetti negativi di tali farmaci e per aiutare il medico nella prescrizione degli ipoglicemizzanti orali. pur essendo metformina il farmaco di prima scelta nella terapia del diabete mellito di tipo 2, gli studi sulla sua farmacogenetica sono limitati. questo perché, a differenza delle sulfaniluree, il meccanismo d’azione di metformina è ancora poco definito. l’acquisizione più interessante in questo ambito riguarda i cosiddetti trasportatori dei cationi organici (fattori oct-1, oct-2), proteine di trasporto di metformina, situate sulla membrana citoplasmatica di numerose cellule, in particolare intestinali, epatiche e renali, dove metformina viene riassorbita, coinvolta negli effetti ipoglicemizzanti ed eliminata in forma pressoché immodificata [10-12]. è stato dimostrato come i polimorfismi a livello dei geni che codificano per queste proteine siano in grado di alterare la biodisponibilità di metformina, influendo sull’efficacia terapeutica di questo farmaco [10-12]. in uno studio combinato in vitro e in vivo, è stato dimostrato che oct-1 è necessario nell’azione di metformina, svolgendo un ruolo fondamentale nell’assorbimento cellulare del farmaco [13]. utilizzando il topo oct1-knockout, gli autori hanno dimostrato che oct-1 è importante nella riduzione della gluconeogenesi epatica indotta da metformina. nello stesso studio, gli autori hanno dimostrato che alcune varianti genetiche di oct-1 sono in grado di attenuare la risposta ipoglicemizzante di metformina in individui sani portatori di tali varianti, sottoposti a test da carico orale di glucosio [13]. in un altro studio combinato in vitro e in vivo, è stato dimostrato come varianti genetiche di oct-2 riducano il trasporto di metformina nelle cellule renali umane embrionali hek-293 indotte a iperesprimere una proteina oct-2 mutagenizzata [14]. nello stesso tempo, gli stessi autori hanno dimostrato come la biodisponibilità di metformina aumenti in individui sani portatori di varianti del gene oct-2 sottoposti a trattamento con metformina [14]. in definitiva, gli autori dimostrano che varianti genetiche di oct-2, essendo in grado di indurre un deficit funzionale della proteina oct-2, riducono la clearance di metformina, aumentandone le concentrazioni plasmatiche. pertanto, varianti genetiche di oct-1 e oct-2 sono importanti nell’azione terapeutica di metformina, potendo contribuire alla variazione interindividuale nella risposta al farmaco. inoltre, la genotipizzazione di oct-1 e oct-2 è utile per predire l’efficacia terapeutica di metformina. figura 3. immagine schematizzata del canale del potassio atp-sensibile (k+-atp) situato sulla membrana citoplasmatica della cellula β pancreatica per quanto riguarda i polimorfismi che influenzano la farmacogenetica degli ipoglicemizzanti orali attraverso meccanismi farmacodinamici, l’esempio più paradigmatico è quello che interessa il canale del potassio atp-sensibile (k+-atp), situato sulla membrana citoplasmatica della cellula β-pancreatica (figura 3). in condizioni fisiologiche, l’aumento di atp che consegue all’ingresso di glucosio nella cellula β durante l’iperglicemia post-prandiale causa la chiusura di questi canali, bloccando la fuoriuscita di k+. questo, attraverso la depolarizzazione della membrana citoplasmatica causa l’ingresso nella cellula β di ioni ca2+, favorendo la fuoriuscita dei granuli secretori di insulina. come mostrato nell’immagine ingrandita nel riquadro a destra della figura 3, il canale del k+ appare formato da due unità concentriche, un’unità esterna (grigia) corrispondente alla proteina kir6.2 inibita dall’atp, e un’unità interna (rossa) corrispondente alla proteina sur1 (acronimo di sulfanilurea recettore), inibita dalle sulfaniluree. la proteina kir6.2 è codificata dal gene kcnj11, mentre la proteina sur1 è codificata dal gene abcc8, due geni entrambi situati nel cromosoma 11, particolarmente polimorfi. in particolare, mutazioni con guadagno di funzione o con perdita di funzione sono state descritte per entrambe le proteine kir6.2 e sur1. nel primo caso si assiste a un’apertura costitutiva dei canali del k+, cui fa seguito una riduzione della secrezione insulinica e diabete mellito neonatale; nel secondo caso, chiusura costitutiva dei canali del k+, iperinsulinismo e ipoglicemia neonatale. come già riportato in letteratura [15], varianti genetiche di kcnj11 sono presenti nel 30-58% dei neonati con diabete mellito, nei quali la genotipizzazione di kcnj11 è utile nello screening e nella diagnosi del diabete mellito neonatale e può avere conseguenze terapeutiche importanti per trasferire i pazienti con mutazioni dei geni kcnj11 e abcc8 dalla terapia insulinica a quella con sulfaniluree. lo studio di feng e colleghi [16] è probabilmente lo studio prospettico più ampio finora condotto sulla farmacogenetica delle sulfaniluree (tabella i). genotipo n basale durata trattamento (57 giorni) decremento (%) regressione β (se)* p fpg (mmol/l) ser/ser 363 11,1 ± 2,9 7,9 ± 2,4 26,1 ± 20,2 ser/ala 562 11,0 ± 2,9 7,6 ± 2,0 27,9 ± 18,9 2,8 (1,6) 0,076 ala/ala 224 11,5 ± 3,3 7,6 ± 2,5 31,6 ± 19,8 7,7 (1,9) < 0,001 2h-pg (mmol/l) ser/ser 269 18,9 ± 4,7 15,2 ± 5,9 22,3 ± 22,8 ser/ala 404 18,4 ± 4,7 14,0 ± 4,1 23,3 ± 23,4 10,8 (3,3) 0,001 ala/ala 157 18,8 ± 4,4 13,9 ± 4,4 27,6 ± 20,3 11,9 (4,1) 0,003 hba1c (%) ser/ser 151 8,4 ± 1,9 7,0 ± 1,5 14,2 ± 17,6 ser/ala 251 8,3 ± 2,0 6,8 ± 1,2 15,8 ± 15,3 1,9 (1,4) 0,195 ala/ala 106 8,7 ± 2,0 7,0 ± 1,4 17,4 ± 13,5 3,5 (1,8) 0,060 tabella i. la variante serina1369alanina a livello del gene abcc8, che codifica per la subunità sur1 del canale del potassio, è associata con l’efficacia terapeutica di gliclazide nei pazienti con diabete mellito di tipo 2 * modello di regressione lineare multipla 2h-pg = 2 ore dopo il carico orale di glucosio; fpg = glicemia a digiuno in 1.268 pazienti con diabete mellito di tipo 2, gli autori hanno valutato 25 snps in 11 geni candidati, riscontrando un’associazione tra il polimorfismo del codone 1369 (al quale livello una serina viene sostituita da un’alanina nel gene abcc8 che codifica per sur1) e l’efficacia terapeutica di gliclazide, misurata in termini di glicemia a digiuno (fpg) e 2 ore dopo il carico orale di glucosio (2h-pg), dopo 8 settimane di trattamento. nei pazienti con genotipo alanina/alanina gli autori riportavano il 7,7% in più di decremento sulla fpg rispetto ai pazienti con genotipo serina/serina e un decremento di ~12% in più sulla glicemia a 2h-pg. un miglioramento, nei pazienti alanina/alanina, veniva riscontrato anche nel compenso glicometabolico, come dimostrato dal decremento del 3,5% in più nei livelli di emoglobina glicosilata (hba1c). in altri due studi [17,18] sono stati presi in considerazione due polimorfismi di tcf7l2 (rs12255372, rs7903146), un gene che codifica per un fattore di trascrizione coinvolto nella funzione insulinica β-cellulare, le cui varianti genetiche, negli individui affetti, aumentano di circa 1,5 volte il rischio di malattia diabetica. in entrambi gli studi veniva valutato il fallimento terapeutico alle sulfaniluree (e a metformina), come definito dal valore di hba1c > 7% nei 3-12 mesi successivi al trattamento. come mostrato nella tabella ii, nessuna differenza significativa veniva riscontrata nei 945 pazienti trattati con metformina, a dimostrazione del fatto che tali varianti non hanno effetto su un farmaco che agisce migliorando l’azione periferica dell’insulina piuttosto che la secrezione insulinica β-cellulare. rs12255372 (n = 901) rs7903146 (n = 901) fallimento terapeutico? hba1c > 7% gg gt tt p value cc ct tt p value sulfanilurea (n = 901) no 230 (60%) 246 (59%) 45 (43%) 232 (60%) 236 (58%) 43 (47%) sì 152 (40%) 169 (41%) 59 (57%) 0,006 148 (40%) 173 (42%) 59 (53%) 0,035 metformina (n = 945) no 225 (52%) 213 (51%) 42 (46%) 0,61 229 (54%) 207 (49%) 44 (44%) 0,12 sì 209 (48%) 207 (49%) 49 (54%) 193 (46%) 217 (51%) 55 (56%) tabella ii. i pazienti diabetici carrier di varianti a livello del gene tcf7l2 rispondono meno alla terapia con sulfaniluree e sono a più alto rischio di fallimento terapeutico invece, nei 901 pazienti trattati con sulfaniluree, il 57% dei soggetti con genotipo tt andava incontro a fallimento terapeutico, contro il 40% dei pazienti con genotipo gg, nell’ambito della variante rs12255372 (tabella ii, snp g-t). risultati simili erano ottenuti nei pazienti con genotipo tt (53%), rispetto ai pazienti con genotipo cc (40%), nell’ambito della variante rs7903146 (tabella ii, snp c-t). pertanto, i pazienti portatori di varianti genetiche di tcf7l2 rispondono meno alla terapia con sulfaniluree e sono a più alto rischio di fallimento terapeutico. polimorfismi che influenzano la farmacogenetica degli ipoglicemizzanti orali, attraverso meccanismi farmacodinamici, sono stati valutati anche in individui in terapia con tiazolidinedioni (pioglitazone e rosiglitazone). in quanto agonisti del pparγ, questi farmaci agiscono come insulino-sensibilizzanti, aumentando la captazione di glucosio nel muscolo e riducendo il rilascio epatico di glucosio. una variante, prolina/alanina, a livello del codone 12 del gene pparγ è stata valutata in alcuni studi prospettici [19-21], al fine di verificare una sua associazione con l’effetto terapeutico di pioglitazone e di rosiglitazone, considerando alcuni parametri quali l’fpg, l’hba1c e l’indice di sensibilità insulinica. come riportato nella tabella iii, nessuna associazione genotipo/fenotipo veniva riscontrata da bluher [19] e florez [20] in soggetti diabetici o a rischio di diabete (individui con alterata tolleranza glucidica o con alterata glicemia a digiuno), mentre una maggiore riduzione dell’fpg e dell’hba1c veniva riportata in uno studio coreano di kang [21], nei pazienti con genotipo prolina/alanina rispetto ai pazienti con genotipo prolina/prolina. studio prospettico valutazione polimorfismo genetico risultato bluher, 2003 [19] 131 pazienti con diabete mellito di tipo 2, trattati con pioglitazone per oltre 26 settimane hba1c e/o fpg a 12 e 26 settimane pparγ pro12ala nessuna associazione genotipo-fenotipo risultava statisticamente significativa florez, 2007 [20] 340 non diabetici con igt* o ifg** sensibilità insulinica pparγ pro12ala nessuna associazione genotipo-fenotipo risultava statisticamente significativa kang, 2007 [21] 198 pazienti diabetici trattati con rosiglitazone per 3 mesi fpg e hba1c a 3 mesi pparγ pro12ala riduzione in fpg (p = 0,003) e riduzione in hba1c (p = 0,012) maggiore nei pazienti con genotipo pro/ala rispetto ai pazienti con genotipo pro/pro tabella iii. efficacia terapeutica dei tiazolidinedioni (pioglitazone e rosiglitazone) in pazienti diabetici e non, carrier della variante prolina12alanina del gene pparγ *alterata tolleranza glucidica; **alterata glicemia a digiuno le varianti genetiche del gene hmga1 sono state recentemente riscontrate nel 10% degli individui affetti da diabete mellito di tipo 2 [2]. di queste, una, la variante rs146052672, presenta una maggiore prevalenza (~8%) nella popolazione diabetica ed è in grado di aumentare di ben sedici volte il rischio di malattia [2]. clinicamente, la presenza di mutazioni del gene hmga1, oltre che condizionare un decorso clinico diverso rispetto ai pazienti diabetici senza la variante, potrebbe predire la risposta alla terapia, consentendo di identificare a priori i pazienti che potrebbero maggiormente beneficiare di un trattamento farmacologico più idoneo [22]. prospettive future figura 4. test farmacogenetico. attraverso l’identificazione di snps individuali, il test farmacogenetico consente di selezionare i pazienti responsivi (responder) alla terapia e quelli non responsivi (non-responder), potendo avviare, nei responder, trattamenti terapeutici migliori e più efficaci la possibilità di una terapia personalizzata, su misura, rappresenta senza dubbio una delle opportunità più auspicabili e affascinanti della medicina moderna. attraverso l’identificazione di snps individuali, l’uso di test farmacogenetici permetterebbe di genotipizzare l’intera popolazione da trattare, consentendo di selezionare i pazienti responsivi (responder) alla terapia e quelli non responsivi (non-responder), avviando, nei responder, trattamenti terapeutici migliori e più efficaci (figura 4). d’altro canto, la mancata applicazione del test farmacogenetico, oltre che a favorire l’attuale empirismo terapeutico, contribuirebbe al fallimento farmacologico, favorendo l’aumento delle reazioni avverse di un farmaco, che ancora oggi costituiscono una delle principali cause di morte nei paesi occidentali [23]. a fare da contraltare, vi sono una serie di resistenze in parte dipendenti da una carenza legislativa sulla farmacogenetica nel nostro e in altri paesi, nei quali manca ancora un consensus sui criteri per l’introduzione e l’uso dei test farmacogenetici nella pratica clinica. d’altra parte, come già rilevato [24], la mancanza, allo stato attuale, di misure atte a evitare i rischi di stigmatizzazione sociale e discriminazione genetica rallenta la commercializzazione dei test farmacogenetici. a ciò si aggiungano alcuni aspetti di farmacoeconomia legati al mancato interessamento da parte degli investitori per la ricerca di soluzioni terapeutiche per piccoli gruppi di pazienti non-responder per caratteristiche genetiche meno frequenti, che possono favorire il rischio della “sindrome del farmaco orfano” (farmaci efficaci nel trattamento di alcune malattie, ma poco remunerativi per le aziende farmaceutiche). bibliografia brunetti a, chiefari e, foti d. perspectives on the contribution of genetics to the pathogenesis of type 2 diabetes mellitus. recenti prog med 2011; 102: 468-75 chiefari e, tanyolaç s, paonessa f, et al. functional variants of the hmga1 gene and type 2 diabetes mellitus. jama 2011; 305: 903-12 vogel f. moderne probleme der humangenetik. ergeb inn med kinderheilkd 1959; 12: 52-125 nebert dw. pharmacogenetics and pharmacogenomics: why is this relevant to the clinical geneticist? clin genet 1999; 56: 247-55 kirchheiner j, bauer s, meineke i, et al. impact of cyp2c9 and cyp2c19 polymorphisms on tolbutamide kinetics and the insulin and glucose response in healthy volunteers. pharmacogenetics 2002; 12: 101-9 kirchheiner j, brockmoller j, 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2008; 31: 1939-44 pearson er, donnelly la, kimber c, et al. variation in tcf7l2 influences therapeutic response to sulfonylureas: a godarts study. diabetes 2007; 56: 2178-82 holstein a, hahn m, körner a, et al. tcf7l2 and therapeutic response to sulfonylureas in patients with type 2 diabetes. bmc med genet 2011; 12: 30 bluher m, lubben g, paschke r. analysis of the relationship between the pro12ala variant in the ppar-gamma2 gene and the response rate to therapy with pioglitazone in patients with type 2 diabetes. diabetes care 2003; 26: 825-31 florez jc, jablonski ka, sun mw, et al; diabetes prevention program research group. effects of the type 2 diabetes-associated pparg p12a polymorphism on progression to diabetes and response to troglitazone. j clin endocrinol metab 2007; 92: 1502-9 kang es, park sy, kim hj, et al. effects of pro12ala polymorphism of peroxisome proliferator-activated receptor gamma2 gene on rosiglitazone response in type 2 diabetes. clin pharmacol ther 2005; 78: 202-8 smith rj, nathan dm, arslanian sa, et al. individualizing therapies in type 2 diabetes mellitus based on patient characteristics: what we know and what we need to know. j clin endocrinol metab 2010; 95: 1566-74 lazarou j, pomeranz bh, corey pn. incidence of adverse drug reactions in hospitalized patients: a meta-analysis of prospective studies. jama 1998; 279: 1200-5 schwartz rs. racial profiling in medical research. n engl j med 2001; 344: 1392-3 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1) 37 clinical management issues gli esami ematochimici rivelano valori di troponina i e mioglobina elevati, rispettivamente di 11 ng/ml (vn = 0-0,1 ng/ml) e 400 ng/ml (vn = 10-92 ng/ml). all’emogasanalisi si riscontrano ipossiemia e acidosi. all’ecocardiogramma si documentano moderata riduzione della frazione di eiezione (fe) del ventricolo sinistro, lieve insufficienza mitralica; cavità destre apparentemente ai limiti superiori, insufficienza tricuspidale lieve, lieve incremento della caso clinico una donna di 32 anni, in gravidanza alla 39° settimana, pluripara, con anamnesi di taglio cesareo (tc) si reca in ospedale per parto nuovamente con tc. due ore circa dopo l’intervento viene richiesta una consulenza cardiologica perché la paziente lamenta cardiopalmo e dispnea ingravescente. all’esame obiettivo toracico si riscontrano murmure vescicolare ridotto e rumori umidi diffusi ai campi polmonari medio-basali bilaterali. l’obiettività cardiaca dimostra: toni ritmici; y frequenza cardiaca (fc) = 143/min; y soffio olosistolico puntale = 2/6; y pressione arteriosa = 105/60 mmhg; y temperatura corporea = 36,4 °c. y l’esame elettrocardiografico mostra una tachicardia sinusale con blocco di branca destra. perché descriviamo questo caso può essere utile analizzare un caso di insufficienza cardio-respiratoria acuta verificatasi a seguito di un parto cesareo per porre l ’accento sulle caratteristiche della cardiomiopatia tako-tsubo, che potrebbe essere confusa, in questo tipo di pazienti, con la cardiomiopatia peri-partum corresponding author dott. rodolfo citro rodolfocitro@teletu.it caso clinico abstract a young woman undergoes caesarean section at the 39th week of pregnancy: shortly after she develops acute cardiorespiratory failure. the electrocardiography shows sinus tachycardia and right bundle branch block. the ventriculography confirms the decrease of the pump function and the mid-ventricular ballooning of the left ventricle; the differential diagnosis is between peripartum cardiomyopathy and stress induced tako-tsubo cardiomyopathy: the sudden onset, the results of the ventriculography and the complete recovery after 11 days of treatment for acute heart failure led the diagnosis towards tako-tsubo cardiomyopathy. keywords: tako-tsubo syndrome, stress-induced cardiomyopathy, peri-partum cardiomyopathy, acute heart failure acute heart failure after caesaerean section: peri-partum or tako-tsubo cardiomiopathy? cmi 2011; 5(1): 37-40 1 a.o.u. “scuola medica salernitana”. dipartimento medico-chirurgico di cardiologia. salerno rodolfo citro 1, roberta giudice 1, marco mirra 1, rosa paolillo 1, chiara paolillo 1, cesare baldi 1, eduardo bossone 1 insufficienza cardiaca acuta dopo taglio cesareo: cardiomiopatia peri-partum o tako-tsubo? ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1)38 insufficienza cardiaca acuta dopo taglio cesareo: cardiomiopatia peri-partum o tako-tsubo? la donna viene dimessa in undicesima giornata con diagnosi di cardiomiopatia tako-tsubo (ttc) con balloning medioventricolare senza prescrizione di terapia cardiologica specifica. discussione la ttc è caratterizzata da una disfunzione contrattile reversibile del ventricolo sinistro, caratterizzata da ipocinesia severa/acinesia di alcuni segmenti della parete miocardica in assenza di patologia aterosclerotica coronarica [1]. all’esordio questa sindrome si presenta con dolore toracico, segni elettrocardiografici di infarto miocardico acuto e aumento sierico dei marker enzimatici di necrosi miocardica: va quindi in diagnosi differenziale con le sindromi coronariche acute, da cui si distingue per la negatività dell’esame coronarografico [2]. nella forma classica si manifesta con ipocinesia severa/acinesia dei segmenti medi e apicali del ventricolo sinistro che assume aspetto a ballooning. per tale caratteristica morfologia, tipica della fase acuta, autori giapponesi hanno definito questa condizione “tako-tsubo” dal nome del vaso, a base anforica e collo stretto, utilizzato dai pescatori nipponici per catturare i polpi. questa sindrome è anche identificata con altre denominazioni legate alle modalità di insorgenza e alle ipotesi eziopatogenetiche. il termine “cardiomiopatia da stress”, introdotto da autori occidentali, si riferisce tanto al coinvolgimento di stressor fisici e/o psicologici nell’insorgenza della sindrome, quanto al possibile ruolo dell’incremento delle catecolamine circolanti [3]. la prevalenza estremamente alta nel sesso femminile, specialmente in donne in postpressione arteriosa polmonare sistolica (paps) stimata = 45-50 mmhg, e vena cava inferiore lievemente dilatata con escursioni respiratorie ridotte. a questo punto, per il sospetto di tromboembolia polmonare (tep), si pratica un’angio-tc polmonare. l’angio-tc mostra impegno interstizioalveolare e concomitante imbibizione dei setti interlobulari con piccola falda di versamento pleurico intrascissurale; aspetto ispessito e congesto delle pareti dei bronchi tributari e dei vasi ilari; tronco della polmonare con ramo destro e sinistro omogeneamente opacizzati; l’esame di fatto esclude tep. la paziente sviluppa insufficienza cardiorespiratoria acuta che necessita di trattamento con continous positive airway pressure (cpap) e terapia farmacologica con furosemide, dopamina cloridrato ed eparina per via endovenosa. nonostante tale terapia, il quadro clinico non migliora, per cui la donna viene sottoposta a coronarografia, che documenta coronarie normali. la ventricolografia conferma una funzione di pompa ventricolare sinistra ridotta, fe = 40%, con acinesia circoscritta solo ai segmenti medi di tutte le pareti, che di fatto configura un aspetto di mid-ventricular ballooning (figura 1). la paziente è trasferita in unità di terapia intensiva ove è monitorata e trattata per scompenso cardiaco acuto. nei giorni successivi si assiste al miglioramento delle condizioni emodinamiche e la donna è trasferita in reparto di cardiologia. esami seriati emogasanalitici ed ecocardiografici mostrano un progressivo miglioramento delle funzioni cardio-respiratorie. l’ecocardiogramma predimissione documenta completo recupero della contrattilità del ventricolo sinistro con fe = 62% e assenza di segni di disfunzione diastolica e di ipertensione polmonare. figura 1 ventricolografia sinistra in proiezione obliqua anteriore destra; a: “frame” diastolico; b: “frame” sistolico. si noti, in sistole, l ’aspetto a “palloncino” del ventricolo sinistro per acinesia dei segmenti medi e normale contrattilità dei segmenti basali e dell ’apice a b ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1) 39 r. citro, r. giudice, m. mirra, r. paolillo, c. paolillo, c. baldi, e. bossone m2 ) in assenza di altra causa dimostrabile di scompenso cardiaco. nella maggior parte dei casi ha un esordio subdolo, potendo presentare segni e sintomi comunemente presenti durante un fisiologico stadio peri-partum (edema delle caviglie, dispnea da sforzo, ortopnea, dispnea parossistica notturna, tosse persistente, astenia, palpitazioni) [7]. nel caso riportato gli elementi che ci hanno orientato verso la diagnosi di variante medio-ventricolare di cardiomiopatia takotsubo sono stati: la modalità di insorgenza acuta, con esay me coronarografico negativo per patologia aterosclerotica coronarica; la morfologia del ventricolo sinistro, con y aspetto di cuore “a palloncino” medioventricolare; il completo recupero della contrattilità y ventricolare sinistra nel volgere di pochi giorni dall’insorgenza della sintomatologico. infine, il parto potrebbe essere considerato un possibile trigger così come un ipotetico ruolo patogenetico potrebbe essere rappresentato dal brusco calo post-partum dei livelli ematici di estrogeni. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. menopausa, induce a pensare a un possibile legame con il calo degli estrogeni. questi ormoni, infatti, esercitano una “azione di protezione” sul cuore che, quando viene meno, rende il tessuto miocardico più vulnerabile agli effetti cardiotossici delle catecolamine [4]. una peculiarità di questa sindrome, oltre alla mancanza di una “placca coronarica responsabile”, è la completa reversibilità della disfunzione miocardica, con il completo recupero della funzione sistolica del ventricolo sinistro nel volgere di giorni o settimane [5]. accanto alla tipica forma detta apical ballooning, sono state documentate altre forme di ttc come il mid-ballooning e il basal ballooning, in cui la dissinergia interessa rispettivamente i segmenti medi e basali del ventricolo sinistro senza il coinvolgimento dell’apice, che appare al contrario normocontrattile [6]. queste forme varianti colpiscono in genere donne più giovani, anche in pre-menopausa e sono in genere caratterizzate da una minore compromissione della funzione sistolica [6]. la cardiomiopatia peri-partum (ppcm) è una cardiomiopatia idiopatica caratterizzata da insufficienza cardiaca. la ppcm in genere esordisce tra l’ultimo mese di gravidanza e i primi 5 mesi dopo il parto. tipicamente all’ecocardiogramma si apprezzano una riduzione della funzione sistolica (fe ≤ 45%) e una dilatazione del ventricolo sinistro (diametro telediastolico indicizzato ≥ 2,7 cm/ bibliografia wittstein is, thiemann dr, lima ja, baughman kl, schulman sp, gerstenblith g et al. 1. neurohumoral features of myocardial stunning due to sudden emotional stress. n engl j med 2005; 352: 539-48 sharkey sw, lesser jr, zenovich ag, maron ms, lindberg j, longe tf et al. acute and 2. reversible cardiomyopathy provoked by stress in women from the united states. circulation 2004; 111: 472-9 bybee ka, prasad a, barsness gw, lerman a, jaffe as, murphy jg et al. clinical characteristics 3. and thrombolysis in myocardial infarction frame counts in women with transient left ventricular apical ballooning syndrome. am j cardiol 2004; 94: 343-6 tsuchihashi k, ueshima k, uchida t, oh-mura n, kimura k, owa n et al. transient left 4. ventricular apical ballooning without coronary artery stenosis: a novel heart syndrome mimicking acute myocardial infarction. angina pectoris-myocardial infarction investigations in japan. j am coll cardiol 2001; 38: 11-8 kurisu s, sato h, kawagoe t, ishihama n, shimitani y, nishioka k et al. tako-tsubo-like left 5. ventricular dysfunction with st-segment elevation: a novel cardiac syndrome mimicking acute myocardial infarction. am heart j 2002; 143: 448-55 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1)40 insufficienza cardiaca acuta dopo taglio cesareo: cardiomiopatia peri-partum o tako-tsubo? citro r, pascotto m, provenza g, gregorio g, bossone e. transient left ventricular ballooning 6. (tako-tsubo cardiomyopathy) soon after intravenous ergonovine injection following caesarean delivery. int j cardiol 2010; 138: e31-e34 sliwa k, hilfiker-kleiner d, petrie mc, mebazaa a, pieske b, buchmann e et al. current state 7. of knowledge on aetiology, diagnosis, management, and therapy of peripartum ardiomyopathy: a position statement from the heart failure association of the european society of cardiology working group on peripartum cardiomyopathy. eur j heart fail 2010; 12: 767-77 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3) 75 clinical management issues ina maria hinnenthal 1, mauro cibin 2 il trattamento residenziale breve delle dipendenze da alcol e cocaina: il modello soranzo editoriale 1 psichiatra, psicoterapeuta. responsabile ambulatorio alcologia, struttura semplice dipartimentale, dsm-integrato, asl 1 imperiese, imperia (im) 2 medico psichiatra, direttore dipartimento per le dipendenze della azienda ulss 13 del veneto, dolo venezia corresponding author dott.ssa ina maria hinnenthal ina.hinnenthal@libero.it la cura dell’alcolismo e della dipendenza da cocaina in tutte le sue forme è un intervento complesso, multidisciplinare e nello stesso tempo particolarmente specifico, che ha lo scopo di fornire risposte terapeutiche a vari livelli: al corpo spesso sofferente, in particolare y al cervello, al sistema nervoso periferico, al tratto gastrointestinale e al fegato, che hanno subito danni per le sostanze assunte; alle capacità motivazionali, lese dall’azione y neurobiologica delle sostanze [1]; agli eventi negativi, sia recenti sia lontani y nel tempo, che hanno caratterizzato la vita del paziente, con le loro implicazioni cognitive, emotive e post-traumatiche; alla situazione attuale familiare e sociale. y benché la parola “alcologia” sembri indicare un’area medica ben definita, in realtà fa riferimento a un settore in continua evoluzione, dove spesso non si dispone di soluzioni certe, di linee guida o di percorsi clinici ben definiti, ma in cui la risposta terapeutica ai problemi correlati all’alcol e alle dipendenze va ricercata di volta in volta, e in qualche modo “inventata” sulla base delle caratteristiche dello specifico paziente. le sconvolgenti quantità di nuove nozioni neurobiologiche ottenute principalmente grazie al miglioramento delle tecniche di neuroimaging a partire degli anni ’90 hanno contribuito al miglioramento degli strumenti di intervento terapeutico anche nel campo delle dipendenze da sostanze. i nuovi paradigmi neurobiologici, dalla neuroplasticità all’espressione genetica esperienza-dipendente, dallo studio dei fenomeni di resilienza con i suoi correlati neuroormonali ai correlati psicofisici postraumatici hanno permesso una diversa visione nel campo dell’alcolismo [2]: superando un modello statico principalmente orientato verso i danni organici e psichici si sono potuti capire meglio i meccanismi di fronteggiamento utili a prevenire la ricaduta del paziente alcolista [3]. questi nuovi approcci passano attraverso un’accurata diagnosi, e tendono a promuovere le facoltà di resilienza e di recupero. da alcuni anni si sta assistendo anche in italia alla crescita dell’interesse per i programmi residenziali brevi per il trattamento dell’alcolismo e del cocainismo [4]. questi programmi si differenziano sia dalla residenzialità psichiatrica sia dalle comunità terapeutiche per tossicodipendenti: entrambi questi interventi, infatti, giungono di solito dopo percorsi ambulatoriali e sono rivolti a soggetti con forte compromissione personale e sociale. volendo individuare un modello per la residenzialità breve, è opportuno fare riferimento piuttosto ai programmi “28 giorni” anglosassoni, o alle “cliniche psicoterapiche o psicosomatiche” tedesche. in questi modelli infatti l’intervento residenziale viene visto come momento di inizio, in cui effettuare interventi diagnostici, di motivazione e di prevenzione della ricaduta, e in cui sviluppare un piano di trattamento; in molto casi sono inclusi interventi di sblocco e regolazione emotiva e di “facilitazione” ai gruppi di autoaiuto. sono pensati per persone con gravi problemi di dipendenza da alcol e/o da cocaina, ma che possiedono an©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3)76 editoriale cora una conservata facoltà di pieno recupero terapeutico. in questo contesto nel 2001 nasce villa soranzo (www.cocaina-alcol.org), grazie alla collaborazione tra il dipartimento per le dipendenze dell’azienda ulss 13 del veneto e il ceis “don milani” di mestre. si tratta di un modello a forte valenza psicoterapica che integra al suo interno le nozioni nuove nel campo delle dipendenze, adattandole al contesto italiano. in questo senso “villa soranzo non è un luogo, è un’idea”, un work in progress a fronte del continuo cambiamento sia dei problemi legati all’uso di alcol, sostanze e comportamenti (gioco d’azzardo, sex addiction, ecc.) sia degli strumenti terapeutici. un concetto fondamentale del modello soranzo risiede nella convinzione che alla base delle dipendenze da alcol e/o cocaina in persone che socialmente sono ancora attive e integrate vi sia sempre una storia personale e familiare, spesso con valenza traumatica, nell’infanzia o nell’adolescenza. il momento del peggioramento evidente della dipendenza corrisponde spesso “solo” a una riattivazione di questo materiale traumatico sotterraneo. ma parlarne non è sufficiente: è invece necessario andare incontro a una sorta di esperienza correttiva, uno sblocco emotivo e corporeo, perché il materiale traumatico tende a non essere più accessibile attraverso la sola parola e si esprime di conseguenza in sintomi corporei. lo “sblocco emotivo” avviene più facilmente in un contesto terapeutico residenziale come villa soranzo, protetto da stimoli esterni e in un clima di accettazione aperta e non giudicante [5], in cui si respirano serenità, autenticità e fiducia. metodiche come la psicoanalisi o le terapie cognitive “parlanti” da sole non servono. risulta molto più efficace occuparsi prima dell’emotività attraverso l’intervento corporeo guidato e gli interventi terapeutici simbolici (arteterapia, terapia con i simboli, musicoterapica, ecc.), che usano come canale d’accesso l’emisfero destro del cervello, in cui il vissuto emotivo traumatico è “imprigionato”, spesso congelato e non conscio. solo dopo il ricollegamento dell’emotività rimossa (“sblocco emotivo”) le metodiche che aiutano a elaborare l’accaduto divengono utili e necessarie [6] e possono fornire strumenti nuovi per fronteggiare situazioni di rischio di ricaduta [7]. un intervento di questo genere ha la precisione di un’operazione neurochirurgica e come tale deve avere alla sua base un’accurata valutazione dell’indicazione corretta. è un intervento utile per persone che hanno avuto singoli traumi gravi, non nei primissimi tempi di vita e che comunque possiedono questa facoltà già collaudata di superamento di eventi negativi (resilienza). persone troppo traumatizzate rischierebbero semplicemente di decompensarsi maggiormente senza poi ottenere un giovamento. un aspetto fondamentale di questo delicato processo è la valutazione dei risultati, che nel caso della metodologia descritta hanno dato evidenze assai positive [8,9]. il libro “il trattamento residenziale breve delle dipendenze da alcol e cocaina. il modello soranzo” pubblicato dalla casa editrice seed a cura di ina maria hinnenthal e mauro cibin [10] cerca di riassumere sia gli aspetti teorici, sia gli aspetti clinici con suggerimenti sull’applicazione dell’idea partendo dall’esperienza di villa soranzo. è il tentativo, in un momento di forte cambiamento, di proporre una “fotografia” delle nozioni neurobiologiche e terapeutiche attuali unitamente a quelle derivanti dalla nostra esperienza a lettori attenti e critici, pronti a confrontarsi sugli argomenti svolti. bibliografia cibin m, hinnenthal i. il punto di vista del paziente come elemento diagnostico e terapeutico: 1. la “rivoluzione motivazionale” in comunità terapeutica. medicina delle dipendenze 2011; i: 2 hinnenthal i, laki z, ardissone g. psicotraumatologia e neuroplasticità. presupposti teorici per 2. la gestione clinica del trattamento residenziale di alcolisti con poliabuso. in: lucchini a, nava f, manzato e (a cura di). buone pratiche e procedure terapeutiche nella gestione del paziente alcolista. milano: franco angeli, 2008 linehan m, bohus m, lynch tr. dialectical behaviour therapy for pervasive emotions 3. dysregulation. in: gross jj. handbook of emotions regulation. new york, ny: guilford press, 2007 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3) 77 i. m. hinnenthal, m. cibin cibin m, hinnenthal i, lugato e. i programmi residenziali brevi. 4. medicina delle tossicodipendenze 2009; 65: 39-46 rogers cr. encounter groups. london: penguin, 19705. cibin m, hinnenthal i, levarta e, manera e, nardo m, zavan v. prevenzione della ricaduta, 6. motivazione al cambiamento, eventi vitali e sofferenza psichica nell’intervento alcologico: bollettino per le farmacodipendenze e l ’alcolismo 2001; 24: 9-15 marlatt ga, barrell k. la prevenzione delle ricadute. in: galanter m. kleber hd. trattamento 7. dei disturbi da uso di sostanze. milano: edizioni masson, 1998 cibin m, gallo s, spolaor g, bettamin s, costa s, lugato e et al. cocaina ed alcol: esperienza 8. e risultati del programma residenziale breve “villa soranzo”. mission 2010; 29: 18-24 cibin m, jester a, leonardini l, lugato e, papanastasatos g. transnational catalogue of 9. intervention options for young polydrug users, e.u. executive agency for health and consumers. bruxelles, 2010 (www.seidproject.eu) hinnenthal i, cibin m (a cura di). il trattamento residenziale breve delle dipendenze da alcol 10. e cocaina. il modello soranzo. torino: seed, 2011 per chi desidera approfondire il trattamento residenziale breve delle dipendenze da alcol e cocaina. il modello soranzo a cura di ina maria hinnenthal, mauro cibin prezzo: 28,00 € (cartaceo) | 21,00 € (ebook) isbn: 978-88-8968-892-2 (cartaceo) | 978-88-8968-896-0 (ebook) acquistabile su www.edizioniseed.it pubblicato a maggio 2011 l’abuso e la dipendenza da alcol e cocaina, come le situazioni di polidipendenze, sempre più frequenti, necessitano di interventi qualificati, specialistici, intensivi, che prevedano la possibilità di periodi residenziali, oltre che la capacità di costru ire una robusta rete territoriale. il volume esamina questa tematica, a partire dal percorso riabilitativo e assistenziale messo a punto nell ’ambito di villa soranzo. questo tipo di approccio multiprofessionale rappresenta un modello e una pro posta per migliorare la qualità e l ’appropriatezza degli interventi, mettendo il pa ziente al centro del processo di cura come promotore attivo della propria salute. http://www.edizioniseed.it/libro.aspx?id=443 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2) 69 clinical management issues flaccida accompagnati da disturbi della sensibilità e perdita del controllo degli sfinteri [5]. ciascun episodio era preceduto da un attacco asmatico acuto e improvviso. dal punto di vista laboratoristico si riscontrava un elevato livello di ige, e i prick test risultavano fortemente positivi al dermatophagoides farinae e al polline. un episodio analogo è stato riportato da horiuchi e collaboratori in una ragazza di 22 anni che aveva presentato una paralisi flaccida acuta dopo un episodio asmatico [14]. introduzione la sindrome di hopkins è un’affezione apparentemente rara che interessa le cellule delle corna anteriori della colonna vertebrale coinvolte in seguito a un attacco di asma [1-4]. la malattia è poco nota e fu descritta per la prima volta da hopkins nel 1974 con un quadro sintomatologico similpoliomielite [4]. la sindrome di hopkins, denominata anche amiotrofia asmatica, colpisce in egual misura entrambi i sessi e tutte le età, con prevalenza in età infantile. si manifesta con paralisi flaccida a insorgenza acuta a breve distanza di tempo da un attacco asmatico (tabella i) [5-13]. caratteristiche della sindrome di hopkins e diagnosi differenziale di recente abbiamo osservato tale affezione in una ragazza di 13 anni che aveva presentato quattro episodi acuti di paralisi corresponding author piero pavone md uo pediatria azienda ospedaliera universitaria ove-policlinico via plebiscito 759 catania, italia ppavone@unict.it caso clinico abstract hopkins’ syndrome is a rare disease that affects the anterior horn of the spinal cord after an acute episode of asthma in children with atopic disease. a viral infection or immunological suppression in atopic subjects might be the cause of occurrence of this syndrome, although the mechanism due to the etiopathogenesis of the disease still remains unknown.in general, this disease is manifested by a few days to a few weeks after an acute asthma attack, with flaccid paralysis of one or more limbs and in some cases residual muscle atrophy. the response to corticosteroid therapy is good and rare the possibility of recurrence. keywords: hopkins’ syndrome, asthmatic amyotrophy, asthma, childhood hopkins’ syndrome cmi 2011; 5(2): 69-71 1 dipartimento di pediatria e neurologia pediatrica, azienda ospedaliera universitaria ovepoliclinico, università di catania maria roberta longo 1, raffaele falsaperla 1, catia romano 1, eleonora passaniti 1, piero pavone 1 sindrome di hopkins età 1-13 anni esordio dopo un attacco asmatico acuto: latenza da 1 a 18 giorni y dolore lieve: arti, collo o meningismo y debolezza a esordio rapido y debolezza singolo arto, asimmetrica, più spesso prossimale che distale y gravità: da lieve a severa y braccia o gambe y sensibilità normale csf pleiocitosi ± aumento delle proteine mri può mostrare un segnale (t2) alla colonna vertebrale prognosi paralisi permanente tabella i caratteristiche della sindrome di hopkins csf = liquor cefalorachidiano; mri = risonanza magnetica per imaging ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2)70 sindrome di hopkins tia colpisce preferenzialmente le corna posteriori del midollo spinale; si presenta, dunque, con parestesie e/o distesie nelle parti distali dei quattro arti. la sindrome di hopkins e la mielite atopica differiscono l’una dall’altra per l’età di insorgenza, le manifestazioni neurologiche e soprattutto per la sede del difetto a livello del midollo spinale (tabella ii). tuttavia, in entrambe le malattie la condizione d’esordio è similare poiché in ambedue il momento suggestivo della malattia è dato dalla comparsa della mielite in presenza di un disordine atopico. tuttavia queste due forme possono avere dei punti in comune. infatti kira e colleghi hanno descritto 22 pazienti con una mielite di eziologia sconosciuta e una diatesi atopica, cinque dei quali hanno sviluppato un’amiotrofia focale in uno o due arti [9]. in questo caso potrebbe esistere un legame tra la mielite atopica e la sindrome di hopkins, in quanto entrambe potrebbero essere dovute a un meccanismo allergico secondario a una cross-reattività tra un allergene e il sistema nervoso centrale e/o periferico. conclusioni l’amiotrofia post-asmatica o sindrome di hopkins può esordire in modo acuto nella maggior parte dei pazienti durante la pubertà e determina un quadro clinico similmielite trasversa. la debolezza agli arti, i disturbi sensitivi, le disfunzioni sfinteriche e vescicali e i dolori alla schiena si presentano con estrema variabilità. gli arti superiori sono coinvolti nella minoranza dei casi e ciò dipende dal livello del midollo spinale interessato. nella maggior parte dei pazienti la sensibilità si riduce notevolmente al di sotto del metamero coinvolto. nel caso da noi precedentemente descritto [5] abbiamo constatato inoltre che un dato costante di laboratorio è la presenza di iperige. da ciò è possibile dedurre che l’asma che precede la paralisi nella sindrome di hopkins è considerato atopico. per il clinico che deve attuare un percorso terapeutico corretto, davanti a un paziente con paralisi flaccida è fondamentale elicitare i riflessi osteotendinei (rot). l’assenza dei rot farà orientare verso una forma neuropatica acquisita come la sindrome di guillain-barré. la diagnosi differenziale comprende, oltre alla mielite post-infettiva nella forma tipica, la mielite atopica il cui quadro clinico si sovrappone alla sh, anche se spesso vi è una un’infezione virale o una soppressione immunologica in un soggetto atopico potrebbero essere la causa patogenetica dell’insorgenza di tale sindrome, sebbene il meccanismo eziopatogenetico rimanga ancora sconosciuto [10-13]. la diagnosi è prevalentemente clinicoanamnestica: il decorso acuto della paralisi flaccida e il precedente episodio asmatico sono di notevole orientamento diagnostico. la diagnosi differenziale si effettua con la poliradicoloneurite demielinizzante acuta o sindrome di guillain-barrè, che è la forma più frequente di neuropatia acuta in età pediatrica. alla base di questa affezione vi è un processo di demielinizzazione immunomediata dei nervi periferici che interessa anche le radici nervose all’emergenza del midollo spinale in seguito a un evento infettivo. anche in questa affezione l’esordio è acuto: si nota l’improvvisa comparsa di debolezza muscolare inizialmente distale e simmetrica che progredisce fino alla paralisi. l’anamnesi dell’evento infettivo e la dissociazione albumino-citologica all’esame liquorale consentono una facile diagnosi differenziale con la sindrome di hopkins (sh) [10-15]. una patologia con amiotrofia e caratteristiche cliniche simili alla sh è la malattia di hirayama (mh) [13], la cui peculiarità è lo spostamento in avanti del midollo spinale sul collo con flessione epidurale posteriore e dilatazione venosa. quindi una rmn encefalo e midollo è considerata specifica per la malattia di hirayama [13,14]. alcuni autori hanno descritto la mh associata ad allergia delle alte vie respiratorie [16], mentre altri hanno riportato [17] tale affezione associata a un aumento delle ige totali. un’entità clinica similare alla sindrome di hopkins è la mielite atopica (ma) [11,12,16]. la mielite atopica è una forma di mielite che si presenta in quei pazienti che soffrono di patologie atopiche, quali la dermatite atopica, la rinite allergica. tale malatma sh mh età di esordio (anni) 20 2-15 10 sesso f m m esordio acuto acuto cronico decorso clinico fluttuante ? progressivo sintomo predominante deficit sensitivo deficit sensitivo ipotonia/ipotrofia ipotonia/ipotrofia localizzazione radici posteriori radici anteriori radici anteriori neuropatologia eosinofilia ? 2° motoneurone tabella ii criteri di diagnosi differenziale tra mielite atopica (ma), malattia di hirayama (mh) e sindrome di hopkins (sh) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2) 71 m. r. longo, r. falsaperla, c. romano, e. passaniti, p. pavone disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. dermatite atopica associata e nella maggior parte dei casi le manifestazioni dolorose prevalgono su quelle motorie; inoltre non sempre è presente il link temporale tra l’insorgenza dell’asma e le manifestazioni neurologiche. bibliografia hopkins ij. a new syndrome: poliomyelitis-like illness associated with acute asthma in childhood. 1. aust paediatr j 1974; 10: 273-6 ilett sj, pugh rj, smithells rw. poliomyelitis-like illness after acute asthma. 2. arch dis child 1977; 52: 738-40 shapiro gg, chapman jt, pierson we, bierman cw. poliomyelitis like illness after acute 3. asthma. j pediatr 1979; 94: 767-8 hopkins ij, shield lk. poliomyelitis-like illness associated with asthma in childhood. 4. lancet 1974; 1: 760 pavone p, longo mr, scalia f, polosa r, kira j, falsaperla r. recurrent hopkin’s syndrome: a 5. case report and review of the literature. j neurol sci 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passaniti 1, piero pavone 1 cmi 2012;6(suppl 1)23-28.html sindrome men1: un caso insolito elena guidetti 1, monica cevenini 1, maria luigia cipollini 1, martina ferrata 1, paola tomassetti 1, roberto corinaldesi 1 1 dipartimento di medicina clinica. università degli studi di bologna, ospedale policlinico s. orsola malpighi, via massarenti 9, 40138, bologna, italia abstract multiple endocrine neoplasia type 1 (men1) is a rare autosomal dominant endocrine disorder and is characterised by the concurrent appearance of adenomas of the parathyroid glands, neuroendocrine-enteropancreatic tumours, and pituitary adenomas, as well as other types of less frequent tumours, such as adrenal cortical tumours, carcinoid tumours, lipomas, etc. two different forms, familial and sporadic, have been described. the gene responsible, men1, consists of 10 exons encoding a 610-amino acid protein known as menin. the men1 syndrome is caused by inactivating mutations in men1 tumour suppressor gene. the combination of clinical and genetic investigation helps in the diagnosis. genetic testing has been advocated to identify men1 carriers of the men1 families for the purpose of earlier detection of tumours. we present a patient with traditionally described manifestations of men1 (a parathyroid hyperplasia associated with a pancreatic neuroendocrine tumour and a gastrinoma), but with a negative genetic test for the men1 mutation. keywords: multiple endocrine neoplasia type 1; men1 gene; genetic testing; gastrinoma; pancreatic neuroendocrine tumors men1 syndrome: an unusual case cmi 2012; 6(suppl 1): 23-28 caso clinico corresponding author prof.ssa paola tomassetti paola.tomassetti@unibo.it perché descriviamo questo caso l’atipico caso qui descritto è associato a una presentazione clinica caratteristica di sindrome men1 non supportata, però, dalla conferma genetica di malattia e stimola diverse possibili interpretazioni introduzione la men1 comprende un gruppo eterogeneo di entità cliniche e anatomopatologiche caratterizzate da lesioni proliferative (iperplastiche, adenomatose e/o carcinomatose) coinvolgenti più ghiandole endocrine. la triade classica della sindrome clinica men1 include alterazioni endocrine a carico delle ghiandole paratiroidi, che spesso rappresentano la prima e più frequente manifestazione di malattia (presente nel 95% dei pazienti con men1) [1], neoplasie endocrine duodeno-pancreatiche e adenomi ipofisari [2]. triade classica della men1 iperplasia/adenoma delle paratiroidi neoplasie endocrine duodeno-pancrea­tiche adenomi ipofisari vengono inoltre descritti, con incidenza variabile, altri tumori endocrini e non, quali timomi, adenomi della tiroide e del surrene, lipomi sottocutanei e viscerali [3]. la sindrome men1 è frequentemente di tipo familiare (90% dei casi) [4], con trasmissione autosomica dominante, a penetranza pressoché completa ed espressività variabile [5]. è un disordine piuttosto raro, con una prevalenza stimata in casistiche autoptiche di 2,2 casi per 1.000 individui, con eguale distribuzione tra i due sessi [6]. caso clinico una paziente di sesso femminile di 35 anni giunge alla nostra attenzione per il peggioramento di una sintomatologia caratterizzata da episodi ricorrenti di nausea accompagnata da vomito e diarrea acquosa, diurna e notturna. i primi sintomi erano comparsi all’età di 32 anni, dapprima sporadici e successivamente di frequenza crescente, a regressione spontanea. nell’arco dell’ultimo anno si riferiva un calo ponderale di circa 10 kg. per tale sintomatologia erano già state effettuate presso altra sede un’ecografia addominale e uno studio con videocapsula del tratto intestinale risultate entrambe negative per patologia in atto. un’esofagogastroduodenoscopia (egds) aveva riscontrato la presenza di un’ulcera cardiale, associata a gastrite cronica positiva per helicobacter pylori e a duodenite. la paziente veniva quindi sottoposta a terapia con inibitori della pompa protonica (ppi) e helicobacter pylori eradicante. all’ingresso in reparto, al fine di inquadrare l’eziologia della diarrea, vengono eseguiti esami colturali e parassitologici delle feci, risultati ripetutamente negativi. negativi risultano anche il dosaggio delle ige totali e specifiche (rast) e il patch test. viene inoltre esclusa la presenza di malattia celiaca. in corso di ricovero compaiono nausea, vomito e diarrea (fino a 10 scariche/die). vengono riscontrati ipokaliemia (k+ = 3,2 mg/dl, vn = 3,5-5,3 mg/dl), ipergastrinemia (gastrina = 10.000 pg/ml, vn = 13-115 pg/ml), ed elevati livelli di cromogranina a (cromogranina a > 630 u/l, vn = 2-18 u/l). il quadro clinico si risolve con ppi ev in infusione continua. la paziente viene nuovamente sottoposta a egds, che conferma la presenza di un’ulcera iuxtaduodenale di 1,5 cm con segni di recente microsanguinamento e duodenite erosiva acuta. alla luce di questo reperto si procede a un’ultrasonografia endoscopica (eus), la quale evidenzia una neoformazione ipoecogena dell’istmo/testa del pancreas con caratteristiche ecografiche fortemente suggestive per formazione neuroendocrina, per contro in assenza di captazione all’esame con contrasto, tipica delle lesioni neuroendocrine. la ph-metria documenta la presenza di netta ipersecrezione acida gastrica (ph gastrico < 2 per l’84% del tempo di misurazione) e permette di escludere una gastrite cronica atrofica [7]. la tc con mdc evidenzia una formazione tondeggiante di 10 mm in corrispondenza dell’istmo pancreatico, in sede anteriore, con comportamento contrastografico tipico per lesione neuroendocrina e una formazione al iv segmento epatico di 26 mm sospetta, in prima ipotesi, per malformazione arterovenosa o per secondarismo. pertanto la paziente viene sottoposta a intervento chirurgico di duodenocefalopancreasectomia secondo child, exeresi della metastasi epatica e linfoadenectomia con resezione di 20 linfonodi. i livelli di gastrina dopo l’intervento chirurgico rientrano nella norma (10 pg/ml). l’esame istologico sui pezzi operatori rivela la presenza di due lesioni di natura neuroendocrina di origine differente: la lesione pancreatica, un net g2 (ki67 = 7,3%) caratterizzato da microadenomi multipli di cui il maggiore è di 0,7 cm di diametro. all’immunoistochimica si evidenziano un’intensa positività per sinaptofisina e negatività per gastrina. risulta positivo lo studio con anticorpi sstr2a per la somatostatina (> 75%; score 3 di 3); un linfonodo positivo per metastasi da tumore neuroendocrino net g1 (ki67 = 0,6%) con positività intensa e diffusa per gastrina (iic); sstr2a appare moderatamente positivo (tra il 25% e il 50%; score 2 di 3); la lesione epatica del iv segmento inquadrabile come metastasi net g2 (ki67 = 2,8%) con positività intensa e diffusa per la gastrina (iic); sstr2a risulta moderatamente positivo (tra il 25% e 50%; score 2 di 3). lo studio istopatologico attesta quindi la presenza di due formazioni neuroendocrine distinte; il net g2 in sede pan­creatica t1n0m0 e il net a origine occulta txn1m1 secernente gastrina (gastrinoma) responsabile della sindrome clinica associata di zollinger-ellison. sulla base di tali reperti anatomopatologici, in associazione al sospetto di iperparatiroidismo, lieve ipercalcemia (calcio = 11,1 mg/dl, vn = 8,5-10,5 mg/dl) ed elevazione del paratormone (pth = 94 pg/ml, vn = 15-88 pg/ml), nel sospetto di neoplasia endocrina multipla di tipo 1 (men1) si esegue una scintigrafia delle paratiroidi (figura 1). figura 1. scintigrafia delle paratiroidi, suggestiva di paratiroide ingrandita e iperfunzionante in corrispondenza del lobo tiroideo inferiore sinistro tale indagine appare suggestiva di paratiroide ingrandita e iperfunzionante in corrispondenza del lobo tiroideo inferiore sinistro. la rm della sella turcica eseguita per escludere un adenoma ipofisario, spesso presente in tale sindrome genetica, risulta negativa, con livelli di prolattina nella norma. la paziente viene quindi operata di paratiroidectomia parziale con exeresi delle paratiroidi inferiori di destra e di sinistra e concomitante asportazione del residuo timico. nel decorso post-operatorio si riscontrano normalizzazione del pth e ipocalcemia sintomatica (calcio = 6,6 mg/dl, vn = 8,5-10,5 mg/dl), per cui viene iniziata terapia sostitutiva con calcio ev. l’esame istologico delle paratiroidi rivela in entrambe le ghiandole resecate la presenza di iperplasia paratiroidea a cellule principali e ossifile. si esegue quindi il test genetico per la conferma genetica di sindrome men1 con ricerca di mutazioni a carico del gene men1, ma il cui esito risulta negativo in due determinazioni successive. l’anamnesi familiare condotta sia per la linea materna sia paterna e l’esecuzione di un test genetico sulla sorella della paziente, unica consanguinea disponibile, non permettono di individuare altri componenti della famiglia che possano essere stati, o manifestino, sintomi riconducibili a sindrome men1. discussione nella pratica clinica si definisce affetto da men1 sporadica un paziente che presenti almeno due dei tre principali tumori della sindrome, mentre si definisce affetto da men1 familiare un paziente portatore di una sola localizzazione e con almeno un parente di primo grado affetto [1]. la sindrome è sostenuta da mutazioni inattivanti a carico del gene men1, localizzato sul braccio lungo del cromosoma 11 (11q13) e costituito da 10 esoni che codificano per una proteina di 610 aminoacidi dal peso molecolare di 67 kda, definita “menina”, la quale svolge un’azione oncosoppressiva. la malattia, secondo il modello di knudson, si presenta nel momento in cui si ha una perdita di eterozigosi (loh); l’individuo affetto, infatti, eredita da un genitore la mutazione germinale e, nel corso della vita, subisce una mutazione somatica a carico dell’altro allele. in alcuni casi, la mutazione germinale non viene trasmessa, ma insorge de novo e viene seguita successivamente da una seconda mutazione somatica. il risultato finale di tali alterazioni cromosomiche è la perdita di funzione della proteina menina [8]. definizioni di base di genetica analisi di linkage genetico. analisi che consente di determinare la posizione cromosomica di un locus responsabile di una determinata malattia o carattere genetico in relazione a marcatori polimorfici a localizzazione nota aplotipo. serie di alleli che si trovano in loci associati su un singolo cromosoma e che sono ereditati in blocco, a meno che non intervengano fenomeni di crossing-over a separarli espressività. grado, intensità con cui un determinato allele è espresso a livello fenotipico dall’individuo esone. regione codificante del dna, che viene trascritta nell’rna messaggero maturo. in un gene gli esoni sono inframezzati da introni introne. regione non codificante del dna, che viene trascritta nell’rna messaggero immaturo e poi tagliata tramite il processo di splicing per generare l’rna messaggero maturo mosaicismo somatico. fenomeno che consiste nella presenza, tra le cellule somatiche di un organismo, di genotipi diversi penetranza. frequenza con cui un allele si manifesta fenotipicamente all’interno di una popolazione sono state descritte quasi 1.300 mutazioni inattivanti a carico del gene men1 [9], ma contrariamente a quanto avviene nella sindrome endocrina multipla di tipo 2 sembra non esistere una correlazione tra una particolare alterazione genica e il fenotipo o l’aggressività biologica della malattia [10]. le acquisizioni nel campo della genetica molecolare hanno reso possibile l’esecuzione di test genetici per l’individuazione di portatore/i del gene mutato. la ricerca di mutazioni germinali a carico del gene men1 è utile al fine di porre una diagnosi definitiva di malattia e di identificare i portatori, permettendo una diagnosi e un trattamento precoce della patologia e riducendo così la morbilità e mortalità del paziente [10]. i portatori di men1 hanno infatti un’aspettativa di vita inferiore rispetto alla popolazione generale e il 46% muore per cause correlate alla sindrome attorno ai 50 anni [11]. gli obiettivi terapeutici nel paziente portatore di sindrome men1 sono finalizzati da un lato all’asportazione delle neoplasie che caratterizzano tale sindrome, dall’altro al controllo della sindrome da ipersecrezione ormonale mediante l’ausilio di terapie mediche comprendenti inibitori della secrezione acida gastrica nella sindrome di zollinger-ellison, analoghi della somatostatina nei tumori neuroendocrini, farmaci dopaminergici negli adenomi secernenti prolattina e, più recentemente, i calcio-mimetici nel controllo dell’eccesso di secrezione di pth [12]. per quanto riguarda l’iperparatiroidismo, la terapia d’elezione è rappresentata dalla chirurgia. sono stati proposti diversi approcci chirurgici, e allo stato attuale la strategia che pare associata a una maggiore probabilità di successo terapeutico consiste nell’intervento di paratiroidectomia totale con valutazione intra-operatoria del pth circolante e immediato reimpianto di tessuto paratiroideo nell’avambraccio non dominante [13]. il trattamento delle neoplasie endocrine duodeno-pancreatiche è spesso controverso. in particolare, nel caso dei gastrinomi associati a sindrome men1, frequentemente multipli e/o metastatici, il ruolo della chirurgia è stato spesso oggetto di discussione. le ultime linee guida della european neuroendocrine tumor society (enets) 2012 suggeriscono però tale approccio chirurgico come l’unico in grado di prevenire la trasformazione maligna, in particolare nel caso di tumori > 2 cm [14]. gli inibitori della pompa protonica o h2-antagonisti sono efficaci nel ridurre l’iperproduzione acida gastrica, in associazione agli analoghi della somatostatina. tra gli esperti del settore vi è accordo nel considerare necessaria una chirurgia precoce nel trattamento nei pazienti men1 con ipoglicemia dovuta a insulinoma, in considerazione della gravità dei sintomi, dell’alto successo della chirurgia e del basso successo, invece, del trattamento medico di questa patologia [4]. la gestione dei tumori ipofisari varia a seconda del tipo di adenoma. la terapia medica di elezione prevede, nel caso di tumori prolattina-secernenti, l’utilizzo di farmaci dopamino-agonisti, mentre nel caso di quelli gh-secernenti l’uso degli analoghi della somatostatina (ssa). tuttavia nelle forme non responsive e nel caso di tumori ipofisari non funzionanti l’approccio neurochirurgico costituisce la scelta terapeutica di elezione [15]. l’analisi genetica si avvale di differenti metodiche che al momento sono ancora oggetto di standardizzazione. nel caso della nostra paziente, l’analisi genetica è stata effettuata mediante sequenziamento automatico di tratti di dna estratto da leucociti di sangue periferico previa amplificazione con reazione polimerasica a catena (pcr). l’indagine non ha rilevato alcuna mutazione a livello degli esoni analizzati. tale dato può essere ricondotto a quella percentuale variabile tra il 5 e il 30% dei casi riportati in letteratura [4] di pazienti con sindrome men1 in cui la ricerca di mutazione germinale del gene può dare esiti negativi anche in presenza di un quadro clinico fortemente suggestivo. una possibile interpretazione di questo fallimento diagnostico potrebbe risiedere in un’alterazione a carico di regioni regolatrici del gene o di introni [16-18] non valutabili mediante tale metodica, oppure nella presenza di delezioni larghe con perdita dell’intero gene o dell’esone [16,17]. un’ulteriore ipotesi eziopatogenetica potrebbe ricondurre all’esistenza di altri geni responsabili della malattia ad oggi non ancora noti. un’indagine alternativa di secondo livello nella ricerca di una mutazione non identificabile prevede l’analisi dell’aplotipo intorno al locus men1 sul cromosoma 11q13. tale metodica richiede, però, l’analisi del dna di almeno due membri affetti; questo, nel caso della nostra paziente, non è stato attuabile data l’anamnesi familiare muta per men1. in presenza di un’analisi genetica e anamnesi familiare negative, come nel caso clinico descritto, si deve sempre considerare in ultima analisi la possibilità di una forma non familiare legata a una mutazione de novo, riscontrata nell’8-14% dei casi di sindrome men1. in tali casi sporadici, inoltre, si stima ci possa essere una minore positività al test genetico, verosimilmente legata a un mosaicismo somatico [19], con relativa maggiore difficoltà nell’identificazione della mutazione. punti chiave la men1 comprende un gruppo eterogeneo di lesioni proliferative (iperplastiche, adenomatose e/o carcinomatose) che coinvolgono più ghiandole endocrine può essere familiare (90% dei casi) o, meno frequentemente, sporadica la forma sporadica è caratterizzata dalla presenza, in un singolo paziente, di due dei tre principali tumori correlati alla men1 (adenomi delle paratiroidi, tumori entero-pancreatici e tumori ipofisari), mentre quella familiare consiste nella presenza nel soggetto portatore di una sola localizzazione, con almeno un parente di primo grado affetto a causa del suo potenziale maligno questa malattia è caratterizzata da un’alta mortalità la terapia comprende sia approcci chirurgici sia medici, ma spesso è controversa il test per la mutazione germinale men1 è raccomandato per l’identificazione dei portatori men1, permettendo una diagnosi e un trattamento precoce della patologia e migliorando la prognosi del paziente i test genetici per la mutazione germinale men1 falliscono nel 10-20% dei casi nel caso di una men1 familiare in cui non sia possibile identificare una mutazione del gene men, il test dell’aplotipo 11q13 del locus men1 o l’analisi di linkage genetico possono identificare i portatori men1. nel caso riportato tale indagine non era possibile a causa dell’anamnesi familiare muta della paziente tale dato negativo anamnestico fa supporre una possibile mutazione de novo, responsabile di una forma sporadica bibliografia trump d, farren b, wooding c, et al. clinical 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digestive neuroendocrine neoplasms: functional pancreatic endocrine tumor syndromes. neuroendocrinology 2012; 95: 98-119 beckers a, betea d, socin hv, et al. the treatment of sporadic versus men1-related pituitary adenomas. j intern med 2003; 253: 599-605 teh bt, kytölä s, farnebo f, et al. mutation analysis of the men1 gene in multiple endocrine neoplasia type 1, familial acromegaly and familial isolated hyperparathyroidism. j clin endocrinol metab 1998; 83: 2621-6 agarwal sk, kester mb, debelenko lv, et al. germline mutations of the men1 gene in familial multiple endocrine neoplasia type 1 and related states. hum mol genet 1997; 6: 1169-75 falchetti a. genetics screening for multiple endocrine neoplasia syndrome type 1 (men1): when and how. medicine reports 2010; 2: 14 klein rd, salih s, bessoni j, et al. clinical testing for multiple endocrine neoplasia type 1 in a dna diagnostic laboratory. genet med 2005; 7: 131-8 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 127 clinical management issues fabio lugoboni 1 aderenza ai trattamenti la compliance, o aderenza al trattamento, dipende dalla misura in cui il comportamento del paziente coincide con i consigli medici. una definizione, fornita da sackett, la indica infatti come «la misura in cui il comportamento del paziente, in termini d’assunzione di farmaci, mantenimento di una dieta o di altre variazioni dello stile di vita, coincide con le prescrizioni del medico» [1]. la compliance non riguarda quindi soltanto l’aderenza al trattamento farmacologico, ma anche quella relativa a consigli sullo stile di vita o a indicazioni mirate alla prevenzione, e si può dire che dipenda da quanto medico e paziente collaborano al raggiungimento del medesimo obiettivo. la mancanza di aderenza è estremamente critica per tutti gli aspetti della cura: può portare infatti a una maggiore progressione di malattia, a eventi avversi ai farmaci, a prescrizioni aggiuntive che si sarebbero potute evitare, a ospedalizzazioni non necessarie e in definitiva a un incremento dei costi sanitari. nonostante ciò, è stato stimato che approssimativamente il 20-50% dei pazienti non assume la terapia così come è stata prescritta dal curante [2]. le cause di mancata compliance sono svariate e possono essere riassunte in: altre priorità rispetto alla salute; y preoccupazione per gli effetti negativi dei y farmaci; scarsa fiducia nell’efficacia dei farmaci; y convincimento che la situazione è miy gliorata; costi della terapia. y la situazione è ancor più preoccupante in quanto ciò avviene spesso all’insaputa del curante: infatti l’impressione clinica soggettiva non predice con successo l’effettiva compliance dei pazienti, addirittura sovrastimandola di circa il 50%; in altre parole questo significa che ogni medico deve ragionevolmente supporre di dare un giudizio errato sulla buona aderenza alle terapie in un caso su due [3]. è stato segnalato che molti pazienti tendono a esagerare la loro compliance nel tentativo di compiacere il curante, arrivando a negare la mancata assunzione del farmaco in una quota rilevante dei casi. uno studio effettuato confrontando i livelli glicemici annotati dai pazienti diabetici con i valori memorizzati dai misuratori glicemici rilevava che più del 70% dei pazienti sovrastimava il numero delle misurazioni effettuate e nel 30% dei casi i valori autoriportati erano falsificati [4]. un altro aspetto importante e complesso che può rendere più difficile identificare una mancanza di compliance è il fatto che un paziente può essere perfettamente aderente a determinate indicazioni e parzialmente o totalmente refrattario ad altre; per esempio alcuni pazienti seguono regolarmente la terapia farmacologica ma non le regole dietetiche, oppure sono aderenti a casa ma non quando sono in viaggio o in vacanza. è stato stimato che i pazienti che indicano di avere una comunicazione migliore con il proprio medico, e che quindi ricevono informazioni più dettagliate sulle modalità di assunzione della terapia, sugli eventuali eventi avversi e su cosa ci si debba aspettare dalla cura, sono più inclini ad assumere i farmaci secondo quanto è stato loro prescritto [5,6]. per tale motivo l’agency for healthcare research and quality ha espressamente raccomandato l’applicazione di tecniche di editoriale 1 unità operativa di medicina delle dipendenze, policlinico gb rossi, azienda ospedaliero-universitaria di verona corresponding author dott. fabio lugoboni fabio.lugoboni@ ospedaleuniverona.it ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4)128 editoriale counselling per migliorare la compliance [7]. tuttavia, nonostante queste raccomandazioni risalgano al 2002, successive analisi hanno evidenziato come l’impiego di tali tecniche da parte del medico sia ancora lontano dall’essere ottimale [8]. riportiamo in tabella i alcuni atteggiamenti che possono risultare utili per migliorare l’aderenza al trattamento. l’applicazione di tali atteggiamenti può certamente essere proficua per rendere più chiari gli scopi e le modalità del trattamento terapeutico che si intende applicare e si è dimostrata più efficace dello schema tradizionale di visita, per esempio sulla compliance nei soggetti ipertesi, ma può non essere ancora sufficiente: spesso il paziente non segue le indicazioni del medico non perché non le abbia capite o per negligenza, ma perché non è convinto e, volenti o nolenti, la direttività del medico ha un potere molto limitato nel superare le resistenze del paziente. a tal fine può essere d’aiuto applicare le tecniche del colloquio motivazionale (cm). tale approccio, sviluppatosi negli anni ’80 nei paesi anglosassoni, consiste in una forma di counselling, incentrato sul paziente, che mira a risolvere conflitti e ambivalenze del rapporto terapeutico con l’obiettivo di raggiungere un cambiamento comportamentale completo. nato inizialmente nell’ambito della cura degli abusi da sostanze (es. fumo, alcol, droghe), successivamente è stato applicato con successo alla gestione di svariate patologie, in particolare disturbi metabolici, ipertensione arteriosa e riabilitazione cardiologica, nonché nel follow-up di patologie psichiatriche. le tecniche del cm si basano da un lato sulla capacità di evitare i principali ostacoli alla buona comunicazione, aggirando le resistenze opposte dal paziente, ed evitando gli atteggiamenti errati del medico stesso (che vanno dal drammatizzare il problema al criticare il malato), che possono creare una distanza maggiore con il proprio assistito. dall’altra parte le metodiche del cm prevedono l’applicazione di principi specifici atti a orientare il paziente nel corso del colloquio. i cinque principi fondamentali del cm possono essere così riassunti: esprimere empatia; y evitare dispute e discussioni; y aggirare le resistenze; y lavorare sulla frattura interiore; y sostenere l’autoefficacia. y tali obiettivi si ottengono con altrettante abilità base, ossia: formulare domande aperte; y praticare l’ascolto riflessivo; y riassumere; y sostenere e confermare; y evocare affermazioni auto-motivanti. y la comprensione dei meccanismi che possono ostacolare la comunicazione con il paziente e la padronanza di abilità di colloquio e di counselling possono essere di valido supporto al medico. impostare piani terapeutici globali, non solo farmacologici (es. la dieta nell’ipertensione) y impostare schemi terapeutici più semplici possibile y negoziare le priorità con il paziente e accontentarsi anche di accordi parziali (ma sostanziali ed effettivi) y dare istruzioni chiare, comprensibili e rapportate al linguaggio del paziente; tali istruzioni dovranno tener y conto dell’età, del sesso, delle abitudini e delle condizioni socioeconomiche del paziente; molti termini medici, che il terapeuta può ritenere ormai entrati nel linguaggio comune, possono risultare del tutto incomprensibili per alcuni pazienti, ma raramente questi ne chiederanno il significato fissare appuntamenti periodici con biglietti promemoria y raccomandare al paziente di tenere un diario terapeutico (di particolare importanza nel diabete mellito e y nell’ipertensione) chiamare telefonicamente i pazienti che hanno saltato appuntamenti importanti di follow-up y spiegare chiaramente l’importanza del follow-up y tabella i suggerimenti per migliorare la compliance al trattamento [9,10] bibliografia sackett dl. the hypertensive patient: compliance with therapy. 1. can med assoc j 1979; 121: 259-61 osterberg l, blaschke t. adherence to medication. 2. new engl j med 2005; 353: 487-97 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 129 f. lugoboni lugoboni f, mezzelani p, quaglio gl, pajusco b, casari r, lechi a. migliorare la compliance 3. in medicina interna: il colloquio motivazionale. ann ital med int 2004; 19: 155-62 mcnabb wl. adherence in diabetes: can we define it and can we measure it? 4. diabetes care 1997; 20: 215-8 schneider j, kaplan sh, greenfield 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dosing histories. bmj 2008; 336: 1114-7 per chi desidera approfondire migliorare la compliance. l’utilità del colloquio motivazionale fabio luogoboni prefazione a cura di alessandro lechi pagine 132 formato 12 x 19 cm prezzo: 15,00 € isbn 978-88-8968-834-2 acquistabile su www.edizioniseed.it disponibile anche in versione e-book al prezzo di 11,28 € dalla recensione del prof. giorgio bert «il testo di lugoboni affronta in modo chiaro e comprensibile un tema di notevole importanza per il medico: il colloquio motivazionale e la sua utilità nei casi (frequenti!) di noncompliance da parte del paziente nei confronti delle prescrizioni e delle indicazioni, sia che esse riguardino interventi diagnostici e terapeutici, sia che impongano cambiamenti nello stile di vita... la risposta spontanea della maggior parte dei medici è, come quella dei genitori verso i figli disobbedienti, di irritata impazienza: una serie di interventi che vanno dal rimprovero alle minacce al tentativo di “far ragionare”, dai giudizi morali alle interpretazioni arbitrarie, dalla minimizzazione al sarcasmo... tutte modalità da tempo descritte in pedagogia e note come modalità barriera. esse infatti non solo hanno scarsa o nulla efficacia, come ogni genitore sa fin troppo bene, ma incrementano quella reazione di difesa e di rifiuto descritta e studiata da qualche decennio nota come reattanza psicologica. nei fatti, l ’uso delle modalità barriera facilita l ’insorgere di conflitti, riduce o rompe la relazione e in ultima analisi accentua il malessere sia del paziente sia del medico. sembra banale, e tuttavia nella pratica medica viene spesso dimenticato, che quando si debba richiedere a una persona un comportamento sgradevole, preoccupante o comunque molesto – ciò che noi medici dobbiamo fare con elevata frequenza – è necessario che il paziente sia aiutato a trovare delle motivazioni positive forti. in altre parole, occorre che dal suo punto di vista (che non è necessariamente quello del medico) i contro non superino eccessivamente i pro. allo scopo assai più che le argomentazioni, le citazioni scientifiche, le statistiche funziona la capacità del medico di costruire insieme al paziente un’alleanza, un rapporto cioè di reciproca fiducia: la fiducia non è infatti – come molti credono – qualcosa che il paziente dà al medico ma è una costruzione condivisa: non è una delega ma una relazione. questo implica che il medico, in quanto professionista a cui spetta la conduzione del colloquio, abbia appreso e sia quindi in possesso di abilità comunicative di grado elevato: le cosiddette abilità di counselling.» ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2) 55 clinical management issues introduzione i pazienti affetti da scompenso cardiaco cronico presentano un grado variabile di dispnea. i meccanismi responsabili della dispnea sono prevalentemente rappresentati dall’alterata capacità di diffusione, dalla reattività bronchiale, dalle alterazioni morfologiche e metaboliche dei muscoli respiratori e dall’alterazione del rapporto ventilazione/ perfusione, tutti fattori che possono favorire la comparsa di dispnea durante l’esercizio [1]. la dispnea riferita dal paziente affetto da scompenso cardiaco cronico è rappresentata prevalentemente dall’iperpnea [2]. la causa più importante dell’iperpnea è l’aumento dello spazio morto fisiologico perché descriviamo questo caso il caso clinico dimostra che bisogna sempre ricercare con attenzione i segni della ritenzione di liquidi nei pazienti con scompenso cardiaco cronico che riferiscono un peggioramento della dispnea durante l’attività fisica abituale. infatti è luogo comune che la dispnea in questa categoria di pazienti sia sempre correlata con l’aumento dell ’acqua polmonare. in realtà altri possono essere i meccanismi fisiopatologici alla base di questi sintomi, i quali possono regredire con un trattamento riabilitativo cardiorespiratorio e non aumentando incongruamente il dosaggio del diuretico, che può determinare effetti collaterali corresponding author claudio di gioia villa margherita benevento c/da piano cappelle 82100 benevento tel. 0824/354841 fax 0824/354615 claudio.digioia@ casadicuravillamargherita.it caso clinico abstract persistent dyspnoea during daily activities is commonly observed in patient with chronic heart failure (chf) despite optimised pharmacological therapy. in chf patients diuretics are essential for symptomatic treatment when fluid overloads with consequent pulmonary congestion or peripheral oedema. appropriate use of diuretics is key element versus other drugs used for the success of the treatment of hf. conversely, the inappropriate use of high doses of diuretics can cause adverse effects as electrolyte and fluid depletion, hypotension and hyperazotemia. dyspnoea and fatigue, in patients with stable hf, are not related only to fluid overload and/or fluid retention but likely other mechanisms are linked to symptoms increase. these patients at the end of a rehabilitative treatment take less diuretic doses than during the period before the rehabilitative treatment, so reducing the principal adverse effects and improving the symptoms. in these patients in absence of venous congestion but in presence of an increase of symptoms augmenting diuretic drugs is not useful: it is very useful, instead, to undergo these patients a rehabilitative treatment because other mechanisms are linked to symptoms increase. in fact, in our report the predominant mechanism determining the increase in dyspnoea is likely related to an increase in physiological dead space. keywords: diuretics, chronic heart failure, dyspnoea, cardiopulmonary rehabilitation a case of pulmonary hyperinflation in chronic heart failure: role of diuretic therapy and cardiorespiratory rehabilitation cmi 2011; 5(2): 55-60 1 istituto di riabilitazione villa margherita benevento, divisione cardiologica e pneumologica, benevento 2 aou, dipartimento di clinica medica e scienze cardiovascolari, università federico ii, napoli 3 aorn dipartimento di malattie respiratorie, monaldi, napoli 4 direttore del dipartimento di malattie respiratorie, università del molise, campobasso claudio di gioia 1, giuseppe de simone 1, antonio di sorbo 1, gabriele borzillo 1, giovanni d’addio 1, alessandro ciarimboli 1, ilernando meoli 2, massimo romano 3, andrea bianco 4 un caso di iperinflazione polmonare nello scompenso cardiaco cronico: il ruolo della terapia diuretica e della riabilitazione cardiorespiratoria ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2)56 un caso di iperinflazione polmonare nello scompenso cardiaco cronico: il ruolo della terapia diuretica della performance cardiaca non è correlato con la sintomatologia di questa categoria di pazienti poiché la dispnea e la conseguente ridotta tolleranza all’esercizio fisico possono riconoscere altri meccanismi non correlati direttamente con la ritenzione idrica. in questo caso clinico, infatti, la dispnea è correlata prevalentemente all’aumento dello spazio morto fisiologico: pertanto risulta ragionevole, in situazioni cliniche analoghe, consigliare un programma riabilitativo cardiorespiratorio per far regredire la sintomatologia ed evitare gli effetti del sovradosaggio farmacologico. caso clinico il paziente sessantaseienne oggetto di questo report è affetto da scompenso cardiaco cronico sintomatico per dispnea (iii classe secondo la nyha – new york heart association; la frazione di eiezione o fe è del 37%); è sottoposto a terapia farmacologia ottimizzata e massimizzata (ramipril 10 mg/die, furosemide 125 mg/die, canreonato di potassio 100 mg/die, acido acetilsalicilico 100 mg/die, carvedilolo 25 mg/die) e non è affetto da patologia ostruttiva cronica dell’albero respiratorio bronchiale. il suo indice di massa corporea è pari a 25 kg/m2, e non presenta apparenti segni di ulteriore compromissione emodinamica (assenza di crepitii polmonari, assenza di edemi declivi, fe stabile, rx torace invariata, assenza di comete polmonari, assenza di congestione venosa epato-cavale). la causa dello scompenso cardiaco cronico era legata a una cardiopatia dilatativa su base ischemica. il paziente riferiva dispnea per sforzi abituali insorta circa 60 giorni prima del ricovero presso la nostra struttura. il paziente assumeva furosemide 125 mg/die in unica somministrazione al mattino. dopo esame anamnestico il paziente è stato sottoposto a esame obiettivo cardiologico, esame elettrocardiografico mediante ecg standard di superficie (archimed 12 derivazioni) e a rx del torace nelle proiezioni standard postero-anteriore (pa) e latero-laterale (ll). il calcolo della fe è stato effettuato mediante ecocardiogramma (hp sonos 5500) mono e bi-dimensionale effettuato prima e alla fine del periodo di riabilitazione fisica. il paziente è stato sottoposto a prove di funzionalità respiratoria utilizzando una cabina pletismografica (v6200 autobox, sensor medics) e con spirometro (vmax = 22) per valutare i seguenti paramedeterminato dall’ipoperfusione alveolare [3,4]. questi pazienti generalmente presentano una condizione disventilatoria con pattern di tipo restrittivo [5] legata a una riduzione della compliance del polmone che verosimilmente potrebbe riflettere anche una condizione di edema cronico perivascolare e alveolare [6]. è noto che il training selettivo dei muscoli respiratori è in grado di alleviare la sintomatologia dispnoica durante le attività di vita quotidiana nei pazienti affetti da scompenso cardiaco cronico [7] e il training fisico migliora l’endurance dei muscoli respiratori, riduce la percezione della dispnea, aumenta la durata dell’esercizio e, quindi, migliora la qualità di vita [8,9]. è noto, inoltre, che i pazienti con scompenso cardiaco cronico comunemente respirano vicino al volume residuo (rv ) durante esercizio, evidenziando quindi una limitazione al flusso espiratorio [10]. la maggior parte dei pazienti con scompenso cardiaco cronico deve essere routinariamente trattata con la combinazione di 3 tipi di farmaci: un diuretico, un ace-inibitore o un inibitore dei recettori dell’angiotensina ii e un beta-bloccante [11]. i diuretici più utilizzati sono i diuretici dell’ansa. questi farmaci agiscono incrementando l’escrezione urinaria del sodio e riducono i segni di ritenzione di liquidi in studi a breve termine [12,13], mentre in studi a medio termine i diuretici hanno dimostrato di migliorare la funzione cardiaca, i sintomi e la tolleranza all’esercizio [14,15]. l’utilizzo dei diuretici non è scevro da effetti collaterali soprattutto quando il dosaggio del farmaco diviene incongruo ed eccessivo. tra i diversi effetti collaterali si descrivono la deplezione idrica ed elettrolitica, l’ipotensione e l’insufficienza renale. i diuretici possono, infatti, causare importanti deplezioni di cationi (potassio e magnesio) ed esporre i pazienti a importanti eventi aritmici soprattutto se contemporaneamente viene assunta digitale [16]. l’inappropriato sovradosaggio dei diuretici può determinare ipotensione in associazione con ace-inibitori e vasodilatatori [17,18] e insufficienza renale soprattutto in associazione con aceinibitori e/o inibitori dei recettori dell’angiotensina ii [19]. senza dubbio nei pazienti con scompenso cardiaco cronico la terapia diuretica è di fondamentale importanza ma deve essere gestita in modo appropriato. infatti spesso il grado di compromissione emodinamica e ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2) 57 c. di gioia, g. de simone, a. di sorbo, g. borzillo, g. d’addio, a. ciarimboli, i. meoli, m. romano, a. bianco fe e dell’indice di massa corporea. si è evidenziato un miglioramento degli indici di performance fisica e della dispnea (borg da 4 a 0,5; vas da 53 a 11). contestualmente si evidenziava una riduzione del dosaggio del diuretico dell’ansa (da 125 mg a 50 mg) e una riduzione dei valori di creatinina sierica (da 1,8 mg/dl a 0,9 mg/dl). infine si è evidenziato un aumento del vo2at (da 11 ml/kg per minuto a 13 ml/kg per minuto) del vo2 picco (da 13 ml/kg per minuto a 15 tri: fev1, fvc, tlc, fev1/fvc, vr, vc, ic, vt, ve (v. tabella i). il paziente è stato sottoposto a test cardiopolmonare (vmax, sensomedics, usa) per stabilire il carico del lavoro al training aerobico (70% del vo2 (consumo di ossigeno) di picco) e sono stati valutati i seguenti parametri prima e dopo il trattamento: vo y 2 di picco; vo y 2at (soglia anaerobica) al picco; ve/vco y 2 slope (efficienza ventilatoria); v y d/vt (rapporto spazio morto fisiologico/ volume tidal) al picco. è stato utilizzato un protocollo di esercizio con carico incrementale a rampa con incrementi di 10 w/min. veniva inoltre valutata la creatininemia. il paziente è stato sottoposto al test del cammino per 6 minuti. prima e dopo il test del cammino veniva valutata la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca e la saturazione arteriosa di o2 misurata tramite saturimetro pulsimetrico applicato al dito indice di una mano. la dispnea è stata valutata mediante la scala di borg e la scala vas (scala analogica visiva) prima e dopo il test del cammino. il programma, nelle prime due settimane, prevedeva tre sedute giornaliere di ginnastica respiratoria prevalentemente di tipo diaframmatico, training dei muscoli inspiratori, esercizi di tipo isometrico per il potenziamento dei gruppi muscolari come gli esercizi a corpo libero, esercizi con barra, esercizi alla spalliera svedese ed esercizi in piedi e al lettino con l’inserimento graduale di pesi per gli arti superiori da 0,5 kg fino a 1 kg. tutti gli esercizi di educazione fisica generale venivano effettuati sempre in sincronia con l’atto respiratorio. nelle successive due settimane l’iter riabilitativo è proseguito introducendo una seduta giornaliera di attività fisica di tipo isocinetico per il raggiungimento di una migliore tolleranza all’esercizio fisico. tale finalità è stata raggiunta tramite training aerobico al treadmill, all’ergometro a manovella e al cicloergometro graduando la durata sempre maggiore dell’esercizio (max 30 min) e il grado sempre maggiore di difficoltà (max 70% del vo2 di picco). tutti gli esercizi di training sono stati eseguiti sotto controllo telemetrico. quotidianamente il paziente effettuava quattro ore di attività fisica riabilitativa. risultati alla fine del trattamento riabilitativo il paziente non ha mostrato variazione della parametri valutati prima del trattamento dopo il trattamento fev 1 1,98 l 2,34 l fev 1 /fvc 100% 71% fvc 1,98 l 3,27 l ic 1,72 l 2,33 l vr 3,31 l 1,39 l vr/tlc 58% 29% tlc 5,73 l 4,81 l vc 2,42 l 3,42 l v d /v t picco 0,23 0,20 ve 8,8 l/min 9,9 l/min ve/vco 2 slope 33 29 vo 2 picco 13 ml/kg/min 15 ml/kg/min vo 2 at 11 ml/kg/min 13 ml/kg/min v t 0,53 l 0,70 l creatinina sierica 1,8 mg/dl 0,9 mg/dl fe% 37% 37% furosemide 125 mg 50 mg indice di massa corporea 25 kg/m2 25 kg/m2 scala di borg 4 0,5 vas 53 11 test del cammino 6 minuti 250 m 400 m tabella i parametri valutati prima e dopo il trattamento fe = frazione di eiezione; fev1 = volume espiratorio forzato in 1 secondo; fev1/fvc = tiffeneau index; fvc = capacità vitale forzata; ic = capacità inspiratoria; tlc = capacità polmonare totale; vas = scala analogica visiva; vc = capacità vitale; vd/vt = spazio morto fisiologico/volume tidal; ve = ventilazione; ve/vco2 slope = efficienza ventilatoria; vo2at = soglia anerobica; vo2 picco = consumo di ossigeno al picco; vr = volume residuo; vr/tlc = volume residuo/ capacità polmonare totale; vt = volume tidal ml/kg per minuto) e una significativa riduzione del ve/vco2 slope (da 33 a 29) del vd/vt al picco (da 0,23 a 0,20). la tabella i mostra i parametri valutati prima e dopo il trattamento riabilitativo. discussione il paziente, prima di iniziare il trattamento riabilitativo, apparentemente non sembrava avere un pattern respiratorio spirometrico restrittivo, come sarebbe logico attendersi, ma tendenzialmente normale. è evidente che questo paziente prima del trattamento riabilitativo aveva una capacità polmonare totale (tlc) e un indice di enfisema (rv/ tlc) mediamente maggiori rispetto a quelli osservati dopo il trattamento. la riduzione della capacità polmonare totale (tlc) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2)58 un caso di iperinflazione polmonare nello scompenso cardiaco cronico: il ruolo della terapia diuretica nei pazienti con scompenso cardiaco cronico interviene un elevato mismatching ventilazione/perfusione. infatti, in questi pazienti durante l’esercizio fisico si può determinare vasocostrizione polmonare [20,21] e iperinflazione dinamica incrementando il rapporto vd/vt, inducendo iperpnea come dimostrato dall’aumento prima del trattamento riabilitativo del ve/vco2 slope. l’iperinflazione dinamica può determinare una condizione non favorevole per i muscoli respiratori a generare forza [22]. tutte queste considerazioni possono essere utili per poter comprendere che non sempre la dispnea e la ridotta tolleranza all’esercizio in pazienti con scompenso cardiaco cronico in fase stabile possono regredire aumentando il dosaggio del diuretico perché non riconoscono una manifesta congestione venosa polmonare correlata con la ritenzione idrica. in questo caso invece risulta ragionevole consigliare un programma riabilitativo cardiorespiratorio per far regredire la sintomatologia ed evitare gli effetti del sovradosaggio farmacologico. conclusioni la terapia diuretica è di fondamentale importanza nella gestione del paziente con scompenso cardiaco cronico perché previene la ritenzione di liquidi. i meccanismi che generano la dispnea in questi pazienti, però, non sempre sono riconducibili esclusivamente alla ritenzione idrica. in questo caso può addirittura essere dannoso il ricorso persistente a dosaggi elevati di diuretici per via degli effetti collaterali che determinano. risulta invece utile fare ricorso a un programma riabilitativo cardiorespiratorio. questo caso clinico suggerisce che il peggioe del rapporto rv/tlc si è verificata per una caduta significativa del volume residuo (rv ). l’ipotesi più plausibile è che la consistente caduta del volume residuo (rv ) e l’incremento del fev1, dopo il trattamento riabilitativo, siano espressione dell’innesco di un meccanismo di desufflazione polmonare. in questo modo si manifesterebbe il pattern respiratorio restrittivo dello scompensato cronico mascherato dall’iperinflazione polmonare con recupero della quota ventilatoria efficace. il nostro studio dimostra che in questo paziente affetto da scompenso cardiaco cronico il trattamento riabilitativo determina un netto miglioramento della sintomatologia dispnoica, un miglior grado di tolleranza all’esercizio fisico, un miglioramento dell’efficienza ventilatoria durante l’esercizio nonostante la fe rimanga immodificata e nonostante la riduzione della terapia diuretica alla fine del trattamento. questo può suggerire che il grado di compromissione della performance cardiaca non è proporzionalmente correlato alla sintomatologia in questa categoria di pazienti. infatti la dispnea e la conseguente ridotta tolleranza all’esercizio nei pazienti con scompenso cardiaco cronico possono riconoscere meccanismi patogenetici non direttamente correlati alla ritenzione di liquidi. in questi casi, allora, piuttosto che incrementare ulteriormente il dosaggio del diuretico, quando non sono presenti i segni della congestione venosa, il paziente dovrebbe essere inviato a un trattamento di riabilitazione cardiorespiratoria. in questo modo i pazienti con scompenso cardiaco cronico in fase di stabilità emodinamica possono evitare gli effetti collaterali del sovradosaggio farmacologico del diuretico e garantirsi comunque un miglioramento sintomatologico. punti chiave nel caso clinico descritto la dispnea del paziente non è legata a un aumento dell ’acqua y polmonare ma a un aumento dello spazio morto fisiologico nello scompenso cardiaco cronico altri meccanismi, oltre alla ritenzione di liquidi, possono y determinare dispnea durante le attività quotidiane in questi pazienti bisogna sempre ricercare la presenza di acqua polmonare tramite un y attento esame obiettivo, eventualmente tramite rx standard del torace, ma soprattutto attraverso l ’esame ecocardiografico includendo lo studio delle comete polmonari una volta escluso che la dispnea possa essere correlata alla ritenzione idrica, il paziente deve y essere incoraggiato a intraprendere un percorso riabilitativo di tipo cardiorespiratorio ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2) 59 c. di gioia, g. de simone, a. di sorbo, g. borzillo, g. d’addio, a. ciarimboli, i. meoli, m. romano, a. bianco disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. ramento della dispnea è correlato prevalentemente con l’aumento dello spazio morto fisiologico legato soprattutto a un fenomeno di air trapping. bibliografia mancini dm. pulmonary factors limiting exercise capacity in patient with heart failure. 1. prog cardiovasc dis 1995; 37: 347-70 kleber fx, vietzke g, wernecke kd, bauer u, opitz c, wensel r et al. impairment of 2. ventilatory efficiency in heart failure: prognostic impact. circulation 2000; 101: 2803-9 reindl i, wernecke kd, opitz c, wensel r, könig d, dengler t et al. impaired ventilatory 3. efficiency in chronic heart failure: possible role of pulmonary vasoconstriction. am heart j 1998; 136: 778-85 sullivan mj, higginbotham mb, cobb fr. increased exercise ventilation in patients with chronic 4. heart failure: intact ventilatory control despite hemodynamic and pulmonary abnormalities. circulation 1988; 77: 552-9 johnson bd, beck kc, olson lj, o’malley ka, allison tg, squires rw et al. pulmonary 5. function in patients with reduced left ventricular function: influence of smoking and cardiac surgery. chest 2001; 120: 1869-79 agostoni p, pellegrino 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with chronic heart failure. chest 2000; 117: 321-32 aavv. consensus recommendations for the management of chronic heart failure. on behalf 11. of the membership of the advisory council to improve outcomes nationwide in heart failure. am j cardiol 1999; 83: 1a-38a patterson jh, adams kf jr, applefeld mm, corder cn, masse br. oral torsemide in patients 12. with chronic congestive heart failure: effects on body weight, edema, and electrolyte excretion. torsemide investigators group. pharmacotherapy 1994; 14; 514-21 sherman lg, liang cs, baumgardner s, charuzi y, chardo f, kim cs. piretanide, a potent 13. diuretic with potassium-sparing properties, for the treatment of congestive heart failure. clin pharmacol ther 1986; 40: 587-94 wilson jr, reichek n, dunkman wb, goldberg s. effect of diuresis on the performance of 14. the failing left ventricle in man. am j med 1981; 70: 234-9 parker jo. the effects of oral ibopamine in patients with mild heart failure: a double blind 15. placebo 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endothelins. 20. n engl j med 1995; 333: 356-63 bocchi ea, bacal f, auler júnior joc, carmone mj, bellotti g, pileggi f. inhaled nitric oxide 21. leading to pulmonary edema in stable severe heart failure. am j cardiol 1994; 74: 70-2 sharp jt, hyatt re. mechanical and electrical properties of respiratory muscles. in: handbook 22. of physiology. the respiratory system. mechanics of breathing. bethesda, md: am. physiol. soc., 1986, sect. , vol. iii, part 2, p. 389-414 prescrizione off-label: un’assunzione di responsabilità maria rosa luppino 1 sifilide congenita in una bambina di due mesi daniele serranti 1, danilo buonsenso 1, piero valentini 1 un caso di iperinflazione polmonare nello scompenso cardiaco cronico: il ruolo della terapia diuretica e della riabilitazione cardiorespiratoria claudio di gioia 1, giuseppe de simone 1, antonio di sorbo 1, gabriele borzillo 1, giovanni d’addio 1, alessandro ciarimboli 1, ilernando meoli 2, massimo romano 3, andrea bianco 4 possibili implicanze genetiche nella risposta alla terapia di resincronizzazione biventricolare in un paziente affetto da scompenso cardiaco natalia pezzali 1, marco metra 1, livio dei cas 1 sindrome di hopkins maria roberta longo 1, raffaele falsaperla 1, catia romano 1, eleonora passaniti 1, piero pavone 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3) 87 clinical management issues hanno una probabilità 8 volte maggiore di sviluppare il disturbo. in ambiente clinico, però, tra 50 e 75% dei soggetti con dap non hanno un parente biologico di primo grado ammalato. il disturbo depressivo maggiore è 1,5-3 volte più comune tra i familiari di primo grado di individui con questo disturbo rispetto alla popolazione generale, quello distimico è più comune tra i consanguinei di primo grado. gli studi sui gemelli, pur avendo apportato chiarimenti e nuove conoscenze sugli aspetti eziopatogenetici di alcuni disturbi psichici, non sono riusciti a risolvere tale quesito in modo definitivo. nel settore dei disturbi alimentari, per esempio, nonostante le ricerche abbiano rivolto un grande interesse alle cause genetiche, i fattori ambientali evidenziano un ruolo rilevante, tanto che una parte significativa della varianza di queste patologie è influenzata da fattori ambientali [4-6]. introduzione in letteratura, il problema dell’influenza ereditaria (genetica) o ambientale (relazionale) nei disturbi psichici è ancora irrisolto. di fatto, esistono differenti punti di vista sulla “familiarità” di alcuni quadri psicopatologici, che si dispiegano dall’ereditarietà, all’ambiente, all’esperienza, alle abitudini di vita [1,2]. il concetto di familiarità indica la frequenza di un disturbo tra i familiari biologici di primo grado dei soggetti affetti da tale disturbo, rispetto alla sua frequenza nella popolazione generale. il dsm-iv-tr puntualizza la familiarità in alcune patologie [3]. il disturbo ossessivo-compulsivo mostra una familiarità elevata per i gemelli monozigoti. nel disturbo da attacchi di panico (dap) i parenti biologici di primo grado di soggetti con questa patologia ansiosa corresponding author dott. roberto infrasca dipartimento di psichiatria asl5 via nino bixio 56a – 19122 la spezia tel. 0187 604457 roberto.infrasca@als5.liguria.it gestione clinica abstract the problem of genetic versus environmental influences in psychiatric disorders is widely discussed in biomedical literature, but remains still controversial. familiarity has been observed in some disesase, such as obsessive-compulsive disorder and panic attack disorder. in this study we analyse three generations of women, for a total of 4 women (a mother, her two daughters, and a granddaughter) followed by our psychiatric department for depressive and anxiety disorders. the aim of the study was to assess wheather there are similarities among the clinical status of the four women, and verify the relationship among those disorders. the minnesota multiphasic personality inventory (mmpi) was administered to all the patients and the scores obtained were compared. we found out that the many aspects and psychological traits were present in all the four women. these similarities suggest the presence of a dynamic transgenerational transmission. keywords: psychiatric disease; familiarity; environmental factors from mother to daughter. psychic disease: genetic or environmental influence? cmi 2011; 5(3): 87-93 1 dipartimento di psichiatria asl5, la spezia roberto infrasca 1 di madre in figlia. il disagio psichico: influenza genetica o influenza ambientale? ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3)88 di madre in figlia. il disagio psichico: influenza genetica o influenza ambientale? nell’ambito delle neuroscienze, diversi sono gli studi che dimostrano una significativa reciprocità tra gli elementi biologici e quelli ambientali. ridley afferma che un programma genetico, pur richiedendo l’integrazione di centinaia o migliaia di geni, si sviluppa in continua interazione con il comportamento e l’ambiente [7]. studiando la plasticità sinaptica, eccles ha dimostrato che ripetute somministrazioni di un breve stimolo elettrico a una via nervosa sono in grado di alterare la trasmissione sinaptica, evidenziando la capacità dei neuroni di essere modificati dall’esperienza [8]. alcuni ricercatori hanno analizzato il fenomeno dell’apprendimento e della memorizzazione in un mollusco marino (aplysia californica), dimostrando che un semplice riflesso di questo gasteropode (retrazione della branchia e del sifone) può venire modificato per abitudine o sensibilizzazione. gli autori concludono che quando un organismo apprende e memorizza un’informazione, nel cervello si producono delle mutazioni [9]. in un ambito più specificamente psicologico, numerose sono le evidenze che assegnano un ruolo importante all’ambiente. in questa prospettiva, fromm-reichmann inserisce una nuova concezione sull’eziopatogenesi della malattia mentale secondo la quale a causare i disturbi psichiatrici sono le figure parentali, solitamente una madre che l’autrice definisce “schizofrenogena” [10]. la tesi di parisi, pur se esplicitata tramite un’ottica critica, tende ad avallare le formulazioni che vedono la potenzialità ambientale assumere un ruolo predominante nell’organizzazione e modellamento della personologia individuale, rispetto a quello assunto ed espli cato dalla potenzialità genetica [11]. infrasca ritiene che i gemelli monozigotici sembrano sottoposti – o si sotto pongono – a comunicazioni, modalità emozionali, interattive e intra personali, che sedimentano impercettibilmente e progressivamente sostanziali differenze nella loro struttura caratteriale [12]. partendo dal condizionamento classico di pavlov e arrivando alla teoria dello stress di selye, kandel dimostra come i disturbi di natura psicologica possano determinare cambiamenti patologici nel funzionamento della struttura neuronale [13]. faimberg afferma che il figlio “assorbe” nella propria identità le caratteristiche relazionali, affettive ed emozionali dei genitori e della famiglia di origine [14]. benelli riporta una serie di ricerche sui gemelli che mettono in luce l’interazione tra ereditarietà e ambiente nella formazione della personalità [15]. meltzer e harris descrivono numerosi modi di funzionamento della famiglia, alcuni dei quali costruiscono le condizioni per lo sviluppo delle persone, altri che tendono a distruggere tali condizioni [16]. a tale riguardo, freud affermava: «se i processi psichici di una generazione non si prolungassero nella generazione successiva, ogni generazione dovrebbe acquisire ex novo il proprio atteggiamento verso l’esistenza, e non vi sarebbe in questo campo nessun progresso e in sostanza nessuna evoluzione» [17]. un altro filone di studi sul problema argomentato si basa sulla tipologia dell’attaccamento. gli stili di attaccamento costituiscono specifiche configurazioni di risposta emotiva e comportamentale del bambino in relazione alle modalità di accudimento dei genitori, e particolarmente della madre [18]. secondo bowlby, aver sperimentato figure di accudimento sensibili e disponibili verso il figlio favorisce la maturazione di un atteggiamento globalmente fiducioso nei riguardi delle relazioni umane e di un sentimento di sé positivo; al contrario, aver avuto figure di accudimento inadeguate genera scarsa fiducia in sé e negli altri e aspettative negative riguardo alle relazioni intime [18]. di fatto, le madri dei bambini con attaccamento evitante sono indisponibili, rifiutanti e ostili alle richieste del bambino, manifestano avversione al contatto fisico, hanno una mimica rigida e poco espressiva, appaiono perfino infastidite dalle richieste di conforto e protezione che il bambino rivolge loro. nell’attaccamento ambivalente le madri risultano intrusive, attuano un ipercontrollo, limitano il comportamento esploratorio del bambino, appaiono imprevedibili e contraddittorie nella disponibilità a rispondere alle esigenze di attaccamento del figlio. infine, le madri dei bambini con attaccamento disorganizzato-disorientato presentano frequentemente una mancata elaborazione del lutto o del trauma (esperienze di abuso sessuale o di altra violenza subita da bambine), per cui non interagiscono con il figlio in termini di richieste, mostrano un comportamento spaventato e dolente non correlato a quanto accade in quel momento nell’ambiente, atteggiamento che disorienta il bambino, poiché la madre diviene allo stesso tempo un rifugio affettivo e una fonte di angoscia. in questo scenario, è frequente osservare l’associazione fra l’attaccamento ambivalente e i disturbi d’ansia, e particolarmente ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3) 89 r. infrasca il disturbo di panico [19-21]. le situazioni relazionali infantili da cui originerebbe il futuro disturbo di panico sembrano poggiare su una relazione con una figura materna caratterizzata da imprevedibilità, instabilità delle relazioni, inversione della relazione di aiuto fra bambino e madre, svalutazione delle capacità del figlio, disconoscimento o proibizione delle emozioni (o di alcune in particolare), comunicazioni in cui il mondo viene rappresentato come pericoloso, il figlio descritto come inadatto ad affrontare la vita, poiché fragile e incompetente. un ultimo importante settore sull’argomento è rappresentato dagli studi sulla “trasmissione psichica transgenerazionale”, vale a dire la trasmissione dai genitori ai figli di vissuti impensabili e non dotati di significato, di qualcosa che non è possibile comprendere, elaborare e trasformare, quindi non utilizzabile da parte del bambino [22,23]. in “totem e tabù”, freud parla di trasmissione transgenerazionale rispetto a importanti traumi psichici replicati più volte nella storia dell’umanità: «i divieti si sono quindi conservati di generazione in generazione forse soltanto a causa della tradizione, rappresentata dall’autorità dei genitori, o della società, o forse, invece, si sono organizzati nelle generazioni successive come patrimonio psichico ereditario» [17]. schutzenberger riporta numerosi esempi riguardanti la ripetizione di modelli comportamentali in più generazioni [24]. l’autrice ritiene che le trasmissioni transgenerazionali siano legate ad alcune particolari dimensioni (segreti, cose nascoste e proibite, eventi taciuti perché indicibili) che, senza essere pensate o elaborate e risolte, passerebbero di generazione in generazione. studi trasgenerazionali hanno mostrato una consistente associazione tra qualità dell’attaccamento del bambino e tipo di modello operativo interno della figura di attaccamento [25,26]. secondo bowbly, il fattore chiave nella trasmissione transgenerazionale è rappresentato dalla sensibilità materna, intesa come capacità di rispondere in modo adeguato ai bisogni del bambino [18]. la trasmissione psichica, quindi, sembra influire in modo determinante nella definizione del sé, tanto che quello che il figlio sperimenta con i genitori attraverso le cose dette e taciute, i gesti e le modalità di comportamento, diviene parte della sua memoria influenzando profondamente la strutturazione della personalità. il panorama delineato, pur rimanendo contrastato, affida al versante relazionale (ambientale) un ruolo non marginale nello sviluppo della problematicità e della psicopatologia individuale. scopo della ricerca la ricerca qui presentata ha analizzato tre generazioni di soggetti femminili seguiti dal dipartimento di psichiatria della asl5 di la spezia, per problematiche depressive e ansiose. scopo dello studio era verificare la similarità/diversità del quadro clinico presentato tra una madre, le due figlie, e la figlia della primogenita, unitamente al tentativo di stabilire il ruolo dei processi relazionali (ambientali) nelle patologie mostrate da queste pazienti. metodo ai soggetti è stato somministrato il mmpi-1 (minnesota multiphasic personality inventory) dal quale sono state ricavate le scale tradizionali (di controllo e cliniche, tabella i), alcuni importanti indici e scale scala aspetti valutati hs (hypocondrias) presenza di problemi fisici caratteristici degli ipocondriaci d (depression) presenza di sintomi di tipo depressivo hy (hysteria) tendenza a somatizzare alcune emozioni e disagi di tipo psichico pd (psychopathic deviate) carenza di controllo sulle risposte emotive e la capacità di introiettare le regole sociali mf (masculinity-feminility) aspetti (interessi, atteggiamenti, ecc.) tendenzialmente mascolini o femminili pa (paranoia) presenza di sintomi di tipo paranoide pt (psychastenia) presenza di rituali fobici e comportamenti di tipo ossessivo-compulsivo sc (schizophrenia) esperienze di tipo insolito tipiche degli schizofrenici ma (hypomania) stati ipomaniacali (idee di grandezza, alto livello di attività, ecc.). si (social introversion) difficoltà che il soggetto riscontra nei rapporti con gli altri tabella i le 10 principali scale cliniche del minnesota multiphasic personality inventory volte a valutare le principali caratteristiche della personalità del paziente ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3)90 di madre in figlia. il disagio psichico: influenza genetica o influenza ambientale? speciali [27]. a partire dai profili mmpi sono state formulate le diagnosi cliniche, unitamente al relativo “tipo di codice”, definito dal punteggio della scala o delle scale più elevato nel profilo standard e dalla loro collocazione in termini di elevazione (determinati tipi di codice – code-types – si ritrovano più frequentemente in certe popolazioni che non in altre). le variabili ottenute sono state valutate rispetto al range dei valori normali, e confrontate tra i soggetti. risultati i quattro profili mmpi mostrano un andamento similare (aspetto qualitativo), differenziandosi per il punteggio raggiunto dalle scale (aspetto quantitativo) (figura 1). la somiglianza evidenziata testimonia principalmente che i soggetti analizzati mettono in luce un’espressività sintomatologica sostanzialmente sovrapponibile, condizione che li accomuna clinicamente. di seguito vengono presentati i code-types dei soggetti, attraverso i quali – quando esistono le condizioni – è possibile formulare una diagnosi. principalmente si rileva che la madre e la figlia primogenita (figlia1) mostrano il codice 2-7-1 rappresentato dalle scale mmpi d-pt-hs (depressione-psicastenia-ipocondria), uniformità che assume un significato importante. questo codice descrive un soggetto notevolmente ansioso, teso, pervaso da sentimenti depressivi (sperimenta sensazioni di infelicità, colpa, tristezza, tende a rimuginare e a preoccuparsi eccessivamente). può riferire la presenza di disturbi somatici correlati all’ansia, fatica, stanchezza, linguaggio rallentato e bradipsichismo. la sintomatologia fisica, quando manifestata, viene correlata alle sensazioni di ansia e tensione. i meccanismi difensivi adottati sono prevalentemente la razionalizzazione o modelli comportamentali di carattere ossessivo-compulsivo. il soggetto vive profondi sentimenti di svalorizzazione, inadeguatezza, inferiorità e incapacità decisionale: tende a emarginarsi rispetto alle situazioni di interazione sociale, assumendo atteggiamenti anassertivi e passivo-dipendenti. di fatto, tende a formare profondi legami emotivi nutrendo molte aspettative verso gli altri a copertura delle profonde sensazioni di insicurezza e inferiorità. sono dunque presenti le manifestazioni tipiche della “sindrome neurastenica” di cui l’ansia e gli spunti fobici rappresentano la manifestazione clinica principale. le persone con questo codice possono essere diagnosticate come disturbo d’ansia o disturbo ossessivocompulsivo. la figlia secondogenita (figlia2) presenta un codice 2-3-7 rappresentato dalle scale mmpi d-hy-pt (depressione-isteriapsicastenia). in questo codice sono presenti contenuti ideativi di marca depressiva e vengono riferite sensazioni di nervosismo, tensione e preoccupazione, oltre a sintomi somatici come fatica, debolezza fisica o disturbi gastrointestinali. il soggetto può mostrarsi passivo e dipendente in quanto elabora su se stesso sentimenti di inadeguatezza, insicurezza e passività (è presente un basso livello di autostima). tende all’ipercontrollo, non è capace di esprimere sentimenti, cerca di evitare il coinvolgimento sociale per non sperimentare penose sensazioni di disagio. si mostra teso, “in allarme”, insicuro, tendente all’ordine e alla meticolosità. possono essere dunque presenti tratti ossessivi di personalità, ruminazioni, preoccupazioni, paure immotivate, difficoltà di concentrazione, sentimenti di colpa, “impasse” decisionale. è presente una notevole difficoltà a “fare contatto” con i propri sentimenti, poiché il soggetto sembra subire costantemente la presenza di una sovrastruttura operante quale “critica” e “controllo”. l’insight è particolarmente scarso, per cui il soggetto appare resistente alle spiegazioni di natura psicologica dei propri problemi. le persone con questo codice ricevono generalmente una diagnosi di disturbo somatoforme (anche disturbo depressivo-ansioso), in personalità passivo-dipendente. figura 1 profili mmpi (minnesota multiphasic personality inventory) delle pazienti ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3) 91 r. infrasca infine, la figlia della primogenita (figliaf1) mette in luce un codice 2-7-8 rappresentato dalle scale mmpi d-pt-sc (depressione-psicastenia-schizofrenia). le persone con questo codice presentano un quadro diagnostico di tipo misto: sperimentano una notevole quantità di ansia, tensione, sentimenti depressivi, ruminazioni ideative di marca ossessiva (è presente una tendenza al perfezionismo), difficoltà di concentrazione. l’affettività è coartata e, nelle condizioni di particolare stress, possono presentarsi brevi, acuti, episodi di natura psicotica (spunti ideativi di riferimento). il soggetto ha la tendenza a percepirsi insicuro e inadeguato, a reagire in maniera esagerata di fronte al minimo stress, a sviluppare sentimenti di colpa. in conseguenza di ciò le relazioni interpersonali diventano problematiche: la mancanza di fiducia e la difficoltà ad esprimere i propri sentimenti conducono il soggetto a relazionarsi con gli altri in maniera ambivalente. le persone con questo codice possono ricevere una diagnosi di nevrosi (nevrosi d’ansia con tratti ossessivo-compulsivi) su un quadro di personalità a “coloritura” schizoide. nella tabella ii vengono presentati alcuni indici ricavati dal mmpi [27], e il valore che essi assumono nei quattro soggetti. la tabella mostra chiaramente come – eccettuati alcuni valori degli indici della secondogenita (figlia2) – i valori risultino oltre il range di normalità. di fatto, le quattro personalità sono complessivamente accomunate da numerose dimensioni: precarietà dei sistemi di difesa, bassa autostima, scarsa capacità di controllo (impulsività), tendenze fobicoossessive, costante allarme interno, sovrastruttura operante quale “critica” e “controllo” (senso di colpa, inibizione, rigidità, incertezza, autosvalutazione), disturbi del sonno, precaria capacità di gestione degli stressor, elevati livelli di ansia (disorganizzazione personologica), accentuato neuroticismo (instabilità emotiva e disadattamento), condotte di evitamento, somatizzazione dell’ansia. discussione e conclusioni la ricerca ha messo in luce come – nelle tre diverse generazioni femminili indagate – i tratti problematici e psicopatologici siano sostanzialmente similari, dinamica che porta a ipotizzare un transito transgenerazionale (da madre in figlia) che conserva quasi inalterato il profilo originario di tali tratti. di fatto, i quattro modelli psico-comportamentali ottenuti evidenziano un’espressività sintomatologica molto simile, caratterizzazione che rende difficoltoso supporre una derivazione unicamente biologica. pur se diversi tratti clinici sono correlati all’attività dei neurotrasmettitori serotoninergici (5ht), noradrenergici (na) e dopaminergici (da) – umore (5-ht, na), ansia (5-ht, na), colpa (5-ht), inibizione (na), sonno (5-ht), anedonia (da) [28] – è comunque discutibile immaginare che la sola “regia neurotrasmettitoriale” sia all’origine di un dispiegarsi così ampio di sintomi. appare decisamente più plausibile ritenere che la sistematica esposizione ai tratti caratteriali materni argomentati nella ricerca, e il conflitto intrae interpersonale che ne deriva, possano avere determinato nelle figlie una “sfiducia di base”, un terreno relazionale confusivo, un attaccamento insicuro, la mancanza di una “confidenzialità affettiva” (aspetto indispensabile per creare e mantenere un contatto emozionale profondo), una precoce e incisiva autosvalutazione, la difficoltà a completare positivamente il processo di separazione-individuazione [29], con le conseguenze che questo comporta (mancanza di autonomia e di indipendenza, ansia di separazione, difficoltà relazionali), un’identità confusa e problematica. in questo scenario, la difficoltà a costruire una “architettura personologica” ragionevolmente organizzata, e quindi un sé equilibrato, originano un perenne conflitto intrapsichico che tende a trasformarsi in uno stabile modello cognitivo, psicologico e comportamentale, dove l’energia impiegata per mantenere le difese diminuisce il quantitativo di indice madre figlia1 figlia2 figliaf1 indice ansietà (ai) 117,4 130,6 95,4 118,9 indice psicopatologia 4,32 5,70 3,32* 4,30 risposte interiorizzate 1,37 1,42 1,16* 1,37 neuroticismo 260 264 239 229 difese -14 -32 -26 -23 tendenze fobiche 21,1 28,2 10,8 9,9 autostima -33,8 -36,6 -15,5 -22,5 senso di colpa 27,1 27,6 3,8 11,9 capacità di controllo -14 -32 -26 -23 tendenze ossessive 25,4 25,8 2,3* 10,3 personalità evitante 24,6 31,0 1,4* 9,9 incubi notturni 24,9 27,2 6,1 15,0 stress affettivo 44,3 52,4 21,8 37,5 tendenza stress 12,7 21,8 2,5 11,3 disturbo umore 16,2 27,6 6,7 7,6 tabella ii valore degli indici mmpi tra i soggetti * = valori nel range di normalità ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3)92 di madre in figlia. il disagio psichico: influenza genetica o influenza ambientale? energia al servizio delle funzioni psichiche [30]. inoltre, è possibile ipotizzare che la sistematica esposizione a una dimensione materna portatrice di disagio psichico sia in grado di produrre nelle figlie (poi madri) un collasso delle fragili difese infantili, dinamica alla base delle manifestazioni problematiche e sintomatologiche contingenti o successive, che può attuarsi anche attraverso comportamenti neuroadattivi [8,9]. tali argomentazioni potrebbero così fornire un chiarimento sulle “sindromi funzionali”, quadri caratterizzati da sintomi psicologici, comportamentali e vegetativi (alterazioni delle funzioni) in assenza di un corrispondente substrato organico, poiché generate da situazioni intrapsichiche o ambientali conflittuali, collegate a strutture di personalità predisposte biologicamente. nella prospettiva delineata dalla ricerca, i tratti problematici e psicopatologici trasmessi precocemente dalla madre alle figlie assumono il profilo di precursori delle difficoltà relazionali evidenziate dalla primogenita dopo l’assunzione del ruolo di madre, tanto da ritrovare nella figlia un quadro sintomatologico pressoché analogo a quello della madre e della nonna, e similare a quello esibito dalla zia, affinità che suggerisce la presenza di una dinamica di trasmissione transgenerazionale. disclosure l’autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. bibliografia borella s. l’io nella percezione, eredità e libertà, un’indagine sui gemelli. roma: città nuova, 1. 1983 aragona m, biondi m. significato psicologico/cognitivo della gemellarità, eventi di vita e 2. insorgenza di psicopatologia: un caso clinico. medicina 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emicolectomia sinistra y con anastomosi colon-rettale transanale (esame istologico: adenocarcinoma moderatamente differenziato del grosso intestino con metastasi in 3/16 linfonodi, caso clinico i parte il signor ve, di anni 66, si presenta nel dipartimento di emergenza del nostro ospedale, inviato da un nosocomio francese, per la prosecuzione delle indagini diagnostiche relative al riscontro di ipertensione portale di natura da determinare. in anamnesi emergono: ipertensione arteriosa in terapia farmacoy logica con ace-inibitori e calcio-antagonisti da circa 5 anni; alcuni episodi di bronchite asmatica traty tati con broncodilatatori; perché descriviamo questo caso questo caso clinico analizza le problematiche legate alla trombosi venosa profonda e pone l ’accento sull ’importanza di effettuare una diagnosi precoce di polmonite nosocomiale, in grado di ridurre considerevolmente la mortalità corresponding authordott.ssa elena cerutti elenacerutti@ymail.com caso clinico abstract we report a case of a patient with deep vein thrombosis (dvt) and pulmonary thromboembolism (pte) associated to portal vein thrombosis (pvt), complicated by hospital-acquired pneumonia (hap). the pathogenesis of dvt is multifactorial; among risk factors we can list: transitory situations (surgical interventions, infectious diseases with fever, traumas), acquired conditions (neoplasms, antiphospholipid syndrome) or genetically determined situations (thrombophilia). pvt of the sovrahepatic veins is responsible for 5-10% of portal hypertension cases in adults and can be associated to local or systemic infections. pvt is present in 10% of patients with cirrhosis and often associated to cancers. it can also complicate a surgery abdominal intervention. hap is defined as pneumonia that appears for the first time within 48 h of hospital admission. in internal medicine departments the incidence is 7-10 cases/1.000 of hospital admissions, with an important impact in terms of both mortality and morbility. an early diagnosis, together with a correct identification of microbiologic agents in cause, allows a suitable antibiotic therapy with consequent improvement of clinical prognosis and a meaningful reduction of mortality. main risk factors are: age, hospital and department. an important variable to be considered is the onset of pneumonia. the later is the onset of hap (5 or more days from the admission to hospital), the more often is associated to multidrug resistant (mrd) microorganisms, poorly responsive to antibiotic. keywords: deep veins thrombosis, pulmonary thromboembolism, portal vein thrombosis, hospital-acquired pneumonia, multidrug resistant microorganisms a complicated case of deep vein thrombosis cmi 2011; 5(1): 7-13 1 divisione medicina interna a (direttore dott. massimo giusti). ospedale s. giovanni bosco, torino elena cerutti 1, paola colagrande 1, edoardo provera 1, massimo giusti 1 un complicato caso di trombosi venosa profonda ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1)8 un complicato caso di trombosi venosa profonda martinica. durante il soggiorno si verifica un episodio di ematemesi e melena massiva che richiede il ricovero presso il nosocomio francese dell’isola dove si rileva una grave anemizzazione (hb = 5 g/dl), per cui viene sottoposto a emotrasfusione. si evidenzia la presenza di edema in toto dell’arto inferiore destro. inoltre, durante la degenza, vi è comparsa di fibrillazione atriale (fa) e di modificazioni elettrocardiografiche compatibili con sindrome coronarica acuta con movimento degli enzimi cardiaci (picco di creatina fosfochinasi (cpk) = 1.372 u/l). il paziente viene sottoposto a esofagogastroduodenoscopia con riscontro di varici esofagee, sottoposte a legatura elastica, e di gastropatia congestizia, come si osserva nei quadri di ipertensione portale. la coronarografia evidenzia una malattia trivasale, meritevole di rivascolarizzazione chirurgica; l’ecodoppler venoso agli arti inferiori conferma il sospetto clinico di trombosi venosa profonda (tvp) della vena femorale comune, poplitea, soleale e tibiale posteriore dell’arto di destra. il paziente comincia il trattamento con digossina, beta-bloccanti, furosemide, spironolattone, gastroprotettori, ossigeno ed eparine a basso peso molecolare (ebpm). a quadro clinico stabilizzato, nel mese di febbraio 2009, il soggetto rientra in italia con trasporto medico assistito. all’ingresso nel nostro dea si presenta sofferente, con mucose disidratate, pressione arteriosa omerale (pao) = 100/60 mmhg; frequenza cardiaca (fc) = 104 bpm e frequenza respiratoria (fr) = 30 atti/minuto. viene sottoposto a diversi esami, i cui esiti sono riassunti in tabella i. in considerazione dell’elevato rischio emorragico si decide di posizionare filtro cavale e di somministrare al paziente ebpm a dosi profilattiche e non terapeutiche. il paziente viene ricoverato nel nostro reparto di medicina interna. all’ingresso vengono affrontate le seguenti problematiche: controllo dell’estensione della tvp (riy schio embolico); controllo delle varici esofagee (rischio y emorragico); valutazione del rischio cardiovascolare; y eziopatogenesi dell’ipertensione portale; y ristadiazione della malattia neoplastica; y scelta del trattamento anticoagulante. y durante la degenza vengono eseguiti ulteriori accertamenti, i cui esiti sono riassunti in tabella ii. g2pt2n1, stadio iii a secondo tnm, tumor node metastasis); successivo impianto di catetere venoso y centrale (cvc) per chemioterapia, eseguita secondo schema fluorfox (dall’8 novembre 2008 fino a 30 dicembre 2008). a inizio gennaio 2009 vi è comparsa di modesti edemi asimmetrici degli arti infeesame esito emoglobina (hb) 11,3 g/dl creatinina 2,5 mg/dl azotemia 108 mg/dl enzimi di citolisi e di colestasi epatica nn indici di sintesi epatica lievemente ridotti d-dimero 3,23 µg/ml sideremia 35 µg/dl emogasanalisi (ega) quadro di alcalosi respiratoria ecografia (ect) addome fegato con struttura densitometrica priva di lesioni focali, vb non dilatate, asse portale pervio con flusso epatopeto, vena cava inferiore, superiore e vene sovraepatiche di aspetto regolare, milza regolare tc torace + addome con mezzo di contrasto quadro di tromboembolia polmonare con grossolani difetti di riempimento già nei rami principali, in particolare a destra; assenti linfonodi ingranditi tabella i esiti degli esami eseguiti dal paziente all ’ingresso in dea esame esito ecodoppler venoso arti inferiori conferma di tvp dell’asse popliteo-femorale destro con coinvolgimento della vena iliaca esterna esofagogastroduodenoscopia varici esofagee f1 con esiti di legatura senza segni di sanguinamento elettrocardiogramma rs e fc 84/min ecocardiogramma cinesi globale e segmentaria ventricolare sinistra nella norma con frazione di eiezione (ef) = 54% marker epatici negativi ecodoppler arterioso arti inferiori e tronchi sovraaortici (tsa) (eseguiti per approfondire il quadro vascolare sistemico) non stenosi emodinamicamente significative ecodoppler del circolo venoso portale-sovraepatico segni di trombosi portale con parziale ricanalizzazione e iniziale formazione di cavernoma (reperto confermato a un successivo controllo ecodoppler, figura 1) colonscopia senza segni di recidiva neoplastica marker tumorali negativi tabella ii esiti degli accertamenti eseguiti durante la degenza riori trattati con diuretici; nell’occasione non vengono eseguiti accertamenti strumentali. sempre in gennaio il paziente si reca a scopo turistico nelle antille francesi nell’isola di ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1) 9 e. cerutti, p. colagrande, e. provera, m. giusti con levofloxacina, imipenem e vancomicina. gli esami colturali e il dosaggio dell’antigene urinario dello streptococcus pneumoniae e della legionella risultano negativi. dopo circa una settimana le condizioni cliniche si decide quindi di intraprendere terapia con ebpm a dosi scoagulanti, corrette in funzione della velocità di filtrazione glomerulare (vfg); non si pongono, nell’immediato, indicazioni a terapia anticoagulante orale (tao) in previsione di rivascolarizzazione miocardica in elezione, secondo indicazione cardiochirurgica, per intervento a cuore battente. dallo screening emocoagulativo emerge una mutazione del gene g1619a del fattore v di leiden, che conforta le nostre scelte terapeutiche. viene quindi programmata la rimozione del filtro cavale dopo l’intervento cardiochirurgico. ii parte nei primi giorni di marzo si verifica l’improvvisa comparsa di dispnea ingravescente con grave desaturazione, stato febbrile e importante rialzo pressorio. le ipotesi considerate sono diverse, tra queste: edema polmonare acuto (epa) iperteso, polmonite a focolai multipli, acute respiratory distress syndrome (ards), peggioramento dell’embolia polmonare o comparsa di pneumotorace [1,2]. i parametri vitali rilevati al momento sono di seguito elencati: pao = 200/110 mmhg; fc = 120 bpm; aritmico; fr = 32 atti/min; temperatura = 38 °c, saturazione di ossigeno in aria ambiente = 83%. la cute appare cianotica. vengono prelevati campioni di sangue venoso e arterioso. il radiogramma standard, eseguito all’esordio della suddetta sintomatologia, non permette di evidenziare con sicurezza focolai broncopneumonici, per cui si decide di sottoporre il paziente a tc toracica. in essa si osserva la comparsa di un’estesa consolidazione degli spazi aerei peribronchiali con netta prevalenza del polmone destro e con reperto simile ma meno evidente a sinistra (figura 2). i risultati degli esami ematochimici mostrano leucocitosi neutrofila e piastrinopenia con incremento della pcr. l’ecg evidenzia la comparsa di fa a lembi. l’ega mostra una severa acidosi mista con importante ipossiemia, per cui il paziente, essendo presenti i criteri per l’indicazione alla ventilazione assistita secondo le linee guida idsa/ats (american thoracic society, infectious diseases society of america), in accordo con l’anestesista, viene sottoposto a intubazione orotracheale e trasferito in rianimazione [3]. si pone diagnosi di polmonite a focolai multipli nosocomiale tardiva grave. il paziente inizia antibioticoterapia figura 1 esiti del controllo ecodoppler eseguito sul paziente figura 2 tc toracica del paziente del paziente migliorano sensibilmente con conseguente estubazione. viene quindi inviato in medicina d’urgenza ove le sue condizioni emodinamiche si mantengono stabili mentre il quadro emogasanalitico documenta scambi respiratori ancora discretamente compromessi. dopo circa due settimane dall’inizio del trattamento, il radiogramma del torace mostra un lieve sovraccarico del piccolo circolo con la pressoché totale scomparsa dei focolai ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1)10 un complicato caso di trombosi venosa profonda i disordini trombofilici ereditari possono essere classificati in due gruppi; il primo comprende alterazioni rare ma con alto rischio relativo di trombosi: deficit di proteina c, deficit di proteina s, deficit di antitrombina. il secondo comprende alterazioni più comuni ma associate a minore rischio relativo di tev: mutazione del gene g1691a del fattore v di leiden, del gene g29210a per il fattore ii e del gene c677t per la metilentetraidrofolato reduttasi. la trombosi della vena porta (tp) o delle vene sovraepatiche è responsabile del 5-10% dei casi di ipertensione portale nell’adulto. l’eziologia può essere identificata in meno del 50% dei pazienti. la tp può essere associata a infezioni locali o sistemiche (pileflebite suppurativa, colangite, linfoadenite suppurativa dei linfonodi adiacenti, pancreatiti, ascesso epatico). la tp si verifica nel 10% dei pazienti con cirrosi e spesso si associa a un carcinoma epatocellulare; anche l’estensione di neoplasie gastriche, pancreatiche o di altro tipo può condurre alla tp. la tp può verificarsi in presenza di trombofilia. può, infine, essere una complicanza della chirurgia epato-biliare o di una splenectomia ed è segnalata come secondaria a interventi laparoscopici addominali. l’occlusione della vena porta può provocare ematemesi massiva da varici gastroesofagee, ma si riscontra ascite solo quando è associata a cirrosi epatica [4,5]. nell’ambito della diagnostica della trombosi venosa portale, l’uso dell’angio-tc, nonché dell’angio-rmn, trova specifica indicazione, quale esame di completamento dell’iter diagnostico di imaging radiologico che prevede l’ecocolordoppler quale metodica di primo impiego per il basso costo e la praticità d’uso, nonché per la specificità e sensibilità. l’ecodoppler portale trova inoltre una specifica indicazione nel monitoraggio clinico della malattia. nella tev del paziente con patologia neoplastica è raccomandato il trattamento con ebpm per i primi 3-6 mesi [1] dalle raccomandazioni dell’accp del 2008 [6]; (grado a) international consensus statement 2006 [7]. l’impiego delle ebpm nel paziente oncologico rappresenta un’operazione vantaggiosa sia sotto il profilo gestionale sia dell’efficacia e sicurezza; si associano a un tasso di emorragie maggiori, sostanzialmente sovrapponibile a quelle osservate con la tao (studi clot [8] e lite [9]) o deciflogistici polmonari. gli scambi respiratori risultano nettamente migliorati. il paziente viene, dunque, ritrasferito nel nostro reparto di medicina interna. il decorso è caratterizzato da un progressivo miglioramento delle condizioni cliniche del paziente con normalizzazione dei parametri emodinamici ed emogasanalitici. l’emocromo alla dimissione mostra hb stabile sui 10 g/dl e un conteggio piastrinico normalizzato. si decide di ripetere una colonscopia, che non rileva la presenza di recidive neoplastiche. le condizioni cliniche del paziente si stabilizzano per cui viene dimesso con diagnosi di tep in tvp arto inferiore destro, ipertensione portale da trombosi della vena porta, anemizzazione in emorragia digestiva da sanguinamento di varici esofagee e successiva sindrome coronarica acuta da discrepanza, decorso complicato da polmonite nosocomiale a focolai multipli tardiva grave con insufficienza respiratoria acuta. alle dimissioni si pone l’indicazione all’esecuzione di intervento di rivascolarizzazione miocardica chirurgica a condizioni cliniche stabilizzate. discussione tromboembolismo venoso la tvp e la tep, accumunate dal termine tromboembolismo venoso (tev ), sono patologie maggiori con esiti potenzialmente seri anche fatali. la tvp nel nord america e in europa ha un’incidenza annuale di circa 160 casi per 100.000 individui. la patogenesi della tev è multifattoriale; tra i fattori di rischio ricordiamo situazioni transitorie (interventi chirurgici, patologie infettive altamente febbrili, traumi), condizioni acquisite (neoplasie, sindrome anticorpi anti-fosfolipidi), o situazioni geneticamente determinate (stati trombofilici). la reale incidenza della tev nel paziente oncologico non è nota con precisione, ma può essere stimata tra il 5-6% con un rischio di 4-6 volte superiore rispetto alla popolazione generale. la chirurgia oncologica addominale e pelvica è gravata da un rischio di tromboembolismo venoso post-operatorio significativamente superiore rispetto a quella non oncologica (37% vs 20%). anche i trattamenti chemioterapici, secondo quanto riportato dagli studi pubblicati negli ultimi anni, risultano gravati da una incidenza di tev dell’ordine del 10% annuo circa. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1) 11 e. cerutti, p. colagrande, e. provera, m. giusti avviene nella gran parte dei pazienti critici entro pochi giorni dall’ingresso. la colonizzazione orofaringea e gastrica e la conseguente aspirazione dei loro contenuti nei polmoni in pazienti con alterazioni delle difese meccaniche, cellulari e umorali portano a un possibile sviluppo della polmonite nosocomiale. nel caso specifico preso in esame un ulteriore meccanismo patogenetico può essere l’aspirazione di materiale gastrico colonizzato conseguente alle ripetute endoscopie digestive. per ciò che concerne i fattori di rischio per prognosi negativa il nostro paziente aveva almeno 4 criteri presenti: la necessità di compenso respiratorio, la rapida compromissione radiologica, la comorbilità e la compromissione multi-organo. questi 4 criteri rappresentano i presupposti non solo per lo sviluppo di polmonite, ma anche per il significativo aumento del rischio di mortalità per polmonite [17-20]. gli elementi diagnostici a nostra disposizione ci permettevano solo una diagnosi di presunzione ma non di certezza, in quanto il radiogramma del torace risultava, almeno inizialmente, negativo per lesioni pleuro-parenchimali acute e solo una successiva tc toracica è risultata dirimente [21,22]. le emocolture risultavano negative, ma anche in letteratura è segnalata una positività soltanto nel 1020% dei casi [23,24]. elementi suggestivi erano quelli relativi al forte sospetto clinico. i patogeni più frequentemente implicati nelle polmoniti nosocomiali sono i bacilli aerobici gram-negativi e lo staphylococcus aureus [25]. la scelta di una corretta antibioticoterapia empirica nelle hap deve basarsi principalmente sul rischio di infezione da patogeni mdr e se si suppone che i pazienti siano infettati da patogeni mdr deve essere usata una terapia combinata, mentre una monoterapia può essere utilizzata anche nelle polmoniti gravi in assenza di questi fattori di rischio. una breve durata della terapia (per esempio 7 giorni) può essere considerata appropriata, a patto che il paziente abbia una buona risposta clinica e non sia coinvolto come agente eziologico lo p. aeruginosa [26]. nell’approccio antibioticoterapeutico abbiamo preso in considerazione la verosimile presenza di mdr e ci siamo avvalsi delle linee guida dell’ats del 2005 [3] (non avendo ancora a disposizione quelle più recenti dell’ottobre 2009), per cui abbiamo somministrato empiricamente levofloxacina a un dosaggio di 500 mg/die ev, imipenem-cilastatina 500 mg/die 1 flacone samente inferiori (studio canthanox [10]). l’incidenza di recidive trombotiche risulta inferiore a quanto evidenziato con la tao (studio clot [8]). nel paziente oncologico si è configurata la necessità di trovare alternative al trattamento anticoagulante a lungo termine. l’alimentazione irregolare o la necessità di procedure invasive, che impongono l’interruzione temporanea della terapia, determinano una gestione e un monitoraggio difficoltoso dell’anticoagulante. uno studio prospettico di prandoni e collaboratori ha dimostrato che i pazienti oncologici presentano una supposta resistenza all’anticoagulante orale e un aumento delle incidenze trombotiche, nonché delle complicanze emorragiche [11]. lo studio clot, in cui erano arruolati 650 pazienti, ha documentato una riduzione del rischio di recidive di tev, più elevato nel gruppo trattato con ebpm, mentre gli eventi emorragici risultavano sostanzialmente sovrapponibili [8]. nella trombosi portale la terapia anticoagulante orale è usualmente la terapia di scelta e pare non essere gravata da un incremento del rischio di sanguinamento gastroenterico [12]. polmonite nosocomiale una revisione critica del caso clinico qui descritto ci fa desumere che il nostro paziente avesse una polmonite nosocomiale a esordio tardivo grave, tardiva in quanto insorta dopo più di 5 giorni dall’ospedalizzazione e grave in quanto presenti più di due criteri minori e un criterio maggiore, secondo le linee guida idsa/ats, elaborate per le polmoniti comunitarie ma applicabili anche alle nosocomiali [13-15]. dobbiamo quindi prendere in considerazione, fin dall’inizio, la presenza di batteri mdr nell’eziopatogenesi di questa polmonite [16]. la via di diffusione ematogena è stata inizialmente valutata, in relazione al fatto che al paziente era stato posizionato un filtro cavale ed era stato portatore di un cvc (groshong) per l’infusione di farmaci chemioterapici. tuttavia le emocolture sono risultate negative. nel caso specifico, dunque, la via di diffusione dell’infezione più verosimile è quella per micro-inalazione o aspirazione di materiale orofaringeo colonizzato. infatti la colonizzazione dell’orofaringe da parte dei batteri enterici gram-negativi aumenta con l’aumentare della gravità delle condizioni sottostanti e ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1)12 un complicato caso di trombosi venosa profonda portante impatto in termini sia di mortalità sia di morbilità in ambito ospedaliero. pertanto una corretta antibioticoterapia a partire dalle fasi iniziali risulta essere associata a riduzione della mortalità e a miglioramento della prognosi [27]. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. ev per quattro volte al giorno e vancomicina 1 g/bid ev, adeguando i dosaggi secondo i valori di clearance creatininica. l’obiettivo della terapia antibiotica in associazione prendeva in considerazione l’infezione da mdr e, in particolare da legionella, da stafilococco aureus meticillino-resistente (mrsa) e da pseudomonas aeruginosa. in conclusione, comprendere, fin dall’inizio, se sono presenti fattori di rischio delle polmoniti nosocomiali è presupposto fondamentale per impostare una corretta terapia antibiotica empirica. le polmoniti nosocomiali hanno, infatti, un imbibliografia katz ds, leung an. radiology of pneumonia. 1. clin chest med 1999; 20: 549-62 basi sk, marrie tj, huang jq, majumdar sr. patients admitted to hospital with suspected 2. pneumonia and normal chest radiographs: epidemiology, microbiology, and outcomes. am j med 2004; 117: 305-11 american thoracic society, infectious diseases society of america. guidelines for the 3. management of adults with hospital-acquired, ventilator associated and healthcare-associated pneumonia. am j respirat crit care medicine 2005; 171: 388-416 sarin sk, kapoor d. non-cirrothic portal fibrosis: 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1 gli atenei e le facoltà di medicina e chirurgia di fronte alla sfida dell’e-learning introduzione nel mese di marzo del 2000 il consiglio europeo si è riunito a lisbona in una sessione straordinaria in cui è stato definito l’obiettivo strategico dell’unione per il nuovo decennio: «diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale» [1]. a partire da questa matrice sono state avviate numerose iniziative da parte della commissione europea mirate a integrare le ict (information and communication technology) in ambito formativo nei paesi dell’unione, tra cui possiamo annoverare il progetto e-learning and university education (elue), avente l’obiettivo di fotografare la diffusione dell’e-learning in ambito universitario in finlandia, francia e italia attraverso la somministrazione di un questionario online a cui hanno partecipato 59 atenei italiani su 77 totali [2]. oltre ai dati derivanti dal progetto elue, per la presente analisi utilizzeremo una recente indagine crui (conferenza dei rettori delle università italiane) sulle modalità di diffusione e utilizzo dell’e-learning nelle università italiane, che ha mostrato come gli studenti che fruiscono di insegnamenti basati sulle moderne tecnologie telematiche mostrino performance superiori rispetto a coloro che sono sottoposti alla sola didattica frontale [3]. lo scopo di questo contributo costituisce occasione per qualche riflessione relativamente alle problematiche derivanti dall’introduzione delle ict in ambito accademico e in particolare all’interno delle facoltà di medicina e chirurgia. intendiamo discutere il fenomeno individuando criticità e positività, lasciando spazio a consigli per coloro che intendono intraprendere questo percorso. e-learning e atenei la risposta più comune delle università di fronte all’incedere dell’e-learning è in genere l’adozione di metodologie didattiche di tipo blended, che cioè integrano in varia misura e modalità interventi in presenza e a distanza, in modo tale da stabilire una sorta di continuità tra le due modalità didattiche, con l’obiettivo prioritario di migliorare la flessibilità di fruizione e la qualità delle attività formative [2]. gran parte delle esperienze avviate riguardano al momento per lo più percorsi di formazione post lauream quali corsi di perfezionamento e master, in cui l’e-learning trova maggiore facilità di inserimento in regolamenti vigenti che consentono maggiore autonomia [4]. un concetto che sta lentamente ma progressivamente affermandosi è che l’elearning non è semplicemente un diverso mezzo di distribuzione di contenuti attraverso le tecnologie telematiche, ma presenta anche nuove dimensioni pedagogiche e organizzativo-amministrative. l’e-learning consiste quindi di un mix in cui le componenti sopraelencate si devono compenetrare e raccordare e in cui l’assenza di una di queste provoca il fallimento dell’intero processo didattico [5]. editoriale 1 facoltà di medicina e chirurgia, università di firenze corresponding author dottor marco masoni viale morgagni 85, 50134 firenze m.masoni@med.unifi.it clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 136 editoriale dati quantitativi provenienti dall’indagine elue, relativi alle singole dimensioni dell’elearning, evidenziano come le competenze tecnologiche, anche se con varia disponibilità, sono in genere ubiquitariamente presenti all’interno degli atenei italiani, quelle pedagogiche sono meno diffuse e di non facile reperibilità, mentre le più carenti sono quelle organizzative e gestionali [2]. l’assenza di normative nazionali di riferimento, che, di fatto, sottovalutano o non attribuiscono ai docenti e ai tutor il dovuto riconoscimento legato alle specificità del loro ruolo, sono ulteriori fattori responsabili della rallentata introduzione dell’e-learning nelle attività didattiche istituzionali. il processo di diffusione delle nuove metodologie didattiche che ricorrono all’uso di ict sta evolvendo in massima parte attraverso processi di tipo bottom-up che danno vita all’interno dell’università a una pluralità di esperienze spesso scaturite dalla spinta innovatrice di singoli docenti [2]. ciò genera una disomogeneità nella penetrazione e nell’utilizzo delle nuove tecnologie telematiche all’interno di un’organizzazione, situazione che può essere attenuata pianificando e progettando in modo esplicito e sistematico l’integrazione con l’esistente adottando per esempio una politica di ateneo per l’e-learning. questa condotta sta diventando sempre più frequente tra la maggior parte delle università italiane, come mostrano i risultati derivanti dal progetto elue. in questi casi è fondamentale la presenza di una strategia di fondo che miri a ottenere un consenso ampio tra tutte le componenti di governo di ateneo, accompagnata a una mission e a una strategia operativa che possa garantire un appropriato sviluppo istituzionale capace di trasformazione. oltre a interventi sistemici che coinvolgano l’organizzazione nel suo complesso, sono necessarie attività mirate al coinvolgimento diretto del personale docente. e-learning e docenti il docente gioca un ruolo cruciale nell’introdurre metodologie e-learning all’interno dell’offerta formativa di una organizzazione universitaria e nel garantirne il successo. l’insegnante deve infatti riprogettare la propria offerta didattica, il percorso formativo e gli strumenti docimologici in funzione di nuovi approcci didattici [6]. l’e-learning arricchisce inoltre l’insegnamento di nuovi ruoli, che solo in parte possono essere assunti dal docente, ma che da quest’ultimo devono comunque essere conosciuti, organizzati e coordinati: il tutor, il mentor, l’esperto di comunicazione, il produttore multimediale, ecc. esiste inoltre una scarsa comprensione da parte degli organi di governo e di amministrazione degli atenei dell’importanza del ruolo di queste nuove figure professionali senza le quali l’e-learning difficilmente andrà a regime. per esempio il tutor online, ritenuto una figura centrale per il buon esito di un progetto e-learning, è raramente inserito negli organici del personale strutturato di ateneo e a lui si ricorre mediante forme contrattuali alternative e temporanee [3]. numerosi articoli pubblicati in letteratura hanno affrontato il tema della formazione degli educatori in istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e numerosi progetti sono stati attivati negli ultimi anni al fine di indirizzare il problema con risultati spesso non soddisfacenti. l’attivazione di un progetto di formazione dei formatori, avente lo scopo di educare i docenti all’utilizzo delle tecnologie e-learning e di fornire loro non solo conoscenze e abilità di tipo tecnologico, ma anche e soprattutto concetti riferibili all’uso di nuovi approcci pedagogici, potrebbe essere particolarmente utile per facilitare la pianificazione, la produzione e l’erogazione di corsi forniti in modalità e-learning all’interno di una organizzazione universitaria. numerosi esperti concordano che, in questi casi, una soluzione efficace è quella di usare la telematica in modo autoreferenziale, cioè giovarsi della rete per formare i docenti all’uso di internet a fini formativi, acquisendo quest’ultima una doppia veste di strumento e contenuto dell’intervento didattico. in questi casi, la letteratura specialistica sull’argomento consiglia spesso di: connotare la formazione erogata ai docenti y di una valenza fortemente operativa; proporre modelli didattici trasferibili e y contestualizzare i concetti appresi; misurare e valutare il y return on investment (roi) a livello istituzionale. e-learning e facoltà di medicina l’introduzione dell’e-learning all’interno delle varie facoltà di un ateneo non può esimersi da considerazioni relative al dominio di applicazione. clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 137 m. masoni, m. r. guelfi, a. conti, g. f. gensini la medicina è una scienza che da sempre utilizza pesantemente le immagini, non solo a fini diagnostici e terapeutici, ma anche per scopi didattici: immagini di anatomia umana, normale e patologica, macroscopica e microscopica e schematizzazioni di processi biologici sono usati assai frequentemente nelle lezioni in presenza per favorire l’apprendimento di concetti complessi. lo sviluppo delle ict ha consentito la produzione di contenuti biomedicali multimediali e interattivi, quali video di condizioni patologiche, casi clinici e simulazioni di procedure chirurgiche, che hanno consentito la sperimentazione di nuove metodologie formative; in più la natura digitale delle opere multicodicali ha offerto la possibilità di condividere il materiale prodotto tra le varie istituzioni scolastiche. prima dell’avvento delle nuove tecnologie, nonostante la notevole sovrapponibilità tra i curricula, il naturale isolamento induceva spesso il docente a “reinventare la ruota” ogniqualvolta produceva materiale didattico, con ovvio spreco di tempo e di risorse finanziarie. questa potenzialità di riutilizzo delle risorse offerta dalle ict costituisce una novità assoluta, poiché il materiale didattico sviluppato dai docenti per le lezioni in presenza raramente veniva condiviso [7]. pur riconoscendo evidenti potenzialità alle tecnologie telematiche, la condivisione delle risorse didattiche digitali incontra spesso resistenze tra i docenti, dovute essenzialmente a due ragioni: una di tipo tecnico, e cioè che le opere digitali per loro natura sono facilmente riproducibili e quindi teoricamente riutilizzabili da chiunque senza l’esplicito permesso del proprietario; la seconda causa è di tipo non tecnologico e deriva dalla scarsa conoscenza da parte dei docenti delle attuali leggi sul copyright e di come queste ultime possano proteggere le opere digitali da utilizzi impropri. queste due motivazioni sono spesso responsabili di un allungamento dei tempi necessari alla produzione e realizzazione di corsi e-learning e quindi di un rallentamento nell’adozione delle nuove tecnologie telematiche in ambito formativo da parte degli atenei e delle facoltà di medicina e chirurgia in generale. queste problematiche vengono inoltre raramente affrontate a livello di ateneo, come dimostra la recente indagine crui [3], che evidenzia come solo il 16% delle università italiane abbia adottato specifiche misure in materia di copyright. una deduzione che possiamo utilmente trarre da quest’ultima riflessione è che ogni facoltà di medicina che intende attivare in un’ottica sistemica corsi erogati in modalità e-learning può trarre notevole giovamento dalla consulenza di un esperto in diritto e nuove tecnologie che possa rapidamente risolvere le incertezze che possono incontrare i docenti relativamente alle problematiche di diritto d’autore. conclusioni nonostante esistano ampi margini di miglioramento per quanto riguarda l’ingresso delle tecnologie ict nell’offerta formativa della maggior parte degli atenei, emerge una notevole soddisfazione tra le facoltà che sono passate a una fase operativa. i docenti riferiscono infatti un miglioramento dei processi formativi e performance superiori da parte degli studenti fruitori della didattica online rispetto a quelli che utilizzano solo quella in presenza. questi risultati dovrebbero rappresentare uno stimolo per le istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado che indugiano a intraprendere percorsi formativi in cui sia presente una maggiore integrazione tra didattica tradizionale e nuove tecnologie. bibliografia parlamento europeo. consiglio europeo lisbona. marzo 2000. disponibile su: http://www.1. europarl.europa.eu/summits/lis1_it.htm elue. university towards e-learning: a focus on finland, france and italy. european 2. commission, 2006. disponibile su: http://www.fondazionecrui.it/elue/31_may_2006.htm fondazione crui. indagine sull’e-learning nelle università italiane – anno 2007. disponibile 3. su: http://www.fondazionecrui.it/e-learning/link/?id=4362 calvani a. e-learning: tipologie e criticità nel contesto universitario. 4. form@re. 2002: 9/10 marzo/aprile clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 138 editoriale calvani a. e-learning nelle università: quale strada percorrere?5. je-lks 2005; 1: 341-50 ferri p. teorie e tecniche dei nuovi media. milano: guerini e associati, 20026. aharpour a, meucci a, guelfi mr, masoni m, conti a, gensini gf. database oggetti 7. didattici per la medicina utilizzabili per produrre corsi e-learning. macerata: iv congresso sie-l, 2007. abstract book; pp. 128-9 clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 51 clinical management issues 1 uo geriatria, policlinico s. orsola-malpighi, bologna corresponding author dott.ssa maria lia lunardelli marialia.lunardelli@aosp. bo.it editoriale emilio martini 1, maria lia lunardelli 1 oral care in geriatria: un fattore determinante della salute e della qualità di vita introduzione i progressi della medicina e i miglioramenti della condizioni di vita hanno portato a un allungamento della vita media con un’attesa di vita a 65 anni che attualmente in italia può raggiungere i 19 anni per le donne e circa 16 per gli uomini. questi anni di vita guadagnati sono ancora in gran parte caratterizzati da un’alta prevalenza di malattie cronico-degenerative, spesso coesistenti, con importanti ripercussioni sull’autonomia e sulla qualità della vita. all’interno delle comorbilità che possono presentarsi nelle persone anziane, una delle condizioni che più influisce sulla qualità della vita è rappresentata dai disturbi del cavo orale. la popolazione anziana, rispetto alla popolazione generale, ha una maggiore prevalenza di problemi orali e dentali. questo è dovuto non tanto all’invecchiamento fisiologico in sé, come dimostra l’esistenza di molti casi di invecchiamento in buona salute in cui è mantenuta una condizione orale soddisfacente, quanto alla maggiore incidenza di alcune patologie che interessano direttamente il cavo orale. in età geriatrica sono frequenti la perdita di denti, le lesioni della mucosa di natura neoplastica o infettiva e i sanguinamenti. a queste condizioni si aggiungono gli effetti cumulativi delle malattie sistemiche tipiche dell’anziano (tabella i) che, oltre ad avere una propria azione diretta sul cavo orale, predispongono anche agli effetti secondari della polifarmacoterapia (tabella ii), di cui il cavo orale è un bersaglio frequente (xerostomia, infezioni da candida). la letteratura più recente ha evidenziato le importanti ripercussioni che le alterazioni del cavo orale esercitano sullo stato di salute [1]. in primo luogo la bocca rappresenta una porta di entrata per infezioni che possono divenire sistemiche attraverso l’aspirazione polmonare (polmonite ab ingestis o da inalazione) o per diffusione ematica (sepsi), con gravi conseguenze e aumentato rischio di mortalità [2]. tra le patologie del cavo orale l’infiammazione cronica del parodonto (parodontite) è associata a un’aumentata incidenza di malattie cardiovascolari (cardiopatia ischemica e ictus) attraverso meccanismi di natura flogistica o autoimmunitaria (diffusione di batteri dal cavo orale nel torrente sanguigno con danno all’endotelio vascolare diretto o mediato dalla formazione di autoanticorpi) [3]. la malattia parodontale rappresenta inoltre un fattore predisponente per il diabete e di aggravamento dei valori glicemici nei pazienti già diabetici. è stato infatti dimostrato che un corretto trattamento della malattia parodontale determini un miglior controllo metabolico nei soggetti diabetici [4]. il concetto di qualità di vita correlato alla salute orale per salute si intende, secondo la classica definizione dell’oms del 1946, «uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non solo l’assenza di malattia o infermità», mentre la qualità della vita implica un clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 52 editoriale concetto multidimensionale della vita stessa correlato alla «percezione che gli individui hanno della loro posizione nella vita, nel contesto culturale e nel sistema in cui vivono e in relazione ai loro obiettivi, aspettative e interessi» (oms 1993). nel 2001 con la nuova classificazione delle malattie (icf, international classification of functioning, disability and health) è stato meglio definito il rapporto tra salute e qualità della vita attraverso la puntualizzazione degli effetti e delle conseguenze delle patologie sull’attività e sulla sfera sociale dell’individuo [5]. recentemente è stato rivalutato il ruolo della salute orale sul benessere generale e sulla qualità della vita [6]. questa interazione si realizza in particolare nell’anziano, in cui lo stato di salute e di funzionalità del cavo orale incide in maniera determinante sia sulle normali attività di vita quotidiana, sia sulle capacità relazionali e sociali. una condizione molto frequente nell’anziano come la perdita dei denti (edentulia) è responsabile infatti non solo di riduzione della funzione masticatoria, con mutamento delle abitudini alimentari, disfagia e difficoltà digestive, ma anche di cambiamento nelle relazioni per disagio a parlare e sorridere fino all’isolamento e alla depressione. il momento del pasto ha una grandissima importanza per l’anziano che viene gratificato dalla presenza dei familiari o degli altri commensali: la forzata rinuncia a questa quotidiana occasione di comunicazione assume un forte impatto nei confronti della qualità di vita [7]. anziani e problemi del cavo orale: quali criticità nonostante l’evidenza dell’importanza della salute orale nell’anziano, spesso i problemi del cavo orale sono sottovalutati sia dal personale sanitario sia dagli anziani e dai loro famigliari. ciò accade principalmente per due ordini di motivi: scarsa conoscenza del problema; y difficoltà di accesso ai servizi. y scarsa conoscenza del problema un lavoro svolto in ambito ospedaliero ha evidenziato che i medici ospedalieri non esaminano di routine la bocca dei propri pazienti e pochi ritengono di avere una formazione sufficiente per eseguire un buon esame del cavo orale [8]. un studio analogo sul personale infermieristico e di assistenza in servizio presso reparti geriatrici acuti e di riabilitazione ha dimostrato che solo il 50% era in grado di fornire assistenza per l’igiene orale e che comunque spesso la loro conoscenza delle ragioni di questa pratica non era adeguata [9]. questo gap tra conoscenze teoriche e applicazioni pratiche dovrebbe essere affrontato con la formazione specifica e con progetti finalizzati [10]. un aspetto interessante emerso da questo studio e confermato in altre ricerche è la correlazione positiva tra l’attitudine verso la propria cura orodentale del personale sanitario e il grado di attenzione che questi mostrava per l’igiene orale dei pazienti anziani che aveva in carico [11]. demenza di alzheimer e altre forme di demenza y malattia di parkinson e altre malattie degenerative del sistema nervoso y centrale esiti di ictus cerebrale con grave disabilità e disfagia y comorbilità grave con limitazione funzionale y patologie neoplastiche y fragilità (malnutrizione, disturbi dell’equilibrio, cadute, sarcopenia, osteopenia, y disabilità, ecc.) tabella i condizioni dell ’anziano che predispongono a problemi odontostomatologici classe terapeutica molecole ansiolitici benzodiazepine anticonvulsivanti carbamazepina antidepressivi fluoxetina, fluvoxamina, imipramina antinfiammatori naprossene, ibuprofene, piroxicam antiparkinson l-dopa antipertensivi captopril, cloridina, reserpina antipsicotici (tipici e atipici) antispastici antistaminici terfenadina, prometazina diuretici furosemide, idroclorotiazide, amiloride tabella ii farmaci con eventi avversi a carico del cavo orale clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 53 e. martini, m. l. lunardelli difficoltà di accesso ai servizi è documentata una diffusa difficoltà di accesso alle cure dentarie da parte della popolazione disabile in generale e di quella anziana in particolare. innanzi tutto esiste un problema culturale per cui gli anziani stessi e i loro familiari tendono a sottostimare i problemi relativi alla bocca e ai denti; spesso hanno un atteggiamento fatalistico riguardo al problema orale, come se fosse normale arrivare all’anzianità sdentati, con denti rotti o con protesi non adeguate. esiste poi una obiettiva difficoltà nel reperire specialisti odontoiatri che si occupino della bocca degli anziani e spesso anche la distanza dai centri odontoiatrici e la difficoltà di spostamento di anziani con disabilità o difficoltà fisiche possono rappresentare un serio problema di accesso ai servizi. non ultimo esiste il problema dei costi elevati delle prestazioni odontoiatriche, costi che spesso gli anziani non hanno la possibilità di sostenere. per ovviare a quest’ultimo problema, nel regno unito fin dal 1996 sono state pubblicate specifiche linee guida per garantire l’accesso alle cure dentali da parte delle persone disabili, ulteriormente aggiornate nel 2001 [12]. la stessa esigenza è stata avvertita anche in italia. la normativa nazionale in materia è costituita principalmente dal d.lgs. 229/99 che definisce i criteri per la determinazione dei livelli essenziali di assistenza (lea) e disciplina il funzionamento dei fondi integrativi del ssn, e dal dpcm (decreto del presidente del consiglio dei ministri) 29/11/2001 “definizione dei livelli essenziali di assistenza” [13]. tali indicazioni nazionali limitano la competenza del ssn ai «programmi di tutela della salute odontoiatrica in età evolutiva e l’assistenza odontoiatrica e protesica verso soggetti in condizione di particolare vulnerabilità», affidando ai fondi integrativi del ssn l’assistenza odontoiatrica per i servizi complementari. su questa materia alcune regioni (valle d’aosta, veneto, liguria, umbria, marche, calabria e puglia) individuano condizioni specifiche di erogazione. in generale, l’assistenza odontoiatrica è limitata ai minori, agli invalidi gravi, ai soggetti in condizioni economiche gravemente disagiate e (solo in veneto e in calabria) ai soggetti con specifiche patologie. le protesi dentarie sono escluse dai lea e il loro costo è a totale carico del cittadino; l’erogazione gratuita a specifiche categorie di soggetti determina l’individuazione di un livello assistenziale aggiuntivo da finanziarsi con risorse proprie da parte delle regioni. a tale proposito, per esempio, il servizio sanitario regionale della toscana garantisce gratuitamente protesi dentarie a soggetti residenti, appartenenti a nuclei familiari a bassissimo reddito e in condizioni di disagio sociale. la regione emilia romagna ha posto in essere un complesso di azioni (delibera n. 2678 del 20/12/2004: “programma assistenza odontoiatrica nella regione emilia romagna: programma regionale attuazione lea e definizione livelli aggiuntivi”) nell’ambito delle quali va annoverata anche la copertura delle spese per i manufatti di tipo odontoiatrico necessari a coloro che presentano disturbi alla masticazione e alla popolazione anziana. la provincia autonoma di trento garantisce ai soggetti di età superiore ai 60 anni e in precarie condizioni di reddito del nucleo familiare la concessione di un contributo per l’applicazione di protesi mobili secondo quanto stabilito dalla legge provinciale n. 20 del 31 agosto 1991. la nostra esperienza presso l’azienda ospedaliero-universitaria di parma dal 2004 è stato attuato un progetto definito “prevenzione e cura del cavo orale del paziente ricoverato in reparto geriatrico per acuti”. il progetto è nato con la finalità di migliorare la qualità assistenziale del paziente anziano ospedalizzato attraverso la riduzione dei rischi da ricovero (infezioni locali e sistemiche, miglioramento dello stato nutrizionale) e l’individuazione di quel bisogno di cure odontostomatologiche, generalmente ignorato e trascurato. il progetto ha coinvolto tutto il personale del reparto di geriatria (operatori sociosanitari, infermieri, medici) ed è stato preceduto da un periodo di formazione teorico e pratico specifico sui problemi orali dell’anziano; successivamente sono stati coinvolti il paziente e il suo caregiver con un intervento di sensibilizzazione sui problemi orali. il progetto, grazie alla collaborazione tra le unità operative di geriatria e odontostomatologia, prevedeva periodiche e strutturate consulenze odontoiatriche nel reparto di geriatria finalizzate ad affrontare i problemi orali rilevati durante la visita quotidiana [14]. clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 54 editoriale all’interno di questo progetto è stato successivamente eseguito uno studio allo scopo di chiarire le possibili relazioni tra le principali sindromi geriatriche (comorbilità, polifarmacoterapia, deficit cognitivo, depressione, malnutrizione, perdita dell’autonomia) e la patologia del cavo orale. 103 pazienti selezionati in modo randomizzato con età media di circa 83 anni sono stati valutati in cieco da un geriatra che ha applicato una serie di scale validate per la rilevazione delle sindromi geriatriche sopra citate e da un odontoiatra che ha applicato una scala tradotta e adattata alla lingua italiana (ohat; oral health assessment tool) per la rilevazione dei problemi orali. i risultati finali (dati in pubblicazione) hanno indicato che demenza, malnutrizione ed elevata comorbilità sono altamente correlate allo sviluppo di problemi orali, ma che la variabile maggiormente significativa è risultata essere la perdita dell’autonomia soprattutto nelle manovre di igiene orale quotidiana. da questi dati, così come da molte osservazioni della letteratura, emerge un’indicazione molto importante sulla necessità che le persone non autonome vengano aiutate a svolgere una corretta igiene orale da parte del personale di assistenza e dai caregiver. la maggiore attenzione ad aspetti relativamente semplici della cura della persona quali l’igiene orale può tradursi in risultati significativi come la prevenzione delle patologie orali e il miglioramento della qualità della vita anche nei pazienti più compromessi. ne consegue che la formazione del personale di assistenza su questi aspetti diventa un investimento di grande valore per un’assistenza qualificata ed efficace. prospettive future l’interesse della geriatria verso uno degli aspetti della cura spesso sommerso è dimostrato dalle iniziative e dei percorsi assistenziali di odontoiatria geriatrica che negli ultimi anni sono stati promossi dai geriatri in collaborazione con gli odontostomatologi in alcune regioni d’italia. il punto di partenza delle esperienze più significative svolte in vari setting assistenziali, dal reparto per acuti al domicilio, alle cure semiresidenziali e residenziali, è stato il riconoscimento di una difficoltà nell’accesso alle cure dentali in particolare per gli anziani più compromessi sul piano dell’autonomia fisica o cognitiva e quindi la necessità di colmare un gap tra bisogno e risposta. la collaborazione con gli specialisti odontostomatologi è stata determinante sia nella fase di formazione degli operatori sia in quella della realizzazione di azioni specifiche a favore della valutazione del cavo orale e degli interventi di cura. si è quindi sviluppata in tempi relativamente rapidi una cultura di odontoiatria geriatrica che, in parallelo con una maggiore sensibilità del servizio sanitario verso la fasce più deboli, ha permesso di sperimentare soluzioni innovative per portare più vicino all’anziano le cure odontoiatriche. come è accaduto in altri campi della cura geriatrica, diverse professionalità – gli infermieri, gli igienisti orali, gli operatori sociosanitari e gli stessi pazienti o caregiver – sono stati a vario titolo coinvolti e addestrati. queste esperienze hanno posto all’attenzione dei geriatri il cavo orale come parte integrante della valutazione multidimensionale, alla stessa stregua di altri aspetti della salute somatica, e hanno stimolato gli odontoiatri ad adattare le tecniche, i materiali e gli interventi alla complessità polipatologica e funzionale della persona anziana, con disabilità o con problematiche cognitive. per quanto riguarda la necessità della valutazione degli aspetti relativi alla salute orale e alla capacità di svolgere autonomamente l’igiene orale è stato necessario sviluppare strumenti di valutazione specifici nati dalla collaborazione tra geriatri e odontoiatri. in tabella iii sono elencati alcuni dei principali, tra cui l’ohat che è stato ampiamente utilizzato nel progetto di parma. infine, per dare piena attuazione a un programma di odontoiatria geriatrica, la società italiana di geriatria e gerontologia, nel corso del convegno nazionale 2009, ha costituito un gruppo di lavoro multidisciplinare formato da geriatri da tempo impegnati sul fronte della cura del cavo orale dell’anziano, dalla componente nursing, da rappresentanti della società italiana di odontoiatria geriatrica (siog) e della società italiana acronimo scala oag oral assessment guide roag revised oral assessment guide bohse brief oral health status examination ohat oral health assessment tool throat the holistic and reliable oral assessment tool mps mucosal plaque index gohai geriatric oral assessment index didl dental impact on daily living tabella iii principali scale di valutazione del cavo orale clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 55 e. martini, m. l. lunardelli di odontoiatria e handicap (sioh), finalizzato alla promozione culturale e professionale attraverso la revisione delle migliori pratiche clinico-assistenziali, alla promozione di progetti di cura e alla redazione di raccomandazioni assistenziali. bibliografia smith b, baysan a, fenlon m. association beetween oral health impact profile and general 1. health scorse for patients seeking dental implants. j dent 2009; 37: 357-9 didilescu ac, skaug n, marica c, didilescu c. respiratory pathogens in dental plaque of 2. hospitalized patients with chronic lung diseases. clin oral investig 2005; 9: 141-7 bahekar aa, singh s, saha s, molnar j, arora r. the prevalence and incidence of coronary 3. heart disease is significantly increased in periodontitis: a meta-analysis. am heart j 2007; 154: 830-7 mealry bl, rose lf. diabetes mellitus and inflammatory periodontal diseases. 4. curr opin endocrinol diabetes obes 2008; 15: 135-41 world health organization. international classification of functioning, disability and health 5. (icf). geneva: who, 2001 chen m, andersen rm, barmes de, leclerq mh, lyttle cs. comparing oral health systems. 6. a second international collaborative study. geneva: who, 1997 strohmenger l, ferro r. odontoiatria di comunità. milano: masson, 20037. morgan r, tsang j, harington n, fook l. survey of hospital doctors’ attitudes and knowledge 8. of oral conditions in older patients. postgrad med j 2001; 77: 392-4 preston aj, punekar s, gosney ma. oral care of elderly patients: nurses’ knowledge and views. 9. postgrad med j 2000; 76: 89-91 rak os, warren k. an assessment of the level of dental and mouthcare knowledge amongst 10. nurses working with elderly patients. community dental health 1990; 7: 295-301 wardh i, andersson l, sorensen s. staff attitudes to oral health care. a comparative study of 11. registered nurses, nursing assistants and home care aides. gerodontology 1997; 14: 28-32 bsdh. guidelines for standards of dental care for people with disabilities. british society of 12. dentistry for the handicapped, 1996 dpcm 29/11/2001. definizione dei livelli essenziali di assistenza. 13. gazzetta ufficiale n. 33 dell’8 febbraio 2002, supplemento ordinario n. 26 azienda ospedaliera di parma. attuazione livelli essenziali di assistenza nel campo della 14. prevenzione e cura del cavo orale del paziente ricoverato in reparto geriatrico per acuti. forum pa, 2004. 5° edizione del premio per le eccellenze nei servizi sanitari. disponibile su: http:// www.forumpa.it/forumpa2004/sanita/cdrom/home/progetto/105.html (ultimo accesso: aprile 2010) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 137 clinical management issues benefici dovuti a specifiche competenze del personale sanitario, alla convergenza di competenze multidisciplinari e alla continuità assistenziale del paziente in contesti riabilitativi e a domicilio. tuttavia, rimangono ancora da risolvere molti problemi correlati alla difficoltà di ottenere una diagnosi di malattia e un trattamento tempestivi e a come rendere più efficienti queste strutture dal momento che, in primo luogo, vi è ancora una scarsa consapevolezza di malattia nella popolazione generale, cosa che comporta un ritardo di accesso in ospedale e quindi nell’inizio delle cure. sulla base dell’esperienza clinica è nata l’esigenza di identificare specifici indicatori di monitoraggio e di misura in termini di qualità e adeguatezza dei processi di cura delle stroke unit. in passato in italia sono stati fatti diversi tentativi, attraverso la creazione di registri di popolazione e ospedalieri, i quali sembrano rappresentare la modalità ideale per verificare la qualità di un servizio assistenziale. tuttavia nessuno di questi si è mai focalizzato specificatamente sui processi di cura, forse anche in considerazione del introduzione lo stroke è la terza causa di morte e la prima di disabilità a lungo termine nella maggior parte dei paesi industrializzati, essendo responsabile di una considerevole quota della spesa sanitaria. per la sua elevata incidenza, l’ictus costituisce un problema assistenziale, riabilitativo e sociale di rilevanti dimensioni. i risultati emersi da trial clinici, revisioni e meta-analisi condotti a livello internazionale indicano come l’accesso di un paziente con ictus in una stroke unit comporti un beneficio per il paziente in termini di mortalità, istituzionalizzazione e dipendenza, con una riduzione del rischio assoluto di tali complicanze pari al 3-5%; tale vantaggio è stato confermato anche sulla popolazione italiana dallo studio prosit (project on stroke services in italy) [1]. le stroke unit, infatti, si configurano nel contesto ospedaliero come aree altamente specializzate e “dedicate” alla cura del paziente con ictus, a prescindere dall’introduzione di terapie particolari, e comportano corresponding author dott. giuseppe micieli giuseppe.micieli@ mondino.it caso clinico abstract stroke is the third cause of death and the first long-term disability cause in industrialised countries. it is therefore an important problem, not only from a clinical point of view, but also because of the high costs involved in its management. the results of clinical trials, reviews and meta-analysis highlight the importance of the stroke unit in the correct and adequate management of the patient with stroke. this article describes the lombardia stroke unit and the related stroke registry. in 2010 this registry includes 27 centres and recruits patients with acute stroke or transient ischaemic attacks (tias). the registry aims at measuring performance parameters, identifying guidelines, non-compliance causes, and analysing care processes. keywords: stroke units, performance parameters, stroke registry, lombardia the lombardia stroke unit registry: a year experience cmi 2010; 4(4): 137-143 1 dipartimento di neurologia d’urgenza, sc malattie cerebrovascolari/ stroke unit, irccs istituto neurologico nazionale c. mondino, pavia 2 per i collaboratori del stroke unit network lombardia (vedi box in calce all’articolo) giuseppe micieli 1, anna cavallini 1, michela duè 1, elena tartara 1,2 il registro stroke unit della lombardia: esperienza di un anno ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4)138 il registro stroke unit della lombardia: esperienza di un anno all’esigenza di creare un percorso comune tra le numerose strutture sanitarie che si occupano di malattie cerebrovascolari, ed è volto al miglioramento dei processi di cura in tale ambito in fase acuta e post-acuta mediante l’identificazione dei bisogni dell’assistito e lo scambio di informazioni sui trattamenti proposti e ricevuti, le terapie in atto e gli eventi di rilevanza clinica, tramite: la descrizione del percorso diagnosticoy terapeutico del paziente con ictus in regione lombardia, quantificando risorse e tempi di intervento; la quantificazione della gravità degli esiti y funzionali nella fase post-acuta, al fine di ottenere un’adeguata descrizione dei bisogni riabilitativi dei pazienti; la quantificazione della gravità degli esiti y a tre mesi, al fine di ottenere un’adeguata descrizione dei bisogni assistenziali a lungo termine; la quantificazione dell’impatto delle proy cedure diagnostico-terapeutiche attualmente effettuate sul rischio di recidiva di stroke al fine di identificare possibili interventi di correzione dello stesso. la regione lombardia, grazie ai contributi dei programmi sanitari regionali, ha promosso, specie negli anni tra il 2000 e il 2004, la realizzazione delle unità di cura cerebrovascolari (ucv ), ovvero di stroke unit con livello di assistenza subintensivo e geograficamente definite nell’ambito discifatto che l’italia, attualmente, non sembra garantire un’offerta assistenziale adeguata; infatti, ad oggi, solo l’8,5% delle strutture sanitarie nazionali ha le caratteristiche minime richieste per configurare una stroke unit e solo il 27% delle uo di neurologia ha a disposizione letti di degenza dedicati alla cura dell’ictus cerebrale [2]. lo stroke unit network (sun) lombardia il progetto stroke unit network lombardia (sun) [3] nasce nel 2006 per rispondere figura 1 il network lombardo delle stroke unit. attualmente (2010) sono presenti 38 unità operative criteri livello di ucv numero di stroke unit team multidisciplinare 1,2,3 28 personale sanitario specializzato dedicato 1,2,3 28 riabilitazione precoce 1,2,3 28 tc encefalo 24 ore e 7 giorni 1,2,3 28 trombolisi ev 1,2,3 28 diagnostica strumentale (doppler tronchi sovraortici, transcranico, ecocardiografia) 2,3 25 neurochirurgo disponibile/neurochirurgia 2,3 25/13 neuroradiologia 3 10 neuroradiologia interventistica 3 5 chirurgia vascolare 3 26 trombolisi ia 3 5 ucv i livello 3 ucv ii livello 20 ucv iii livello 5 tabella i livelli di unità di cura cerebrovascolari (ucv ) delle stroke unit partecipanti al registro ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 139 g. micieli, a. cavallini, m. duè, e. tartara personali e inseriti in un database anonimo, utile per le successive analisi statistiche. il registro diviene quindi un esempio di sintesi della cartella clinica informatizzata, accessibile ai coordinatori dei centri e loro collaboratori. è stato concordato che il responsabile dell’inserimento dei dati sia sempre un medico, anche se studenti o personale esperto in stroke o raccolta dati possono partecipare in qualità di operatori nell’inserimento dati. il progetto è stato sottoposto all’attenzione dei comitati etici dei singoli centri, con l’unanime approvazione del trattamento dei dati dei pazienti ospedalizzati anche in assenza di consenso esplicito, mentre tale consenso è stato obbligatoriamente richiesto per il trattamento dei dati dei pazienti che avrebbero aderito al follow-up. la banca centrale dei dati è ubicata presso il dipartimento di informatica e sistemistica della università di pavia, che è anche responsabile dell’integrità e sicurezza degli stessi. il database comprende informazioni estratte dalle cartelle cliniche, si trova attualmente nell’area riservata del sito http:// sunlombardia.unipv.it e ha raccolto, soltanto nel primo anno di attività (2007), poco più di 7.000 casi di stroke o tia ospedalizzati presso le ucv regionali. di tutti i pazienti arruolati sono stati raccolti i dati anagrafici (sesso, età, razza) e dati relativi a quattro ulteriori campi di informazione riguardanti l’intero processo di cura dello stroke acuto, dall’esordio dei sintomi, al trattamento e al follow-up; in particolare: dati relativi alla valutazione e al trattay mento in emergenza, per valutare il tempo di inizio del trattamento trombolitico, informazioni sui tempi della valutazione neurologica ed esecuzione di neuroimmagini in pronto soccorso; dati relativi alla valutazione e al trattameny to in ospedale, per monitorare la qualità dell’assistenza durante il ricovero, e l’omogeneità dei processi di cura negli ospedali della lombardia; dati relativi alla dimissione ospedaliera, y come l’esito (paziente vivente o deceduto), punteggio nihss (national institute of health stroke scale), scala rankin, barthel index, tipo di trattamento consigliato alla dimissione, codice icd-9-cm per la diagnosi principale e le diagnosi secondarie, classificazione toast (trial of org 10172 in acute stroke treatment); dati relativi al post-ricovero e al followy up. plinare della neurologia, per il ricovero e il trattamento di almeno il 70% dei pazienti ospedalizzati per stroke [4]. a tale periodo risale la creazione del sun (stroke unit network), un collegamento operativo tra le ucv della regione fondato nel 2001 dalle sezioni regionali della sin (società italiana di neurologia) e della sno (società neuroscienze ospedaliere), con il principale obiettivo di coordinare e ottimizzare i processi di cura di queste unità per meglio gestire le risorse e migliorare gli esiti dei pazienti con ictus. il progetto relativo al registro sun è stato avviato nel 2006, con la partecipazione di 36 centri (31 stroke unit autorizzate al trattamento trombolitico per via sistemica, 5 ancora in fase di definizione organizzativo-logistica), identificati tra tutti gli ospedali della lombardia, sulla base del numero di pazienti (almeno 50) dimessi con diagnosi di stroke acuto nel corso del 2005. la selezione dei centri si è quindi avvalsa della conformità a criteri di base, definiti da indicatori dell’organizzazione della struttura ospedaliera (presenza di pronto soccorso, possibilità di cure intensive, reparti di neurochirurgia, chirurgia vascolare, riabilitazione e neuroradiologia), della stroke unit stessa (numero e percentuale di letti monitorati), dell’organizzazione del personale dell’unità, dei processi di cura (adozione di protocolli scritti e delle linee guida italiane spread – stroke prevention and educational awareness diffusion, numero di incontri multidisciplinari) e sulla disponibilità di servizi diagnostici strumentali (tc e rm encefalo, ecocardiografia, angiografia, diagnostica ad ultrasuoni e holter ecg). caratteristiche del registro il registro è stato studiato per raccogliere dati relativi a pazienti ricoverati con diagnosi di stroke ischemico acuto, attacco ischemico transitorio (tia), emorragia cerebrale ed emorragia subaracnoidea. gli indicatori di processo di assistenza e cura al paziente con stroke sono stati redatti da un comitato scientifico, il cui coordinatore è uno degli autori del sun (gm), sulla base delle linee guida spread [5], e successivamente discussi e approvati dai coordinatori di tutti i centri aderenti al progetto, con la creazione finale di una guida di definizioni standardizzate descrittive dei dati trattati. i dati vengono raccolti, trasmessi e memorizzati nel rispetto delle leggi sulla privacy dei dati ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4)140 il registro stroke unit della lombardia: esperienza di un anno mare tale dato su un campione più ampio e su vasta scala, come quello costituito dalle stroke unit della lombardia. utilizzando item specifici per le singole linee guida spread, è possibile evidenziare le aree di non-compliance, e cercare di ottimizzare il processo di cura su più livelli di specificità. in linea con il carattere sintetico del registro, possono essere attualmente verificate 28 raccomandazioni sul totale, di cui 20 riguardanti la fase acuta e 8 quella di prevenzione secondaria. più in generale la compliance può essere correlata all’insieme dei valori forniti dalla scala di rankin, prima dell’evento acuto, al momento della dimissione ospedaliera e al follow-up, unitamente ai dati riguardanti la mortalità e la recidiva di stroke. il registro consente inoltre di ricavare informazioni circa l’andamento temporale del processo di cura del paziente con stroke, in quanto la maggior parte dei dati sugli interventi medici è corredata da informazioni di tempistica, come ad esempio, l’ora di esordio dei sintomi, l’arrivo in pronto soccorso, il momento della valutazione neurologica e dell’esecuzione di attraverso lo strumento di monitoraggio dell’arruolamento dei pazienti si possono produrre analisi statistiche sull’attività dei vari centri: ad esempio è possibile estrapolare un numero target di pazienti da reclutare in un dato periodo di tempo, e consentire quindi, sulla base di un confronto con gli altri centri, di adottare opportune misure di correzione, volte al miglioramento della performance. in quest’ottica, il registro in rete diviene una sorta di strumento di competizione costruttiva fra i vari centri. allo stesso modo, i centri si possono confrontare a più livelli e su specifici obiettivi. in particolare, è stata dimostrata un’associazione significativa tra l’ottemperanza alle linee guida spread e l’esito del paziente con stroke, come risultato da uno studio scientifico condotto presso la stroke unit dell’istituto neurologico nazionale c. mondino di pavia, dove è stata adottata una cartella clinica informatizzata comprensiva di specifici item con le raccomandazioni delle linee guida [6]. l’obiettivo del registro diviene quindi quello di conferfigura 2 esempio di applicazioni statistiche sui dati del registro ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 141 g. micieli, a. cavallini, m. duè, e. tartara tono una percentuale di pazienti con stroke acuto (30%) e tia (10%) della lombardia e pertanto possono essere considerati un indice del processo di cura corrente dello stroke acuto in lombardia. è stato registrato un elevato grado di completezza delle informazioni, anche grazie all’utilizzo di definizioni chiare e codificate delle variabili inserite nel software. da questa prima analisi sono inoltre emerse alcune criticità. in primo luogo, 5 centri non hanno mai iniziato il reclutamento dei pazienti e altri 6 hanno avuto un tasso di arruolamento molto basso, a causa di mancanza di personale per l’inserimento dei dati, pertanto il 30% dei centri non è stato incluso nel registro. il problema economico emerso, in parte sottovalutato anche per la difficoltà di quantificare la raccolta dei dati e il miglioramento della qualità, nonché di predire la domanda assistenziale, pone l’esigenza di una collaborazione anche da parte dei ricercatori scientifici, degli amministratori sanitari e delle aziende sanitarie regionali, per concorrere alla realizzazione di una realtà operativa efficace, economicamente sostenibile, nell’ottica di un miglioramento del processo di cura e senza prescindere dall’obiettivo primario costituito dalla salute del paziente. allo scopo di permettere lo studio dei processi di cura sono state recentemente sviluppate tecniche, chiamate genericamente process mining, che vengono utilizzate per estrarre dai dati “grezzi” informazioni utili a ricostruire il processo che ha prodotto quei dati stessi. più precisamente, il process mining descrive una famiglia di algoritmi che sfruttano le informazioni registrate nei cosiddetti event logs, ovvero documenti elettronici contenenti tutti i dati registrati dal sistema informativo e corredati di tag temporali. il registro sun è appunto una fonte di questi event logs e quindi rappresenta una eccellente banca dati per l’applicazione di modelli di process mining. tecniche più recenti si focalizzano anche su altri elementi come gli aspetti organizzativi e le performance. per esempio, avere l’informazione su chi ha eseguito le varie procedure rende possibile l’estrazione dai dati della rete degli agenti che collaborano al processo di cura, per analizzarla attraverso tecniche di social network analysis. questo processo permette alle organizzazioni di monitorare il modo nel quale persone, gruppi, o componenti o sistemi software operano insieme. inoltre, esistono approcci per visualizzare informazioni relative alle performance: si possono per esempio visualizzare graficamente i colli neuroimmagini, mentre per molte altre procedure non viene inserita la data/ora esatta, ma viene riportato, in un campo codificato, se la procedura è stata eseguita entro le 3 ore, entro le 6 ore, e così via fino a “entro 7 giorni”, “oltre 7 giorni”, in modo tale da seguire passo a passo il percorso di cura, ed evidenziare inefficienze nel tempo di esecuzione degli interventi medici. inoltre il registro è provvisto di applicazioni che consentono un controllo in tempo reale dell’immissione dei dati per la verifica di eventuali errori di inserimento, e in generale i dati raccolti sono controllati mensilmente in termini di completezza e congruità. la valutazione dei dati immessi nel registro è stata effettuata mensilmente e poi a un anno dall’inizio del progetto, per evincere i punti critici più verosimilmente attribuibili a reali cambiamenti nei modelli di pratica clinica adottati. in tal modo si è voluto implementare una strategia di miglioramento della qualità dei processi di cura, che allo stesso tempo escludesse il rischio di influenzare la pratica operativa, essendo il principale obiettivo a un anno di tale retrospettiva quello di descrivere l’andamento del processo di cura e garantire la qualità del registro. discussione il principale obiettivo del registro sun lombardia è quello di raccogliere dati relativi alle misure di qualità clinicamente importanti e di migliorare la distribuzione dei processi di cura dello stroke basati sull’evidenza scientifica. il registro è stato sviluppato alla luce di precedenti esperienze in ambito internazionale, come ad esempio il registro paul coverdell national acute stroke negli stati uniti [7], che ha mostrato come ci sia ampio spazio di miglioramento anche in relazione a misure di intervento meno complesse, come lo screening della disfagia, la misurazione dei valori del profilo lipidico, il counselling per la cessazione dell’abitudine al fumo, che in quel caso sono state effettuate solo in un terzo dei pazienti candidati a ricevere tali spread, un software tecnologico in grado di controllare in tempo reale la non-compliance alle linee guida, e l’analisi dei differenti processi di cura, ha permesso di contribuire alla definizione di migliori modelli di diagnosi e terapia per i diversi tipi di stroke unit, e aiutare i medici che si occupano di stroke ad acquisire maggior consapevolezza sull’importanza dell’aderenza alle raccomandazioni delle linee guida spread [8]. i dati raccolti riflet©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4)142 il registro stroke unit della lombardia: esperienza di un anno condivisione del database, che rappresenta lo strumento di lavoro del registro sun lombardia, da parte di altre stroke unit come quelle di regione piemonte e veneto, propongono regione lombardia al centro di un percorso virtuoso anche di aggregazione e sviluppo di nuovi ed originali modelli assistenziali estendibili anche al resto del nostro paese [9], dove attualmente coesistono realtà sanitarie molto diverse tra loro in termini di assistenza e prevenzione, con reti ospedaliere non attuali e sostenibili, per carenza di organizzazione o di attuazione dei modelli assistenziali. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito agli argomenti trattati nel presente articolo. di bottiglia e diversi tipi di indicatori di efficienza, quali ad esempio media e varianza del tempo di esecuzione dell’intero processo o del tempo che intercorre tra due attività selezionate. l’utilizzo di queste tecnologie di ict (information and communication technology) rappresenta il core del progetto di ricerca sugli indicatori di processo e di esito nel percorso di cura dell’ictus nelle stroke unit regionali (stilo: stroke lombardia indicatori) che la regione lombardia e pfizer hanno finanziato alle asl di mi2, pavia, lodi, monza-brianza e di cui è responsabile scientifico uno degli autori (gm). i risultati di tale approccio, assolutamente innovativo per la conoscenza, l’analisi, la verifica continua della qualità della cura in questo capitolo così importante della sanità regionale, sembrano sin da ora molto promettenti anche per lo sviluppo dei modelli organizzativi del prossimo futuro in questo campo. inoltre la possibile * centri sun lombardia e collaboratori azienda ospedaliera “ospedali riuniti” di bergamo (b. censori, r. riva), casa di cura san pietro, ponte san pietro (bergamo) (f. frediani), azienda istituti ospedalieri di cremona (g. baietti, l. zinno), azienda ospedaliera “ospedale s. anna” di como (m. arnaboldi, s. vidale), azienda ospedaliera “ospedale civile” di vimercate, presidio ospedaliero complesso di desio (a. colombo), azienda ospedaliera “s:antonio abate” di gallarate (d. zarcone, m. merello), azienda ospedaliera “g. salvini” di garbagnate milanese (d. cittani), azienda ospedaliera di lecco, presidio di lecco (e. agostoni, c. scaccabarozzi), azienda ospedaliera “ospedale civile” di legnano, presidio di legnano (m.v. calloni, a. giorgetti), azienda ospedaliera della provincia di lodi, presidio ospedaliero di lodi (m. riva, a. zilioli), azienda ospedaliera “ospedale civile” di legnano, presidio di magenta (a. romorini, s. ruggerone), azienda ospedaliera “carlo poma” di mantova (p. previdi, g. silvestrelli), azienda ospedaliera “ospedale predabissi” di melegnano (g.e. molini, c. marsile), azienda ospedaliera di lecco, presidio di merate (e. agostoni, c. scaccabarozzi), azienda ospedaliera s. carlo di milano (p. bassi, p. lattuada), azienda ospedaliera niguarda ca’ granda di milano (r. sterzi, m. pozzi), azienda ospedaliera “luigi sacco” di milano (p. gambaro, s. rosa), azienda ospedaliera s. gerardo di monza (c. ferrarese, m. brioschi), azienda ospedaliera “ospedale di circolo di busto arsizio”, presidio ospedaliero di saronno (g. grampa, a. gomitoni), azienda ospedaliera ospedale di circolo e fondazione macchi di varese (m.l. de lodovici, m. mauri), azienda ospedaliera “ospedale civile” di vimercate, presidio ospedaliero complesso di vimercate (p. bazzi, s. fermi), azienda ospedaliera della provincia di pavia, stabilimento di voghera (e. magrotti, g. borutti), azienda sanitaria locale di sondrio, presidio ospedaliero di sondrio (s. creta, g. montecalvo), casa di cura santa rita di milano (c.s. tadeo), casa di cura policlinico s. marco di zingonia (m. camerlingo), fondazione poliambulanza di brescia (e. donati, e. magni), istituto clinico beato matteo di vigevano (s. ravaglia, m.t. zaccone), irccs. fondazione san raffaele del tabor di milano (g. comi, m. sessa), irccs istituto auxologico italiano san luca di milano (m. stramba badiale, v. manzoni), irccs ospedale maggiore policlinico, università degli studi di milano (s. lanfranconi, ), irccs istituto neurologico c. besta di milano (e. parati, g. boncoraglio), irccs istituto neurologico fondazione c. mondino di pavia (a. cavallini, m. duè), irccs istituto clinico humanitas di rozzano (s. marcheselli, e. coloberti), ospedale generale di zona s. orsola di brescia (m.p. piras, l. giusti), ospedale valduce di como (m. guidotti, s. leva), spedali civili di brescia ( v. vergani, a. costa), policlinico san donato di san donato milanese (g. meola, a. costa). ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 143 g. micieli, a. cavallini, m. duè, e. tartara bibliografia bersano a, candelise l, sterzi r, micieli g, gattinoni m, morabito a; and the prosit study 1. group. stroke unit care in italy. results from prosit (project on stroke services in italy). a nationwide study. neurol sci 2006; 27: 332-9 annuario statistico del ssn, ministero della salute, 20082. micieli g, cavallini a, quaglini s, fontana g, duè m. the lombardia stroke unit registry: 3. 1-year experience of a web-based hospital stroke registry. neurol sci 2010; 31: 555-64 direzione generale sanità regione lombardia. decreto 10068 del 18/9/2008. determinazione in 4. merito alla “organizzazione in rete e criteri di riconoscimento delle unità di cura cerebrovascolari (ucvstroke unit)” spread 2007. ictus cerebrale: linee guida italiane di prevenzione e trattamento. v edizione. 5. disponibile su: http://www.spread.it panzarasa s, quaglini s, micieli g, marcheselli s, pessina m, pernice c et al. improving 6. compliance to guidelines through workflow technology:implemetation and results in a stroke unit. stud health technol inform 2007; 129: 834-9 reeves mj, broderick jp, frankel m, labresh ka, schwann l, moomaw cj et al; paul coverdell 7. prototype registries writing group. the paul coverdell national acute stroke registry: initial results from four prototypes. am j prev med 2006; 31: s202-9 quaderni del ministero della salute. n. 2, marzo-aprile 20108. candelise l, micieli g, sterzi r, morabito a; research project on stroke services in italy. 9. stroke units and general wards in seven italian regions. neurol sci 2005 jun; 26: 81-8 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 91 clinical management issues troppo spesso la presenza dei disturbi depressivi in pazienti oncologici, specialmente negli anziani, è sottostimata [10] e, anche quando vengono riconosciuti, solo una parte dei pazienti riceve un trattamento adeguato, sia che si tratti di una psicoterapia di sostegno oppure un farmaco antidepressivo. attualmente sono presenti 11 studi randomizzati-controllati [11] che confrontano l’efficacia della terapia con antidepressivi vs placebo in pazienti oncologici che presentano sintomi depressivi e d’ansia. una delle possibili spiegazioni a tale carenza di studi controllati è la mancata aderenza di questo sottogruppo di pazienti e dei loro familiari ai trial che utilizzano placebo. a sua volta la scarsità di trial pubblicati potrebbe essere una delle cause dell’inadeguato e mancato trattamento farmacologico dei disturbi depressivi nei pazienti oncologici. la scelta della molecola antidepressiva da somministrare non introduzione la prevalenza dei disturbi depressivi in pazienti affetti da patologie neoplastiche varia tra il 40% e il 60% [1-4]. l’esperienza della malattia neoplastica è associata a elevati livelli di distress psicologico in grado di provocare o aggravare alcuni sintomi frequentemente descritti da questi pazienti. tra questi si annoverano l’insonnia, la cui prevalenza varia dal 30% al 50% [5], la perdita di appetito, la nausea, il vomito e l’astenia [6], con prevalenza fino all’80% in alcune patologie oncologiche [7] e numerosi sintomi algici [8,9]. identificare l’eziologia di tali sintomi non sempre risulta agevole: questi possono derivare dalla patologia neoplastica primaria, possono rappresentare sintomi di disturbi dell’umore e d’ansia oppure possono essere secondari all’eventuale trattamento chemioterapico o radioterapico in atto. corresponding author dott. massimo pasquini massimo.pasquini@ uniroma1.it gestione clinica abstract the rate of depression in the general population is estimated as high as 15% and is at least two to three times more common in patients with cancer. due to the complexity and constraints of cancer care, depression is often under-recognised and under-treated. antidepressants are the most commonly used medications, however among cancer patients there are few randomised trials comparing antidepressants to placebo. mirtazapine is an effective antidepressant with unique and special mechanism of action characterised by high response and remission rates, relatively early onset of action and favourable side-effect profile. several studies reported that mirtazapine has a receptor-binding profile that may be suitable for use in controlling appetite loss and nausea of cancer patients. we conducted a review of the literature on the use of mirtazapine in cancer patients. we evaluated the effectiveness of mirtazapine for the management of depressive and anxiety symptoms and for several distressing symptoms such as pain, nausea, appetite loss, and sleep disturbances. keywords: depression, cancer care, distressing symptoms, mirtazapine usefulness of mirtazapine in cancer patients cmi 2010; 4(3): 91-95 1 dipartimento di scienze psichiatriche e medicina psicologica, sapienza università di roma massimo pasquini 1, isabella berardelli 1, ambra craba 1 impiego di mirtazapina in pazienti oncologici ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3)92 impiego di mirtazapina in pazienti oncologici macologiche dipendono dalla modulazione operata sia sulla trasmissione noradrenergica che su quella serotoninergica senza interferire con i meccanismi di ricaptazione delle monoamine [12]. l’azione di controllo sul rilascio di noradrenalina è mediata dal blocco a livello degli autoed etero-recettori α2 mentre l’azione sul sistema serotoninergico è in parte correlata alla modulazione del sistema noradrenergico e in parte mediata dall’elevata affinità per i recettori serotoninergici 5ht2 e 5ht3. l’interazione con tali sistemi recettoriali è responsabile dell’effetto antidepressivo primario del farmaco e di alcuni effetti secondari quali le proprietà antidolorifiche e antiemetiche [13]. in aggiunta il farmaco presenta una notevole affinità per i recettori istaminergici h, responsabili di alcune caratteristiche farmacologiche quali l’effetto sedativo, l’incremento dell’appetito e l’incremento ponderale [14,15]. le suddette caratteristiche farmacologiche giustificano l’impiego di tale molecola nei pazienti oncologici [16] che frequentemente presentano complessi quadri psicopatologici. efficacia e tollerabilità di mirtazapina nei pazienti oncologici mirtazapina, al pari di diversi farmaci antiemetici [17], agisce come antagonista dei sempre risulta agevole: alcune variabili, quali l’effetto anticolinergico degli antidepressivi triciclici (tca), l’effetto pro-emetico degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (ssri), le potenziali interazioni farmacocinetiche con altri farmaci, rendono difficile la scelta del farmaco che deve essere prescritto. pertanto in questi casi viene attuata la strategia della tailored therapy, ovvero della terapia personalizzata. questa strategia prescrittiva tiene conto non solo delle dimensioni psicopatologiche prevalenti, ma anche delle interazioni farmacodinamiche e farmacocinetiche, e tende a trarre vantaggio da alcuni effetti collaterali dei farmaci. un farmaco che ben si presta a questo tipo di strategia terapeutica è mirtazapina. scopo di questa rassegna è quello di fornire al clinico le più recenti informazioni sull’impiego di mirtazapina in questo gruppo di pazienti. caratteristiche farmacologiche di mirtazapina mirtazapina, introdotta in commercio alla fine degli anni novanta per il trattamento dei disturbi depressivi, è un farmaco appartenente alla classe degli antidepressivi noradrenergici e serotoninergici specifici (noradrenergic and specif ic serotoninergic antidepressant, nassa), le cui proprietà farautore n. pazienti tipo di studio misure di esito outcome primario outcome secondari kim et al, 2008 [20] 42 studio in aperto clinical global impression (cgi) scale for nausea/vomiting (n/v), chonnam national university hospital-leeds sleep evaluation questionnaire (c-lseq) miglioramento significativo della nausea e dell’insonnia miglioramento della sintomatologia algica, sulla qualità di vita e sui sintomi depressivi cankurtaran et al, 2008 [21] 20 studio mirtazapina vs imipramina hospital anxiety depression scale (hads) miglioramento significativo hads gruppo mirtazapina miglioramento dell’insonnia nel gruppo mirtazapina ersoy et al, 2008 [22] 21 studio in aperto hamilton rating scale for depression (ham-d-17) miglioramento significativo sintomi depressivi anche nel tempo theobald et al, 2002 [23] 20 studio in aperto zung self-rating depression scale, the functional assessment of cancer therapy – general measure, memorial pain assessment card miglioramento significativo sintomi depressivi miglioramento sintomatologia algica riferita, insonnia, perdita di appetito e nausea biglia et al, 2007 [24] 40 (neoplasia mammella) studio in aperto pittsburgh sleep quality index (psqi), the menopause rating scale (mrs) and the sf-36 health survey miglioramento frequenza e intensità vampate di calore miglioramento insonnia perez et al, 2004 [25] 16 (neoplasia mammella) studio pilota miglioramento frequenza e intensità vampate di calore miglioramento insonnia e qualità di vita tabella i studi sull ’efficacia di mirtazapina su depressione e sintomi accessori ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 93 m. pasquini, i. berardelli, a. craba della concentrazione ematica del metabolita attivo endoxifen, che ha come conseguenza una diminuzione dell’efficacia sulla prevenzione delle recidive [32]. risultati incoraggianti sembrano emergere per il trattamento della nausea, della perdita di appetito e dell’insonnia [33,34]. mirtazapina è stata impiegata con successo anche per la disassuefazione da benzodiazepine [35], frequentemente usate in eccesso da questi pazienti. l’effetto collaterale più comune riportato di mirtazapina è la sonnolenza mattutina nei primi giorni di assunzione del farmaco, meno frequente è la piastrinopenia (> 1/10.000), mentre sono stati riportati alcuni casi di iponatriemia [36,37] e peggioramento della sindrome delle gambe senza riposo in pazienti anziani [38]. va ricordato che, se si impiega tale farmaco avendo come obiettivo primario l’insonnia, la dose da utilizzare è di 15 mg; incrementando la dose generalmente si riduce l’effetto ipnoinducente ma si potenzia l’effetto antidepressivo. la latenza di efficacia di mirtazapina sui diversi sintomi target è illustrata nella figura 1. in conclusione, tra i vari antidepressivi utilizzati in ambito oncologico, mirtazapina, oltre all’effetto sull’umore, ha dimostrato di avere notevoli vantaggi su altri sintomi quali nausea, dolore e insonnia. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. recettori serotoninergici 5ht3 e può essere utilizzata per le sue proprietà antiemetiche in pazienti affetti da patologia neoplastica; tuttavia pochi sono i trial che indagano l’efficacia di tale strategia terapeutica [18,19]. alcuni studi hanno valutato l’efficacia di mirtazapina (tabella i) in pazienti affetti da patologia neoplastica maligna che presentavano sintomi depressivi, nausea, vomito, perdita dell’appetito, insonnia e numerosi sintomi algici [20-22]. tre studi in aperto e uno di confronto con imipramina hanno evidenziato una buona efficacia sui sintomi depressivi, anche se al momento ancora mancano studi randomizzati controllati vs placebo. tra i sintomi frequentemente associati alla patologia neoplastica si evidenziano, inoltre, l’anoressia e la cachessia. questa sindrome colpisce l’87% circa dei pazienti affetti da patologia neoplastica ospedalizzati causando un significativo peggioramento della qualità della vita, una minor risposta alle terapie farmacologiche e un aumento degli effetti collaterali da radioterapia e da chemioterapia. l’utilità di mirtazapina nei pazienti affetti da patologia neoplastica avanzata che presentavano cachessia e anoressia è stato valutato positivamente da quattro lavori [26-29]. circa il 30-40% di tutti i pazienti oncologici presenta sintomi algici in grado di interferire con la percezione della qualità di vita dei pazienti stessi. l’efficacia del trattamento del dolore da cancro rimane uno tra i più importanti e pressanti problemi medici. pochi sono gli studi randomizzati controllati che hanno dimostrato l’efficacia di mirtazapina nella riduzione dei sintomi algici (tabella i). tre trial condotti su pazienti affette da neoplasia mammaria hanno valutato l’efficacia di mirtazapina sulle vampate di calore [24,30,31]. lo studio condotto da perez e collaboratori ha dimostrato una riduzione significativa della frequenza e della severità delle vampate di calore in pazienti affette da patologia neoplastica [25]. a questo proposito va ricordato che l’utilizzo di alcuni ssri è sconsigliato in pazienti che assumono tamoxifene, a causa dell’induzione enzimatica citocromiale che determina una riduzione figura 1 latenza di efficacia di mirtazapina per i singoli sintomi target abuso di benzodiazepine (7 giorni circa) sintomi d’ansia (7 giorni circa) insonnia (1 giorno circa) iporessia ( 2 settimane circa) sintomi depressivi (2-3 settimane) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3)94 impiego di mirtazapina in pazienti oncologici bibliografia 1. massie mj. prevalence of depression in patients with cancer. natl cancer inst monogr 2004; 32: 57-71 2. payne dk, hoffman rg, theodoulou m, dosik m, massie mj. screening for anxiety and depression in women with breast cancer. psychiatry and medical oncology gear up for managed care. psychosomatics 1999; 40: 64-9 3. pasquini m, biondi m. depression in cancer patients: a critical review. clin pract epidemol ment health 2007; 3: 2 4. pirl wf, greer j, temel js, yeap by, gilman se. major depressive disorder in long-term cancer survivors: 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montemurro 1 caso clinico uso di rosuvastatina per l’ipercolesterolemia da inibitori della proteasi in un paziente con infezione da hiv e alto rischio cardiovascolare leonardo calza 1 caso clinico osteoporosi maschile: un caso clinico ligia j. dominguez 1, simona miraglia 1, mario barbagallo 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 109 clinical management issues caso clinico si descrive il caso di un paziente maschio, di razza caucasica, fumatore (20-30 sigarette al dì) dall’età di 18 anni, tossicodipendente ev (eroina) dai 25 ai 34 anni, con padre deceduto per infarto miocardico acuto all’età di 47 anni e riscontro occasionale di infezione da hiv nell’anno 2000, all’età di 40 anni, senza alcuna manifestazione clinica. i primi esami ematici immuno-virologici effettuati nel marzo 2000 dimostravano un assetto immunitario già marcatamente compromesso (conta linfociti t cd4+ = 218 cellule/mm3, pari al 11%) con elevata replicazione virale (hiv rna = 120.000 copie/ ml), mentre i restanti esami ematochimici risultavano nella norma. l’esame obiettivo perché descriviamo questo caso la terapia antiretrovirale altamente attiva (haart) ha notevolmente prolungato l ’aspettativa media di vita dei pazienti con infezione da hiv, ma ha anche favorito l ’insorgenza di frequenti eventi avversi, tra cui le alterazioni del metabolismo lipidico. la comparsa di ipercolesterolemia è frequentemente descritta nei pazienti in terapia antiretrovirale, soprattutto se trattati con inibitori della proteasi, e può favorire un aumento del rischio di eventi cardiovascolari a lungo termine. a tale riguardo diviene allora essenziale conoscere le corrette modalità di gestione terapeutica corresponding author dott. leonardo calza u.o. malattie infettive, policlinico s. orsolamalpighi via g. massarenti 11, 40138, bologna. telefono: 051 6363355 fax: 051 343500 leonardo.calza@unibo.it caso clinico abstract rosuvastatin represents one of the latest inhibitors of 3-hydroxy-3-methylglutaryl coenzyme a (hmg-coa) reductase introduced in clinical practice for the treatment of hypercholesterolaemia. in comparative trials, across dose ranges this statin reduced low-density lipoprotein (ldl) cholesterol and total cholesterol significantly more than atorvastatin, simvastatin, and pravastatin, and triglycerides significantly more than simvastatin and pravastatin. in healthy subjects with normal ldl cholesterol and elevated c-reactive protein, rosuvastatin treatment produced a significant decrease in the incidence of cardiovascular events.its chemical and pharmacokinetic properties suggest a very limited penetration in extrahepatic tissues with a lower risk of muscle toxicity and metabolically mediated drug-drug interactions, suggesting a low risk of pharmacokinetic interactions with antiretroviral drugs in patients with hiv infection. we describe a case of protease inhibitor-associated hypercholesterolaemia in a male hiv-infected patient with high cardiovascular risk. treatment with rosuvastatin leaded to a significant reduction in total and ldl cholesterol levels, with a good tolerability profile after 15 months of follow-up. keywords: hiv infection, antiretroviral therapy, protease inhibitors, hypercholesterolaemia, rosuvastatin use of rosuvastatin to treat protease inhibitor-associated hypercholesterolaemia in a hivinfected patient at high risk of cardiovascular diseases cmi 2010; 4(3): 109-115 1 ricercatore e dirigente medico. u.o. malattie infettive, policlinico s. orsola-malpighi, “alma mater studiorum” università di bologna leonardo calza 1 uso di rosuvastatina per l’ipercolesterolemia da inibitori della proteasi in un paziente con infezione da hiv e alto rischio cardiovascolare ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3)110 uso di rosuvastatina per l’ipercolesterolemia da inibitori della proteasi in un paziente con infezione da hiv rischio cardiovascolare (equivalente a quello associato a un pregresso evento coronarico o alla presenza di diabete mellito). in base alle linee guida del national cholesterol education program iii [2] il valore ottimale del colesterolo ldl per un paziente con questo rischio cardiovascolare è inferiore a 100 mg/dl. il paziente fu immediatamente inserito in un programma volto all’abolizione del fumo, alla regolamentazione della dieta e allo svolgimento di regolare attività fisica, al fine di ridurre i fattori di rischio cardiovascolare modificabili. nel contempo fu sottoposto a una visita cardiologica a seguito della quale si iniziò una terapia antipertensiva con atenololo (100 mg/die) più ramipril (5 mg/die) e ipolipemizzante con pravastatina (40 mg/die). nel marzo 2008, all’età di 48 anni, il paziente appariva in buone condizioni generali e affermava di assumere regolarmente le terapie farmacologiche, di seguire attentamente il programma dietetico e di attività fisica, oltre che di avere completamente abolito il fumo da circa due anni. l’esame obiettivo confermava una riduzione dell’indice di massa corporea (26,3 kg/m2), mentre la pressione arteriosa risultava nei limiti della norma (115/70 mmhg). la terapia antiretrovirale in corso era stata modificata con tenofovir/emtricitabina (nella coformulazione) associati ad atazanavir/ritonavir e gli esami ematici evidenziavano una viremia plasmatica costantemente soppressa con assetto immunologico stabile (hiv rna < 50 copie/ml; conta linfociti t cd4+ = 818 cellule/mm3, pari al 32%) con colesterolemia ai limiti superiori della norma (colesterolo totale = 211 mg/dl; colesterolo hdl = 42 mg/dl; colesterolo ldl = 128 mg/dl) e persistente ipertrigliceridemia (325 mg/dl). nel trattamento ipolipemizzante si associò allora a pravastatina una terapia con esteri etilici di acidi grassi poliinsaturi (3 g/die). il rischio di infarto miocardico a 10 anni secondo l’equazione di framingham [1] era ora del 4%. nel settembre 2008 gli esami ematici evidenziavano una riduzione della concentrazione plasmatica dei trigliceridi (227 mg/dl), ma la persistenza di lieve ipercolesterolemia (colesterolo totale = 224 mg/dl; colesterolo hdl = 46 mg/dl; colesterolo ldl = 135 mg/dl), per cui si incrementò il dosaggio di pravastatina a 80 mg/die. nel dicembre 2008 il paziente si recava al pronto soccorso del nostro policlinico per la comparsa da 12 ore di tachipnea, dispnea generale risultava negativo, la pressione arteriosa era nei limiti di normalità (125/80 mmhg), ma si apprezzava una condizione di evidente sovrappeso (indice di massa corporea – bmi – pari a 29,5 kg/m2). per il grave deficit immunitario nell’aprile 2000 si iniziava la terapia antiretrovirale con zidovudina, lamivudina e indinavir. tra il 2000 e il 2005 si modificava più volte il regime antiretrovirale in corso per la comparsa di effetti collaterali. la terapia con zidovudina, lamivudina e indinavir veniva modificata nel 2003 per l’insorgenza di colica renale con nefrolitiasi, sostituendo indinavir con saquinavir/ritonavir; questo schema veniva poi semplificato nel 2004 sostituendo saquinavir/ritonavir con efavirenz e nuovamente modificato dopo tre mesi sostituendo efavirenz con lopinavir/ ritonavir per la persistenza di vertigini e insonnia. nel 2005 la terapia era nuovamente modificata con tenofovir, lamivudina e atazanavir/ritonavir per la comparsa di diarrea persistente e ipertrigliceridemia imputabili a lopinavir/ritonavir. durante questi anni si era riscontrato un graduale aumento della conta linfocitaria con replicazione virale costantemente soppressa. nel luglio 2006, all’età di 46 anni, il paziente era sempre asintomatico e in terapia con tenofovir, lamivudina e atazanavir/ r itonavir. l’esame obiettivo generale confermava la presenza di sovrappeso (bmi = 29,7 kg/m2) ed evidenziava una pressione arteriosa ai limiti superiori della norma (140/85 mmhg). gli esami ematici dimostravano una completa e persistente risposta immuno-virologica alla terapia antiretrovirale (conta linfociti t cd4+ = 644 cellule/mm3, pari al 29%; hiv rna < 50 copie/ml), ma evidenziavano la comparsa di un’iperlipidemia mista (colesterolo totale = 242 mg/dl; colesterolo hdl = 35 mg/dl; colesterolo ldl = 151 mg/dl; trigliceridi = 276 mg/dl), che non era presente all’inizio della terapia antiretrovirale. il rischio di infarto miocardico acuto nei successivi 10 anni, calcolato secondo lo score di framingham [1], era pari al 21% e collocava dunque il paziente nella fascia di massimo della dislipidemia in questa tipologia di pazienti, ricorrendo se necessario all ’uso di farmaci ipolipemizzanti efficaci e con basso rischio di interazioni farmacocinetiche con gli agenti antiretrovirali ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 111 l. calza per tale motivo si decise di modificare la terapia ipolipemizzante sostituendo pravastatina con rosuvastatina (5 mg/die, dosaggio aumentato dopo 4 settimane a 10 mg/die). nel marzo 2009 il paziente si presentò alla visita di controllo apparendo in buone condizioni generali e completamente asintomatico. l’indice di massa corporea era pari a 25,5 kg/m2 e la pressione arteriosa era nella norma (110/75 mmhg). gli esami laboratoristici di controllo evidenziarono la completa normalizzazione dei parametri lipidici plasmatici (colesterolo totale = 176 mg/dl; colesterolo hdl = 45 mg/dl; colesterolo ldl = 89 mg/dl; trigliceridi = 175 mg/dl), così come risultavano nella norma la creatina-fosfochinasi (cpk) e gli indici di funzionalità epatica e renale. nel marzo 2010, dopo 15 mesi dall’inizio della terapia ipolipemizzante con rosuvastatina, il paziente si presentava sempre asintomatico, in condizioni cliniche stabili, senza alcun evento avverso riconducibile alla terapia farmacologica in corso. gli esami di laboratorio, oltre a confermare la persistente soppressione della viremia plasmatica con costante incremento della conta dei linfociti t cd4+, dimostravano un assetto lipidico stabile con concentrazione di colesterolo e trigliceridi nella norma, oltre alla persistente normalità degli indici di funzionalità epatorenale e della cpk. la determinazione della concentrazione di valle (ctrough) di atazanavir, effettuata con cromatografia liquida abbinata alla spettrometria di massa (hplc/ ms-ms), risultò pari a 221 ng/ml, ovvero entro il range terapeutico suggerito dagli studi di farmacocinetica relativi a questo farmaco [3]. e dolore toracico ingravescenti. gli esami laboratoristici e l’elettrocardiogramma evidenziavano un infarto miocardico acuto a sede inferiore, per cui si disponeva il ricovero nel reparto di terapia intensiva cardiologica. la coronarografia dimostrava una placca fissurata con trombosi parietale del ramo interventricolare anteriore e una subocclusione della coronaria destra, che vennero trattate con angioplastica percutanea e posizionamento di stent. gli esami ematochimici effettuati durante il ricovero evidenziavano: conta linfociti t cd4+ = 751 cellule/mm3 (pari al 31%); hiv rna < 50 copie/ml; colesterolo totale = 210 mg/dl; colesterolo hdl = 41 mg/dl; colesterolo ldl = 113 mg/dl. dopo 12 giorni di ricovero il paziente fu dimesso in buone condizioni generali con la seguente terapia: ticlopidina, isosorbide dinitrato, atenololo, ramipril/idroclorotiazide, tenofovir/emtricitabina, atazanavir/ritonavir, pravastatina (80 mg/die), esteri etilici di acidi grassi polinsaturi (3 g/die). nel gennaio 2009 il paziente si presentò alla visita di controllo nel nostro ambulatorio. l’esame obiettivo generale non evidenziava segni particolari, l’indice di massa corporea era pari a 25,9 kg/m2 e la pressione arteriosa era nella norma (110/80 mmhg). gli esami di laboratorio confermarono un’ottima risposta immuno-virologica alla terapia antiretrovirale (conta linfociti t cd4+ = 894 cellule/ mm3, pari al 34%; hiv rna < 50 copie/ ml), mentre l’assetto lipidico plasmatico evidenziava un valore di colesterolo ldl (120 mg/dl) superiore a quello auspicabile in un paziente con precedente infarto miocardico acuto (< 100 mg/dl), oltre alla persistenza di modesta ipertrigliceridemia (217 mg/dl). figura 1 andamento temporale dei parametri immunovirologici del paziente (conta dei linfociti t cd4+ e hiv rna) 0 200 400 600 800 1.000 mar-00 lt cd 4+ (c el lu le /m m )3 lt cd4 hiv rna mar-06 lug-06 mar-08 set-08 dic-08 0 30 60 120 150 hiv rna (copie/m lx 1.000) 90 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3)112 uso di rosuvastatina per l’ipercolesterolemia da inibitori della proteasi in un paziente con infezione da hiv studi di coorte e osservazionali hanno infatti dimostrato un significativo aumento dell’incidenza di infarto miocardico acuto e malattie cerebrovascolari nei suddetti pazienti in associazione a una prolungata esposizione alla terapia antiretrovirale di combinazione, anche se il rischio assoluto di complicanze cardiovascolari rimane contenuto e certamente controbilanciato dagli indubbi vantaggi indotti dalla terapia in termini di riduzione della mortalità per aids [6-8]. anche se la correzione della dieta e dello stile di vita rimane l’intervento primario e imprescindibile nel caso di significativa iperlipidemia associata all’haart, l’inizio di una terapia farmacologica ipolipemizzante diviene necessario nei soggetti con iperlipidemia marcata e persistente, qualora anche la modifica dello schema antiretrovirale in corso (ricorrendo a farmaci con un minore impatto sul profilo lipidico) sia inefficace o non praticabile. la scelta del farmaco ipolipemizzante più appropriato in questi pazienti si rivela però alquanto difficoltosa per il rischio di interazioni farmacologiche con gli agenti antiretrovirali (in particolare con i pi) e di una minore aderenza del paziente a schemi posologici sempre più complessi. gli inibitori della 3-idrossi-3-metilglutaril coenzima a (hmg-coa) reduttasi, o statine, sono i farmaci di prima scelta nel trattamento dell’ipercolesterolemia e dell’iperlipidemia mista, risultando efficaci nella popolazione generale nel ridurre significativamente la concentrazione plasmatica di colesterolo totale e ldl e, di conseguenza, l’incidenza di eventi coronarici. alcuni di questi composti, tuttavia, essendo metabolizzati prevalentemente dal citocromo l’andamento nel tempo dei parametri immuno-virologici e lipidici del paziente è rappresentato nelle figure 1 e 2. discussione il riscontro di iperlipidemia è un evento avverso molto frequente nei pazienti con infezione da virus dell’immunodeficienza umana (hiv ) sottoposti a terapia antiretrovirale altamente attiva (haart). l’iperlipidemia può essere rappresentata da ipertrigliceridemia, da ipercolesterolemia o da entrambe queste alterazioni, e si associa spesso ad anomalie del metabolismo glucidico (insulino-resistenza, ridotta tolleranza al glucosio e diabete mellito) e a una ridistribuzione del tessuto adiposo corporeo, configurando la cosiddetta sindrome lipodistrofica. queste alterazioni metaboliche e morfologiche possono essere osservate in associazione alla terapia con tutti i farmaci antiretrovirali, ma specialmente con alcuni inibitori nucleosidici della transcrittasi inversa o nrti (stavudina, didanosina, zidovudina) e con gli inibitori della proteasi o pi [4,5]. poiché l’introduzione dell’haart nella pratica clinica a partire dal 1996 ha notevolmente ridotto la mortalità per sindrome da immunodeficienza acquisita (aids) e sensibilmente prolungato l’aspettativa media di vita dei pazienti con infezione da hiv, la persistenza di queste alterazioni del metabolismo lipidico e glucidico può influire sulla prognosi a lungo termine dei pazienti hiv-positivi, favorendo in particolare l’insorgenza di malattie cardiovascolari. recenti figura 2 andamento temporale della concentrazione dei parametri lipidici del paziente (colesterolo ldl e trigliceridi) 0 50 100 200 250 400 mar-06mar-05mar-04mar-03mar-01mar-00 350 mar-02 co nc en tr az io ne (m g/ dl ) mar-07 mar-08 mar-09 mar-10 300 150 colesterolo ldl trigliceridi ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 113 l. calza dopo un follow-up di 12 mesi, tutti e tre i trattamenti risultavano ben tollerati, ma quello con rosuvastatina aveva prodotto una riduzione significativamente maggiore dei livelli di colesterolo totale e ldl [14]. un recente studio randomizzato ha valutato a confronto una terapia con rosuvastatina (10 mg/die) e con pravastatina (40 mg/die) in 83 pazienti hiv-positivi in trattamento con inibitori della proteasi e iperlipidemia. dopo 45 giorni di terapia con le statine, nel gruppo di rosuvastatina si è osservata anche in questo studio una riduzione significativamente maggiore delle concentrazioni di colesterolo ldl e trigliceridi, con un profilo di eventi avversi sovrapponibile nei due gruppi [15]. alcuni studi di farmacocinetica hanno però evidenziato potenziali interazioni di rosuvastatina con alcuni inibitori della proteasi. in particolare sono stati evidenziati significativi incrementi delle concentrazioni plasmatiche di questa statina (cmin, cmax e auc) quando assunta in associazione a lopinavir/ritonavir [16,17], atazanavir/ritonavir [18] e tipranavir/ritonavir [19], mentre i livelli plasmatici degli inibitori della proteasi non hanno subìto rilevanti modificazioni in associazione alla statina. a questo proposito sembra dunque opportuno raccomandare di usare con cautela rosuvastatina nei pazienti in terapia con inibitori della proteasi, iniziando sempre con bassi dosaggi (5 mg/ die, con graduale incremento ma senza mai superare i 10-20 mg/die) e monitorando frequentemente l’eventuale insorgenza di eventi avversi (tra cui soprattutto l’aumento dei livelli sierici della cpk). le possibili interazioni tra rosuvastatina e inibitori della proteasi sono probabilmente riconducibili non agli isoenzimi cyp3a4 o cyp2c9, ma al sistema dei trasportatori di membrana degli anioni organici (organic anion transporting polypeptide 1b1, oatp1b1). oatp1b1 è un trasportatore localizzato sulla membrana basolaterale degli epatociti coinvolto nel trasporto all’interno di queste cellule di numerosi farmaci, tra i quali statine e inibitori della proteasi [20]. la rimozione delle statine dal plasma e la loro azione farmacologica all’interno degli epatociti dipende dunque dal corretto funzionamento di questo trasportatore. alcuni inibitori della proteasi, come ritonavir, inibiscono l’attività dell’oatp1b1, e, di conseguenza, ostacolano il trasporto negli epatociti delle statine, riducendo così la loro efficacia clinica e causando un aumento dei p450 3a4 epatico, presentano il rischio di rilevanti interazioni farmacocinetiche con altri farmaci metabolizzati attraverso la stessa via, tra i quali gli inibitori della proteasi. per tale motivo statine quali simvastatina e lovastatina sono controindicate nei pazienti in terapia antiretrovirale con inibitori della proteasi, mentre statine quali pravastatina e fluvastatina (che presentano una diversa via metabolica) possono essere utilizzate anche in associazione ai suddetti farmaci [9]. recentemente un nuovo composto di questa classe, pitavastatina, è stato approvato negli stati uniti dalla food and drug administration per l’uso clinico. negli studi di registrazione pitavastatina ha evidenziato una buona efficacia clinica associata a una soddisfacente tollerabilità, anche se dovrà essere ulteriormente valutata sotto il profilo delle interazioni farmacocinetiche [10]. rosuvastatina è un composto ipolipemizzante di sintesi appartenente alla classe delle statine e introdotto in commercio nel 2004 che ha evidenziato in vitro e in vivo una potente inibizione competitiva della hmg-coa reduttasi. negli studi clinici questa statina ha dimostrato un’efficacia nella riduzione del colesterolo totale e ldl significativamente superiore a quella evidenziata da dosaggi equivalenti di atorvastatina, simvastatina e pravastatina, in associazione a evidenti riduzioni del livello dei trigliceridi e aumenti di quello del colesterolo hdl. anche la sua tollerabilità è risultata generalmente buona e sovrapponibile a quella delle altre statine, mentre rari casi di rabdomiolisi sono stati descritti in pazienti con nefropatie croniche e a dosaggi elevati (80 mg/die) [11,12]. poiché rosuvastatina non è metabolizzata dagli isoenzimi del citocromo p450 3a4 (cyp3a4), ma solo in minima parte da quelli del citocromo 2c9 (cyp2c9), non sono attese significative interazioni farmacocinetiche con composti metabolizzati in prevalenza attraverso questa via, tra i quali gli inibitori della proteasi. a tale riguardo, rosuvastatina acquista un notevole interesse per il trattamento dell’ipercolesterolemia nei pazienti hiv-positivi in terapia antiretrovirale [13]. uno studio clinico randomizzato condotto su 85 pazienti hiv-positivi in terapia con inibitori della proteasi e affetti da ipercolesterolemia ha confrontato efficacia e sicurezza di un trattamento ipolipemizzante con rosuvastatina (10 mg/die), pravastatina (20 mg/die) o atorvastatina (10 mg/die). ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3)114 uso di rosuvastatina per l’ipercolesterolemia da inibitori della proteasi in un paziente con infezione da hiv le potenziali complicanze cardiovascolari a lungo termine a essa correlate. il trattamento farmacologico dell’ipercolesterolemia in questi pazienti impone in primis l’uso di statine che, per la loro via metabolica, presentino un basso rischio di interazioni farmacocinetiche con i suddetti farmaci, quali pravastatina e fluvastatina. nel caso in cui queste si rivelino inefficaci, può essere considerato il ricorso ad atorvastatina o a rosuvastatina a basso dosaggio, che hanno evidenziato un più marcato effetto ipolipemizzante. l’uso di rosuvastatina va però effettuato con cautela (utilizzando dosaggi non superiori a 10-20 mg/die) e richiede un frequente monitoraggio degli eventuali eventi avversi (tra cui soprattutto tossicità epatica e tossicità muscolare con aumento della cpk) per il possibile incremento dei livelli plasmatici del farmaco quando associato alla terapia con inibitori della proteasi. le statine consigliate in associazione alla terapia antiretrovirale, con i relativi dosaggi raccomandati, sono elencate nella tabella i. disclosure l’autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. loro livelli plasmatici e del rischio di tossicità [16,20]. nel caso clinico da noi descritto, l’ipercolesterolemia associata alla terapia con inibitori della proteasi in un paziente con elevato rischio cardiovascolare (pregresso infarto miocardico acuto) non era adeguatamente controllata con una statina abitualmente utilizzata nei pazienti in terapia antiretrovirale (pravastatina) a dosaggio pieno (80 mg/die). solo l’introduzione di rosuvastatina al dosaggio di 10 mg/die ha consentito di ridurre significativamente i livelli sierici di colesterolo totale e ldl riportandoli al di sotto dei valori considerati ottimali nei soggetti con questo tipo di rischio cardiovascolare. l’uso di rosuvastatina a questo dosaggio è risultato, oltre che pienamente efficace, ben tollerato dopo oltre un anno di trattamento, senza il riscontro di eventi avversi rilevanti (tra cui innalzamenti del valore sierico della cpk). conclusioni il profilo lipidico plasmatico (colesterolo totale, ldl, hdl e trigliceridi) deve essere periodicamente monitorato nei pazienti con infezione da hiv in terapia antiretrovirale per la frequente insorgenza di iperlipidemia associata agli inibitori della proteasi e per farmaco dosaggio (mg/die) dosaggio consigliato in associazione con pi nnrti pravastatina 20-80 considerare il dosaggio più elevato considerare il dosaggio più elevato fluvastatina 20-80 considerare il dosaggio più elevato considerare il dosaggio più elevato atorvastatina 10-80 usare un basso dosaggio (10-40 mg/die) considerare il dosaggio più elevato rosuvastatina 5-40 usare un basso dosaggio (5-20 mg/die) usare un basso dosaggio (5-20 mg/die) simvastatina 10-80 controindicata considerare il dosaggio più elevato tabella i statine consigliate per il trattamento dell ’ipercolesterolemia nei pazienti con infezione da hiv in terapia antiretrovirale [21] nnrti = inibitori non-nucleosidici della transcrittasi inversa; pi = inibitori della proteasi bibliografia risk assessment tool for estimating 10-year risk of developing hard chd (myocardial 1. infarction and coronary death). disponibile su: http://hp2010.nhlbihin.net/atpiii/calculator. asp?usertype=prof grundy sm, cleeman ji, merz cn, brewer hb jr, clark lt, hunninghake db et al. implications 2. of recent clinical trials for the national cholesterol education program adult treatment panel iii guidelines. j am coll cardiol 2004; 44: 720-32 cleijsen rm, van de ende me, kroon fp, lunel fv, koopmans pp, gras l et al3. . therapeutic drug monitoring of the hiv protease inhibitor atazanavir in clinical practice. j antimicrob chemother 2007; 60: 897-900 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 115 l. calza behrens g, dejam a, schmidt h, balks hj, brabant g, körner t et al. impaired glucose 4. tolerance, beta cell function and lipid metabolism in hiv patients under treatment with protease inhibitors. aids 1999; 13: 63-70 graham nm. metabolic disorders among hiv-infected patients treated with protease inhibitors: 5. a review. j acquir immune defic syndr 2000; 25(suppl 1): s4-s11 mary-krause m, cotte l, simon a, partisani m, costagliola d; clinical epidemiology group 6. from the french hospital database. increased risk of myocardial infarction with duration of protease inhibitor therapy in hiv-infected men. aids 2003; 17: 2479-86 dad study group. class of antiretroviral drugs and the risk of myocardial infarction. 7. n engl j med 2007; 356: 1723-35 iloeje uh, yuan y, l’italien g, mauskopf j, holmberg sd, moorman ac et al. protease 8. inhibitor exposure and increased risk of cardiovascular disease in hiv-infected patients. hiv med 2005; 6: 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un’infezione da hbv poiché i marcatori roberto manfredi 1 introduzione una clearance spontanea del virus hcv viene osservata essenzialmente entro alcuni mesi dall’infezione acuta in soggetti altrimenti sani e mono-infetti con il solo virus hcv, ma rappresenta un evento estremamente raro in corso di epatopatia cronica attiva, e costituisce un reperto pressoché eccezionale in pazienti co-infetti da lungo tempo con hcv e hiv. questa tendenza evolutiva sfavorevole della co-infezione hiv-hcv è stata attribuita per lo più allo stato di immunodeficienza hiv-correlato, sebbene le reciproche interazioni virologiche e immunologiche tra hiv e hcv, così come gli effetti reciproci dei rispettivi trattamenti antivirali, non siano stati finora completamente chiariti [1-4]. come oggetto di discussione, presentiamo un raro caso clinico di clearance spontanea, mantenutasi nel tempo, dell’infezione da hcv, intervenuta in un ex-tossicodipendente cronicamente infetto da hiv e hcv da oltre venti anni, e mai sottoposto ad alcuna eliminazione spontanea del virus dell’epatite c (hcv) in un paziente hiv positivo cronicamente infetto da hcv abstract we report an exceptional case of resolution of hcv infection in a hiv-infected patient. the patient, a 49-year-old male with history of drugs addiction, suffered from an evolutive liver disease never treated with specific anti-hcv compounds during two decades. the case report highlights a rare phenomenon, seldom reported in medical literature (a pubmed search retrieved only 8 similar cases), and underlines the importance of a deeper investigation of all the virologic, immunological, pathogenetic, and therapeutic implications. keywords: hiv-hcv co-infection, spontaneous clearance of hcv vir us, haart, compliance unexpected spontaneous remission of hcv in a patient with chronic hiv infection cmi 2010; 4(1): 19-24 1 dipartimento di medicina interna, invecchiamento, e malattie nefrologiche, divisione di malattie infettive, “alma mater studiorum” università di bologna, policlinico s. orsola-malpighi, bologna corresponding author prof. roberto manfredi malattie infettive, policlinico s. orsola via massarenti 11 – 40138 bologna tel.: 051-6363355 fax: 051-343500 roberto.manfredi@unibo.it caso clinico perché descriviamo questo articolo per evidenziare un caso di eliminazione spontanea del virus dell’epatite c (hcv ) in un paziente hiv-positivo cronicamente infetto da hcv, descrivendo il possibile ruolo dell ’aderenza e di una terapia antiretrovirale efficace clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 20 eliminazione spontanea del virus dell’epatite c (hcv) in un paziente hiv positivo cronicamente infetto da hcv sierologici risultavano negativi. a partire dal 1990, a seguito del deterioramento del quadro immunologico conseguente alla progressione dell’infezione da hiv (come espresso da una conta assoluta dei t-linfociti cd4+ scesa al di sotto di 250 cellule/µl), veniva intrapresa una terapia antiretrovirale con singoli-duplici analoghi nucleosidici, fino alla sopraggiunta disponibilità, nell’anno 1996, delle terapie antiretrovirali altamente attive (highly active antiretroviral therapy, haart), che consentiva il passaggio a triplici combinazioni (i diversi farmaci e combinazioni sono riassunti in tabella i). l’aderenza del paziente ai regimi haart è stata sempre incompleta, come valutato sulla base di quanto spontaneamente riportato, della consegna dei farmaci effettuata a cadenza mensile presso i nostri servizi, e dai questionari di aderenza auto-riportati. contro ogni raccomandazione dei medici curanti, fino a un anno fa il nostro paziente ha continuato ad abusare di alcolici e ha fatto uso saltuario di eroina ev, nonostante il programma sostitutivo metadonico in corso. come atteso, fino a 16 mesi fa il nostro paziente si è sempre mantenuto viremico per hiv, nonostante la conta dei t-linfociti cd4+ sia rimasta pari a circa 300 cellule/ µl. per quanto concerne gli indici di citolisi epatica, i livelli sierici di transaminasi, pur mostrando significative oscillazioni tra i diversi controlli laboratoristici, effettuati a distanza minima di tre mesi uno dall’altro, restavano sempre 2,0-3,5 volte più elevati rispetto ai valori normali (seppure in assenza di significativi episodi di flare-up), mentre gli indici virologici di replicazione del virus hcv appartenente al genotipo 1a mostravano un’infezione sempre attiva, come confermato da livelli di hcvrna quantitativo compresi tra 1.200 e 4.000 x 103 ui/ml. nel corso degli ultimi 13 mesi, il paziente abbandonava in un primo tempo il regime terapeutico comprendente i due precedenti analoghi nucleosidici (zidovudina-lamivudina) e l’inibitore non-nucleosidico della trascrittasi inversa (nevirapina), a seguito del rilievo di resistenza genotipica a nevirapina e a lamivudina, e ritornava ad assumere un regime basato su potenti inibitori delle proteasi (introducendo lopinavir-ritonavir). in seguito veniva modificato il backbone nucleos(t)idico (grazie all’inserimento di tenofovir-emtricitabina), e dopo ulteriori 9 mesi il terzo agente veniva modificato, con l’introduzione di fosamprenavir-ritonavir (supportato dalla stessa combinazione fissa di analoghi nucleos(t)idici), a causa di intolleranza gastrointestinale, elevata ipertrigliceridemia non controllabile con farmaci ipolipidemizzanti, e peggioramento del quadro di steato-epatite diagnosticato al controllo ultrasonografico addominale effettuato su base annuale (che dimostrava tra l’altro incremento dimensionale di fegato e milza, con parenchima epatico di aspetto granuloso e aumentata densità). già a seguito dell’introduzione nella haart di lopinavir-ritonavir e del nuovo backbone nucleos(t)idico, si ottenevano per la prima volta livelli stabilmente non rilevabili di hiv-rna (< 50 copie/ml), mentre la conta assoluta dei t-linfociti cd4+ raggiungeva, nel corso dei successivi controlli laboratoristici trimestrali, livelli compresi tra 513 e 662 cellule/µl (ossia i valori più elevati registrati nella storia del nostro paziente). grazie al notevole aiuto psicologico dato dalla somministrazione di una terapia efficace e ben tollerata, il paziente dichiarava periodo terapia 1990-1996 zidovudina y zidovudina + zalcitabina y didanosina y zidovudina + lamivudina y 1996*-agosto 2008 lamivudina + stavudina + saquinavir y lamivudina + stavudina + indinavir y zidovudina + lamivudina + efavirenz y lamivudina + stavudina + efavirenz y lamivudina + didanosina + nelfinavir y lamivudina + zidovudina + nevirapina y lamivudina + zidovudina + lopinavir + ritonavir y novembre 2007 lamivudina + zidovudina + nevirapina y settembre 2008-gennaio 2009 lamivudina + tenofovir + lopinavir + ritonavir y gennaio 2009-ottobre 2009 tenofovir + emtricitabina + fosamprenavir + ritonavir y tabella i schemi terapeutici a cui è stato sottoposto il paziente * anno di introduzione in commercio delle terapie antiretrovirali altamente attive (haart) clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 21 r. manfredi s p o r a d i c a m e n t e s i n g o l i c a s e r e p o r t riguardanti i livelli di viremia da hcv non evidenziabili in pazienti co-infetti con hiv e hcv in assenza di qualsivoglia trattamento specifico per hcv [6-12]. nella maggioranza di questi casi, gli autori hanno ipotizzato un ruolo diretto (o ancor meglio indiretto) giocato dall’introduzione e/o dalla modifica della terapia antiretrovirale, sebbene non siano state notate correlazioni con l’impiego di singoli, specifici farmaci e associazioni anti-hiv. la concomitanza di un consistente recupero immunologico (come avvenuto nel caso qui descritto) è stata spesso menzionata tra i fattori potenzialmente in grado di supportare tale evento. tale evento è stato posto in relazione alla “storica” attribuzione di un ruolo determinante dell’immunodeficienza hiv-correlata come supporto alla peggiore prognosi dell’infezione cronica da hcv nel sottogruppo di pazienti co-infetti con hiv e hcv. uno studio condotto da martín-carbonero e colleghi ha attribuito i casi di apparente, spontanea clearance di un’infezione da hcv contratta recentemente da pazienti hiv-positivi trattati con regimi haart con compresenza di diverse infezioni virali croniche, comprese le epatiti da hbv e da hcv, al ben noto fenomeno dell’interferenza virale, che può favorire l’eliminazione del virus hcv in questo particolare cluster di soggetti [13]. tuttavia studi successivi, relativi a pazienti hiv-positivi affetti anche da duplici o triplici epatopatie virali croniche (da hbv, hdv, e hcv ), non hanno confermato tale ipotesi [14]. venendo all’eventuale ruolo giocato dagli inibitori delle proteasi di hiv (che sono stati parte degli ultimi due regimi terapeutici haart introdotti dal nostro paziente con aderenza adeguata, immediatamente prima e durante l’avvenuta clearance del virus hcv ), in letteratura vi sono evidenze scarse o nulle relative all’attività in vitro nei confronti delle proteasi del virus hcv (a prescindere dal genotipo virale in causa), sebbene alcuni degli studi pubblicati siano stati condotti su soggetti hiv-positivi con immunodepressione grave, con una conta media dei t-linfociti cd4+ inferiore a 50 cellule/µl [15]. alcune esperienze preliminari condotte in vivo hanno descritto un miglioramento iniziale, seguito da un peggioramento tardivo degli indici di citolisi epatica e dei livelli di viremia di hcv in pazienti co-infetti con hiv e hcv, tratun’aderenza migliorata fino a raggiungere il 100% delle dosi dei farmaci prescritti, come valutato con l’ausilio degli indicatori precedentemente menzionati. sorprendentemente, proprio quando il nostro paziente, divenuto aderente alla terapia haart, accettava di sottoporsi anche a una serie completa di accertamenti preliminari all’inizio di una terapia specifica per l’epatopatia cronica attiva da hcv (terapia sempre rifiutata nel passato, nonostante le raccomandazioni dei medici), sia la viremia quantitativa sia quella qualitativa per hcv mostravano valori undetectable, parallelamente al primo riscontro di indici di citolisi epatica rientranti nella norma. tali valori restavano immodificati dopo tre mesi di follow-up, a supporto della non rilevabilità del genoma virale di hcv nel siero. discussione la disponibilità dei regimi haart ha modificato profondamente il decorso dell’infezione da hiv, ma ha portato nel contempo a un’emergere indiretto di patologie croniche epatiche di lungo decorso clinico, divenute una causa primaria di morbilità e di mortalità tra i pazienti hiv-positivi co-infetti con virus epatitici hbv/hdv e/o hcv [3]. questo fenomeno è essenzialmente ascrivibile a svariati fattori, tra i quali: una più rapida e severa progressione y dell’epatopatia cronica attiva tipica dei pazienti con malattia da hiv; la f requente epatotossicità dei regimi y haart; la ridotta aderenza dei pazienti hivy positivi a ulteriori terapie antivirali per le epatiti b, d e c; l’aumentata progressione verso malattie y epatiche complicate da cirrosi e/o da epatocarcinoma, ben evidenti quando sono state messe a confronto coorti di pazienti comparabili per età, sesso, e fattori di rischio, comprendenti pazienti co-infetti con hiv, versus soggetti mono-infetti con virus epatitici. nei pazienti con co-infezione hiv-hcv che presentano una risposta favorevole alla terapia condotta con interferoni pegilati e con ribavirina è più difficile raggiungere e mantenere una risposta virologica “sostenuta”, rispetto a quanto accade nei soggetti mono-infetti con hcv [2,5]. in letteratura, a partire dal 1999 (in epoca di haart), sono stati riportati clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 22 eliminazione spontanea del virus dell’epatite c (hcv) in un paziente hiv positivo cronicamente infetto da hcv punti chiave la co-infezione hiv-hcv è considerata a prognosi significativamente peggiore rispetto y alla mono-infezione da hcv la terapia combinata per hiv e per hcv è quindi consigliata (soprattutto nei genotipi y 1 e 4 di hcv ), onde evitare la progressione verso la malattia epatica avanzata, la cirrosi epatica e l ’epatocarcinoma peraltro, la gestione della terapia anti-hcv è ritenuta più complessa e gravata da maggiore y tossicità e da più frequenti interazioni farmacologiche sfavorevoli, in corso di co-infezione con hiv trattata con antiretrovirali la guarigione spontanea di un’epatite cronica evolutiva da hcv inveterata è ritenuta y evento estremamente raro nei pazienti mono-infetti con hcv, e riveste carattere di eccezionalità nei pazienti co-infetti con hiv il caso presentato si presta a numerose considerazioni di carattere virologico (interferenza y tra le due patologire virali croniche, hiv e hcv ), immunologico, patogenetico, e terapeutico in particolare, su questo versante non è finora noto se i farmaci antiretrovirali esercitino y soltanto un’attività indiretta sulle patologie concomitanti grazie al recupero immunologico conseguente al trattamento dell ’infezione da hiv nuovi farmaci antivirali per hcv sono in fase di avanzato sviluppo: alcuni di essi apy partengono alle categorie degli inibitori della polimerasi e degli inibitori delle proteasi, ma gli enzimi “target” di questi farmaci per hcv sono profondamente diversi da quelli del virus hiv li, stanno esplorando lo sviluppo di agenti peptidomimetici candidati ad avere come target comune le proteasi sia di hiv sia di hcv [17]. infine, l’inibitore delle proteasi fosamprenavir (assunto dal nostro paziente nel periodo più recente), possedendo un’elevata attività antiretrovirale congiunta a una modesta epatotossicità, lo rende uno degli agenti di scelta proprio nei soggetti affetti da epatopatia cronica o da cirrosi epatica, nell’ambito della classe degli inibitori delle proteasi [18,19]. in tali pazienti, fosamprenavir può essere somministrato con o senza booster di ritonavir, sebbene le proprietà farmacodinamiche di tale farmaco richiedano talora aggiustamenti posologici, basati su dati di monitoraggio terapeutico (therapeutic drug monitoring, tdm) [18]. d’altro canto, sebbene non ci si attenda che gli inibitori nucleos(t)idici della trascrittasi inversa di hiv possano esercitare attività dirette nei confronti degli indici di replicazione del virus hcv [16], tuttavia nella maggior parte degli otto casi descritti in letteratura è stata sottolineata l’introduzione di un nuovo backbone nucleos(t)idico, rappresentato per lo più dall’associazione fissa tenofovir-emtricitabina; in quest’ultimo caso, si ipotizza che tale backbone possa aver contribuito a una migliorata efficacia e accettazione dell’haart grazie alle sue caratteristiche di elevata attività, eccellente tollerabilità, e favorevole accettazione da tati con regimi haart basati su inibitori delle proteasi [2]. in ogni caso, sulla base dell’attesa espansione della classe degli agenti antivirali inibitori delle proteasi che presentano molteplici meccanismi d’azione in comune tra loro, gli effetti di questi composti sono in fase di studio, sebbene nel campo dell’infezione da hcv l’attività dei composti antiretrovirali sembri essere limitata ad alcune azioni indirette (più che dirette) esercitate sulle complesse dinamiche immunologiche della co-infezione hivhcv. nei casi in cui effetti benefici siano attribuiti al recupero immunologico, questo fenomeno sembra associarsi spesso a uno o più flare-up dei livelli sierici degli enzimi epatici [2,9]; questo non è però successo nel paziente da noi osservato. le proteasi di hcv, così come le polimerasi, rappresentano comunque alcuni dei principali target dei nuovi composti antivirali in fase di avanzato sviluppo per il management dell’epatite cronica da hcv [16]. nonostante la struttura delle proteasi di hcv sia molto differente rispetto a quelle del virus hiv, sono stati invocati meccanismi d’azione indiretti, ivi compresi gli effetti (indesiderati) di questi composti sul metabolismo lipidico, che sembrano a loro volta in grado di influenzare la via di replicazione del virus hcv. ulteriori, recenti ricerche basate su metodiche avanzate di cristallografia a raggi x e su modelli computazionali e conformazionaclinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 23 r. manfredi bibliografia cooper cl, cameron dw. review of the effect of highly active antiretroviral therapy on 1. hepatitis c virus (hcv ) rna levels in human immunodeficiency virus and hcv coinfection. clin infect dis 2002; 35: 873-9 rutschmann ot, negro f, hirschel b, hadengue a, anwar d, perrin lh. impact of treatment 2. with human immunodeficiency virus (hiv ) protease inhibitors on hepatitis c viremia in patients coinfected with hiv. j infect dis 1998; 177: 783-5 koziel mj, peters mg. viral hepatitis in hiv infection. 3. new engl j med 2007; 356: 1445-54 manfredi r. coinfection with hiv and hepatitis c virus and immune restoration. 4. clin infect dis 2006; 42: 298-9 franchini m, mengoli c, 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antiretroviral therapy. j clin virol 2007; 40: 71-3 de rosa fg, audagnotto s, bargiacchi o, garazzino s, aguilar marucco d, veronese l et al. 10. resolution of hcv infection after highly active antiretroviral therapy in a hiv-hcv coinfected patient. j infect 2006; 53: e215-e218 falconer l, gonzalez vd, reichard o, sandberg jk, alaeus a. spontaneous hcv clearance in 11. hcv/hiv-1 coinfection associated with normalized cd4 counts, low level of chronic immune activation and high level of t cell function. j clin virol 2008; 41: 160-3 endo t, fujimoto k, nishio m, yamamoto s, obara m, sato n et al. case report: clearance 12. of hepatitis c virus after changing the haart regimen in a patient infected with hepatitis c virus and the human immunodeficiency virus. j med virol 2009; 81: 979-82 martín-carbonero l, barreiro p, jiménez-galán g, garcía-berriguete r, nuñez m, ríos p et 13. al. clearance of hepatitis c virus in hiv-infected patients with multiple chronic viral hepatitis. j viral hepat 2007; 14: 392-5 parte dei pazienti, con relativi, migliorati livelli di aderenza terapeutica. conclusioni abbiamo ritenuto importante descrivere il presente caso poiché, anche rispetto agli otto casi riportati in letteratura sopra citati [6-12], rappresenta un’osservazione molto rara. per quanto ci è dato di conoscere, infatti, la clearance di un’infezione cronica da hcv di durata ventennale associata a un’epatite cronica attiva sovraccaricata da molteplici fattori di rischio per un’ulteriore progressione (ivi compresi abuso di alcol e droghe, pregressa inadeguata aderenza all’haart per periodi molto prolungati, da cui derivava un’insufficiente risposta immuno-virologica dell’infezione da hiv protrattasi per numerosi anni) non ha equivalenti in letteratura. come ipotesi di ricerche future, potrebbe essere interessante una disamina più ampia sugli eventuali effetti diretti o indiretti dell’haart e dell’aderenza ai regimi haart sull’evoluzione di una concomitante epatopatia cronica da hcv. tale analisi potrebbe contribuire a fare luce su tali problematiche, e a suggerire linee di ricerca di base e applicata rimaste finora in buona parte inesplorate. disclosure l’autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 24 eliminazione spontanea del virus dell’epatite c (hcv) in un paziente hiv positivo cronicamente infetto da hcv maida i, ríos mj, pérez-saleme l, ramos b, soriano v, pegram ps et al. profile of patients 14. triply infected with hiv and the hepatitis b and c viruses in the haart era. aids res hum retroviruses 2008; 24: 679-83 matsiota-bernard p, vrioni g, onody c, bernard l, de truchis p, peronne c. human 15. immunodeficiency virus (hiv ) protease inhibitors have no effect on hepatitis c (hcv ) serum levels of hiv-hcv co-infected patients. int j antimicrob agents 2001; 17: 155-7 liu-young g, kozal mj. hepatitis c protease and polymerase inhibitors in development. 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comprendono le α-talassemie, le δβ-talassemie e le β-talassemie. il trattamento raccomandato per la talassemia major comprende regolari trasfusioni di sangue, con intervalli da due a cinque settimane, per mantenere il livello di emoglobina (hb) pre-trasfusionale al di sopra di 9-10,5 g/dl. questo regime trasfusionale permette una crescita normale, assicura un’attività fisica normale e sopprime adeguatamente l’attività del midollo osseo [1]. tuttavia vi sono casi in cui la trasfusione non risulta praticabile, ad esempio per l’insorgenza di complicanze quali anemia emolitica autoimmune, reazioni avverse, reazioni trasfusionali febbrili non-emolitiche ed emolitiche, ecc. riportiamo qui il caso di una ragazza affetta da β-talassemia (β+/β°) che presentava una situazione clinica molto grave dal momento che non poteva più ricevere ulteriori trasfusioni a causa di pregresse gravi reazioni emolitiche post-trasfusionali e che ha mostrato una risposta eccezionale a talidomide. il caso che descriviamo di seguito è in parte ripreso da una precedente pubblicazione, un caso di beta-talassemia major resistente alle terapie convenzionali abstract we report the case of a 22-year-old woman from albania, with thalassaemia major, in severe clinical condition who could no longer be transfused due to the occurrence of severe, acute, post-transfusional reactions. after 10 years of treatment, she failed to respond to hydroxyurea. when she received thalidomide, haemoglobin levels increased from 3.7 g/dl to 9 g/dl. since then, at 22 months of follow-up, the therapy is still effective and well tolerated. the case gives the opportunity to describe the clinical use of thalidomide, and its potential in the management of beta-thalassaemia. keywords: thalassaemia, thalidomide, foetal haemoglobin a case of beta-thalassaemia major resistant to standard treatment cmi 2010; 4(2): 65-70 1 clinica pediatrica, università di milano bicocca, ospedale san gerardo, monza 2 centro immunotrasfusionale, ospedale san gerardo, monza corresponding author dott.ssa nicoletta masera n.masera@hsgerardo.org caso clinico perché descriviamo questo caso? il caso descritto affronta il problema gravissimo di quelle forme di talassemia che non possono essere trattate con le trasfusioni e che non rispondono alla tradizionale terapia con idrossiurea. talidomide potrebbe rappresentare una valida alternativa terapeutica da prendere in considerazione in queste situazioni, come nel caso qui illustrato clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 66 un caso di beta-talassemia major resistente alle terapie convenzionali a cura degli stessi autori [2], recentemente apparsa su blood transfusion. si è deciso di riproporre il caso, ampliando la sezione di discussione, per portare all’attenzione le complessità di gestione della talassemia nei pazienti non candidabili alla trasfusione, per evidenziare il possibile impiego di talidomide in questi particolari pazienti e per delineare i possibili scenari di ricerca futura in questo ambito. negli ultimi anni, infatti, la ricerca clinica è attiva con lo scopo di aiutare la gestione di questa patologia e migliorare la qualità e l’aspettativa di vita nei pazienti che ne soffrono. i nuovi chelanti orali (deferiprone e deferasirox) hanno rappresentato già un enorme passo avanti nel miglioramento della qualità di vita di quei pazienti che, essendo regolarmente sottoposti a trasfusioni, necessitano di terapia per rimuovere i depositi di ferro dall’organismo, che metterebbero a grave rischio la funzionalità di organi quali fegato e cuore e di conseguenza la vita del paziente. le nuove terapie in studio includono la terapia genica, l’impiego di sostituti artificiali del sangue e l’induzione farmacologica dell’emoglobina fetale (hbf). descrizione del caso la paziente di 22 anni, nata in albania, è affetta da β-talassemia major ivs1-6/ cd44-c. gli svariati tentativi di cura, avvenuti in albania fino all’età di 9 anni, e in seguito in italia dove la paziente si era trasferita, non portarono ad alcun miglioramento (tabella i). all’età di 16 anni, in seguito al tentativo di trasfusione con due unità di globuli rossi scianna-negativi, trovate attraverso la banca del sangue internazionale (american donor program), senza esito positivo, la ragazza venne dichiarata non più trasfondibile. fu quindi posta in terapia con: diuretici, ace-inibitori e digitale per lo y scompenso cardiaco cronico congestizio; farmaci anti-aggreganti per la presenza di y trombocitosi (il numero delle piastrine era 900-1.000 x 109/l); bisfosfonati e calcio per l’osteoporosi y grave; acido folico. y la dose di idrossiurea fu progressivamente aumentata fino a 30-35 mg/kg/die consentendole di mantenere valori di emoglobina tra 5-6 g/dl con un valore di emoglobina fetale del 40%. il quadro clinico rimase stabile (consentendo alla ragazza di camminare per brevi tratti e di frequentare la scuola, sebbene non regolarmente) fino al marzo 2008 (all’età di 20 anni), quando si riscontrò una progressiva diminuzione dei valori dell’emoglobina, che raggiunse un nadir di 3,7 g/dl nel mese di maggio. non c’erano segni d’infezione, ma si rilevava un peggioramento clinico consistente, con scompenso cardiaco grave e un’iniziale edema polmonare. la paziente fu trattata con dosi elevate di diuretico, digitale e ace-inibitori. a questo punto si decise di iniziare il trattamento con talidomide 75 mg/die. tale decisione fu presa sulla base della mancanza di altre opzioni terapeutiche disponibili. si tenne inoltre in considerazione l’efficacia del farmaco rilevata in un caso simile, riportato in letteratura [3]. si fece firmare il consenso informato riguardo alla natura sperimentale del trattamento e ai suoi possibili effetti teratogeni. la paziente fu informata dei rischi in gravidanza e accettò tale limitazione. la dose di idrossiurea fu progressivamente ridotta fino all’interruzione, avvenuta a dicembre 2008. i valori di emoglobina aumentarono progressivamente e rapidamente: hb = 7,2 g/dl a un mese dall’inizio del y trattamento con talidomide; hb = 9,0 g/dl dopo 8 mesi, con un valore y di hbf del 73%. i livelli degli eritroblasti rimasero elevati, nonostante mostrassero una leggera diminuzione (53 x 103/ml). la terapia è stata fino ad ora ben tollerata e non è comparso nessun segno di neuropatia. nell’ottobre 2009, in considerazione di una flessione del valore di hb fino a 7 g/dl, la dose di talidomide è stata incrementata a 100 mg/die con ripresa dei valori di hb. al momento della stesura di questo articolo (marzo 2010) le condizioni cliniche ed ematologiche della paziente sono buone e la terapia cardiologica è stata ridotta in quanto il quadro di scompenso è nettamente migliorato. discussione talidomide è un derivato sintetico dell’acido glutammico che veniva in origine prescritto come antinausea e sedativo, ma che fu poi tolto dal commercio a causa dei suoi clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 67 n. masera, v. decimi, l. tavecchia, m. capra, g. cazzaniga, a. biondi, g. masera gravi effetti teratogeni. tuttavia, in tempi recenti, talidomide è tornata attuale in seguito alla scoperta dei suoi effetti immunomodulatori e antinfiammatori, che hanno aperto la strada al suo impiego in una serie di patologie dermatologiche, autoimmuni, infettive ed ematologiche [4,5]. in particolare il farmaco si è dimostrato efficace nella cura del mieloma multiplo, grazie alla sua attività angiogenica [6]. è pertanto indicato, in associazione a melfalan e prednisone, per il trattamento di i linea di pazienti con mieloma multiplo non idonei a chemioterapia a dosi elevate, sulla base degli esiti di due principali trial [7,8]. alcuni studi hanno evidenziato che talidomide può migliorare l’anemia in pazienti con sindrome mielodisplastica e stimola l’eritropoiesi nei pazienti con mieloma multiplo [9,10]. inoltre è stato visto che talidomide età trattamento note 1 anno trasfusioni ogni 3-4 mesi hb = 5-7 g/dl 4 anni splenectomia 9 anni ripetuti tentativi di trasfusione che però, nonostante non ci fosse incompatibilità trasfusionale dimostrabile, si rivelarono inefficaci a causa della massiva emolisi acuta post-trasfusionale avviato il trattamento con alte dosi di steroidi e ciclofosfamide, senza alcun miglioramento grave anemia con componente emolitica test di coombs diretto e indiretto: assenza di risultati conclusivi per un processo emolitico anticorpo-mediato esiti degli esami: hb = 4,5 g/dl y hbf = 38% y livelli molto bassi di aptoglobina y significativa eritroblastosi; y eritrociti = 320 x 103/ml cardiomiopatia dilatativa y gravi deformità ossee, soprattutto a livello y degli arti inferiori e del volto grave epatomegalia accompagnata da y significativo dolore a livello della loggia epatica 10 anni idrossiurea 10 mg/kg/die esclusa la possibilità di trapianto di midollo osseo da un donatore non consanguineo (entrambi i fratelli erano hla incompatibili) a causa delle condizioni generali molto scadenti della paziente parziale risposta in termini di livelli di emoglobina (hb = 6,5-7 g/dl; hbf = 50%) miglioramento della funzionalità epatica, nonostante gli indici di emolisi rimanessero alti 10 anni-12 anni terapia con immunosopressori (alte dosi di steroidi e ciclofosfoammide), non essendo possibile escludere un’eziologia autoimmune della componente emolitica dell’anemia (la prova di coombs risultò in alcune determinazioni debolmente positiva) e sulla base della gravità del suo stato clinico assenza di risposta 15 anni tre cicli di rituximab nessuna risposta rilevante in termini di livelli di emoglobina dopo un’estesa ricerca immuno-ematologica fu individuato nel siero un allo-anticorpo specifico scianna-1 16 anni trasfusione con due unità di globuli rossi scianna-negativi nessun aumento dei livelli dell’emoglobina induzione di ulteriore emolisi (hb pre-trasfusionale = 5 g/dl; hb post-trasfusionale = 3,5 g/dl) tabella i trattamenti e tentativi trasfusionali a cui è stata sottoposta la paziente dall ’età di 1 anno ai 16 anni e i suoi derivati possono ridurre o, in alcuni casi, eliminare, la necessità di trasfusioni di globuli rossi in alcuni soggetti anemici con mielodisplasia [11]. il meccanismo d’azione del farmaco non è ancora pienamente compreso. i dati provenienti da studi clinici e in vitro indicano che gli effetti possono essere correlati alla capacità di inibire l’iperproduzione del fattore di necrosi tumorale (tnf-alfa), i fattori di crescita endoteliale (vegf) e la sintesi della prostaglandina e2 (pge2) [12-14]. la talassemia è una forma di anemia ereditaria che deriva da un grave difetto di produzione di emoglobina dovuta a un decremento dell’espressione del gene della β-globina. il locus della β-globina umana è composto da una regione di controllo (β-globina lcr), dai geni della ε-globina, dal gene della λ e δ-globina attivi durante la clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 68 un caso di beta-talassemia major resistente alle terapie convenzionali vita fetale, e dal gene della β-globina, attivo dopo la nascita e per tutta la vita adulta. la β-talassemia major è un’anemia ereditaria che deriva da difetti nella produzione della catena β dell’emoglobina. la persistenza di emoglobina fetale (hbf) durante la vita adulta in pazienti con la β-talassemia intermedia riduce la gravità della malattia; questi pazienti hanno un disturbo modesto, e a volte non necessitano nemmeno di trasfusioni croniche. il vantaggio clinico di avere un valore di hbf aumentato, come ipotizzato per la prima volta nel 1976 [15], è dovuto a una diminuzione dello squilibrio fra catene β e non-β e alla conseguente riduzione dell’emolisi. le nuove terapie per la cura di questa patologia si basano proprio sulla comprensione di questo meccanismo di espressione genica: lo scopo dei nuovi farmaci è quello di aumentare la sintesi di hb fetale. molti farmaci sono stati studiati come induttori di hbf per i pazienti con la β-talassemia e l’anemia falciforme. l’idrossiurea è attualmente usata per trattare forme moderate e gravi di anemia falciforme [16] e in alcuni casi di talassemia intermedia [17,18]. altri induttori della sintesi dell’hbf, come butirrato [19], 5-azacitidina [20], e, più recentemente, decitabina, sono stati sperimentati come induttori di hbf in pazienti con anemia falciforme [21]. tuttavia, questi induttori di hbf hanno mostrato soltanto un effetto modesto nella maggior parte dei pazienti affetti da β-talassemia; inoltre si è riscontrato un certo grado di tossicità. di conseguenza non sono utilizzati ordinariamente nella pratica clinica. è stato recentemente dimostrato che talidomide induce l’espressione del gene della γ-globina e aumenta la proliferazione di globuli rossi [22,23]. i meccanismi con i quali talidomide incrementa l’eritropoiesi e induce l’espressione genica della γ-globina e la produzione [22,23] di hbf, come pure il suo possibile effetto sinergico con l’idrossiurea [3], sono stati descritti recentemente, ed è nota l’azione immunomodulante di questo farmaco. è stato suggerito [23,24] un possibile ruolo di talidomide e dei suoi derivati (pomalidomide e lenalidomide) nel trattamento dell’anemia drepanocitica e di altre β-emoglobinopatie, ma l’esperienza clinica è limitata a una giovane donna messicana con la β-talassemia major che ha risposto brillantemente a talidomide [3]. i risultati di un altro articolo suggeriscono che l’induzione di β-globina causata da talidomide possa essere utile nella cura della talassemia [22]. avvertenze per la prescrizione di talidomide com’è noto, gli eventi avversi correlati all’impiego di talidomide, soprattutto in gravidanza, sono particolarmente gravi. per questo motivo molti paesi hanno elaborato sistemi di gestione del rischio e di controllo della prescrizione del farmaco. negli stati uniti, ad esempio, l’impiego del farmaco è regolato dal system for thalidomide education and prescribing safety (steps), programma elaborato in collaborazione con la food and drug administration che supervisiona prescrizione, dispensazione e dosaggio di talidomide attraverso un database di controllo, in modo da verificare e registrare i possibili eventi avversi. in italia per la corretta prescrizione è necessaria la richiesta del consenso informato del paziente. dopo un’attenta valutazione del paziente e una verifica del rischio sulla base della categoria di appartenenza del soggetto (donne potenzialmente fertili, donne non potenzialmente fertili e pazienti di sesso maschile), il medico è tenuto a informare dettagliatamente il paziente sugli effetti teratogeni del farmaco. egli deve inoltre fornire al paziente le seguenti informazioni: l’uso di talidomide è strettamente pery sonale; le capsule non utilizzate vanno restituire y al farmacista; durante la terapia e fino a una settimana y dopo la sua interruzione non si deve donare sangue. nella prescrizione a donne fertili, inoltre, il medico dovrà tener conto di altri fattori. uno dei requisiti fondamentali per la prescrizione del farmaco a questa categoria di pazienti è che la donna abbia adottato un metodo contraccettivo efficace nelle 4 settimane precedenti l’inizio della terapia. se così non fosse, la paziente va indirizzata a un medico specialista, al fine di instaurare un metodo contraccettivo efficace. inoltre prima di iniziare il trattamento è prevista l’esecuzione di un test di gravidanza che accerti l’assenza di gravidanza. infine la somministrazione del farmaco va limitata a 4 settimane per le donne potenzialmente fertili e a 12 settimane per gli altri pazienti; la continuazione del trattamento richiede una nuova prescrizione. clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 69 n. masera, v. decimi, l. tavecchia, m. capra, g. cazzaniga, a. biondi, g. masera conclusioni nel caso osservato la paziente, in seguito al trattamento con talidomide, ha ottenuto un notevole incremento della produzione di hbf (da 3,7 a 9 g/dl) e un incremento nei livelli totali di emoglobina (dal 40% al 73%). questi dati, insieme a quelli emersi da un precedente caso clinico [3], portano a concludere che la terapia con talidomide può essere presa in considerazione, come trattamento di tipo sperimentale e sotto attento monitoraggio, in quei casi di talassemia che non possono essere trattati con terapia trasfusionale e non rispondono a idrossiurea. questi risultati, inoltre, potrebbero aprire la strada a studi più approfonditi sull’impiego del farmaco in questo ambito. saranno necessari estesi studi biologici e clinici per definire il potenziale utilizzo di talidomide nella talassemia e in altre emoglobinopatie e per valutare e controllare i suoi possibili effetti collaterali. in un ambito come questo, lo studio di nuovi agenti farmacologici può rappresentare una speranza per quei pazienti la cui sopravvivenza dipende dal possibile impiego di farmaci che rendano trasfusioni e terapia chelante non più necessarie [25]. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. bibliografia aa.vv. linee guida per il trattamento clinico della talassemia. napoli: gruppo editoriale 1. idelson-gnocchi, 2003 masera n, tavecchia l, capra m, cazzaniga g, vimercati c, pozzi l et al. optimal response 2. to thalidomide in a patient with thalassaemia major resistant to conventional therapy. blood transfus 2010; 8: 63-5 aguilar-lopez lb, delgado-lamas jl, rubio-jurado b, perea fj, ibarra b. thalidomide therapy 3. in a patient with thalassemia major. blood cells mol dis 2008; 41: 136-7 eriksson t, bjorkman s, hoglund p. clinical pharmacology of thalidomide. 4. eur j clin pharmacol 2001; 57: 365-76 keifer ja, guttridge dc, ashburner bp, baldwin as jr. inhibition of nf-kappa b activity by 5. thalidomide through suppression of ikappab kinase activity. j biol chem 2001; 276: 22382-7 singhal s, mehta j, desikan r, ayers d, roberson p, eddlemon p et al. antitumor 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induction of cyclooxygenase-2. clin cancer res 2001; 7: 3349-55 wood wg, weatherall dj, clegg jb. interaction of heterocellular hereditary persistence of foetal 15. haemoglobin with beta thalassaemia and sickle cell anaemia. nature 1976; 264: 247-9 charache s, terrin ml, moore rd, dover gj, barton fb, eckert sv et al. effect of hydroxyurea 16. on frequency of painful crises in sickle cell anaemia. n engl j med 1995; 332: 1317-22 fucharoen s, siritanaratkul n, winichagoon p, chowthaworn j, siriboon w, muangsup w et 17. al. hydroxyurea increases hemoglobin f levels and improves the effectiveness of erythropoiesis in beta-thalassemia/hemoglobin e disease. blood 1996; 87: 887-92 hajjar fm, pearson ha. pharmacologic treatment of thalassemia intermedia with hydroxyurea. 18. j pediatr 1994; 125: 490-2 candido ep, reeves r, davie jr. sodium butyrate inhibits histone deacetylation in cultured 19. cells. cell 1978; 14: 105-13 ley tg, de simone j, anagnou np, keller gh, humphries rh, turner ph et 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thalassaemia: novel achievements. 25. blood transfus 2010; 8: 5-7 cmi 2023;17(1)25-39.html febbre di origine ignota in paziente trattato con il bacillo di calmette-guérin (bcg) per carcinoma uroteliale vescicale in situ paolo ghiringhelli 1, federica macchi 1, mariella ciola 1, girolamo sala 1, beatrice valvo 1, andrea agostinelli 1, lorenzo bellintani 1, gaetano emanuele rizzo 1, michela provisione 1, michela zaza 1, alessandro diana 1, maurizio ferrarese 2 1 medicina interna ospedale di busto arsizio, asst valle olona, italia 2 tisiologia, ospedale niguarda, milano, italia abstract koch’s bacillus bovis (mycobacterium bovis) was made avirulent by special culture conditions, i.e., 230 passages on medium containing potatoes treated with bile salts. it has been used mainly to prevent tuberculosis. the vaccine was named after the bacteriologist albert calmette and the veterinarian camille guérin, i.e., bacillus calmette-guérin (bcg). these researchers worked at the pasteur institute in lille and launched the vaccine in 1921. recently, bcg was used also for its non-specific immunostimulant action. intravesical administration of bcg is an adjunctive therapy for the treatment of bladder cancer, which does not invade the muscle wall. we will discuss the clinical case of a patient who had fever of unknown origin for about 2 months and was resistant to treatment with multiple lines of antibiotics. keywords: fever of unknown origin; mycobacterimun bovis; bacillus calmette-guérin; urothelial vesical carcinoma fever of unknown origin in a patient administered with bacillus calmette-guérin (bcg) to treat urothelial vesical carcinoma in situ cmi 2023; 17(1): 25-39 https://doi.org/10.7175/cmi.v17i1.1543 caso clinico corresponding author paolo ghiringhelli paolo.ghiringhelli@asst-valleolona.it received: 28 february 2023 accepted: 12 may 2023 published: 19 july 2023 perché descriviamo questo caso il caso mette in luce l’importanza di una rapida diagnosi per prevenire lo scadimento delle condizioni fisiche e ridurre gli sprechi sanitari. a tale scopo, risulta fondamentale la raccolta dettagliata dell’anamnesi, specialmente nei casi di più difficile identificazione della patogenesi. si suggerisce, infine, di evitare l’uso indiscriminato di antibiotici, specialmente quando emoe uro-colture sono negative, perché può determinare l’insorgenza di resistenze batteriche introduzione il bacillo di koch di tipo bovino (mycobacterium bovis) o bacillo di calmette-guérin (bcg) è stato inizialmente sviluppato come vaccino contro la tubercolosi. la possibilità di un ruolo del bcg nel trattamento del cancro è stata ipotizzata per la prima volta negli anni ’20, quando uno studio autoptico ha rilevato una minore frequenza di cancro nei pazienti con tubercolosi e una maggiore frequenza di tubercolosi tra i sopravvissuti al cancro [1]. negli anni ’30 è stato descritto un profondo effetto stimolante del bcg sul sistema reticoloendoteliale; inoltre, negli anni ’80, è stata osservata una minore incidenza di leucemia tra i bambini che avevano ricevuto l’immunizzazione neonatale con bcg [2]. nuovi studi hanno contribuito a espandere le nostre conoscenze sull’azione antitumorale di bcg [3], ma permangono diverse lacune. l’instillazione intravescicale di bcg innesca una varietà di risposte immunitarie locali, che possono persistere per un certo numero di mesi e che sembrano correlare con l’attività antitumorale [4]. queste includono: induzione di un infiltrato di cellule mononucleate costituito prevalentemente da cellule t cd4 e macrofagi e aumento dell’espressione dell’interferone gamma (ifnγ) nella vescica. l’espressione di ifnγ induce l’espressione di molecole di istocompatibilità maggiore (mhc) di classe ii sulle cellule tumorali della vescica, tra cui hla-dr e la molecola di adesione intercellulare (icam)-1. l’ifnγ può anche aumentare la sensibilità delle cellule tumorali al bcg con l’attivazione delle cellule presentanti l’antigene e dei linfociti lak (linfociti killer attivati prevalentemente dalla il-2). il bcg induce anche livelli elevati di citochine urinarie, tra cui interleuchina (il)-1, il-2, il-6, il-8, il-12, ifnγ, fattore di necrosi tumorale alfa (tnfα) e ligando, che induce l’apoptosi del fattore di necrosi tumorale (trail) e provoca la soppressione diretta della crescita del tumore in modo dose-dipendente [5]. come sopra scritto, la persistenza di bcg nella vescica può facilitare un’attivazione immunitaria, ma potenzialmente aumenta anche il rischio di un’infezione sistemica tardiva [6,7]. il bcg intravescicale è generalmente ben tollerato; non comunemente, possono verificarsi gravi complicanze locali e sistemiche [8]. caso clinico anamnesi patologica remota si presentò alla nostra attenzione un uomo di 74 anni, lavoratore nell’ambito delle materie plastiche. dall’anamnesi patologica remota del paziente emerse che aveva goduto di un discreto benessere fino al 2000, quando venne sottoposto a meniscectomia artroscopica del ginocchio sinistro in conseguenza dell’attività calcistica intensa effettuata in età giovanile. da decenni si trovava in terapia per ipertensione arteriosa. nel 1996 aveva subìto una resezione trans-ureterale della prostata per ipertrofia prostatica benigna. nel 2016 venne sottoposto a decompressione del tunnel carpale sinistro. nel 2018 comparve un’ischemia midollare condizionante la persistenza di ipoestesia e lieve deficit di forza dell’arto superiore destro. in data 23/3/2022, in seguito a ematuria, il paziente venne sottoposto a cistoscopia e successivamente a resezione trans-ureterale della prostata per neoformazione vescicale uroteliale pt1-g3 (carcinoma papillare di alto grado infiltrante il connettivo sottoepiteliale; la tonaca muscolare risultò indenne). da allora, seguendo i protocolli internazionali [9], venne sottoposto a instillazioni endovescicali ambulatoriali di bcg mensili (6 instillazioni endovescicali complessive mediante posizionamento di catetere vescicale, svuotamento completo della vescica e successiva instillazione di bcg), di cui l’ultima eseguita in data 30/8/2022. successivamente, come previsto per tutti i casi simili, gli urologi programmarono il follow-up, ritenendo soddisfacente il risultato ottenuto. anamnesi prossima circa un mese prima dell’ultima somministrazione endovescicale di bcg, il paziente riferiva febbricola serotina, astenia e sudorazioni notturne. venne allora ricoverato in medicina interna con la diagnosi di infezione delle vie urinarie per presenza di lieve disuria e apparente resistenza al trattamento con levofloxacina. la tabella i riporta gli esami ematici all’ingresso. parametro valore rilevato valore normale leucociti (× 103/μl) 3,81 4,0-10,0 eritrociti (× 106/μl) 4,63 3,6-5,6 emoglobina (g/dl) 13,6 13,0-16,5 ematocrito (%) 42,3 39-49 volume globulare medio (fl) 91,3 80-96 contenuto emoglobinico medio (pg) 29,4 27,0-33,0 concentr. hb corpuscolare media (g/dl) 32,2 31,5-36,5 piastrine (× 103/μl) 269 150-400 neutrofili (%) 64,8 40-74 monociti (%) 10,1 1-6 international normalized ratio 1,0 0,8-1,2 tempo di tromboplastina parziale attivata (ratio) 1,0 0,8-1,2 sodio (mmol/l) 138 135-150 potassio (mmol/l) 4,24 3,5-5,3 urea (mg/dl) 31 10-50 creatinina (mg/dl) 0,78 0,67-1,17 proteina c reattiva (mg/dl) 1,47 <0,5 velocità di eritrosedimentazione (mm) 52 0-13 tabella i. esami ematici all’ingresso venne trattato, apparentemente con successo, con ceftriaxone e venne dimesso il 7 settembre dello stesso anno, dopo avere acquisito l’esito negativo di emocolture e urocoltura. si confermava comunque la diagnosi di infezione delle vie urinarie in paziente con carcinoma uroteliale in trattamento con bcg, poiché i giorni antecedenti il ricovero era stato trattato con levofloxacina: quest’ultima poteva, infatti, avere indotto la negatività delle colture eseguite. dopo 3 giorni dalla dimissione si ripresentava in pronto soccorso per ricomparsa di febbre. il tampone antigenico per covid-19 risultava negativo, mentre l’rx torace evidenziava l’aumento del disegno interstiziale (figure 1 e 2). figura 1. rx torace figura 2. rx torace laterale parametro valore rilevato valore normale leucociti (× 103/μl) 3,05 4,0-10,0 eritrociti (× 106/μl) 4,15 3,6-5,6 emoglobina (g/dl) 13 13,0-16,5 ematocrito (%) 37,4 39-49 volume globulare medio (fl) 90,1 80-96 contenuto emoglobinico medio (pg) 28,3 27,0-33,0 concentr. hb corpuscolare media (g/dl) 31,4 31,5-36,5 piastrine (× 103/μl) 258 150-400 neutrofili (%) 60,4 40-74 monociti (%) 11,3 1-6 international normalized ratio 1,0 0,8-1,2 tempo di tromboplastina parziale attivata (ratio) 1,0 0,8-1,2 sodio (mmol/l) 139 135-150 potassio (mmol/l) 4,5 3,5-5,3 urea (mg/dl) 36 10-50 creatinina (mg/dl) 0,9 0,67-1,17 proteina c reattiva (mg/dl) 1,52 <0,5 tabella ii. esami ematici al secondo ricovero figura 3. tc torace l’urocoltura e le emocolture, che vennero subito eseguite in pronto soccorso, risultarono negative. gli esami ematici mostravano persistenza di lieve leucopenia con proteina c reattiva (pcr) sempre modestamente mossa; i restanti esami di routine erano negativi (tabella ii). il quantiferon test (o interferon gamma release assay – igra, conosciuto anche come test di rilascio dell’interferon gamma dopo stimolazione dei linfociti del paziente con antigeni del mycobacterium complex) risultava oltre i limiti della positività verso tutti gli antigeni testati (>10 con normalità di 0). il paziente veniva successivamente sottoposto a tc torace con riscontro di un quadro compatibile con tbc miliare (figura 3). pertanto, veniva discusso il caso con gli pneumologi e il paziente veniva sottoposto a broncoscopia per la ricerca del bacillo di koch (bk): la pcr per bk risultò negativa, così come l’esame colturale a 60 giorni. risultarono invece positive le ricerche del bk per mycobacterium complex nelle urine, sia con la metodica pcr sia con l’esame colturale. il caso venne discusso con la tisiologia dell’ospedale niguarda di milano, con il quale si giunse alla conclusione che il paziente aveva una bcgite. tale diagnosi venne effettuata in quanto il paziente presentava una intradermoreazione di mantoux negativa prima dell’istillazione endovescicale di bcg, mentre, in quel momento, il quantiferon risultava fortemente positivo. il quantiferon era stato preferito a una nuova intradermoreazione di mantoux per lo stato cachettico del paziente, che poteva far presupporre una falsa negatività da iporeattività; inoltre non era noto lo stato vaccinale verso il micobatterio tubercolare. in questi casi il quantiferon è più affidabile. inoltre erano presenti: neutropenia lieve, pcr solo minimamente mossa e non significativamente elevata, pcr bk su urine positivo, reperti miliari polmonari. infine il paziente, dopo le istillazioni, manifestava sintomi suggestivi quali febbre, tosse, prostrazione e calo ponderale (circa 3 kg in 2 mesi). giunti a conclusione diagnostica, si concordava per l’inizio di un protocollo terapeutico per 2 mesi con 4 farmaci: isoniazide 300 mg 1 cp/die; rifampicina 600 mg 1 cp/die; etambutolo 400 mg 3 cp/die (dosaggio complessivo di 1.200 mg); moxifloxacina 400 mg 1 cp/die. successivamente venne stabilito un protocollo terapeutico per 4 mesi con solo due farmaci (isoniazide 300 mg 1 cp/die e rifampicina 600 mg 1 cp/die). non veniva usata la classica pirazinamide poiché solitamente mycobacterium bovis è resistente a questo farmaco. il paziente, che era diventato cachettico, dopo due settimane di trattamento divenne apiretico, non soffriva più di sudorazioni notturne e si sentiva meno astenico. dopo due mesi dall’inizio della terapia specifica, il peso corporeo incrementava di 5 kg. il trattamento specifico è stato tollerato in modo accettabile anche se si è manifestato un incremento di circa 2-3 volte dei valori delle transaminasi, che comunque non ha compromesso la prosecuzione del trattamento. discussione e revisione della letteratura meccanismi di attivazione immunitaria il meccanismo del bcg come agente immunoterapico per il trattamento del cancro della vescica non è completamente compreso. si pensa che esso induca, come precedentemente scritto, l’attivazione immunitaria locale, determinando la morte delle cellule tumorali. le complicanze associate all’immunoterapia con bcg possono essere rappresentate da una reazione d’ipersensibilità, un’infezione attiva o entrambe. la persistenza di bcg nella vescica può facilitare un’attivazione immunitaria e aumenta potenzialmente il rischio di un’infezione sistemica tardiva. in uno studio sull’instillazione intravescicale non complicata in 49 pazienti, bcg è stato rilevato nel 96%, 68% e 27% dei campioni di urina rispettivamente 2 ore, 24 ore e 7 giorni dopo l’instillazione [10]. bcg: effetti collaterali in alcuni casi clinici sono stati osservati granulomi alla biopsia bronchiale o polmonare, con colorazione e coltura negative per bacilli acido-resistenti, test molecolari negativi e risposta clinica favorevole alla somministrazione di corticosteroidi sistemici: questi risultati suggeriscono una reazione di ipersensibilità [11]. tuttavia, in altri casi clinici, sono stati osservati organismi vitali e/o test molecolari positivi in una varietà di tessuti al di fuori della vescica [11-23]. è probabile che i microrganismi ottengano l’accesso alla circolazione sistemica attraverso l’interruzione uroepiteliale, diffondendosi così a livello sistemico. l’infezione da bcg in qualsiasi sito è relativamente rara [6,24]. tra il 2004 e il 2015, 118 casi di infezione da bcg sono stati segnalati al national tuberculosis surveillance system degli stati uniti [24]. il bcg intravescicale è associato a complicanze infettive in circa l’1-5% dei casi [4,8,25]. in uno studio di coorte retrospettivo, che includeva 6.753 pazienti trattati con bcg intravescicale, l’infezione da bcg si è sviluppata nell’1% dei casi [4]. in una revisione della letteratura che ha coinvolto più di 250 pazienti, sono state osservate complicanze infettive nel 4,3% dei casi [8]. i marcatori di rischio per infezione sistemica associata a bcg intravescicale includono [26-28]: cateterizzazione traumatica; cistite attiva; ematuria macroscopica persistente dopo chirurgia transuretrale; immunosoppressione; età ≥70 anni. la probabilità di sviluppare complicanze correlate a bcg sembra dipendere maggiormente dalle caratteristiche dell’ospite (come la presenza di danno della mucosa vescicale o la presenza di immunosoppressione) e da altri fattori, tra cui la dose di bcg, il numero di instillazioni di bcg o l’intervallo di tempo trascorso dalla chirurgia transuretrale [8]. le manifestazioni cliniche dell’infezione a esordio precoce (entro ≤3 mesi dall’instillazione del bcg) differiscono da quelle dell’infezione a esordio ritardato (>3 mesi dopo l’instillazione del bcg). i dati sono limitati a piccole case series e case report [7,26,29-34]. l’infezione da bcg a esordio precoce l’infezione da bcg a esordio precoce si presenta spesso, come nel nostro caso clinico, con manifestazioni sistemiche. in piccole casistiche di pazienti con infezione a esordio precoce, le manifestazioni includevano sintomi costituzionali (febbre, sudorazione, perdita di peso) esattamente come nel nostro caso, nonché polmonite ed epatite [31,32]. l’infezione da bcg a esordio ritardato l’infezione da bcg a esordio ritardato si presenta spesso con malattia localizzata e colture micobatteriche urinarie positive; meno comunemente, può verificarsi una malattia sistemica a esordio ritardato [29,31-34]. in uno studio che includeva 15 pazienti con coinvolgimento a esordio ritardato, è stata osservata una malattia localizzata nel 75% dei pazienti; i siti di coinvolgimento includevano il tratto genito-urinario, le strutture vascolari, l’osso, il retroperitoneo e la parete toracica [31]. in un’altra casistica, comprendente sette pazienti con infezione a insorgenza ritardata, sono stati osservati sintomi vescicali isolati (frequenza, urgenza, ematuria macroscopica e incontinenza); in tre casi, sono stati osservati sintomi sistemici (sintomi costituzionali oltre a tosse, stato mentale alterato, artrite). in due casi, un paziente presentava sintomi sistemici e localizzati e un paziente era asintomatico, ma con un’ulcera mucosa non cicatrizzata alla cistoscopia [32]. la coltura di micobatteri urinari è risultata positiva nel 90% dei casi. il tempo medio dall’instillazione del bcg alla diagnosi è stato di 35 mesi. in una casistica che comprendeva 13 pazienti con presentazione ritardata di lesioni vescicali durante la cistoscopia di follow-up di routine (mediana di 8 mesi dopo l’instillazione del bcg), la metà era asintomatica; il resto aveva urgenza, frequenza e/o dolore [29]. tutti i pazienti avevano una lesione focale granulomatosa o ulcerosa nella vescica e tutti avevano colture micobatteriche urinarie positive. il tempo mediano dall’intervento chirurgico transuretrale all’instillazione di bcg è stato di 30 giorni, il numero mediano di instillazioni di bcg è stato di 6 e il tempo mediano dall’ultima instillazione all’insorgenza dell’infezione è stato di 13,5 giorni (intervallo interquartile 2-195 giorni). caratteristiche della malattia localizzata a esordio ritardato la malattia localizzata si presenta tipicamente con un’infezione a esordio ritardato (>3 mesi dopo l’instillazione del bcg) e coinvolge il tratto genito-urinario; le manifestazioni possono includere [1,35-39]: cistite; contrattura vescicale; prostatite granulomatosa; ascesso prostatico; epididimo-orchite; ascesso testicolare; pielonefrite; ascesso renale; stenosi ureterale; granuloma del pene. sintomi comuni nell'immediato la maggior parte dei pazienti sviluppa sintomi di irritazione della vescica, come disuria e pollachiuria, entro due o quattro ore dall’instillazione del bcg. questi sintomi possono essere accompagnati da febbre di basso grado e malessere, specialmente nei pazienti che hanno ricevuto precedenti instillazioni intravescicali [6]. tali manifestazioni generalmente si risolvono entro 48 ore. la persistenza o l’escalation dei sintomi genito-urinari dovrebbe richiedere un’indagine sull’infezione attiva, dovuta a bcg o altri agenti patogeni batterici. diagnosi differenziale i sintomi dovuti a una malattia localizzata associata a bcg intravescicale possono essere indistinguibili da quelli attribuibili a un’infezione batterica del tratto urinario (uti) non correlata a bcg: questo è quanto è accaduto con il nostro paziente. per questo motivo, il sospetto clinico per m. bovis bcg come potenziale agente eziologico deve essere mantenuto nei pazienti che presentano sintomi di infezione delle vie urinarie (ivu) in un contesto clinico appropriato. distretti coinvolti e modalità di diffusione la cistite persistente (manifestata come grave urgenza, pollachiuria e disuria) anche dopo l’interruzione del bcg suggerisce lo sviluppo di una cistite bcg. questa è una condizione rara che si presenta con sintomi sistemici e piuria sterile. i sintomi possono persistere per settimane o mesi nonostante la terapia antimicobatterica, suggerendo la coesistenza di una componente di ipersensibilità. cistoscopicamente, la vescica appare rossa, carnosa e irritata, tipicamente con infiammazione acuta e granulomatosa [32,40]. l’infezione da m. bovis bcg può diffondersi localmente dalla vescica per coinvolgere altre strutture all’interno del tratto genito-urinario. tali infezioni includono ulcerazione granulomatosa del glande, prostatite, epididimite, ostruzione ureterale, contrattura della vescica e ascesso renale [35-37]. la prostatite da m. bovis bcg è relativamente comune, ma spesso asintomatica. in una serie comprendente 12 pazienti sottoposti a cistoprostatectomia per la gestione del cancro invasivo della vescica dopo un precedente trattamento con bcg intravescicale, in 9 casi è stata osservata prostatite granulomatosa; di questi, 7 avevano una colorazione positiva per bacilli acido-resistenti [41]. l’infezione da m. bovis bcg può presentarsi anni dopo la terapia intravescicale con bcg [38]. la malattia sistemica si verifica quando bcg si diffonde al di fuori del tratto genito-urinario attraverso il flusso sanguigno in altri siti [1,13,31]. le complicanze sistemiche si presentano spesso con l’infezione a esordio precoce, ma l’insorgenza dell’infezione può essere ritardata. l’infezione disseminata da bcg (sotto forma di malattia miliare, sepsi o febbre associata al coinvolgimento d’organo) è la forma più comunemente riportata in letteratura ed è proprio quella osservata nel nostro paziente; in una revisione, tale forma ha rappresentato un terzo dei casi [8]. l’esordio di una sepsi può comparire anche subito dopo che è avvenuta l’instillazione di bcg; le manifestazioni includono una caratteristica febbre diurna tardiva ricorrente con sudorazione notturna e brividi; la progressione può essere rapida e determinare ipotensione, coagulazione intravascolare disseminata e insufficienza respiratoria [36]. il meccanismo è probabilmente attribuibile al rilascio di citochine [42]. alcuni casi di sepsi ad esordio ritardato sono stati descritti anni dopo un trattamento con bcg apparentemente semplice. la compromissione del sistema immunitario (per esempio a causa della somministrazione di glucocorticoidi o immunosoppressori sistemici) può causare la riattivazione di un focus dormiente [26,43]. se vengono coinvolti i polmoni, il paziente può manifestare dispnea e può verificarsi una progressione verso la compromissione respiratoria. inoltre, sono stati descritti casi relativamente asintomatici o subclinici [34,44]. il nostro paziente mostrava una modesta tosse non produttiva. in alcuni pazienti con infezione disseminata da bcg, la radiografia del torace o la tomografia computerizzata (tc) mostrano un pattern nodulare o interstiziale miliare, talvolta associato ad adenopatia ilare; questi rilievi sono osservati più frequentemente in associazione con sepsi [10,45]. la sensibilità della radiografia del torace è limitata; in una serie comprendente 216 pazienti con infezione sistemica da bcg, la radiografia del torace non è riuscita a rivelare un pattern miliare in circa il 25% dei pazienti con polmonite successivamente identificata tramite tc [8]. sono state descritte altre manifestazioni polmonari, compreso il versamento pleurico [46]. un’altra rara complicanza del bcg intravescicale è l’epatite granulomatosa; questa può insorgere come complicanza precoce o ritardata [6,47,48]. le manifestazioni cliniche includono febbre, anoressia e ittero. questa condizione può manifestarsi isolatamente o in associazione con malattie in altri siti (per esempio tratto genitourinario, tratto respiratorio, siti vascolari) [49,50]. anche l’osteomielite è una rara complicanza del bcg intravescicale. la maggior parte dei casi segnalati coinvolge la colonna vertebrale, presumibilmente a causa della diffusione dal tratto urinario attraverso il plesso di batson [51-53]. è stato anche descritto il coinvolgimento osseo al di fuori della colonna vertebrale. i pazienti con spondilite si presentano con mal di schiena e possono avere debolezza motoria corrispondente al metamero interessato. l’infezione vertebrale può essere accompagnata da un ascesso del muscolo psoas: in questi casi si possono osservare dolore all’anca e incapacità a estendere la gamba [53]. inoltre, l’infezione vertebrale può anche essere accompagnata da un’infezione vascolare micotica [54]. le complicanze osteoarticolari del bcg intravescicale sono rare e includono l’artrite reattiva e l’infezione osteoarticolare [55]: i pazienti con artrite reattiva in genere si presentano entro poche settimane dall’instillazione di bcg con oligoartrite o poliartrite, prevalentemente degli arti inferiori [56,57]. i sintomi genito-urinari associati includono pollachiuria, disuria ed ematuria. inoltre, si possono osservare manifestazioni oculari; queste includono congiuntivite e uveite (sindrome di reiter) [58]. in una revisione che includeva 43 casi di artrite reattiva, il 53% dei pazienti era positivo per hla-b27 e almeno il 19% presentava dolore assiale (compatibile con spondiloartrite) [56]; la monoartrite a seguito di instillazione intravescicale di bcg dovrebbe far sospettare un’infezione articolare [55]. l’artrite settica può essere dovuta sia a un’infezione batterica sia a un’infezione da m. bovis. l’ascesso dello psoas può verificarsi come complicanza dell’installazione di bcg intravescicale, da solo o in combinazione con osteomielite vertebrale e/o infezione vascolare [16]. sono stati descritti casi di infezione delle protesi ortopediche [59-62]. anche le complicanze vascolari associate al bcg intravescicale sono rare. casi clinici hanno descritto aneurismi micotici che coinvolgono l’aorta addominale o toracica; questi includono un caso con successivo coinvolgimento di un innesto aortico e un altro con coinvolgimento di più siti, incluso un aneurisma carotideo [17,23,50,63]. il coinvolgimento vascolare può svilupparsi attraverso la disseminazione ematogena dei vasa vasorum della parete arteriosa o come risultato di un’estensione contigua da un sito adiacente (come un corpo vertebrale o linfonodi perivascolari) [8]. le manifestazioni cliniche includono febbre di basso grado, malessere e perdita di peso. in uno studio clinico il coinvolgimento vascolare era associato a un tasso di mortalità del 16% [8]. altre manifestazioni di infezione attiva che possono essere causate da bcg includono: febbre di origine sconosciuta accompagnata da sudorazioni notturne, anoressia, affaticamento, perdita di peso (evidenti anche nel nostro paziente) e pancitopenia. esse si sono verificate in due pazienti che avevano granulomi nel midollo osseo e in colture di midollo osseo è stato rinvenuto m. bovis [19]. il nostro paziente presentava lieve leucopenia con formula bilanciata. in un’altra casistica, comprendente 10 pazienti con presentazioni simili, nove pazienti avevano granulomi del midollo osseo non caseosi mentre il decimo presentava granulomi caseosi; la coltura del midollo osseo è risultata positiva in quattro casi [33]. le manifestazioni ematologiche comprendono citopenia con coinvolgimento granulomatoso del midollo osseo [33] e trombocitopenia immunitaria con crioglobulinemia [64]. nei casi clinici è stata osservata sindrome emofagocitica associata a coinvolgimento del midollo osseo, anemia, ferritina plasmatica elevata e trigliceridi elevati [65]. il coinvolgimento del sistema nervoso centrale (snc) da parte del bcg è stato osservato in un esiguo numero di casi [4,8,22,32,66,67]; sono state descritte sia le presentazioni a esordio precoce sia quelle a esordio ritardato. le manifestazioni comprendono meningite, tubercolomi cerebrali, ascessi cerebellari, vasculite dei piccoli vasi e sindrome di guillain-barré. i sintomi possono essere vaghi, inclusi vertigini, atassia, alterazioni dello stato mentale e mal di testa con o senza febbri associate, sudorazioni notturne e perdita di peso; questi possono persistere per settimane in uno schema recidivante. segni neurologici focali possono non essere presenti fino alla fine del decorso della malattia. i reperti del liquido cerebrospinale sono quelli descritti nella malattia del snc dovuta alla tubercolosi (linfocitosi, livelli proteici elevati, glucosio basso) [68]. casi di endoftalmite e tubercoloma coroidale sono stati descritti in pazienti trattati con bcg intravescicale [20,21,39]. è stata descritta un’eruzione cutanea simile a una patomimia (autoeczematizzazione) associata alla somministrazione di bcg [69]. l’infezione localizzata da bcg deve essere sospettata nei pazienti trattati con bcg intravescicale che si presentano con manifestazioni a insorgenza precoce o ritardata coinvolgenti il tratto genito-urinario. l’infezione sistemica da bcg deve essere sospettata nei pazienti trattati con bcg intravescicale che presentano manifestazioni sistemiche, in particolare entro ≤3 mesi dall’instillazione del bcg. esami diagnostici rivestono una certa importanza nelle forme sistemiche di bcgite gli indici di flogosi classici: la pcr solitamente è poco mossa, mentre lo è di più la velocità di eritrosedimentazione (ves). inoltre il paziente descritto era stato trattato con levofloxacina, nota per avere anche un effetto anti-tubercolare. dunque, quando il paziente è stato ricoverato la prima volta e trattato con una cefalosporina di terza generazione, abbiamo creduto che avesse risposto a quel farmaco, ma probabilmente era la risposta ritardata a levofloxacina: tale risposta è infatti durata pochi giorni, dal momento che in seguito vi è stata una ricomparsa della sintomatologia febbrile. la diagnosi definitiva di infezione da bcg può essere stabilita tramite coltura positiva di m. bovis bcg (di fluidi corporei e/o tessuti provenienti dai siti coinvolti, quando ottenibile); tuttavia, la sensibilità della colorazione e della coltura di acid fast bacillus (afb) è soggetta a limitazioni. pertanto, nel contesto clinico ed epidemiologico appropriato e in assenza di evidenze per un’eziologia alternativa di questi risultati, una diagnosi presuntiva può essere fatta in caso di striscio positivo di bacilli acido-resistenti (di fluidi corporei o di tessuto da siti interessati), istopatologia da un sito coinvolto che mostra granulomi e/o test positivo di amplificazione dell’acido nucleico (naa: nucleic acid amplification) su fluido o tessuto [41]. come nel caso del nostro paziente, si eseguono contemporaneamente colture per i micobatteri, test naa micobatterico, colorazione gram, coltura batterica, colorazione fungina e coltura fungina, nonché altri studi guidati dal tipo di campione (ad esempio, i pazienti con coinvolgimento articolare dovrebbero essere indagati prelevando del liquido sinoviale e valutando la conta cellulare e la colorazione dei cristalli). inoltre, i pazienti con sintomi sistemici dovrebbero essere sottoposti a imaging del torace (tomografia computerizzata o risonanza magnetica preferita rispetto alla radiografia convenzionale) per escludere il coinvolgimento polmonare. la sensibilità dello striscio afb, della coltura micobatterica e dei test molecolari è limitata. in una revisione di 282 casi di infezione da bcg associata alla somministrazione intravescicale di bcg (inclusi 216 pazienti con malattia sistemica), la colorazione afb, la coltura micobatterica e il test molecolare sono risultati positivi rispettivamente nel 25%, nel 41% e nel 42% di casi [8]. la diagnosi microbiologica è stata stabilita più frequentemente tra i pazienti con infezione localizzata da bcg (53% vs 38%). tra i pazienti sottoposti a biopsia, l’istopatologia ha dimostrato un’infiammazione granulomatosa nell’86% dei casi; i siti di biopsia con il rendimento diagnostico più elevato erano: il polmone, il midollo osseo e il fegato [14,15]. la necrosi caseosa è tipicamente assente [2]. come nel nostro caso, i test naa non possono distinguere tra i membri del complesso mycobacterium tuberculosis. nel caso clinico presentato, il batterio è stato isolato solo nell’urina ed è stato il trattamento ex juvantibus a confermare la diagnosi grazie al consistente miglioramento clinico che si era ottenuto. nell’ambito di un work-up non invasivo, che non fornisce una diagnosi definitiva, la decisione se proseguire la biopsia o iniziare il trattamento empirico anti-m. bovis bcg implica un’attenta considerazione dei rischi e dei benefici. se si esegue la biopsia, è necessario inviare campioni separati per microbiologia (tra cui colorazione afb, coltura di micobatteri, test molecolari di micobatteri, colorazione di gram, coltura batterica, colorazione fungina e coltura fungina) e istopatologia. è possibile utilizzare la tipizzazione molecolare per confrontare il ceppo di m. bovis bcg isolato da un paziente e il ceppo (se noto) che è stato utilizzato nel trattamento con bcg intravescicale di quell’individuo [12,43]. sintomi patognomonici la diagnosi differenziale deve essere fatta distinguendo i comuni, lievi sintomi post-instillazione dopo la somministrazione di bcg (fino all’85% dei pazienti) [70]. questi includono febbre, malessere e irritazione della vescica (frequenza della minzione, disuria o lieve ematuria) entro poche ore dall’instillazione del bcg [1]. l’analisi delle urine mostra un’infiammazione aspecifica e le colture non dimostrano evidenza di infezione. tali manifestazioni generalmente si risolvono entro 48 ore e riflettono una reazione di ipersensibilità piuttosto che una complicanza infettiva del bcg. la terapia prevede l’uso di farmaci analgesici e/o farmaci antinfiammatori non steroidei [8]. i sintomi di solito si risolvono entro 48 ore, terminate le quali il trattamento con bcg può essere proseguito come da programma. occasionalmente, una temperatura >39,0°c (102,5°f) può svilupparsi in modo acuto dopo la terapia con bcg, ma ciò non significa necessariamente che vi sia un’infezione attiva da m. bovis bcg. in questo contesto, potrebbe essere impossibile distinguere un evento infettivo da uno non infettivo. la presenza a livello del tratto genitourinario di sintomi sistemici può riflettere un’infezione batterica non bcg. fino al 20% dei pazienti che ricevono bcg intravescicale sviluppa un’infezione batterica del tratto urinario a un certo punto del trattamento [71]. i fluidi corporei e i tessuti devono essere inviati per la colorazione di gram e la coltura batterica (oltre al trattamento per l’infezione da micobatteri). la presenza di sintomi a carico del tratto genito-urinario e/o sistemici può riflettere un’infezione fungina. le infezioni fungine come l’istoplasmosi e la blastomicosi sono endemiche in alcune regioni geografiche e possono causare infezioni del tratto genito-urinario. se si sospetta un’infezione fungina del tratto urinario, l’urina può essere inviata per l’esame batterioscopico e le colture specifiche per funghi. raramente possono essere coinvolti altri micobatteri, che includono m. tuberculosis, m. bovis e infezioni da micobatteri non tubercolari. questi possono essere distinti in base a fattori epidemiologici, ai risultati delle colture micobatteriche e dei test molecolari. il test cutaneo alla tubercolina (tst) e il test di rilascio dell’ifnγ (igra) sono strumenti progettati per la diagnosi dell’infezione da tubercolosi; nel contesto dell’infezione da tubercolosi, uno o entrambi i test possono essere positivi. domande aperte nel contesto dell’infezione da bcg, il tst può essere positivo ma l’igra è negativo, poiché gli antigeni del test igra non sono condivisi con bcg [72]. tuttavia, il tst e l’igra non stabiliscono o escludono definitivamente nessuna delle due condizioni; pertanto, questi test sono di scarso aiuto nella diagnosi della malattia attiva dovuta a m. bovis bcg o m. tuberculosis. in questo senso rimane un dubbio non ben chiarito anche nel nostro paziente, in quanto la tc mostrava degli esiti fibrotici apicali oltre alle diffuse lesioni miliari. si trattava quindi di una esacerbazione immunologica da parte del bcg, di un’infezione specifica misconosciuta o davvero di una bcgite? è innegabile che il test igra e l’esame colturale erano positivi per mycobacterium complex. tra le cause alternative di malattia granulomatosa polmonare vi sono la sarcoidosi e la polmonite da ipersensibilità. invece le cause infettive alternative di granulomi epatici includono malattie fungine, febbre q e brucellosi. tra le cause alternative non infettive di granulomi epatici si annoverano sarcoidosi, neoplasie e reazioni avverse a farmaci. trattamento l’approccio ottimale al trattamento delle complicanze infettive associate a bcg intravescicale è incerto; non sono attualmente presenti in letteratura studi clinici a tal riguardo. l’iter terapeutico è guidato dai case report e dall’esperienza clinica con il trattamento dell’infezione da m. bovis bcg, che è sensibile alla maggior parte dei farmaci antimicobatterici ad eccezione di cicloserina e pirazinamide [73]. in ogni caso il trattamento dipende dalla presentazione clinica. per i pazienti con sintomi localizzati al tratto genito-urinario, la gestione dell’infezione consiste nella terapia antimicobatterica; inoltre, la valutazione chirurgica è giustificata in caso di ascesso o ostruzione del tratto genito-urinario [8]. nei casi di cistite bcg grave, gli steroidi sistemici (prednisone da tre a sei settimane) possono fornire un sollievo rapido e duraturo dai sintomi incessanti della cistite [32,40]. dato il rischio di potenziamento della diffusione del bcg, il paziente deve essere mantenuto in terapia antimicobatterica mentre assume steroidi. il regime antimicobatterico ottimale è incerto; la gestione dovrebbe includere il coinvolgimento di un esperto nella gestione delle infezioni da micobatteri. i pazienti con infezione da bcg da m. bovis secondaria alla terapia con bcg intravescicale vengono trattati con gli stessi farmaci antitubercolari usati per trattare l’infezione da m. bovis da altre sedi. in particolare, ciò comporta una fase iniziale di isoniazide, etambutolo e rifampicina, seguita da una fase di continuazione di isoniazide e rifampicina, come discusso altrove [8]. se sono disponibili dati sulla sensibilità, il regime dovrebbe essere adattato di conseguenza. nel contesto di preoccupazione per la tossicità epatica, possono essere presi in considerazione agenti antimicobatterici alternativi tra cui amikacina e fluorochinoloni. la durata della terapia dipende dalla gravità della malattia e dalla risposta clinica. nei casi in cui non è chiaro se l’infezione sia dovuta a m. bovis bcg o a un’altra specie di micobatteri, potrebbe essere necessario ampliare il regime di trattamento per coprire più di una potenziale diagnosi microbiologica [43]. per i pazienti con epididimo-orchite persistente nonostante la terapia antimicobatterica, possono essere giustificate l’epididimectomia e/o l’orchiectomia. per i pazienti con sintomi sistemici, la gestione consiste in una terapia antimicobatterica, con l’aggiunta di glucocorticoidi in alcune circostanze [8]. inoltre, è necessaria una valutazione chirurgica in presenza di ascessi, ostruzioni del tratto genitourinario, infezioni vascolari o infezioni che coinvolgono un dispositivo protesico. nel contesto di un esteso coinvolgimento miliare e/o di insufficienza respiratoria, i case report descrivono l’uso di glucocorticoidi somministrati in concomitanza con agenti antimicobatterici, sulla base del potenziale ruolo dell’ipersensibilità nella patogenesi della malattia [8,25,40,70,74, 75]. nei casi in cui si ritiene che l’ipersensibilità svolga un ruolo significativo nella malattia del paziente, suggeriamo una terapia concomitante con glucocorticoidi se si ritiene che il potenziale beneficio superi il potenziale rischio [8,70]. l’uso di glucocorticoidi è stato associato a un miglioramento clinico nei case report [40,74-76]. non esiste un regime standard per la somministrazione di glucocorticoidi aggiuntivi; è stato descritto prednisone da 40 a 60 mg per via orale al giorno per 3-5 giorni, seguito da una graduale riduzione nell’arco di alcune settimane. per altre complicanze di bcg, che si presentano solo con artrite reattiva o uveite, senza segni di infezione localizzata o sistemica, il trattamento antimicobatterico non viene somministrato [8]. tali pazienti dovrebbero essere gestiti con il coinvolgimento di un medico esperto in queste condizioni. [56]. tra gli individui con complicanze infettive dovute a bcg intravescicale, il rischio di una somministrazione ripetuta è incerto poiché mancano i dati. per i pazienti che hanno avuto un’infezione sistemica da bcg, si sconsiglia l’uso ripetuto di bcg intravescicale, dato il potenziale rischio di un episodio ricorrente [8]. in una revisione che includeva 282 casi di infezione da bcg associata alla somministrazione intravescicale di bcg (inclusi 216 pazienti con malattia sistemica), la mortalità attribuibile era del 5,4%; si sono verificate complicanze a lungo termine nel 7,4% dei casi (più comunemente perdita permanente dell’acuità visiva, artralgia cronica e malattia renale allo stadio terminale) [8]. prevenzione si possono prevenire alcune complicanze come quelle dovute alla lesione da cateterizzazione traumatica, cistite attiva o ematuria macroscopica persistente dopo chirurgia transuretrale. in queste situazioni deve essere differita l’instillazione di bcg per almeno due o tre settimane [8]. non ci sono interventi comprovati per prevenire le complicanze infettive associate alla somministrazione di bcg per via intravescicale. lo screening dell’analisi delle urine in pazienti asintomatici prima della somministrazione di bcg non ha dimostrato di ridurre le complicanze infettive [77] e i pazienti con batteriuria asintomatica non richiedono un trattamento antibiotico [78]. non si effettua la somministrazione profilattica di routine della terapia antimicobatterica in concomitanza con bcg intravescicale. un tale intervento potrebbe ridurre l’effetto antitumorale del bcg, dato che il bcg vivo richiede la replicazione per indurre una risposta immunitaria dell’ospite. in uno studio randomizzato non in cieco che ha valutato l’efficacia profilattica di isoniazide, non è stata osservata alcuna riduzione delle complicanze infettive di bcg, con una bassa incidenza in entrambi i gruppi [79]; inoltre, è stata osservata un’infezione disseminata nonostante l’uso profilattico di isoniazide [48,52]. la riduzione della dose di bcg è stata proposta per ridurre la probabilità di complicanze non infettive ed è in studio il dosaggio ottimale. conclusioni in conclusione, per quanto riguarda il caso clinico del nostro paziente, la positività del test igra, a fronte di una pregressa intradermoreazione di mantoux negativa, eseguita prima di iniziare il trattamento con bcg intravescicale e il test positivo per la ricerca del genoma di mycobacterium complex, anche in assenza di una coltura urinaria per mycobacterium complex (il paziente era stato recentemente trattato a domicilio con un chinolonico che notoriamente ha effetto anti-tubercolare), permetteva di avere una ragionevole certezza che fosse una bcgite. il trattamento con terapia antimicobatterica, senza l’uso di pirazinamide, permetteva un rapido recupero fisico del paziente e la scomparsa della febbre che i ripetuti cicli di antibiotici non erano riusciti a risolvere. key points per porre diagnosi di bcgite con ragionevole certezza, sono stati fondamentali la positività al test igra, a fronte di un test intradermico di mantoux negativo in precedenza, effettuato prima di iniziare il trattamento intravescicale con bcg, e la positività al test per il genoma di mycobacterium complex, anche in assenza di urocoltura per mycobacterium complex (il paziente era stato recentemente trattato a domicilio con un chinolone dal noto effetto anti-tubercolare). mycobacterium bovis generalmente non è sensibile a pirazinamide. in questo caso, il trattamento con terapia antimicobatterica ha permesso il rapido recupero fisico del paziente e la scomparsa della febbre che i ripetuti cicli di antibiotici non avevano risolto. consenso del paziente abbiamo richiesto e ottenuto il consenso del paziente alla pubblicazione del suo caso clinico. fonti di finanziamento questo articolo è stato pubblicato senza il supporto di sponsor. conflitti d’interesse gli autori dichiarano di non avere conflitti d’interesse in merito agli argomenti trattati in questo articolo. bibliografia 1. green db, kawashima a, menias co, et al. complications of intravesical bcg immunotherapy for bladder cancer. radiographics 2019; 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di un protocollo terapeutico a seguito di un ricovero o a procedure di follow-up, l’invariabilità dell’operatore di riferimento (medico e non) o del servizio (guardia medica, pronto soccorso), ecc. dalla continuità di relazione, tipica della medicina di ieri, oggi si va affermando sempre di più la necessità di una continuità di processo. l’esame di questi aspetti può essere affrontato analizzando due articoli di revisione tratti da due rinomate riviste che si occupano di cure primarie. una prima analisi, condotta da saultz e pubblicata sugli annals of family medicine, è stata effettuata selezionando gli articoli pubblicati su pubmed tra il 1966 e il 2002 che riportassero come parola chiave “continuity of patient care” [1]. la ricerca ha permesso di selezionare 379 articoli originali, rilevando la presenza di ben 21 differenti tecniche per la misurazione della continuità delle cure. tali metodiche possono tuttavia essere tutte ricondotte a tre principali tipologie: continuità informativa; y continuità longitudinale; y continuità interpersonale. y la continuità informativa implica che chiunque fornisca le cure a un paziente abbia la possibilità, indipendentemente da dov’è situato come postazione, di accedere alle sue informazioni cliniche prima di fornigli l’assistenza. da chi non si occupa di studiare la continuità nelle cure spesso non è ben compresa la differenza che intercorre tra “conoscenza del paziente” e “relazione di fiducia con il paziente”: anche chi non ha alcuna relazione continuativa con il malato può invece conoscere la sua storia clinica. la continuità longitudinale (o cronologica) prevede che ogni paziente debba avere una “sede medica” (definita come ambiente accessibile, esperto e organizzato in un team di fornitori) a cui rivolgersi per la maggior parte delle necessità in campo sanitario. questo team assume la responsabilità del coordinamento delle cure, compresi i servizi preventivi; per ogni sanitario implicato la continuità può essere più o meno lunga nel tempo e può non avvenire per tutti i problemi sanitari di quel paziente. la continuità interpersonale indica uno speciale tipo di continuità longitudinale nel quale la relazione medico-paziente è caratterizzata da una fiducia personale e da una responsabilità reciproca nel rapporto. lo specifico medico ha la responsabilità personale in campo sanitario generale di quello specifico paziente che riceve da lui tutti i editoriale 1 medico di famiglia, torino corresponding author andrea pizzini andrea.pizzini@tiscali.it clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 60 editoriale servizi medico-sanitari di base. quando il “medico personale” non è disponibile, viene comunque assicurata la continuità longitudinale e informativa delle cure attraverso altri sanitari. la continuità interpersonale rappresenta indubbiamente la caratteristica più importante per la medicina di famiglia, tanto è vero che saultz, nelle conclusioni dell’articolo, afferma che sarebbero utili ulteriori studi che permettessero di comprendere meglio la “dimensione interpersonale” nella continuità delle cure. una seconda revisione sull’argomento è stata pubblicata nel 2003 sul british medical journal [2]. secondo gli autori, la continuità assistenziale si distingue dagli altri attributi delle cure per due elementi cardine: il focus sul singolo paziente e la necessità di fornire le cure in modo continuativo. in questo articolo alle tre tipologie di continuità delle cure individuate dalla precedente revisione se ne aggiunge una quarta di più recente acquisizione: la continuità di management. la continuità di management è di primaria importanza specialmente per la corretta gestione delle patologie croniche, che, essendo in progressivo aumento, debbono prevedere strategie di gestione mirate: si può più semplicemente parlare di cure condivise o shared care, in cui protocolli, stabiliti congiuntamente tra le varie figure coinvolte, facilitano la definizione delle competenze e dei compiti di ciascuno, integrando e armonizzando il lavoro di più figure professionali (inoltre, sempre più frequentemente, il malato è parte integrante e responsabile del team di cura). la flessibilità e l’adattabilità alle varie necessità individuali e alle varie circostanze sono un importante aspetto del management continuativo; si tratta infatti di patologie croniche e quindi di scarsa soddisfazione per l’impossibilità della guarigione e perché durano l’intera vita del paziente. per semplificare e riassumere i concetti fin qui esposti, si possono identificare due diverse concezioni della continuità delle cure, che per alcuni versi possono essere visti in contrapposizione e che ultimamente sono presi come punti di riferimento per scegliere l’orientamento dello sviluppo dei sistemi sanitari: la continuità di relazione e la continuità di processo. nella continuità di relazione l’assistenza sanitaria è vista come fatto prettamente interpersonale in quanto conta solo la relazione tra medico e paziente. vi è la scelta da parte del paziente di un medico unico che abbia una conoscenza approfondita tale da divenire riferimento primario per: il consulto per qualsiasi problema di say lute; la prescrizione e valutazione di accertay menti e consulenze; la dispensazione delle cure. y secondo la continuità di processo si deve prevedere un’articolata sequenza di operatori che permetta il procedere corretto e tempestivo di un programma assistenziale anche prolungato con enfatizzazione su: lavoro di équipe; y coordinamento e organizzazione; y rispetto di protocolli procedurali diagnoy stico-terapeutici concordati; raccolta e registrazione standardizzata dei y dati clinici; trasmissione corretta e regolare delle iny formazioni tra gli operatori. in questo modello si ha una visione dell’assistenza sanitaria come fatto rigorosamente scientifico e organizzato. i due approcci sono spesso visti in contrapposizione: quale delle due forme deve essere privilegiata? il dibattito teorico sull’organizzazione dei sistemi sanitari nazionali verte su questo, poiché da tale scelta dipendono i modelli organizzativi perseguibili e la conseguente allocazione delle risorse sia professionali sia finanziarie. di fatto i paesi occidentali stanno procedendo a una ristrutturazione focalizzata sulla continuità di processo, che viene proposta come un modello più moderno ed efficiente, anche in vista della possibilità di un più facile contenimento dei costi attraverso un’oculata dispensazione dell’assistenza e delle risorse; tuttavia la critica maggiore che si può rivolgere a questo modello è rappresentata dal pericolo di frammentazione delle responsabilità: manca l’assunzione da parte degli operatori di una responsabilità globale di processo con il rischio di una gestione burocratica dei problemi sanitari e la tendenza a rimandare la soluzione dei problemi o a deferirli all’operatore successivo. dall’altra parte si può ben capire come la continuità di relazione abbia come difetto proprio lo stretto legame che si viene a creare tra medico e paziente: l’amicalità, infatti, allontana dal rigore e dalla scientificità. è ben noto come le evidenze scientifiche e le linee guida mal si coniughino con la necessità di gestione del singolo paziente: l’evidence clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 61 a. pizzini based medicine è in antitesi con la relazione medico-paziente, così come il dato statistico è contro l’individualità. il medico di famiglia si trova tra questi due poli, in quanto, se da un lato appare chiaro che la continuità di relazione è per lui irrinunciabile, in quanto essa è il fondamento della medicina di famiglia, è altrettanto evidente che, nell’attuale mondo sanitario e specialmente in quello che si sta delineando per il futuro, da solo egli non può più garantire un’adeguata assistenza ai suoi pazienti. nel medico di famiglia si deve poter fondere e dissolvere il contrasto tra continuità di processo e continuità di relazione: in realtà il contrasto può divenire fittizio. un esempio concreto è la gestione delle patologie croniche o di un rischio che accomuna tutta la popolazione come quello cardiovascolare. nella figura 1 è illustrata la suddivisione della popolazione maschile italiana in base a 10 classi crescenti di rischio cardiovascolare calcolato applicando il punteggio individuale (sulla base del “progetto cuore” dell’istituto superiore di sanità, www.progettocuore.it). la popolazione più numerosa è ovviamente nelle fasce del basso e medio rischio (numeri tra parentesi alla base delle colonne); gli eventi cardiovascolari (numeri sopra le colonne) che avvengono nella popolazione che ha un alto rischio cardiovascolare – ossia, per definizione, ≥ 20% – sono solo il 25% del totale. la linea tratteggiata mostra l’incidenza degli eventi in 10 anni: la linea cresce spostandosi verso destra. figura 1 eventi cardiovascolari maggiori (barre) in relazione all ’incidenza a 10 anni (curva tratteggiata) per classi di rischio cardiovascolare negli uomini di età compresa tra 35 e 69 anni, secondo dati del progetto cuore dell ’istituto superiore di sanità (www.progettocuore. it) [3] figura 2 eventi cardiovascolari maggiori (barre) in relazione all ’incidenza a 10 anni (curva tratteggiata) per classi di rischio cardiovascolare nelle donne di età compresa tra 35 e 69 anni, secondo dati del progetto cuore dell ’istituto superiore di sanità (www.progettocuore. it) [3] 0 20 100 160 180 pr ev al en za (% ) 40 140 80 60 120 0 5 25 40 45 10 35 20 15 30 in ci de nz a in 10 an ni (% ) i (3.433) 112 ii (1.659) 153 iii (800) 94 iv (439) 76 v (253) 46 vi (161) 33 vii (155) 27 viii (79) 18 ix (62) 20 x (55) 17 classi di rischio cardiovascolare in 10 anni (popolazione) 25% degli eventi 75% degli eventi 20 0 20 100 160 180 pr ev al en za (% ) 40 140 80 60 120 0 5 25 40 45 10 35 20 15 30 in ci de nz a in 10 an ni (% ) i (9.331) 80 ii (1.854) 83 iii (679) 50 iv (337) 38 v (164) 15 vi (71) 9 vii (55) 7 viii (35) 7 ix (26) 3 x (22) 6 4% degli eventi 96% degli eventi 20 classi di rischio cardiovascolare in 10 anni (popolazione) clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 62 editoriale in genere il medico si preoccupa delle persone ad alto rischio. nell’ultimo decile su 55 persone 17 si sono ammalate: un caso ogni 3 persone; nel primo decile, invece, su 3.433 persone si sono sviluppati 112 eventi: un caso ogni 30 persone. si capisce bene così che, sebbene la probabilità di un evento sia maggiore nelle classi ad alto rischio, il numero assoluto di eventi si verifica maggiormente nelle popolazioni a medio e basso rischio (perché sono di più!): gli uomini con un rischio uguale o superiore al 20% generano solo il 25% degli eventi. nelle donne (figura 2) il concetto è ancora più forte: solo il 4% degli eventi totali avviene nella popolazione con un alto rischio. si deve quindi concludere che un basso rischio a cui è esposta tutta la popolazione produce in termini assoluti un danno maggiore di quello derivato da un rischio elevato al quale è esposto un piccolo gruppo di persone. una buona strategia preventiva non deve preoccuparsi solo degli individui ad alto rischio (su cui si deve comunque intervenire con tutte le strategie possibili), ma deve combinare l’approccio dell’alto rischio con l’approccio di popolazione mirato anche alle persone a rischio moderato e basso (mediante le modifiche degli stili di vita e una corretta alimentazione); ecco che è ben chiaro come solo una strategia che metta in campo una reale continuità nelle cure che parta dalla prevenzione, mediante azioni indirizzate alla popolazione a basso e medio rischio, e giunga all’identificazione delle strategie più adatte per trattare le persone ad alto rischio, può garantire un approccio globale al problema sanitario preso in esempio. la via per la ricerca delle soluzioni viene analizzata dalla scienza che studia la complessità delle cure. si debbono abbandonare i modelli di interpretazione lineari dei fenomeni sanitari, e adottare sistemi che più si adattano alla crescente complessità della sanità del xxi secolo. in pratica si debbono aumentare le certezze, l’accordo, le capacità a discapito della semplice competenza. bibliografia saultz jw. defining and measuring interpersonal continuity of care. 1. ann fam med 2003; 1: 134-43 haggerty jl, reid rj, freeman gk, starfield bh, adair ce, mckendry r. continuity of care: 2. a multidisciplinary review. bmj 2003; 327: 1219-21 aa.vv. raccomandazioni operative a conclusione della iii conferenza nazionale sulla 3. prevenzione delle malattie cardiovascolari. ital heart j 2004; 5 (suppl 8): 122s-135s clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 153 marco mascellanti 1 introduzione l’attenzione della comunità cardiologica è da sempre fortemente puntata al trattamento della cardiopatia ischemica acuta, perché è una patologia grave e ad alto impatto sociale. in particolare, la cura dell’infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto st-t (stemi), cioè quello in cui l’ischemia interessa una parete cardiaca a tutto spessore, è sempre stata privilegiata dal cardiologo, in quanto si tratta di una patologia a patogenesi più chiara, trattamento più intuitivo e mortalità ospedaliera più elevata. i successi dei protocolli diagnostici e terapeutici relativi all’infarto miocardico transmurale (con sopraslivellamento del tratto st-t), causato nella gran parte dei casi dall’occlusione acuta di un vaso coronarico epicardico, hanno reso drasticamente più bassa la mortalità di questa patologia, con un andamento lento ma progressivo a partire dagli anni ’80. sindrome coronarica acuta: analisi di due casi clinici abstract the patients presenting acute coronary syndrome without st segment elevation can have a short and long-term risk of death or recurrent ischemic events. therefore, the evaluation of risk is an essential step in the management of such patients. we report two cases – a 86-year-old male, and a 46-year-old one – with acute coronary syndrome with non-st-segment elevation, showing the importance of risk assessment to determine management strategy. two risk profile scores were used: timi score and grace score. routine use of validated risk score may facilitate more appropriate tailoring of intensive therapies, but the clinical reasoning of the physician is essential to take right decisions. keywords: acute coronary syndrome, timi score, grace score, risk assessment acute coronary syndrome: analysis of two case reports cmi 2009; 3(4): 153-159 1 unità di terapia intensiva cardiologica e cardiologia interventistica, p. o. “spirito santo” pescara corresponding author dottor marco mascellanti marco.mascellanti@alice.it caso clinico l’affinamento delle metodiche diagnostiche, tra le quali, ad esempio, la determinazione dei marker biochimici specifici per necrosi miocardica [1], la maggiore attenzione dei cardiologi e l’incremento stesso della incidenza della patologia, da mettere in relazione soprattutto con l’invecchiamento della popolazione, hanno condotto a un sostanziale aumento del numero di diagnosi di sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento del tratto st-t, ovvero di angina instabile e infarto perché descriviamo questo caso? il caso evidenzia come, nella gestione della sindrome coronarica acuta, un’accurata stratificazione del rischio possa essere utile nell ’indirizzare le scelte cliniche. nonostante il supporto dei risk score, una valutazione completa del paziente non può prescindere dall ’esperienza e dalle abilità cliniche del medico clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 154 sindrome coronarica acuta: analisi di due casi clinici miocardico nste (senza elevazione del tratto st-t) [2]. secondo dati attendibili, provenienti dall’analisi ragionata delle schede di dimissione ospedaliera di emilia romagna, lombardia e friuli venezia giulia, tra il 2001 e il 2005 le forme di stemi sono diminuite, mentre quelle di nstemi sono più che raddoppiate [3]. l’attenzione per le forme di ischemia miocardica senza sopraslivellamento del tratto st-t è aumentata quindi non soltanto per motivi epidemiologici, ma anche per la consapevolezza crescente del fatto che la loro prognosi, tradizionalmente considerata migliore rispetto alle forme con sopraslivellamento del tratto st-t, è in realtà non altrettanto favorevole se si considerano periodi di osservazione più prolungati in confronto alla sola fase intraospedaliera [4,5]. in altre parole, i cardiologi hanno ormai individuato l’ambito delle sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento del tratto st-t come uno spazio di importanti manovre diagnostiche e terapeutiche. ciò, a maggior ragione, in un’epoca in cui le armi a disposizione del cardiologo sono divenute potentissime e straordinariamente efficaci, quando ben utilizzate. da ciò deriva, anche in considerazione del periodo storico di ristrettezze di risorse in sanità, la necessità di razionalizzare massimamente l’utilizzo degli strumenti a disposizione, al fine di applicare il giusto protocollo al giusto paziente. casi clinici in un venerdì pomeriggio, a distanza di poche ore uno dall’altro, giungono al ricovero in unità terapia intensiva coronarica (utic) due pazienti con dolore toracico. il primo dei due è un anziano di 86 anni, iperteso, diabetico e con insufficienza renale cronica lieve (creatinina 1,9 mg/dl), già noto ai medici dell’utic per un’anamnesi ricca di eventi cardiovascolari acuti infartuali e di rivascolarizzazioni miocardiche, chirurgiche e percutanee. il secondo è un giovane uomo di 46 anni, fumatore, al suo primo ricovero ospedaliero. figura 1 ecg del paziente di 46 anni figura 2 ecg del paziente di 86 anni clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 155 m. mascellanti l’elettrocardiogramma (ecg) del più giovane (figura 1) mette in evidenza un diffuso sottoslivellamento st-t anterolaterale, con dolore toracico irradiato agli arti e sudorazione algida. l’ecg del paziente di 86 anni mostra anch’esso un diffuso sottoslivellamento del tratto st-t in anterolaterale, con associato dolore toracico tipico per origine cardiaca (figura 2); il paziente riferisce più di un episodio nelle ultime 24 ore. viene instaurata una terapia farmacologica. in entrambi i casi si somministrano: acido acetilsalicilico (il paziente di 86 anni y lo assumeva cronicamente), al dosaggio di 100 mg per os per il paziente già in trattamento domiciliare, e di 250 mg ev nel caso del paziente giovane; eparina non frazionata in bolo e in infuy sione continua; clopidogrel 75 mg al giorno, con dose di y carico da 300 mg per os; beta bloccante ev seguito da somministray zione orale cronica; morfina 5 mg ev. y il paziente di 46 anni diviene rapidamente asintomatico; le alterazioni notate all’ecg regrediscono e il tracciato torna alla completa normalità. al contrario, il soggetto più anziano resta lievemente sintomatico per dolore toracico. le determinazioni enzimatiche all’ingresso rivelano una positività di troponina e creatin kinase-mb (ck-mb) per il paziente più anziano, mentre quello più giovane risulta negativo alla prima determinazione. su questa base, al paziente di 86 anni si aggiunge in terapia tirofiban ev, a dose dimezzata per la presenza di insufficienza renale cronica (clearance della creatinina < 30 ml/min). considerata l’espressione clinica di sindrome coronarica acuta, il medico di guardia pone indicazione a valutazione coronarografica in entrambi i pazienti. a tal fine contatta l’unità di emodinamica di riferimento, situata a circa 30 km di distanza dall’utic, che dichiara di poter trattare immediatamente solo uno dei due pazienti, mentre per l’altro, per indisponibilità di posti letto, è necessario attendere uno o, più probabilmente, due giorni. primo quesito siete d ’accordo con l ’indicazione posta dal y medico di guardia dell ’utic a proposito della necessità di coronarografia per entrambi i pazienti? come già anticipato nell’introduzione, vi è oggi generale consenso sul fatto che, nell’ambito delle sindromi coronariche acute, vada effettuata la coronarografia, alla luce dei vantaggi prognostici conseguiti dalle strategie invasive rispetto a quelle conservative in questo tipo di presentazione della patologia coronarica. la decisione del medico è pertanto ampiamente condivisibile. secondo quesito chi avviereste per primo all ’esame coroy narografico, e secondo quale criterio? i comportamenti usuali in casi come questi non sono sempre ispirati da una stretta aderenza alle linee guida; spesso risentono di consuetudini locali o di ragionamenti personali. lo spettro delle annotazioni che si leggono nelle cartelle cliniche, a giustificazione delle decisioni adottate, è quanto mai ampio. l’individualizzazione del trattamento passa obbligatoriamente attraverso una precisa conoscenza della patogenesi della malattia ischemica e dei risultati degli innumerevoli trial clinici a disposizione. è nozione comune che nei trial clinici possa esistere un “bias di selezione”, cioè che il medico responsabile dell’arruolamento tenda, pur non esplicitamente, a includere i pazienti “migliori” e a escludere quelli più compromessi, spesso sulla base dei criteri stabiliti dal protocollo stesso. un analogo meccanismo si verifica nella comune pratica clinica, quando si deve decidere se sottoporre o meno un paziente a un atto diagnostico-terapeutico gravato da possibili complicanze o, più semplicemente, da probabili importanti ricadute decisionali. recentemente è stato introdotto il concetto di opportunity score (da affiancare a quello di risk score) nella valutazione di popolazioni anziane, con il significato di pesare attentamente nel singolo individuo da una parte il rischio delle sue condizioni e quello della procedura diagnostico-terapeutica da attuare e, dall’altra, il beneficio atteso. è quindi intuibile come la decisione fondamentale (chi sottoporre a quale esame e in quali tempi) non possa essere lasciata all’improvvisazione, ma vada invece guidata dal buon senso clinico e dalla corposa letteratura scientifica esistente in materia. questo comportamento è tanto più necessario se si pensa all’ampia eterogeneità dei clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 156 sindrome coronarica acuta: analisi di due casi clinici la stratificazione del rischio imprescindibile dall’applicazione di ogni atto diagnostico-terapeutico è dunque una corretta stratificazione del rischio, al fine di fornire al singolo paziente l’iter più adeguato alle sue necessità, compatibilmente con le risorse a disposizione; tale atteggiamento è inoltre particolarmente salutare anche per il medico, se si considerano serenamente le implicazioni medico-legali che il nostro lavoro comporta. l’applicazione ragionata e flessibile delle linee guida, vissute come utile traccia e non come un percorso obbligato della nostra attività professionale, permette un alto livello qualitativo delle cure in ogni situazione logistica, ossia anche in ospedali meno tecnologicamente avanzati, ma dotati di protocolli comportamentali adeguati e sistematicamente applicati. alla base dell’applicazione delle linee guida vi è, per l’appunto, la stratificazione del rischio. lo strumento ideale per la stratificazione del rischio in una patologia acuta deve riassumere in sé un giusto equilibrio tra complessità e utilità. esistono vari mezzi per la valutazione del rischio nelle sindromi coronariche acute, e sono per lo più strumenti semplici e validati su ampie casistiche tratte da studi randomizzati o da registri. si basano sulla rilevazione di parametri immediati, sempre disponibili in ogni situazione assistenziale. fino a pochi anni fa il più utilizzato era il timi risk score (thrombolysis in myocardial infarction) [6], che fornisce indicazioni sulla probabilità a sei mesi di un endpoint combinato di: mortalità; y reinfarto; y ischemia severa richiedente rivascolarizy zazione entro due settimane. in tale score sono previste sette variabili, che vengono sommate aritmeticamente in modo da ottenere un punteggio da 0 a 7 (tabella i). il punteggio ottenuto permette età ≥ 65 anni? y ≥ 3 fattori di rischio per coronaropatia (tra familiarità, ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, y diabete mellito, fumo)? coronaropatia nota (stenosi ≥ 50%)? y utilizzo di acido acetilsalicilico negli ultimi 7 giorni? y angina ingravescente (≥ 2 episodi in 24 ore)? y modifiche st ≥ 0,5 mm? y positività dei marker cardiaci? y tabella i timi risk score per angina instabile/ nstemi parametro punteggio età (anni) < 40 0 40-49 18 50-59 36 60-69 55 70-79 73 80 91 frequenza cardiaca (battiti al minuto) < 70 0 70-89 7 90-109 13 110-149 23 150-199 36 >200 46 pressione arteriosa sistolica (mmhg) < 80 63 80-99 58 100-119 47 120-139 37 140-159 26 160-199 11 > 200 0 creatinina (μmol/l) 0-34 2 35-70 5 71-105 8 106-140 11 141-176 14 177-353 23 ≥ 354 31 classe killip i 0 ii 21 iii 43 iv 64 arresto cardiaco all’ingresso 43 enzimi cardiaci elevati 15 deviazione tratto st 30 tabella ii parametri nel grace risk score pazienti con sindrome coronarica acuta, particolarmente dei casi senza sopraslivellamento del tratto st-t, la cui gravità attraversa uno spettro che va dal minimo movimento di troponina in un giovane paziente senza comorbilità fino all’anziano con diffusa necrosi subendocardica e con patologie concomitanti. clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 157 m. mascellanti di dividere i pazienti in sestili di rischio (0/1, 2, 3, 4, 5, 6/7 variabili presenti) che riescono a discriminare un gradiente di rischio di circa 10 dal sestile più basso a quello più elevato. l’appartenenza a un sestile con punteggio uguale o superiore a 3 è considerata di rischio elevato. attualmente, uno strumento molto diffuso è il grace risk score (global registry of acute cardiac events) [7] (tabella ii). strutturato anch’esso sulla base di parametri clinici immediati, fornisce una previsione della sola mortalità, o di mortalità e reinfarto miocardico in combinazione, nel corso della degenza iniziale o entro i primi sei mesi dall’evento acuto. si compone di cinque variabili cliniche e di tre variabili relative alla presentazione o alla positività degli enzimi miocardici all’ingresso; la stratificazione è effettuata su tre terzili di punteggio, da basso ad alto rischio, che si traducono poi in percentuali di rischio dell’evento morte. la stratificazione fornisce, sulla base dei documenti di consensus elaborati dalle società scientifiche di settore, la possibilità di adozione di percorsi calibrati: i pazienti considerati ad alto rischio (timi risk score > 3; grace risk score > 140, cioè appartenenti timi risk score parametro specifiche del paziente punteggio età ≥ 65 anni? y sì 1 ≥ 3 fattori di rischio per coronaropatia y (tra familiarità, ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, diabete mellito, fumo) sì 1 coronaropatia nota (stenosi ≥ 50%)? y sì 1 utilizzo di acido acetilsalicilico negli ultimi 7 giorni? y sì 1 angina ingravescente (≥ 2 episodi in 24 ore)? y sì 1 modifiche st ≥ 0,5 mm? y sì 1 positività dei marker cardiaci? y sì 1 totale 7 rischio elevato grace risk score parametro specifiche del paziente punteggio età (anni) y 86 91 frequenza cardiaca (battiti al minuto) y 105 13 pressione arteriosa sistolica (mmhg) y 150 26 creatinina ( y μmol/l) 168 14 classe killip y i 0 arresto cardiaco all’ingresso y no 0 enzimi cardiaci elevati y sì 15 deviazione tratto st y sì 30 totale 189 rischio elevato tabella iii grace risk score e timi risck score del paziente di 86 anni al terzile più alto) vanno avviati a coronarografia nel corso della ospedalizzazione iniziale e preferibilmente entro 24 ore; quelli a rischio medio dovrebbero essere sottoposti a coronarografia entro 72 ore mentre gli altri possono ragionevolmente essere sottoposti a strategia conservativa o a esame angiografico ambulatoriale. la stratificazione del rischio, come già accennato, permette anche una migliore calibrazione della terapia: i pazienti delle classi di rischio più elevate traggono vantaggio molto più marcato dall’adozione di terapie farmacologiche più aggressive, che per la loro stessa natura sono gravate da maggiori effetti collaterali, ma che al tempo stesso non sono in grado di apportare significativi vantaggi alle classi di rischio inferiori. il medico di utic sceglie di stratificare il rischio dei due pazienti, applicando i due strumenti prima descritti, con i seguenti risultati (tabelle iii e iv ): paziente di 86 anni: y grace risk score = 189 (rischio eley vato); timi risk score = 7 (rischio elevato); y paziente di 46 anni: y clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 158 sindrome coronarica acuta: analisi di due casi clinici grace risk score = 100 (rischio basy so); timi risk score = 1 (rischio basso). y nella figura 3 sono rappresentate le stratificazioni di rischio secondo il grace score, come appaiono nella versione web dello strumento; in esse il rischio dei due pazienti è espresso in percentuale di rischio di morte o morte + infarto miocardico dall’ingresso a 6 mesi, e i punteggi ottenuti sono già stati automaticamente convertiti in percentuali di rischio. su questa base egli invia per primo il paziente più anziano, che viene trattato immediatamente con angioplastica coronarica transluminale percutanea (ptca) per una subocclusione di un ramo intermedio di grosso calibro. le applicazioni dei risk score sono valutazioni puntuali, all’ingresso del paziente in ospedale [8]; la valutazione globale si avvale di ulteriori considerazioni che intervengono durante la degenza, per cui è in realtà un processo continuo. ad esempio, la persistenza dell’angina, l’instabilità emodinamica o la comparsa di aritmie ventricolari maggiori inducono a velocizzare il percorso diagnostico-terapeutico, con effettuazione di una coronarografia entro 24 ore, a prescindere dalla presentazione iniziale. il medico dell’utic, dunque, rivaluta criticamente il quadro clinico del paziente giovane e, analizzando meglio l’ecg, nota timi risk score paziente 46 anni parametro specifiche del paziente punteggio età ≥ 65 anni? y no 0 ≥ 3 fattori di rischio per coronaropatia (tra familiarità, y ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, diabete mellito, fumo) no 0 coronaropatia nota (stenosi ≥ 50%)? y no 0 utilizzo di acido acetilsalicilico negli ultimi 7 giorni? y no 0 angina ingravescente (≥ 2 episodi in 24 ore)? y no 0 modifiche st ≥ 0,5 mm? y sì 1 positività dei marker cardiaci? y no 0 totale 1 rischio basso grace risk score parametro specifiche del paziente punteggio età (anni) y 46 18 frequenza cardiaca (battiti al minuto) y 78 7 pressione arteriosa sistolica (mmhg) y 135 37 creatinina (μmol/l) y 90 8 classe killip y i 0 arresto cardiaco all’ingresso y no 0 enzimi cardiaci elevati y no 0 deviazione tratto st y sì 30 totale 100 rischio basso tabella iv grace risk score e timi risck score del paziente di 46 anni figura 3 stratificazioni di rischio secondo il grace score, come appaiono nella versione web dello strumento clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 159 m. mascellanti un sopraslivellamento st-t in avr durante l’unico episodio anginoso. ciò gli suggerisce la possibilità di una malattia del tronco comune della coronaria sinistra. il medico decide pertanto di attuare un percorso più rapido rispetto a quello originariamente tracciato (coronarografia dopo tre giorni) e contatta una seconda emodinamica che fornisce la propria disponibilità a eseguire l’esame coronarografico in tempi più brevi. il paziente viene trasferito dopo poche ore; la mattina seguente è sottoposto a una coronarografia che evidenzia una stenosi critica del tronco comune della coronaria sinistra; dopo cinque giorni di sospensione di clopidogrel, viene trattato con rivascolarizzazione miocardica chirurgica per mezzo di by pass aorto-coronarici. è evidente, che, così come può accadere di sentirsi troppo vincolati dalla applicazione rigida delle linee guida, è altrettanto vero che una attuazione non ragionata e poco flessibile dei risk score possa essere controproducente. nei casi clinici descritti il comportamento del medico di guardia in utic è stato invece al tempo stesso aderente alle raccomandazioni, ma anche adattabile alle esigenze cliniche dei due pazienti che, pur presentandosi in maniera simile dal punto di vista spiccatamente elettrocardiografico, esprimevano profili di rischio decisamente diversi. il paziente più anziano, per il suo alto profilo di rischio a breve termine, necessitava di una terapia efficace in tempi stretti; una ulteriore necrosi miocardica di una certa grandezza per lui poteva significare la comparsa di franca insufficienza ventricolare sinistra di tipo sistolico. l’uomo di 46 anni non aveva invece manifestato, sia clinicamente che sulla base del calcolo di rischio, una spiccata propensione alla complicanza immediata, ma necessitava comunque di una progressione diagnostica in tempi brevi. la sue necessità sono scaturite da un’interpretazione attenta e continua di segni e sintomi. è per questo che nessuna linea guida o risk score potrà mai spodestare completamente il ruolo del medico: la medicina resta un’arte umana applicata alla scienza biologica. disclosure l’autore dichiara di non avere alcun confitto di interessi di natura finanziaria. bibliografia alpert js, thygesen k, antman em, bassand jp. myocardial infarction redefined – a consensus 1. document of the joint european society of cardiology/american college of cardiology committee for the redefinition of myocardial infarction. eur heart j 2000; 21: 1502-13 lev ei, battler a, behar s, porter a, haim m, boyko v et al. frequency, characteristics, 2. and outcome of patients hospitalized with acute coronary syndromes with undetermined electrocardiographic patterns. am j cardiol 2003; 91: 224-7 aa.vv. sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento del tratto st. documento di 3. consenso della federazione italiana di cardiologia. g ital cardiol 2009; 10 (suppl 1-6): 5s24s savonitto s, ardissino d, granger cb, morando g, prando md, mafrici a et al. prognostic value 4. of the admission electrocardiogram in acute coronary syndromes. jama 1999; 281: 707-13 volmink ja, newton jn, hicks nr, sleight p, fowler gh, neil ha. coronary event and case 5. fatality rates in an english population: results of the oxford myocardial infarction incidence study. the oxford myocardial infarction incidence study group. heart 1998; 80: 40-4 antman em, cohen m, bernink pj, mccabe ch, horacek t, papuchis g et al. the timi risk 6. score for unstable angina/non-st elevation mi: a method for prognostication and therapeutic decision making. jama 2000; 284: 835-42 eagle ka, lim mj, dabbous oh, pieper ks, goldberg rj, van de werf f et al. a validated 7. prediction model for all forms of acute coronary syndrome: estimating the risk of 6-month postdischarge death in an international registry. jama 2004; 291: 2727-33 task force for diagnosis and treatment of non-st-segment elevation acute coronary 8. syndromes of european society of cardiology; bassand jp, hamm cw, ardissino d, boersma e, budaj a, fernández-avilés f et al. guidelines for the diagnosis and treatment of non-stsegment elevation acute coronary syndromes. eur heart j 2007; 28: 1598-660 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3) 95 clinical management issues introduction an organizative hitch characterized by an unintentional delayed communication, did not affect the positive clinical evolution of a patient, and allowed us to study in depth an atypical clinical case in terms of differential diagnosis. a literature search and the discussion among all clinicians which come from this clinical presentation enabled us to contribute with personal, professional knowledge of every specialist, and may represent a stimulating subject for a debate also for readers. only after writing down this contribution, we were finally informed of the exact microbiological diagnosis, so that we voluntary introduced this short premise. when postponing the communication of why do we describe this case the modern medicine makes use of sensitive and specific laboratories technologies, which allow to make important diagnosis in short periods of time. but sometimes this isn’t true. the late availability of a microbiological specimen has allowed to establish the clinical features by the definitive diagnosis of atypical mycobacteriosis. the treatment for a long period with only one carbapenem antibiotic did not affect the clinical response of the patient corresponding author dott. roberto manfredi infectious diseases, university of bologna, s. orsola hospital via massarenti 11 i-40138 bologna, italy telephone: +39-051-6363355 telefax: +39-051-343500 roberto.manfredi@unibo.it case report abstract a probable case report of an abdominal botryomycosis has been hypothesized in a patient with a stable hiv infection under an effective antiretroviral therapy. hyperpyrexia, abdominal pain and tenderness, and a thickening of small intestinal walls associated with multiple mesenteric adenopathies and a peritoneal involvement, prompted an ultrasonography-guided fine needle biopsy, and later a laparoscopy-laparotomy which excluded a neoplastic or lymphoproliferative disorders, showing only abundant fibrotic and necrotic-steatonecrotic tissue, with sparse multinuclear giant cells type langhans. the prompt response to surgical intervention and a treatment with i.v. meropenem alone might be referred to a concurrent gram-negative infection of abdominal origin, until a late culture of an atypical mycobacterium came to our attention over one month after the end of hospitalization. an updated literature search is presented and discussed, in relationship with the observed, extremely infrequent case reports of botryomycosis in different clinical settings. keywords: intrabdominal mass; peritoneal involvement; inflammatory signs; surgical treatment; meropenem; botryomycosis; atypical mycobacteriosis una “misteriosa” massa intraddominale a eziologia infettiva, in un paziente con infezione da hiv controllata. un “ritardo diagnostico” consente di approfondirne la conoscenza studiando una patologia rara cmi 2011; 5(3): 95-106 1 department of infectious diseases, university of bologna, s. orsolamalpighi hospital, bologna, italy 2 department of pathology and histopathology, university of bologna, s. orsola-malpighi hospital, bologna, italy 3 department of surgery and organ transplantation, university of bologna, s. orsolamalpighi hospital, bologna, italy sergio sabbatani 1, roberto manfredi 1, benedetta fabbrizio 2, antonio caira 3, fabio filippo trapani 1, giovanni fasulo 1, pierluigi viale 1 a “mysterious” intrabdominal mass with infectious origin, in a patient with hiv infection under control. a “delayed diagnosis” allows to enlarge our knowledge, by assessing a rare disease the final microbiological diagnosis to the “discussion” section, we aim to leave some ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3)96 an intrabdominal-peritoneal mass during hiv infection time and some “suspense” to the readers too, in order to underline the adjunctive diagnostic difficulties potentially descending from apparently lacking laboratory data in an extremely complicated diagnostic “puzzle”, and the need to always maintain an elevated, broad spectrum mind in the clinical management of “difficult to treat” patients. botryomycosis has been described since 1950s as an uncommon bacterial infection mimicking actinomycosis and fungal infections, characterized by one or multiple aspecific suppurative-granulomatous foci containing sulphur-like granules, usually with eosinophilic infiltrates, where in many cases either gram-positive organisms (i.e. staphylococcus aureus, coagulase-negative staphylococci, streptococcus spp., bacillus or corynebacterium spp.), or gram-negative organisms (i.e. escherichia coli, pseudomonas aeruginosa, proteus or neisseria spp.), and also anaerobe bacteria (including actinobacillus and peptostreptococcus spp., and propionibacterium acnes), might be cultured: sometimes a mixed bacterial flora may be found [1-4]. actually, after the early observations carried out in animals (especially cattle and horses), the term “botryomycosis” has been proposed by rivolta in 1884 [1,5], after noticing the “grapelike” appearance of its macroscopic lesions, which resembled those caused by fungi (hence the suffix “mycosis”). later, magrou proved the most common bacterial origin of botryomycosis, by isolating s. aureus from pulmonary lesions [6], and also demonstrated that the unusual histopathological picture of botryomycosis was the result of a sort of “symbiotic” relationship between the inoculum microorganism dose, the virulence of the different pathogens, and the immune response of the affected host [1,6]. although primarily considered as a veterinary disease, over one hundred of human cases have been described in the past century, in form of single reports or small case series. the majority of described episodes involved mainly skin and skin structures [2,7], and more infrequently the thorax and the abdomen (the so-called visceral botryomycosis, which remains a rare disease, often described in the compromised host, although the specific role of host immune response in the pathogenesis of visceral botryomycosis is not fully understood) [2,3,8,9]. possible adjunctive host risk factors associated with both cutaneous and visceral botryomycosis include: diabetes mellitus, cystic fibrosis, malnutrition, alcoholism, hiv infection, major or minor trauma, a chronic granulomatous disease, and prior surgery [2,8,10-16]. also the pathogenesis of botryomycosis is not completely known: the process is thought to involve a combination of supporting factors including an inciting event (i.e. a major or minor trauma, including piercing for example), the amount of inoculated microorganisms, the intrinsic virulence of infecting pathogens, and the intrinsic host susceptibility [1-3,6,16]. since its first report in humans published in 1913 [17], botryomycosis remained difficult to distinguish f rom actinomycosis and fungal diseases, in both cutaneous and visceral localizations. when the respiratory tract is involved, actimomycosis usually has an aspiration origin, while the factors prompting botryomycosis have not been identified yet, with host factors and foreign bodies probably playing some role in its pathogenesis [1-3,7,18,19]. a retrospective, historical re-appraisal of botryomycosis, may be found in the narration of the philoctetes’s diseases by sophocles masterpiece [20,21], with reference to the long-term granulomatous, non-healing cutaneous wounds of the greek hero philoctete, which occurred after a painful but not lethal snake (viper) bite at his foot. the superinfection of this lesion caused the legendary, very prolonged stay at the isle of lesmos of the greek hero, where philoctete was reclaimed by his companions in order to prompt a positive course to the long-lasting troy war [20-22]. the limb lesion of philoctete was described as a painful and extremely chronic ulcer, not lethal in its course but still present after around one decade, and complicated by bleeding and a discharge of malodorous and purulent material, so that it caused severe functional impotence. some homer’s commenters interpreted the lesion of philoctete as caused by maduromycosis, mycetoma, chromoblastomycosis, and also botryomycosis. a comparison between the description of the clinical features of philoctetes’s disease and that of very similar afflictions (also called actinophytosis, or bacterial pseudomycosis, pyogenic granuloma, or granular bacteriosis, in some narrations) [1,23] shows a clinical resemblance of botryomycosis, since each of the considered diseases has a chronic course, may frequently affect the extremities, may be caused by an initial trauma, may present with ulcers, and may discharge purulent-haematic material. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3) 97 s. sabbatani, r. manfredi, b. fabbrizio, a. caira, f. f. trapani, g. fasulo et al as examined by urso and farella in their 1996 contribution on philoctetes’s disease [22], actually botryomycosis is primarily localized at limbs with cutaneous ulcers, has a long-term course in absence of an effective treatment, is complicated by purulent and sero-hematic discharge, has an anamnestic trauma, and a foul odour, but usually it is not painful. anecdotal cases of primary botryomycosis (especially cutaneous localizations) have been reported also in patients without any known underlying illness. however, immunocompromised patients as a whole [2,7], and especially subjects with an underlying cystic fibrosis [24], those with diabetes mellitus [2], and patients with hiv and aids [8,10,25-32], seem to be more prone to develop botryomycosis (in particular its visceral form), compared with the general population. with regard to life age, episodes of botryomycosis have been described from infancy to old age. aim of our report is to describe a patient with a stable hiv infection under an effective antiretroviral therapy, who developed a gross abdominal mass with peritoneal involvement, potentially caused by a visceral botryomycosis, as suggested by multiple, repeated diagnostic procedures (including imaging and histopathology studies), and whose aetiology might be attributed to a gram-negative pathogen, due to the prompt response to a treatment with i.v. meropenem alone, after laparotomy and biopsy. a comprehensive literature search has been performed and discussed, in relationship with the observed, extremely inf requent case report of possible botryomycosis during hiv disease, whose diagnosis has been finally modified by the delayed knowledge of a microbiological isolation. case report a 37-year-old homosexual male patient was initially diagnosed with hiv infection four years ago, and was treated with a powerful association antiretroviral therapy shortly after his referral to our hiv outpatient clinic (7 months later). at that time, the hiv replication rate proved elevated (as showed by plasma hiv-rna levels of 620,000 copies/ ml), and the patient’s immune defence was somewhat compromised (as demonstrated by a cd4+ t-lymphocyte count of 254 cells/µl), so that a treatment with the fixed association tenofovir-emtricitabine (200300 mg/day), plus the protease inhibitor atazanavir (300 mg/day), boostered with ritonavir (100 mg/day), was recommended, and taken by our patient with optimal adherence and no relevant clinical and laboratory adverse events. the past clinical history of our patient included a previous, cured syphilis five years before, and a phlemmonous appendicitis which required surgery, one year before the hospitalization in our division. an allergy to amoxicillin-clavulanate was also reported. starting from one month before admission, our patient complained of an irregular, elevated hyperpyrexia (up to 40°c of body temperature), not responsive to broad spectrum empiric antibiotics (mostly beta-lactames and macrolides), and poorly responsive to antipyretics too, associated with mild abdominal pain and tenderness, but in absence of diarrhoea, stipsis, nausea and vomiting. upon admission, a normal leukocyte count was shown (6,560 cells/µl), with a tendency towards neutrophilia (81.6%), together with an elevated erythrocyte sedimentation rate (esr) (75 mm/hour), significantly elevated c-reactive protein levels (20.2 mg/dl), and overt increased serum fibrinogen levels (648 mg/dl), in absence of other relevant laboratory abnormalities, when excluding a moderate anaemia (haemoglobin level 10.7 g/dl), and elevated ferritin levels (up to 780 mg/ ml). the absolute cd4+ t-lymphocyte count raised to 399 cells/µl, while hiv-rna tested extremely low (370 copies/ml), after a the 7-month successful antiretroviral treatment performed with tenofovir-emtricitabine plus atazanavir-ritonavir. an abdominal ultrasonography, and a contrast-enhanced abdominal computerized tomography (ct) study showed a mild liver and spleen enlargement, an evident ascitic effusion, and focused on a thickening of several small intestinal loops and the related mesenteric tissue, with involvement of the adjacent peritoneum, located in the left paraumbilical region. the large majority of all performed microbiological investigations tested negative or not significant in relationship with the underlying clinical situation. they included: blood, sputum, urine, and stool culture, stool search for parasitic diseases (including cr yptosporiudium spp. and clostridium difficile), widal-wright serology, histoplasma, entamoeba, enterovirus ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3)98 an intrabdominal-peritoneal mass during hiv infection and adenovirus serology, and cryptococcus neoformans serum antigen search. signs of the previous known syphilis infection were retrieved (as demonstrated by a low 1:320 tpha titre, with negative treponemal tests), serum quantiferon test proved negative, as well as the intradermal mantoux reaction. only the epstein-barr virus molecular biology tested positive, by disclosing 3,250 genome equivalents/ml, while the molecular assay for cytomegalovirus infection proved negative (< 500 genome equivalents/ml). all laboratory oncology markers proved negative. an esophagogastroduodenoscopy showed an erosive gastritis-duodenitis (in absence of helicobacter pylori infection), and a pancolonoscopy with multiple biopsies disclosed an aspecific colitis. an ultrasonographic heart study showed a mild pericardial effusion, a high-resolution thorax ct scan tested not significant, while a further contrastenhanced abdominal tc scan, carried out 10 days after the first examination, showed figura 1 the microscopic examination of the abdominal mass biopsy shows wide areas of steatonecrosis, granulation tissue and a diffuse, chronic inflammatory, granulomatous reaction, with areas of colliquative, noncaseation necrosis. numerous granulomas are apparent. haematoxylineosin stain. original magnification 10× figura 2 in the specimen also extensive necrotic and steatonecrotic processes, together with granulation tissue and a diffuse, chronic inflammatory, granulomatous reaction are recognizable, with areas of colliquative, non-caseation necrosis. focus on the upper area of necrosis. haematoxylineosin stain. original magnification 20× ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3) 99 s. sabbatani, r. manfredi, b. fabbrizio, a. caira, f. f. trapani, g. fasulo et al a progressively increased amount of ascitic fluid, a number of enlarged mesenteric and para-aortic lymph nodes (up to 16-18 mm of maximum diameter), and a hypodense, round intrabdominal mass at the root of mesenterial branch, primarily compatible with a lymphoproliferative origin. a subsequent total-body tomoscintigraphy (positron emission tomography, or pet), disclosed a diffuse and intense hypercaptation of the 18f-fdg radiocompound at all abdominal sites (with a maximum suv – standardized uptake values – index of 17), especially at lower left abdomen, where an intestinal and peritoneal involvement were confirmed. the peritoneal fluid was repeatedly tapered and examined: an elevated protein content (5,280 mg/dl) was associated with an increased leukocyte count (960 cells/µl), composed by 75% lymphocytes, 10% neutrophils, and 15% monocyte-macrophages. at the microscopic examination, a prevalence of phlogistic and necrotic material was found (poorly represented granulocytes, lymphocytes, and plasmacells, with a predominant cd3+ t-lymphocyte number, and a regular cd4+/cd8+ t-lymphocyte ratio), in absence of neoplastic cells. neither bacteria, nor mycobacteria, nor fungi, or other microorganisms were observed at gram stain, ziehl-nielsen stain, and grocott stain, and all cultures tested repeatedly negative for all searchable microorganisms (as well as molecular biology probes for mycobacterium tuberculosis and atypical mycobateria). a lymphoprolipherative disease was therefore suspected, due to the underlying hiv disease, the positivity of epstein-barr virus viraemia, and especially the aspect of the abdominal-peritoneal lesion at all instrumental examinations (ultrasonography, contrast-enhanced ct scan, and especially the pet scan). as a consequence, an ultrasonographyguided biopsy of abdominal wall close to the thickened mesenteric tissue was performed, but all microbiological and histopathological studies performed on biopsy material did not disclose any infectious or neoplastic disorder, showing only abundant fibrotic and necrotic-steatonecrotic tissue only, with sparse multinucleated giant cells type langhans. thereafter, an explorative laparoscopy and laparotomy was finally deemed necessary twenty days after admission, in order to have a definite diagnosis and approach a specific treatment. thick, hard, white-grayish membranes involving the parietal peritoneum and some intestinal loops which appeared conglomerated were seen in the left paraumbilical region, close to the peritoneal wall of the left hemiabdomen. once again, all intraoperative material and many tissue biopsies figura 3 when observing the slide with a greater magnification, the granulomas are composed of monocytes, epithelioid macrophages and numerous langhans’ giant cells. langhans’ giant cells have multiple nuclei, with a “horse-shoelike” configuration. haematoxylineosin stain. original magnification 40× ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3)100 an intrabdominal-peritoneal mass during hiv infection involving also the colonic wall, proved negative at all microbiological examinations and culture and molecular biology testings for all searchable microbial pathogens, while histopatological studies demonstrated a diffuse granulomatous inflammatory process with a non-specific aspect, and a diffuse oedema of small intestinal walls. on macroscopic examination, the fibrotic-adipose tissue showed multiple areas of steatonecrosis. microscopic examination disclosed wide areas of steatonecrosis, granulation tissue and a diffuse, chronic inflammatory, granulomatous reaction, with areas of colliquative, non-caseation necrosis (figures 1 and 2). the granulomas were composed of monocytes, epithelioid macrophages and numerous langhans’ giant cells. langhans’ giant cells have multiple nuclei, with a “horseshoe-like” configuration (figure 3). when considering the clinical course of hospitalization, a first empirical attempt performed with i.v. levofloxacin (500 mg twice daily for one week) apparently did not act significantly. later, i.v. meropenem (at 3 g/ day) plus i.v. fluconazole (at 400 mg/day) were introduced under the suspicion of a bacterial and/or fungal aetiology, but fluconazole was discontinued 10 days later after obtaining repeated, negative microscropy and culture assays for fungal organisms, while i.v. meropenem was carried out at the same dosage for two more weeks, and acted favourably on both the febrile reaction, and all the phlogistic parameters (especially creactive protein, esr, and serum fibrinogen levels, which remained remarkably altered since patient’s admission). notably, both hyperpyrexia, and abdominal signs rapidly disappeared after laparoscopy/laparotomy itself, and especially during the prolonged, single-agent antibiotic therapy. after the explorative laparoscopy/laparotomy with multiple biopsies, i.v. therapy with meropenem was continued for two further weeks, and finally allowed to reach a stable, complete disappearance of fever and all abdominal complaints, together with a complete normalization of all inflammatory indexes, so that our patient was discharged without any antimicrobial therapy (when excluding the unmodified antiretroviral combination treatment). a repeated a contrast-enhanced abdominal ct scan four weeks after the end of his hospitalization confirmed the complete resolution of the acute episodes, with isolated fibrotic remnants involving the site of the pathological process. discussion classically, botryomycosis may present with cutaneous or visceral (mainly pulmonary) involvement. when considering cutaneous botryomycosis, feet, hands, inguinal and gluteal areas are the most frequently affected. infrequent complications may occur under the appearance of subcutaneous invasion, or by a local lymph node or bone involvement (osteomyelitis), including also skull, mandible, or orbit, as well as tendons and muscle [2,33-35]. cutaneous botryomycosis sometimes occurs after skin inoculation of microorganisms following trauma, surgery, or in presence of foreign bodies (including piercing practices), or positioning of medical devices like a pacemaker or orthopaedic biomaterials [7,19,23,33,36]. the majority of patients present with skin or subcutaneous nodules, but in other cases verrucous lesions or non-healing ulcers associated with draining fistulae may develop, with purulent discharge and the frequent presence of yellowish “grains”, resembling the “sulphur grains” typical of actinomycosis [37]. cutaneous lesions have a slow clinical progression, and may evolve for several months to years (in rare cases). five episodes complicated by fistulisation and deep, bone infection have been described in 2006 in men aged over 70 years, who had their long-term infection resolved after extensive surgery and prolonged antimicrobial administration [23]. a paediatric case presenting with hyperpyrexia, elevated inflammatory indexes, and an inguinal inflammatory mass associated with pruritic papules, evolved in a prominent lymphadenitis, which was successfully treated with oxacillin and surgery, which material yielded the growth of a s. aureus strain, although showed a granulomatous process at histopatology examination [38]. a single case of muscular botryomycosis of the abdominal wall followed visceral surgery, and involved primary the rectus abdominis muscle [35]. mucosal involvement (i.e. that of nasal septum and tongue, or a more extensive oral-facial involvement) has also been infrequently reported [16,39,40], as well as conjunctival lesions [41]. patients with hiv infection and aids may present with multiple pruritic papules on neck, trunk, and limbs, difficult to be diagnosed until a biopsy is performed [28], or a pyodermalike appearance in the genital region (successfully treated with dapsone in one case) [29], as well as complicated forms including ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3) 101 s. sabbatani, r. manfredi, b. fabbrizio, a. caira, f. f. trapani, g. fasulo et al both skin and pulmonary involvement with concurrent isolation of s. aureus and pneumocystis carinii in a patient with full-blown aids [30]. only one case with lethal course followed an isolated cutaneuos localization of botryomycosis, in the setting of a severe aids-related immunodeficiency [26]. visceral cases of botryomycosis account for a non-negligible portion of referred, but usually anecdotal cases, burdened by a proportionally greater severity and mortality rate when compared with cutaneous episodes. clinical presentations involving liver, spleen, kidney, brain, and prostate have been described together with the more frequent pulmonary localizations [2,3,7]. systemic symptoms such as fever, fatigue, or weight loss, may accompany all forms of visceral disease. in particular, signs and symptoms associated with pulmonary botryomycosis include chronic cough, dyspnoea, haemoptysis, and chest pain. clinical examination may be negligible, or demonstrate reduced breath sounds or rhonchi, should a consolidated parenchyma is of concern. given the prolonged disease duration, lung botryomycosis may be mistaken for a mycosis, tuberculosis, actinomycosis, or a malignancy (especially pulmonary cancer) [4,10,15,42,43]. a literature search performed by bersoff-matcha in 1998, allowed to record 7 cases of apparently primary pulmonary botryomycosis, 5 of them treated with surgery, and responsive to a concomitant antibiotic treatment, after staining and/or culture positive for either gram-positive organisms (s. aureus, nonhaemolytic streptococci, bacillus spp.), or gram-negative bacteria (p. aeruginosa, serratia spp., other unidentified gram-negative rods) [3], as initially supposed in our case report. a positive outcome was registered after a combined medical-surgical management in the large majority of cases [3]. a thoracic case of botryomycosis was described with a pleural lung mass presentation complicated by bone invasion into the thoracic spine and two posterior ribs [3]. the cultures tested negative for all bacterial, mycobacterial, and fungi, as well as for actinomyces and nocardia spp. malignancies were excluded through a mediastinoscopy and lymph node biopsy and examination. no immunological abnormalities were detected, save an absolute cd4+ t-lymphocyte count of 290 cells/µl (but the patient tested hiv-negative). an extensive pulmonary-pleural-spine intervention finally yielded p. aeruginosa, so that a ceftazidime treatment was administered postoperatively, and continued for a prolonged time. a diagnosis of botryomycosis was posed on the ground of the appearance of the multiple biopsy and surgical specimens, enforced by the presence of bright eosinophilic clubs at the periphery of granules [3]. another primary pulmonary case of botryomycosis complicated by parietal pleural involvement was attributed to viridans streptococci, and was cured with surgery plus antibiotic treatment [43]. a further case of primary lung botryomycosis with multiple continuous organ involvement (parietal pleura, chest wall, diaphragm, liver, and costovertebral junction) was successfully treated with a three-month long antibiotic therapy, after obtaining the diagnosis through a ct-guided biopsy of the pulmonary mass [44]. a particular case of lung botryomycosis secondary to a foreign body aspiration, and cured by the sole extraction of the foreign body, without any surgical-medical intervention, has been also reported [19]. when considering concomitant or underlying disorders in the field of pulmonary botryomycosis, paz et al. reported one patient whose first manifestations of chronic granulomatous disease were represented by a lung botryomycosis, thus recommending a concurrent evaluation for this underlying disease [11]. on the other hand, patients with cystic fibrosis are well known to be at risk for respiratory botryomycosis, since different anatomic and immune defence defects, and iatrogenic causes are expected to support a pulmonary botryomycosis [24]. katzenelsen et al. reported 7 pulmonary cases of botryomycosis, with even 5 of 7 complicated by a lethal course, despite a frequent resort to surgery and antimicrobial chemotherapy. a gram-positive (micrococcus pyogenes var. aureus) or a gram-negative (p. aeruginosa) aetiology was found in all cases. as expected, all episodes of suspected lung botryomycosis have to be assessed in a differential diagnosis process with actinomycosis and fungal infections, as well as malignancies [14,15,24,37,43-47]. only a few cases of visceral botryomycosis have been reported as intrabdominal abscesses, but detailed aetiological, clinical, and outcome notices were often lacking in their short descriptions [2]. when the liver, spleen, or kidney are involved, a chronic abdominal pain and local tenderness to palpation are usually present [33,48], as in the patient observed by us. one case of cecal botryomycosis [49], and one episode of rectal botryomycosis [47] have been also ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3)102 an intrabdominal-peritoneal mass during hiv infection described: the last one responded to erythromycin despite the absence of positive cultures [48]. in these cases, ultrasonography and ct scans of the abdomen reveal a mass lesion suspicious for an abscess or a malignant process, as in the patient reported by us. a fatal case of disseminated visceral botryomycosis probably caused by p. aeruginosa has been described in detail by winslow and chamblin [50], in an 80-year-old man who underwent prostatectomy, and with post-mortem examination showing multiple, scattered granules involving the lower respiratory tract, the heart, and the urinary tract (as the supposed origin of the systemic infection), which tested negative for fungi and actinomyces spp., but proved repeatedly positive for p. aeruginosa cultures. botryomycosis complicated by central nervous system involvement has been also described, in association with dental caries or after oral surgery [33,51,52]; focal neurological deficits, seizures, or also a meningeal involvement have been reported, as well as a rare, fulminant episode [33]. a unique case of autoptic diagnosis of heart botryomycosis has been reported recently by gupta et al. [53]: in this anecdotal case, further botryomycotic abscesses involved the lungs and the bone marrow, leading to a picture of disseminated disease, occurring in absence of an apparent immunodeficiency. from a pathogenetic point of view, a concomitant immunodeficiency is known to prompt the onset and the progression of botryomycosis. brunken et al. [2] reviewed some of the immunologic abnormalities possibly retrieved in botryomycosis, and also postulated a nonspecific host reaction, possibly on a hypersensitivity basis, or the establishement of a sort of symbiosis status between the infecting organisms and the host defences. in one cutaneous case report of the year 1983, a reduced absolute b e t lymphocyte count was found, together with a blunted response to concanavalin a stimulation [2]. in particular, a concurrent hiv disease or aids is thought to be a severe risk factor for a predominantly cutaneous [25,26,31,32], but also visceral (pulmonary only) botryomycosis [10], with the multiple immunologic abnormalities of hiv infectious probably implicated in its pathogenesis. ahdoot et al. reported the successful treatment of a case of mucocutaneous botryomycosis with an atypical presentation, occurred in a 21-year-old hiv-infected somalian woman followed in the pre-haart era, and attributed to a s. aureus infection [25]. patients infected with hiv may present atypical skin lesions mimicking those of prurigo nodularis, lichen simplex chronicus, varicella-zoster virus, or sporotrichosis [8,26], although no clear relationship has been demonstrated between the severity of immunodeficiency (as expressed by the peripheral, absolute cd4+ t-lymphocyte count), and the susceptibility to botryomycosis. medical and combined medical-surgical treatment has been successful in the large majority of the described cases. the diagnosis of botryomycosis is usually based on one or more of the following procedures [7,39]: identification of nonfilamentous bacteria in purulent granules from draining sinuses or in biopsy specimens, culturing bacteria f rom ulcers or exudates in patients with clinical findings of botryomycosis, or on histopathological basis, after tissue biopsy, in patients with a likely clinical picture. gram staining or silver nitrate staining (by the gomori-grocott technique) of the crushed granules is used for morphologic assessment. botryomycosis may be distinguished from actinomycosis and mycetoma since botryomycosis granules are of variable size and shape, and may reach up to 500 microns in diameter. on the other hand, actinomycetes are branching, filamentous bacteria ≤ 1 micron in diameter, while fungi responsible for mycetoma have hyphae that are at least 2 microns wide. these differences may easily drive a correct recognition. microscopic evaluation may be combined with routine bacterial, fungal, and mycobacterial cultures for definitive diagnosis. in addition, tissue specimens submitted to histopathological studies may add significantly. the histopathologic appearance of botryomycosis is usually depicted by a central focus of necrosis, surrounded by a chronic inflammatory reaction containing histiocytes, epithelioid cells, multi-nucleated giant cells, and a marked fibrosis [33]. the granules seen in botryomycosis usually contain bacteria within an eosinophilic matrix containing club like projections. this histologic appearance is commonly referred to as the splendore-hoeppli phenomenon [3,57,38], although this last feature may not be always present [26,41,48], as happened in our atypical case report. radiological and imaging procedures usually play a very significant role to evaluate the size and the extent of organ involvement, ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3) 103 s. sabbatani, r. manfredi, b. fabbrizio, a. caira, f. f. trapani, g. fasulo et al also in the view of eventual surgical interventions. pulmonary lesions may appear as a consolidation or a mass lesion, while other forms of visceral botryomycosis usually present as a mass lesion, with no particular, distiguishing features, as in the abdominal case reported by us. as a consequence, the clinical differential diagnosis of either cutaneous or visceral botryomycosis, includes a very broad spectrum of disorders, i.e.: actinomycosis, mycetoma, atypical mycobacterial infection, sporotrichosis, cutaneous leishmaniasis, verrucous herpes, cutaneous abscess, nocardiosis (on the side of infectious diseases), and also kaposi’s sarcoma and other malignancies (especially when an underlying hiv disease is of concern, as in our case) [7,14,16,24,27,37,43-47]. with regard to treatment recommendations, cutaneous botryomycosis requires antibiotic administration, and surgical debridement in the majority of cases, since the encapsulated abscesses are thought to protect the eventual microorganisms from the effects of standard courses of antibiotics [7,16,23,34,47]; sulphamidic derivatives like dapsone acted successfully in isolated cases [29]. antimicrobial therapy alone may be sufficient for superficial, limited episodes, especially when a bacterial pathogen has been identified and a malignancy has been excluded. should gram-positive pathogens are implicated, including s. aureus, cotrimoxazole, clindamycin, tetracyclines, erythromycin, or beta-lactam derivatives like oxacillin may be used (usually by oral route), after checking the in vitro susceptibility testing. in the event of gram-negative infections including p. aeruginosa, an initial therapy with i.v. ceftazidime, ciprofloxacin, aztreonam, or a carbapenem (like imipenem or meropenem) is recommended; if the isolate tests fluoroquinolone-sensitive, a sequential therapy with oral ciprofloxacin is suggested. for infectious due to other gram-negative organisms (i.e. proteus spp., escherichia coli, serratia spp., or others), an i.v. beta-lactam derivative, a fluoroquinolone, or a carbapenem may be the initial choice, waiting for the in vitro sensitivity studies. in our case the potential role of a gram-negative pathogen was strongly suggested by the relevant activity played by meropenem, whose antibacterial action is primarily directed against these bacterial agents. the antibiotic selection for pseudomonas spp. or other gram-negative microbial agents is similar to that of cutaneous botryomycosis, but all episodes of visceral infection usually require several months of therapy to have all signs and symptoms of botryomycosis resolved (while in our case report a proportionally rapid response occurred to combined surgery and meropenem administration). there is no conclusive evidence about the duration of medical therapy of botryomycosis, which is usually continued until signs and symptoms of infection have resolved. for superficial infection, 6 to 8 weeks may be sufficient, while subjects suffering from a deep infection and/or a concurrent immunodeficiency may require more prolonged courses. both antimicrobial chemotherapy and a careful surgical debridement are strongly recommended for the treatment of cutaneous botryomycosis (especially those with deep tissue invasion, including muscle or bone, for those with delayed recovery, and for immunocompromised patients), as well as for almost all visceral episodes [7,23], as in our case. a resection of the mass often occurs prior to diagnosis, given the concern for a malignancy in the majority of cases of visceral localization of botryomycosis. in the setting of hiv disease and aids, as to our knowledge only 10 cases have been reported until now [8,10,25-32], the large majority of them (even nine episodes) with isolated or predominant skin involvement, with only one lethal case associated with a severe form of aids [26]. as a consequence, one single case of pulmonary disease has been described in a patient diagnosed with a very advanced form of hiv-related immunodeficiency (as expressed by a cd4+ lymphocyte count of 8 cells/µl), with cough and a blood-streaked sputum, fever, chills, shortness of breath, and weight loss, assessed with a chest ct scan and diagnosed by a fine needle aspiration percutaneous lung biopsy, and attributed to s. aureus infection on a microscopical basis only, and successfully treated with amoxicillin-clavulanate and later with erythromycin [10]. our suspected case of botryomycosis successfully resolved after laparotomy and biopsy, and a prolonged antimicrobial therapy with a carbapenem (meropenem) alone, might have been the first episode of visceral (intraabdominal) botryomycosis ever described in patients living with hiv. the difficult differential diagnosis becomes even more cumbersome when an underlying hiv disease is present, due to the extremely broad spectrum of concomitant and overlapping ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3)104 an intrabdominal-peritoneal mass during hiv infection lare from surgical specimens became finally available, so that a diagnosis of abdominal, atypical mycobacteriosis was unexpectedly confirmed, meropenem was discontinued, and a specific, long-term treatment was established on a day-hospital basis, with associated ethambutol, clarythromycin, and rifabutin. notably, atypical mycobacteriosis is also included among possible microbiological ethiologies of botryomycosis itself, but in our experience all microscopic, culture, histopathologic, and even molecular biology testings on all available clinical specimens resulted repeatedly negative up to 40 days after patient’s discharge, and our patient experienced a prolonged clinical response to a single-agent antimicrobial chemotherapy performed with meropenem alone (which is known to have very limited activity as a monotherapy, against mycobacteria as a whole). after a further two-month followup, at this time our patient is still under an effective and well tolerated oral treatment for atypical mycobacteriosis, together with its antiretroviral regimen carried out to ensure a continued control of the underlying hiv disease. disclosure the authors declare that they have no financial competing interests. conditions, including for instance bacterial, fungal, actinomycotic, tubercular, mycobacterial, and also neoplastic, lymphoproliferative, and dysreactive diseases (as suspected and ruled out in the diagnostic workout of the presented case) [44-46]. the apparent lack of some histopatological hallmarks of botryomycosis, like the macroscopic eosinophilic granuli, and the microscopic splendore-hoeppli phenomenon, as well as the impossibility to culture organisms and to search them with molecular diagnostic techniques too, might be also attributed to the concurrent hiv infection and its related immunological abnormalities, possibly modified in their appearance and course due to the prompt and effective activity of the combination antiretroviral therapy already administered to our patient, and the related, remarkable immune system recovery achieved in the meantime by our patient [54]. moreover, the prompt and durable response to a prolonged treatment with a potent, single antibiotic agent primarily active against a wide spectrum of gram-negative pathogens could have suggested a potential bacterial aetiology of intestinal-abdominal origin of our case of intrabdominal infection, which remained for a long time with an unknown microbiological diagnosis. only 40 days after patient’s discharge, from the microbiology laboratory a delayed culture of mycobacterium avium-intracellureferences winslow dj. botryomycosis. 1. am j pathol 1959; 35: 153-67 brunken rc, licheon-chao n, van den broek h. immunologic abnormalities in botryomycosis; 2. a case report with review of the literature. j am acad dermatol 1983; 9: 428-34 bersoff-matcha sj, roper cc, liapis h, little jr. primary pulmonary botryomycosis: case 3. report and review. clin infect dis 1998; 26: 620-4 hodgson r, blackmore sa, clarke cp. pulmonary botryomycosis: a difficult diagnosis in the 4. preoperative patient. j thorac cardiovasc surg 2005; 130: 924-5 rivolta s. del micelio e delle varietà e specie di discomiceti pathogeni. 5. giorn anat fisiol patol animali 1884; 16: 181-98 magrou j. les formes actinomycotique du staphylocoque. 6. ann inst pasteur (paris) 1939; 33: 344-74 machado cr, schubach ao, conceição-silva f, quintella lp, lourenço mc, carregal e, 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immunomediato, come nel caso delle sindromi paraneoplastiche [1-7]. complicanze neurologiche dei trattamenti antitumorali le complicanze neurologiche dei trattamenti antitumorali rappresentano una sfida per la terapia dei pazienti oncologici; infatti, la neurotossicità è uno dei fattori che limitano l’utilizzo di chemioterapici a dosi elevate e può alterare la qualità di vita dei pazienti lungo-sopravviventi. si distinguono una neurotossicità sul sistema nervoso periferico (snp) e una tossicità sul sistema nervoso centrale (snc). neuropatie periferiche la tossicità sul sistema nervoso periferico di alcuni farmaci antitumorali è nota da tempo ma i meccanismi di azione sul nervo periferico dei diversi farmaci non sono ancora ben determinati. principalmente potremandrea pace 1, cherubino di lorenzo 1, lara guariglia 1, massimo zaratti 1 introduzione le competenze neurologiche sono chiamate in causa molto più spesso di quanto non si pensi nella gestione del paziente oncologico. spesso le problematiche neurologiche costituiscono il fattore limitante al prosieguo dei trattamenti radioe chemioterapici, o rappresentano la causa di maggior disabilità residua nel paziente lungo-sopravvivente; altre volte sono il principale sintomo d’esordio (precedendo anche di anni l’esordio della neoplasia), o quello più invalidante, nei pazienti non ancora trattati. in questa revisione ripercorriamo i quadri clinici più diffusi, affrontando le ipotesi patogenetiche e i possibili trattamenti, tra le complicanze neurologiche in oncologia, legate ai trattamenti chemioterapici o alle sindromi paraneoplastiche. la compromissione del sistema nervoso centrale e periferico è un’evenienza non rara nel corso di malattie oncologiche. il coinvolgimento del tessuto nervoso si verifica sia per tossicità diretta dei trattamenti antitumorali sia per coinvolgimento delle strutture nervose da parte del tumore. inoltre complicanze neurologiche in oncologia abstract neurologic side effects related to cancer therapy are a common problem in oncology practice. these complications can negatively affect the management of the patient, because they can inhibit treatment and diminish quality of life. therefore specific skills are required to recognise symptoms and clinical manifestations. this review focuses on the most common neurologic complications to improve physician’s familiarity in determining the aetiology of these symptoms. keywords: neurologic complications, cancer therapy, side effects, neurotoxicity neurologic complications in oncology cmi 2010; 4(2): 77-84 1 dipartimento di neuroscienze, istituto nazionale tumori “regina elena”, roma corresponding author dott. andrea pace, dipartimento di neuroscienze, istituto nazionale tumori “regina elena” via chianesi, 53 00144 roma pace@ifo.it gestione clinica clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 78 complicanze neurologiche in oncologia mo distinguere le neuropatie in sottogruppi sintomatologici: le neuropatie sensitive pure (tipiche dei composti del platino), le sensorimotorie (praticamente tutti gli altri farmaci antiblastici), quelle a carico dei nervi cranici (principalmente vincristina, citarabina e tacrolimus) e quelle disautonomiche (di pertinenza pressoché esclusiva dei derivati della vinca). il profilo clinico della neurotossicità indotta dai derivati della vinca (vincristina, vindesina, vinblastina) e dai taxani (paclitaxel e docetaxel) è quello di una polineuropatia sensori-motoria assonale distale, prevalente agli arti inferiori, dose-dipendente e solitamente reversibile dopo la sospensione del trattamento [8,9]. l’attività antitumorale di questi farmaci si esercita su una proteina del citoscheletro, la tubulina, che orienta il fuso mitotico nella divisione cellulare, inibendone la polimerizzazione o la de-polimerizzazione. la neurotossicità periferica di questa classe di farmaci è legata all’importante ruolo che la tubulina svolge nell’orientare il flusso assonale nel nervo. è da segnalare che, per gli alcaloidi della vinca, è riportata anche una neurotossicità disautonomica, caratterizzata da atonia intestinale, impotenza, ipotensione ortostatica, oltre che la paralisi del nervo abducente e una più rara tossicità encefalica [10]. un diverso meccanismo sembra invece essere responsabile della neurotossicità indotta da cisplatino e da altri composti del platino (carboplatino, oxaliplatino). i derivati del platino si concentrano nel ganglio delle radici dorsali inducendo una neuronopatia con sofferenza secondaria delle fibre sensitive di grosso calibro e un quadro di polineuropatia sensitiva cronica che insorge tardivamente, dopo una dose cumulativa totale superiore ai 300 mg/m2 [11]. la neuronopatia indotta dai derivati del platino è considerata non completamente reversibile. meno chiaro è l’inquadramento della neuropatia indotta da oxaliplatino che mostra un andamento bifasico con precoce sofferenza acuta delle fibre sensitive di piccolo calibro associata a una sofferenza cronica tardiva analoga a quella indotta dagli altri composti del platino anche se meno severa [12]. la peculiare sintomatologia clinica che compare acutamente in corso di chemioterapia con oxaliplatino, caratterizzata da crampi muscolari, disestesie in regione buccale e laringea scatenate dal freddo e spasmi tetanici distali, sembra essere legata a una peculiare alterazione dei canali na+ indotta dal farmaco con conseguente ipereccitabilità della fibra nervosa. infine, tra le neuropatie indotte da farmaci antitumorali, va segnalata la neuropatia indotta dai composti da poco entrati nell’uso clinico. va quindi segnalata la tossicità da talidomide, e dal suo derivato lenalidomide, farmaci ad azione antiangiogenetica utilizzati nel trattamento del mieloma multiplo, inducenti nei pazienti trattati una neurotossicità periferica caratterizzata da una polineuropatia sensitiva distale con un meccanismo ancora non sufficientemente chiarito. dati recenti sembrano suggerire che la neurotossicità periferica di talidomide sia dovuta a una neuronopatia da sofferenza del ganglio delle radici dorsali, non reversibile e dipendente dalla dose di farmaco somministrata [13,14]. in ultimo, merita una menzione anche la tossicità indotta da bortezomib, capostipite di una nuova classe di farmaci, gli inibitori del proteasoma. esso esercita un’inibizione reversibile su tale complesso enzimatico proteolitico e si è mostrato efficace in trial di fase i e ii nel trattamento del mieloma recidivante o farmaco-resistente. per questo motivo, dal 2003 la food and drug administration ne ha autorizzato la commercializzazione negli stati uniti per tale indicazione. la neurotossicità periferica, sebbene parzialmente reversibile, rappresenta un fattore limitante nell’utilizzo del farmaco. la neuropatia periferica è principalmente di tipo sensitivo, si manifesta secondo un gradiente disto-prossimale e si esercita principalmente per un’azione proapoptotica e per un danno diretto a carico degli organuli citoplasmatici (soprattutto mitocondrio e reticolo endoplasmatico) delle cellule di schwann e di quelle satellite [15,16]. encefalopatie la tossicità dei farmaci antitumorali sul snc è un evento non raro e alcuni farmaci sembrano possedere uno spiccato tropismo per il tessuto nervoso. la sofferenza della sostanza bianca (leucoencefalopatia) si osserva più frequentemente in corso di trattamento con metotrexato (mtx) ma è stata anche riportata quella con la bis-cloroetilnitrosurea (bcnu). la somministrazione intratecale o endovenosa di mtx si associa nel 3-15% dei casi a quadri di encefalopatia di varia gravità, fino alle forme più severe, caratterizzate da: demielinizzazione, necrosi della sostanza bianca, perdita di oligodendroglia, rigonfiamento assonale, encefalomalacia clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 79 a. pace, c. di lorenzo, l. guariglia, m. zaratti microcistica e atrofia della sostanza bianca. il meccanismo attraverso cui si realizza tale tossicità è probabilmente dovuto all’inibizione dell’attività dell’acido folico, a sua volta responsabile dell’accumularsi di omocisteina, tossica per i piccoli vasi, e di adenosina, inibente l’attività neuronale, agendo sia a livello presia post-sinaptico. l’associazione di chemioterapia e radioterapia aumenta l’incidenza di leucoencefalopatia e può portare a quadri di leucoencefalopatia disseminata necrotizzante, una condizione potenzialmente letale [17,18]. da questo quadro anatomopatologico può scaturire una lunga serie di sintomi, come le crisi epilettiche, i disturbi cognitivi, la sintomatologia psichiatrica, e altro ancora. se la tossicità si eserciterà a carico dei gangli della base si svilupperanno sintomi tipici dei disturbi extrapiramidali, mentre per i farmaci con un effetto tossico a carico del cervelletto si assisterà alla comparsa di instabilità, atassia, disartria, dismetria e tremori intenzionali. la neurotossicità si realizza più facilmente nei pazienti sottoposti a un concomitante trattamento radioterapico. mtx agisce sulla replicazione cellulare inibendo l’enzima diidrofolato-reduttasi, responsabile della conversione dell’acido folico in tetraidrofolato. spesso, per limitare il danno neuronale si rinuncia ad associare la terapia radiante a quella farmacologica, ma il risultato non sempre è soddisfacente in termini di prevenzione delle complicanze neurologiche. la sospensione del trattamento può far regredire il quadro, e il retrattamento si associa a una ripresa dell’encefalopatia solo nel 10-56% dei pazienti. il trattamento con aminofillina, un antagonista adenosinico, leucovorin, e acido folico sembrerebbe essere protettivo sulla recidiva dell’encefalopatia [19,20]. anche 5-fluorouracile (5-fu), come il suo precursore capecitabina, si può associare a encefalopatie, soprattutto se assunto ad alte dosi. ciò si verifica probabilmente per un effetto tossico esercitato sul ciclo di krebs e/o sulla mielina da parte dei suoi cataboliti, il cui accumulo potrebbe essere dovuto a un deficit enzimatico della diidropirimidina deidrogenasi [21-23]. in particolare, 5-fu e affini sembrano avere un effetto tossico farmaco eventi avversi più comuni eventi avversi rari cisplatino neuropatia periferica, segno di lhermitte, neuropatia autonomica, ototossicità encefelopatia, neurite ottica, cecità corticale carboplatino neuropatia periferica neurite ottica oxaliplatino neuropatia periferica neurite ottica, deficit della visione ifosfamide encefalopatia, convulsioni, coma neuropatia periferica, sintomi extrapiramidali citarabina aracnoidite, disfunzione cerebellare, tossicità corneale, crisi epilettiche, encefalopatia neuropatia periferica carmustina encefalopatia, ischemia retinica metotrexato meningite asettica, encefalopatia, mielopatia, sindrome simile a ictus, leucoencefalopatia, crisi epilettiche, demenza 5-fluorouracile sindrome cerebellare acuta paclitaxel neuropatia periferica, artralgia/mialgia, scotoma transitorio docetaxel neuropatia periferica vincristina neuropatia periferica, neuropatia autonomica, visione confusa, diplopia, atassia, dolore alla mandibola, cefalea atrofia ottica, cecità corticale, epilessia vinblastina neuropatia periferica, atassia, diplopia l-asparaginasi encefalopatia, convulsioni eventi trombotici/emorragici talidomide sonnolenza, neuropatia periferica cefalea, tremore corticosteroidi miopatia, sintomi neuropsichiatrici, tremore, insonnia, visione confusa tamoxifene ictus, tromboembolismo, perdita della visione dei colori, trombosi della vena retinica, retinopatia tabella i principali eventi avversi neurologici dei più comuni farmaci oncologici [6] clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 80 complicanze neurologiche in oncologia selettivo esercitato a carico del cervelletto [24,25]. i farmaci contenenti platino possono esercitare una tossicità sul sistema nervoso centrale, oltre che sul periferico, come abbiamo avuto modo di vedere. probabilmente l’azione neurotossica è proprio dovuta all’accumulo intraneuronale del platino inorganico [26,27]. una delle caratteristiche dell’encefalopatia da cisplatino è la presenza di maculopatia retinica e di epilessia focale, principalmente temporale, e di stati epilettici non convulsivanti in generale [27]. ifosfamide è un agente alchilante che può indurre quadri di encefalopatia acuta, solitamente reversibile, con sintomatologia clinica di entità variabile: confusione, disturbi visivi, mutismo, stati allucinatori paranoidei, convulsioni e crisi epilettiche non convulsivanti, sintomi extrapiramidali e coma. tale tossicità si realizza, probabilmente, per l’accumulo del suo metabolita 2-cloroacetaldeide. l’interruzione del farmaco può portare giovamento al paziente, mentre è dibattuta l’utilità del blu di metilene [28]. citarabina (o citosina arabinoside) è un inibitore della replicazione del dna, che agisce antagonizzando la dna polimerasi alfa. la somministrazione in alte dosi si associa a neurotossicità nel 7-28% dei casi, riconoscendo come principale organo bersaglio il cervelletto e solo secondariamente le restanti porzioni dell’encefalo, determinando la comparsa di crisi epilettiche, leucoencefalopatia diffusa, necrosi dei gangli della base e paralisi pseudobulbare. tale tossicità pare realizzarsi attraverso l’induzione apoptotica dei neuroni cerebellari [29-31]. da segnalare che la sua somministrazione intratecale si può associare a una mielite ascendente, condizione osservabile anche nell’instillazione di mtx attraverso la stessa via di somministrazione [32]. in tabella i è riportato un riassunto dei principali eventi avversi neurologici – comuni e rari – degli antitumorali più diffusi. sindromi paraneoplastiche con il termine di sindromi paraneoplastiche neurologiche (spn) s’intende l’insieme di sintomi a carico del sistema nervoso (centrale, autonomico o periferico, fino alla giunzione neuromuscolare e al muscolo) che un tumore è in grado di dare ma che non sono dovuti a fenomeni compressivi, vascolari, metabolici o infettivi conseguenti alla presenza di una neoplasia (primitiva o metastatica). si tratta di patologie rare, manifestandosi in meno dello 0,01% dei casi di tumore, ma possono presentarsi anche in associazione tra di loro o con altre sindromi paraneoplastiche non neurologiche. la forma più frequente è la sindrome di lambert-eaton, che si manifesta nell’1% dei pazienti con tumore polmonare a piccole cellule (microcitoma) [33]. nel 60% circa dei casi, tali sintomi insorgono prima ancora che il paziente sappia di avere un tumore: ciò rende molto complicato e lungo l’iter per riuscire a porre diagnosi di spn [34]. infatti, sebbene la maggior parte dei tumori si palesi entro l’anno dalla comspn manifestazioni definita sindrome classicamente paraneoplastica (encefalite limbica, degenerazione cerebellare y subacuta, neuropatia sensitiva, retinopatie, pseudostruzione gastrointestinale cronica, encefalomielite, sindrome dello stiff-man – o della “persona rigida” –, opsoclono-mioclono, sindrome miasteniforme di lambert-eaton, dermatomiosite). il tumore si manifesta entro i 5 anni successivi sintomatologia neurologica non tipicamente paraneoplastica che scompare (o si y riduce significativamente) dopo la cura della neoplasia, in assenza di un trattamento immunoterapico sintomatologia neurologica non tipicamente paraneoplastica in concomitanza alla presenza y di anticorpi onconeurali. il tumore si manifesta entro i 5 anni successivi sindrome classicamente paraneoplastica concomitantemente alla presenza di anticorpi y onconeurali, in assenza dello sviluppo di un tumore possibile sindrome classicamente paraneoplastica in assenza di anticorpi onconeurali e dell’evidenza y di un tumore, ma c’è il sospetto/la possibilità della presenza di un tumore sottostante sindrome neurologica (classicamente paraneoplastica o non), in presenza di anticorpi y onconeurali parzialmente caratterizzati, ma in assenza del tumore sindrome non classicamente paraneoplastica, in assenza di anticorpi onconeurali, ma con il y tumore che si manifesta entro i 2 anni successivi tabella ii caratteristiche della sindrome paraneoplastica (spn) definita o possibile [37] clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 81 a. pace, c. di lorenzo, l. guariglia, m. zaratti parsa dei sintomi neurologici, se la neoplasia non si manifesta entro i 5 anni successivi si tende a rigettare l’ipotesi che possa trattarsi di una sindrome paraneoplastica. negli ultimi anni si è scoperto che circa il 50% delle spn è associato ad anticorpi diretti contro epitopi condivisi dal tumore e da parti del sistema nervoso [35-38]. si tratta di anticorpi onconeurali (anti-hu, yo, cv2, ri, ma2, vgcc, zic4, recoverina o anfifisina), talvolta preferenzialmente associati a specifiche spn o più probabili primitivi. la scoperta di tali anticorpi ha fatto ipotizzare un’origine immunomediata per i sintomi neurologici [39,40]. marcatori infiammatori e bande oligoclonali possono essere presenti anche nel liquor [41]. per quanto affermato, oltre al fatto che alcuni sintomi sono classicamente (ma non esclusivamente) paraneoplastici e all’osservazione che queste sindromi tendono a migliorare con la cura del tumore (e assai meno con l’uso di immunosoppressori), sono stati recentemente proposti nuovi criteri diagnostici, per cui una spn può essere detta “definita” o “possibile” (tabella ii) [37]. l’assenza di specifici anticorpi onconeurali rende difficile la diagnosi di spn, e quindi la diagnosi precoce del tumore e l’instaurarsi di terapie idonee. in tali casi occorre prestare la dovuta attenzione all’esecuzione di screening tumorali molto stringenti, che tengano conto dei fattori di rischio del paziente di aver sviluppato un certo tipo di tumore. il trattamento delle sindromi paraneoplastiche si basa principalmente sulla cura del tumore primitivo o sulla terapia immunosoppressiva con immunoglobuline endovena, steroidi e plasmaferesi. l’efficacia di tali trattamenti è tuttavia relativa [39,40,42]. quadri clinici encefalite limbica l’encefalite limbica è caratterizzata dall’insorgenza di alterazioni cognitive e sintomi neuropsichiatrici. il tumore cui è più spesso associata è il microcitoma polmonare, ma sono descritti spesso casi in presenza di tumori testicolari o della mammella. gli autoanticorpi onconeurali più spesso associati a tale disturbo sono gli anti-hu, cv2, anfifisine e ma2 (soprattutto per i tumori testicolari) [43,44]. degenerazione cerebellare subacuta la degenerazione cerebellare paraneoplastica è dovuta a una progressiva perdita delle cellule di purkinje, che determina una lenta atrofia cerebellare, clinicamente associata a una precoce sindrome cerebellare. in circa la metà dei casi questa sintomatologia si associa a una sindrome miasteniforme di lamberteaton. i tumori cui generalmente si associa l’atassia sono quello ovarico, mammario, il linfoma di hodgkin, i tumori polmonari e altre neoplasie ginecologiche. gli autoanticorpi cui spesso questa sindrome paraneoplastica si associa sono gli anticorpi antiyo (che tendono a permanere anche dopo l’eradicazione della neoplasia), tr (spesso associati al linfoma), hu, cv2, zic4, ma2 e vgcc (gli ultimi 5 tipi sono generalmente associati a neoplasie polmonari) [33]. neuropatia sensitiva il quadro clinico più diffuso nelle forme paraneoplastiche è la cosiddetta sindrome di denny-brown, caratterizzata dall’insorgenza subacuta e asimmetrica di parestesie, disestesie dolorose talora a poussée, ipoestesie, atassia sensitiva e pseudo atetosi degli arti, prevalentemente a carico di quelli superiori, con riflessi tendinei ridotti o assenti e segni di sofferenza sensoriale all’elettroneurografia, in assenza di segni di denervazione e con velocità di conduzione motorie conservate. anatomopatologicamente si assiste alla distruzione dei neuroni sensitivi delle radici del ganglio dorsale. tipicamente tale quadro si associa al microcitoma e i pazienti sono positivi alla ricerca di autoanticorpi anti hu, cv2 e anfifisina [45]. encefalomielite si tratta di una sindrome ad esordio subacuto, caratterizzata da un interessamento polidistrettuale del sistema nervoso. nel 75% dei casi l’encefalomielite paraneoplastica viene sviluppata da soggetti affetti da microcitoma polmonare. gli autoanticorpi onconeurali principalmente coinvolti in questa spn sono gli anti-hu, cv2 e anfifisina. sul piano anatomopatologico si osserva una perdita di neuroni, proliferazione della microglia, e infiltrati infiammatori a livello multifocale. generalmente la sintomatologia esordisce in maniera focale, di solito con segni e sintomi indicativi dell’interessamento dell’area encefalica primariamente/ maggiormente colpita dal processo degenerativo/infiammatorio. le aree coinvolte includono [33]: i lobi temporali: encefalite limbica; y il tronco encefalico: encefalite del tronco; y il cervelletto: degenerazione cerebellare; y clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 82 complicanze neurologiche in oncologia il midollo spinale: mielite; y i gangli dorsali: neuropatia sensitiva suy bacuta; il sistema autonomo: neuropatia autoy nomica. sindrome dello stiff man, o della “persona rigida” la forma più diffusa è caratterizzata da rigidità assiale e spasmi dolorosi, aggravati da stimoli sensoriali. la variante paraneoplastica si conferma molto rara, interessando solo il 5% di tutti i casi di stiff man, con un profilo autoanticorpale molto eterogeneo e una prognosi ben peggiore delle forme non paraneoplastiche. tipico delle spn è il coinvolgimento degli arti superiori. il tumore più frequentemente associato a questo tipo di sindrome è quello mammario, con anticorpi anti-anfifisina [46]. opsoclono-mioclono il termine opsoclono indica movimenti involontari incontrollabili degli occhi, aritmici, caotici e multivettoriali (cioè ad orientamento orizzontale, verticale e diagonale). i movimenti generalmente scompaiono durante il sonno e possono avere grande o piccola ampiezza (apparire cioè come minuscole deviazioni rispetto alla posizione primaria). l’opsoclono è spesso associato al mioclono (breve e involontaria contrazione di un muscolo o di un gruppo di muscoli) degli arti e del tronco, a un disturbo atassico, e a volte, a quadri encefalopatici. generalmente si possono rinvenire autoanticorpi onconeurali anti-ri in pazienti affette da neoplasia mammaria, e anti-hu in casi sporadici di microcitoma (in cui generalmente questa sindrome paraneoplastica si manifesta in assenza di autoanticorpi onconeurali) e neuroblastoma [32]. sindrome miasteniforme di lambert-eaton si tratta di un raro disturbo autoimmune a carico del versante presinaptico della giunzione neuromuscolare. la sintomatologia è caratterizzata da facile affaticabilità, disturbi autonomici e un pattern di risposta tipico all’elettromiografia: la genesi di potenziali decrescenti al protrarsi di uno stimolo di bassa frequenza, ma la risposta inversa alle alte. generalmente tali disturbi precedono di alcuni anni l’insorgenza di un microcitoma polmonare, per cui in presenza di questo sospetto diagnostico occorre valutare attentamente il follow-up del paziente, al fine di giungere a una diagnosi quanto più precoce possibile. generalmente, anticorpi anti-vgcc sono di facile riscontro in questi pazienti, indipendentemente dalla natura paraneoplastica o meno della sindrome [47]. conclusioni l’incremento dell’aspettativa di vita dei pazienti affetti da malattie oncologiche sembra oggi comportare anche un aumento dell’incidenza di complicanze neurologiche legate ai trattamenti o direttamente alla malattia. la corretta diagnosi e la gestione delle molteplici complicanze a carico del sistema nervoso richiede una conoscenza dei meccanismi fisiopatologici e dei possibili trattamenti terapeutici anche da parte del medico non specialista. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. bibliografia abrahm jl, banffy mb, harris mb. spinal cord compression in patients with advanced 1. metastatic cancer: “all i care about is walking and living my life”. jama 2008; 299: 937-46 grewal j, grewal hk, forman ad. seizures and epilepsy in cancer: etiologies, evaluation, and 2. management. curr oncol rep 2008; 10: 63-71 chamberlain mc. neoplastic meningitis. 3. neurologist 2006; 12: 179-87 aiken rd. neurologic complications of head and neck cancers. 4. semin oncol 2006; 33: 348-51 glass j. neurologic complications of lymphoma and leukemia. 5. semin oncol 2006; 33: 342-7 sul jk, deangelis lm. neurologic complications of cancer chemotherapy. 6. semin oncol 2006; 33: 324-32 clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 83 a. pace, c. di lorenzo, l. guariglia, m. zaratti darnell rb, posner jb. paraneoplastic syndromes affecting the nervous system. 7. semin oncol 2006; 33: 270-98 pace a, bove l, nistico c, ranuzzi m, innocenti p, pietrangeli a et 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1014-6 clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 84 complicanze neurologiche in oncologia dessi f, pollard h, moreau j, ben-ari y, charriaut-marlangue c. cytosine arabinoside induces 31. apoptosis in cerebellar neurons in culture. j neurochem 1995; 64: 1980-7 counsel p, khangure m. myelopathy due to intrathecal chemotherapy: magnetic resonance 32. imaging findings. clin radiol 2007; 62: 172-6 honnorat j, antoine jc. paraneoplastic neurological syndromes. 33. orphanet j rare dis 2007; 2: 22 rudnicki sa, dalmau j. paraneoplastic syndromes of the spinal cord, nerve and muscle. 34. muscle nerve 2000; 23: 1800-18 darnell rb, posner jb. paraneoplastic syndromes involving the nervous system. 35. n engl j med 2003; 349: 1543-54 vianello m, vitaliani r, pezzani r, nicolao p, betterle c, keir g et al. the spectrum of 36. antineuronal autoantibodies in a series of neurological patients. j neurol sci 2004; 220: 29-36 graus f, delattre jy, antoine jc, dalmau j, giometto 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presentiamo il caso di una paziente di 32 anni che è venuta alla nostra attenzione per una persistente sintomatologia dolorosa che non rispondeva alla terapia con pillola contraccettiva. la paziente aveva iniziato l’assunzione della pillola contraccettiva all’età di 17 anni perché soffriva di dismenorrea di intensità tale da interferire con le sue attività sociali. l’assunzione della terapia estroprogestinica determinò un significativo miglioramento della sintomatologia algica. nel maggio 2003, all’età di 27 anni, durante un controllo ginecologico annuale le fu diagnosticata una cisti endometriosica, a carico dell’ovaio sinistro, del diametro di 4,5 cm. sei mesi dopo la diagnosi, la paziente fu sottoposta, presso inibitori dell’aromatasi nel trattamento dell’endometriosi profonda abstract recent case reports and pilot studies suggested that aromatase inhibitors might be effective in treating pain symptoms related to the presence of endometriosis. we present the case of a 32-year-old woman who suffered dysmenorrhea, dyspareunia, chronic pelvic pain, and dyschezia caused by rectovaginal endometriosis. pain symptoms recurred after treatment with the oral contraceptive pill; the patient refused surgery. therefore a double-drug regimen including letrozole (2.5 mg/day) and norethisterone acetate (2.5 mg/day) was offered to the patient. the scheduled length of treatment was six months. this double-drug regimen determined a quick and significant improvement in all pain symptoms. during treatment, the patient complained mild arthralgia. after the interruption of treatment, pain symptoms quickly recurred and at 6-month follow-up their intensity was similar to baseline values. operative laparoscopy was performed, the presence of rectovaginal endometriosis was confirmed and all visible endometriotic lesions were excised. aromatase inhibitors might be offered when pain symptoms caused by endometriosis persist during the administration of other hormonal therapies and the patient refuses surgery. however, women must be informed that these drugs determine only a temporary relief of pain symptoms and might cause adverse effects (such as arthralgia). keywords: aromatase inhibitors, endometriosis, letrozole, pain, rectovaginal endometriosis aromatase inhibitors in the treatment of deep endometriosis cmi 2009; 3(3): 103-108 1 unità operativa di ginecologia e ostetricia, ospedale san martino e università degli studi di genova, genova 2 dipartimento di chirurgia, ospedale san martino e università degli studi di genova, genova corresponding author dott. simone ferrero, unità operativa di ginecologia e ostetricia, padiglione 1, ospedale san martino e università degli studi di genova, largo r. benzi 1, 16132 genova telefono e fax: 010-51.15.25 dr@simoneferrero.com perché descriviamo questo caso? questo caso dimostra l ’eff icacia degli inibitori dell ’aromatasi nel trattamento della sintomatologia dolorosa causata dall’endometriosi. bisogna tuttavia tenere presente che il miglioramento della sintomatologia scompare rapidamente dopo l ’interruzione della terapia. ciò è dovuto al fatto che gli inibitori dell ’aromatasi non determinano la scomparsa delle lesioni endometriosiche come dimostrato dall ’esame istologico di noduli asportati durante l ’intervento chirurgico caso clinico un altro ospedale, a laparoscopia operativa con escissione della cisti endometriosica; nella descrizione dell’intervento chirurgiclinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 104 inibitori dell’aromatasi nel trattamento dell’endometriosi profonda co non furono menzionate altre localizzazioni dell’endometriosi nella pelvi. dopo l’intervento chirurgico la paziente proseguì l’assunzione della terapia estroprogestinica, ma dopo circa un anno cominciò a soffrire di dismenorrea di intensità severa e di dispareunia profonda. nel luglio 2005, all’età di 29 anni, le venne prescritta una pillola a base di solo progestinico (75 µg al giorno di desogestrel). poiché questa pillola è assunta senza interruzioni e determina la scomparsa del ciclo mestruale, la ragazza ebbe un miglioramento della qualità di vita nonostante la persistenza della dispareunia. dopo circa quindici mesi di terapia la sintomatologia algica peggiorò, in particolare la paziente iniziò ad avvertire dolori pelvici d’intensità e frequenza ingravescenti. nel gennaio 2008 la donna interruppe l’assunzione della pillola a base di desogestrel; ciò determinò un ulteriore aumento dell’intensità della sintomatologia dolorosa. nel maggio 2008 la paziente si presentò al nostro centro per la diagnosi e il trattamento dell’endometriosi. l’intensità dei sintomi fu determinata utilizzando una scala vas (scala visiva analogica); la scala è costituita da una retta di 10 cm con due estremità che corrispondono a “nessun dolore” e “il massimo dolore di cui si ha avuto esperienza” ed è stata da noi utilizzata in numerosi precedenti studi [1-3]. la paziente lamentava: dismenorrea d’intensità pari a 7,6; y dispareunia profonda d’intensità pari a y 6,3; dolore pelvico cronico d’intensità pari y a 5,4; dischezia d’intensità pari a 4,5. y la visita ginecologica rivelò la presenza di un nodulo endometriosico del setto rettovaginale che infiltrava la mucosa vaginale; inoltre, fu apprezzato un irrigidimento del legamento uterosacrale sinistro. l’ecografia transvaginale confermò la presenza del nodulo endometriosico del setto rettovaginale (figura 1); la distensione del retto con soluzione fisiologica dimostrò che tale nodulo non infiltrava la tonaca muscolare del retto [4,5]. sulla base della sintomatologia e del quadro clinico fu proposto alla paziente di eseguire una laparoscopia operativa per l’escissione dell’endometriosi profonda. tuttavia la paziente preferì non eseguire l’intervento per motivi personali e, poiché non desiderava la gravidanza, richiese una terapia mefigura 1 il nodulo endometriosico del setto rettovaginale è indicato dalla freccia bianca u = utero; r = retto figura 2 andamento della sintomatologia dolorosa (calcolata come vas – visual analogic scale) durante la terapia con letrozolo e nei 6 mesi di follow-up r u clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 105 s. ferrero, g. camerini, v. remorgida dica che potesse almeno temporaneamente migliorare la sintomatologia dolorosa. pertanto fu proposto alla paziente un regime terapeutico combinato da seguire per sei mesi che comprendeva i seguenti farmaci: letrozolo (2,5 mg al giorno), noretisterone acetato (2,5 mg al giorno), calcio carbonato e colecalciferolo. prima di iniziare la terapia, la paziente eseguì una mineralometria ossea secondo tecnica dexa, che dimostrò normali valori di t-score sia sul rachide lombare sia sul femore. iniziò quindi l’assunzione della terapia combinata il primo giorno del ciclo mestruale. la figura 2 dimostra che la terapia combinata determinò un rapido miglioramento della sintomatologia dolorosa. nel corso della terapia furono monitorati mensilmente l’emocromo, i test di funzionalità epatica e renale, lo ionogramma e i lipidi plasmatici senza osservare rilevanti modificazioni. durante l’assunzione della terapia la donna ebbe saltuari episodi di spotting e, dopo il terzo mese di terapia, riferì una lieve artralgia alle articolazioni scapolo-omerale e coxo-femorale bilateralmente. dopo sei mesi, nonostante il miglioramento della sintomatologia dolorosa, la terapia combinata fu interrotta perché fino ad oggi non esistono dati sulla sicurezza dell’uso a lungo termine degli inibitori dell’aromatasi nelle pazienti in età riproduttiva [6]. la figura 2 mostra che, dopo la sospensione della terapia, la sintomatologia dolorosa progressivamente aumentò di intensità fino a tornare a valori simili a quelli riferiti dalla paziente prima dell’assunzione del regime terapeutico con letrozolo. in seguito alla recidiva della sintomatologia dolorosa, la paziente decise di eseguire una seconda laparoscopia per asportare le lesioni endometriosiche profonde; tale intervento fu eseguito a sette mesi di distanza dalla sospensione della terapia ormonale. la chirurgia confermò la presenza di un voluminoso nodulo endometriosico del setto rettovaginale (figura 3). l’esame istologico confermò la natura endometriosica dei noduli asportati durante l’intervento chirurgico (figura 4). domande da porre alla paziente quali sintomi la affliggono? y qual è la severità di questi sintomi? y la sintomatologia dolorosa limita la sua y qualità di vita? quali terapie ormonali ha già assunto per y il trattamento dell ’endometriosi? è disposta a sottoporsi a un intervento y chirurgico per migliorare la sua sintomatologia? discussione l’endometriosi è una patologia cronica dipendente dagli estrogeni che è caratterizzata figura 3 escissione laparoscopica del nodulo endometriosico del setto rettovaginale n = nodulo endometriosico del setto rettovaginale; v = vagina (che è spinta cranialmente da una pinza ad anelli inserita nel fornice vaginale posteriore); r= retto; u = parete posteriore dell’utero figura 4 l’esame istologico dimostrò la natura endometriosica del nodulo del setto rettovaginale asportato durante l ’intervento chirurgico (colorazione con ematossilina-eosina) dalla presenza di tessuto endometriale al di fuori della cavità uterina [7]. essa colpisce tipicamente le donne in età riproduttiva ed è causa di dolori (dismenorrea, dispareunia profonda, dolore pelvico cronico, dischezia) e infertilità. la diagnosi di endometriosi può essere sospettata sulla base della sintomatologia riferita dalla paziente e della visita ginecologica. l’ecografia transvaginale n u v r clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 106 inibitori dell’aromatasi nel trattamento dell’endometriosi profonda è l’esame di prima scelta per la valutazione della pelvi femminile ed è fondamentale anche per la diagnosi dell’endometriosi (in particolare di quella ovarica e del setto rettovaginale). si possono eseguire esami più specifici se si sospetta una localizzazione dell’endometriosi all’intestino, alla vescica o all’utero (vedi flow-chart riassuntiva finale). il gold standard per la diagnosi dell’endometriosi è rappresentato dalla visualizzazione delle lesioni endometriosiche durante l’intervento chirurgico (preferibilmente laparoscopico); l’esame istologico dei noduli endometriosici asportati durante la chirurgia deve idealmente essere eseguito per confermare la diagnosi [8]. l’esatta prevalenza dell’endometriosi nella popolazione generale non è nota; si stima che essa possa colpire fra il 10% e il 47% delle donne con dolori pelvici e/o infertilità [9,10]. numerosi studi hanno dimostrato che l’asportazione chirurgica delle lesioni enpleta se il chirurgo ha poca dimestichezza nel trattamento di tale patologia. la terapia ormonale rappresenta un’alternativa alla chirurgia per il trattamento della sintomatologia dolorosa causata dall’endometriosi. la tabella i elenca i farmaci più comunemente utilizzati per il trattamento dell’endometriosi. tutte queste terapie basano la loro efficacia sulla soppressione della funzione ovarica. il miglioramento della comprensione della patogenesi dell’endometriosi a livello molecolare e cellulare ha consentito, negli ultimi anni, di sviluppare nuove possibilità terapeutiche per il trattamento di questa patologia [14]. in particolare, è stato dimostrato che le lesioni endometriosiche e il tessuto endometriale eutopico delle pazienti con endometriosi esprimono l’enzima aromatasi p450 [15]. questo enzima consentirebbe una produzione di estrogeni locale che potrebbe determinare la crescita delle lesioni endometriosiche nonostante la soppressione della funzione ovarica. in base a queste considerazioni, gli inibitori dell’aromatasi sono stati proposti per il trattamento dell’endometriosi in alcuni casi clinici e studi pilota condotti sia in donne in menopausa sia in pazienti in età riproduttiva. questi studi hanno dimostrato che inibitori dell’aromatasi non steroidei di terza generazione (anastrozolo o letrozolo) determinano un notevole miglioramento della sintomatologia dolorosa legata all’endometriosi (tabella ii). tali osservazioni sono confermate dal caso clinico descritto in questo articolo; la nostra paziente aveva una sintomatologia dolorosa resistente all’uso sia della terapia estroprogestinica sia di desogestrel. la somministrazione di letrozolo in combinazione con noretisterone acetato ha determinato un rapido e significativo miglioramento della sintomatologia dolorosa (figura 2). fino ad ora esistono pochi dati sull’evoluzione della sintomatologia dolorosa dopo la sospensione della terapia con inibitori dell’aromatasi. dopo l’interruzione della terapia combinata, la nostra paziente ebbe una rapida recidiva della sintomatologia; quest’osservazione è in accordo con precedenti studi eseguiti dal nostro gruppo [2,3]. alcuni autori hanno suggerito che gli inibitori dell’aromatasi possono determinare anche una regressione delle lesioni endometriosiche pelviche [16,17]; tuttavia quest’osservazione non è stata confermata dal caso clinico descritto in quest’articolo. la nostra paziente fu sottoposta a laparoscopia operativa sette mesi dopo la sospensione della terapia ormonale e i noduli endometriosici furono asportati durante categoria farmaco analoghi del gnrh triptorelina y buserelina y goserelin y nafarelina y progestinici medrossiprogesterone acetato y noretisterone acetato y desogestrel y spirale al levonorgestrel y terapie estroprogestiniche estroprogestinici orali y anello vaginale y cerotto transdermico y farmaci ad attività androgenica danazolo y gestrinone y tabella i terapie ormonali più comunemente utilizzate per il trattamento dell ’endometriosi autori dello studio numero di pazienti inibitore dell’aromatasi ailawadi et al, 2004 [16] 10 letrozolo amsterdam et al, 2005 [18] 18 anastrozolo hefler et al, 2005 [19] 10 anastrozolo remorgida et al, 2007 [2] 12 letrozolo remorgida et al, 2007 [3] 12 letrozolo tabella ii principali studi sull ’uso degli inibitori dell ’aromatasi nel trattamento dell ’endometriosi in donne in età riproduttiva dometriosiche profonde (ad esempio del setto rettovaginale e dei legamenti uterosacrali) può determinare un significativo miglioramento della sintomatologia dolorosa [11-13]. tuttavia, questo tipo di chirurgia può essere complesso e l’asportazione delle lesioni endometriosiche può essere incomclinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 107 s. ferrero, g. camerini, v. remorgida l’intervento chirurgico. questo caso dimostra che i noduli endometriosici del setto rettovaginale persistono nonostante sei mesi di terapia con inibitori dell’aromatasi. è interessante osservare che, anche in un precedente studio, noi riscontrammo la persistenza delle lesioni endometriosiche profonde dopo trattamento con inibitori dell’aromatasi [3]. conclusioni il caso clinico descritto in quest’articolo dimostra che la sintomatologia dolorosa causata dall’endometriosi può migliorare rapidamente e significativamente durante la terapia con inibitori dell’aromatasi. purtroppo non esistono dati sulla sicurezalgoritmo per diagnosi e terapia dell’endometriosi sintomi: dismenorrea, dispareunia, dolore pelvico cronico, dischezia, alterazioni della funzione gastrointestinale visita ginecologica ed ecografia transvaginale nessuna evidenza di endometriosi sospetto di endometriosi farmaci antinfiammatori oppure terapia estroprogestinica indagini radiologiche se clinicamente indicate chirurgia terapie mediche consolidate recidiva o persistenza della sintomatologia inibitori dell’aromatasi raccomandazioni ed errori comuni i dolori mestruali possono essere causati dall ’endometriosi; la presenza dell ’endometriosi y deve essere indagata prima di porre diagnosi di dismenorrea primaria i sintomi tipici dell ’endometriosi sono la dismenorrea, la dispareunia profonda, il dolore y pelvico cronico, la dischezia, le alterazioni della funzione gastrointestinale. se più sintomi sono presenti, il rischio che la paziente sia affetta da endometriosi è aumentato gli inibitori dell ’aromatasi possono essere indicati nelle pazienti con una sintomatologia y dolorosa severa non responsiva ad altre terapie ormonali e che rifiutano la chirurgia za della somministrazione a lungo termine degli inibitori dell’aromatasi in donne in età riproduttiva e la sospensione della terapia con tali farmaci determina la recidiva della sintomatologia dolorosa. sulla base di queste considerazioni gli inibitori dell’aromatasi devono essere somministrati alle pazienti con endometriosi solo se la sintomatologia dolorosa non risponde ad altre terapie ormonali e se le pazienti rifiutano di affrontare l’intervento chirurgico (vedi algoritmo riassuntivo finale). disclosure gli autori dichiarano di non avere alcun confitto di interessi di natura finanziaria. clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 108 inibitori dell’aromatasi nel trattamento dell’endometriosi profonda bibliografia ferrero s, abbamonte lh, giordano m, ragni n, remorgida v. deep dyspareunia and sex life 1. after laparoscopic excision of endometriosis. hum reprod 2007; 22: 1142-8 remorgida v, abbamonte lh, ragni n, fulcheri e, ferrero s. letrozole and desogestrel-only 2. contraceptive pill for the treatment of stage iv endometriosis. aust n z j obstet gynaecol 2007; 47: 222-5 remorgida v, abbamonte lh, ragni n, fulcheri e, ferrero s. letrozole and norethisterone 3. acetate in rectovaginal endometriosis. fertil steril 2007; 88: 724-6 valenzano menada m, remorgida v, abbamonte lh, nicoletti a, ragni n, ferrero s. does 4. transvaginal ultrasonography combined with water-contrast in the rectum aid in the diagnosis of rectovaginal endometriosis infiltrating the bowel? hum reprod 2008; 23: 1069-75 valenzano menada m, remorgida v, abbamonte lh, fulcheri e, ragni n, ferrero s. 5. transvaginal ultrasonography combined with water-contrast in the rectum in the diagnosis of rectovaginal endometriosis infiltrating the bowel. fertil steril 2008; 89: 699-700 ferrero s, venturini pl, ragni n, camerini g, remorgida v. pharmacological treatment of 6. endometriosis: experience with aromatase inhibitors. drugs 2009; 69: 943-52 giudice lc, kao lc. endometriosis. 7. lancet 2004; 364: 1789-99 kennedy s, bergqvist a, chapron c, d’hooghe t, dunselman g, greb r; eshre special 8. interest group for endometriosis and endometrium guideline development group. eshre guideline for the diagnosis and treatment of endometriosis. hum reprod 2005; 20: 2698-704 guo sw, wang y. the prevalence of endometriosis in women with chronic pelvic pain. 9. gynecol obstet invest 2006; 62: 121-30 guo sw, wang y. sources of heterogeneities in estimating the prevalence of endometriosis in 10. infertile and previously fertile women. fertil steril 2006; 86: 1584-95 donnez j, nisolle m, casanas-roux f, bassil s, anaf v. rectovaginal septum, endometriosis 11. or adenomyosis: laparoscopic management in a series of 231 patients. hum reprod 1995; 10: 630-5 anaf v, simon p, el nakadi i, simonart t, noel j, buxant f. impact of surgical resection of 12. rectovaginal pouch of douglas endometriotic nodules on pelvic pain and some elements of patients’ sex life. j am assoc gynecol laparosc 2001; 8: 55-60 ford j, english j, miles wa, giannopoulos t. pain, quality of life and complications following 13. the radical resection of rectovaginal endometriosis. bjog 2004; 111: 353-6 ferrero s, abbamonte lh, anserini p, remorgida v, ragni n. future perspectives in the medical 14. treatment of endometriosis. obstet gynecol surv 2005; 60: 817-26 noble ls, simpson er, johns a, bulun se. aromatase expression in endometriosis. 15. j clin endocrinol metab 1996; 81: 174-9 ailawadi rk, jobanputra s, kataria m, gurates b, bulun se. treatment of endometriosis and 16. chronic pelvic pain with letrozole and norethindrone acetate: a pilot study. fertil steril 2004; 81: 290-6 shippen er, west wj jr. successful treatment of severe endometriosis in two premenopausal 17. women with an aromatase inhibitor. fertil steril 2004; 81: 1395-8 amsterdam ll, gentry w, jobanputra s, wolf m, rubin sd, bulun se. anastrazole and oral 18. contraceptives: a novel treatment for endometriosis. fertil steril 2005; 84: 300-4 hefler la, grimm c, van trotsenburg m, nagele f. role of the vaginally administered 19. aromatase inhibitor anastrozole in women with rectovaginal endometriosis: a pilot study. fertil steril 2005; 84: 1033-6 clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 99 enzo ballatori 1 incertezza in medicina fu ippocrate a cogliere per primo l’importanza dell’incertezza in medicina [1]. ma tra l’incertezza della medicina ippocratica e quella della medicina contemporanea passa un abisso di conoscenze. i progressi nel campo delle scienze di base hanno eroso in modo sostanziale il terreno dell’incertezza, senza tuttavia lasciarne presupporre la scomparsa. il guadagno, in termini di minore incertezza, è stato ottenuto soprattutto con l’affinamento delle capacità diagnostiche che hanno consentito di connotare sempre più esattamente le malattie e, quindi, di predisporre terapie sempre più mirate. l’incertezza accomuna tutti i campi della scienza medica. infatti, seguendo la storia naturale della malattia [2], si può verificare che: tra gli esposti a un fattore di rischio, alcuni contraggono la malattia e altri no, e lo stesso avviene tra i non esposti. anche rimuovendo il fattore di rischio con un’azione di prevenzione primaria, di norma la malattia non scompare; la diagnosi di malattia, come ogni altra inferenza induttiva1, è regolata dal teorema di bayes, basato sulle probabilità condizionate. le principali conseguenze sono: una diagnosi certa non esiste; l’errore è connaturato al processo diagnostico; quando un medico prescrive una terapia non può essere certo che proprio quella sia la migliore terapia per quel paziente. 1 si compie un’inferenza induttiva (o induzione) quando dal particolare si tenta di risalire al generale, ovvero quando dall’effetto si cerca di individuare la causa che lo ha prodotto      dalla ricerca clinica egli sa solo che quella terapia ha ottenuto risultati che possono riprodursi in una vasta popolazione di pazienti. inoltre, non va dimenticato che nella ricerca clinica la dimostrazione della superiorità di un nuovo trattamento rispetto alla terapia standard è ottenuta sempre su base probabilistica; nell’esperienza clinica c’è la consapevolezza di quanto incerta sia la prognosi. l’incertezza origina dal fatto che la medicina si occupa di fenomeni che presentano variabilità nelle loro manifestazioni individuali. la relazione di causalità tra due fenomeni, e (effetto) e c (causa), per cui c è condizione necessaria e sufficiente per e, è pertanto inapplicabile. ad esempio, se l’esposizione a un fattore di rischio fosse la causa dell’insorgenza di una malattia m, tutti gli esposti – e nessuno dei non esposti – contrarrebbero m, ma dall’esperienza è noto che ciò non accade praticamente mai. si può comunque attribuire al fattore di rischio una sua capacità di produrre m, ovvero di facilitarne l’insorgenza; in tal caso il fattore è riconosciuto come una delle (cause) determinanti di malattia. il rapporto tra il rischio di ammalarsi di un soggetto esposto e quello di un non esposto, noto come rischio relativo, valuta l’importanza del fattore nel determinismo della malattia. esso misura la probabilità di ammalarsi di un esposto, posta uguale a 1 la probabilità di ammalarsi per un non esposto. ad esempio, il fumatore ha un rischio relativo pari a 2 di andare incontro a un evento ischemico di circolo arterioso su base trombotica rispetto al non fumatore:  editoriale 1 unità di statistica medica, dipartimento di medicina interna e sanità pubblica, università degli studi, l’aquila corresponding author prof. enzo ballatori e.ballatori@alice.it clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 100 editoriale il fumo di per sé raddoppia la probabilità di contrarre una di tali patologie. quindi, il fumo non è la causa dell’evento vascolare, ma è certamente importante nel facilitarne l’insorgenza. in sintesi, l’inapplicabilità del paradigma deterministico comporta che, in medicina, ogni forma di conoscenza ha sempre una dimensione statistica e che la pre-visione, ossia la visione anticipata del futuro, è necessariamente su base probabilistica. rientra nell’esperienza comune la variabilità delle osservazioni, siano esse misure o rilevazioni di un attributo. ad esempio, un farmaco è efficace su alcuni pazienti ma non su altri; uno stesso farmaco è talora efficace su un paziente mentre in altre circostanze non lo è. ciò che genera la variabilità delle osservazioni – che è alla base dell’incertezza in medicina – è soprattutto il fatto che la risposta a un trattamento dipende non solo dal trattamento, ma anche dal soggetto, dove il termine “trattamento” assume un significato assai ampio non solo di terapia, ma anche di immagine diagnostica, di esposizione a un fattore di rischio, e così via. a scopi operativi, nel processo di acquisizione di conoscenze in campo medico si possono individuare almeno due fonti di variabilità: quella legata al caso (cioè all’errore accidentale) e quella dovuta a fattori sistematici (errori sistematici o bias). la prima è della stessa natura della variabilità delle misure ripetute di una stessa grandezza, comune a tutti i fenomeni fisici: le misure, in quanto esperimenti, non possono essere ripetute nelle stesse condizioni, perché tra una misura e l’altra qualcosa necessariamente muta. gauss introdusse la curva normale per spiegare la variabilità accidentale. in tale modello, la deviazione standard, stimando quanto variano, in media, le misure per effetto del caso, può essere interpretata come livello di imprecisione dello strumento di misura. nella ricerca clinica, la risposta (cioè quello che si osserva sul paziente al termine del trattamento) dipende, oltre che dalla terapia, anche dal paziente. la sintesi delle risposte (ad esempio, la percentuale di successi terapeutici), determinata in un braccio di trattamento, dipende quindi dal fatto che ad essere osservati siano stati proprio quei pazienti e non altri. in altre parole, se ripetessimo lo studio con pazienti diversi, avremmo una risposta (media) diversa (una diversa percentuale di successi). per semplicità di esposizione, nel seguito si farà riferimento solo al caso di una risposta dicotomica (successo, insuccesso), per cui è la percentuale di successi a sintetizzarla in una pluralità di soggetti. tuttavia, la logica del procedimento è applicabile ad ogni altra situazione (ad esempio, nel caso di una risposta individuale quantitativa, la cui sintesi nel gruppo di soggetti osservato è la media). se si riesce a fare in modo che i due gruppi sperimentali si rassomiglino rispetto a tutte le altre caratteristiche ad eccezione del trattamento, la differente efficacia delle terapie è riepilogata dalla differenza tra le percentuali di successi nei due bracci. così, se si ripetesse lo studio con altri pazienti, tale differenza varierebbe proprio perché diversi sarebbero i pazienti. si formula allora l’ipotesi nulla di uguale efficacia dei trattamenti. diventa quindi possibile calcolare, sotto l’ipotesi nulla, una misura della variabilità della differenza tra le percentuali di successi nei due gruppi dovuta al solo effetto del caso (cioè, al fatto che sono diversi i pazienti); tale differenza è detta “teorica” o “attesa”. se la differenza osservata tra le percentuali di successi nei due gruppi (differenza empirica) è molto più alta di quella teorica (cioè attesa per il solo effetto del caso), allora, dato che i due gruppi si differenziano solo per il trattamento, tale eccesso può essere imputato alla diversa efficacia delle terapie. se, viceversa, la differenza empirica è all’incirca uguale a quella teorica, non resta che accettare l’ipotesi (nulla) di uguale efficacia dei trattamenti, in quanto lo studio non è riuscito ad accumulare sufficienti evidenze per provare il contrario. la statistica fornisce quindi gli strumenti per il controllo dell’errore accidentale. nella sperimentazione clinica, la variabilità dovuta a fattori sistematici si concretizza nella diversità dei gruppi a confronto, oltre che per il trattamento, anche per altre caratteristiche osservabili (ad esempio, diversa struttura per sesso, età, stadio della malattia, ecc.). in questo caso, la logica del test statistico sopra delineata non porta ad alcuna conclusione, in quanto la significatività della differenza tra le percentuali di successi potrebbe essere imputata alle diversità dei gruppi sperimentali e non alla differente efficacia dei trattamenti. le sperimentazioni cliniche controllate sono quelle in cui è previsto un “controllo” degli errori sistematici, condotto soprattutto mediante un opportuno piano degli clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 101 e. ballatori esperimenti, dettagliato nel disegno dello studio. nelle sperimentazioni controllate l’operazione fondamentale è la randomizzazione, ossia l’allocazione rigorosamente casuale dei pazienti ai trattamenti. anzitutto, la randomizzazione assicura un’ulteriore base logica al test statistico2. inoltre, consente di forma2 il “classico” test statistico adotta il “modello di popolazione” in quanto assume che i gruppi sperimentali siano campioni casuali estratti a sorte dalle rispettive popolazioni. la randomizzazione fornisce un base logica alternativa al “modello di popolazione”, detta appunto “modello di randomizzazione” da cui possono essere derivati test statistici che, nel caso del confronto tra percentuali, sono equivalenti a quelli ottenuti sulla base del modello di popolazione. ciò è particolarmente importante perché difficilmente i gruppi sperimentali possono essere riguardati come campioni casuali e, quindi, la randomizzazione rassicura sulla correttezza del procedimento anche contro tale obiezione re, con alta probabilità, gruppi sperimentali simili tra loro rispetto a tutte le caratteristiche, note o sconosciute, diverse dal trattamento; in tal modo, la differenza tra le percentuali di successi, riscontrata significativa al test statistico, non può che essere attribuita alla diversa efficacia dei trattamenti. l’incertezza crea nella medicina scientifica una dimensione di complessità in più, ma non va ignorata né rifiutata: si tratta di ridurne i margini migliorando diagnostica e terapia nella consapevolezza che, per quanto possenti possano diventare le conoscenze di base, un residuo resterà sempre, o perché imperfetta è la mente dell’uomo nell’investigazione dei fenomeni naturali, o perché la variabilità dei fenomeni è intrinseca alla natura stessa. bibliografia 1. di benedetto v. il medico e la malattia. torino: einaudi, 1986 2. ballatori e. i fondamenti della medicina scientifica. perugia: galeno-margiacchi editore, 2006 123 clinical management issues al 2010 al registro italiano per l’infezione da hiv sono stati segnalati 9.649 bambini nati da madre hiv-1 positiva, di cui 1.535 infetti e 7.417 non infetti; tra i bambini infetti sono stati registrati 436 decessi, di cui 407 si sono realizzati prima del 1994, 22 tra il 1995 e il 2000, 5 tra il 2001 e il 2005 e solo 2 tra il 2006 e il 2010; questo dato conferma il declino del numero dei decessi evidenziato a livello mondiale nel global report 2010 in seguito all’introduzione della highly active antiretroviral therapy (haart) [2]. trasmissione dell’infezione in età pediatrica la modalità più frequente di infezione è la trasmissione verticale del virus da madre a figlio. l’infezione può essere epidemiologia in italia i dati relativi alle notifiche di sindrome da immunodeficienza acquisita (aids) e alle nuove diagnosi di infezione da human immunodeficiency virus type 1 (hiv-1) sono raccolti dal centro operativo aids (coa) dell’istituto superiore di sanità. per l’anno 2009 i dati riportati mostrano un’incidenza di nuovi casi di infezione da hiv-1 pari a 4,6/100.000 per i residenti italiani e 22,5/100.000 per i residenti stranieri, con una maggiore incidenza nel centro-nord del paese rispetto al sud e alle isole. i casi di aids conclamato dal 1982 al 2010 sono stati 63.000, di cui circa 40.000 deceduti [1]. per quanto riguarda i dati italiani relativi all’infezione da hiv-1 in età pediatrica, fino corresponding author dott.ssa luisa galli luisa.galli@unifi.it gestione clinica abstract introduction of highly active antiretroviral therapy (haart) and implementation of preventive strategies during pregnancy have resulted in a dramatic reduction of the mortality rate in hiv-1 infected children by over 80-90% and in a decrease in the risk of mother-to-child transmission (mctc) of hiv-1 to approximately 1-2%. however the mctc remains the main source of hiv-1 infection within the paediatric population. the risk of disease progression is inversely correlated with the age of the child, with the youngest children at greatest risk of rapid disease progression, but in the first year of life it is not possible to identify infants at greatest risk; therefore, according to all the international guidelines, it is necessary to start antiretroviral therapy in all infants < 12 months of age. this article provides a summary of the clinical features of the infection and of the methods for diagnosis. furthermore it offers an overview of antiretroviral therapy in hiv-1 infected children, including a description of the main classes of antiretroviral drugs, the most common side effects and some issues concerning the disclosure of diagnosis. the objectives of this study are to make a set of practical suggestions to paediatricians for the optimum management of the infection and the antiretroviral therapy. keywords: haart; mother-to-child transmission; aids; paediatric hiv-1 infection management of hiv-1 infection in the paediatric age cmi 2011; 5(4): 123-133 1 dipartimento di scienze per la salute della donna e del bambino, università di firenze caterina bonaccini 1, paola piccini 1, daniele serranti 1, paola gervaso 1, luisa galli 1 gestione dell’infezione da hiv-1 in età pediatrica 124 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) gestione dell’infezione da hiv-1 in età pediatrica acquisita durante la gravidanza, durante il parto o con l’allattamento; il parto è considerato il momento a maggior rischio [3] e alcune condizioni concorrono all’aumento di tale rischio (tabella i) [4]. l’esecuzione di un parto cesareo d’elezione permette di ridurre la possibilità di trasmissione di circa il 50% [5]; tuttavia il suo vantaggio ancora non è chiaro nelle donne con carica virale indosabile [6]. il rischio di trasmissione mediante allattamento è più elevato nei primi 9 mesi dopo il parto ed è correlato ai livelli di hiv-1 rna nel plasma e nel latte materno e alla durata dell’allattamento [7]; pertanto in italia, come in tutti i paesi industrializzati, l’allattamento materno è fortemente sconsigliato alle donne con infezione da hiv-1. il più importante intervento preventivo è comunque rappresentato dall’impiego della terapia antiretrovirale, somministrata alla madre in gravidanza e durante il parto e al bambino nelle prime 6 settimane di vita. senza alcun trattamento il rischio di trasmissione durante la gravidanza e il parto è stimato intorno al 15-30%, con un rischio aggiuntivo del 10-20% in caso di allattamento materno [8,9]. l’impiego di interventi preventivi combinati quali parto cesareo d’elezione, allattamento artificiale e terapia antiretrovirale ha permesso di ridurre il rischio di trasmissione dell’infezione all’1-2% [10]. patogenesi il bersaglio principale del virus è rappresentato dal linfocita t-helper o linfocita t cd4+, che svolge un ruolo fondamentale nella risposta immunitaria specifica. il virus, attraverso effetti citopatici diretti e indiretti, determina una riduzione numerica e un’alterazione funzionale dei linfociti t cd4+, impedendo, nella fase avanzata fattori materni elevata carica virale materna y conta dei linfociti cd4 y + malnutrizione y deficit di vitamina a y abitudine al fumo e consumo di droghe y deterioramento delle condizioni cliniche materne y deficit della risposta anticorpale verso il virus y fattori ostetrici parto vaginale y parto prematuro (< 32° settimana) y deterioramento della placenta y rottura prematura delle membrane y tabella i. fattori di rischio materni e ostetrici per la trasmissione maternofetale dell ’infezione da hiv-1 [4] dell’infezione, l’organizzazione di un’efficace risposta immunitaria verso agenti infettivi e cellule tumorali, con conseguente rischio di sviluppo di gravi infezioni opportunistiche e neoplasie [11-13]. nel corso dell’infezione da hiv-1 si verificano alterazioni numeriche e funzionali anche dei linfociti t cd8+; il progressivo declino del numero dei linfociti t cd8+ è associato a una prognosi sfavorevole [14]. presentazione clinica in età pediatrica prima dell’avvento della terapia antiretrovirale, l’infezione da hiv-1 contratta in epoca perinatale presentava generalmente un decorso più rapido e grave di quello dell’adulto o del bambino contagiatosi successivamente per via trasfusionale [15]. i primi sintomi esordivano, in genere, all’età di 5 mesi [16] e, solo eccezionalmente, alcuni bambini (3% circa) raggiungevano età elevate senza manifestare alterazioni immunologiche e manifestazioni cliniche; tali bambini venivano designati come long term non progressors. nel 40% dei casi l’aids compariva all’età di 2 anni e solo il 5% di tutti i bambini con infezione da hiv-1 sopravviveva fino all’età di 8 anni. l’introduzione della terapia haart ha determinato una riduzione della mortalità e un miglioramento dei parametri virologici, immunologici e clinici, con conseguente miglioramento della qualità e dell’aspettativa di vita [17]. per quanto riguarda la presentazione clinica dell’infezione, è stata adottata a livello internazionale la classificazione dei centers for disease control and prevention (cdc) che prevede la suddivisione in tre categorie immunologiche, secondo il grado di immunodeficienza espresso dalla conta dei linfociti t cd4+, e quattro categorie cliniche (n, a, b, c) in ordine crescente di gravità, in base a segni e sintomi correlati all’infezione da hiv-1 [18]. nella tabella ii sono riportate le quattro categorie n, a, b e c, ritenute di maggiore interesse per il clinico. in generale possiamo distinguere le manifestazioni cliniche associate all’infezione da hiv-1 in: y infezioni: in seguito al deficit della risposta immunitaria umorale, nel 20% dei casi di aids in età pediatrica si riscontrano infezioni batteriche ricorrenti, causate soprattutto da batteri capsulati come 125 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) c. bonaccini, p. piccini, d. serranti, p. gervaso, l. galli y sistema cardiovascolare: sono comuni l’ipertrofia ventricolare sinistra e la cardiomiopatia dilatativa [24,25]; y apparato gastroenterico: l’interessamento del tratto gastrointestinale è comune e i patogeni più spesso responsabili sono salmonella spp, campylobacter, mac, giardia, rotavirus, hsv e cmv. a carico del tratto gastroenterico è possibile osservare l’enteropatia da aids definita come una sindrome da malassorbimento con atrofia villosa non associata a un patogeno specifico. comune è inoltre la diarrea cronica [26]; dell’infezione, l’organizzazione di un’efficace risposta immunitaria verso agenti infettivi e cellule tumorali, con conseguente rischio di sviluppo di gravi infezioni opportunistiche e neoplasie [11-13]. nel corso dell’infezione da hiv-1 si verificano alterazioni numeriche e funzionali anche dei linfociti t cd8+; il progressivo declino del numero dei linfociti t cd8+ è associato a una prognosi sfavorevole [14]. presentazione clinica in età pediatrica prima dell’avvento della terapia antiretrovirale, l’infezione da hiv-1 contratta in epoca perinatale presentava generalmente un decorso più rapido e grave di quello dell’adulto o del bambino contagiatosi successivamente per via trasfusionale [15]. i primi sintomi esordivano, in genere, all’età di 5 mesi [16] e, solo eccezionalmente, alcuni bambini (3% circa) raggiungevano età elevate senza manifestare alterazioni immunologiche e manifestazioni cliniche; tali bambini venivano designati come long term non progressors. nel 40% dei casi l’aids compariva all’età di 2 anni e solo il 5% di tutti i bambini con infezione da hiv-1 sopravviveva fino all’età di 8 anni. l’introduzione della terapia haart ha determinato una riduzione della mortalità e un miglioramento dei parametri virologici, immunologici e clinici, con conseguente miglioramento della qualità e dell’aspettativa di vita [17]. per quanto riguarda la presentazione clinica dell’infezione, è stata adottata a livello internazionale la classificazione dei centers for disease control and prevention (cdc) che prevede la suddivisione in tre categorie immunologiche, secondo il grado di immunodeficienza espresso dalla conta dei linfociti t cd4+, e quattro categorie cliniche (n, a, b, c) in ordine crescente di gravità, in base a segni e sintomi correlati all’infezione da hiv-1 [18]. nella tabella ii sono riportate le quattro categorie n, a, b e c, ritenute di maggiore interesse per il clinico. in generale possiamo distinguere le manifestazioni cliniche associate all’infezione da hiv-1 in: y infezioni: in seguito al deficit della risposta immunitaria umorale, nel 20% dei casi di aids in età pediatrica si riscontrano infezioni batteriche ricorrenti, causate soprattutto da batteri capsulati come n nessun segno correlabile all’infezione da hiv-1 a sintomatologia lieve linfoadenopatia generalizzata y epatomegalia y splenomegalia y parotite y dermatite y infezioni respiratorie, otiti, sinusiti ricorrenti y b sintomatologia moderata anemia, neutropenia, piastrinopenia y infezione batterica grave y candidosi orale persistente y cardiomiopatia y nefropatia y epatite y diarrea ricorrente o cronica y febbre persistente per oltre un mese y polmonite interstiziale linfoide y leiomiosarcoma y stomatite erpetica ricorrente (> 2 volte/anno) y herpes zoster y (> 2 volte/anno o che coinvolge più di un dermatomero) varicella disseminata y polmonite, bronchite, esofagite da hsv nel primo mese di vita y infezione da cmv esordita nel primo mese di vita y toxoplasmosi esordita nel primo mese di vita y c sintomatologia severa (aids) encefalopatia hiv-correlata y leucoencefalopatia multifocale progressiva y infezione da hsv mucocutanea polmonare o persistente y malattia da cmv nel primo mese di vita con sede diversa da fegato, y milza e linfonodi infezioni batteriche gravi (sepsi, meningiti, polmoniti, ascessi, y osteomieliti) > 2 in 2 anni sepsi da y salmonella spp non tifoide ricorrente infezione disseminata o extrapolmonare da micobatteri y candidosi esofagea o polmonare y criptococcosi extrapolmonare y coccidioidomicosi extrapolmonare y polmonite da y pneumocystis jirovecii toxoplasmosi cerebrale dopo il prima mese di vita y criptosporidiosi o isosporiasi persistente dopo il primo mese di vita y linfoma cerebrale primitivo y linfoma di burkitt o immunoblastico o a grandi cellule t y sarcoma di kaposi y wasting syndrome y tabella ii. classificazione clinica dell ’infezione da hiv-1 in età pediatrica [18] streptococcus pneumoniae e salmonella spp e in minor misura da altri agenti patogeni quali staphylococcus, enterococcus, pseudomonas aeruginosa e haemophilus influenzae. le forme più gravi sono rappresentate più frequentemente da batteriemie, sepsi e polmoniti batteriche, mentre più rare risultano essere meningiti, ascessi profondi, infezioni gravi delle vie urinarie e infezioni ossee/articolari. tra le infezioni virali, le più frequenti sono quelle causate dal gruppo degli herpes virus: si può osservare gengivostomatite ricorrente da herpes simplex virus (hsv ), l’infezione primaria da virus della varicella-zoster (vzv ) e l’infezione da cytomegalovirus (cmv ). nei bambini con depressione severa della conta dei linfociti t cd4+ si osservano anche infezioni opportunistiche, tra le quali la più frequente è la polmonite da pneumocystis jirovecii (pcp), che ha un picco di incidenza tra i 3 e 6 mesi di età e in assenza di terapia è gravata da un’altissima mortalità. frequenti sono inoltre le infezioni da micobatteri non tubercolari, soprattutto da mycobacterium avium intracellulare (mac), che può causare infezioni disseminate in bambini gravemente immunodepressi. tra le infezioni micotiche la più comune è la candidosi orale, che nei bambini con deplezione grave dei linfociti t cd4+ può progredire fino a interessare l’esofago, presentandosi con disfagia, febbre, vomito e anoressia. altre infezioni opportunistiche con elevata morbilità sono quelle parassitarie come la criptosporidiosi e la microsporidiosi [19]; y sistema nervoso centrale: le manifestazioni a carico del sistema nervoso centrale (snc) sono rappresentate dall’encefalopatia e dal linfoma. a carico del snc si possono poi osservare infezioni opportunistiche quali la toxoplasmosi cerebrale, l’encefalite da cmv, la leucoencefalopatia multifocale progressiva dal virus jc (john cunningham virus), la meningite da criptococco o coccidioides [20,21]; y apparato respiratorio: una manifestazione tipica dei bambini con infezione da hiv-1 è la polmonite interstiziale linfoide (lip), unica manifestazione che fa parte della categoria b ma che fa porre diagnosi di aids. si tratta di un processo cronico di iperplasia linfatica nodulare dell’epitelio bronchiale e bronchiolare, con esordio insidioso con tosse, tachipnea, ipossiemia lieve con normali reperti auscultatori o rantoli minimi [22,23]; 126 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) gestione dell’infezione da hiv-1 in età pediatrica y apparato urinario: la nefropatia si verifica soprattutto nei bambini più grandi ed è dovuta sia a un effetto diretto dell’hiv-1 sulle cellule epiteliali renali, sia ai farmaci nefrotossici. la manifestazione più comune è la sindrome nefrosica [27]; y cute: segni non specifici ma precoci di infezioni da hiv-1 sono la dermatite seborroica e l’eczema. sono inoltre tipiche le infezioni ricorrenti da hsv, mollusco contagioso, vzv, candida e verruche piane e ano-genitali [28,29]; y sistema ematopoietico: comuni sono l’anemia, la neutropenia e la trombocitopenia. le neoplasie a carico del sistema emopoietico si riscontrano unicamente nel 2% dei casi di aids e sono soprattutto linfomi non-hodgkin, linfomi del snc e leiomiosarcomi. estremamente raro nel bambino è il sarcoma di kaposi [30]. diagnosi nell’adulto l’analisi sierologica per la ricerca di anticorpi anti-hiv-1 è altamente specifica e risulta sufficiente per porre diagnosi di infezione da hiv-1. è possibile evidenziare la presenza di anticorpi specifici diretti contro i tre principali gruppi di proteine sintetizzate dal virus: quelle dell’envelope (gp160 e le due subunità gp120 e gp41), quelle del core (p24, p18 e p55) e le proteine con attività regolatrice (rt e p66). le metodiche utilizzate sono il test immunoenzimatico elisa e il western blot (wb). nel bambino i test sierologici sono considerati strumenti attendibili di diagnosi solo se eseguiti oltre 18 mesi di vita, in quanto nel lattante di età inferiore a 18 mesi si riscontrano ancora anticorpi di origine materna [31,32]. per effettuare la diagnosi precoce nel bambino è necessario pertanto ricorrere alla ricerca del genoma virale in dna o rna; entrambi i test sono dotati di elevata sensibilità, tuttavia i livelli di hiv-1 rna possono diventare indosabili in corso di terapia antiretrovirale nelle prime sei settimane di vita, al contrario dei livelli di hiv-1 dna, che permangono elevati [33]. la ricerca del genoma virale tramite pcr deve essere condotta a 14-21 giorni, a 1-2 mesi e a 4-6 mesi di vita; due risultati positivi ottenuti su due diversi campioni di sangue sono indicativi di infezione, mentre in bambini non allattati al seno il riscontro di due test negativi eseguiti su campioni prelevati a 1 mese e a 4 mesi di vita sono sufficienti per escludere l’infezione. l’infezione può essere diagnosticata nelle prime 48 ore di vita nel 30-40% dei bambini infetti [34]. follow-up i pazienti devono essere attentamente seguiti al fine di valutare l’andamento dell’infezione, la risposta alla terapia, l’insorgenza di eventuali complicanze e reazioni avverse legate ai farmaci. i parametri clinici e laboratoristici fondamentali da valutare sono i seguenti: conta dei linfociti t cd4 y +; da determinare al momento della diagnosi e successivamente ogni 6 mesi. la percentuale di linfociti t cd4+ è il parametro immunologico più significativo in età pediatrica per valutare l’andamento dell’infezione; carica virale; la determinazione quantitatiy va dell’hiv-1 rna, espressa in copie/ml, è richiesta prima dell’inizio e in corso di trattamento per valutare un eventuale fallimento virologico della terapia; esami di laboratorio di routine: emocromo, y profilo lipidico, profilo glucidico mediante glicemia, insulinemia e indice homa (homeostasis model assessment), funzionalità renale ed epatica. esame obiettivo con valutazione di peso, y altezza, circonferenza cranica, sviluppo psicomotorio [35]. terapia gli interventi terapeutici possibili in un bambino con infezione da hiv-1 sono tesi a limitare la replicazione virale, permettere un recupero numerico e funzionale dei linfociti t cd4+ e a trattare le manifestazioni secondarie e le complicanze dell’infezione. l’introduzione del 1996 della haart, caratterizzata dall’associazione di almeno tre farmaci antiretrovirali, ha cambiato radicalmente la qualità di vita nei soggetti infetti; tale terapia non è in grado di eradicare il virus e di guarire il paziente, ma riesce a modificare il decorso della malattia, trasformandola in un processo cronico [16,36]. nel bambino la più rapida progressione dell’infezione giustifica un atteggiamento più tempestivo rispetto all’adulto [37] e molti studi in europa, stati uniti e sudafrica dimostrano che l’inizio della haart prima 127 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) c. bonaccini, p. piccini, d. serranti, p. gervaso, l. galli di 6 mesi di età riduce la carica virale, mantiene stabile la condizione immunologica e riduce la mortalità del 76% [37-40]. sulla base di queste importanti prove scientifiche, le linee guida internazionali raccomandano sempre l’inizio della terapia antiretrovirale nel primo anno di vita, indipendentemente dai parametri clinici, virologici e immunologici [32-34]. per bambini e adolescenti di età superiore a 12 mesi i criteri di inizio della terapia non si basano su studi clinici randomizzati, in quanto questi non sono disponibili, ma sull’analisi di studi di coorte e dello studio smart dei pazienti adulti [41]. l’inizio della terapia è raccomandato in tutti i bambini di età superiore a 12 mesi, che presentino una o più tra le seguenti condizioni: sintomatici (stadio c o b dei cdc); y con carica virale maggiore di 100.000 y cellule/µl; con cd4 y + minori del 25% tra 12 e 59 mesi e < 500 cellule/µl sopra 5 anni di età [33]. le linee guida penta condividono tali criteri clinici e virologici; tuttavia propongono i seguenti criteri immunologici per l’inizio della terapia: 12-35 mesi: cd4 y + < 25%; 36-59 mesi: cd4 y + < 20%; > 5 anni: cd4 y + < 350 cellule/µl [32]. classi di farmaci antiretrovirali la terapia antiretrovirale si basa sull’utilizzo di farmaci che agiscono bloccando alcune tappe dell’infezione e della replicazione virale. i farmaci oggi disponibili possono essere distinti in cinque classi: gli inibitori nucleosidici/nucleotidici della trascrittasi inversa, gli inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa, gli inibitori delle proteasi, gli inibitori della fusione e gli inibitori delle integrasi [33]. la terapia antiretrovirale è spesso accompagnata da effetti avversi di differente tipologia e gravità; in caso di comparsa di effetti collaterali legati ai farmaci, la terapia deve essere prontamente modificata sostituendo il farmaco responsabile; la riduzione del dosaggio del farmaco interessato è consigliata solo in caso di confermato sovradosaggio. i segni e sintomi clinici legati alla tossicità della terapia antiretrovirale possono manifestarsi in modo acuto, poco dopo l’assunzione del farmaco, subacuto, 1-2 giorni dopo l’inizio della terapia e tardivo, dopo una prolungata assunzione del farmaco. i principali effetti avversi riscontrati in corso di terapia antiretrovirale sono riportati in tabella iii [33]. sulla base delle evidenze riportate in letteratura relative agli effetti tossici, talvolta gravi, della terapia antiretrovirale, alcuni autori hanno suggerito di interrompere il trattamento per un periodo di tempo ancora non ben definito, nei bambini infetti con un quadro virologico, immunologico e clinico stabile, per ridurre gli effetti collaterali della terapia; tuttavia gli studi sul paziente pediatrico sono pochi e i loro risultati non forniscono ancora una risposta definitiva al problema. le poche evidenze disponibili sono comunque incoraggianti e fanno supporre che le interruzioni strutturate di teraeffetti collaterali ed eventi avversi farmaco frequenza# depressione sistema nervoso centrale lpv/r non comune sintomi neuropsichiatrici efv comune ral non comune emorragia intracranica tpv non comune dislipidemia pi comune nrti non comune nausea, vomito pi comune zdv comune diarrea pi comune ddi molto comune pancreatite ddi non comune d4t non comune anemia zdv comune neutropenia zdv comune epatotossicità efv, nvp comune iperbilirubinemia indiretta idv molto comune atv comune insulino-resistenza, iperglicemia, diabete mellito d4t non comune ddi non comune zdv non comune idv, lpv/r comune acidosi lattica nrti (ddi, d4t) non comune lipoipertrofia centrale pi molto comune efv molto comune lipoatrofia periferica e faciale d4t, zdv comune urolitiasi, nefrolitiasi idv molto comune atv non comune disfunzioni renali idv comune tdf comune neuropatia d4t comune ddi comune reazione di ipersensibilità abc molto comune nvp comune enf comune rash cutaneo nvp, lpv/r comune osteopenia, osteoporosi d4t, pi, tdf comune tabella iii. principali effetti collaterali e eventi avversi dei farmaci antiretrovirali [33,42,43] abc = abacavir; atv = atazanavir; d4t = stavudina; ddi = didanosina; efv = efavirenz; enf = enfuvirtide; idv = indinavir; lpv/r = lopinavir/ritonavir; nrti = inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa; nvp = nevirapina; pi = inibitori delle proteasi; ral = raltegravir; tdf = tenofovir; tpv = tipranavir; zdv = zidovudina #non comune: > 1/1.000 e < 1/100; comune: > 1/100 e < 1/10; molto comune: > 1/10 128 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) gestione dell’infezione da hiv-1 in età pediatrica pia potranno presto entrare a far parte della pratica clinica [44]. inibitori nucleosidici/nucleotidici della trascrittasi inversa in inglese sono i nucleoside/nucleotide reverse transcriptase inhibitors o nrti; ne fanno parte: zidovudina (azt o zdv ), abacavir (abc), didanosina (ddi), emtricitabina (ftc), lamivudina (3tc), stavudina (d4t) e tenofovir (tdf). gli nrti inibiscono la replicazione virale in quanto sono analoghi dei desossinucleosidi naturali, ne mimano la funzione e competono con essi per l’incorporazione nella catena nascente del dna, causando l’arresto della sua sintesi una volta penetrati all’interno [45]. gli effetti avversi comuni all’intera classe sono rappresentati dalla steatosi epatica, dall’acidosi lattica e più raramente dalla cardiomiopatia, dalla pancreatite e dalla neuropatia. tali alterazioni sono associate alla tossicità mitocondriale di questi farmaci [46]. tra gli nrti, quelli che mostrano una maggiore tossicità mitocondriale sono stavudina e didanosina, mentre lamivudina, abacavir e tenofovir sembrano avere minori effetti avversi [47]. reazioni di ipersensibilità si riscontrano in circa il 2,39% di bambini e adulti trattati con abacavir; la diagnosi viene effettuata su base clinica e si basa sul riscontro di almeno due sintomi tra febbre, rash cutaneo, nausea, vomito, cefalea, letargia, mialgia e sintomi gastrointestinali, se comparsi entro 6 settimane dall’inizio della terapia e risoltisi entro 72 ore dalla sospensione del farmaco [48]. le reazioni di ipersensibilità da abacavir riconoscono una predisposizione di base immunologica e genetica; in particolare è stata individuata una correlazione tra la presenza dell’hlab*5701 e l’insorgenza di tali reazioni; pertanto l’esecuzione di test volti a individuare questo allele prima dell’inizio della terapia permette di ridurre il rischio di insorgenza di gravi reazioni di ipersensibilità [42]. l’insorgenza di resistenze è un evento frequente e una singola mutazione può conferire resistenze verso l’intera classe, a causa di reazioni crociate [33]. inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa i non nucleoside reverse transcriptase inhibitors o nnrti sono: efavirenz (efv ), nevirapina (nvp), etravirina (etv ). gli nnrti costituiscono una classe di farmaci eterogenea che non necessita di un metabolismo intracellulare per svolgere la propria azione farmacologica [49]; questi farmaci agiscono bloccando la funzionalità della trascrittasi inversa [45]. gli effetti avversi più frequenti sono il rash, anche grave, l’interessamento muscolare, la febbre, la sindrome di stevens-johnson e le alterazioni della funzionalità epatica. nevirapina in particolare, nel 17-32% dei pazienti può determinare l’insorgenza di rash accompagnato da segni e sintomi sistemici quali eosinofilia, febbre ed epatite. efavirenz causa inoltre, in una percentuale non trascurabile di casi (fino al 24%) sintomi psichiatrici e a carico del snc, quali insonnia, depressione, allucinazioni e sogni anomali [50]. l’insorgenza di resistenze verso questa tipologia di farmaci è frequente e una singola mutazione può conferire resistenza verso l’intera classe [33]. inibitori delle proteasi fanno parte della classe dei protease inhibitors o pi: darunavir (drv ), nelfinavir (nfv ), indinavir (idv ), amprenavir (apv ), fosamprenavir (fpv ), lopinavir (lpv ), ritonavir (rtv ), saquinavir (sqv ), tipranavir (tpv ) e atazanavir (atv ). i pi bloccano alcuni enzimi coinvolti nella degradazione di molecole polipeptidiche, precursori di proteine strutturali e enzimi virali [45]. gli effetti avversi di questa classe di farmaci sono principalmente a carico del metabolismo lipidico e glucidico. caratteristica è la sindrome lipodistrofica, caratterizzata da maldistribuzione del tessuto adiposo, con ipertrofia a livello del collo (“gobba di bufalo” simile alla sindrome di cushing) e dell’addome e ipotrofia a livello degli arti. questo effetto è maggiore negli adolescenti rispetto ai bambini in età prepuberale. nella maggior parte dei pazienti in trattamento con un regime terapeutico contenente pi si osserva, inoltre, iperglicemia con alti livelli plasmatici di peptide c e dislipidemia con aumento dei trigliceridi, delle ldl e vldl e riduzione dell’hdl [51]. i pi causano inoltre disfunzioni endoteliali, alterazioni nella fibrinolisi e iperattivazione del processo infiammatorio, che possono contribuire all’incremento del rischio cardiovascolare nella popolazione hiv-1 infetta [52]. i risultati degli studi del data collection on adverse events of anti-hiv drugs negli adulti hanno mostrato che la haart è associata a un incremento del 26% del rischio di infarto miocardico per ogni anno di esposizione alla terapia antiretrovirale [53] e che i farmaci 129 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) c. bonaccini, p. piccini, d. serranti, p. gervaso, l. galli associati con un incremento significativo del rischio sono indinavir, lopinavir-ritonavir (lpv/r), didanosina e abacavir. altri studi in europa e stati uniti hanno documentato un rischio maggiore di dislipidemia aterogenica in bambini che seguivano regimi comprendenti pi, dimostrando un aumento dello spessore della tonaca intima e media delle carotidi [54,55]. i pi presentano numerose interazioni farmacologiche in quanto vanno tutti incontro a metabolismo epatico da parte del citocromo p3a4. su questo si basa l’effetto booster di ritonavir che, essendo un forte inibitore del citocromo p3a4, determina un aumento della concentrazione plasmatica degli altri pi. questi farmaci provocano inoltre più raramente l’instaurarsi di resistenze rispetto agli nnrti [33]. inibitori di fusione appartengono a questa categoria enfuvirtide e maraviroc. gli inibitori di fusione agiscono impedendo l’ingresso del virus nella cellula ospite. enfuvirtide è un peptide sintetico che si lega alla gp14 del virus hiv-1, impedendo la fusione delle membrane virali con le membrane cellulari ed è ben tollerato, provocando principalmente reazioni locali nel sito di iniezione [56] e, meno comunemente, un’aumentata incidenza di linfadenopatia e di polmonite batterica [57]. maraviroc è invece un antagonista del corecettore ccr5. come altri farmaci antiretrovirali, sembra aumentare il rischio cardiovascolare, non attraverso la tossicità mitocondriale, ma probabilmente alterando la produzione di citochine proinfiammatorie, che sono i ligandi naturali del corecettore e favorendo quindi l’aterosclerosi [58]. inibitori delle integrasi gli inibitori delle integrasi, il cui capostipite è raltegravir, sono una nuova classe di farmaci che va a inibire l’enzima responsabile dell’integrazione del dna virale nel genoma della cellula ospite, tappa necessaria per la replicazione. gli effetti avversi più frequenti sono disturbi psichiatrici, nausea, diarrea, astenia e iperlipidemia [59]. farmaci da utilizzare nel paziente pediatrico naïve la terapia nel paziente pediatrico naïve dovrebbe essere iniziata utilizzando almeno tre farmaci antiretrovirali appartenenti a due diverse classi. sono da considerare di prima scelta le haart che contengano: 2 inibitori nucleosidici della trascrittasi y inversa (nrti) + 1 inibitore delle proteasi boosterizzato (ip/r); 2 inibitori nucleosidici della trascrittasi y inversa (nrti) + 1 inibitore non nucleotidico della trascrittasi inversa (nnrti). nel caso in cui la trasmissione sia di tipo verticale e siano note resistenze materne, la scelta dei farmaci dovrebbe essere guidata da tali informazioni [34]. è importante anche assicurarsi che al bambino sia fornito un adeguato supporto nutrizionale e che sia instaurato un valido protocollo vaccinale. nel bambino con infezione da hiv è raccomandata, infatti, la somministrazione di tutti i vaccini del calendario vaccinale, fatta eccezione per l’mprv (morbillo, parotite, rosolia e varicella) e il bcg (bacillo calmette-guérin, contro la tubercolosi), nei paesi in cui questo sia raccomandato, che, essendo vaccini vivi attenuati, non dovrebbero essere somministrati a bambini con immunodepressione grave (linfociti t cd4+ < 15%) [60]. fallimento terapeutico e aderenza alla terapia il trattamento antiretrovirale richiede un adeguato monitoraggio clinico, immunologico e virologico mensile; la presenza di effetti collaterali gravi, la scarsa tollerabilità del farmaco, la scarsa compliance e il fallimento terapeutico (definito come peggioramento clinico e/o immunologico e/o virologico) sono fattori che devono indurre a modificare la terapia [33]. l’introduzione della haart ha migliorato enormemente la prognosi dei bambini e adolescenti infetti da hiv-1, tanto che un numero sempre maggiore di pazienti affetti raggiunge l’età adulta [16]. l’aumento della sopravvivenza ha comportato però anche alcuni problemi, tra cui l’insorgenza di effetti collaterali a breve e a lungo termine e la riduzione della compliance alla terapia, che è un fattore fondamentale per il suo successo [61]. alcuni studi sia sul paziente pediatrico sia sull’adulto hanno infatti dimostrato che il rischio di fallimento virologico aumenta progressivamente con la riduzione della compliance [62]. da uno studio di williams e collaboratori sono emersi, come principali fattori di rischio della scarsa aderenza alla terapia, l’età adolescenziale, il sesso femminile, la presen130 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) gestione dell’infezione da hiv-1 in età pediatrica bibliografia centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute. epicentro: il portale 1. dell’epidemiologia per la sanità pubblica. disponibile all’indirizzo: http://www.epicentro.iss.it/ problemi/aids/epid.asp (ultimo accesso novembre 2011) joint united nations programme on hiv/aids (unaids). report on the global hiv/aids 2. epidemic 2010. disponibile all’indirizzo: http://www.unaids.org (ultimo accesso novembre 2011) za di rapporti complessi con i familiari, il basso livello di istruzione, la depressione e altre malattie psichiatriche [63]. il dialogo con i bambini e i loro familiari e la prescrizione di una posologia adeguata alle esigenze dei piccoli pazienti sono indubbiamente importanti fattori favorenti la compliance verso la terapia. sono inoltre da alcuni anni in commercio combinazioni di farmaci all’interno di un’unica compressa al fine di favorire una migliore aderenza alla terapia. gestione del paziente adolescente la gestione del paziente hiv-1 positivo in età adolescenziale mostra aspetti peculiari, soprattutto nei ragazzi che sono stati infettati per via verticale e che convivono quindi con l’infezione e la relativa terapia fin dall’inizio della loro vita. uno degli aspetti più delicati è rappresentato dalla comunicazione della diagnosi; molti familiari sono riluttanti ad affrontare l’argomento con i propri figli infetti e questo può portare a problemi comportamentali, sofferenze psicologiche e scarsa aderenza alla terapia. per la comunicazione della diagnosi occorre che sia avviato per ogni paziente un processo personalizzato con la collaborazione di familiari e di un team multidisciplinare di operatori sanitari comprendente psicologi; il processo deve essere progressivo e deve essere concluso prima della fine dello sviluppo sessuale, al fine di favorire una corretta informazione e prevenzione della trasmissione dell’infezione. l’adolescenza è inoltre il periodo in cui la responsabilità della gestione della terapia viene trasferita dal caregiver al paziente stesso; questo rappresenta un punto cruciale per il successo della terapia, pertanto occorre valutare e modificare ove possibile i fattori che possono andare a influenzare negativamente l’aderenza alla terapia, quali le abitudini di vita, il rapporto tra il caregiver e il paziente e la praticità dello schema terapeutico proposto. infine, deve essere posta particolare attenzione a eventuali disagi psichici riscontrabili negli adolescenti infetti correlati alla gestione dei rapporto interpersonali, all’ansia e alla paura per il futuro [60]. conclusioni l’introduzione della haart ha cambiato radicalmente la qualità di vita nei soggetti infetti da hiv-1, determinando una riduzione della mortalità e un miglioramento dei parametri immunologici, virologici e clinici. dai dati riportati in letteratura si evince che nel bambino con infezione perinatale da hiv-1 il quadro clinico della malattia ha una più rapida progressione rispetto all’adulto; sulla base di queste evidenze è stato adottato un atteggiamento terapeutico tempestivo, caratterizzato dall’introduzione della haart già nei primi mesi di vita, con conseguente miglioramento dell’evoluzione clinica della malattia. tuttavia il precoce inizio della terapia ha condotto a un incremento dell’uso dei farmaci antiretrovirali e a un conseguente aumento del rischio di comparsa di reazioni avverse a breve e a lungo termine. un attento follow-up del paziente attraverso la valutazione di parametri clinici e di laboratorio permette di riconoscere prontamente complicanze legate all’infezione o al trattamento; l’insorgenza di reazioni avverse legate alla terapia deve indurre una pronta sospensione e sostituzione del farmaco interessato. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. 131 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) c. bonaccini, p. piccini, d. serranti, p. gervaso, l. galli casper c, fenyo em. mother-to-child transmission of hiv-1: the role of hiv-1 variability 3. and the placental barrier. acta microbiol immunol hung 2003; 48: 545-73 kourtis ap, lee fk, abrams ej, jamienson dj, bulterys m. mother-to-child transmission of 4. hiv-1: timing and implications for 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gervaso 1, luisa galli 1 i fattori di rischio nell’ictus giovanile e l’enigma dei polimorfismi trombofilici: descrizione di un caso clinico linda iurato 1, marialuisa ventruto 2, maria adalgisa police 2, alessandro morella 3, alfonso fortunato 4, lanfranco musto 5, patrizia fiori 1, mario nicola vittorio ferrante 6, antonio monaco 7 il trattamento farmacologico dei tic nella sindrome di gilles de la tourette andrea e. cavanna 1,2, andrea nani 1 in caso di ipertensione, quando andare sino in fondo con gli accertamenti? andrea semplicini 1, chiara sandonà 1, federica stella 1, tommaso grandi 1 clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 121 un caso di gestione medica integrata: angina da sforzo in paziente diabetico eugenio roberto cosentino 1, elisa rebecca rinaldi 1, claudio borghi 1 caso clinico il paziente, di 65 anni, presenta fattori di rischio cardiovascolare multipli (ipertensione arteriosa, diabete mellito, obesità, dislipidemia, pregresso consumo di sigarette, abuso di alcolici, familiarità per cardiopatia ischemica e ipertensione arteriosa). nel 1985 gli era stata posta diagnosi di diabete mellito e aveva pertanto iniziato il trattamento con un ipoglicemizzante orale (glibenclamide). nel 1989 gli erano stati riscontrati valori elevati di pressione arteriosa sistolica e diastolica. nello stesso anno aveva iniziato il trattamento farmacologico con un aceinibitore. nel 1995 veniva posta diagnosi di ipercolesterolemia mista con valori di ldl di 200 mg/dl e bassi valori di hdl 36 (mg/dl). gli era quindi stata consigliata una dieta ipocalorica e ipolipidica. nel 1998 era stato sottoposto a un intervento di asportazione di un polipo del abstract diabetes mellitus, both of type 1 and 2, is an important risk factor for the development of atherosclerosis: in diabetic patients vascular atherosclerotic complications are responsible of approximately 80% of all the deaths. there is no doubt that patients affections originating from diabetes and coronaropathy remain at high risk. for this reason it is essential to adopt an aggressive strategy of secondary prevention. we report a case of a patient with multiple risk factors for cardiovascular diseases: the successful management was due to an integrated approach that involved the general practitioner and cardiologist. keywords: diabetes mellitus, angina, atherosclerosis angina in a diabetic patient: a case of integrated approach cmi 2008; 2(3): 121-126 1 u.o. di medicina interna (direttore prof. c. borghi). dipartimento di medicina clinica e biotecnologie applicate “d. campanacci”. policlinico s. orsola malpighi, bologna caso clinico corresponding author dott. eugenio roberto cosentino u.o. di medicina interna (direttore prof. c. borghi). dipartimento di medicina clinica e biotecnologie applicate “d. campanacci”. policlinico s. orsola malpighi via massarenti, 9 40138 bologna ambscomp@med.unibo.it perché descriviamo questo caso? il problema della cardiopatia ischemica e dello scompenso cardiaco nel diabete può essere visto sotto diversi angoli visuali, tuttavia purtroppo concordanti nell ’evidenziare la gravità del problema. il 70% dei diabetici adulti muore per complicanze vascolari e la mortalità per cardiopatia coronarica è, nei diabetici, da due a quattro volte quella dei non diabetici. il rischio di andare incontro a un evento cardiovascolare maggiore nei diabetici di età media è del 2-5% per anno; ciò significa che, ad esempio, per il paziente del presente caso clinico il rischio cumulativo di un evento a 10 anni è del 20-50%. da queste considerazioni emerge la necessità di instaurare accurati programmi di prevenzione secondaria già in fase precoce di malattia: in questo ambito il ruolo del medico di medicina generale diventa strategico clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 122 un caso di gestione medica integrata: angina da sforzo in paziente diabetico tabella i risultati degli esami di laboratorio esami valori hb 12,8 g% mcv (mean corpuscolar volume) 92,7 fl hb glicata 9% mchc (mean corpuscolar hemoglobin concentration) 37,6% mch (mean corpuscolar hemoglobin) 34,7 pg piastrine 220 x 103 μl ves (velocity of erythrocite sedimentation) 38 mm creatinina sierica 1,6 mg/dl azotemia 0,71 mg/dl uricemia 5,3 mg/dl glicemia 200 mg/dl sodio plasmatico 140 meq/l potassio plasmatico 4,8 meq/l colesterolo totale 250 mg/dl colesterolo hdl 30 mg/dl trigliceridi 120 mg/dl got (glutamyl oxaloacetic transaminase) 35 mu/ml gpt (glutamyl piruvic transaminase) 25 mu/ml albumina 3,8 g/dl proteine totali 7,1 g/dl cpk (creatine phosphokinase) 100 u/l troponina 0,6 ng/ml figura 1 ecg durante dolore con alterazioni diffuse della ripolarizzazione ventricolare. frequenza cardiaca = 64 bpm figura 2 ecg eseguito in pronto soccorso con ritmo sinusale e alterazioni diffuse della ripolarizzazione ventricolare. frequenza cardiaca = 67 bpm. alterazioni diffuse della ripolarizzazione clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 123 e. r. cosentino, e. r. rinaldi, c. borghi sigma-discendente e, per il persistere dei valori elevati di colesterolo ldl, era stato sottoposto a terapia con statine. il paziente aveva mostrato un relativo benessere fino al 2003, anno in cui aveva riferito una sintomatologia caratterizzata da dolore toracico della durata di qualche minuto, in relazione a carichi medi di lavoro, con dispnea. dopo due mesi il paziente era stato sottoposto alla prova da sforzo, durante la quale aveva presentato dolore retrosternale con alterazioni elettrocardiografiche di tipo ischemico (figura 1). su suggerimento del medico di medicina generale, l’uomo aveva iniziato l’assunzione di un beta-bloccante a dosi crescenti, di un antiaggregante e di un nitroderivato per via sublinguale, in associazione all’ace-inibitore e alla statina iniziati precedentemente. l’ottimizzazione della terapia aveva consentito la risoluzione del quadro acuto. il paziente era stato inviato al pronto soccorso per gli accertamenti del caso. in questa occasione aveva eseguito un elettrocardiogramma che aveva evidenziato la presenza di un ritmo sinusale con alterazioni ischemiche diffuse (figura 2). gli enzimi di citonecrosi risultavano negativi all’ingresso e nei controlli successivi. si decideva pertanto di inviare il paziente in un reparto di medicina interna per ulteriori accertamenti. all’ingresso, il paziente si presentava in condizioni cliniche stazionarie. l’esame obiettivo cardiaco evidenziava toni validi e ritmici con la presenza di un soffio sistolico mitralico 2/6 e di un soffio protodiastolico aortico. l’obiettività del torace evidenziava la presenza di un mv aspro con crepitazioni bibasali. l’esame obiettivo dell’addome rilevava addome globoso con margine epatico debordante 3 cm dall’arcata costale. i valori di pressione arteriosa all’ingresso erano di 140/80 mmhg in clinostatismo e 130/80 mmhg in ortostatismo, frequenza cardiaca (fc) con 76 bpm in clinostatismo e 78 bpm in ortostatismo, la saturazione era di spo2 94% in aria ambiente. l’esame obiettivo neurologico era nei limiti. i polsi periferici risultavano presenti e isosfigmici. la radiografia del torace evidenziava una condizione di scompenso cardiaco con ombra cardio-vasale (ocv ) ingrandita (figura 3). all’elettrocardiogramma si notava un ritmo sinusale con alterazioni ischemiche diffuse. veniva ritenuta opportuna anche l’esecuzione di un’indagine ecocardiografica (figura 4). l’esame mostrava le seguenti caratteristiche: fibrocalcificazione delle pareti e delle semilunari aortiche determinante stenosi di grado severo (gradiente transvalvolare massimo 79 mmhg, medio 50 mmhg; area valvolare calcolata 0,27 cm2); rigurgito mitralico di grado lieve-moderato (+/++), tricuspidale moderato (++) con doppio jet, aortico moderato-medio (++/+++). il paziente eseguiva una visita oculistica con la valutazione del fundus oculi (figura   figura 3 rx torace con quadro di scompenso cardiaco con ombra cardio-vasale ingrandita figura 4 esame doppler del flusso transaortico dalla proiezione apicale ventricolo sinistro con dimensioni interne e indice di massa aumentati (ipertrofia eccentrica). ipocinesia globale delle pareti del ventricolo sinistro (frazione di eiezione 2d 25-30%). acinesia di tutto l’apice con discinesia dell’apice settale;  clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 124 un caso di gestione medica integrata: angina da sforzo in paziente diabetico i dati degli esami di laboratorio sono riportati in tabella i. si decideva pertanto di potenziare la terapia farmacologica con la massima dose di beta-bloccante tollerata dal paziente. l’uomo veniva trasferito in emodinamica per eseguire un esame coronarografico, il cui referto riportava: «marcate calcificazioni lungo tutto il decorso dell’aorta ascendente e delle cuspidi valvolari aortiche. coronaria sinistra: ramo interventricolare anteriore con stenosi del 60% nel tratto medio, ramo circonflesso con stenosi del 90% nel tratto prossimale. coronaria destra: occlusa (non incannulata); il vaso a valle riceve circolo collaterale eterocoronarico». la diagnosi era di “malattia dei tre vasi”. la procedura era esente da complicanze di rilievo. data la presenza di stenosi aortica e di aorta “a porcellana”, non veniva posta indicazione a intervento immediato di rivascolarizzazione miocardica. il paziente veniva dimesso in compenso di circolo, in attesa dell’intervento di sostituzione valvolare e di by-pass aorto-coronarico. la terapia impostata prevedeva ace-inibitore, beta-bloccante, anticoagulante orale, statina, ipoglicemizzante orale, diuretico dell’ansa e allopurinolo. la diagnosi finale era la seguente: insufficienza ventricolare sinistra in classe nyha iii in paziente con angina instabile (malattia dei tre vasi: coronaria destra occlusa, iva stenosi 60%, circonflessa stenosi 90%), pregresso infarto miocardico, stenosi aortica severa, ipertensione arteriosa, diabete mellito, ipercolesterolemia e obesità. per concludere, la sinergia di intervento instaurata fra il medico di medicina generale e il cardiologo ha permesso di risolvere brillantemente questo caso. l’importanza di una gestione integrata di questo tipo di pazienti, con fattori multipli di rischio cardiovascolare, è illustrata in modo più approfondito nell’articolo che segue (pag. 127). discussione il diabete mellito, sia di tipo 1 che di tipo 2, è un importante fattore di rischio per lo sviluppo di aterosclerosi. infatti, nei pazienti diabetici, le complicanze aterosclerotiche vascolari sono responsabili di circa l’80% di tutte le morti, di una morbilità significativa e di morte precoce. non vi è dubbio che i pazienti affetti da diabete e coronaropatia siano ad alto rischio: in considerazione di ciò è essenziale adottare una strategia aggressiva di prevenzione secondaria. figura 5 esiti della vista oculistica del paziente. occhio dx (a): fiocchi cotonosi e incrocio artero-venoso. occhio sx (b): fiocchi cotonosi con incipienti emorragie. fluoroangiografia occhio dx (c) in tempi diversi 5), che permetteva di rilevare una retinopatia ipertensiva di ii grado (diagnosi: macchioline nere corrispondenti a corpi mobili nel vitreo). nella stratificazione del rischio veniva effettuata una valutazione ecografica del distretto carotideo, da cui emergeva stenosi carotidea bilaterale (50%) con placca calcifica. a b c clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 125 e. r. cosentino, e. r. rinaldi, c. borghi punti chiave è accertato che il diabete mellito si accompagna a disfunzione ventricolare che realizza una specifica alterazione miocardica, presente sia in fase diastolica che sistolica: per questo motivo si parla di cardiomiopatia diabetica la malattia diabetica predispone a una progressione accelerata dell ’aterosclerosi dei grossi vasi nei diabetici, a causa della ridotta percezione del dolore, l ’ischemia del miocardio o l ’infarto possono associarsi a sintomi lievi, e quindi non essere riconosciuti, oppure possono essere del tutto asintomatici, e quindi veramente silenti in fase precoce la prima misura terapeutica da adottare è costituita dalla somministrazione di farmaci che interferiscono con il sistema renina-angiotensina-aldosterone. in particolare gli inibitori del recettore at1 (ara) hanno dimostrato di ridurre la progressione dalle forme di insufficienza ventricolare asintomatiche a quelle manifeste sia nel paziente diabetico sia in quello non diabetico il trattamento della dislipidemia nel paziente con diabete mellito dovrebbe essere mirato alla riduzione dei livelli di colesterolo ldl, ma anche all ’aumento delle hdl e alla riduzione dei trigliceridi. i trial condotti negli ultimi 10 anni hanno dimostrato che la riduzione del colesterolo ldl ottenuta con l ’uso delle statine comporta una minore incidenza di morbilità e mortalità nei pazienti con malattia cardiovascolare      al fine di migliorare la prognosi dei pazienti diabetici è necessaria una strategia su più livelli, che includa misure di prevenzione, un intervento teso a modificare i fattori di rischio, una strategia farmacologica aggressiva e l’uso appropriato delle procedure di rivascolarizzazione miocardica. nei diabetici, a causa della ridotta percezione del dolore, l’ischemia del miocardio o l’infarto possono associarsi a sintomi lievi, e quindi non essere riconosciuti, oppure possono essere del tutto asintomatici, e quindi veramente silenti. l’infarto non riconosciuto è in genere più comune nei soggetti diabetici e ne spiega il 39% degli infarti, rispetto al 22% di quelli che avvengono nei soggetti non diabetici. l’incidenza di un sottolivellamento del tratto st asintomatico, durante un test da sforzo, è più che doppia nei pazienti diabetici rispetto a quella riscontrata nei pazienti non diabetici [1,2]. i pazienti diabetici che presentano angina avvertono i loro sintomi più tardi nel corso dell’ischemia rispetto ai pazienti non diabetici. l’intervallo che intercorre dall’inizio della depressione st all’insorgenza del dolore può essere doppio nei pazienti diabetici rispetto ai pazienti non diabetici ed è correlato al grado di disfunzione nervosa autonomica. nel diabete di tipo ii, la cardiopatia ischemica è da due a quattro volte più frequente che nella popolazione non diabetica, con una prevalenza per il sesso femminile. non vi è una chiara relazione fra la cardiopatia ischemica e la gravità o la durata del diabete. i fattori di rischio sono l’iperinsulinemia, l’insulino-resistenza, l’obesità, l’ipertensione e la dislipidemia (in particolare l’aumento dei trigliceridi e la riduzione del colesterolo hdl). la terapia prevede l’utilizzo dei betabloccanti sia nella fase acuta che in quella più tardiva [3,4]. le metanalisi effettuate sull’argomento rilevano una significativa riduzione della mortalità sia in acuto sia nel caso di terapia tardiva. l’uso della terapia con beta-bloccanti è fortemente raccomandato nel diabetico con cardiopatia ischemica; ciò vale sia per l’infarto miocardico acuto (ima) che per l’angina pectoris. gli ace-inibitori, le statine e l’aspirina completano il quadro. la terapia chirurgica è spesso indicata nei pazienti diabetici; la rivascolarizzazione con ptca (angioplastica coronarica percutanea transluminale) o cabg (bypass aortocoronarico) completa il quadro. clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 126 un caso di gestione medica integrata: angina da sforzo in paziente diabetico indicazioni per l’esecuzione di indagini cardiovascolari nel paziente diabetico [5] paziente sintomatico asintomatico angina instabile o moderatamente severa o angina lieve e infarto miocardico o ischemia evidente all’ecg o angina lieve e insufficienza cardiaca infarto miocardico o ischemia all’ecg o ecg anormale senza ischemia chiara patologia vascolare o anomalie st-t all’ecg o 2 o più fattori di rischio 1 o nessun fattore di rischio e ecg normale angina lieve ed ecg normale o con alterazioni lievi o angina atipica con anormalità ecg baseline dolore toracico atipico con ecg normale richiedere consulto del cardiologo imaging di perfusione o ecografia esercizio fisico e controlli fino a che non si presentino altri fattori di rischio, poi incrementare i controlli imaging di perfusione o ecografia esercizio fisico (se non limitato da anormalità ecg baseline o inabilità all’esercizio) follow-up di routine bibliografia 1. jacoby rm, nesto rw. acute myocardial infarction in the diabetic patient: pathophysiology, clinical course and prognosis. j am coll cardiol 1992; 20: 736-44 2. niakan e, harati y, rolak la, comstock jp, rokey r. silent myocardial infarction and diabetic cardiovascular autonomic neuropathy. arch intern med 1986; 146: 2229-30 3. isis-i (first international study of infarct survival) collaborative group: randomised trial of intravenous atenolol among 16027 cases of suspected acute myocardial infarction. lancet 1986: 57 4. the beta-blocking pooling project research group. the beta-blocking pooling project: subgroup findings from randomised trials in post-infarction patients. eur heart 1988; 9: 8 5. american diabetes association. consensus development conference on the diagnosis of coronary heart disease in people with diabetes. diabetes care 1998; 21: 1551-9 clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 81 paolo ghiringhelli 1 caso clinico un ragazzo di 28 anni era stato ricoverato per la comparsa di dolori addominali, calo ponderale di 8 kg in tre mesi, iporessia e irregolarità dell’alvo. la sintomatologia era insorta da alcuni mesi, non rispondeva al trattamento con spasmolitici e induceva il paziente ad alimentarsi in modo limitato. in anamnesi remota il ragazzo non aveva segnalato significativi precedenti anamnestici di rilievo, in particolare non aveva mai subito interventi laparotomici. fino a pochi mesi prima era un calciatore non agonista e lavorava come perito elettronico, aveva condotto una vita normale e non aveva prestato servizio di leva. dal punto di vista psichico appariva in equilibrio, presente a se stesso e in grado di seguire senza problemi i ragionamenti clinici che lo riguardavano. gli esami di routine dimostrarono la presenza di anemizzazione (hb = 9,4 g/dl) e proteina c reattiva mossa (pcr = 3,4 mg/l; valori normali < 0,5 mg/l). diagnosi differenziale delle occlusioni del piccolo intestino abstract hereditary nonpolyposis colorectal cancer (hnpcc), also known as lynch syndrome, is a common autosomal dominant syndrome characterized by early age at onset, and microsatellite instability (msi). patients with lynch syndrome have a markedly increased risk of colorectal cancer. we report a case of a 28-year-old male with lynch syndrome; the case allows to describe clinical manifestations and diagnostic criteria of this syndrome, and to underline the importance of genetics in the diagnosis of this disease. keywords: small bowel occlusions, colorectal cancer, lynch syndrome differential diagnosis of small bowel occlusions cmi 2009; 3(2): 81-87 1 unità operativa complessa di medicina interna, azienda ospedaliera “ospedale di circolo di busto arsizio”, presidio di tradate (va) corresponding author dott. paolo ghiringhelli pghiringhelli@aobusto.it perché descriviamo questo caso? per dimostrare che il ragionamento y dell ’internista deve andare sempre oltre le deduzioni più elementari e ovvie per esaminare l’approccio alla patogenesi y dell ’occlusione del piccolo intestino per ricordare che la genetica del paziente y ha grande importanza anche dal punto di vista diagnostico per evidenziare che esistono dei tumori y ereditari dell ’intestino non preceduti da una poliposi caso clinico all’esame obiettivo l’addome risultava disteso, meteorico, senza un evidente peritonismo alla percussione; era però presente un timpanismo diffuso. la peristalsi era ridotta ma diveniva metallica durante le crisi di addominalgia crampiforme. la radiografia del torace e l’ecografia dell’addome risultarono nei limiti della norma. la gastroscopia e la colonscopia non evidenziarono elementi significativi. venne clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 82 diagnosi differenziale delle occlusioni del piccolo intestino allora chiesta una tomografia computerizzata (tc) dell’intestino che mostrò la presenza di un’ansa del tenue tumefatta. nella ricostruzione tridimensionale dell’immagine era evidente un restringimento del lume. venne eseguito successivamente un clisma del tenue che confermò i reperti della tc. il paziente venne quindi sottoposto a intervento chirurgico, durante il quale il chirurgo isolò l’ansa interessata che appariva imbottita, duro-elastica alla palpazione, e l’asportò. la diagnosi istologica fu di adenocarcinoma ileale scarsamente differenziato invadente la tonaca sottosierosa, pt3, n0 (0/2), m0, g3. i marcatori tumorali (cea, ca 19.9) risultarono nella norma. i genitori del paziente erano viventi e sani. due cugini materni erano invece stati curati per adenocarcinomi del colon. nessuno dei genitori era stato fino ad allora curato per neoplasie correlate alla sindrome, neppure la madre che sembrava quella portatrice del carattere ereditario patologico. una zia materna era stata curata per tre diversi tipi di tumore metacrono dell’intestino (una volta gastrico e due volte in due sedi diverse del colon) ed era stata isterectomizzata per un adenocarcinoma dell’endometrio. venne allora eseguita la ricerca genetica che risultò positiva per la presenza di una mutazione eterozigote msh2. la stessa mutazione venne rilevata in tre familiari ascendenti, fra cui la madre. venne allora posta la diagnosi di sindrome di lynch. dopo l’intervento chirurgico il paziente è stato trattato con terapia adiuvante con 12 cicli chemioterapici denominati folfox 4 (oxaliplatino/5-fluorouracile/leucovorin). attualmente è in ottime condizioni generali e ha ripreso a giocare a calcio. dal momento dell’intervento (eseguito tre anni fa) il paziente è mantenuto sotto controllo: esegue annualmente una pet e una gastroscopia e colonscopia ogni due anni. discussione le ostruzioni del piccolo intestino la diagnosi differenziale del blocco della progressione del chimo nell’intestino tenue si divide in: cause non ostruttive y : ileo paralitico secondario a: quasi tutte y le operazioni addominali; peritoniti; traumi; ischemia intestinale; disordini elettrolitici, specialmente ipokaliemia. questi ultimi possono essere primitivi o concomitanti alle precedenti cause; pseudo-ostruzione intestinale, una cony dizione a volte cronica caratterizzata da sintomi correlati a ricorrente distensione addominale. il colon solitamente è più colpito del piccolo intestino. l’assenza di ostruzione è confermata dalle indagini radiologiche che dimostrano la presenza di aria nel colon e nel retto (né alla tomografia computerizzata né allo studio radiologico del tenue vengono dimostrati ostacoli meccanici). la laparotomia deve essere evitata in questi pazienti. il trattamento di scelta è la suzione naso-gastrica, la correzione delle anomalie metaboliche e in qualche caso la nutrizione parenterale; cause ostruttive y : sono le più frequenti e sono solitamente correlate ad aderenze post-operatorie (3/4 dei casi totali) o ernie che causano una compressione estrinseca dell’ansa interessata. meno frequentemente il problema è dovuto a tumori o restringimenti da cause intrinseche all’ansa interessata: ischemie, volvoli o intussuscezione. i sintomi più comuni sono: costipazione, nausea, vomito e dolore addominale crampiforme. la nausea e il vomito sono lamentati soprattutto nelle ostruzioni alte, mentre la distensione e i dolori crampiformi spesso periombelicali sono dovuti a ostruzioni più distali del piccolo intestino. se l’ostruzione non è completa può comunque essere assicurato un parziale passaggio di aria e feci, e così è avvenuto nel caso descritto. la dilatazione o lo strangolamento del piccolo intestino può provocare una compromissione vascolare dell’ansa coinvolta e può creare necrosi, danno della barriera mucosa e riassorbimento di batteri con conseguenti batteriemie e sepsi. non è possibile distinguere in questi casi chi ha la necessità di intervento chirurgico e chi no. in passato veniva insegnato che negli anni successivi a un intervento di laparotomia il 5% degli operati andava incontro a un’ostruzione meccanica da briglia. le evidenze odierne sono differenti [1]. in uno studio il 15% dei pazienti che avevano richiesto una laparotomia era stato ricoverato per ostruzione intestinale da briglia e il 3% aveva richiesto un nuovo intervento chirurgico [2]. in un altro lavoro, che includeva 309 pazienti con ostruzione meccanica del piccolo intestino, il rischio di ricorrente ostruzione clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 83 p. ghiringhelli intestinale nei 10 anni successivi era del 42% per tutti. fra i pazienti che precedentemente erano stati operati, il 29% manifestava nei 10 anni successivi una nuova ostruzione meccanica. invece si ripresentava un’ostruzione meccanica, nei 10 anni successivi, nel 53% dei pazienti che erano stati trattati con terapia medica [3]. nella maggior parte delle casistiche chirurgiche circa il 50-70% dei pazienti ricoverati con ostruzione meccanica del piccolo intestino veniva operato, con una mortalità di circa il 5%. l’incidenza dell’ostruzione del piccolo intestino dopo una laparotomia varia a seconda del tipo di chirurgia e della causa che ha provocato il primo intervento chirurgico; sembra più frequente nei pazienti operati per via laparotomica per neoplasie del colon-retto [4]. uno studio ha dimostrato che l’intervento di laparotomia per appendicectomia causa una successiva occlusione meccanica del piccolo intestino con maggiore frequenza di un intervento di colecistectomia (10,7% vs 6,4%) [5]. la diagnosi differenziale approfondita di una massa del piccolo intestino prevede la verifica delle seguenti ipotesi diagnostiche differenziali (tabella i) [6]: neoplasie benigne (adenomi, leiomiomi, y fibromi e lipomi); neoplasie maligne adenocarcinoma, cary cinoidi, linfoma, sarcoma; malformazioni congenite, duplicazione, y atresia, stenosi, restringimenti infiammatori, enterite da raggi, ileo biliare, bezoar, ematoma intramurale, intussuscezione. nell’ipotesi di un morbo di crohn, considerato che il lume appariva compromesso e che il paziente lamentava addominalgie venne programmata l’asportazione dell’ansa interessata. in alternativa si prese in considerazione la possibile presenza di una neoplasia maligna. gli anticorpi anti-glutine risultarono negativi e questo rendeva poco probabile un linfoma t complicante una celiachia misconosciuta. in letteratura il registro statunitense national cancer data base (ncdb) riporta i seguenti dati: le neoplasie maligne del piccolo intestino sono molto rare, sono solo il 2% delle neoplasie del tratto gastrointestinale e lo 0,4 % di tutti i carcinomi [7]. l’istotipo predominante varia a seconda del tratto di piccolo intestino coinvolto [8,9]: duodeno: 64% adenocarcinoma, 21% cary cinoide, 10% linfoma, 4% sarcoma; digiuno: 46% adenocarcinoma, 21% linfoy ma, 17% carcinoide, 17% sarcoma; tabella i cause di ostruzione del piccolo intestino [6] lesioni estrinseche lesioni intrinseche ostruzione del lume normale aderenze malformazioni congenite intussuscezione ernie duplicazione, atresia, stenosi calcoli volvolo neoplasie feci o meconio stenosi infiammatorie bezoar enterite da raggi ematoma traumatico intramurale fattori di rischio distribuzione presentazione adenoma sindrome di gardner, poliposi adenomatosa familiare duodeno, ampolla ostruzione, sanguinamento leiomioma ostruzione, sanguinamento lipoma ostruzione, sanguinamento fibroma ostruzione, massa asintomatica emangioma sanguinamento carcinoma morbo di crohn duodeno, ileo ostruzione, massa, sanguinamento carcinoide ileo spesso asintomatico, ostruzione, sindrome da carcinoide linfoma malattia celiaca, malattia autoimmune, immunosoppressione ileo astenia, calo ponderale, dolore, ostruzione, massa, sanguinamento sarcoma digiuno, ileo, diverticolo di meckel ostruzione, dolore, sanguinamento neuroendocrino parte prossimale del piccolo intestino massa, sintomi ormono specifici metastatico melanoma, tumore a mammella, polmone, ovaio, colon, cancro cervicale ostruzione, sanguinamento tabella ii tipi di tumore del piccolo intestino clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 84 diagnosi differenziale delle occlusioni del piccolo intestino mutazioni avviene a livello dei geni msh2, che si trova sul cromosoma 16, e mlh1, localizzato sul cromosoma 21 (60% in msh2 e 30% in mlh1), mentre solo raramente coinvolge i geni pms1 e pms2 o altri (msh6, mlh3). quando avviene un evento mutazionale a livello di uno di questi geni, la capacità di effettuare la riparazione degli errori intercorsi durante la duplicazione del dna diminuisce, e di conseguenza le mutazioni iniziano ad accumularsi nella cellula, conducendo allo sviluppo neoplastico. la sindrome è caratterizzata da un significativo incremento del rischio di carcinoma del colon e dell’endometrio e da un rischio inferiore di altri tipi di carcinoma (gastrico, del piccolo intestino, delle vie biliari, pancreatiche, urinarie superiori, dell’ovaio, cutaneo e cerebrale). la sindrome si manifesta diversamente anche a seconda della razza: per esempio in cina e in corea le stesse mutazioni predispongono di più al cancro dello stomaco. l’età media di insorgenza del cancro del colon è di 45 anni, comparata a quella generale che è di 65 anni. similmente l’età media di insorgenza del cancro uterino è di 50 anni invece di 60 anni. approssimativamente dal 7 al 10% dei pazienti affetti, al momento della diagnosi ha più di un carcinoma: per questo motivo va subito sospettata la sindrome di lynch quando si scopre un paziente con cancro del colon e uterino metacroni. sono stati proposti dei criteri per sospettare la diagnosi di sindrome di lynch che rappresenta il 2-3% di tutti i casi di tumore tre casi istologicamente verificati negli ascendenti compatibili con sindrome ereditaria del cancro del 1. colon-retto senza poliposi (carcinoma del colon-retto, dell’endometrio, del piccolo intestino, dell’uretere, o della pelvi renale) ne sono affette due generazioni successive2. almeno uno deve essere parente di primo grado con gli altri due casi3. almeno un caso insorto era di età inferiore a 50 anni4. deve essere esclusa una poliposi familiare adenomatosa5. il tumore deve essere studiato istologicamente6. tabella iii criteri di amsterdam ii. adattato da [13] tabella iv situazioni in cui è necessario eseguire la ricerca dei tumori ereditari [15] * tra i tumori correlati alla sindrome ereditaria del cancro del colon-retto senza poliposi si possono annoverare quelli che hanno come sede: colon-retto, endometrio, stomaco, ovaio, pancreas, uretere, pelvi renale, tratto biliare, cervello (di solito glioblastoma analogo a quello presente nella sindrome di turcot), ma anche adenomi delle ghiandole sebacee, cheratoacantomi nella sindrome di muir-torre e carcinomi del piccolo intestino § msi-h (microsatellite instability-high): nei tumori si riferisce a mutazioni altamente instabili in due o più delle cinque liste di microsatelliti marker raccomandate da national cancer institute ° presenza di infiltrato linfocitario nel tumore simile al morbo di crohn con differenziazione mucinosa e cellule ad anello con sigillo o pattern con crescita di tipo midollare ^ non c’è stato consenso riguardo all’età il cancro del colon-retto diagnosticato in un paziente con meno di 50 anni1. presenza, indipendentemente dall’età, di un cancro colon-rettale sincrono o metacrono o altri tumori 2. associati alla sindrome ereditaria del cancro del colon-retto senza poliposi* cancro colon-rettale con msi-h3. § con istologia compatibile°, diagnosticato in un paziente con meno di 60 anni di età^ cancro colon-rettale diagnosticato in un paziente con uno o più parenti di primo grado con sindrome 4. ereditaria del cancro del colon-retto senza poliposi, con uno dei casi diagnosticato a un’età inferiore ai 50 anni cancro colon-rettale diagnosticato in un paziente con due o più parenti di primo o secondo grado con 5. sindrome ereditaria del cancro del colon-retto senza poliposi indipendentemente dall’età ileo: 63% carcinoide, 19% adenocarcinoy ma, 14% linfoma, 5% sarcoma. va tenuto presente che la differente incidenza degli istotipi varia a seconda della popolazione in studio [10,11]. per la diagnosi di stenosi del piccolo intestino nel nostro caso è stata fondamentale l’esecuzione della tc multistrato dell’intestino. la letteratura segnala, dopo la tc e il clisma del tenue, la crescente importanza dell’ecografia. in mani esperte è più sensibile e specifica del clisma del tenue ma meno accurata della tc. la maggior parte dei radiologi raccomanda come prima indagine la tc, eventualmente seguita da un clisma del tenue che può essere utile anche a ricanalizzare il paziente in caso di aderenze, volvoli o intussuscezioni. la sindrome di lynch la sindrome di lynch è anche chiamata sindrome ereditaria del cancro del colonretto senza poliposi (hnpcc). questa definizione può però creare confusione poiché in realtà non predispone solo al cancro del colon-retto ma anche ad altri svariati tipi di cancro. per questo motivo riteniamo più appropriato denominarla sindrome di lynch. si tratta di una malattia autosomica dominante che è causata da un evento mutazionale ricorrente a livello di uno dei sei geni attualmente conosciuti per essere coinvolti nel controllo e nella riparazione degli errori di replicazione del dna (mmr) in tutte le cellule del corpo [11]. circa il 90% delle clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 85 p. ghiringhelli del colon e circa il 2% dei carcinomi uterini. è importante indagare la storia di tre generazioni di ascendenti ed eventualmente ricontrollare il preparato istologico e seguire le indicazioni contenute nei criteri di amsterdam o nelle linee guida di bethesda, come spiegato in seguito. i criteri di amsterdam ii sono riportati nella tabella iii e sono stati elaborati da un gruppo internazionale di esperti di sindrome ereditaria del cancro del colon-retto senza poliposi [13]. se i criteri sono positivi di consiglia l’esecuzione del test genetico specifico per verificare la presenza di una mutazione dei geni mmr. se il test genetico si rivela negativo l’incidenza del cancro del colon-retto risulta comunque raddoppiata [14]. questo induce a ricercare in ogni caso un’ereditarietà. per questo sono state l’approccio ottimale di valutazione è l’analisi dell'instabilità microsatellitare (msi) e l’analisi 1. immunoistochimica dei tumori, seguita dal test delle alterazioni dei geni msh2/mlh1 sulle cellule germinali dei pazienti con tumori msi-h o tumori con perdita di espressione di uno dei geni del mismatch repair (mmr) dopo che la mutazione è stata identificata, i parenti del soggetto a rischio devono essere indirizzati a un 2. consulto genetico e sottoposti a test, se lo desiderano un approccio alternativo, se non è possibile l’esame del tessuto, consiste nel procedere direttamente 3. con l’analisi nella linea germinale dei geni msh2/mlh1 se non è stata riscontrata nessuna alterazione dei geni mmr nel probando con tumore msi-h e/o 4. storia clinica di hnpcc (hereditary nonpolyposis colorectal cancer syndrome), il risultato del test genetico non è informativo. il paziente e i soggetti ad alto rischio (parenti) devono essere sottoposti allo stesso counselling come se il tumore fosse stato confermato e devono essere sottoposti a sorveglianza come soggetti ad alto rischio vi è la necessità di rassicurare i pazienti sulla confidenzialità dei dati emersi dai test, per evitare il 5. rischio di timori legati alla discriminazione basata sul loro stato genetico tabella v raccomandazioni per il processo di valutazione molecolare dei pazienti ad alto rischio secondo le linee guida di bethesda [14] autore, anno tipo di studio criteri di selezione dei pazienti farmaco n. pazienti con tumore msi-h effetto della chemioterapia liang et al, 2002 [16] prospettico, non randomizzato pazienti con crc in stadio iv alta dose di 5-fu/leucovorin 52 migliore sopravvivenza ribic et al, 2003 [17] retrospettivo su pazienti che avevano partecipato a un rct multicentrico precedente crc stadio ii e iii 5-fu/leucovorin o levamisolo 95 nessuna differenza nella sopravvivenza carethers et al, 2004 [18] retrospettivo crc stadio ii e iii 5-fu 36 nessuna differenza nella sopravvivenza de vos et al, 2004 [19] retrospettivo crc stadio ii e iii in pazienti con familiarità per hnpcc 5-fu/ leucovorina o levamisolo 92 nessuna differenza nella sopravvivenza fallik et al, 2003 [20] trial non rct crc stadio iv irinotecan (cpt11) 7 3 risposte parziali e 1 risposta completa tabella vi studi sull ’efficacia della chemioterapia nei pazienti con tumori msi-h crc = cancro colon-rettale; fu = fluorouracile; hnpcc = hereditary nonpolyposis colorectal cancer; msi = microsatellite instability; rct = trial randomizzato controllato elaborate le linee guida di bethesda (tabella iv ). è sufficiente la presenza di uno di questi per rendere utile la ricerca: con la metodica pcr, di mutazioni puny tiformi instabili del dna (msi, microsatellite instability) mediante l’analisi immunoistochimica dei y tessuti, delle proteine espressione delle mutazioni dei geni mmr (tabella v ). i criteri di bethesda, elaborati in una prima versione nel 1998 e poi rivisti nel 2001 dall’american gastroenterological association, sono stati sviluppati per individuare situazioni in cui, pur in assenza di un’aggregazione familiare evidente, sono presenti alcuni elementi che suggeriscono la presenza di mutazioni ereditabili dei geni mmr (es. presenza di più di una neoplasia, età di diagnosi al di sotto della fascia d’età in cui la malattia è frequenclinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 86 diagnosi differenziale delle occlusioni del piccolo intestino te nella popolazione, due casi di tumore in parenti di primo grado di cui almeno uno in età giovane) in pazienti di età inferiore a 50 anni [15]. per quanto concerne il trattamento, è innanzitutto da prendere in considerazione l’intervento chirurgico. per i pazienti con sindrome di lynch che presentano anche carcinoma del colon, la terapia chirurgica prevede la scelta tra resezione parziale e un intervento più esteso, come la colectomia subtotale e l’anastomosi ileorettale. in considerazione del rischio aumentato di sviluppare un secondo tumore e dell’incremento dell’aspettativa di vita che pare essere associato alla resezione estensiva, l’opzione preferibile sembra essere la colectomia subtotale. la chemioterapia è ancora oggetto di discussione. al momento gli agenti chemioterapici che hanno mostrato efficacia nel trattamento del carcinoma colon-rettale sono 5-fluorouracile, da solo o in associazione con leucovorina, oxaliplatino e irinotecan. tuttavia nessuno di questi farmaci è stato testato in modo specifico in pazienti con sindrome di lynch. in tabella vi sono elencati i principali studi: trattandosi per la maggior parte di analisi retrospettive, è evidente che sarebbero necessari studi prospettici per verificare la reale efficacia nella pratica clinica. disclosure lo studio è da considerarsi indipendente e non sponsorizzato. gli autori non dichiarano alcun conflitto di interessi. sospetto hnpcc (revisione delle linee guida di bethesda) alta probabilità di avere una mutazione bassa probabilità di avere una mutazione ihc ihc o msi nessuna analisi mutazionale analisi mutazionale msi mssmsi-l/h possibile analisi della fenocopia del secondo tumore analisi mutazionale espressione normaleespressione anormale espressione normale o mss espressione anormale o msi-h/l figura 1 flow chart che illustra la strategia di identificazione dei pazienti con neoplasia colon-rettale con difetto nel gene mmr (mismatch repair). modificata da [21] hnpcc = hereditary nonpolyposis colorectal cancer; ihc = immunohistochemical; msi = microsatellite instability; mss = microsatellite stability clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 87 p. ghiringhelli bibliografia beck de, opelka fg, bailey hr, rauh sm, pashos cl. incidence of small-bowel obstruction 1. and adhesiolysis after open colorectal and general surgery. dis colon rectum 1999; 42: 241-8 parker mc, ellis h, moran bj, thompson jn, wilson ms, menzies d et al. postoperative 2. adhesions: ten-year follow-up of 12,584 patients undergoing lower abdominal surgery. dis colon rectum 2001; 44: 822-9 landercasper j, cogbill th, merry wh, stolee rt, strutt pj. long-term outcome after 3. hospitalization for small-bowel obstruction. arch 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diffuso negli anziani, colpendo oltre il 10% dei soggetti di età superiore a 80 anni [1-3]. nonostante il peso epidemiologico, le conoscenze sullo scompenso cardiaco nell’anziano sono ancora limitate sia sul piano clinico che su quello terapeutico. diversi studi clinici hanno dimostrato l’efficacia di svariati trattamenti farmacologici nel ridurre mortalità e numero di ricoveri utilizzo dei beta-bloccanti nella terapia dello scompenso cardiaco cronico nel paziente anziano abstract chronic heart failure (chf) is a common and disabling condition with morbidity and mortality that increase dramatically with advancing age. there are evidences, from both randomized trials and observational studies, that suggest that beta-blockers are effective and well tolerated in elderly as well as in young patients. nonetheless in clinical practice they are substantially underutilized in elderly patients. the article underlines peculiarities of chronic heart failure treatment with beta-blockers in elderly patients, with a review of the most important published trials. keywords: chronic heart failure, elder patients, beta-blockers beta-blockers in chronic heart failure in elderly patient cmi 2009; 3(2): 89-95 1 sc cardiologia, moncalieri corresponding author alberto de bernardi debeal@tin.it gestione clinica per scompenso; l’interesse si è focalizzato in particolare sui beta-bloccanti, che si sono dimostrati efficaci nel ridurre la mortalità e le ospedalizzazioni nei pazienti con scompenso cardiaco di diversa gravità. se nei giovani il trattamento con betabloccanti è ormai considerato uno standard, nel paziente anziano l’utilizzo di questi farmaci non è ancora entrato a far parte della pratica clinica quotidiana. infatti, nonostante i dati disponibili in letteratura, derivanti sia da studi condotti su un numero limitato di pazienti, sia da trial randomizzati o metanalisi, evidenzino efficacia e tollerabilità dei beta-bloccanti negli anziani affetti da scompenso cardiaco cronico, nella pratica clinica quotidiana si rileva una chiara tendenza al sottoutilizzo dei beta-bloccanti in questa tipologia di pazienti. vi è pertanto la necessità di evidenziare l’utilità di questo approccio terapeutico e di implementarne l’impiego anche negli anziani, gruppo estremamente rilevante sia in termini epidemiologici che clinici. clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 90 utilizzo dei beta-bloccanti nella terapia dello scompenso cardiaco cronico nel paziente anziano trattamento e senza comorbilità, mentre sono peculiari del “reale” paziente anziano una funzione sistolica conservata, una bassa compliance e multiple patologie associate [4-8]. ad esempio gli studi epidemiologici evidenziano che circa il 50% dei soggetti anziani scompensati rientra nella categoria dei pazienti con scompenso a funzione sistolica conservata [2,3]. risulta pertanto evidente che vi sono nette differenze tra i pazienti dei trial e quelli della comunità (tabella i), differenze che impongono una certa prudenza quando si intendono applicare le indicazioni derivanti dai trial a una popolazione di individui di età avanzata. la caratteristica peculiare dell’anziano scompensato è rappresentata dal quadro clinico in cui convergono gli effetti del processo di invecchiamento cardiovascolare, delle cardiopatie e delle frequenti comorbilità [10,11]. un supporto per la gestione del paziente “reale” con scompenso è fornito, in italia, dal registro dei pazienti affetti da scompenso, gestito dall’associazione nazionale medici cardiologi ospedalieri (anmco) e denominato in-chf (italian networkcongestive heart failure) [10]. tale registro, attivo ormai dal 1995, raccoglie i dati attraverso un software dedicato distribuito prevalentemente ai reparti di cardiologia; questa mole di informazioni, comprendente dati di follow-up della maggior parte dei pazienti, fornisce conoscenze importanti ai fini della gestione dello scompenso cardiaco nella realtà di tutti i giorni. dall’analisi dei dati dell’in-chf emerge che, in una coorte di 3.327 pazienti con scompenso cardiaco, il 30% presenta un’età superiore a 70 anni. al crescere dell’età, aumenta la percentuale di pazienti di sesso femminile, in classe nyha (new york heart association) avanzata, con fibrillazione atriale e disfunzione renale. negli anziani prevale una eziologia ischemica e ipertensiva e una eziologia multipla nel 22,8% dei casi. oltre gli 80 anni, la percentuale di donne sale al 70%, l’eziologia ipertensiva prevale e la percentuale di funzione sistolica conservata arriva al 50%. nel registro in-chf, inoltre, l’età risulta essere un potente fattore predittivo indipendente, con aumento del rischio di morte pari al 3% per ogni anno di età; ciononostante al crescere dell’età si assiste frequentemente alla diminuzione dell’impiego di risorse e di esami strumentali a più elevato contenuto tecnologico. tuttavia, l’aspetto fondamentale dello scompenso in età avanzata, rispetto al giovane, è la condizione generale del paziente anziano che non dipende solamente dallo stato cardiovascolare, ma anche dall’interazione tra processo di invecchiamento, comorbilità, stato psico-cognitivo e fattori socioambientali [9]. per queste caratteristiche, si configura il profilo di paziente “complesso” con conseguente difficoltà nell’approccio clinico-terapeutico (tabella ii). la coesistenza nell’anziano di polipatologie, scarsa capacità funzionale, astenia, ipotrofia muscolare, problemi di deambulazione e di equilibrio, basso indice di massa corporea e deterioramento cognitivo gli conferisce la connotazione di anziano “fragile” [11]. la fragilità è un’entità multidimensionale che rappresenta la perdita di riserva funzionale in diversi organi: il soggetto fragile variabile considerata trial clinici comunità età media 57-64 anni 70-75 anni sesso m:f 4:1 1:1 frazione di eiezione > 40% criterio di esclusione > 40% fibrillazione atriale 20% 40% disfunzione renale criterio di esclusione 20-30% comorbilità criterio di esclusione frequente dosaggio farmaci target bassa compliance alta bassa morte a un anno 9-12% 25-30% priorità sopravvivenza qualità di vita tabella i differenze tra i pazienti arruolati nei trial e quelli della comunità [9] disfunzione cognitiva y depressione, isolamento sociale y ipotensione posturale con cadute y incontinenza urinaria y deprivazione sensoriale y politerapia y fragilità y disfunzione renale y malattia polmonare cronica y tabella ii comorbilità comuni nel paziente anziano il paziente anziano con scompenso cardiaco i pazienti anziani con scompenso sono scarsamente rappresentati nei trial pubblicati in letteratura. infatti, i rigidi criteri di arruolamento previsti nei trial consentono di norma solo l’inclusione di pazienti con funzione sistolica ridotta, con una buona aderenza al clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 91 a. de bernardi è dunque vulnerabile, presenta una ridotta risposta agli agenti stressogeni e un elevato rischio di sviluppo di disabilità. la fragilità identifica inoltre la non autosufficienza nello svolgimento delle attività della vita quotidiana e costituisce pertanto un’enorme fonte di consumo di risorse sanitarie e assistenziali per la nostra società. la moderna geriatria definisce “valutazione multidimensionale” la stima dello stato complessivo di salute del soggetto anziano, anche attraverso l’impiego di scale di valutazione e test per esplorare le diverse aree dove si manifestano i deficit e per quantificarne l’entità [6,7] (tabella iii). sulla base di questa valutazione è possibile distinguere tre profili principali che rispecchiano grossolanamente tre diverse modalità di invecchiamento e ai quali sono associati i relativi percorsi diagnostico-terapeutici [12]: paziente “robusto” (espressione dell’invecy chiamento di successo: il paziente è autosufficiente, conduce una vita pienamente attiva) per il quale possono essere adottate le cure convenzionali valide per i pazienti più giovani; paziente “anziano” (quadro di comproy missione intermedia) nel quale dovrebbe essere applicato un modello collaborativo che veda coinvolte cure specialistiche e cure primarie; paziente “fragile” (grave compromissione y funzionale) che necessita di un trattamento intensivo multidisciplinare, con assistenza continuativa. nonostante l’evidenza dell’utilità della valutazione dello stato funzionale nell’anziano per indirizzarne in modo corretto il trattamento, pochi studi hanno applicato tali strumenti ai soggetti anziani con scompenso cardiaco [13-15]. la mancanza di trial rappresentativi genera pertanto nel medico la necessità di avere delle linee guida di comportamento che lo indirizzino nella gestione del soggetto anziano. i beta-bloccanti nell’anziano con scompenso cardiaco insieme agli ace-inibitori, i beta-bloccanti (tabella iv ) rappresentano l’unica strategia farmacologica che si sia dimostrata efficace nel contrastare la progressione della malattia cardiaca e nel migliorare gli outcome di salute in un vasto spettro di pazienti con scompenso cardiaco [10]. il razionale dell’utilizzo dei beta-bloccanti si basa sul rallentamento della frequenza cardiaca che consente un prolugamento della diastole e quindi un miglior riempimento ventricolare. così come per la gestione dello scompenso, anche per l’impiego dei beta-bloccanti è evidenziabile una scarsa numerosità degli anziani inclusi negli studi: la maggior parte dei trial condotti riguarda una popolazione con età media inferiore a 63 anni e comprende solo soggetti con frazione di eiezione < 40%. nella pratica clinica, invece, la maggior parte dei pazienti con scompenso cardiaco è più anziana della media considerata dai trial (lo scompenso si presenta spesso in soggetti con età superiore a 75 anni). è stato stimato inoltre che questi pazienti sono trattati con minore frequenza da uno specialista, hanno una sintomatologia maggiore e presentano un numero superiore di comorbilità di quelli usualmente rappresentati nei trial. dati ancora più carenti sono quelli relativi all’impiego dei beta-bloccanti nei cosiddetti “grandi vecchi”, ossia i soggetti con età superiore a 80 anni, in cui la malattia assume caratteristiche ancor più peculiari [16]. alcune informazioni su efficacia e tollerabilità dei beta-bloccanti negli anziani possono essere desunte da analisi condotte su sottogruppi di pazienti di età > 65 anni estrapolati dai grandi trial [17-19]. nello studio cibis ii (cardiac insufficiency bisoprolol study ii), ad esempio, i pazienti di età superiore a 70 anni hanno riportato un tasso di mortalità del 23% nel gruppo placebo e del 16% nel gruppo bisoprololo, mentre i rischi relativi erano simili nei due sottogruppi di età (0,68 nei pazienti > 70 anni e 0,69 in quelli < 70 anni) [19]. una successiva metanalisi sui dati degli età (anni) 75,6 ± 4 maschi:femmine (%) 68:32 coniugati (%) 69,3 basso introito economico (%) 24,4 vive da solo (%) 17,6 assenza di supporto (%) 11,2 cardiopatia ischemica (%) 55 ipertensione (%) 62 bpco (%) 31,2 diabete mellito (%) 30,2 creatinina > 2,5 (%) 12,2 comorbilità (n) 2,7 ± 1,4 tabella iii valutazione multidimensionale dei 205 pazienti con età > 70 anni dello studio in-chf [10] clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 92 utilizzo dei beta-bloccanti nella terapia dello scompenso cardiaco cronico nel paziente anziano studi cibis i e cibis ii ha documentato, negli ultrasettantenni affetti da scompenso sistolico con frazione di eiezione < 35%, una riduzione della mortalità totale del 40% [20]. efficacia e sicurezza di bisoprololo nei pazienti con età > 65 anni sono poi state confermate dal cibis iii che ha confrontato l’efficacia di bisoprololo vs enalapril in 1.010 pazienti con insufficienza cardiaca lieve e frazione di eiezione < 35% [21]. queste analisi, condotte su sottogruppi di pazienti dei grandi trial, indicano benefici nei pazienti anziani, tuttavia non danno grandi indicazioni per i soggetti con età > 70 anni e con frazione di eiezione > 35%. indicazioni su questa tipologia di pazienti possono essere desunte dallo studio seniors (study of effects of nebivolol intervention on outcomes and rehospitalisation in seniors with heart failure); tale studio, che ha valutato l’efficacia di nebivololo (beta-bloccante di terza generazione), è infatti uno dei pochi trial che hanno specificatamente esaminato la terapia per lo scompenso in soggetti anziani, inclusi quelli con funzione sistolica preservata, dimostrando una significativa riduzione nella mortalità e nel rischio di ospedalizzazione [6]. lo studio ha randomizzato 2.128 pazienti con età ≥ 70 anni con storia di scompenso cardiaco (ricovero per scompenso nell’anno precedente o frazione di eiezione ≤ 35%) ad assumere nebivololo titolato da 1,25 mg/die a 10 mg/die (1.067 pazienti) o placebo (1.061). da tale studio emerge che nebivololo è ben tollerato ed efficace nello scompenso cardiaco dei pazienti anziani. nello studio merit-hf è stato rilevato che l’efficacia di metoprololo nella riduzione della mortalità è sovrapponibile nel gruppo dei soggetti giovani (< 65 anni) e nel gruppo degli anziani (> 65 anni) [22]. il confronto tra efficacia dei beta-bloccanti nel diminuire la mortalità in soggetti giovani e anziani è stato condotto anche tramite una metanalisi che ha raccolto i dati di 5 trial clinici randomizzati per un totale di 17.346 soggetti; essa ha confrontato gli effetti dei beta-bloccanti negli anziani (definiti in maniera variabile nei diversi studi in base a una soglia di 59-71 anni) e in pazienti di più giovane età. la revisione non ha rilevato differenze significative (p = 0,38) nella riduzione della mortalità per tutte le cause associate al trattamento con beta-bloccanti, che era significativa in entrambi i gruppi (rischio relativo 0,66, limiti di confidenza al 95% da 0,52 a 0,85, nei pazienti più giovani, p = 0,001, vs rischio relativo 0,76, limiti di confidenza al 95% da 0,64 a 0,90 nei pazienti più anziani, p = 0,002) [23]. sicurezza e tollerabilità secondo quanto riportato dall’euro heart study e da altri studi osservazionali, solo il 30-50% dei soggetti con scompenso cardiaco è trattato con beta-bloccanti, con una dose che è approssimativamente la metà di quella usata nei trial clinici [24]: la motivazione che sta alla base di questo sottoutilizzo e della bassa dose impiegata è da ascrivere al fatto che il medico si trova di fronte a soggetti con età > 70 anni nei quali teme che i farmaci possano essere mal tollerati. al contrario i risultati degli studi che hanno esaminato questa categoria di pazienti hanno evidenziato che non vi sono differenze nella sicurezza dei beta-bloccanti nel paziente giovane e nell’anziano. ad esempio, l’analisi condotta sul sottogruppo dello studio merit-hf (metoprolol cr/xl randomised intervention trial in congestive heart failure) ha dimostrato che metoprololo cr/xl è ben tollerato in pazienti anziani con scompenso sistolico [18]. analogamente, dal seniors è emerso che nebivololo è ben tollerato nei soggetti > 70 anni [6] e lo studio cola (carvedilol open label assessment) ha mostrato che anche carvedilolo è ben tollerato negli ultrasettantenni [25]. dati osservazionali passando dal mondo dei trial al mondo reale, i presupposti di efficacia e sicurezza nei pazienti anziani hanno trovato conferma negli studi osservazionali [26]. a livello nazionale gli studi anmco hanno evidenziato una bassa percentuale di utilizzo di ace-inibitori e beta-bloccanti nel paziente anziano [27]. tali differenze sono state evidenziate sia in strutture internistiche che cardiologiche. nello studio temistocle (heart failure epidemiological study in italian people), ad esempio, nei pazienti con età > 75 anni (età media 82 anni) i beta-bloccanti erano prescritti al 5,3% dei dimessi dai reparti di medicina e al 9,2% dei dimessi dai reparti di cardiologia [27]. beta-bloccanti non selettivi alprenololo, bucindololo, carteololo, carvedilolo, labetalolo, nadololo, oxprenololo, penbutololo, pindololo, propranololo, sotalolo, tertratololo, timololo beta-bloccanti selettivi acebutolo, atenololo, betaxololo, bisoprololo, celiprololo, esmololo, metoprololo, nebivololo, practololo tabella iv beta-bloccanti selettivi e non selettivi clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 93 a. de bernardi per questo motivo si sottolinea l’importanza di un follow-up ambulatoriale dove vengano implementati, in modo attento, i farmaci beta-bloccanti. il relativo incremento di prescrizione dei beta-bloccanti negli anni più recenti è stato supportato non solo dalla diffusione dei dati dei trial, ma anche dagli studi di implementazione guidata, come lo studio bring-up dell’associazione nazionale medici cardiologi ospedalieri. l’obiettivo di questo progetto consisteva nel tentativo di trasferire le conoscenze derivate dai trial alla pratica quotidiana, attraverso la diffusione di linee guida e l’implementazione di un percorso formativo ad hoc [28]. i dati dello studio bring-up suggeriscono l’assenza di effetti negativi del trattamento con betabloccante sullo stato cognitivo e sul tono dell’umore e, complessivamente, sul livello di autosufficienza e sulla qualità di vita. dallo studio bring-up 2, condotto da marzo 2001 a gennaio 2002 su pazienti ≥ 70 anni (dei 1.518 soggetti arruolati, il 33% era già in terapia con un beta-bloccante, mentre il 31% l’aveva iniziata durante lo studio) è emerso che la controindicazione più frequente all’uso di questi farmaci nell’anziano è rappresentata dalla presenza di broncopatia ostruttiva severa (58%), seguita dalla bradicardia (20%) e dall’impegno emodinamico (17%) [14,15]. implicazioni per la pratica clinica nonostante il fatto che gli anziani rappresentano oltre il 70% dei pazienti del “mondo reale”, non esistono linee guida specifiche per il trattamento dello scompenso in questi soggetti; vengono fornite soltanto raccomandazioni relative alle dosi e agli effetti collaterali. i pazienti anziani affetti da scompenso cardiaco devono essere trattati partendo da piccole dosi che vanno lentamente incrementate, secondo il principio noto alla geriatria “start low and go slow”. talora dosaggi non massimali possono garantire il giusto equilibrio tra efficacia e tollerabilità del trattamento. la terapia beta-bloccante dovrebbe essere avviata in pazienti già in trattamento con ace-inibitori e diuretici con assenza di segni e sintomi di ritenzione idrica o di ipoperfusione d’organo. il trattamento con beta-bloccanti non va iniziato in pazienti instabili e/o in presenza di controindicazioni quali bradicardia sintomatica o asma bronchiale con necessità di terapia broncodilatatrice. va ricordato che la presenza di malattie bronchiali non associate a severa ostruzione delle vie aeree, non costituisce una controindicazione alla terapia beta-bloccante (da preferire agenti con elevata selettività β1, come ad esempio carvedilolo) [28]. soprattutto nell’anziano, l’inizio del trattamento può associarsi a ritenzione idrica o a un transitorio peggioramento dello scompenso; in questi casi, se necessario, il dosaggio del beta-bloccante può essere temporaneamente ridotto o sospeso. l’efficacia dei beta-bloccanti è tempo-dipendente: nel primo periodo di trattamento l’azione cronotropa e inotropa negativa può condizionare un deterioramento della funzione cardiaca, mentre in seguito prevalgono le azioni emodinamiche e biologiche favorevoli. l’obiettivo di dosi simili a quelle utilizzate nei trial è di per sé difficile da raggiungere in un paziente fragile come quello anziano: in questo caso si persegue il principio “poco è meglio di niente”. l’utilizzo di dosi non massimali di beta-bloccante può rappresentare il giusto compromesso tra l’obiettivo di garantire la massima efficacia in termini di sopravvivenza e quello di non incidere su morbilità e qualità della vita. conclusioni in conclusione, i dati disponibili sull’utilizzo dei beta-bloccanti nel paziente anziano sono i seguenti: gli anziani hanno un profilo clinico e fiy siopatologico peculiare; nei pazienti anziani le evidenze disponiy bili suggeriscono un’efficacia terapeutica, in termini di mortalità, simile a quella dei pazienti più giovani; i dati disponibili non sono ancora suffiy cienti per definire il profilo rischio/beneficio per il trattamento dei grandi anziani e di quelli molto fragili; l’età avanzata di per sé non costituisce un y valido motivo per non iniziare o sospendere un trattamento con beta-bloccante, benché sia necessario prestare particolare attenzione nelle fasi iniziali del trattamento. vi è pertanto la necessità di applicare più estesamente i risultati della ricerca nella pratica clinica. sarebbe inoltre interessante che clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 94 utilizzo dei beta-bloccanti nella terapia dello scompenso cardiaco cronico nel paziente anziano fossero condotti studi sugli effetti dei betabloccanti sulla qualità di vita dei pazienti anziani: questo aspetto, infatti, assume un particolare rilievo in questo tipo di soggetti, rispetto al prolungamento della stessa. bibliografia ho kk, kannel wb, levy d. the epidemiology of heart failure: the framingham study. 1. j am coll cardiol 1993; 22 (suppl a): 6a-13a senni m, tribouilloy cm, rodeheffer rj, jacobsen sj, evans jm, bailey kr et al. congestive 2. heart failure in the community: a study of all incident cases in olmsted county, minnesota in 1991. circulation 1998; 98: 2282-9 rich mw. heart failure in the 21st century: a cardiogeriatric syndrome. 3. j gerontol a biol sci 2001; 56: m88-m96 aa.vv. effects of enalapril on mortality in severe congestive heart failure. results of the 4. cooperative north scandinavian enalapril survival study (consensus). the consensus trial study group. n engl j med 1987; 316: 1429-35 pitt b, segal r, martinez fa, meurers g, cowley aj, thomas i et al. randomised trial of 5. losartan versus captopril in patients over 65 with heart 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bernardi deedwania pc, gottlieb s, ghali jk, waagstein f, wikstrand jcm; for the merit-hf study 18. group. efficacy, safety and tolerability of beta-adrenergic blockade with metoprolol cr/xl in elderly patients with heart failure. eur heart j 2004; 25: 1300-9 erdmann e, lechat p, verkenne p, wiemann h. results from post-hoc analyses of the cibis 19. ii trial: effect of bisoprolol in high-risk patient groups with chronic heart failure. eur j heart fail 2001; 3: 469-79 leizorovic a, lechat p, cucherat m, bugnard e. bisoprolol for the treatment of chronic heart 20. failure: a meta-analysis on individual data of two placebo-controlled studies – cibis and cibis ii. cardiac insufficiency bisoprolol study. am heart j 2002; 143: 301-7 willenheimer r, van veldhuisen dj, silke b, et al. effect on survival and hospitalization of 21. initiating treatment for chronic heart failure with bisoprolol followed by enalapril, as compared with the opposite sequence: results of the randomized cardiac 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issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 7 giulia m. franchi 1, chiara cappelletti 1, valentina v. villa 1, emanuele bosi 1, marco f. manzoni 1 caso clinico un uomo di 42 anni, sposato con due figli, giunge alla nostra osservazione presso l’unità funzionale di endocrinologia nel dicembre 2003, in seguito al riscontro, nel corso di esami ematochimici eseguiti per controllo di routine, di un quadro compatibile con iperparatiroidismo primitivo. il paziente esegue un’ecografia tiroide-paratiroidi, che non identifica tumefazioni nelle sedi paratiroidee. esegue quindi una tc total-body con mezzo di contrasto e una scintigrafia corporea con pentetreotide (octreoscan), che evidenziano la presenza di lesioni esprimenti i recettori per la somatostatina in corrispondenza della mucosa gastrica e del pancreas. il paziente viene sottoposto ad asportazione endoscopica delle lesioni gastriche, che risultano compatibili con carcinoidi all’esame istologico. nel marzo 2004 il malato viene ruolo della terapia con octreotide lar ad alte dosi nei tumori endocrini del tratto gastro-entero-pancreatico abstract neuroendocrine tumours (nets) are a heterogeneous group of rare neoplasms that account for 0,5% of all malignancies. the increased incidence observed in the last few decades may be accounted for by increased awareness, improved diagnostic tools and a revision in the definition. the main primary sites are the gastro-entero-pancreatic (gep) tract (62-67%), and the lung (22-27%). in patients with gep-nets, the strongest predictor of 5-years survival is the staging. an adequate clinical management of gep-nets should be multidisciplinary and should aim at assuring a good quality of life. somatostatin (sst) analogues are widely used in these tumours, which often express sst receptors, since they are demonstrated to reduce clinical symptoms and tumour growth. herein we explore the usefulness of doubling octreotide lar dose in selected patients after escaping from symptoms control and/or tumour stabilization in course of treatment with standard dose. keywords: gastro-entero-pancreatic neuroendocrine tumours, somatostatin analogues, high dose octreotide lar, medical treatment, clinical management role of high dose octreotide lar for the treatment of gep-nets cmi 2009; 3(1): 7-14 1 dipartimento di medicina interna e specialistica. unità funzionale tumori endocrini. istituto scientifico universitario san raffaele corresponding author dott. marco f. manzoni responsabile unità funzionale tumori endocrini istituto scientifico universitario san raffaele, milano manzoni.marco@hsr.it perché descriviamo questo caso? i nets sono tumori relativamente rari che necessitano di un approccio multidisciplinare. tali caratteristiche rendono difficile la raccolta di ampie casistiche. da un punto di vista terapeutico, il giusto iter viene stabilito solo dopo un’attenta stadiazione della malattia e una valutazione prognostica in base al tipo di biologia tumorale. in caso di nets esprimenti recettori per la somatostatina, l ’impiego degli analoghi è ormai ampiamente documentato in letteratura. viceversa, pochi sono gli studi che indagano l ’effetto degli analoghi della somatostatina ad alte dosi nei nets che sfuggono, da un punto di vista sintomatologico e di crescita tumorale, alle dosi standard. è dunque importante capire il razionale di questo caso clinico clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 8 ruolo della terapia con octreotide lar ad alte dosi nei tumori endocrini del tratto gastro-entero-pancreatico nuovo approccio ai nets e conoscere i dati che supportano tale atteggiamento terapeutico sottoposto a ecoendoscopia del pancreas e delle vie biliari, che mostra, a livello della testa pancreatica, una lesione iperecogena, solida, a ecostruttura omogenea di 12 mm e, nel corpo, due lesioni cistiche plurisettate, con pareti inspessite, delle dimensioni di circa 14 mm l’una. il paziente, che si presenta obiettivamente e soggettivamente in ottime condizioni generali, inizia ad assumere terapia con analoghi della somatostatina a lento rilascio (30 mg im ogni 28 giorni) mostrando un’ottima compliance alla terapia. discusso il caso collegialmente, insieme ai colleghi gastroenterologi, radiologi, medici nucleari, chirurghi e genetisti, viene posto il sospetto di sindrome di men1 (multiple endocrine neoplasia type 1): si tratta di una rara sindrome ereditaria a trasmissione autosomica dominante, con una prevalenza stimata tra 1 e 10 casi per 100.000 abitanti. il gene men1, mappato sul cromosoma 11q13, codifica per una proteina chiamata menina, con il ruolo di gene oncosoppressore; mutazioni di questo gene inducono disregolazione del ciclo cellulare e della proliferazione cellulare. la sindrome è dunque caratterizzata dallo sviluppo di neoplasie endocrine, che interessano principalmente le paratiroidi (90-97%), le isole pancreatiche, il duodeno (30-80%) e l’ipofisi anteriore (15-50%). i tumori endocrini gastro-entero-pancreatici sono in genere benigni, di piccole dimensioni, non funzionanti e clinicamente silenti, ma con la tendenza spesso a recidivare dopo asportazione chirurgica. nel 2005 il paziente viene ricoverato per essere sottoposto ad accertamenti in merito al sospetto di sindrome men1. gli esami ematochimici evidenziano un incremento del valore di cromogranina a (> 500 ng/ ml; vn = 20-150 ng/ml), di enolasi neurono-specifica (20,1 µg/l; vn = 0-12,5 µg/l) e confermano la presenza di iperparatiroidismo primitivo; l’ecografia del collo non riconosce tumefazioni nelle usuali sedi paratiroidee. viene inoltre eseguita un’ecoendoscopia operativa di controllo che evidenzia, a livello pancreatico, la presenza di due lesioni tondeggianti, lievemente ipoecogene di 13 e 10 mm e la comparsa di numerose altre microlesioni iperecogene (< 3 mm). l’agoaspirato della lesione di 13 mm risulta compatibile con neoplasia neuroendocrina all’esame citologico (indice di proliferazione ki-67 < 1%). previa sospensione della terapia con analoghi della somatostatina, viene ripetuta una scintigrafia con pentetreotide, che mostra la presenza di localizzazioni di malattia a livello addominale (testa pancreatica) e polmonare (sede medio-basale del polmone destro). il paziente viene quindi sottoposto a una tc total-body con mezzo di contrasto, che conferma la presenza di due formazioni nodulari, rispettivamente al lobo polmonare inferiore di destra e al lobo polmonare inferiore di sinistra, e di lesioni ipervascolari puntiformi a livello di corpo, coda e processo uncinato del pancreas, compatibili con lesioni neuroendocrine. viene intrapresa nuovamente la terapia con analogo della somatostatina a lento rilascio (30 mg im ogni 28 giorni). infine, viene eseguita l’analisi genetica della men1, che risulta positiva per mutazione del gene; viene pertanto indicata l’esecuzione di una consulenza genetica per i figli del paziente per la ricerca della medesima mutazione (1 figlio ne risulta essere portatore). nel dicembre 2005 il paziente viene sottoposto a rivalutazione diagnostico-terapeutica, attraverso l’esecuzione di un’ecoendoscopia pancreatica e di una tc total-body con mezzo di contrasto, che mostrano un quadro di stazionarietà di malattia. nel novembre 2006, la successiva rivalutazione diagnostico-terapeutica mostra stazionarietà del quadro ematochimico, ma progressione radiologica della malattia pancreatica. viene inoltre eseguita la scintigrafia delle paratiroidi (mibi), che identifica la presenza di un adenoma paratiroideo ectopico in sede mediastinica; per il persistere del quadro ematochimico di iperparatiroidismo primitivo, il paziente viene sottoposto a moc (mineralometria ossea computerizzata) radiale, femorale e vertebrale, che risultano nei limiti di norma per età e sesso. si decide pertanto di non intraprendere nessuna terapia. in considerazione della progressione della malattia pancreatica, si decide di aumentare il dosaggio dell’analogo della somatostatina a lento rilascio da 30 mg im ogni 28 giorni a 30 mg im ogni 14 giorni. ai successivi controlli di follow-up e all’ultimo del giugno 2008, gli esami ematochimici confermano il quadro di iperparatiroidismo primitivo e mostrano valori di cromogranina a in lieve riduzione e valori clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 9 g. m. franchi, c. cappelletti, v. v. villa, e. bosi, m. f. manzoni di enolasi neurono-specifica nei limiti di norma; gli esami strumentali evidenziano una stazionarietà di malattia sia a livello polmonare che pancreatico. viene pertanto proseguita la terapia con alte dosi di somatostatina a lento rilascio, ben tollerata dal paziente. domande da porsi è stata effettuata un’approfondita vay lutazione anamnestica e clinica del paziente? sono state seguite le linee guida internay zionali per la diagnosi e la stadiazione della patologia tumorale? è stata stabilita una valutazione proy gnostica sulla base anche della biologia di malattia prima di formulare ipotesi terapeutiche? la diagnosi e la valutazione prognostica y effettuate coincidono con il performance status del paziente? abbiamo stabilito l ’iter terapeutico teneny do in considerazione in primis il rispetto della qualità di vita del paziente? qual è la compliance del paziente al nostro y processo di cura? il caso è stato valutato in modo multidiy sciplinare? la terapia scelta sta ottenendo i risultati y aspettati? in caso di scarsa risposta terapeutica sono y state valutate terapie alternative o di associazione? discussione i nets i tumori neuroendocrini (nets) sono neoplasie a bassa incidenza (mediamente 0,5-1 caso/100.000/anno), caratterizzate da un fenotipo comune che consiste nell’espressione di marcatori generali (enolasi neuronospecifica, cromogranina a, sinaptofisina) e di prodotti di secrezione ormonale e da un’aggressività clinica e biologica relativamente modesta. i nets si dividono in funzionanti e non funzionanti in relazione alla capacità di produrre e secernere sostanze ormonali. nel 60% dei casi sono non funzionanti, espressione di una mancata secrezione ormonale o di un’inadeguata o patologica secrezione di precursori peptidici clinicamente incapaci di evocare una sintomatologia. in questi casi, il tumore (o più frequentemente le sue metastasi) viene diagnosticato per sintomi da “effetto massa” o come incidentaloma nel corso di accertamenti radiologici eseguiti per altri motivi. viceversa, i nets sono funzionanti nel 40% dei casi, con risvolti clinici del tutto eterogenei e sindromi complesse che variano a seconda del prodotto di secrezione ormonale. per i nets digestivi funzionanti, le manifestazioni cliniche di più frequente osservazione sono le seguenti: gastrite, gastro-duodenite, patologia uly cerosa peptica recidivante e resistente alla terapia farmacologica convenzionale nel caso di tumori secernenti gastrina (gastrinoma sporadico, sindrome di zollinger ellison, gastrinoma nell’ambito di sindromi ereditarie quali la men1); diarrea cronica ref rattaria nel caso di y carcinoide intestinale o bronchiale, carcinoma midollare della tiroide, vipoma, gastrinoma, glucagonoma, somatostatinoma e altri tumori secernenti peptidi diarrogeni; flushing y nel caso di carcinoide intestinale, carcinoide gastrico, alcuni carcinomi neuroendocrini indifferenziati e alcuni vipomi; ipoglicemia e sintomi correlati nel caso di y tumori secernenti insulina; iperglicemia e franco diabete mellito nel y caso di tumori secernenti glucagone; ipokaliemia severa e sindrome di cushing y nel caso di tumori secernenti cortisolo o acth. la chirurgia è la principale terapia per i tumori endocrini poco aggressivi; viceversa, nel caso in cui il paziente presenti estensione di malattia alla diagnosi e/o i marcatori di biologia tumorale indichino una malattia aggressiva, è necessario affiancare alla terapia chirurgica, il più delle volte incapace di raggiungere la radicalità, una terapia medica biologica e/o chemioterapica antineoplastica e sintomatologica ed eventuali approcci di medicina nucleare e radiologia interventistica secondo le corrette indicazioni (terapia radio-metabolica e radio-recettoriale, chemioembolizzazione, termoablazione mediante radiofrequenza). i principali farmaci biologici utilizzati nella terapia standard dei tumori endocrini sono l’interferone-α e gli analoghi della somatostatina [1]. clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 10 ruolo della terapia con octreotide lar ad alte dosi nei tumori endocrini del tratto gastro-entero-pancreatico la storia della somatostatina la somatostatina è un ormone ipotalamico in grado di inibire la secrezione di altri ormoni dalle cellule endocrine. inoltre è ormai noto che diversi altri meccanismi biologici sono mediati dalla somatostatina. nei primi anni ’90 sono stati caratterizzati 5 sottotipi di recettori per la somatostatina (sst1-5), in grado di mediare differenti pathway cellulari; in particolare, il legame della somatostatina ai recettori sst2 e sst5 inibisce la secrezione ormonale, il legame a sst1, sst2 e sst5 induce in vitro l’inibizione della crescita cellulare, mentre l’attivazione dei recettori sst2 e sst3 può indurre, ad alte dosi, apoptosi [2]. i meccanismi d’azione della somatostatina il meccanismo d’azione della somatostatina e dei suoi analoghi è complesso, essendo il risultato sia di effetti “diretti” che “indiretti” quali [2,3]: il controllo della secrezione del gh y (growth hormone), che inibisce per via riflessa l’azione di numerosi fattori di crescita, quali l’insulin growth factor 1 (igf1), l’epidermal growth factor (egf), il platelet-derived growth factor (pdgf), il transforming growth factor (tgf), il fibroblast growth factor (fgf) e l’endothelial cell growth factor (ecgf); l’inibizione dell’ecgf, che provoca un y effetto inibitorio sulla neoangiogenesi neoplastica; il legame dell’ormone con i suoi recettori y ad alta affinità, che determina un’inibizione della produzione di amp ciclico intracellulare e una protratta caduta dei flussi transmembrana di ioni calcio, interferendo inoltre con il processo di fosforilazione dei residui tirosinici dei recettori di membrana. vi è inoltre un effetto inibitorio sulla separazione centrosomica del fuso mitotico, che inibisce la stabilità dei microfilamenti. l’insieme di questi meccanismi sembra avere un effetto antimitotico diretto; il legame dell’analogo coi sottotipi recety toriali 2 e 5, che inibisce direttamente il pathway di proliferazione e crescita cellulare mediato da mtor; il legame dell’analogo col sottotipo rey cettoriale 3, che, ad alte dosi, sembra responsabile di un effetto “diretto” proapoptotico; infine, la somatostatina sembra essere in y grado di esercitare un effetto di stimolo sui linfociti natural killer (dotati di recettori specifici per l’ormone), modulandone l’attività immunitaria. i principali meccanismi d’azione ed effetti molecolari mediati dalla somatostatina sono riassunti nella tabella i. l’utilizzo clinico degli analoghi della somatostatina l’utilizzo in clinica della somatostatina è stato reso possibile dallo sviluppo degli analoghi sintetici (octreotide, lanreotide e vapreotide), caratterizzati da un’emivita più lunga (di 2 ore circa) e dall’assenza di effetto rebound di ipersecrezione ormonale tipico della somatostatina nativa. un importante ulteriore progresso è stato poi lo sviluppo di formulazioni sintetiche a lento rilascio, che attività della somatostatina recettori implicati possibili pathway di trasduzione del segnale implicati anti-secretoria 2, 3, 5 adenilatociclasi canali del k+ canali del ca2+ anti-angiogenetica 2, 3 mapk enos ecgf inibizione della proliferazione cellulare inibizione di y pathway patologici over-espressi 2, 5 pi3k-akt-mtor inibizione della secrezione autocrina di ormoni e y fattori di crescita tumorali 2 fosfotirosina fosfatasi mapk adenilatociclasi inibizione della progressione del ciclo cellulare y indotta dai fattori di crescita 1, 2, 4, 5 erk2 induzione dell’apoptosi 2, 3 tabella i principali meccanismi d ’azione ed effetti molecolari mediati dalla somatostatina ecgf = endothelial cell growth factor enos = endotelial no synthase erk2 = extracellular signalregulated kinase 2 mapk = mitogen activated protein kinase pi3k = phosphatidylinositol3-kinase clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 11 g. m. franchi, c. cappelletti, v. v. villa, e. bosi, m. f. manzoni non necessitano di multiple iniezioni giornaliere: gli analoghi a lento rilascio attualmente presenti in commercio sono octreotide lar e lanreotide autogel, somministrati ogni 4 settimane, in grado di garantire un controllo sintomatologico sovrapponibile, se non superiore, a quello ottenuto con gli analoghi a breve durata d’azione. il presupposto per utilizzo degli analoghi è la dimostrazione della presenza dei recettori per la somatostatina sulle cellule tumorali attraverso metodiche quali la scintigrafia corporea con pentetreotide (octreoscan) o la ricerca dei recettori direttamente sul pezzo operatorio. tali determinazioni rappresentano i principali predittori di efficacia terapeutica. gli analoghi della somatostatina hanno assunto nel corso degli ultimi anni un ruolo sempre più importante nella terapia dei pazienti con tumori endocrini e hanno il loro principale razionale di impiego nelle forme endocrine funzionanti dove, approssimativamente, il controllo della sintomatologia è possibile nel 70% dei casi [2,4,5]. tuttavia, l’inibizione della secrezione ormonale da parte delle cellule del tumore non rappresenta l’unico risultato atteso dalla terapia con analoghi. numerosi studi hanno infatti ormai dimostrato un’attività antiproliferativa di queste molecole, con percentuali di stabilizzazione di malattia del 40-68% dei casi e risposte obiettive parziali dallo 0 al 31%, dove le percentuali più elevate sono state raggiunte con dosaggi particolarmente elevati (6.000 µg/die), avvalorando l’ipotesi di una possibile risposta dose-dipendente [6]. razionale del trattamento con alte dosi di somatostatina negli ultimi anni sono stati eseguiti alcuni studi, effettuati su casistiche ridotte di pazienti, in cui veniva valutata l’utilità della terapia con analoghi della somatostatina a dose più elevata di quella comunemente utilizzata, con lo scopo di verificare l’ipotesi che l’incremento del dosaggio potenziasse l’effetto antiproliferativo del farmaco [7-9]. da questi studi preliminari è emerso che il trattamento con analoghi della somatostatina ad alte dosi determina: una stabilizzazione della malattia a un y anno nel 70% dei pazienti, una riduzione delle dimensioni della massa tumorale nel 5% dei pazienti e una risposta biochimica, intesa come riduzione dei figura 1 titolazione della dose di octreotide nei gepnets diagnosi di gep-net esecuzione di octreoscan negativo positivo prescrizione octreotide 0,2 mg im 3 volte die valutazione degli effetti collaterali octreotide 30 mg im ogni 28 giorni aggressività biologica. categoria isto-prognostica who e criteri associati: dimensione, indice proliferativo (ki-67 o mib-1), numero di mitosi per campo inadeguato controllo della sintomatologia clinica. aumento o persistenza dei segni e sintomi legati all’ipersecrezione ormonale progressione di malattia octreotide 30 mg im ogni 14 giorni clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 12 ruolo della terapia con octreotide lar ad alte dosi nei tumori endocrini del tratto gastro-entero-pancreatico livelli plasmatici di cromogranina a, nel 68% dei casi; un controllo della sintomatologia correlata y all’ipersecrezione ormonale e della proliferazione tumorale nei pazienti non responsivi al trattamento convenzionale; una riduzione dei valori dell’indice di y proliferazione ki-67 nelle malattie in progressione; un incremento del numero di cellule tuy morali apoptotiche, correlato con la risposta biochimica e con la riduzione della massa tumorale e verosimilmente mediato dall’attivazione dei sottotipi recettoriali 2 e 3, che si verifica solo a dosaggi di farmaco elevati. l’utilizzo del trattamento con analoghi della somatostatina ad alte dosi sembra quindi rappresentare uno strumento utile, innovativo e relativamente ben tollerato, che consente di associare l’effetto di riduzione della sintomatologia da ipersecrezione all’effetto antineoplastico in pazienti non responsivi alle terapie con dosaggi convenzionali. discussione del caso clinico analogamente a quanto descritto nel caso clinico, abbiamo trattato 9 pazienti con titolazione della dose di octreotide. abbiamo selezionato pazienti affetti da tumori endocrini del tratto gastro-enteropancreatico, confermati istologicamente, ben differenziati, a sede variabile, già sottoposti nella maggior parte dei casi a plurimi trattamenti sia di tipo medico che nucleare e interventistico e già in terapia con analoghi della somatostatina ai dosaggi comunemente utilizzati nella pratica clinica, con un inadeguato controllo della sintomatologia da ipersecrezione ormonale o con evidenza di progressione di malattia. la titolazione della dose è stata ottenuta riducendo l’intervallo di tempo tra le somministrazioni (30 mg ogni 14 giorni), per consentire il raggiungimento di una concentrazione plasmatica stabile del farmaco ed evitare picchi plasmatici del farmaco nei giorni successivi all’iniezione. il trattamento è stato ben tollerato in tutti i pazienti trattati, risultando privo di effetti collaterali significativi; il principale effetto collaterale riferito occasionalmente dai pazienti è stata una sintomatologia gastrointestinale di lieve entità (diarrea) nei giorni successivi alla somministrazione del farmaco; non abbiamo riscontrato una differente incidenza di colelitiasi rispetto ai casi trattati con dosaggi standard. da un punto di vista della risposta terapeutica, i pazienti hanno riferito, complessivamente, un miglioramento della sintomatologia legata alla sindrome da ipersecrezione nel caso di tumori endocrini funzionanti e un miglioramento soggettivo della qualità della vita. per quanto riguarda invece la crescita tumorale, nei 9 pazienti posti in terapia con octreotide ad alte dosi al momento della progressione di malattia, abbiamo osservato 3 stabilizzazioni di malattia a 18 mesi, 4 stabilizzazioni di malattia a 6 mesi, nessuna regressione di malattia, 2 progressioni di malattia (con 1 exitus). punti chiave in considerazione della rarità e dell ’eterogeneità di comportamento clinico di queste pay tologie, è consigliabile rinviare la gestione dei pazienti affetti da nets ai centri di riferimento è fondamentale ricordare la multidisciplinarietà di approccio ai pazienti affetti da y nets per il management clinico dei pazienti affetti da nets è indispensabile una corretta y stadiazione del tumore con caratterizzazione della biologia di malattia e successiva indicazione prognostica [10] in base a tali informazioni, è possibile stabilire l ’approccio terapeutico, il più delle volte y di tipo multidisciplinare appunto, al paziente affetto da net la terapia con analoghi della somatostatina a lunga durata d ’azione si è dimostrata essere y sicura ed efficace nel trattamento sintomatologico e antiproliferativo dei nets nel caso di indicazione al trattamento dei nets con analoghi della somatostatina a lunga y durata d ’azione e mancata risposta, dati preliminari indicano l ’efficacia di tali farmaci ad alte dosi, ottenute raddoppiando la dose in un’unica somministrazione o dimezzando il tempo tra le somministrazioni clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 13 g. m. franchi, c. cappelletti, v. v. villa, e. bosi, m. f. manzoni formulazione della diagnosi clinica: valutazione accurata della storia anamnestica e dei segni e sintomi del paziente formulazione della diagnosi biochimica: ricerca ematica dei marcatori aspecifici e specifici ed esecuzione dei test dinamici formulazione della diagnosi strumentale formulazione della diagnosi istologica preoperatoria tramite esami endoscopici ed ecoendoscopici/bioptici formulazione della valutazione prognostica formulazione delle decisioni terapeutiche (terapia medica, biologica o chemioterapica, terapia chirurgica, terapia interventistica, terapia radiometabolica o radiorecettoriale) follow-up biochimico e strumentale rivalutazione terapeutica algoritmo diagnostico-terapeutico dei gep-nets conclusioni e consigli pratici nella nostra esperienza l’utilizzo degli analoghi della somatostatina a lento rilascio ad alte dosi, ottenuto con iniezioni im di octreotide lar 30 mg ogni 14 giorni, si è rivelato privo di effetti collaterali importanti e ben tollerato dai pazienti, che hanno mostrato un’ottima compliance alla terapia. in considerazione della documentata osservazione del fenomeno di escaping dall’efficacia degli analoghi della somatostatina col tempo alle dosi standard, è auspicabile la titolazione della loro dose in seguito al riscontro di progressione biochimica e/o radiologica di malattia in pazienti già in terapia con l’analogo a dosi standard e persistenza di evidenza di positività alla scintigrafia con pentetreotide (figura 1). ulteriori studi, eseguiti su casistiche di maggiori dimensioni, saranno necessari per confermare l’efficacia di tale atteggiamento terapeutico. sarà inoltre interessante valutare la possibilità di associazione degli analoghi della somatostatina ad alte dosi con nuovi farmaci che agiscono sugli stessi pathway intracellulari, quale everolimus, e l’utilizzo di analoghi della somatostatina a più ampio spettro di legame, quale som230, nei pazienti in terapia con analoghi della somatostatina a lento rilascio in progressione di malattia, per il possibile addizionale effetto pro-apoptotico di tale farmaco. clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 14 ruolo della terapia con octreotide lar ad alte dosi nei tumori endocrini del tratto gastro-entero-pancreatico bibliografia kaltsas ga, besser gm, grossman ab. the diagnosis and medical management of advanced 1. neuroendocrine tumors. endocr rev 2004; 25: 458-511 grozinsky-glasberg s, shimon i, korbonits m, grossman ab. somatostatin analogues in the 2. control of neuroendocrine tumours: efficacy and mechanism. endocr relat cancer 2008; 15: 701-20 grozinsky-glasberg s, franchi g, teng m, leontiou ca, ribeiro de oliveira a jr, dalino p et al. 3. octreotide and the mtor inhibitor rad001 (everolimus) block proliferation and interact with the akt-mtor-p70s6k pathway in a neuro-endocrine tumour cell line. neuroendocrinology 2008; 87: 168-81 oberg k, kvols l, caplin m, delle fave g, de herder w, rindi g et al. consensus report 4. on the use of somatostatin analogs for the management of neuroendocrine tumors of the gastroenteropancreatic system. ann oncol 2004; 15: 966-73 plöckinger u, rindi g, arnold r, eriksson b, krenning ep, de herder ww et al; 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carcinoid tumours. eur j endocrinol 2004; 151: 107-12 piani c, franchi gm, cappelletti c, scavini m, albarello l, zerbi a et al. cytological ki-67 10. in pancreatic endocrine tumours: an opportunity for pre-operative grading. endocr relat cancer 2008; 15: 175-81 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 145 clinical management issues rigente, inquadrato nei diversi ruoli previsti dal sistema sanitario regionale (ssr). in realtà, nel sistema italiano le convenzioni vigenti tra le diverse università degli studi e le relative facoltà di medicina e chirurgia a esse afferenti, e le differenti aziende ospedaliero-universitarie, tendono a disegnare un quadro a macchia di leopardo, essendo per lo più frutto di accordi siglati, ed eventualmente modificati ed evoluti a livello locale (per lo più su base regionale) [1-3], che si fondano come base comune sull’ormai datato decreto legislativo n. 517 del 1999 [3]. nelle realtà sanitarie miste (a componente ospedaliera e universitaria tra loro integrate), dietro a una sorta di paravento sorretto da oscure locuzioni, tra cui capita di leggere frasi quali «completa integrazione tra attività assistenziali, didattiche, e di ricerca», si celano nella pratica quotidiana modelli lavorativi estremamente differenziati, che creano un introduzione anche in italia, la medicina universitaria ha subìto nel corso degli ultimi decenni un’evoluzione dettata essenzialmente da un progressivo avvicinamento ai predominanti modelli anglosassoni, che tendono a rimarcare la centralità delle attività di ricerca (ad ogni livello), di quelle didattiche e formative, di quelle di tutoraggio, e di quelle di fund-raising, come mission prevalenti del personale medico-sanitario ad afferenza universitaria. nel modello assistenziale italiano, pur in assenza di letteratura scientifica sull’argomento, non mancano i riferimenti legislativi e normativi, che tendono a inquadrare l’ambito lavorativo del personale medico universitario, rispetto alle attività assistenziali e organizzative che hanno da sempre caratterizzato e a tutt’oggi caratterizzano gli ambiti professionali del personale medico dicorresponding author prof. roberto manfredi c/o malattie infettive, policlinico s. orsola via massarenti, 11 40138 bologna roberto.manfredi@unibo.it gestione clinica abstract the present role, space, task, mission, function, and outcome of university medicine in italy are briefly examined, taking as a pure and trivial pretext the actual professional activity of single, representative physician who changed his role at the same specialistic department of the same university hospital, by covering an university role in the past five years, after working at the same facility as an hospital-affiliated specialist in charge of the same medical division during the previous 14 years. the lights and shadows of assistential and academic medicine organisation and integration in italy are the starting point of our preliminary observations, which may be potentially extended to the university medicine as a whole, from an organisative, functional, and especially ergonomic point of view. keywords: university medicine, service integration, assistance activity, academic and scientific duties, work ergonomy university medicine in italy: an exemplary “case report” of several unresolved criticities cmi 2010; 4(4): 145-155 1 dipartimento di medicina interna, dell’invecchiamento, e malattie nefrologiche, “alma mater studiorum”. università degli studi di bologna, policlinico s. orsola-malpighi, bologna roberto manfredi 1 medicina universitaria in italia: un “caso clinico” emblematico di molte criticità irrisolte ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4)146 medicina universitaria in italia: un “caso clinico” emblematico di molte criticità irrisolte prevalgono, versus un surplus in termini di personale universitario dedito prevalentemente alla ricerca in un frangente storico diverso, in cui le attività scientifiche risultano di particolare attualità e preminenza, in concomitanza con una più ridotta pressione sul versante assistenziale). l’evoluzione della storia e della vita professionale di uno stesso dirigente medico che, dopo aver svolto circa 14 anni di servizio in qualità di medico ospedaliero specialista (dipendente dell’azienda ospedaliero-universitaria), ha visto modificata la propria posizione in quella di medico universitario (con mantenimento dei compiti assistenziali di dirigente medico) presso la stessa divisione della medesima azienda ospedaliero-universitaria, ci sembra particolarmente illuminante a fini puramente didascalici, come occasione fattuale atta a sollevare alcune palesi contraddizioni, e a stimolare e a vivacizzare un dibattito che finora si presenta sorprendentemente scarno di commenti (forse perché dato per scontato in partenza), a proposito del ruolo, delle luci e delle ombre della medicina universitaria in italia, a cavallo tra il secondo e il terzo millennio. l’estrema scarsità di evidenze di letteratura e bibliografiche sull’argomento è probabilmente da attribuire alle diverse organizzazioni sanitarie e ai differenti ruoli e funzioni svolti dalle istituzioni accademiche biomediche (universitarie) in paesi diversi dall’italia (soprattutto nella realtà anglosassone). sul versante ergonomico e di medicina del lavoro non mancano invece dati e commenti (nazionali e internazionali) [4-6] relativi alle diverse organizzazioni del lavoro, e ancor più alle attese ripercussioni sullo stato di salute dei singoli professionisti e delle équipe che lavorano nel mondo della sanità pubblica. materiali e metodi la molteplici attività assistenziali specialistiche erogate dalla divisione ospedaliero-universitaria in oggetto sono state svolte e sono tuttora erogate sulla base di precise turnazioni di servizio, che tengono conto della massima continuità possibile assicurata ai pazienti seguiti in regime di ricovero ordinario, di day-hospital e di day-service. le attività di guardia diurna e notturna, i turni di pronta disponibilità, e la maggioranza delle attività svolte presso gli altri servizi (ambulatoriali e territoriali) sono effettuate sulla base di turni di servizio a rotazione, vero e proprio “caleidoscopio” interpretativo e attuativo. prendendo ora in considerazione il ruolo del singolo professionista della sanità a dipendenza universitaria, passando da un’azienda ospedaliero-universitaria all’altra, e da un’università italiana all’altra, le attività complessive del medico universitario vengono calendarizzate, organizzate e svolte secondo un continuum che spazia in modo variabilissimo tra due opposti estremi: da una pressoché completa dedizione ad attività accademiche (ovverosia di ricerca, di didattica e di tutoraggio, con impiego assistenziale limitato o marginale), versus un pressoché totale espletamento di attività puramente assistenziali, con obiettivi quasi integralmente incentrati su professionalità e compiti posti direttamente o indirettamente al servizio dei malati (con forzoso restringimento o annullamento del tempo e delle possibilità dedicate alle attività accademiche). in mezzo a questi due estremi (che sono assolutamente più virtuali che reali, come tutte le situazioni che tendono a ricadere alle estremità di una curva gaussiana), si pongono le singole realtà dei singoli professionisti (medici universitari), che devono essere lette e interpretate alla luce delle peculiarità di ciascuna struttura universitaria e assistenziale di cui sono contemporaneamente dipendenti e a cui offrono i propri servizi, e delle differenti realtà assistenziali locali, spesso regolate da specifiche convenzioni tra le singole università e le specifiche aziende ospedaliero-universitarie, su base regionale o autonoma [1-3]. con effetti a dir poco paradossali, può quindi capitare che nella medesima azienda ospedalierouniversitaria due diversi professionisti che ricoprono la medesima qualifica universitaria e che beneficiano sul fronte contrattuale della medesima “integrazione” ospedaliera, siano di volta in volta pressoché completamente dediti ad attività universitarie, oppure ad attività quasi esclusivamente ospedaliere. il più delle volte ciò accade per circostanze occasionali, causate dall’evoluzione storica e dalle “vocazioni” dei dipartimenti e delle divisioni a cui essi afferiscono, oppure dalle necessità contingenti, che possono dipendere anch’esse dallo storico della disciplina in questione, o da strutturazioni del personale e dei carichi di lavoro assistenziali e accademici che possono evolvere nel tempo (es. carenza di personale sanitario atto a garantire le attività assistenziali in momenti in cui le necessità di salute dei cittadini assistiti ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 147 r. manfredi assistenziali, per quanto concerne la dotazione di posti-letto e la dislocazione e l’offerta dei servizi ambulatoriali e di day-hospital e day-service, e in termini di attività di consulenza sul territorio e nelle diverse strutture sanitarie cittadine e metropolitane, nonché in termini di organizzazione dei servizi assistenziali, è pienamente confrontabile il periodo successivo al 1° giugno 2002, fino ad oggi (inverno 2010). infatti, proprio a far data dal 1° giugno 2002 è intervenuta una completa ristrutturazione delle attività assistenziali di tale disciplina medico-specialistica, che ha fatto seguito alla chiusura dei posti-letto di degenza ordinaria pre-esistenti presso un altro presidio ospedaliero cittadino, e all’unificazione e fusione dei rispettivi organici dei dirigenti medici in un’unica équipe assistenziale, amministrativamente collocata presso l’azienda ospedalierouniversitaria a cui ci siamo sopra riferiti. tale équipe assistenziale constava e consta di un direttore (a qualifica universitaria), e di 15 dirigenti medici (di cui tre ad affiliazione universitaria, e dodici dipendenti diretti dell’azienda ospedaliero-universitaria). i dati relativi ai servizi a carattere puramente assistenziale espletati dal professionista preso come esempio in questo contributo sono riassunti nella tabella ii, e confrontano due periodi di tempo che risultano pienamente omogenei sul piano dei servizi assistenziali forniti dall’intera divisione medico-specialistica e dal singolo medico, distinti e confrontati soltanto sulla base del passaggio del medico specialista suddetto dall’amministrazione ospedaliera (dal 1° giugno 2002 al 30 settembre 2005; 40 mesi), all’amministrazione universitaria (dal 1° ottobre 2005, fino al 28 febbraio 2010; 53 mesi). il restante personale dirigente medico che effettua tutti i turni di servizio assistenziale sopra descritti (indifferentemente rispetto alla qualifica ospedaliera o universitaria), ammonta come detto a ulteriori 14 unità complessive (con l’eccezione del solo direttore di unità operativa, dipendente universitario, che non effettua attività assistenziale sistematica a cadenza turnistica, né servizi di guardia, di pronto soccorso, e attività divisionali e sul territorio). i dati relativi ai servizi svolti dal professionista in oggetto sono evidenziati nella tabella ii in colore nero per quanto concerne il periodo ospedaliero, e in colore blu per quanto pertiene al periodo universitario. le ultime due righe orizzontali della tabella ii evidenziano i dati assoluti e la media dei pienamente condivisi dall’intera équipe, e redatti da un medico referente, a nome e per conto del direttore della divisione. da sottolineare che la divisione in oggetto segue in prevalenza affezioni croniche a carattere evolutivo e potenzialmente pericolose per la vita, per le quali sono disponibili crescenti ma impegnative opzioni terapeutiche ad elevato costo, che richiedono frequente monitoraggio clinico e laboratoristico, e una sorta di strenua alleanza medico-paziente al fine di massimizzare i risultati, contenendo i ripetuti eventi avversi e le potenzialmente gravi tossicità e interazioni farmacologiche. viste le difficoltà di quantificare le attività universitarie in termini di orari e turni di servizio comparabili a quelle assistenziali, si è volutamente soprasseduto dal riportarle, rimarcando peraltro che tali attività accademiche vengono necessariamente e sistematicamente svolte al di fuori e oltre alle attività a carattere squisitamente assistenziale, che sono l’oggetto principale di questo report, e delle relative analisi e discussioni. il dirigente medico e docente universitario assunto in qualità di puro e semplice esempio in questa disamina, ha svolto tutta la propria esperienza formativa e professionale presso la stessa divisione della medesima azienda ospedaliero-universitaria italiana. assistente ospedaliero incaricato per circa due anni dal settembre 1991, dall’anno 1993 a seguito di un concorso per titoli e per esami veniva inquadrato direttamente come aiuto correponsabile ospedaliero. a seguito di giudizio di idoneità conseguito nell’ambito di una valutazione comparativa per professore universitario di seconda fascia nel 2003, a partire dall’anno 2005 veniva chiamato dall’università locale a ricoprire la posizione di professore associato nella stessa disciplina, mantenendo inalterata e immodificata la qualifica di dirigente medico di primo livello di cui era già in possesso, ed espletando la propria attività assistenziale ininterrottamente presso la medesima azienda ospedaliero-universitaria, di cui risulta dipendente (come detto) fin dall’anno 1991. la tabella i espone schematicamente le modalità di erogazione di tutti i servizi a carattere puramente assistenziale (attività effettuate, e turni e orari di servizio, svolti in modo sovrapponibile nell’intero arco di tempo compreso tra il 2002 e il 2010), da parte dell’intera divisione ospedaliero-universitaria a cui il professionista appartiene. in termini di organico complessivo del personale dirigente medico e dei rispettivi ruoli ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4)148 medicina universitaria in italia: un “caso clinico” emblematico di molte criticità irrisolte servizi di natura esclusivamente assistenziale giornate di programmazione dei servizi assistenziali ai pazienti orari minimi dei servizi ai pazienti (a cui si aggiungono attività organizzative, amministrative e burocratiche, programmate e urgenti) dirigenti medici impegnati (n.)* alcune specifiche delle attività assistenziali erogate ai pazienti e alle strutture reparti di degenza mattino (due diverse unità di degenza) lunedì-domenica 8,30-14,00 (attività organizzative, amministrative e burocratiche svolte anche oltre l’orario) 2 assistenza ai degenti, dimissioni programmate pazienti, trasmissione consegne reparti di degenza pomeriggio (due diversi reparti) lunedì-venerdì 14,00-16,00 (attività organizzative, amministrative e burocratiche svolte anche oltre orario) 2 assistenza ai degenti, dimissioni pazienti reparti di degenza notte lunedì-domenica 20,30-8.30 1-a assistenza ai degenti, ricoveri urgenti da ps aziendale, ps altri ospedali e altri ospedali ps aziendale mattino lunedì-domenica 8,30-14,00 1-b pazienti inviati da ps aziendale, altri ps e altri ospedali, visite urgenti, altre prestazioni urgenti ps aziendale pomeriggio lunedì-domenica 13,00-20,30 1-c pazienti inviati da ps aziendale, altri ps e altri ospedali, visite urgenti, altre prestazioni urgenti ps aziendale notte lunedì-domenica 20,30-8,30 1-a pazienti inviati da ps aziendale, altri ps e altri ospedali, visite urgenti, altre prestazioni urgenti ambulatori specialistici aziendali mattino (due diversi ambulatori) lunedì-venerdì 8,30-14,00 (attività organizzative, amministrative e burocratiche svolte anche oltre orario) 2 due servizi aziendali dedicati, a carattere specialistico day-hospital e day-service aziendale lunedì-sabato 8,30-14,00 (attività organizzative, amministrative e burocratiche svolte anche oltre orario) 1 assistenza pazienti di day-hospital e pazienti di day-service dedicati, a carattere specialistico ambulatorio divisionale specialistico lunedì-venerdì 8,30-14,00 1-b visite specialistiche prenotate su richiesta di mmg, cup metropolitano, consulenze per altri reparti e servizi aziendali, visite specialistiche post-dimissione programmate consulenze specialistiche mattino lunedì-sabato 8,30-14,00 1-b consulenze espletate al letto presso l’azienda, e presso irccs convenzionato cittadino consulenze specialistiche pomeriggio lunedì-sabato non orario specifico (consulenze urgenti, oppure prestazioni precedentemente concordate) (1) consulenze espletate al letto del paziente presso l’azienda, presso irccs convenzionato cittadino, e altre strutture convenzionate (l’attività è stata conteggiata come “turno di servizio” se sono state effettuate almeno due consulenze pomeridiane-serali) guardia diurna lunedì-sabato 13,00-20,30 1-c pazienti inviati da ps aziendale, altri ps e altri ospedali, visite urgenti, altre prestazioni urgenti, ricoveri ospedalieri urgenti e programmati, dimissioni urgenti e programmate; nei pomeriggi da lunedì a venerdì, nel sabato mattino e pomeriggio, e nei festivi, assistenza nei reparti di degenza giorni festivi e y periodo estivo (24 ore) domenica e festivi 8,30-20,30 guardia notturna lunedì-domenica 20,30-8,30 1-a pazienti inviati da ps aziendale, altri ps e altri ospedali, visite urgenti, altre prestazioni urgenti, ricoveri ospedalieri urgenti, assistenza nei reparti di degenza ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 149 r. manfredi in termini di continuità assistenziale, e di eventuali connessioni con risvolti speculativi e di ricerca. scendendo nello specifico, le attività assistenziali di reparto (presentate nelle prime tre colonne da sinistra della tabella ii), vedono la prevalenza di turni pomeridiani e notturni, espletati nella stragrande maggioranza dei casi anche in qualità di medico di guardia divisionale. il confronto tra il periodo di dipendenza universitaria, rispetto al precedente periodo di dipendenza ospedaliera, mostra un incremento statisticamente significativo dell’impegno assistenziale in reparto di degenza nei turni mattutini (p < 0,001) e pomeridiani (p < 0,001), mentre l’assistenza notturna non si è modificata significativamente nell’intero arco di tempo considerato. per quanto concerne le attività al servizio dei pronti soccorso, si nota un impegno pomeridiano nettamente aumentato (p < 0,001), e un invariato coinvolgimento nei turni notturni, dal confronto dei dati del più servizi espletati su base mensile dal professionista in oggetto. le analisi statistiche, quando appropriate, sono state effettuate con il test t di student, con il test del chi-quadro di mantelhaenszel (o con il fisher exact test), con livelli di significatività fissati per convenzione a valori di p < 0,05. risultati come si evince dall’insieme della tabella ii, il professionista in oggetto dall’anno 2002 fino ad oggi ha preso parte a tutte le differenti attività assistenziali in atto presso la divisione di appartenenza, come previsto dai piani di assistenza condivisi e dal regime di turnazione in atto presso tale struttura. proprio per questo motivo, se estremamente ampio appare lo spettro di impegni clinicoassistenziali, per converso si presenta altrettanto disperso l’impegno profuso presso ciascun singolo servizio, ancor più se valutato tabella i distribuzione dei servizi assistenziali erogati dalla divisione a cui il professionista appartiene, nell ’intero arco di tempo considerato (2002-2010) * l’indicazione in lettere che segue il numero di dirigenti medici impegnati nello specifico servizio, serve a sottolineare che la stessa unità professionale svolge diversi servizi (es. il professionista “1-a” svolge contemporaneamente o in successione i diversi servizi assistenziali elencati. nello specifico del dirigente identificato come 1-(d), l’acronimo specifica che a seconda dei piani di servizio settimanali, le due attività assistenziali a fianco specificate possono essere svolte da due professionisti differenti, o essere “conglobate” nell’attività di un singolo dirigente medico, contemporaneamente o in successione cronologica. servizi di natura esclusivamente assistenziale giornate di programmazione dei servizi assistenziali ai pazienti orari minimi dei servizi ai pazienti (a cui si aggiungono attività organizzative, amministrative e burocratiche, programmate e urgenti) dirigenti medici impegnati (n.)* alcune specifiche delle attività assistenziali erogate ai pazienti e alle strutture reperibilità per due altri ospedali metropolitani lunedì-venerdì sabato domenica e festivi 16,00-8,30 14,00-8,30 8,30-8,30 (24 ore) 1 servizio di pronta disponibilità a favore di ps, medicina d’urgenza, e altri servizi, per altri due ospedali metropolitani (dopo l’orario di chiusura dei nostri servizi specialistici dislocati presso uno di questi due ospedali metropolitani; vedi oltre) attività specialistica svolta presso un altro ospedale metropolitano ambulatorio y specialistico lunedì-sabato mercoledì 8,30-14,00 15,00-19,00 (attività organizzative, amministrative e burocratiche svolte anche oltre orario) 1-d 1-(d) visite specialistiche presso ambulatorio dedicato, visite prenotate su richiesta mmg, cup metropolitano, consulenze da ps dei due ospedali metropolitani day-hospital y e day-service specialistico lunedì-sabato 8,30-14,00 (attività organizzative, amministrative e burocratiche svolte anche oltre orario) 1-(d) assistenza pazienti di day-hospital e day-service dedicati, a carattere specialistico servizi y territoriali svolti a favore dell’azienda usl metropolitana lunedì-venerdì 8,30-16,00 (attività organizzative, amministrative e burocratiche svolte anche oltre orario) 1 valutazione e visite pazienti in assistenza domiciliare, visite presso casa alloggio specialistica (situata in altro comune, a 26 km di distanza), consulenze infettivologiche presso casa circondariale metropolitana, consulenze infettivologiche presso centro sociale diurno metropolitano (lunedì-venerdì, ore 9,00-13,00). consulenze espletate al letto presso i due ospedali metropolitani ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4)150 medicina universitaria in italia: un “caso clinico” emblematico di molte criticità irrisolte m es e/ an no e s er vi zi a ss is te nz ia li re pa rt o m at ti no re pa rt o po m er ig gi o re pa rt o no tt e ps m at ti no ps p om er ig gi o ps n ot te am bu la to ri o sp ec ia lis ti co m at ti no am bu la to ri o sp ec ia lis ti co p om er ri gg io da yho sp it al /d ay -s er vi ce am bu la to ri o sp ec ia lis ti co d iv is io na le co ns ul en ze a l l et to m at ti no co ns ul en ze a l l et to p om er ig gi o gu ar di a gi or no ( se d i 1 2 or e) gu ar di a no tt e re pe ri bi lit à (s e fe st iv i, 24 o re ) te rr it or io , a ss is te nz a do m ic ili ar e, co ns ul en ze a l l et to a lt ri o sp ed al i gi or na te d i p re se nz a gi or na te d i a ss en za ( gi or ni d i m is si on e) gi on at e di m al at ti a (o a lt re a ss en ze ) anno 2002 (7 mesi) (1/6 31 /12)* 12 16 17 14 13 17 9 5 68 4 14 0 13 (3) 17 15 (2) 0 124 90 (4) 2 (lutto) anno 2002*, giorni valutabili 214, ore di guardia totali 5.136, ore di guardia professionista allo studio 278,5 (7,37%) anno 2003 33 42 32 44 26 32 42 1 73 30 35 3 26 (4) 32 27 (4) 1 235 130 (18) 3 (lutto) anno 2003, giorni 365, ore di guardia totali 8.760, ore di guardia professionista allo studio 821 (9,37%) anno 2004 19 33 34 43 28 34 78 3 39 34 39 8 25 (6) 34 29 (4) 1 248 117 (14) 0 anno 2004, giorni 366, ore di guardia totali 8.784, ore di guardia professionista allo studio 854,5 (9,73%) gen-set 2005 10 18 33 51 22 33 66 0 45 43 54 12 18 (6) 33 27 (4) 4 215 68 (7) 0 ott-dic 2005 1 6 5 11 7 5 17 1 11 10 10 0 6 (1) 5 11 (5) 0 53 29 (12) 0 anno 2005 11 24 38 62 29 38 83 1 56 53 64 12 24 (7) 38 38 (9) 4 268 97 (19) 0 anno 2005, giorni 365 (attività mista ospedaliero-universitaria), ore di guardia totali 8.760, ore di guardia professionista allo studio 1.014 (11,58%) anno 2006 52 77 30 26 38 30 54 3 21 22 31 26 35 (8) 30 40 (12) 2 271 94 (20) 0 anno 2006, giorni 365, ore di guardia totali 8.760, ore di guardia professionista allo studio 788 (9,0%) anno 2007 59 81 35 48 44 35 68 3 21 37 48 30 41 (12) 35 30 (4) 2 282 83 (26) 0 anno 2007, giorni 365, ore di guardia totali 8.760, ore di guardia professionista allo studio 1.014 (11,58%) anno 2008 42 80 36 30 55 36 54 3 27 18 42 11 55 (10) 36 32 (9) 0 316 50 (14) 0 anno 2008, giorni 366, ore di guardia totali 8.784, ore di guardia professionista allo studio 1.009,5 (11,49%) anno 2009 17 55 36 46 52 36 45 1 24 29 36 7 52 (14) 36 23 (7) 0 291 74 (23) 0 anno 2009, giorni 365, ore di guardia totali 8.760, ore di guardia professionista allo studio 1.088,5 (12,43%) gen-feb 2010 4 8 7 5 8 7 21 0 3 5 5 0 8 (2) 8 2 0 56 5 (2) 0 anno 2010 4 8 7 5 8 7 21 0 3 5 5 0 8 (2) 8 2 0 56 5 (2) 0 anno 2010 (gennaio-febbraio), giorni 59, ore di guardia totali 1.416, ore di guardia professionista allo studio 171,5 (12,11%) 40 mesi, medico ospedaliero (numero assoluto, e media per mese) 74 109 116 152 89 116 195 9 225 111 142 23 82 (19) 116 98 (14) 6 822 405 (43) 5 (5) 1,85 2,72 2,90 3,80° 2,22 2,90 4,88 0,22 5,62° 2,77 3,55 0,57 2,05 (0,47) 2,90 2,45 (0,35) 0,15 23,62 6,79 (1,08) 0,12 (lutto) 53 mesi, medico universitario (numero assoluto, e media per mese) 186 307 149 166 204 149 259 11 107 121 172 74 197 (47) 149 138 (37) 4 1.269 335 (97) 0 3,51° 5,79° 2,81 3,13 3,85° 2,81 4,89 0,21 2,02 2,28 3,25 1,40° 3,72° (0,89)° 2,81 2,60 (0,70)° 0,08 23,94 6,32 (1,83)° 0,00 tabella ii distribuzione delle attività di servizio a carattere puramente ed esclusivamente assistenziale espletate dal professionista in oggetto, nell ’arco di tempo compreso tra giugno 2002 e febbraio 2010 (compresi). le attività assistenziali svolte durante il periodo di dipendenza dall ’azienda ospedaliero-universitaria in qualità di dirigente medico sono riportate in colore nero, mentre le stesse attività espletate dopo il passaggio dello stesso sanitario nei ruoli della locale università degli studi sono evidenziati in colore blu. nelle ultime due righe, sono riassunti (in valore assoluto, e come media mensile), i servizi prestati presso le diverse strutture specialistiche della medesima divisione, confrontando direttamente i dati relativi ai 40 mesi trascorsi in qualità di dirigente medico ospedaliero (2002-settembre 2005), con i successivi 52 mesi passati in funzione di professore universitario di seconda fascia, con afferenza alla medesima divisione per la attività assistenziali (ottobre 2005-febbraio 2010). * anno 2002: in termini di organico del personale medico e di organizzazione dei servizi assistenziali, calcolato come confrontabile con gli anni successivi soltanto il periodo di 7 mesi successivo all’unificazione delle due divisioni specialistiche pre-esistenti (dall’1/6/2002 al 31/12/2002, e negli anni successivi) (v. sezione “materiali e metodi”) ° differenza che risulta statisticamente significativa tra un arco temporale e l’altro periodo di confronto (medico ospedaliero versus medico universitario) (valori di p compresi tra p < 0,02 e p < 0,0001 – student t test), a favore della variabile evidenziata in grassetto ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 151 r. manfredi su 24, e propri delle sole giornate festive (p < 0,001). modesto e non confrontabile tra i due periodi appare invece l’apporto del professionista suddetto alle attività svolte nell’ambito territoriale (es. consulenze specialistiche a favore degli altri due ospedali generali cittadini, e servizi sul territorio), in cui non si notano variazioni temporali statisticamente significative. come accennato in precedenza, in continua, costante ascesa appare l’apporto del professionista in oggetto ai turni di guardia attiva, diurna e notturna nel loro complesso (nel corso dei quali si gestiscono le urgenze sotto ogni forma, nonché le attività di consulenza dai pronti soccorso e quelle di ricovero programmato e di ricovero urgente). dalla tabella ii si evince infatti come il professionista abbia prestato tali compiti per il 7,37% delle monte-ore di guardia dell’intera équipe di 15 sanitari nel corso del primo anno di osservazione (2002), e che tale percentuale sia andata salendo anche nel corso del passaggio dalla dipendenza ospedaliera e quella universitaria, fino ad attestarsi a oltre il 12% del monte-ore di guardia prestate dall’intera équipe nel periodo più recente (anni 2009-2010). anche tali servizi di guardia attiva, se da un lato consentono al professionista di mantenere pieno contatto con l’epidemiologia e la clinica attuali, dall’altro restringono drasticamente gli spazi dedicati a implementare un’attività universitaria di qualche rilevanza. considerando infine nel loro complesso le giornate di presenza e quelle di assenza dai servizi a carattere puramente assistenziale (presentati nelle ultime tre colonne a destra della tabella ii), non si evidenziano differenze statisticamente significative tra i due periodi (53 mesi di dipendenza universitaria, versus 40 mesi di dipendenza ospedaliera), con una media mensile di giorni di presenza che si attesta poco al di sotto dei 24 giorni al mese. le giornate di assenza dai servizi si caratterizzano nel periodo universitario per un’ulteriore, seppure modesta riduzione: enucleando dalle giornate di assenza complessive quelle dovute a “missioni” (es. partecipazione ad attività di corsi e congressi, altri incarichi istituzionali, ecc.), si osserva un incremento (p < 0,005) nel corso del periodo universitario, da ascrivere per lo più ad attività istituzionali indifferibili. da sottolineare infine la totale, assoluta assenza di giorni di malattia, mai fruiti nell’intero arco di tempo considerato (anni 2002-2010) (tabella ii). recente periodo universitario, versus gli anni di servizio ospedaliero. del tutto immodificata tra i due periodi in studio appare invece la partecipazione del professionista ai turni di ambulatorio specialistico, che restano comunque numericamente contenuti a meno di 5 giorni mensili, in media (da notare che a tali ambulatori afferiscono i pazienti seguiti sistematicamente per patologie croniche, maggiormente oggetto di eventuali studi clinici e protocolli sperimentali). risulta invece ridotta nel tempo (periodo universitario) l’attività assistenziale erogata in regime di day-hospital e di day-service (p < 0,001), così come l’attività di ambulatorio divisionale, seppure in misura statisticamente meno evidente (p < 0,02). quanto all’attività di consulenza specialistica al letto del malato espletata presso altre divisioni e altri ospedali, la modesta riduzione osservata nelle consulenze effettuate al mattino (ns), è bilanciata da un significativo incremento delle prestazioni svolte nel pomeriggio (p < 0,001), che rappresentano la spia delle difficoltà di assicurare la presenza al letto di degenti che si trovano presso altre divisioni e altre strutture nelle ore del mattino. venendo ora alla disamina delle attività di guardia diurna (pomeridiana: ore 13,0020,30), si nota un significativo incremento nel corso dei 53 mesi universitari, rispetto ai 40 mesi ospedalieri (p < 0,001), che dà ragione dell’effettuazione di un turno di guardia per ogni settimana, in media, negli anni più recenti. tale incremento intervenuto nel periodo universitario riguarda anche le attività di guardia giornaliera di durata prolungata a 12 ore, che concerne per organizzazione interna i giorni festivi e il periodo estivo (trimestre 15 giugno-15 settembre) (p < 0,001). riguardo ai turni di guardia notturna (ore 20,30-8,30), non si notano invece modificazioni rilevanti tra i due periodi allo studio, nel corso dei quali il professionista ha espletato sempre poco meno di tre guardie notturne in media, per ciascun mese di servizio. per quanto concerne i servizi di pronta disponibilità (c.d. “reperibilità”), se non si notano differenze significative tra i due periodi in esame per quanto riguarda il numero complessivo di turni prestati, emerge un raddoppio dei turni di reperibilità effettuati nel periodo di servizio universitario rispetto a quello ospedaliero, enucleando il sottogruppo dei turni erogati per 24 ore ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4)152 medicina universitaria in italia: un “caso clinico” emblematico di molte criticità irrisolte scontra in ambienti di lavoro ove, accanto alla specializzazione e alla professionalità dell’intera équipe, l’incombente necessità di assicurare i servizi assistenziali secondo turni di lavoro mutuamente condivisi tende a uniformare le prerogative dei singoli a favore delle prestazioni complessive fornite dalla divisione e dell’azienda, “spersonalizzando” inevitabilmente l’operato e gli obiettivi dei singoli professionisti, che hanno il vantaggio di sommare indistintamente le loro attività assistenziali a quelle svolte dai colleghi, in una prestazione che potremmo definire “di gruppo” o divisionale (come evidenziato in particolare per l’assistenza erogata a favore dei servizi di pronto soccorso), ma assistono forzatamente al loro “annullamento” come singoli professionisti, laddove alla logica del “sanitario di riferimento” si sostituisce sempre più quella della “struttura di riferimento”. non per nulla questo modello organizzativo appare quello largamente prevalente nell’erogazione delle prestazioni sanitarie ad opera delle aziende sanitarie e delle aziende ospedaliere italiane, in quanto apparentemente salvaguarda una sorta di equità nella distribuzione dei carichi e degli orari di lavoro e di servizio sulla base di turni condivisi e garantiti dalla direzione, e garantisce ai singoli professionisti una sorta di alternanza nelle attività assistenziali, che in molti casi gioca a favore di un’assistenza di équipe, laddove la gestione assistenziale nella sua complessità e il caso clinico singolo vengono presi in carico dall’intera squadra assistenziale, che assume quindi cura nel suo insieme le eventuali criticità cliniche e gestionali. sull’altro versante, come è facilmente prevedibile, soprattutto nell’ottica del singolo paziente e dei familiari, un’assistenza di équipe tende a far perdere di vista le peculiarità personali, e inevitabilmente indebolisce e mina il rapporto medico-paziente, che tanta importanza riveste proprio nella cura di patologie croniche, a evoluzione potenzialmente grave e mortale [7,8]. sul versante della medicina universitaria, laddove si richiede al “medico universitario” di fondere indissolubilmente le proprie attività assistenziali con quelle di didattica, formative, di tutoraggio, e ancor più di ricerca, appare fin troppo evidente che la debordante attività di cura e la sua frammentazione basata sulla turnistica delle attività prestate ai malati siano foriere di conseguenze estremamente deleterie sui compiti istituzionalmente assegnati alla medicina universitaria, discussione dall’estrema frammentazione delle attività assistenziali espletate dal professionista oggetto del presente studio, ricomprese nell’intero arco delle numerose e variegate prestazioni fornite dalla divisione ospedaliero-universitaria in oggetto, si evince come prima considerazione che, sul versante organizzativo, a tutti i sanitari viene consentito di occuparsi di tutti i servizi e di tutte le patologie, il che, se da un lato favorisce un approccio olistico all’intera disciplina nelle sue più diverse sfaccettature organizzative e assistenziali, dall’altro rende virtualmente impraticabile assicurare una gestione continuativa dei diversi settori operativi, e rende pressoché impossibile il mantenimento di una continuità assistenziale nello specifico rapporto medico-paziente (salvaguardato soltanto in sede di degenza ordinaria, e parzialmente nelle attività di day-hospital e day-service). sul versante puramente assistenziale, se l’obiettivo comune di voler costruire e mantenere un’équipe in cui tutti i professionisti medici “sappiano fare tutto” allo scopo di preservare l’orizzonte più ampio possibile sulla casistica ospedaliera e territoriale e sulle diverse attività assistenziali, diviene nel contempo inevitabile restringere (e quindi mortificare), non soltanto lo sviluppo e il mantenimento di relazioni biunivoche medico-paziente-(parenti) (che nell’ambito della gestione di numerose patologie croniche a evoluzione potenzialmente severa e mortale presenta un’elevata importanza, nel garantire il massimo successo terapeutico in termini di compliance e di creazione di rapporti di fiducia) [7,8], ma anche l’eventuale implementazione di percorsi di maturazione professionale, e ancor più di attività di ricerca di base, e di ricerca clinica (le quali necessiterebbero una sempre maggiore concentrazione del medico specialista su un settore clinico-assistenziale sufficientemente delineato e demarcato, tale da poter consentire approfondimenti scientifici e speculativi, e da poter supportare attraverso specifiche collaborazioni con altri professionisti e con laboratori di ricerca). considerata nel suo insieme, l’attività assistenziale prestata dal professionista in oggetto in un arco di tempo sufficientemente ampio (quasi otto anni), e presso la medesima divisione della stessa azienda ospedaliero-universitaria, appare quindi pienamente esemplificativa di quanto si ri©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 153 r. manfredi alla luce delle contingenti difficoltà e delle ristrettezze economiche e di personale. oltre che sul piano dell’integrazione tra attività ospedaliera e attività universitaria (attualmente giunte ai limiti dell’inconciliabilità), e al di là della diuturna mortificazione della produttività scientifica e dell’azione accademica, in campo prettamente ergonomico c’è da sottolineare la crescente incompatibilità tra carichi di lavoro sempre più abbondanti, variegati, e non coordinati tra loro, e la necessità dettata dalla dipendenza universitaria di dover rendere conto alla propria direzione e ai propri organi accademici di attività di altra natura, prevalentemente di ricerca e di sviluppo, piuttosto che assistenziale. superfluo appare quindi ricordare quanto questo conflitto di interessi del tutto interno ai singoli professionisti e quindi quanto mai paradossale, quando lo stesso professionista è tenuto a indossare sia la casacca dell’ospedaliero sia la casacca dell’universitario, nell’impossibilità di dilatare i tempi a disposizione (le giornate durano sempre e soltanto 24 ore), sia foriero di un senso di frustrazione personale e professionale, sia responsabile di un discutibile uso delle risorse umane disponibili (se il personale universitario si trova nella necessità di svolgere una prevalente attività assistenziale, esso vede gravemente minato il suo orizzonte scientifico e di ricerca e il suo avanzamento di carriera), e possa avere ricadute anche di pertinenza di medicina del lavoro ed ergonomica, che possono spesso conclamarsi su versanti francamente patologici. da molti anni sono oramai noti e ampiamente discussi stati di disadattamento dovuti all’incalzare di turni di assistenza a cui si cerca di intercalare le attività scientifiche e didattiche [6], fino ad assistere all’emergere di veri e propri rischi per la salute dei singoli professionisti della sanità a ogni livello professionale, ivi compresi gli specialisti in formazione [10]. tali fenomeni riguardano anche strutture ambulatoriali (outpatient clinics del mondo anglosassone), oltre che il classico ambiente ospedaliero [4,11], e sono direttamente o indirettamente connessi alla prolungata presenza sul posto di lavoro, oppure al trasferimento forzoso in ambito domestico della maggior parte delle attività di aggiornamento e di ricerca per cui non sia possibile trovare spazio e tempo quando ci si trovi impegnati con le attività puramente assistenziali sul luogo di lavoro, fino alle difficoltà relazionali ed esistenziali, certamente di difficile misurazione e catalogazione, ma che si vede sempre di più ristretta in tempi e in spazi lasciati liberi dalle molteplici attività assistenziali e dalle relative, inderogabili azioni burocratiche, organizzative e manageriali, che molto spesso travalicano di gran lunga anche gli orari dedicati dal professionista all’assistenza diretta ai malati (tabella i). il caso del professionista preso in oggetto appare a questo proposito paradossale nella sua emblematicità. se nel corso dei 40 mesi di attività in qualità di medico ospedaliero restavano modesti spiragli di tempo e di lucidità da poter dedicare ad attività speculative e scientifiche non istituzionalmente richieste come indispensabili, e che spesso rappresentavano atti di riflessione e di ripensamento delle modalità assistenziali del singolo sanitario e dell’équipe di appartenenza, proprio a seguito del passaggio del medesimo professionista a una qualifica universitaria, nei successivi 53 mesi l’incalzare delle attività di routine clinico-assistenziali richieste con frequenza crescente (e svolte con estrema disponibilità e sollecitudine dal professionista stesso, che manifesta pieno entusiasmo nell’offrire la propria quotidiana disponibilità e collaborazione), finiscono con l’azzerare materialmente i tempi da poter dedicare ad attività di didattica, di tutoraggio, e ancor più di progettazione e di ricerca scientifica. come è noto, queste attività si fondano su una rigorosa pianificazione, sul supporto di un’équipe, di un’azione multidisciplinare, e preferibilmente su collaborazioni nazionali e internazionali, onde raggiungere livelli quantomeno di sufficienza. è superfluo sottolineare che i docenti universitari (a qualunque disciplina essi appartengano) sono valutati più per la loro attività accademica che per quella assistenziale (che rappresenta invece una prerogativa della medicina ospedaliera). senza dover giungere ai fin troppo abusati aforismi di anglosassona memoria (di cui è patognomonica l’espressione publish or perish, recentemente discussa anche in memorie scritte su periodici di medicina del lavoro [9]), il mancato raggiungimento di traguardi di ricerca e la mancata pubblicazione di studi scientifici adeguati in termini di qualità e di quantità ostacola ogni progressione di carriera, e soprattutto tende a ridurre ulteriormente i già risicati fondi a disposizione, aggravando in tal modo il circolo vizioso in cui una larga fetta della medicina universitaria rischia di essere trascinata sempre più, ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4)154 medicina universitaria in italia: un “caso clinico” emblematico di molte criticità irrisolte ni e settimanali di carattere di volta in volta ospedaliero oppure universitario nell’ambito delle 38 ore di servizio settimanale da assicurare secondo i termini contrattuali [1-3], al fine di tentare di salvaguardare le attività scientifiche-didattiche dalla crescente pressione dei compiti clinico-assistenziali, amministrativi e burocratici, il presupposto di questo breve scritto è quello di limitarsi a suscitare un dibattito circa il ruolo, i compiti, e i fini della medicina universitaria in italia a tutt’oggi. ci si auspica che la buona volontà e il buon senso di tutti i singoli operatori e di tutte le singole istituzioni coinvolte (essenzialmente università ed aziende ospedaliero-universitarie) portino a trovare un canovaccio d’intesa per valorizzare le risorse dei loro professionisti, approfittando delle personalità e delle capacità scientifiche, didattiche, assistenziali e organizzative dei singoli e delle équipe, e senza trascurare nel contempo gli altrettanto cogenti e complessi compiti relativi all’erogazione delle cure ai pazienti, che contemplano a loro volta responsabilità e competenze estremamente delicate, e un’organizzazione dedicata da parte dei medesimi professionisti. questa sorta di laboratorio sperimentale si può e si deve realizzare tipicamente nelle aziende miste, a componente sia universitaria, sia ospedaliera, e negli istituti di ricerca e cura e carattere scientifico legalmente riconosciuti (irccs), e può costituire un’opportunità di rinnovo di un’integrazione attraverso un percorso condiviso, in grado di garantire ai responsabili di struttura, ai singoli professionisti, ai pazienti assistiti, e all’intera collettività, un percorso di crescita e di massima valorizzazione delle risorse sanitarie, professionali, scientifiche, economiche, e ancor più delle risorse umane ed etiche, che stanno alla base della medicina, intesa come scienza olistica. disclosure l’autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito agli argomenti trattati nel presente articolo. che minano profondamente l’esistenza di professionisti a cui vengono affidati compiti probabilmente troppo rilevanti, talora di taglio organizzativo-manageriale più che sanitario in senso stretto, e comunque troppo pressanti, in base al tempo e ai mezzi disponibili [4,5; 10-14]. da indagini svolte in italia e in altri paesi, tali professionisti lamentano soprattutto di sentirsi sottoposti a (e spesso sopraffatti da) richieste di intervento e di prestazione d’opera spesso incoerenti tra loro, se non addirittura apertamente conflittuali [15]. infatti, è purtroppo la sempre più debordante attività clinicoassistenziale e burocratica a richiedere di comprimere necessariamente tutte le risorse accademiche e di ricerca, che a fronte di necessità contingenti e impellenti vengono di mano in mano rimandate, ristrette nei loro orizzonti, o limitate per forzata mancanza di mezzi, e ancor più di tempo disponibile e di un sufficiente stato di efficienza fisica e di lucidità mentale. a partire da situazioni di forte disagio e di disadattamento psico-sociale createsi nell’ambiente di lavoro, non è difficile notare per un inevitabile effetto di “trascinamento” l’instaurarsi di vere e proprie patologie organiche (tra cui prevalgono quelle legate alle modificazioni forzose dei ritmi circadiani, quali quello sonno-veglia, il ciclo mestruale, e le funzioni ormonali e di omeostasi nel senso più lato del termine) [10], che rendono ancora più complesso conciliare le realtà lavorative con l’universo degli affetti, della famiglia, e dell’intera società [5,11,14,15], rispetto alla quale i professionisti della sanità tendono a configurarsi sempre più come “alieni”. al di là della disamina di documenti a carattere puramente amministrativo, organizzativo, economico e regolatorio relativi allo status dei medici universitari a livello nazionale [3], a livello dei servizi sanitari regionali [1], e a livello delle singole realtà ospedaliero-universitarie locali [2] (che esula totalmente dagli scopi di queste riflessioni), e al di là del talora illusorio e probabilmente meschino tentativo di voler suddividere rigorosamente gli inscindibili impegni quotidia©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 155 r. manfredi bibliografia accordo in attuazione del protocollo d’intesa tra regione ed università dell’emilia-romagna, 1. per le attività assistenziali (25 maggio 1999) accordo tra l’università degli studi di bologna e l’azienda ospedaliera policlinico s. orsola-2. malpighi sulla rilevazione del debito orario del personale universitario equiparato alla dirigenza sanitaria (26 febbraio 2002) decreto legislativo n. 517 (21 dicembre 1999). disciplina dei rapporti fra servizio sanitario 3. nazionale ed università, a norma dell’articolo 6 della legge 30 novembre 1998, n. 419. gazzetta ufficiale 2000; 8 (suppl. ordinario 10) chin mh, kirchhoff ac, schlotthauer ae, graber je, brown se, rimington a et al. sustaining 4. quality improvement in community health centers: perceptions of leaders and staff. j ambul care manag 2008; 31: 319-29 toffoletto f, latocca r. atti del convegno “stress e attività lavorativa”. 5. g ital med lav erg 2009; 31: 185-235 udasin ig. health care workers. 6. prim care 2000; 27: 1079-102 fuertes jn, mislovack a, bennett j, paul l, gilbert tc, fontan g et al. the physician-patient 7. working alliance. patient educ couns 2007; 66: 29-36 niu k, chen l, jenich h. the relationship between chronic and non-chronic trends. 8. popul health manag 2009; 12: 31-8 franco g. publish or perish: the scientific productivity of academics in the field of occupational 9. medicine. med lav 2009; 100: 163-70 papp kk, stoller ep, sage p, aikens je, owens j, avidan a et al. the effects of sleep loss and 10. fatigue on resident-physicians: a multi-institutional, mixed-method study. acad med 2004; 79: 394-406 linzer m, manwell lb, williams es, bobula ja, brown rl, varkey ab et al. working conditions 11. in primary care: physician reactions and care quality. ann intern med 2009; 151: 28-36 buselli r, pacciardi b, gonnelli c, novi m, gattini v, guglielmi g et al. supporto psichiatrico 12. ai lavoratori della sanità sottoposti a sorveglianza sanitaria periodica. g ital med lav erg 2009; 31: 149-53 gottardi g. lo stress lavoro-correlato: il recepimento dell’accordo quadro europeo. 13. guida al lavoro 2008; 26: 20-4 pisanti r. an empirical investigation of the demand-control-social support model: effects on 14. burnout and on somatic complaints among nursing staff. g ital med lav erg 2007; 29 (1 suppl. a): a30-6 siegrist j. adverse health effects on high effort-low reward conditions at work. 15. j occupational health psychol 1996; 1: 27-43 135 clinical management issues i fattori di rischio dell’ictus giovanile sono eterogenei: in sintesi, tra le cause note di ictus, la vasculopatia aterosclerotica è generalmente riconducibile a un fattore di rischio cardiovascolare riconosciuto, l’embolia cardiogena è dovuta essenzialmente alla cardiopatia reumatica o all’endocardite batterica e verrucosa oppure all’embolia paradossa introduzione le patologie cerebrovascolari si collocano al primo posto per frequenza e importanza tra le patologie neurologiche dell’età adulta [1]. per “ictus ischemico giovanile” si intende una sindrome neurologica improvvisa dovuta a patologia occlusiva dei vasi cerebrali, in soggetti adulti giovani tra 15 e 50 anni. una classificazione, utile per lo svolgimento di studi multicentrici, dei sottotipi di ictus ischemico in rapporto al loro meccanismo eziopatogenetico, è stata proposta dal gruppo toast [2]. i criteri toast classificano l’ictus ischemico in cinque categorie: aterosclerosi dei vasi di grosso calibro; y cardioembolia (possibile/probabile); y occlusione dei piccoli vasi; y ictus da cause diverse; y ictus da cause non determinate. y perché descriviamo questo caso il caso descritto è un esempio di ictus giovanile in cui fattori di rischio cerebrovascolari e cardiovascolari quali l ’ipertensione e il fumo di sigaretta si associano con l ’emicrania con aura. l’algoritmo diagnostico-terapeutico applicato dal nostro gruppo in questo specifico caso clinico prevede lo studio dei polimorfismi trombofilici, utili per delineare il background genetico della paziente corresponding authordott.ssa linda iurato lindaiurato@yahoo.it caso clinico abstract we report the case of a 48-year-old female patient with stroke family history that was admitted in our ward with suspected ischemic stroke diagnosis. the diagnostic process is described in detail, paying attention in particular to anamnestic data and to genetic polymorphisms related to higher risk for inherited thrombophilia. at the end, the diagnosis indicates red infarct in a migraine patient with cerebrovascular and cardiovascular risk factors of undetermined aetiology according to toast criteria. some of the known thrombophilic polymorphisms were found in the patient: however not all the mentioned thrombophilic markers are universally recognized as predisposing factors for arterial ischemic stroke. keywords: young stroke; thrombophilia; ischemic risk factors risk factors for young ischemic stroke and the enigma of trombophilic polymorphisms: a case report cmi 2011; 5(4): 135-143 1 uoc di neurologia, ospedale sant’ottone frangipane, asl avellino, ariano irpino 2 laboratorio di genetica medica, ospedale moscati, avellino 3 responsabile uos diagnostica cardiologica, ospedale sant’ottone frangipane, asl avellino 4 direttore servizio di emotrasfusione, ospedale sant’ottone frangipane, asl avellino, ariano irpino 5 direttore uoc radiologia, ospedale criscuoli, asl avellino, sant’angelo dei lombardi 6 direttore distretto sanitario di mirabella, asl avellino, mirabella eclano 7 direttore uoc di neurologia, asl avellino, ariano irpino linda iurato 1, marialuisa ventruto 2, maria adalgisa police 2, alessandro morella 3, alfonso fortunato 4, lanfranco musto 5, patrizia fiori 1, mario nicola vittorio ferrante 6, antonio monaco 7 i fattori di rischio nell’ictus giovanile e l’enigma dei polimorfismi trombofilici: descrizione di un caso clinico 136 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) i fattori di rischio nell’ictus giovanile e l’enigma dei polimorfismi trombofilici: descrizione di un caso clinico o alle protesi valvolari, le vasculopatie non aterosclerotiche sono associate a vasculiti, a traumi arteriosi, a dissecazione “spontanea” della carotide, a moyamoya, lupus eritematoso o farmaco-indotte, ecc. stati di ipercoagulabilità possono essere dovuti all’uso di contraccettivi orali, al puerperio o alla presenza di anticorpi antifosfolipidi o anticardiolipina (lupus anticoagulant – lac) soprattutto in donne tra 30 e 40 anni, senza lupus manifesto. i disturbi trombofilici sono deficit proteici parziali causati da mutazioni eterozigoti dei geni che codificano fattori proteici importanti nella cascata della coagulazione (antitrombina iii, proteine s e c) e disturbi della stabilità del coagulo (resistenza alla proteina c attivata o mutazione del fattore v di leiden, mutazioni della protrombina ed eccesso di fattore viii). è in continua espansione la caratterizzazione nosografica degli ictus associati a disturbi genetici noti, che interessano il giovane adulto (tabella i). altre cause rare di ictus nei giovani sono: l’emicrania (l’associazione tra emicrania e “pillola” è particolarmente pericolosa), le patologie intestinali infiammatorie, la sifilide meningovascolare, l’infezione da hiv, la meningite fungina e tubercolare, l’abuso di droghe (soprattutto cocaina). descrizione del caso nella nostra unità operativa complessa di neurologia dal pronto soccorso dell’ospedale di solofra viene trasferita una donna di 48 anni, trovata priva di sensi nel bagno della propria abitazione dal marito, con diagnosi di sospetta ischemia cerebrale acuta. in anamnesi patologica remota, raccolta dai familiari, presenta una diagnosi di emicrania con aura e di ipertensione arteriosa, trattata farmacologicamente e un episodio di allergia da contatto alla tintura dei capelli. dall’anamnesi fisiologica risultano due episodi di eclampsia, un aborto spontaneo e il fumo (un pacchetto di sigarette al giorno). l’anamnesi familiare è positiva per cardiopatia ischemica, ipertensione e ictus: un fratello, all’età di 58 anni, è stato ricoverato in ambiente ospedaliero per ictus. la paziente è sposata, è madre di due figli e non utilizza contraccettivi orali. cause d’infarto venoso o arterioso gene ereditarietà resistenza alla proteina c attivata mutazione del fattore v di leiden ar protrombina 20210 protrombina ar deficit di proteina c gene della proteina c ar deficit di proteina s gene della proteina s ar aumento del fattore viii deficit del fattore di von willebrand ar deficit di antitrombina iii antitrombina iii ar deficit di plasminogeno attivatore del plasminogeno-1 ar lipoproteina (a) apolipoproteina (a) ar sindrome di marfan fibrillina 1 ad, 1/4 dei casi è sporadico malattia di fabry alfa-galattosidasi ar anemia falciforme geni globinici ar cofattore eparinico ii cofattore eparinico ii ar recettore del collagene piastrinico recettore collagene piastrinico ar fattore xii fattore xii ar fosfodiesterasi 4d fosfodiesterasi 4d complessa cadasil notch 3 ad iperomocisteinemia metilene tetraidrofolato reduttasi ar omocisteinemia omocisteina metil-trasferasi ar omocisteinemia cistatione beta-sintasi malattia di ehlers-danlos gene del procollagene iii ad melas (mitocondriale) mtdna materna tabella i. ictus associato a disturbi genetici ad = autosomica dominante; ar = autosomica recessiva; melas = mitochondrial encephalomyopaty, lactic acidosis, and stroke-like episodes; mtdna = dna mitocondriale 137 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) l. iurato, m. ventruto, m. a. police, a. morella, a. fortunato, l. musto, et al all’ingresso in reparto la paziente è in coma, ha un punteggio “glasgow scale” di 8: quindi la paziente è soporosa, ha occhi chiusi, è risvegliabile agli stimoli nocicettivi, localizza lo stimolo doloroso, e l’eloquio è assente. dall’esame obiettivo neurologico risultano: cute integra, deviazione coniugata dello sguardo a sinistra, afasia mista, emiparesi facio-brachio-crurale destra, babinski presente a destra, oculomozione intrinseca nella norma, riflesso fotomotore conservato, non segni meningei. i seguenti parametri vitali monitorati risultano nella norma: frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, pa (pressione arteriosa), saturazione periferica, temperatura. i parametri vitali e due derivazioni elettrocardiografiche vengono monitorati durante la durata del coma (quattro giorni): non emergono né aritmie né disturbi di conduzione cardiaci. in effetti il monitoraggio elettrocardiografico (ecg) continuo è indicato dal gruppo spread [1] nelle prime 48 ore dall’esordio dell’ictus nei pazienti con una delle seguenti condizioni: cardiopatie preesistenti, storia di aritmie, pressione arteriosa instabile, elementi clinici suggestivi di insufficienza cardiaca, alterazioni dell’ecg di base e nei casi in cui siano coinvolti i territori profondi dell’arteria cerebrale media e in particolare la corteccia insulare. in caso di instabilità clinica il monitoraggio va proseguito oltre le 48 ore. il nostro gruppo effettua il monitoraggio ecg continuo in tutti i pazienti con ictus in coma, durante tutta la durata del coma, in quanto disponiamo in reparto di quattro posti letto con monitor per registrazione ecg continua e dei parametri vitali. la nostra paziente non ha avuto nessun episodio di fibrillazione atriale parossistica durante il periodo del monitoraggio ecg continuo, che è stato di quattro giorni. la paziente viene accettata nel nostro reparto con un’ecg, una tac encefalo ed esami di laboratorio di routine (emocromo, azotemia, glicemia, creatinina, bilirubina totale, transaminasi ast e alt, ldh – lattato deidrogenasi, ck – creatina chinasi, ck-mb – creatina chinasi isoenzima mb, mioglobina, sodiemia, potassiemia, pt – tempo di protrombina, inr – international normalized ratio, ptt – tempo di tromboplastina parziale) effettuati presso il pronto soccorso dell’ospedale di solfora. gli esami di laboratorio in nostro possesso sono nella norma, l’ecg mostra un ritmo sinusale normo-f requente e aspecifiche anomalie della fase di recupero (st stirato) in laterale, mentre la tac encefalo esclude alterazioni densitometriche di tipo emorragico ed evidenzia solo una tenue disomogeneità della sostanza bianca periventricolare e della regione nucleo-capsulare d’ambo i lati. programmiamo dunque un controllo tac encefalo, rx torace e ecg, un ecocardiogramma trans-toracico con consulenza cardiologica, un ecodoppler tsa (tronchi sovra-aortici), una risonanza magnetica (rm) encefalo con mdc e sequenze angiointracraniche e dei tronchi sovra-aortici, una batteria di esami di laboratorio, comprendenti colesterolo totale, trigliceridi, colesterolo ldl, colesterolo hdl, glicemia, screening per trombofilia (livelli di fibrinogeno, antitrombina, proteina c, proteina s, attività lac, anticorpi anticardiolipina), screening immunoreumatologico (anticorpi anti-nucleo – ana, anti-nucleo estraibili – ena, anti-antigeni dei neutrofili – canca e panca, livelli di c3 e c4). la batteria di esami di laboratorio, testata da noi, è nella norma. il controllo tac encefalo è eseguito dopo 24 ore di ricovero e mostra un’ipodensità parenchimale interessante il corpo striato di sinistra con areola centrale tenuemente iperdensa, che comprime il corno ventrale con leggero shift della linea mediana. tale quadro neuroradiologico è riferibile in prima ipotesi a focolaio ischemico subacuto con infarcimento ematico centrale. la rm encefalo con mdc e sequenze angio, eseguita al quarto giorno di ricovero, conferma la lesione ischemica con componente ematica centrale nel territorio dell’arteria cerebrale media di sinistra e la compressione del ventricolo omolaterale con millimetrica dislocazione controlaterale del iii ventricolo; il circolo cerebrale esaminato e i tronchi sovra-aortici sono nella norma. l’ecocardiocolordoppler evidenzia un ventricolo sinistro nei limiti della norma con normale stato contrattile e atrio sinistro nella norma, minimo rigurgito mitralico, ed esclude patologie valvolari, mostra sezioni cardiache destre nei limiti, ispessimento fibrotico del setto inter-atriale in assenza di shunt apprezzabile con metodica trans-toracica. le conclusioni della consulenza cardiologica sono: ipertensione arteriosa sistemica anamnestica da 7 anni, in terapia farmacologica domiciliare con sartanico, obiettività cardiaca negativa, buon compenso emodinamico, 138 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) i fattori di rischio nell’ictus giovanile e l’enigma dei polimorfismi trombofilici: descrizione di un caso clinico monitoraggio valori pressori e valutazione marker di ipercoagulabilità. abbiamo deciso di non effettuare durante il ricovero un ecocardiogramma transesofageo, metodica disponibile nel nostro presidio ospedaliero, in quanto l’ecocardiogramma transtoracico effettuato non ha evidenziato né un setto interatriale flottante né un aneurisma del setto interatriale: pertanto la probabilità di un effettivo shunt destro-sinistro risulta essere notevolmente bassa in questo specifico contesto clinico con un’evidenza morfologica di ispessimento del setto interatriale all’ecocardiogramma transtoracico. nel nostro ospedale non disponiamo di doppler transcranico, che è una metodica meno invasiva rispetto all’ecocardiogramma transesofageo, ma altrettanto utile per evidenziare uno shunt destro-sinistro, per cui abbiamo deciso di consigliare alla nostra paziente di effettuare un doppler transcranico in regime ambulatoriale in un altro ospedale della provincia di avellino. il doppler transcranico, effettuato ambulatorialmente, ha escluso, infatti, la presenza di forame ovale pervio nella nostra paziente. l’rx torace è nei limiti, l’ecg di controllo conferma il ritmo sinusale normofrequente e le anomalie aspecifiche della ripolarizzazione. l’ecotsa esclude sia dissecazioni dei tronchi sovra-aortici sia presenza di placche aterosclerotiche a livello delle carotidi interne; viene solo refertato un modesto ispessimento della parete arteriosa delle carotidi interne bilateralmente. la terapia effettuata in pronto soccorso all’esordio era: acido acetilsalicilico (asa) 1.000 mg 1 fiala ev alla dose di 1/3 di fiala in 250 cc di fisiologica, mannitolo al 20% alla dose 0,2 g pro kg, eparina a bassa peso molecolare 4.000 unità 1 fiala sc, ranitidina 1 fiala ev. il gruppo spread [1] ritiene adeguata una dose di 300 mg di asa in fase acuta per tutti i pazienti a esclusione di quelli candidati al trattamento trombolitico (nei quali può essere iniziato dopo 24 ore) o anticoagulante. i diuretici osmotici (mannitolo e glicerolo) non sono indicati nel trattamento sistematico dell’ictus ischemico acuto, ma vengono utilizzati nei pazienti in coma per il trattamento dell’edema cerebrale. il mannitolo al 20% viene utilizzato alla dose di 0,2-0,5 g/ kg e in tempi inferiori a cinque giorni. durante la terapia con agenti osmotici è necessario il controllo dell’emocromo, in quanto possono indurre emolisi, e dell’osmolalità, principale marker dello stato di idratazione del paziente. i più importanti effetti collaterali dei diuretici osmotici sono: l’ipotensione, l’ipokaliemia, l’insufficienza renale da iperosmolarità, l’emolisi e lo scompenso cardiaco. all’ingresso in reparto abbiamo confermato il protocollo terapeutico effettuato dal pronto soccorso dell’ospedale di solofra, che è stato successivamente modificato, dopo il referto della prima tac encefalo di controllo, che ha evidenziato l’infarto rosso, 24 ore dopo il ricovero: abbiamo sospeso l’acido acetilsalicilico ev e abbiamo aggiunto un antibiotico a largo spettro ev per la comparsa di puntate febbrili, solo nei primi tre giorni di ricovero (37°c-37,5°c). la paziente ha mostrato un outcome positivo nei 10 giorni di ricovero, con un miglioramento progressivo del livello di coscienza, fino a un punteggio “glasgow scale” di 15 (nella norma) al quinto giorno di ricovero con riduzione dell’ipostenia in emilato destro e miglioramento dell’eloquio. non è stata necessaria la nutrizione parenterale né tramite sondino naso-gastrico. la paziente ha praticato fisioterapia durante il ricovero ed è stata dimessa con indicazione di praticare ciclo di fisioterapia e di riabilitazione logopedica domiciliare, oltre a effettuare ambulatorialmente un doppler transcranico per escludere con certezza un forame ovale pervio. le conclusioni diagnostiche sono: infarto rosso, in paziente emicranica con fattori di rischio cerebrovascolari e cardiovascolari, a eziologia non determinata secondo i criteri toast. la paziente è stata indirizzata dopo la dimissione presso il laboratorio di genetica medica diretto dalla dott.ssa police, cittadella ospedaliera “moscati” di avellino, per l’analisi molecolare dei polimorfismi genici associati alla trombofilia. le varianti polimorfiche dei marcatori molecolari della trombofilia ereditaria indicano una “predisposizione” a un aumentato rischio di eventi trombotici, quindi è un esame che, in un determinato e specifico contesto clinico, può essere indicato in caso di trombosi arteriosa in giovane età. i polimorfismi esaminati sono: il fattore v (leiden)-g1691a e la mutazione h1299r, il polimorfismo g20210a della protrombina (fattore ii), il polimorfismo c677t e a1298c della mtfhr (metilentetraidrofolatoreduttasi), il polimorfismo (4g/5g) dell’inibitore dell’attività del plasminogeno 139 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) l. iurato, m. ventruto, m. a. police, a. morella, a. fortunato, l. musto, et al nel nostro caso clinico la paziente è ipertesa, fumatrice, ed è emicranica (emicrania con aura), e l’esame obiettivo generale esclude patologie rare. pertanto la presenza di due importanti fattori di rischio cerebrovascolare e cardiovascolare ci indirizza verso un sospetto di ictus da probabile vasculopatia aterosclerotica, mentre l’emicrania con aura ci induce a escludere l’ictus cardioembolico, soprattutto da forme ovale pervio. il forame ovale pervio può essere escluso da un ecocardiogramma transesofageo o da un doppler transcranico: questi esami possono essere programmati anche in regiparti del corpo segni obiettivi cute livedo racemosa y angiocheratomi y petecchie y papule y xantomi y fenomeno di raynaud y iperelasticità della cute y apparato muscolo-scheletrico “habitus marfanoide” y bassa statura y iposviluppo somatico y deformità scheletriche y iperlassità legamentosa y occhio uveite y strie neoangioidi retiniche y retinite pigmentosa y cataratta y opacità corneali y ectopia lentis y teleangectasie congiuntivali y ptosi y oftalmoparesi y apparato uditivo ipoacusia y nervo periferico polineuropatia y sistema endocrino ipogonadismo y ipotiroidismo y diabete mellito di tipo 1 y tabella ii. localizzazione e identità dei segni obiettivi da ricercare in quanto indici di possibili cause rare di malattia degenerativa arteriosclerotica principale marker dello stato di idratazione del paziente. i più importanti effetti collaterali dei diuretici osmotici sono: l’ipotensione, l’ipokaliemia, l’insufficienza renale da iperosmolarità, l’emolisi e lo scompenso cardiaco. all’ingresso in reparto abbiamo confermato il protocollo terapeutico effettuato dal pronto soccorso dell’ospedale di solofra, che è stato successivamente modificato, dopo il referto della prima tac encefalo di controllo, che ha evidenziato l’infarto rosso, 24 ore dopo il ricovero: abbiamo sospeso l’acido acetilsalicilico ev e abbiamo aggiunto un antibiotico a largo spettro ev per la comparsa di puntate febbrili, solo nei primi tre giorni di ricovero (37°c-37,5°c). la paziente ha mostrato un outcome positivo nei 10 giorni di ricovero, con un miglioramento progressivo del livello di coscienza, fino a un punteggio “glasgow scale” di 15 (nella norma) al quinto giorno di ricovero con riduzione dell’ipostenia in emilato destro e miglioramento dell’eloquio. non è stata necessaria la nutrizione parenterale né tramite sondino naso-gastrico. la paziente ha praticato fisioterapia durante il ricovero ed è stata dimessa con indicazione di praticare ciclo di fisioterapia e di riabilitazione logopedica domiciliare, oltre a effettuare ambulatorialmente un doppler transcranico per escludere con certezza un forame ovale pervio. le conclusioni diagnostiche sono: infarto rosso, in paziente emicranica con fattori di rischio cerebrovascolari e cardiovascolari, a eziologia non determinata secondo i criteri toast. la paziente è stata indirizzata dopo la dimissione presso il laboratorio di genetica medica diretto dalla dott.ssa police, cittadella ospedaliera “moscati” di avellino, per l’analisi molecolare dei polimorfismi genici associati alla trombofilia. le varianti polimorfiche dei marcatori molecolari della trombofilia ereditaria indicano una “predisposizione” a un aumentato rischio di eventi trombotici, quindi è un esame che, in un determinato e specifico contesto clinico, può essere indicato in caso di trombosi arteriosa in giovane età. i polimorfismi esaminati sono: il fattore v (leiden)-g1691a e la mutazione h1299r, il polimorfismo g20210a della protrombina (fattore ii), il polimorfismo c677t e a1298c della mtfhr (metilentetraidrofolatoreduttasi), il polimorfismo (4g/5g) dell’inibitore dell’attività del plasminogeno fattori di rischio per ischemia cerebrale modificabili ben documentati ipertensione arteriosa y alcune cardiopatie y diabete mellito y iperomocisteinemia y ipertrofia ventricolare sinistra y stenosi carotidea y fumo di sigaretta y eccessivo consumo di alcol y ridotta attività fisica y dieta y (pai), il polimorfismo del gpiii (glicoproteina associata alle piastrine), i polimorfismi di tipo ins/del dell’ace (angiotensin converting enzyme) e l’aplotipo e2, e3, e4 dell’apolipoproteina e (apoe). i risultati da noi ottenuti sono: il polimorfismo c677t dell’enzima mthfr in eterozigosi e l’aplotipo e3, e4. la paziente a un anno dalla dimissione continua a fare controlli periodici nel nostro ambulatorio di neurologia generale, e assume acido acetilsalicilico 100 mg e un sartanico per controllare la pressione arteriosa. discussione la malattia degenerativa arteriosclerotica (patologia dei grossi vasi e dei piccoli vasi) emerge a partire dai 35 anni di età e l’ictus conseguente è frequente al di sotto dei 45 anni [3]. in letteratura sono stati proposti approcci sistematici che comprendono un’approfondita batteria di accertamenti di laboratorio e strumentali successivi a un’anamnesi e a un esame obiettivo generale particolarmente accurati. l’anamnesi deve considerare attentamente: fumo, emicrania, uso di anticoncezionali, familiarità per patologia cardiovascolare, storia di vasculite, oltre a familiarità per malattie metaboliche, ictus e demenza vascolare, traumi recenti al capo e alla regione cervicale, presenza di febbre di origine sconosciuta prima del ricovero o recenti infezioni, presenza di cardiopatie potenzialmente emboligene, cardiopatia ipertrofica o emopatie correlate a un aumentato rischio vascolare, la presenza di coronaropatia a esordio precoce, l’abuso di sostanze a scopo terapeutico o voluttuario. l’esame clinico generale deve mirare alla ricerca di segni obiettivi che possano svelare la presenza di una causa rara (tabella ii). 140 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) i fattori di rischio nell’ictus giovanile e l’enigma dei polimorfismi trombofilici: descrizione di un caso clinico me ambulatoriale, una volta risolto l’evento acuto. infatti nei pazienti con emicrania con aura si è evidenziata una maggiore incidenza di forame ovale pervio. nel giovane adulto l’ictus cardioembolico costituisce il 15-20% di tutti gli ictus. in età giovanile le cardiopatie emboligene differiscono per frequenza e ruolo patogenetico rispetto all’età avanzata: infatti la fibrillazione atriale, la cardiopatia dilatativa, i trombi ventricolari post-ima hanno scarso rilievo mentre il forame ovale pervio, la pervietà del dotto di botallo, l’aneurisma del setto interatriale e il mixoma hanno un ruolo patogenetico di rilievo, proprio in questo ambito. a tal proposito di particolare rilievo è la valutazione cardiologica con esame ecocardiografico mediante metodica transtoracica, mentre l’ecocardiografia transesofagea è indicata in tutti i soggetti con ictus criptogenico in età pediatrica e giovanile. il terzo fattore di rischio non indipendente per ischemia cerebrale della nostra paziente è l’emicrania con aura (tabella iii). l’emicrania è una patologia neurovascolare cronica, caratterizzata dalla ricorrenza di attacchi cefalalgici. probabili fattori di rischio per ictus dislipidemia y obesità y sindrome metabolica y alcune cardiopatie (forame ovale pervio, aneurisma y settale) placche dell’arco aortico y uso di contraccettivi orali y terapia ormonale sostitutiva y emicrania y anticorpi antifosfolipidi y fattori dell’emostasi y infezioni y uso di droghe y inquinamento atmosferico y cause rare e inusuali di ictus malattie metaboliche ereditarie y sindrome da anticorpi antifosfolipidi y anemia a cellule falciformi y malattie del tessuto connettivo y cadasil y dissecazione dei vasi epiaortici y malattia moyamoya y displasia fibromuscolare y vasculiti y disturbi cerebrali in corso di infezione da hiv y abuso di droghe y sindrome di sneddon y sindrome di susac y infarto emicranico y emicrania con aura y trombosi dei seni e delle vene cerebrali y tabella iii. fattori di rischio che probabilmente aumentano il rischio di ictus ma che al momento non appaiono completamente documentati come fattori indipendenti di rischio e cause rare e inusuali di ictus in circa un quarto dei pazienti emicranici la crisi cefalalgica è preceduta da disturbi neurologici focali (aura emicranica) di natura transitoria (con durata normalmente di 20-30 minuti). nel caso della nostra paziente l’aura è visiva, sotto forma di scotomi scintillanti: l’aura visiva è quella più frequente tra gli emicranici. la prevalenza dell’emicrania è di circa il 25% nelle donne e l’8% negli uomini. la relazione tra emicrania e ictus è stata recentemente oggetto di metanalisi e revisioni sistematiche: da questi studi è emerso come il rischio di ictus sia maggiore per l’emicrania con aura rispetto a quella senza aura. inoltre il rischio di ictus nelle donne emicraniche è incrementato sia dall’assunzione di contraccettivi orali sia dal fumo di sigaretta. alla nostra paziente ancora mestruata, alla dimissione è stato fortemente sconsigliato di fare utilizzo di estroprogestinici. oggi si sottolinea la natura polidistrettuale della correlazione tra emicrania con aura e patologia vascolare: infatti è emerso nelle donne emicraniche un rischio significativamente maggiore anche per eventi coronarici [4]. nel nostro contesto clinico utilizzando il neuroimaging e l’anamnesi abbiamo escluso la cadasil (cerebral autosomal dominant arteriopathy with subcortical infarcts and leukoencephalopaty) e l’infarto emicranico (tabella iii). nella nostra paziente deve essere ben indagato il versante vascolare, ma è bene sottolineare che l’aterosclerosi frequente dopo i 35 anni di età può essere comorbida ad altre patologie altrettanto rilevanti; per cui risulta fondamentale lo studio dei marker di ipercoagulabilità unitamente allo screening autoimmunitario anticorpale per connettivopatie autoimmuni e vasculiti. infatti nel caso clinico da noi descritto l’anamnesi fisiologica riporta due episodi di eclampsia e un aborto spontaneo: è pertanto necessario escludere la sindrome da anticorpi antifosfolipidi, una coagulopatia acquisita responsabile di eventi trombotici venosi e arteriosi e aborti riccorrenti. può essere primaria o associata a collagenopatie autoimmuni nel cui ambito rappresenta il principale meccanismo patogenetico delle complicanze cerebrovascolari. nella storia della nostra paziente e dall’esame clinico non ci sono indizi che depongano per una vasculite occulta; a riguardo la rm encefalo con mdc e con sequenze angio in141 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) l. iurato, m. ventruto, m. a. police, a. morella, a. fortunato, l. musto, et al tracraniche ed extracraniche può essere utile per evidenziare una vasculite dei vasi di grosso calibro e medio calibro, anche se il gold standard per le vasculiti che coinvolgono il settore cerebrale o sono primariamente cerebrali è rappresentato dall’angiografia cerebrale, ma non c’è nessuna indicazione clinica per la nostra paziente a eseguire uno studio angiografico cerebrale. il nostro algoritmo diagnostico termina con lo studio genetico trombofilico per delineare il background genetico di suscettibilità della paziente alla patologia vascolare arteriosa e venosa polidistrettuale. polimorfismi trombofilici le malattie multigeniche complesse, come ad esempio l’ictus e l’ipertensione, sono causate da interazioni tra varianti geniche e fattori ambientali. una variante genica che ha almeno due alleli e che si verifica in almeno l’1% della popolazione è definita “polimorfismo”. attualmente si ritiene che le malattie multigeniche complesse si verifichino quando vengono ereditati molti polimorfismi, ciascuno con un effetto modesto e a bassa penetranza: quindi le malattie complesse derivano dall’ereditarietà collettiva di molti polimorfismi, ma i diversi polimorfismi si differenziano tra loro per importanza nella patogenesi della malattia; inoltre alcuni polimorfismi sono comuni a più malattie dello stesso tipo mentre altri polimorfismi sono specifici solo per una data patologia. è comunque accertato che le influenze ambientali modificano in modo significativo l’espressione fenotipica dei caratteri multifattoriali ereditati con i polimorfismi [5]. l’esame genetico da noi programmato per la nostra paziente è indicato generalmente per soggetti con precedenti episodi di tromboembolismo venoso o trombosi arteriosa, donne che intendono assumere contraccettivi orali, donne con precedenti episodi di trombosi in gravidanza, donne con poliabortività, donne con precedente figlio con difetto del tubo neurale, gestanti con iugr (intrauterin growth retardation), tromboflebite o trombosi placentare, soggetti diabetici. il termine “trombofilia” descrive la predisposizione di un individuo a sviluppare trombosi arteriose e/o venose sulla base, nella maggior parte dei casi, di alterazioni della cascata delle proteine della coagulazione o della fibrinolisi, che possono essere ereditate o acquisite. il fattore v di leiden (fattore v g1691a) e il polimorfismo g20210a della protrombina sono associati con un incremento del livello di protrombina circolante. il polimorfismo g20210a sembra giocare un ruolo nella patogenesi delle trombosi arteriose nei soggetti giovani privi di fattori di rischio vascolari. l’iperomocisteinemia è un altro fattore di rischio sia per trombosi arteriose sia venose: oggi emerge dalla letteratura un ruolo dei polimorfismi mthfr per l’aterosclerosi, la sindrome coronaria, l’emicrania e la demenza vascolare [6-9]. l’ace (angiotensin i-converting enzyme), l’enzima che converte l’angiotensina i, è una proteina chiave nel sistema renina-angiotensina-aldosterone, che regola la pressione arteriosa. il polimorfismo ace dd incrementa la suscettibilità al rischio di patologia cardiovascolare. l’aplotipo e4 dell’apolipoproteina e, in omozigosi, è un fattore di rischio per alzheimer e demenza vascolare e probabilmente ha un ruolo anche nell’ischemia cerebrale [10]. il polimorfismo 4g/5g dell’inibitore dell’attivatore del plasminogeno, in omozigosi 4g/4g, è un fattore di rischio per infarto cardiaco e morte fetale. oggi emerge dalla letteratura come questi polimorfismi possano essere implicati nel rischio di patologia vascolare polidistrettuale, probabilmente su base aterosclerotica, ma a tutt’oggi non sono riconosciuti definitivamente come fattori predisponenti per ischemia cerebrale. è nostra opinione che, per chiarire il ruolo dei polimorfismi trombofilici nelle varie patologie come l’ictus, l’ipertensione, l’infarto del miocardio, l’aterosclerosi, sono necessari studi genetici su larga scala, su popolazioni di pazienti clinicamente omogenee [11,12]. infatti oggi un potente strumento per l’identificazione di varianti geniche associate a un aumentato rischio di sviluppare una particolare patologia sono gli studi di associazione genome-wide (gwas). alcune varianti possono essere direttamente causa di malattia oppure possono trovarsi in linkage disequilibrium con altre varianti geniche responsabili di un accresciuto rischio di sviluppare la patologia. nei gwas viene analizzato l’intero genoma di ampie coorti di pazienti con e senza malattia (controlli) alla ricerca di polimorfismi che risultino iper-rappresentati nei 142 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) i fattori di rischio nell’ictus giovanile e l’enigma dei polimorfismi trombofilici: descrizione di un caso clinico pazienti affetti dalla patologia in questione. questo processo consente di identificare regioni del genoma contenenti varianti geniche o geni che conferiscono una suscettibilità alla malattia in questione [13,14]. nei prossimi anni i nostri quesiti troveranno una chiara risposta: oggi, in casi selezionati, noi consigliamo i test genetici per trombofilia per chiarire il background genico di suscettibilità alla patologia vascolare polidistrettuale, e questo dato ha un impatto nella gestione ambulatoriale di questi pazienti. conclusioni nei paesi industrializzati l’ictus cerebrale rappresenta la terza causa di morte, la seconda causa di demenza e la prima causa di grave disabilità. in italia l’incidenza è di circa 200.000 nuovi caso per anno. nei soggetti giovani lo studio dei polimorfismi trombofilici può delineare la predisposizione, geneticamente determinata, alla patologia vascolare pluridistrettuale, e questo è importante come nel caso della nostra paziente per consigliare con più forza di eliminare abitudini quali il fumo di sigaretta e per saper indirizzare, eventualmente, a una successiva terapia anti-aggregante, sconsigliando, contemporaneamente, l’uso di contraccettivi orali. in ogni caso l’utilizzo indiscriminato dei test genetici per trombofilia nell’ictus giovanile non è consigliabile. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. punti chiave per “ictus ischemico giovanile” si intende una sindrome neurologica focale improvvisa doy vuta a patologia occlusiva dei vasi cerebrali, in soggetti adulti giovani tra 15 e 50 anni l’anamnesi e l ’esame clinico accurati sono in grado di escludere o indirizzare verso pay tologie rare al di sopra di 35 anni gli ictus ischemici più frequenti sono aterosclerotici y gli esami strumentali indispensabili sono: tac encefalo, ecg, rx torace, ecocardiogramy ma transtoracico, ecodoppler tsa gli esami strumentali utili in relazione al contesto clinico sono: rm encefalo con mdc e y sequenze angio intracraniche e dei tronchi sovra-aortici, ecocardiogramma transesofageo, ecodoppler transcranico gli esami di laboratorio indispensabili sono: glicemia, parametri renali ed epatici, assetto y lipidico, elettroliti, emocromo, marker di ipercoagulabilità un esame di laboratorio utile in relazione al contesto clinico è lo screening immunoreuy matologico nell ’ictus giovanile, solo in casi selezionati, può essere utile programmare test genetici per y la trombofilia ereditaria in quanto si chiarisce la suscettibilità genica del paziente alla patologia vascolare polidistrettuale non è consigliabile l ’utilizzo indiscriminato dei test genetici per trombofilia nell ’ictus y giovanile l’emicrania con aura è un fattore di rischio non indipendente per ischemia cerebrale y nei pazienti emicranici c’è una maggiore incidenza di forame ovale pervio y bibliografia spread collaboration. linee guida italiane per la prevenzione e il trattamento dell’ictus 1. cerebrale. vi edizione, 2010. disponibile all’indirizzo: www.spread.it (ultimo accesso novembre 2011) aavv. low molecular weight heparinoid, org 10172 (danaparoid), and outcome after acute 2. ischemic stroke: a randomized controlled trial. the publications committee for the trial of org 10172 in acute stroke treatment (toast) investigators. jama 1998; 279: 1265-72 143 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(4) l. iurato, m. ventruto, m. a. police, a. morella, a. fortunato, l. musto, et al janssen awm, de leeuw fe, janssen mch. risk factors for ischemic stroke and transient 3. ischemic attack in patient under age 50. j thromb thrombolysis 2011; 31: 85-91 tietjn ge. migraine as a systemic disorder. 4. neurology 2007; 68: 1555-6 sawabe m, arai t, araki a, hosoi t, kuchiba a, tanaka n. smoking confers a mthfr 5. 677c>t 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chem 2010; 10: 91-6 saidi s, zammiti w, slamia lb, ammou sb, anawi wy, mahjoub t. interaction of angiotensin-10. converting enzyme and apolipoprotein e gene polymorphism in ischemic stroke involving largevessel disease. j thromb thrombolysis 2009; 27: 68-74 koichi miyaki. genetic polymorphisms in homocysteine metabolism and response to folate 11. intake:a comprehensive strategy to elucidate useful genetic information. j epidemiol 2010; 20: 266-70 fan az, yesupriya a, chang mh, house m, fang j, ned r, et al. gene polymorphisms in 12. association with emerging cardiovascular risk markers in adult women. bmc med genet 2010; 11: 6 meschia jf, nalls m, materin m, brott tg, brown rd jr, heroly j, et al. siblings with ischemic 13. stroke study: results of a genome-wide scan for stroke loci. stroke 2011; 42: 2726-32 meschia jf, worral bb, rich ss. genetic susceptibility to ischemic stroke. 14. nat rev neurol 2011; 7: 369-78 un social network per la prevenzione e l’abbattimento di cefalea e dolore cervicale nella popolazione: fondamenti di ricerca e sue caratteristiche franco mongini 1 gestione dell’infezione da hiv-1 in età pediatrica caterina bonaccini 1, paola piccini 1, daniele serranti 1, paola gervaso 1, luisa galli 1 i fattori di rischio nell’ictus giovanile e l’enigma dei polimorfismi trombofilici: descrizione di un caso clinico linda iurato 1, marialuisa ventruto 2, maria adalgisa police 2, alessandro morella 3, alfonso fortunato 4, lanfranco musto 5, patrizia fiori 1, mario nicola vittorio ferrante 6, antonio monaco 7 il trattamento farmacologico dei tic nella sindrome di gilles de la tourette andrea e. cavanna 1,2, andrea nani 1 in caso di ipertensione, quando andare sino in fondo con gli accertamenti? andrea semplicini 1, chiara sandonà 1, federica stella 1, tommaso grandi 1 clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 91 marisa de rosa 1, elisa rossi 1 l’importanza dell’integrazione di database amministrativi come fonte di dati epidemiologici: l’esperienza dell’osservatorio arno nella pratica clinica il medico è chiamato quotidianamente a effettuare scelte terapeutiche determinanti per la salute del paziente. una corretta informazione e la disponibilità di dati epidemiologici diventano uno strumento importante per le decisioni cliniche. per meglio comprendere l’applicazione dell’epidemiologia nel campo della medicina generale, si riportano sinteticamente alcuni principi cardine dell’epidemiologia. riprendendo una definizione classica, l’epidemiologia è la disciplina che studia la distribuzione e le cause della frequenza delle malattie nelle popolazioni [1]. questa definizione implica lo studio di tre componenti correlate tra loro: frequenza: quantifica la presenza e l’occorrenza della malattia; distribuzione: fornisce caratteristiche sulla malattia in studio nel tempo e nello spazio (chi, dove, quando), includendo anche i confronti con popolazioni o periodi storici differenti; cause: studia le cause legate all’evento in studio ed è fondamentale per descrivere i pattern della malattia e per poter formulare ipotesi su possibili cause o fattori di prevenzione [2]. si divide fondamentalmente in due sezioni: descrittiva e analitica. epidemiologia descrittiva. viene utilizzata per identificare un fenomeno, descriverlo, misurarne la frequenza e/o studiarne lo sviluppo e la distribuzione nella popolazione, senza studiare le relazioni di causaeffetto. si avvale di indicatori quali, tra i più usati, prevalenza e incidenza:     la prevalenza misura il numero di individui di una popolazione che, in un dato momento, presentano la malattia. è utile nella programmazione sanitaria, in quanto misura l’impatto e la penetrazione che una malattia ha in un determinato territorio: prevalenza n. totale casi di malattia esposti a rischio l’incidenza misura la frequenza con cui si sviluppano nuovi casi di malattia in una popolazione precedentemente sana. esprime la velocità di spostamento dallo stato di salute allo stato di malattia: incidenza nuovi casi di malattia in un periodo pop. (inizialmente sana) a rischio nel periodo epidemiologia analitica. viene usata, con la descrittiva, per identificare relazioni di causa-effetto tra fattori di rischio e malattia in una determinata popolazione e in un determinato periodo di tempo. si avvale di misure di associazione (odds ratio, hazard ratio) e di metodi per valutare i fattori di rischio delle malattie: studi di coorte, studi caso-controllo. studi di coorte: si effettuano per valutare i possibili fattori di rischio in un periodo di tempo. i gruppi sono selezionati in base all’esposizione o meno del fattore in esame (es. un farmaco) e si seguono nel tempo (follow-up) valutando l’evento in studio e la frequenza con cui si sviluppa. la durata dell’osservazione e la numerosità del campione dipendono dall’evento in studio.     editoriale 1 dipartimento sistemi informativi e servizi per la sanità, cineca corresponding author dott.ssa marisa de rosa m.derosa@cineca.it clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 92 editoriale farmaceutica sdo adi specialistica diagnostica erog. diretta air anagrafica medici anagrafica assistiti anagrafica farmacie piano terapeutico registri farmaci farmaci durg icd ix-cm istat studi caso-controllo: metodologia usata per rafforzare lo studio degli eventi dei pazienti esposti al fattore in studio (casi) confrontati con un gruppo di pazienti non esposti al fattore in studio (controlli) [3]. la selezione del gruppo di controllo è un punto critico ai fini della validità dello studio perché questo gruppo deve essere il più possibile simile ai casi, soprattutto per  i database amministrativi, come gli archivi di prescrizioni farmaceutiche, sono caratterizzati da una grande disponibilità di dati con aggiornamento periodico e sono visti come un’importante risorsa per condurre studi epidemiologici nell’ambito del servizio sanitario nazionale [4]. i consumi farmaceutici, che si ottengono dagli archivi delle prescrizioni, sono da tempo considerati come descrittori affidabili dell’esposizione dei pazienti ai farmaci come traccianti di patologia. tuttavia, per poter passare alla conduzione di veri e propri studi di farmacoepidemiologia è importante che questi archivi siano integrati sia con i dati anagrafici di popolazione che con altri descrittori di prestazioni sanitarie (es. ricoveri ospedalieri, prestazioni specialistiche). in questo modo si può passare da una visione puramente descrittiva a una visione epidemiologica in cui il paziente è al centro dello studio con la possibilità di individuare popolazioni di riferimento. queste popolazioni possono essere riferite a singole asl, singoli distretti o anche a singoli medici, ma devono sempre essere pensate come facenti parte di gruppi omogenei che possono essere confrontati tra loro mediante indicatori epidemiologici standardizzati [5]. l’indicatore più efficace nella farmacoepidemiologia è l’indice di prevalenza (es. prevalenza d’uso di un farmaco), dove il numeratore è rappresentato dal “numero di trattati” che rappresenta il numero effettivo di persone in trattamento con un farmaco o affette da una determinata patologia. per misurare il consumo dei farmaci, in database che non dispongono del numero di trattati, l’indicatore maggiormente utilizzato è rappresentato dalle ddd/1.000 ab. die. la ddd (defined daily dose: dose giornaliera definita) rappresenta la dose media giornaliera di un farmaco definita per la sua indicazione terapeutica principale. questo indicatore è molto utile anche per effettuare confronti a livello internazionale. punto essenziale nell’uso di banche dati integrate di grandi dimensioni, con frequenti aggiornamenti dei dati provenienti da varie fonti, è la qualità dei dati. i dati devono infatti seguire rigorosi controlli di qualità per assicurare un alto standard qualitativo degli indicatori ottenuti per evitare sottostime nei dati. gli errori derivano principalmente da: incompletezza delle informazioni (es. data di nascita mancante);  figura 1 le banche dati integrate nell ’osservatorio arno tabella i i numeri dell ’osservatorio arno. dati di 30 asl di 7 regioni diverse (aggiornamento settembre 2007) popolazione totale (m = 48%; f = 52%; indice di vecchiaia = 147,7) 9.993.002 numero medici di base 7.928 numero medici pediatri 1.180 numero di trattati 6.900.375 numero ricette/anno 98.748.046 banca dati arno storica 640 milioni di ricette i flussi informativi per ogni singolo paziente db arno (dati in dettaglio per ogni asl partecipante) db arno (visione aggregata) db in te gr at e internet quanto riguarda le caratteristiche della popolazione che potrebbero introdurre fattori di distorsione (es. si selezionano in genere due controlli per ogni caso con stesso sesso, età, zona geografica, esposizione ad altri fattori di rischio per la medesima patologia). clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 93 m. de rosa, e. rossi codici errati nei processi di scrittura e lettura del dato (es. codice paziente errato). un esempio di database di tipo amministrativo come fonte di dati epidemiologici è l’osservatorio arno. attivo da più di vent’anni, è un osservatorio multicentrico delle prestazioni sanitarie erogate dal ssn al singolo cittadino, il cui scopo è quello di fornire, alle asl convenzionate, un data warehouse clinico con i dati raccolti per ogni singolo paziente (es. ricette di prescrizione farmaceutica, schede di dimissione ospedaliera, specialistica ambulatoriale, ecc...). queste informazioni vengono integrate con i dati anagrafici e con ulteriori flussi informativi (dati socio/demografici), fornendo la possibilità di esplorare in dettaglio gli interventi sul singolo assistito e di elaborare progetti di disease management, bench marking, appropriatezza prescrittiva, studi di coorte e registri di patologia (figura 1). ad oggi, l’osservatorio registra le prestazioni sanitarie di una popolazione di 10 milioni di abitanti appartenenti a 30 aziende sanitarie locali di 7 regioni italiane (tabella i). disponibile via web, mette a disposizione dei diversi profili di accesso (direzione generale, distretto, medico) percorsi di analisi navigabili strutturati a seconda dei diversi profili di popolazione. le peculiarità dell’osservatorio arno possono essere così riassunte: è un database orientato al paziente (il paziente è al centro dello studio);   figura 2 trend del consumo di antidepressivi nella popolazione. fonte: osservatorio arnocineca nota: l’aumento dei consumi di antidepressivi dal 2000 al 2001 è imputabile principalmente al passaggio alla piena rimborsabilità degli ssri raccoglie dati da più zone geografiche e consente la condivisione di dati omogenei utilizzando metodologie standardizzate; consente di valutare nel tempo la continuità e l’efficacia degli interventi sulla qualità e sui costi dell’assistenza; evidenzia popolazioni (bambini, donne, anziani, diabetici, ecc…) da seguire, sorvegliare e coinvolgere nel contesto di programmi di intervento; è uno strumento per valutare i bisogni terapeutici e l’appropriatezza delle risorse; misura l’impatto di nuovi farmaci; permette di effettuare studi di farmacovigilanza attiva; consente di valutare, in accordo con gruppi di medici e/o le loro rappresentanze, i problemi presenti nella pratica dei singoli (omogeneità/eterogeneità, carichi assistenziali, strategie terapeutiche, linee guida, audit clinico, appropriatezza, ecc …) [6]. nella figura 2 e nella tabella ii sono descritti due esempi di studi epidemiologici su particolari coorti di pazienti, elaborati dai dati dell’osservatorio arno. in conclusione: i database clinici di popolazione indicano la strada del futuro e offrono l’opportunità di rendere la ricerca più vicina alla pratica quotidiana; la costituzione di popolazioni da evidenziare, seguire, sorvegliare è necessaria per valutare l’impatto degli interventi e l’applicabilità delle linee guida;          0 2 4 6 8 12 200620052004200320012000 femmine maschi 10 2002 pr ev al en za (% tr at ta ti/ as si st ib ili ) anno clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 94 editoriale la flessibilità e le possibilità offerte dalle nuove tecnologie possono essere sfruttate per sperimentare percorsi logici e operativi così da permettere di verificare attentamente “il guadagno conoscitivo” che si produce; è possibile oggi implementare e mantenere database a livello locale con possibilità di visione aggregata a livello centrale per   caratteristiche descrittive pazienti con diabete (casi) * pazienti senza diabete (controlli) ** var % diabetici vs non diabetici n. pazienti 311.979 623.958 prevalenza (min-max) 4,5% (3,0-5,3%) età media 67,6 67,6 % femmine 50,0 50,0 n. medio di ricette prescritte /anno per farmaci antidiabetici per altri farmaci   30,5 7,2 23,3 17,2 17,2 + 77% + 36% n. medio di ricoveri /anno 1,7 1,5 + 10% n. medio di prestazioni specialistiche/anno 30,5 24,6 + 24% tabella ii osservatorio arno diabete metodologia caso-controllo con integrazione dei diversi flussi informati (farmaceutica territoriale, ricoveri ospedalieri, specialistica ambulatoriale) [7] * i casi sono rappresentati dai pazienti in trattamento con un farmaco antidiabetico nel 2006 ** i controlli (2 per ogni caso) sono costituiti dai pazienti che non hanno ricevuto prescrizioni di antidiabetici e sono stati selezionati sulla base dello stesso sesso, età e medico curante dei casi il confronto e lo sviluppo di metodologie comuni; l’approccio globale basato sull’integrazione di dati di popolazione, clinici ed economici, è finalizzato all’individuazione di un modello dell’intero processo che porti all’aumento del livello qualitativo dei servizi erogati e all’ottimizzazione dei costi complessivi.  bibliografia 1. macmahon b, pugh tf. epidemiology: principles and methods. boston: little brown, 1970 2. hennekens ch, buring je. epidemiology in medicine. boston: little brown, 1987 3. armitage p, berry g. statistica medica. milano: mcgraw-hill, 1996 4. monte s, fanizza c, romero m, rossi e, de rosa m, tognoni g. database amministrativi come risorsa accessibile e strumento efficiente per l’epidemiologia cardiovascolare. giornale italiano di cardiologia 2006; 7: 206-16 5. tognoni g. introduzione al progetto arno, rapporto 1996-1997. roma: cineca, 1997 6. de rosa m (a cura di). l’utilizzo dei dati arno nella rete delle asl. documentazione di 20 anni di attività. rapporto 2007, volume x. bologna: ed. centauro, 2007 7. osservatorio arno-cineca. osservatorio arno diabete – analisi di dieci anni di prescrizioni. rapporto 2007, volume xi; disponibile su http://osservatorioarno.cineca.org/ convegni/diabete clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 113 maria alice monti 1, elisa falcier 2, maddalena zanardelli 2, giovanna pizzamiglio 3 caso clinico nel gennaio 1996 giungeva al nostro centro una paziente di 33 anni, in scadenti condizioni generali, con un bmi pari a 19, in ossigenoterapia notturna dal settembre 1995. le prove di funzionalità respiratoria documentavano una pneumopatia grave (fvc = 47%, fev1 = 37%); i valori di amilasi erano pari a 1.038 (vn < 220) e le lipasi pari a 1.756 (vn < 208). in anamnesi: a 17 anni polmonite del lobo medio e colecistectomia; a 18 anni asma ed emottisi minori ricorrenti; a 20 anni ripetute infezioni delle basse vie respiratorie con plurimi ricoveri ospedalieri e diagnosi di bronchiectasie bilaterali in bronchite cronica asmatiforme aspergillare. gli esiti del test del sudore, riferiti dalla paziente, erano dubbi. a 25 e 28 anni erano stati evidenziati addensamenti broncopolmonari recidivanti, a 29 anni broncopolmonite basale destra con emottisi maggiore complicata da insufficienza respiratoria acuta ipercapnica. per l’emottisi la paziente venne trattata con estrogeni coniugati e vagli esami di laboratorio venne constatato aumento delle amilasi e delle lipasi. la coun caso di fibrosi cistica abstract as the expected survival improves for patients with cystic fibrosis (cf), there is a growing population of adults with this disease. we describe a case of a 33-year-old woman with cf presenting with recurrent pancreatitis, malnutrition, borderline sweat test and respiratory diseases. the case report underlines the importance of diagnosis and management of cf in adults, and the important role played by the family physician in developing an adult care program. keywords: cystic fibrosis, adults a case of cystic fibrosis cmi 2009; 3(3): 113-121 1 responsabile uos fibrosi cistica dell’adulto. centro regionale di riferimento per la fibrosi cistica della regione lombardia. uo broncopneumologia. dipartimento di medicina e specialità mediche. fondazione irccs ospedale maggiore policlinico, mangiagalli e regina elena, milano 2 istituto di malattie dell’apparato respiratorio. fondazione irccs ospedale maggiore policlinico, mangiagalli e regina elena 3 uos fibrosi cistica dell’adulto. centro regionale di riferimento per la fibrosi cistica della regione lombardia. uo broncopneumologia. fondazione irccs ospedale maggiore policlinico, mangiagalli e regina elena corresponding author dottoressa maria alice monti centro regionale di riferimento per la fibrosi cistica della regione lombardia uo broncopneumologia – pad. sacco, ii piano dipartimento di medicina e specialità mediche fondazione irccs ospedale maggiore policlinico mangiagalli e regina elena via f. sforza, 35 20122 milano perché descriviamo questo caso? il caso descritto evidenzia come la fibrosi cistica, a lungo considerata una patologia di interesse solo pediatrico, grazie al miglioramento dei mezzi diagnostici e terapeutici, sia oggi una malattia riscontrabile anche nell ’adulto. il medico di medicina generale pertanto potrebbe essere sempre più spesso coinvolto nella gestione di questi pazienti caso clinico langiopancreatografia retrograda endoscopica non documentò né ostruzioni né calcoli. a 32 anni grave riacutizzazione broncopolmonare da pseudomonas aeruginosa. la tc torace dimostrò numerose e voluminose bronchiectasie estese su tutto l’ambito polmonare con livelli idroaerei nel contesto delle cavitazioni. pochi giorni dopo nuovo episodio di emottisi maggiore trattato nuovamente con estrogeni coniugati: anche in questa occasione venne constatato innalzamento di amilasi e lipasi. la tc dell’addoclinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 114 un caso di fibrosi cistica me dimostrò aumento di volume della testa e del processo uncinato del pancreas e falda di versamento peripancreatico. la paziente venne quindi inviata al nostro centro regionale di riferimento per la fibrosi cistica per il sospetto diagnostico di quadro atipico di malattia e per il riscontro autoptico di sospetta fibrosi cistica nella sorella deceduta pochi mesi prima per insufficienza respiratoria. all’esame obiettivo emergeva: assenza di turgore giugulare; y torace modicamente espanso; y rientramenti respiratori intercostali alle y basi bilateralmente; iperfonesi diffusa con basi ipomobili (uno y spazio intercostale); all’auscultazione murmure vescicolare liey vemente ridotto agli apici, rantoli a medie bolle diffusi sia posteriormente che anteriormente; obiettività cardiaca ed addominale non y significativa; assenza di edemi declivi; y franco ippocratismo digitale. y alla radiografia del torace (figura 1) si documentavano diffuse, estese, voluminose bronchiectasie con pareti ispessite e interessamento flogistico del parenchima polmonare peribronchiectasico. il sospetto di fibrosi cistica in questa malata era particolarmente elevato pur in assenza di steatorrea pancreatica (steatocriti ripetutamente < 3%, bilancio dei grassi fecali negativo). discussione la fibrosi cistica (fc) o mucoviscidosi del pancreas è caratterizzata da turbe del trasporto ionico delle ghiandole esocrine dell’apparato respiratorio, dell’intestino, del pancreas, delle ghiandole sudoripare, dei dotti deferenti spermatici. la fc rappresenta la malattia genetica ereditaria multisistemica evolutiva responsabile di morte prematura più comune nella popolazione bianca. secondo il registro italiano fibrosi cistica, l’incidenza alla nascita nel 2004 era pari a 1/4.079 con notevole differenze tra le varie regioni [1] (lo screening neonatale non è ancora omogeneamente diffuso su tutto il figura 1 rx torace: diffuse, estese, voluminose bronchiectasie con pareti ispessite e interessamento flogistico del parenchima polmonare peribronchiectasico 0 5 10 15 20 30 0-4 pa zie nt i ( % ) 1988 (1.963 pz) 2000 (3.792 pz) 5-9 10-14 15-19 20-24 25-29 30-34 > 35 25 età (anni) figura 2 distribuzione percentuale per fasce di età (in anni compiuti) dei pazienti italiani in vita al 31.12.1988 e al 31.12.2000. modificata da [1] clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 115 m. a. monti, e. falcier, m. zanardelli, g. pizzamiglio territorio nazionale). in europa l’incidenza della malattia varia da 1/2.350 in francia a 1/3.650 in olanda[2]; negli usa da 1/2.000 nei bianchi a 1/16.000 nei neri. nella figura 2 viene riporta la distribuzione percentuale per fasce di età (in anni compiuti) dei pazienti italiani in vita al 31.12.1988 e al 31.12.2000 secondo i dati del registro italiano fibrosi cistica. il prolungamento della sopravvivenza ha interessato tutta la popolazione fc che, attualmente, si compone per il 50% di soggetti ormai maggiorenni. negli usa, più di cinquantanni fa, è stato istituito il registro nazionale fc (cystic fibrosis foundation) per lasciare traccia dello stato di salute dei pazienti. in esso sono contenute le informazioni aggiornate di oltre 24.000 pazienti seguiti nei centri accreditati. dai dati pubblicati nell’annual data report 2007 si evidenzia chiaramente un progressivo aumento della sopravvivenza che, nel 2005, ha raggiunto i 36,5 anni [3] (figura 3). modelli matematici fanno addirittura prevedere che la sopravvivenza di un bimbo nato nel xxi secolo in europa possa superare i 50 anni [4]. manifestazioni cliniche la forma “classica” o completa della malattia è caratterizzata da problemi digestivi e respiratori. nel periodo prenatale può manifestarsi con intestino iperecogeno, perforazione intestinale da ileo da meconio; nel periodo neonatale ileo da meconio, ostruzione intestinale con e senza peritonite, atresie intestinali, ittero ostruttivo, gravi ipovitaminosi con emorragie, anemia emolitica; nell’infanzia e nell’adolescenza con sintomi respiratori ricorrenti (tosse ed espettorazione cronica, addensamenti polmonari recidivanti, bronchiectasie, atelectasie segmentarie e subsegmentarie), ritardato accrescimento staturo ponderale legato all’insufficienza pancreatica che determina nell’85-90% steatorrea, diarrea e distensione addominale, prolasso rettale, disidratazione e disturbi elettrolitici favoriti dalle alterazioni delle ghiandole sudoripare. la forma “atipica” o paucisintomatica si manifesta nel giovane adulto con una o più delle seguenti manifestazioni: pansinusite e poliposi nasale, bronchiti ricorrenti, pancreatite acuta, sterilità da azoospermia e disidratazione. nella tabella i sono poste a confronto sinteticamente le manifestazioni cliniche presenti nella fc “classica” e nella fc “atipica” o non classica, secondo quanto riportato da knowles e colleghi sul new england journal of medicine [5]. eziologia la malattia, autosomica recessiva non legata al sesso, è dovuta alla presenza di mutazioni del gene che presiede alla sintesi della proteina di membrana camp-dipendente denominata cystic fibrosis transmembrane regulator (cftr): questa proteina controlla il trasporto transmembrana dello ione cloro e contribuisce alla regolazione di altri canali ionici (del sodio) delle cellule epiteliali. il malfunzionamento del cf tr determina un’alterata composizione dei secreti delle ghiandole esocrine, sierose e mucose, con ridotta escrezione del cloro, aumento del riassorbimento di sodio e di acqua e conseguente aumento della densità e della viscosità dei secreti tale da provocare l’ostruzione dei figura 3 età mediana di sopravvivenza dal 1985 al 2007 nei pazienti inseriti nel registro nazionale fc degli usa [3] clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 116 un caso di fibrosi cistica dotti escretori, rimodellamento e atrofia dei parenchimi a monte dell’ostruzione, colonizzazione batterica e infezione cronica delle vie in diretta comunicazione con l’esterno. l’anomalia a carico della ghiandola sudoripara si caratterizza per una normale produzione glomerulare del sudore con incapacità del dotto escretore, dove è espresso il cftr, di riassorbire il cloro e conseguentemente il sodio e l’acqua: il sudore del soggetto fc presenta quindi un eccesso di acqua e di ioni cloro e sodio (5 volte più del normale). questo espone il paziente a pericolosi disturbi elettrolitici e a disidratazione in occasione di ipertermia o di esposizione prolungate a fonti di calore. la diagnosi di fc i criteri per la diagnosi di fc sono stati stabiliti dal consensus statement del 1998 [13] e successivamente riconfermati nel 2006 [14] e nel 2008 [15]. la diagnosi di fc deve fondarsi su: almenoa. un criterio clinico-anamnestico: presenza di uno o più aspetti clinici cay ratteristici per fc; esistenza di fc diagnosticata in un y fratello/sorella; e almeno un criterio di laboratoriob. : test “quantitativo” del sudore riconfery mato positivo; test di misura della differenza di poteny ziale nasale positivo; identificazioni di due mutazioni comy patibili con la fc. i criteri clinico-anamnestici sono riportati in tabella ii; tali elementi, già descritti in altre nostre pubblicazioni [16], sono suddivisi sulla base dell’apparato coinvolto. i criteri di laboratorio comprendono: test “quantitativo” del sudore y eseguito utilizzando la iontoforesi pilocarpinica di gibson e cooke. valori di cloro > 60 meq/l, riconfermati in due controlli successivi eseguiti presso laboratori qualificati, con quantità di sudore > 100 mg consentono di formulare la diagnosi in presenza di sospetto clinico di malattia. un test del sudore borderline (cloro tra 40 e 60 meq/l) necessita di ulteriori approfondimenti diagnostici quali lo studio dei potenziali nasali e l’analisi genetica. altri metodi di analisi del sudore quali il conduttivimetrico diretto e l’osmometrico sul campione di sudore risultano meno precisi e quindi non raccomandabili [17]. nel registro americano della cystic fibrosis foundation viene segnalato che il 3,5% dei pazienti fc può avere un test del sudore con valori di cloro < 60 meq/l [3]: questi soggetti presentano problemi respiratori in età giovanile e solo sfumati segni clinici a carico dell’apparato digerente senza insufficienza pancreatica; misura della “differenza di potenziale” y nasale. viene eseguita solo in pochi centri specialistici ed è gravata da difficile ripetibilità perché la mucosa nasale è preda di flogosi ricorrenti che possono inficiare il risultato; l’ y analisi genetica, eseguita secondo i criteri suggeriti dalla società italiana di genetica medica [18], è riservata ai pazienti con test del sudore dubbio, ai parenti e al partner del soggetto affetto per valutare il rischio riproduttivo della coppia. l’identificazione di due mutazioni nel soggetto con sintomi evocativi di malattia e con test del sudore borderline permette di porre diagnosi di fc. analisi del caso clinico descritto nel caso clinico sopra descritto la diagnosi di fc apparve subito suggestiva per la prefibrosi cistica classica (proteina cftr non funzionale) fibrosi cistica non classica (basso livello di proteina cftr funzionale, con aumento della sopravvivenza) sinusite cronica y infezione batterica cronica severa delle vie aeree y malattia epatobiliare severa (5-10% dei casi) y insufficienza pancreatica esocrina y ileo da meconio alla nascita (15-20% dei casi) y livello di cloro nel sudore: generalmente 90-110 y mmol/l, talvolta 60-90 mmol/l azospermia ostruttiva y sinusite cronica y infezione batterica cronica delle vie aeree y (esordio più tardivo, ma variabile) funzione pancreatica esocrina adeguata; y pancreatite nel 5-20% dei casi livello di cloro nel sudore: generalmente 60-90 y mmol/l; talvolta normale (< 40 mmol/l) azoospermia ostruttiva y tabella i manifestazioni cliniche della fc nella forma classica e atipica [5] clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 117 m. a. monti, e. falcier, m. zanardelli, g. pizzamiglio senza di criteri clinico-anamnestici e per il risultato dei test di laboratorio; in particolare era possibile evidenziare: una sorella deceduta per sospetta fc; y la presenza di patologia a carico dell’appay rato respiratorio (addensamenti broncopolmonari ricorrenti, emottisi, bronchiectasie) e dell’apparato gastroenterico (pancreatite ricorrente, calcolosi colecistica giovanile, malnutrizione calorico-proteica); due test del sudore y borderline con cloro = 47,36 meq/l; l’analisi genetica effettuata nel 1996 pery mise di identificare una sola mutazione (deltaf508 in eterozigoti); ripetuta nel 2000 accertò la presenza della seconda mutazione (d1152h). confermata la diagnosi di fc, è stato prescritto lo screening genetico ai parenti (familiari e cugini di 1° grado) e al partner per valutare il rischio riproduttivo della coppia. la storia della malattia «sventura al bimbo che quando è baciato sulla fronte sa di sale: egli è stregato e dovrà presto morire» si diceva in spagna nel 1606 [6]. la constatazione di una elevata concentrazione di cloro nel sudore di un soggetto con fenotipo fc permette ora di formulare la diagnosi di malattia. ma, negli anni trenta, la prima descrizione della malattia – come entità autonoma e ben differenziata dalla celiachia – non menzionava le ghiandole sudoripare bensì segnalava diffuse ed estese alterazioni anatomo-patologiche a carico dei dotti pancreatici con distruzione completa del pancreas: per sottolineare quest’ultimo aspetto venne coniato il termine di “fibrosi cistica del pancreas” [7]. la malattia risultava caratterizzata da malassorbimento dei grassi e delle proteine, ritardo della crescita, steatorrea ed infezioni polmonari fatali. si ipotizzava che il danno pancreatico e il difetto nutrizionale secondario predisponessero ad infezioni polmonari ricorrenti: l ’albero respiratorio di questi bimbi presentava infatti ostruzione del lume bronchiale e bronchiolare con secrezioni dense e sovvertimento architetturale. la densità e la compattezza del muco presente in tutte le ghiandole mucose del corpo suggerì il termine di “mucoviscidosi”. negli anni ’40 si constatò che si trattava di malattia recessiva, probabilmente determinata dalla mutazione di un singolo gene, clinicamente manifesta solo nel soggetto omozigote, asintomatica nel soggetto eterozigote. solo in una torrida estate del 1948 a new york un giovane medico, paul di sant’agnese, scoprì che molti di questi bimbi venivano ricoverati per grave disidratazione legata all ’abnorme perdita di sali e di acqua con il sudore: questi bimbi presentavano, anche durante la stagione fredda, una perdita di sudore 5 volte maggiore rispetto al normale [8]. da allora la fc venne identificata come “malattia degli scambi elettrolitici” e nel 1959 gibson e cooke misero a punto il test del sudore utilizzando la iontoforesi pilocarpinica, test di riferimento diagnostico per la fc anche ai nostri giorni [9]. nel 1989 venne scoperto, sul braccio lungo del cromosoma 7, il gene che codifica per il cftr [10]. ad oggi sono state identificate più di 1.600 mutazioni del gene. interessano una o poche basi nucleotidiche e sono distribuite per lo più sull ’intera parte esonica del gene e nelle sequenze di giunzione tra esoni e introni; una minoranza è localizzata negli introni. analisi di iii livello permettono di eseguire la ricerca di delezioni e/o inserzioni e di mappare l ’intero gene. le innumerevoli mutazioni possono rientrare in cinque classi: la classe i comprende le mutazioni responsabili di un’assenza della sintesi della proteina (es. g542x); la classe ii mutazioni responsabili del blocco del processamento della proteina cftr che viene bloccata e degradata dagli organuli intracitoplasmatici (es. deltaf508); la classe iii mutazioni responsabili della produzione di una proteina cftr mutata che raggiunge la membrana cellulare ma che risulta inattiva funzionalmente (es. g551d); la classe iv mutazioni responsabili di un’alterazione della permeabilità al cloro (es. r347p); la classe v mutazioni responsabili di una rallentata sintesi del cftr che è presente sulla membrana cellulare in quantità molto ridotta (es. 3849+10kbct) [11]. ogni classe di mutazione comporta conseguenze funzionali che possono, in parte, rendere conto dei diversi fenotipi della malattia, ma non esiste una correlazione inequivocabile tra assetto genetico e manifestazioni cliniche della malattia, verosimilmente anche per l ’intervento dei geni modificatori e di fattori ambientali al momento poco conosciuti [12]. clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 118 un caso di fibrosi cistica ricordiamo che nella popolazione italiana il rischio di risultare portatore di una mutazione fc è pari a 1 su 25-30 soggetti. quando entrambi i genitori sono portatori la probabilità di concepire un figlio con malattia è pari al 25%. la paziente è stata trattata con fisioterapia respiratoria, terapia nutrizionale, terapia antibiotica intensiva endovenosa secondo quanto suggerito dalla letteratura medica di riferimento degli anni ’90: uso di almeno due antibiotici appartenenti y a due classi differenti; impiego delle dosi massime raccomany date; farmaci scelti sulla base dell’antibiogramy ma dell’espettorato e sulla base della situazione clinica del paziente; terapia antibiotica protratta per almeno y 14 giorni. i principi di terapia antibiotica endovenosa intensiva utilizzati sono stati riconfermati negli anni successivi dalla consensus conference del 2004 [19] e da più recenti pubblicazioni [20,21] dove si sottolinea che la terapia antibiotica deve essere utilizzata anche durante le infezioni virali perché quasi inevitabilmente si assiste a un brusco aumento della carica batterica nelle vie respiratorie inferiori già infettate cronicamente da batteri quali staphylococcus aureus, haemophilus influenzae, pseudomonas aeruginosa, stenotrophomonas maltophilia, burkholderia cepacia, alcaligenes xylosoxidans, da micobatteri non tubercolari, da aspergillus fumigatus e recentemente anche da scedosporium apiospermum. negli anni successivi alla diagnosi si è constatato un netto miglioramento della situazione clinica generale, in particolare della situazione respiratoria con sospensione della ossigenoterapia ed evidente recupero delle prove di funzionalità respiratoria: l’fvc è infatti passato da 47% a 71% e il fev1 da 37 a 47%. per emottisi maggiori recidivanti, non controllabili con plurime embolizzazioni delle arterie bronchiali, nel 2003 la paziente è stata sottoposta a trapianto bipolmonare e attualmente presenta un ottimo stato di salute. prosegue la terapia immunosoppressiva senza segni di rigetto. il trapianto polmonare ha corretto la situazione respiratoria, ma permangono invariate le alterazioni a carico dell’apparato digerente con elevazione paucisintomatica delle lipasi e delle amilasi che evolveranno verso un quadro di insufficienza pancreatica che, se non corretta, darà luogo a maldigestione, steatorrea, malnutrizione. il sovvertimento strutturale pancreatico potrà determinare uno strozzamento delle insule pancreatiche con comparsa di ridotta tolleranza al glucosio o di diabete manifesto presente in più del 30% dei pazienti fc adulti e meritevole di trattamento con terapia insulinica in dosi refratte. non sono comparsi sino ad ora segni clinici di epatopatia cronica o di cirrosi epatica, mentre sta peggiorando, nonostante la corretta terapia in atto, l’osteoporosi. il medico di base ha un ruolo nella cura del paziente con fc? la fc è stata considerata sino ad alcuni anni or sono malattia di interesse esclusivamente pediatrico: frequentemente i piccoli pazienti morivano infatti in età infantileadolescenziale. alte e basse vie respiratorie apparato gastroenterico quadri metabolici e miscellanea tosse cronica produttiva y polipnea* y dispnea* y emottisi y colonizzazione da y ps.aeruginosa addensamenti broncopolmonari y ricorrenti anomalie persistenti all’rx torace: y bronchiectasie y atelectasia (lobo superiore y destro) enfisema y pneumotorace y abpa y ippocratismo digitale y pansinusite e/o poliposi nasale y equivalenti ileomeconiali y dell’adulto colopatia fibrosante y pancreatiti ricorrenti y steatorrea-maldigestione y epatopatia colostatica y calcolosi intraduttale y cirrosi y ipertensione portale y microcolecisti y calcolosi colecistica y giovanile ostruzione dei dotti y salivari azoospermia ostruttiva y assenza dei vasi deferenti y sindrome da disidratazione con y perdita di sali alcalosi metabolica y malnutrizione y ipoprotidemia y edemi discrasici y deficit di vitamina k y deficit di vitamina a y deficit di vitamina d y deficit di vitamina e y tabella ii elementi clinici sospetti per fibrosi cistica suddivisi per apparato * se persistente o refrattaria alle usuali terapie clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 119 m. a. monti, e. falcier, m. zanardelli, g. pizzamiglio oggi la malattia coinvolge anche il medico dell’adulto perché in questi ultimi 20 anni il miglioramento dei mezzi diagnostici e terapeutici ha permesso di ottenere un deciso prolungamento della sopravvivenza dei giovani pazienti e di diagnosticare e trattare adeguatamente soggetti adulti con manifestazione non completa di malattia assicurando loro una miglior qualità di vita. generalmente la diagnosi e la cura dei pazienti con fc avviene in centri di cura regionali di riferimento. la legge 548 del 1993 recita che «i centri di cura regionali (ccr) provvedono alla cura e alla riabilitazione dei malati fc sia in regime ospedaliero, sia in regime ambulatoriale e di day hospital, sia a domicilio. le cure al domicilio sono assicurate, su richiesta del paziente, con la collaborazione del medico di libera scelta e con il sostegno di personale infermieristico e riabilitativo, nonché di personale operante nel campo dell’assistenza sociale adeguatamente preparato dai ccr». molti medici di medicina generale hanno fra i loro assistiti pazienti affetti da fc o soggetti con forme fruste o paucisintomatiche di malattia non ancora diagnosticata. il medico di medicina generale rappresenta una figura di riferimento per i pazienti, per i familiari e per il colleghi del ccr. la collaborazione potrà realizzarsi in situazioni molto differenti tra loro: indirizzando l’assistito al ccr in preseny za di sospetto di malattia (interessamento persistente delle alte e basse vie respiratorie; alterazioni funzionali del pancreas e del fegato; sindrome da disidratazione; azoospermia ostruttiva nel giovane maschio); rassicurando il paziente diagnosticato in y età adulta che cerca notizie della sua malattia sul web dove sono descritti molto spesso solo i quadri classici di malattia che possono far sorgere pensieri di morte imminente, timori per il futuro personale, lavorativo e familiare; incoraggiando la “transizione” del giovay ne adulto dal centro pediatrico al centro adulti (ove presente) affinché si realizzino scelte responsabili di vita e di gestione della propria salute (vita lavorativa, affettiva, sessuale, programmazione familiare, pratiche anticoncezionali, gravidanza nelle giovani donne, infertilità nei giovani maschi) [22]; assistendo il paziente e i familiari sopraty tutto durante l’evoluzione peggiorativa della malattia perché il prolungamento della sopravvivenza comporta inevitabilmente un incremento delle numerose complicanze respiratorie e non respiratorie inscritte nella storia naturale della malattia. le riacutizzazioni broncopolmonari diventano sempre più frequenti e aumentano le complicanze quali lo pneumotorace [23], le emottisi favorite dall’enorme sviluppo delle rete vascolare peribronchiale [24], l’aspergillosi broncopolmonare allergica [25], l’atelectasia, il cuore polmonare cronico, l’insufficienza respiratoria cronica da trattare con ventilazione meccanica non invasiva [26], la comparsa di infezioni polmonari multiresistenti [27]. si aggravano anche le complicanze extrapolmonari con il peggioramento o la comparsa di epatopatie colestatiche, pancreatiti ricorrenti [28], diabete [29], osteoporosi f ratturativa [30], insufficienza renale iatrogena [31], ipoacusia da aminoglicosidi, incontinenza sfinterica [32], neoplasie soprattutto dell’apparato digerente, del pancreas e del fegato [28]. l’opzione trapianto d’organo, quando disponibile, deve essere discussa apertamente anche con i familiari esplicitando i dati di mortalità. l’esiguità del numero di donatori d’organo non garantisce a tutti la possibilità di un trapianto e il progressivo peggioramento è purtroppo inscritto e previsto nella storia della malattia: l’incertezza del futuro, la certezza di una morte prematura producono stress, ansia, depressione [33]. una comunicazione medico-paziente basata sulla fiducia, sulla lealtà reciproca faciliterà l’accompagnamento verso la morte. nuove terapie e nuove speranze la fc è una malattia cronica, evolutiva, invalidante. in molti pazienti il decorso della malattia può essere rallentato utilizzando quotidianamente una “terapia di base” che prevede l’uso di farmaci inalanti (beta2-agonisti, cortisonici, soluzione ipertonica, antibiotici), esercizi respiratori (per disostruire l’albero bronchiale occupato da secrezioni viscose e per controllare l’infezione respiratoria cronica), dieta ipercalorica e iperproteica con, se necessario, enzimoterapia pancreatica sostitutiva, integrazione idrica e salina (per compensare l’eccessiva perdita di acqua e di elettroliti legata clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 120 un caso di fibrosi cistica all’alterazione delle ghiandole sudoripare), integrazione vitaminica (vitamine a, d, e e k), procinetici, inibitori della secrezione gastrica, cui si aggiunge insulina in presenza di diabete e acidi biliari in presenza di epatopatia fc correlata. questa pesante terapia “sintomatica” ha permesso sin qui di incrementare la sopravvivenza e di migliorare la qualità di vita. nuove proposte terapeutiche però si affacciano all’orizzonte: la terapia genica per correggere il difetto genetico, possibilmente nei primi anni di vita quando il danno d’organo non è ancora consolidato; l’uso di farmaci che attivano i canali alternativi del cloro o che inibiscono l’eccessivo riassorbimento del sodio; la farmacoterapia allele-specifica che corregge il malfunzionamento “mutazionespecifico” del cftr [34] e con esse nascono nuove speranze di cura. disclosure gli autori dichiarano di non avere alcun confitto di interessi di natura finanziaria. bibliografia società italiana fibrosi cistica. report del registro italiano fibrosi cistica. 1. orizzonti fc 2006; 2: 2-28 walters s, metha a. epidemiology of cystic fibrosis. in: hodson m, geddes d, bush a (a cura 2. di). cystic fibrosis. london: hodder arnold publishing, 2007; pp 21-45 cystic fibrosis foundation. cystic fibrosis foundation patient registry: annual data report 3. 2007. bethesda, maryland: cff, 2008. disponibile su: www.cff.org dodge ja, lewis pa, stanton m, wilsher j. cystic fibrosis mortality and survival in the uk: 4. 1947-2003. eur respir j 2007; 29: 522-6 knowles mr, durie pr. what is cystic fibrosis? 5. n engl j med 2002; 347: 439-42 alonso y de los ruyzer de fonteca j. diez previlegios para mugeres prenadas. henares, spain, 6. 1606 andersen dh. cystic fibrosis of the pancreas and its relation to celiac disease. 7. am j dis child 1938; 56: 344-59 di sant’agnese pa, darling rc, perera ga, shea e. abnormal electrolyte composition of sweat 8. in cystic fibrosis of the pancreas: clinical significance and relationship to the disease. pediatrics 1953; 12: 549-63 gibson le, cooke re. a test for concentration of electrolytes in sweat in cystic fibrosis of the 9. pancreas utilizing pilocarpine by iontoforesis. pediatrics 1959; 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in particolare non si ri­ levano splenomegalia e/o linfoadenomegalie. l’anamnesi è negativa per febbre recente e per assunzione di farmaci. agli accertamenti laboratoristici emerge una lieve anemia normocitica (hb = 11,5 g/dl; mean corpuscolar volume, mcv = 86), con normalità dei leucociti, della coa­ gulazione e dello striscio di sangue perife­ rico. la piastrinopenia viene confermata in edta, sodio citrato ed eparina, mentre risultano: un caso di morbo di werlhof sottoposto con successo al trattamento non convenzionale con rituximab abstract idiopathic thrombocytopenic purpura (itp) is a disorder characterized by accelerated destruction of platelets. about 25 to 30% of patients with itp are resistant to standard treatment. recent reports suggest that rituximab may be useful in treating chronic refractory itp. we report a case of a 72-year-old woman with itp resistant to standard treatment with steroids (prednisone 2 mg/kg for 2 weeks, followed by prednisone 1 mg/kg) and intravenous immunoglobulin (0,5 mg/ kg for 5 days). an infection by helicobacter pylori was eradicated; afterwards she was treated with rituximab 375 mg/m2, once weekly for four weeks, resulting in a complete long-lasting response. rituximab could represent a satisfactory alternative to the splenectomia in the adults with itp; in our case the remission is complete (stable platelets > 200 x 109 after 8 months), early (before the fourth dose) and sustained (follow-up 18 months). keywords: chronic idiopathic thrombocytopenic purpura, rituximab, helicobacter pylori successful treatment with rituximab of refractory immune thrombocytopenic purpura cmi 2009; 3(4): 171-179 1 medicina interna, ospedale cervesi di cattolica (asl rimini) corresponding author dottoressa daniela tirotta medicina interna, ospedale cervesi di cattolica (asl rimini) via beethoven 1 47841 cattolica e­mail: danitirotta@libero.it perché descriviamo questo caso? perché è emblematico di quanto l ’itp sia una malattia dalla diagnosi talora problematica, in quanto di esclusione, e pertanto dubbia, soprattutto in caso di mancata risposta terapeutica, e di quanto, soprattutto nella forma cronica, sia altrettanto difficile la scelta terapeutica. tale scelta, infatti, non segue fedelmente linee guida desunte da studi randomizzati controllati, ma viene ponderata in relazione alle caratteristiche del singolo paziente caso clinico anticorpi anti­piastrine: positivi; y autoimmunità sistemica (ana, anticorpi y anti­nucleo; ena, anticorpi anti­nucleo estraibili; anti­dna nativo): negativa; anticorpi anti­fosfolipidi: negativi; y lac (lupus anticoagulante): negativo; y clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 172 un caso di morbo di werlhof sottoposto con successo al trattamento non convenzionale con rituximab sierologia infettiva (anti­hcv, hiv, y cmv, ebv, toxoplasma, parvovirus b19, mycoplasma): negativa. a causa dell’indosabilità delle piastrine, la paziente viene sottoposta, senza esito positi­ vo, a trasfusione con due unità di emazie. l’assenza di patologie correlate (infettive, autoimmuni, coagulative come la coagu­ lazione intravascolare disseminata, linfo­ proliferative, iatrogene, mielodisplastiche, ereditarie, agammaglobulinemia) e di sple­ nomegalia all’ecografia addome, nonché la refrattarietà alla trasfusione, suggeriscono l’ipotesi diagnostica di porpora idiopatica trombocitopenica (itp). viene pertanto iniziata la terapia di primo livello, con l’infusione di steroide ad alte dosi (prednisone 2 mg/kg per 2 settimane, scalato a prednisone 1 mg/kg) e, successivamente, immunoglobuline (0,5 mg/kg per 5 gior­ ni). dopo tre settimane di mancata risposta al trattamento, e anche in considerazione dell’impossibilità di procedere alla splenec­ tomia (valore delle piastrine tra indosabili e 4.000/mm3), sono possibili due scelte te­ rapeutiche: terapia immunosoppressiva o somministrazione di anticorpo monoclonale anti­cd20. viene scelta la seconda strate­ gia, in virtù dei dati di efficacia e sicurezza promossi in letteratura dai recenti studi cli­ nici (vedi discussione). la paziente è quindi sottoposta a trattamento con rituximab 375 mg/m2 in quattro cicli settimanali: l’incre­ mento della conta piastrinica è, a questo punto, progressivo. tuttavia l’età, la refrattarietà alla terapia di prima linea e la potenziale futura indicazione alla splenectomia, in caso di recidiva, pon­ gono indicazione all’esecuzione della biopsia midollare, che conferma la diagnosi di iper­ plasia fisiologica dei precursori piastrinici. inoltre, nel corso del ricovero emergono altre patologie associate, quali una paralisi periferica del vii nervo cranico e la posi­ tività dell’helycobacter pylori fecale, trattato con terapia eradicante (possibile fattore sca­ tenante). la paziente viene infine dimessa dopo l’ultima infusione di rituximab, con valori di piastrine pari a 40.000/mm3; viene fissato un monitoraggio ambulatoriale perio­ dico e si prescrive la prosecuzione domici­ liare del tapering steroideo e della profilassi osteoporotica. all’ultimo controllo ambulatoriale, effet­ tuato a un anno di distanza dal ricovero, la conta piastrinica risulta compresa in valori normali; in questo caso, pertanto, la rispo­ sta a rituximab è stata precoce (prima della quarta dose) e completa (piastrine stabili su 20 x 109/l a 18 mesi). quesiti da porsi di fronte a una porpora idiopatica trombocitopenica qual è l ’usuale andamento epidemiologico y e clinico dell ’itp? qual è l ’approccio diagnostico nell ’adulto y con sospetta itp? il dosaggio degli antibiotici anti-piastrine y va usato come test di screening? la biopsia osteomidollare è sempre ney cessaria nell ’ambito del processo diagnostico? qual è il timing per iniziare il trattay mento? qual è la terapia convenzionale di priy ma linea? quali sono le strategie terapeutiche nei casi y a decorso refrattario? quali sono le attuali evidenze per la tey rapia con l ’anticorpo monoclonale anticd20? discussione andamento epidemiologico e clinico la porpora idiopatica trombocitopenica o porpora trombocitopenica immunitaria o, in caso di cronicità, morbo di werlhof (dal nome dello studioso che lo scoprì, nel 1735, definendolo “morbus maculosus hemor­ ragicus”) è un’affezione non inusuale (5,8­ 6,6 casi/100.000 ogni anno), con media di presentazione 38­49 anni. nell’adulto l’itp è tipicamente una ma­ lattia insidiosa, non preceduta da infezioni o immunizzazione, più frequente nel sesso femminile (1,7 volte), la cui clinica è variabile e va dall’asintomaticità a varie manifestazioni, più frequenti in caso di severa piastrinopenia (plt < 30 x 109/l), comprendenti: segni cuta­ nei (petecchie, ecchimosi, ematomi), emorra­ gie mucose (tratto orale e gastrointestinale), e, infine, emorragie franche di ogni sito, di cui la più sfavorevole è l’intracranica. la forma acuta, che si autolimita, va distinta pertanto dalla forma cronica persistente (tempo di terapia superiore a mezzo anno per ottenere una normale conta piastrinica), dal decorso talora refrattario alla terapia convenzionale. la storia clinica naturale è scarsamente definita, ma sono in corso alcuni studi che clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 173 d. tirotta, v. durante si prefiggono hard outcome, quali lo studio a lungo termine della mortalità e della mor­ bilità della malattia. in figura 1 è schematicamente rappre­ sentato il meccanismo fisiopatologico della malattia. approccio diagnostico la diagnosi di itp viene posta dopo esclusione delle molteplici affezioni di cui la trombocitopenia è conseguenza o epifeno­ meno (indicazione basata su consenso) [1]. dovranno, in particolare, essere esclusi (figura 2): figura 1 fisiopatologia della porpora idiopatica trombocitopenica (itp) semplificata. il meccanismo più importante dell ’itp è la fagocitosi abmediata: la milza è il sito principale di clearance delle piastrine opsonizzate con igg e di produzione di ab, in minoranza il fegato. il processo è più complesso e si autoalimenta: la distruzione piastrinica è mediata anche dal complemento, viene inibita la megacariocitopoiesi (presumibilmente tramite anticorpi anti-glicoproteine dei megacariociti) e nel 40% dei casi entra in gioco la perdita della tolleranza immunologica b e t ab = anticorpi; ag = antigeni; apc = cellula presentante l’antigene; gp = glicoproteina; mhcii­tcr = complesso maggiore di istocompatibilità­ recettore dei linfociti t cellula b produce auto-ab anti gpiib/iiia e ib/ix piastrinici, ma anche verso altri multipli antigeni. tuttavia la remissione dell’itp può avvenire in presenza di anticorpi e solo il 50% dei casi è positivo per questi cellula t stimola le cellule b (cd4+) a produrre ab. le cellule t realizzano, inoltre, la citotossicità cellulo-mediata, con maggior target antigenico gpiib/iiia (in vitro) macrofagi (cellule apc) attivano le cellule t, che riconoscono gli ag piastrinici (interazione mhcii-tcr e ulteriori molecole) figura 2 schema diagnostico della porpora idiopatica trombocitopenica (indicazioni basate su consenso) [1] biopsia osteomidollare anticorpi anti-piastrine anamnesi latenza y (maggiore nei disturbi piastrinici dei coagulativi), severità e durata dell’emorragia, eventuale storia di sanguinamento dopo interventi chirurgici, odontoiatrici e traumi esclusione di sintomi sistemici y esclusione di altre cause di trombocitopenia y : recente storia di trasfusione y fattori di rischio per hiv y alcolismo y storia familiare di trombocitopenia y storia di malattia ematologica (leucemia acuta con infiltrazione midollare, malattia di von willebrand, anemia y aplastica) esclusione di condizioni associabili a trombocitopenia autoimmuni: farmaci, infezioni, malattie linfoproliferative, y altri disordini autoimmuni esclusione di condizioni che possono aumentare il rischio di emorragia: anomalie gastrointestinali, y genitourinarie o del sistema nervoso centrale accertamenti di primo livello conta piastrinica in citrato ed eparina sovrapponibile (0,1% pseudopiastrinopenia da edta) y striscio di sangue periferico: esclusione di leucemie acute e croniche, anemia megaloblastica, mielodisplasia, y anemia microangiopatica, trombocitopenia ereditaria autoimmunità sistemica negativa (richiedere ana e, se positivi, ena e dna) y nei pazienti resistenti alla terapia, ricerca dell’ y helicobacter pylori (l’eradicazione si associa spesso a miglioramento della conta piastrinica) test di coagulazione nei limiti (inclusi lupus anticoagulante e antifosfolipidi) y anticorpi anti-hcv, hiv, y citomegalovirus, virus di epstein-barr, parvovirus b19, toxoplasma negativi test di funzionalità tiroidea nei limiti y ecografia addome negativa per epatosplenomegalia ed eventuali linfoadenopatie y esame obiettivo segni di sanguinamento y assenza di y spleno/epatomegalia assenza di segni che evochino una y trombocitopenia non immune: infezioni severe y segni neurologici (porpora trombotica trombocitopenica) y anomalie scheletriche (associabili a trombocitopenia congenita) y linfoadenomegalie e epato/splenomegalia (associate a malattie linfoproliferative, presenti in < 3% delle itp) y assenza di eventuali segni di y affezioni comunque associabili a piastrinopenia: linfoadenomegalie da hiv y linfoadenomegalie o masse palpabili, che evochino neoplasie y artriti, raynaud, livedo, come da disordini autoimmuni y itpquadro atipico clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 174 un caso di morbo di werlhof sottoposto con successo al trattamento non convenzionale con rituximab malattie autoimmuni: lupus eritematoso y sistemico, sindromi da anti­fosfolipidi; deficit immunologici: deficit congenito y di iga, ipogammaglobulinemia comune variabile; malattie linfoproliferative: linfomi, leuce­ y mia linfatica cronica; infezioni: hiv, hcv, y citomegalovirus, virus di epstein-barr, toxoplasma, parvovirus b19; malattie autoimmuni tiroidee; y uso di alcuni farmaci. y se quadro obiettivo, anamnestico e labo­ ratoristico­strumentale risultano tipici, non sono necessari accertamenti di secondo li­ vello, quali gli anti­piastrine e la biopsia osteomidollare. gli anticorpi anti-piastrine (anti­glico­ proteine iib/iiia e ib/ix), infatti, hanno specificità relativamente alta (78­92%), ma bassa sensibilità (49­66%): di fronte a un basso numero di falsi positivi (es. igg anti­ piastrine positive all’immunofluorescenza diretta anche nelle setticemie), vi è un alto numero di falsi negativi. il dosaggio degli anticorpi, pertanto, non è routinario, ma indicato in casi peculiari: ipotesi di combinazione di insufficienza y midollare e piastrinopenia immunome­ diata; itp refrattaria alla terapia di i e ii linea y (anche per monitoraggio degli effetti del trattamento); trombocitopenia immune farmaco­di­ y pendente (eparina, acido acetilsalicilico, teicoplanina, sulfamidici, tiazidici, clo­ rochina). anche la biopsia osteomidollare non si configura come una metodica routinaria, ma riconosce indicazioni specifiche: età > 60 anni; y presentazione atipic a o alterazioni y dell’emocromo (es. macrocitosi o neu­ tropenia); scarsa risposta alla terapia di prima linea y (prednisolone/immunoglobuline); programmazione di splenectomia. y trattamento timing per il trattamento poiché esistono pochi trial randomizzati controllati, la strategia terapeutica dell’itp è modulata sul paziente, tenendo conto di età, stile di vita, presenza di ipertensione o recente trauma cranico, livello delle piastri­ ne, emorragie in corso, programmazione di interventi, e va iniziata solo se necessaria, ossia se la conta piastrinica risulta inferio­ re alla soglia (20­30 x 109/l, oppure 30­50 109/l in pazienti ad alto rischio). le opzioni terapeutiche non prescindono da una buo­ na conoscenza dei meccanismi fisiopatolo­ gici (figura 1 e tabella i) e, comunque, si prefiggono come outcome la prevenzione dell’emorragia, non la normalizzazione delle piastrine (tabella ii) [2]. in ogni caso, qualora si inizi il trattamento, si parla di remissione completa per piastrine > 100 x 109, parziale per piastrine > 50 x 109, minima per piastrine > 30 x 109, altrimenti si parla di mancata risposta. la risposta si definisce, inoltre, sostenuta, se protratta per un periodo > 6 mesi. terapia convenzionale della itp (terapia di prima linea) la terapia di prima linea dell’itp com­ prende il prednisone orale e/o, eventual­ tabella i meccanismo patogenetico dei principali farmaci utilizzati nella porpora idiopatica trombocitopenica fcγr = recettori dei frammenti di cristallizzazione (fc) delle immunoglobuline (ig) prednisone orale ha un’azione non completamente chiara: riduce la clearance delle piastrine rivestite da anticorpi e la distruzione midollare macrofagica, stimola i progenitori megacariocitari, diminuisce la produzione di anticorpi immunoglobuline endovena hanno un meccanismo complesso: riducono la clearance delle piastrine opsonizzate (blocco degli fcγr macrofagici e aumento di espressione degli inibitori dell’fcγriib sui macrofagi splenici), inibiscono il legame del complemento alle piastrine, riducono il rilascio di citochine proinfiammatorie da parte dei monociti, hanno attività di anticorpi antidiotipo immunoglobuline anti-d endovena distruggono le emazie rh-positive rimosse dal sistema reticoloendoteliale (specie la milza), bloccando l’fc receptor. inoltre sembra che interagiscano con le citochine infiammatorie rituximab è un anticorpo monoclonale chimerico murino-umano iggk, utilizzato comunemente nei linfomi non-hodgkin, che induce citotossicità complemento-dipendente e anticorpo mediata e apoptosi delle cellule b clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 175 d. tirotta, v. durante mente, le immunoglobuline endovena (o gli anti­d) [1­3]. prednisone orale è di scelta nei pazienti non a rischio di vita (indicazione basata su studi di coorte) [1­3]. tale terapia è empi­ rica per dose di attacco (1­2 mg/kg di pred­ nisone, ma basse dosi, pari a 0,25­0,5 mg/ kg/die, sembrano avere, comunque, efficacia sovrapponibile), durata della terapia a dosi piene (da 2 a 4­6 settimane), e modalità di tapering (diverse settimane). due terzi dei pazienti ottengono una risposta completa o parziale in 7­10 gior­ ni, nel 20­40% dei casi duratura, ma molti recidivano riducendo la dose. in caso di mancata risposta dopo 3­4 settimane, lo steroide viene ridotto e stoppato. il corti­ sone, pur potendo prevenire recidive, non si usa con modalità protratta per gli effetti collaterali di cui è gravato, specie dopo i 60 anni (ipertensione, osteoporosi, diabete mellito, infezioni opportunistiche, necrosi asettica). varianti del prednisone orale sono: metilprednisolone parenterale y (30 mg/ kg/die per 3 giorni, 20 mg/kg per 4 giorni, poi 5­2­1 mg/kg ognuno per una settima­ na): agisce più velocemente dell’orale (3­5 giorni), ma l’efficacia è spesso transitoria per alcune settimane; alte dosi di y desametasone (30­40 mg/ die 4 giorni/mese) hanno efficacia pari/ superiore (80­89% di risposta iniziale) al prednisone (non confermata da tutti gli studi) e non presentano necessità di un mantenimento; tuttavia sono associate a pericolo di over­trattamento. le immunoglobuline endovena, invece, andrebbero utilizzate nei non responsivi al cortisone, qualora sia controindicato (esem­ pio nel diabete mellito scompensato) e, in associazione allo steroide, in casi di emer­ genza, per preparazione agli interventi e in gravidanza (indicazione basata su pochi trial randomizzati controllati, alcuni studi di coorte) [1­3]. dosi di 0,4 g/kg/die per 5 giorni o due infusioni giornaliere di 1 g/kg/die sono ef­ ficaci nel 75­92% dei casi, con normalizza­ zione dell’emocromo nel 50% dei soggetti, risposta dopo un giorno e usuale picco dopo una settimana. sono, tuttavia, associate a una remissione transitoria (3­4 settimane, con successivi livelli delle piastrine pretrat­ tamento) e sono costose. gli effetti avversi sono lievi: cefalea, talora nausea e vomito, specie dopo la prima infu­ sione, raramente sopore, febbre, fotofobia, mobilizzazione oculare dolorosa; rara l’im­ munosoppressione. può essere utile, inoltre, l’acido tranexamico (25 mg/kg per os ogni 6 ore), per sta­ bilizzare il coagulo di fibrina e quindi ridurre la sintomatologia emorragica. le immunoglobuline anti-d endovena sono indicate nei pazienti rh positivi non splenectomizzati e con hb > 10 g/dl, non nelle situazioni di urgenza, data la latenza di risposta di 48­72 ore (indicazione basata su scarsi studi osservazionali e un trial ran­ domizzato controllato) [1­3]. pur non es­ sendo stati condotti trial con alta potenza, sembrano efficaci nel 70% degli adulti, con durata di risposta variabile da giorni a mesi. tipologia di piastrinopenia valori di plt e sintomi trattamento piastrinopenia non trattata plt > 20 x 109 senza o con minima porpora osservazione plt < 20 x 109 o con sintomi di sanguinamento prednisone 1-2 mg/kg per os con graduale tapering eventuale terapia con ig ev o anti-d piastrinopenia persistente dopo terapia steroidea plt > 20 x 109 senza o con minima porpora osservazione plt < 20 x 109 o con sintomi di sanguinamento splenectomia piastrinopenia persistente dopo splenectomia plt > 10-20 x 109 senza o con minimi sintomi di sanguinamento osservazione plt < 10-20 x 109 o con sintomi di sanguinamento rituximab 375 mg/m y 2/sett per 4 settimane desametasone 40 mg/die per 4 giorni, ripetuto y anche ogni 4 settimane altri agenti (azatioprina, ciclofosfamide, danazolo, y ciclosporina, micofenolato mofetile) piastrinopenia persistente dopo terapia immunosoppressiva plt < 10-20 x 109 con sintomi di emorragia protocolli sperimentali emorragie franche, quali epistassi o altre emorragie mucose ig ev y alte dosi di metilprednisolone y antifibrinolitici y trasfusione piastrinica per emorragia critica y tabella ii schema terapeutico riassuntivo della porpora idiopatica trombocitopenica. modificata da [2] ig = immunoglobuline; plt = piastrine clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 176 un caso di morbo di werlhof sottoposto con successo al trattamento non convenzionale con rituximab la dose è discussa: 50 µg/kg sono sufficienti, ma 70­80 µg/kg determinano una risposta più veloce; possono inoltre essere ripetute più infusioni. effetti avversi sono la flu-like sindrome (cefalea, nausea, febbre, vertigini), raramente un’emolisi extravascolare clinicamente signi­ ficativa o una coagulazione intravascolare disseminata. l’uso ripetuto, quale mantenimento, delle ig ev o delle ig anti­d evita nel 40% dei pa­ zienti la splenectomia: in tal caso gli anti­d andrebbero preferiti per i bassi costi e il breve tempo di infusione (minuti vs ore). trattamento di emergenza negli adulti l’ospedalizzazione è opportuna in caso di piastrine < 5.000 e/o emorragia significativa. ci si avvale di immunoglobuline ev (1 g/kg/ giorno per 2 giorni se plt < 50.000), metilprednisone (1 g endovena al giorno per 3 giorni) o una combinazione (per una veloce risalita della conta). possono essere poi con­ siderati la trasfusione di piastrine, che non agisce tanto sulla conta piastrinica, quanto sulla riduzione dell’emorragia e, per ultimo, il fattore umano viia ricombinante. strategie terapeutiche di seconda linea nei casi di morbo di werlhof (decorso refrattario) si definiscono pazienti refrattari (11% dei casi) coloro che non rispondono alla terapia di prima linea o che richiedono dosi inacce­ tabilmente alte di steroide per il manteni­ mento. la terapia, in tal caso ancora meno codificata, viene valutata in relazione a età, severità di presentazione, livello di piastrine, patologia refrattaria o recidivata e latenza prima della recidiva. può essere riconsiderata la terapia di prima linea modulata o si può optare verso la seconda linea convenzionale (splenectomia) o la terza linea. la splenectomia è indicata in caso di pazienti steroido­dipendenti (> 10 mg/die) e nei non responsivi dopo 6 mesi dalla dia­ gnosi, dopo che le piastrine siano risalite a valori > 50 x 109 con steroidi e/o immu­ noglobuline (indicazione basata su studi di coorte) [1]. la risposta, maggiore nei giovani, si ottie­ ne nel 60­85% dei casi, spesso dopo diversi giorni (è molto rara a 10 giorni), mentre le recidive (11% dei casi) diminuiscono con il tempo (rare dopo due anni). l’indicazione alla splenectomia va pon­ derata: esistono casi di itp refrattaria con inaspettate remissioni spontanee a un anno, mentre molteplici sono i rischi chirurgici: mortalità (0,3­0,9%) e morbilità a lungo termine (6,3%) (sepsi e trombosi). due set­ timane prima è necessaria l’immunizzazio­ ne preventiva anti­capsulati (pneumococco, meningococco, haemofilus influentiae b), mentre è controverso l’uso antibiotico pro­ filattico post­operatorio. responsabili di fallimento possono esse­ re una milza accessoria o nuovi foci splenici rimasti dopo la chirurgia (corpi di howell­ jolly nello striscio). la scintigrafia con ra­ dionuclide (in) fornisce, a tal proposito, elementi prognostici, tuttavia non è racco­ mandata sempre perché costosa, non sempre disponibile e poco specifica (valore predittivo positivo = 93% se sequestro splenico; valore predittivo negativo = 77% se epatico). terapia di terza linea e/o sperimentale (farmaci off label) rituximab in caso di refrattarietà alla prima linea, può essere utilizzato rituximab, indicato nei pazienti con breve storia di malattia, per dif­ ferire la splenectomia o nei casi refrattari agli steroidi e alle immunoglobuline (indicazione basata su serie di casi, case report) [1­3]. rituximab determina remissione nel 25­ 75% dei casi; la velocità di risposta è soddi­ sfacente in relazione alla storia di cronicità e refrattarietà dei pazienti (5,5 settimane in media) ed è sostenuta nella maggioranza dei casi secondo alcuni studi, nel 15­20% secon­ do altri (talora la risposta è transitoria per 6­12 mesi, periodo associato, per altro, alla deplezione delle cellule b) [4­7]. tre sono i pattern di risposta: precoce: prima della quarta dose; y intermedia: tra la settima e l’undicesima y settimana; tardiva: dopo 13 settimane. y l a r i s p o s t a p re c o c e è d o v u t a a l l a saturazione dei recettori macrofagici tramite le cellule cd20 opsonizzate, la risposta intermedia e tardiva alla deplezione delle cellule b e alla secondaria ridotta produzione di anticorpi. si deduce che prima di procede­ re con un’ulteriore terapia, bisogna aspettare un tempo ragionevole (talora si verificano risposte tardive a un anno). mancano, infine, sicuri elementi predittori di risposta: la prognosi sembra peggiore per i pazienti trattati più intensivamente (al­ meno tre schemi terapeutici) e per tempo maggiore (> 10 anni dalla diagnosi), inoltre clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 177 d. tirotta, v. durante i non splenectomizzati sembrerebbero avere una risposta più precoce (non confermata in tutti gli studi). i più responsivi sarebbero i pazienti con breve storia di malattia, perché l’espansione oligoclonale t non sarebbe ancora critica; al contrario se le cellule t fossero sovraespresse, continuerebbero a stimolare la produzione di anticorpi a prescindere dal pattern cito­ chinoico presente. rituximab è stato sviluppato per il trat­ tamento del linfoma; il primo report relati­ vo all’impiego nella itp risale al 2001 [8]. il razionale per il suo impiego nella itp è correlato alla sua azione nella deplezione delle cellule b con conseguente produzione di anticorpi anti­piastrine. un altro possibi­ le meccanismo è correlato alla modulazione delle cellule t [9]. in una review recente, basata su 19 report sull’efficacia in 313 pa­ zienti con itp e 29 articoli sulla sicurezza (306 pazienti), la risposta completa era stata definita come conta piastrinica > 150 x 109/l e la risposta parziale come piastrine > 50 x 109/l [10]. la risposta completa era stata rag­ giunta nel 43,6% dei pazienti, quella parziale nel 62,5%. la durata della risposta variava da 2 a 48 mesi. si erano verificati eventi avversi lievi o moderati in 21,6% soggetti, mentre il 3,7% era andato incontro a eventi avversi gravi o pericolosi per la vita. l’interesse verso rituximab come alter­ nativa alla splenectomia è stato studiato in maniera prospettica in uno studio in aperto condotto su 60 pazienti con itp cronica e canditati alla splenectomia. rituximab ha permesso di ottenere un 40% di risposte a lungo termine, senza eventi avversi gravi [11]. tali esiti sono stati confermati da uno studio controllato condotto su oltre 100 pa­ zienti che ha mostrato un elevato tasso di risposta a 2 anni [12]. questi dati eviden­ ziano come rituximab possa rappresentare una valida alternativa alla splenectomia in soggetti con itp cronica. rimane aperta la questione del dosaggio. il dosaggio normal­ mente impiegato nei vari studi è di 375 mg/ m2 in 500 mg di glucosata al 5% in infusio­ ne continua di 4 ore, una volta/settimana x 4 settimane, previa somministrazione profilat­ tica di antipiretici e antistaminici 30 minuti prima (paracetamolo 500 mg, clorfenamina 10 mg, idrocortisone 100 mg ev). tale scelta posologica è basata sull’impiego standard nei soggetti con linfoma. è tuttavia possibile che posologie differenti possano rivelarsi efficaci, ad esempio è descritto anche un ritrattamen­ to con rituximab (375 mg/m2) ogni 6 mesi, con buona risposta. inoltre alcune casistiche sostengono la pari efficacia di cicli con bas­ se dosi (100 mg/m2) ogni settimana, per 4 settimane [13,14]. farmaco posologia note micofenolato mofetile 1,5-2 g/die per os risposta nel 55-80% dei casi (completa nel 24-33%), latenza di 2-13 mesi. eventi avversi tenui e reversibili: nausea, cefalea, diarrea, mal di schiena. sono necessari ulteriori studi danazolo 200 mg 2-4 volte/die per almeno 2 mesi efficace nel 50-80 %, lunga latenza (dà recidive se somministrato < 6 mesi). indicato per s da oiverlap (itp e les), donne anziane e sottoposte a splenectomia. molteplici i collaterali: epatotossicità, virilizzazione, amenorrea, rash, aumento ponderale azatioprina * 2 mg/kg fino a un max di 150 mg al giorno da continuare almeno 6 mesi prima di essere considerata inefficace, si riduce al mantenimento, appena le piastrine risalgono. riduce numero e funzione delle cellule b e t. ciclofosfamide * 1-1,5 mg/m2 ogni 4 settimane riduce numero e funzione delle cellule b e t. risposta nell’85% dei casi, mantenuta nel 50%. nel 22% dei casi: neutropenia, trombosi e infezioni ciclosporina * basse dosi: 5 mg/kg/die per 6 giorni, ridotti a 2,5-3 mg/kg/die alte dosi: 5-6 mg/kg/die inibisce le cellule t, l’attivazione antigene-indotta tcd4 e la produzione di il2 e altre citochine: è efficace nel 50-55% dei casi; nel 30-40% risposta completa e persistente per mesi e anni. frequenti i collaterali: ipertensione, dolore muscolare, cefalea, aumento della creatinina. più tollerate basse dosi vincristina ** 1 mg ev, occasionalmente 2 mg può dare neuropatia. poco utilizzato: efficacia transitoria dopo 1-3 settimane e risposta sostenuta < 10% dei casi vinblastina ** 5-10 mg ev per 4-6 settimane infusi ev ogni 6-8 ore può dare leucopenia. poco utilizzato: efficacia transitoria dopo 1-3 settimane e risposta sostenuta < 10% dei casi dapsone 75-100 mg/die per os risposta transitoria nel 40-50% dei casi. molteplici i collaterali: cianosi, metaemoglobinopatia, emolisi, rash, nausea, vomito, cefalea compat-1h (anticorpo monoclonale anti cd-52) latenza di risposta da 4-6 settimane a 4-9 mesi. dà importanti collaterali: rigor e febbre in corso di infusione, marcata linfopenia in tutti i trattati tabella iii principali farmaci immunosoppressori utilizzati nell ’itp * farmaci immunosoppressori, usati per necessità di elevare velocemente le piastrine; può essere utilizzato metilprednisolone associato a ciclofosfamide ** alcaloidi della vinca: stimolano la trombocitopoiesi e sopprimono l’immunità umorale e cellulare clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 178 un caso di morbo di werlhof sottoposto con successo al trattamento non convenzionale con rituximab altri farmaci esiste, infine, tutta una serie di farmaci (tabella iii) associati a risposta nel 30­35% dei casi, risposta che peraltro dura poche settimane ed è gravata da severi effetti colla­ terali. questi farmaci sono pertanto sempre meno utilizzati. altri trattamenti al momento sono di uso solo sperimentale. l’attuale strategia terapeu­ tica dell’itp prevede la soppressione della produzione di auto­anticorpi o l’inibizione della distruzione delle piastrine. spesso però è l’incremento della produzione piastrinica a non essere ottimale: ad esempio per di­ struzione della trombopoietina (tpo) da parte della massa megacariocitaria espansa, per autoanticorpi leganti i megacariociti, per apoptosi dei megacariociti, e/o bassi livelli di tpo [15]. alcuni nuovi farmaci, pertanto, mirano ad agire sulla produzione piastrinica. la prima generazione di tali composti è costituita da fattori di crescita (mgdf, megakaryocyte growth and differentiation factor), ritirati però dal commercio perché nei sani stimo­ lano la produzione di anticorpi. la seconda generazione è composta da peptidi tpo­mimetici che attivano il recet­ tore per tpo e altre molecole (non­peptidi tpo­mimetici e anti­tpo) che si legano al tpo receptor. i maggiori effetti colla­ terali associati sembrano essere trombosi, neoplasie/leucemia, produzione di anticor­ pi, fibrosi midollare e peggioramento della piastrinopenia alla sospensione. due sono le sostanze testate nei trial di fase ii e iii, con risultati incoraggianti: romiplostin/amg 531 (iniezione sc settimanale per 1­6 setti­ mane) ed eltrombopag (per os 1 cpr/die per 6 settimane) [15]. la terapia eradicante dell’helicobacter pylori helicobacter pylori è positivo nel 43­75% dei pazienti con itp e rappresenta una possibile concausa nella patogenesi della malattia. la terapia eradicante è efficace nell’84­ 100% dei pazienti, determinando una re­ missione completa nel 25%­46% e parziale nell’8­44% [3]. benché gli studi condotti siano pochi (alcuni di questi sono però trial randomizzati controllati e studi os­ servazionali), il trattamento è poco costo­ so, semplice e di limitata tossicità; inoltre spesso evita la necessità di un’immunosop­ pressione. la terapia sembra meno efficace nelle itp presenti da tempo e con < 30.000 piastrine. conclusioni l’itp è spesso over­trattata, sebbene i pericoli di ogni terapia siano molteplici. se, da un lato, infatti, asintomaticità (21% dei casi), bassa percentuale di severe emorragie in pazienti a rischio (0,0162­0,0389 casi/ pazienti a rischio ogni anno) e maggior peso, come causa di morte, di infezioni secondarie a immunosoppressione rispetto alle emorra­ gie lasciano propendere per un differimen­ to terapeutico, dall’altra alcuni elementi di rischio per emorragie fatali (età > 60 anni e livello di piastrine persistentemente inferio­ re alla soglia) consentono di propendere per una strategia più aggressiva. nel nostro caso la scarsa risposta alla tera­ pia convenzionale, instaurata per la prolun­ gata persistenza di severa piastrinopenia, è stata motivo di perplessità sulla correttezza diagnostica e ha determinato l’esecuzione di ulteriori accertamenti, come la biopsia osteomidollare. i pazienti che non rispondono alla prima e seconda linea sono un dilemma terapeuti­ co: sono basse le chance di remissione e alte le possibilità di effetti collaterali. mancano evidenze: sono pochi i soggetti con severa trombocitopenia post­splenectomia, rara­ mente sono descritti outcome diversi dalla conta piastrinica, gli studi sono condotti su un numero limitato di pazienti, non sono controllati, hanno campione eterogeneo, breve follow­up e risentono dei bias inerenti i trial osservazionali. nel caso descritto si è optato per rituximab (data la negatività del gruppo rh e l’impos­ sibilità di effettuare subito la splenectomia, per la severa piastrinopenia), che, data la ri­ sposta sostenuta, non è risultato un tratta­ mento medico propedeutico alla chirurgia, ma una terapia definitiva. non abbiamo, infine, riscontrato eventi avversi post­infusivi, in linea con i dati della letteratura: se infatti, mancano forti evidenze circa le indicazioni e l’efficacia di rituximab, dall’altra i suoi effetti collaterali sembrano scarsi (21,6% effetti moderati/medi, 3,7% severi: ipogammaglobulinemia, ipotensione, broncospasmo, reazioni di ipersensibilità, raramente shock cardiogeno). al contrario le altre opzioni terapeutiche determinano infrequentemente risposta sostenuta e sono gravate da alta morbilità (emorragie e infe­ zioni) e mortalità (> 20% a 10 anni). clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 179 d. tirotta, v. durante bibliografia british committee for standards in hematology. guidelines for the investigation and 1. management of idiopathic thrombocytopenic purpura in adults, children and in pregnancy. br j haematol 2003; 120: 574­96 george j. management of patients with refractory immune thrombocytopenic purpura. 2. j thromb haemost 2006; 4: 1664­72 stevens w, koene h, waginga jj, vreugdenhil g. chronic idiopathic thrombocitopenic purpura: 3. present strategy, guidelines and new insight. neth j med 2006; 64: 356­63 kelly k, gleeson m, murphy pt. slow responses to standard dose rituximab in immune 4. thrombocytopenic purpura. haematologica 2009; 94: 443­4 perrotta al. re­treatment of chronic idiopathic thrombocytopenic purpura with rituximab: 5. literature review. clin appl thromb hemost 2006; 12: 97­100 arnold dm, dentali f, meyer rm, crowther ma, sigouin c, kelton jg. rituximab for 6. treatment of adults with itp: a systematic review. blood 2005; 106: 361a chavez jg, cruz am, cervantes lm, esparza mgr , ojeda jv and the mexican hematology 7. study group. rituximab therapy for chonic and refractory immune thrombocytopenic purpura: a long­term follow­up analysis. ann hematol 2007; 86: 871­7 stasi r, pagano a, stipa e, amadori s. rituximab chimeric anti­cd20 monoclonal antibody 8. treatment for adults with chronic idiopathic thrombocytopenic purpura. blood 2001; 98: 952­7 stasi r, del poeta g, stipa e, evangelista ml, trawinska mm, cooper n et al. response to 9. b­cell depleting therapy with rituximab reverts the abnormalities of t­cell subsets in patients with idiopathic thrombocytopenic purpura. blood 2007; 110: 2924­30 arnold dm, dentali f, crowther ma, meyer rm, cook rj, sigouin c et al. systematic 10. review: efficacy and safety of rituximab for adults with idiopathic thrombocytopenic purpura. ann intern med 2007; 146: 25­33 godeau b, porcher r, fain o, lefrère f, fenaux p, cheze s et al. rituximab efficacy and safety 11. in adult splenectomy candidates with chronic immune thrombocytopenic purpura: results of a prospective multicenter phase 2 study. blood 2008; 112: 999­1004 zaja f, baccarani m, mazza p, vianelli n, bocchia m, gugliotta l et al. a prospective 12. randomized study comparing rituximab and dexamethasone vs dexamethasone alone in itp: results of final analysis and long term follow­up. blood (ash annual meeting) 2008; 112 zaja f, battista ml, pirrotta mt, palmieri s, montagna m, vianelli n et al. lower dose 13. rituximab is active in adult patients with idiopathic thrombocytopenic purpura. haematologica 2008; 93: 930­3 provan d, butler t, evangelista ml, amadori s, newland ac, stasi r. activity and safety profile 14. of low­dose rituximab for the treatment of autoimmune cytopenias in adults. haematologica 2007; 92: 1695­8 panzer ss. new therapeutic options for adult chronic immune thrombocytopenic purpura: a 15. brief review. vox sanguinis 2008; 94: 1­5 punti chiave la porpora idiopatica trombocitopenica è una diagnosi di esclusione, la cui formulazione y non prevede il dosaggio routinario degli anticorpi anti-piastrine l’approccio terapeutico, mai scevro da rischi, va differito fino all ’insorgenza di condizioni y di pericolo di sanguinamento e si prefigge la riduzione del rischio emorragico, non la normalizzazione della conta piastrinica soprattutto nei casi refrattari la strategia terapeutica non è codificata, ma va individuay lizzata in base al singolo paziente clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 143 giovanni lamura 1, maria gabriella melchiorre 1 il ruolo dei famigliari caregiver nell’assistenza agli anziani in italia la salute degli anziani migliora, ma non tanto da ridurre il carico assistenziale sulle famiglie le migliorate condizioni di salute della popolazione italiana si riflettono in una sua maggiore longevità – testimoniata dalla crescita del numero di ultrasessantacinquenni, che costituiscono ormai il 20% della popolazione totale [1] – e in una graduale riduzione della prevalenza della disabilità, passata tra gli over 65 dal 21,7% del 1994 al 18,8% del 2005 [2]. l’effetto congiunto di questi due fenomeni ha fatto sì che il numero complessivo di anziani disabili sia rimasto tuttavia sostanzialmente costante nell’ultimo decennio, intorno ai 2 milioni di persone, con un carico assistenziale nella gran parte dei casi soddisfatto dai famigliari degli interessati, solo raramente integrati dall’aiuto dei servizi pubblici esistenti. ciò viene confermato da un recente studio condotto dal dipartimento ricerche gerontologiche dell’inrca (istituto di ricovero e cura a carattere scientifico in ambito geriatrico) che, nell’ambito del progetto di ricerca europeo eurofamcare1, ha intervistato quasi 1.000 � lo studio eurofamcare è un progetto finanziato dall ’unione europea per il triennio 2003-2005 nell ’ambito del v programma quadro per la ricerca e lo sviluppo tecnologico (contratto n. qlk6-2002-02647). per informazioni più dettagliate in lingua inglese si famigliari (anche detti carer o caregiver) di anziani non autosufficienti residenti in italia, e sui cui risultati si baserà gran parte delle riflessioni di seguito riportate [3]. senza adeguati sostegni l’assistenza – un compito prevalentemente femminile – diventa gravosa un elemento confermato dallo studio è che questo compito assistenziale ricade principalmente sulle donne (lo sono il 77% dei carer italiani), in particolare sulle mogli e, in assenza o a sostegno di queste ultime, soprattutto sulle figlie degli anziani non autosufficienti [4], cosa che giustifica una “declinazione al femminile” di tale ruolo. nonostante l’esperienza di cura presenti certamente anche elementi positivi – oltre la metà delle caregiver dichiara che accudire il famigliare anziano la “fa sentire bene” [3] – non poche sono le conseguenze negative riportate dalle interessate. queste consistono principalmente nella mancanza di tempo per se stesse e per curare le relazioni sociali, con conseguente sensazione di isolamento, provata anche per il non poter contare rinvia al sito internet del centro coordinatore (http://www.uke.uni-hamburg.de/institute/medizinsoziologie/ims2/gerontologie/eurofamcare/), mentre per una sintesi in lingua italiana si veda il sito: http://www.inrca.it/ ces/eurofamcare.htm editoriale 1 inrca, ancona corresponding author dott. giovanni lamura c/o inrca (istituto di ricovero e cura a carattere scientifico: www.inrca.it), dipartimento ricerche gerontologiche, v. s. margherita 5 60124 ancona tel.: 071-8004797 fax: 071-35941 e-mail: g.lamura@inrca.it clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 144 editoriale su nessuno che possa sostituirle nel ruolo di caregiver, particolarmente gravoso se si assistono persone con problemi cognitivi e disturbi comportamentali. sempre in chiave prevalentemente femminile si presenta anche il problema della compatibilità tra lavoro di cura e lavoro retribuito, e quindi della “doppia presenza” [5]: ben il 43% dei caregiver italiani è occupato e, tra questi, oltre uno su sette ha dovuto ridurre il proprio orario lavorativo per potersi dedicare al famigliare non autosufficiente. questa motivazione impedisce di lavorare al 9% dei carer non occupati, di cui un ulteriore 7% è stato costretto al prepensionamento, mentre un carer su dieci lamenta restrizioni di carriera o impossibilità a lavorare con regolarità. sostegni e servizi di supporto ai caregiver: la situazione in italia su quali sostegni e servizi di supporto possono contare le famiglie italiane impegnate su questo fronte? la normativa vigente (in particolare attraverso le leggi 104/1992, 335/1995 e 53/2000) riconosce anzitutto periodi di permesso retribuiti per il carer che lavora [6]. diversi sono, inoltre, i sostegni monetari introdotti (a livello nazionale) in forma di pensioni di disabilità, indennità di accompagnamento e sgravi fiscali, nonché (più recentemente e a livello regionale e locale) assegni di cura e buoni servizio. benché quasi sempre rivolti all’anziano, questi strumenti finiscono con l’esercitare un effetto di sollievo anche nei confronti dei famigliari maggiormente impegnati nella sua cura, sebbene non vada trascurato il fatto che questa tipologia di aiuti trasferisce sugli utenti l’onere di gestire l’assistenza, rischiando pertanto di accentuare le differenze tra coloro in grado di organizzarsi adeguatamente e quanti invece non ci riescono. ciò di cui tuttavia i carer italiani sembrano maggiormente soffrire è la carenza di adeguati servizi “di sollievo”, come evidenziato dal fatto che nel nostro paese appena il 3,5% di essi dichiara di farne uso (contro l’oltre 20% registrato in paesi come la germania, la svezia e il regno unito) [7], prevalentemente in forma di centri diurni (con finalità parallele di servizio all’anziano e sollievo al caregiver), gruppi di supporto o auto mutuo aiuto [8], consulenza e training. alla luce di questo risultato, non deve stupire che una famiglia italiana su sei ricorra al proprio medico di medicina generale per ottenere consiglio e sostegno, una figura che finisce pertanto per svolgere un ruolo di supplenza rispetto all’insufficiente disponibilità di servizi dedicati. qualità dell’assistenza agli anziani e del supporto ai caregiver: quali i problemi e cosa migliorare? l’obiettivo principale della gran parte dei famigliari che prestano cura è di poter garantire la miglior assistenza possibile alla persona accudita. in tale ottica, anche un servizio di qualità prestato all’anziano non autosufficiente finisce con l’esercitare un effetto positivo nei confronti dei suoi famigliari caregiver. agli occhi di questi ultimi, tra le principali barriere che ostacolano la fruibilità dei servizi disponibili nel nostro paese, un ruolo preponderante è giocato dalla complessità delle procedure burocratiche per potervi accedere (di cui si lamenta il 28% delle famiglie), dalla carenza di informazioni (15%) e dalla lunghezza delle liste di attesa (11%), tutti aspetti citati in italia con molta maggior frequenza che negli altri paesi [9]. quasi un caregiver italiano su tre riferisce inoltre di non usare (di persona o tramite l’anziano assistito) un servizio che sarebbe invece “necessario”, e ciò viene addebitato, oltre che alle già citate deficienze di carattere informativo (riportate da oltre metà degli interessati), anche ai costi dello stesso (ritenuti eccessivi da oltre un terzo del campione), mentre meno rilevante (12%) risulta la sua lontananza, anche traducibile, per altro verso, in carenza di adeguati mezzi di trasporto per raggiungerlo. illuminanti appaiono, in proposito, i requisiti che i carer ritengono maggiormente importanti in un servizio di supporto, individuati dal 60% dei caregiver italiani nella “tempestività” dello stesso (i.e. l’essere disponibile “nel momento in cui se ne ha più bisogno”), nella “capacità del personale assistenziale di trattare l’anziano con dignità e rispetto” (57%) e nella “necessaria preparazione degli addetti all’assistenza” (48%). il messaggio – di cui non tutti gli enti erogatori di servizi appaiono consapevoli [10] – non potrebbe essere più chiaro: “qualità” significa, in questo ambito, non tanto (o non solo) essere “tecnicamente bravi”, quanto soprattutto fornire la necessaria prestazione assiclinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 145 g. lamura, m. g. melchiorre stenziale al momento giusto e con modalità rispettose della dignità dell’utente. il ricorso a personale assistenziale straniero: opportunità e sfide alla luce di questi dati, non può sorprendere il crescente ricorso a personale assistenziale straniero, spesso convivente, registratosi recentemente in italia, che ha consentito a molte famiglie di alleggerire in modo personalizzato l’onere assistenziale a proprio carico. il fenomeno ha ormai raggiunto livelli quasi “strutturali”, soprattutto quando l’attività assistenziale diviene particolarmente gravosa, come testimoniano non solo dati eurofamcare – che evidenziano come ricorra a tale soluzione il 36% delle famiglie con anziano gravemente disabile – ma anche del censis, dai quali emerge che il fenomeno interessa il 41% delle famiglie con malati di alzheimer [11]. certamente, quindi, il ricorso alle assistenti famigliari straniere ha costituito finora una grande opportunità per le famiglie italiane, per diversi motivi [12]: la convenienza economica, legata ai differenziali di reddito (tra l’italia e i paesi di origine, in cui buona parte dei salari guadagnati vengono rimessi), alla coabitazione (che abbatte i costi abitativi) e, last but not least, all’irregolarità che caratterizza molti dei rapporti instaurati; l’incentivo pubblico, derivante dalla disponibilità di provvidenze economiche (come indennità di accompagnamento e assegni di cura) nonché di agevolazioni fiscali; la possibilità di erogare un’assistenza personalizzata all’anziano, ma anche commisurata alle esigenze dei carer famigliari; e quindi la possibilità di ritardare, se non del tutto evitare, l’istituzionalizzazione dell’anziano (così come confermato dal recente calo registrato dai ricoveri di persone anziane in istituto) [13]. a fronte di tali vantaggi, tuttavia, non può essere trascurata una serie di sfide che il fenomeno comporta, e in particolare: l’effettiva qualità dell’assistenza erogata da personale non sempre formato ad hoc, di cui occorre quindi promuovere e monitorare la qualificazione; la regolarità dei rapporti di lavoro, da perseguire attraverso opportune iniziative volte a favorire l’emersione del lavoro nero;   il rischio di sfruttamento del personale immigrato o, all’opposto, di abusi nei confronti degli anziani assistiti, da contrastare attraverso misure volte a spezzare l’isolamento in cui viene svolta l’attività assistenziale coinvolgente queste figure. a queste sfide “in patria” – cui recentemente si è tentato di dare una risposta concordata a livello nazionale tramite un’intesa della conferenza unificata stato-regioni, città e autonomie locali [14] – si aggiungono quelle “all’estero”, riconducibili alla “sostenibilità” di questo fenomeno nei paesi d’origine del personale straniero. e ciò sia da un punto di vista sociale – con ciò intendendosi la possibile instaurazione di situazioni di care drain (cioè di carenze assistenziali nei confronti dei famigliari, anziani e bambini in primis, che dipendono dal sostegno delle persone emigrate in italia) – sia economico, derivante cioè dalla possibile (e d’altronde auspicabile) riduzione dei differenziali di reddito, che potrebbe non rendere più conveniente l’impiego come assistente famigliare nel nostro paese (salvo incrementi sostanziali dei compensi accordati, con inevitabile perdita di competitività di questa soluzione rispetto ad altre, oggi considerate “fuori mercato”). osservazioni conclusive dare concretezza allo sbandierato obiettivo di favorire la permanenza delle persone anziane non autosufficienti al proprio domicilio, significa in italia affiancarne e sostenerne adeguatamente i famigliari che le assistono nel risolvere gli svariati problemi che tale compito quotidianamente comporta, secondo quanto sopra delineato. ciò richiede risorse e investimenti, sia in ambito tecnologico – dove ampi appaiono nel nostro paese i margini per un più esteso e sistematico impiego dell’innovazione scientifica nel settore della qualità della vita degli anziani, come già accade a livello europeo [15] – sia, soprattutto, per riorientare maggiormente verso la long term care il sistema assistenziale italiano, caratterizzato da un eccessivo “ospedalocentrismo” (a danno della territorialità), uno scarso coinvolgimento del cittadinoutente nella sua organizzazione [16] e una ridotta – e soprattutto per l’anziano vitale – integrazione tra servizi sociali e sanitari, con conseguente compromissione della continuità assistenziale [17]. il rigore che il nostro paese dimostrerà nel rimuovere queste  clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 146 editoriale barriere costituirà un chiaro indicatore della nostra capacità di assicurare condizioni di vita dignitose agli anziani non autosufficienti e ai famigliari impegnati nella loro assistenza, anche al fine di prevenire l’insorgenza di situazioni di abuso, maltrattamento o abbandono, che più facilmente si verificano quando la famiglia non si sente sostenuta. bibliografia 1. istat. indicatori demografici anno 2006, nota informativa del 26 marzo, 2007a. disponibile su http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20070326_00/ indicatoridemografici2006.pdf, accesso in data 23/10/2007 2. istat. indagine multiscopo condizioni di salute, fattori di rischio e ricorso ai servizi sanitari, 2007b. disponibile su http://www.nonprofitonline.it/static/allegati/istat_salute_020307.pdf, accesso in data 23/10/2007 3. quattrini s, melchiorre mg, balducci c, spazzafumo l, lamura g (a cura di). services for supporting family carers of older dependent people in europe: the national survey report for italy. hamburg: medical university of hamburg-eppendorf, 2006. disponibile su http://www. uke.uni-hamburg.de/extern/eurofamcare/documents/deliverables/nasure_it.pdf 4. quattrini s. main characteristics of the italian family carers’ and older people’s sample. in: quattrini s, melchiorre mg, balducci c, spazzafumo l, lamura g (a cura di). services for supporting family carers of older dependent people in europe: the national survey report for italy. hamburg: medical university of hamburg-eppendorf, 2006. disponibile su http://www. uke.uni-hamburg.de/extern/eurofamcare/documents/deliverables/nasure_it.pdf 5. balbo l. la doppia presenza. inchiesta 1978; 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37: 1-6 clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 7 simone ferrero 1 introduzione le infezioni vaginali rappresentano la condizione più comune per cui le donne richiedono una consulenza ginecologica [1]. sono generalmente causate da batteri, da candida e da trichomonas [2] e di solito regrediscono dopo l’esecuzione di un’adeguata terapia; tuttavia, in caso di diagnosi non corretta, possono persistere o recidivare a breve termine. si stima che il 65% delle infezioni vaginali abbia una causa batterica, il 20-40% sia causato dal fungo candida e il 10-20% sia causato da un protozoo, trichomonas vaginalis [3]. sebbene le infezioni vaginali batteriche siano state spesso sottovalutate in passato, esse sono oggi considerate la forma più comune d’infezioni vaginali. la prevalenza delle infezioni vaginali batteriche è compresa fra il 25% e il 36% nelle donne che si rivolgono ad ambulatori per il trattamento delle infezioni sessualmente trasmesse [4]. molte trattamento delle infezioni vaginali: utilità dell’associazione metronidazolo e clotrimazolo abstract the normal vagina of women of reproductive age is colonised by lactobacilli that produce lactic acid, hydrogen peroxide and bacteriocins; these substances contribute to lowering the vaginal ph. a low vaginal ph creates an environment hostile to the growth of other microrganisms. when the number of lactobacilli is decreased, the resulting increase in the ph may favour vaginal infections. the three most common vaginal infections are bacterial vaginosis, trichomoniasis, and vaginal candidosis. there are multiple clinical and laboratory tests for diagnosing vaginal infections; the most commonly used methods for diagnosing bacterial vaginosis are the amsel ’s criteria and the nugent’s gram stain scale. infections caused by candida and trichomonas vaginalis can be diagnosed by microscopic examination of vaginal secretions. clotrimazole and metronidazole, especially when administered topically, are highly effective in treating vaginal infections. keywords: bacterial vaginosis, clotrimazole, metronidazole, vaginal candidiasis, vaginal infections treatment of vaginal infections: effectiveness of the association of metronidazole and clotrimazole cmi 2010; 4(1): 7-17 1 unità operativa di ginecologia e ostetricia, ospedale san martino e università degli studi di genova, genova corresponding author dott. simone ferrero, unità operativa di ginecologia e ostetricia, padiglione 1, ospedale san martino e università degli studi di genova, largo r. benzi 1, 16132 genova tel.: 010511525 fax: 010511525 dr@simoneferrero.com gestione clinica donne con infezioni vaginali batteriche non lamentano sintomi o hanno una sintomatologia modesta; per questo motivo, le infezioni vaginali batteriche spesso non sono diagnosticate e, pertanto, non trattate. il 75% delle donne ha almeno un episodio d’infezione da candida nel corso della vita, più spesso nell’età riproduttiva, e il 40-45% ha almeno due o più episodi d’infezione [5]. è stato anche dimostrato che candida può essere isolata dalla vagina di circa il 20% delle donne che non hanno sintomi. manifestazione della malattia e diagnosi vaginosi batteriche numerose donne con infezioni vaginali batteriche sono asintomatiche [2]. fra le donne con infezione vaginale batterica che clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 8 trattamento delle infezioni vaginali: utilità dell’associazione metronidazolo e clotrimazolo lamentano sintomi, il cattivo odore vaginale (odore di pesce avariato) è il sintomo più suggestivo; queste pazienti possono anche riferire la presenza di perdite vaginali. queste condizioni sono spesso indicate con il termine “vaginosi” anziché “vaginiti” perché non sono associate a una reazione infiammatoria vaginale. le vaginosi batteriche possono talvolta causare complicanze, fra le quali aborti [6,7], parto pretermine [6, 8-10], rottura prematucui l’hiv [15,16]. i microrganismi che più spesso determinano le vaginosi batteriche sono gardnerella vaginalis, mycoplasma hominis e ureaplasma urealyticum. altri batteri che possono meno frequentemente causare vaginosi batteriche sono prevotella, mobiluncus, i bacteroidi e il peptostreptococco. vaginiti da candida l’infezione vaginale da candida si può manifestare nelle pazienti con sintomatologia di varia intensità. alcune pazienti sono asintomatiche; infatti, fino al 70% delle donne asintomatiche può avere una coltura positiva per candida se viene eseguito un esame colturale ogni quattro mesi per un anno [17]. alcune donne possono presentare sintomi occasionali e di modesta intensità, altre pazienti hanno sintomi severi e frequenti. i sintomi più comuni sono prurito e bruciore vaginale, edema vaginale e dispareunia superficiale. inoltre, alcune pazienti possono sviluppare prevalentemente una sintomatologia vulvare. occasionalmente le pazienti possono lamentare disuria, che è causata dal contatto dell’urina con i tessuti vulvari infiammati [18]. le pazienti possono avere perdite vaginali dense, di colore biancastro, non maleodoranti; tuttavia, al contrario di quanto si pensa, molte donne con vaginite da candida non notano alcun cambiamento nelle secrezioni vaginali [19]. l’esame ginecologico può dimostrare la presenza di eritema, escoriazioni e secrezioni vaginali dense. infezione esame caratteristiche vaginosi batteriche criteri clinici di amsel (almeno 3 su 4) secrezioni vaginali aderenti e omogenee ph > 4,5 > 20% di clue cells (cellule epiteliali vaginali ricoperte di microrganismi) positività al whiff test punteggio di nugent dopo colorazione di gram del secreto vaginale 0-3 = flora normale 4-6 = flora intermedia 7-10 = vaginosi infezioni vaginali da candida misurazione del ph normale (4-4,5), ma l'esame serve per escludere la vaginosi batterica, le infezioni da trichomonas e miste esame microscopico + eventuale aggiunta di koh pseudoife o blastopore esame colturale da effettuare solo se l'esame microscopico è negativo antimicogramma da effettuare soprattutto in presenza di sintomi ricorrenti vaginiti da trichomonas vaginalis esame clinico secrezioni vaginali gialle-verdi maleodoranti petecchie sulla cervice uterina arrossamenti vaginali esame microscopico flagellato mobile esame colturale misurazione del ph ph > 4,5 tabella i esami necessari per porre diagnosi rispettivamente di vaginosi batterica, di infezione vaginale da candida e di vaginite da trichomonas vaginalis con descrizione del quadro laboratoristico indice di tale infezione [26,27] prevalenza microrganismi principali nelle donne in età fertile quantità 107-108 cfu/ml specie principali l. acidophilus l. fermentum l. plantarum l. brevis l. jensenii l. casei l. delbrueckii l. salivarius funzione ostacolare lo sviluppo di infezioni vaginali tabella ii i lactobacilli nella mucosa vaginale ra delle membrane [11,12], basso peso alla nascita [9], corioamnionite [9], infezione della cupola vaginale dopo isterectomia ed endometriti [13]. non è chiaro se le vaginosi batteriche possano causare malattia infiammatoria pelvica [14]. infine, le vaginosi batteriche aumentano la suscettibilità a contrarre infezioni sessualmente trasmesse fra clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 9 s. ferrero le vulvovaginiti causate da candida (prevalentemente da candida albicans [20], ma anche da candida glabrata e poi, con percentuali inferiori, da c. parapsilosis, da c. tropicalis, da c. krusei e da c. lusitaniae [21-23]) sono classificate in infezioni non complicate e infezioni complicate [2]. vaginiti da trichomonas le infezioni da trichomonas vaginalis sono asintomatiche nel 50-75% dei casi [24]. i sintomi più comuni sono il bruciore vulvare e le secrezioni vaginali schiumose maleodoranti di colore giallo-verde. le infezioni da trichomonas in gravidanza sono associate a un aumentato rischio di parto pretermine, rottura prematura delle membrane e basso peso alla nascita [25]. gli esami necessari per porre diagnosi sono elencati e descritti nella tabella i. gli aspetti microbiologici: i meccanismi di autodifesa vaginale e il ruolo dei lactobacilli endogeni la mucosa vaginale è ricoperta da un epitelio squamoso stratificato non cheratinizzato che prolifera e si ispessisce in risposta alla stimolazione estrogenica. è ben noto che il basso ph vaginale (4-4,5) è uno dei meccanismi principali per il controllo della flora microbica vaginale. gli acidi grassi, fra cui l’acido lattico, prodotti dalle cellule epiteliali vaginali e rilasciati nelle secrezioni vaginali sono uno dei fattori più importanti per il controllo del ph vaginale. i lactobacilli (tabella ii) rappresentano il microrganismo predominante nei fluidi vaginali delle donne in età premenopausale. essi hanno una concentrazione che varia fra 107 e 108 cfu/ml di fluido vaginale nelle donne sane in età riproduttiva [28]. fra i lactobacilli, quelli più frequentemente isolati sono lactobacillus acidophilus e lactobacillus fermentum; altri lactobacilli possono essere presenti, fra cui lactobacillus plantarum, lactobacillus brevis, lactobacillus jensenii, lactobacillus casei, lactobacillus delbrueckii e lactobacillus salivarius [29]. i lactobacilli possono ostacolare lo sviluppo d’infezioni vaginali (figura 1) attraverso due principali meccanismi: l’adesione all’epitelio vaginale e la produzione di sostanze con azione antimicrobica. numerosi studi hanno dimostrato che i lactobacilli aderiscono alle cellule epiteliali vaginali [30-32]; ciò determina la formazione di una barriera che previene la colofigura 1 meccanismi di protezione della mucosa vaginale attuati dai lactobacilli [36] bacteriocineh 2 o 2 competizione per il substrato (es. arginina deaminasi) coaggregazione tra i lactobacilli e i patogeni adesione del lactobacillo alla fibronectina del fluido vaginale adesione del lactobacillo alle cellule epiteliali o al muco vaginale biosurfattanti acidi organici (es. acido lattico, acido acetico) tossicità acidificazione effetto battericida o batteriostatico (es. inibitore della catalasi) competizione per i siti recettoriali esclusione sterica esclusione sterica assorbimento sulle cellule epiteliali attività antibiotica, antifungina e antivirale blocco della diffusione del patogeno inibizione dell’adesività del patogeno inibizione della crescita del patogeno lactobacilli vaginali clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 10 trattamento delle infezioni vaginali: utilità dell’associazione metronidazolo e clotrimazolo nizzazione da parte di organismi patogeni. i meccanismi molecolari alla base dell’adesione non sono completamente noti. è probabile che molteplici componenti della superficie cellulare dei lactobacilli contribuiscano all’adesione dei lactobacilli stessi ai recettori presenti sulla superficie delle cellule epiteliali vaginali [32]. alcuni studi hanno suggerito che l’adesione dei lactobacilli è mediata da proteine [33,34], mentre altri studi hanno suggerito un ruolo dell’acido lipoteicoico [35] e dei carboidrati. inoltre, i lactobacilli producono sostanze con azione antimicrobica. l’acido lattico e altri acidi grassi prodotti dai lactobacilli possono contribuire all’acidità del ph vaginale. studi in vitro hanno dimostrato che l’abbassamento del ph causato dalla crescita dei lactobacilli può inibire la proliferazione di microrganismi patogeni come candida albicans, escherichia coli, gardnerella vaginalis e altri batteri ottenuti da tamponi eseguiti in pazienti con infezioni vaginali [37,38]. molte specie di lactobacilli possono produrre una discreta quantità di perossido d’idrogeno (h2o2) in vitro [39]. alcune infezioni vaginali sono caratterizzate dalla crescita di batteri anaerobi, pertanto la produzione di h2o2 potrebbe rappresentare un meccanismo aspecifico di autodifesa vaginale. uno studio ha dimostrato che solo il 6% delle donne con vaginosi batterica possiede quelle specie di lactobacilli vaginali che producono h2o2, mentre essi sono presenti nel 96% delle donne normali [39]. sebbene queste osservazioni siano state confermate anche da altri autori [40], bisogna comunque tenere presente che le infezioni vaginali possono svilupparsi anche in presenza di lactobacilli vaginali che producono h2o2 [41]. alcuni autori hanno riportato un’inibizione della crescita di candida albicans da parte di lactobacilli che producono h2o2 [42], ma questi risultati non sono stati confermati da altri ricercatori [40,43]. i lactobacilli producono sostanze simili alle bacteriocine che inibiscono la crescita di batteri gram positivi, gram negativi e miceti. una di queste sostanze ha dimostrato in vitro attività nei confronti di escherichia coli ed enterococcus species [44], ma il ruolo in vivo di queste sostanze deve ancora essere chiarito. i lactobacilli potrebbero anche produrre biosurfattanti. è stato dimostrato che i lactobacilli possono ridurre l’adesione dell’enterococco fecale a superfici idrofobiche o idrofiliche [45]. altri autori hanno suggerito che i lactobacilli possano produrre una sostanza chiamata surlactina che potrebbe agire come un surfattante riducendo l’aderenza di vari batteri (enterococcus faecalis, escherichia coli, staphylococcus epidermidis) e candida albicans all’epitelio vaginale [46]. le cause dell’infezione: la diminuzione della flora batterica vaginale, l’infezione esogena numerosi fattori possono modificare il rischio di sviluppare infezioni vaginali batteriche. alcuni di questi fattori aumentano il rischio di sviluppare le infezioni vaginali determinando una riduzione della flora lactobacillare. ad esempio, il rischio di vaginosi batteriche è aumentato nelle donne che eseguono lavande vaginali una o più volte alla settimana rispetto a quelle che ne eseguono meno o non ne eseguono affatto [47]. è stato anche dimostrato che l’esecuzione di lavande vaginali dopo le mestruazioni aumenta il rischio di sviluppare vaginosi batteriche [48]. le cause di queste osservazioni non sono note con precisione, ma si ipotizza che le lavande vaginali riducano il numero dei lactobacilli facilitando così la crescita dei batteri che possono causare la vaginosi. altri fattori possono invece aumentare il rischio dell’infezione esogena. il comportamento sessuale (età al primo rapporto sessuale, vita sessuale attiva, numero di partner, rapporti con altre donne) può influenzare il rischio di sviluppare infezioni vaginali batteriche [49]. una recente metanalisi ha dimostrato che la vaginosi batterica è associata con i fattori di rischio delle malattie sessualmente trasmesse, mentre l’uso del profilattico riduce il rischio di sviluppare vaginosi batteriche [50]. altri importanti fattori di rischio per le infezione batteriche sono l’uso di spirali intrauterine e il fumo di sigaretta. anche la razza può influenzare la prevalenza delle vaginosi batteriche; è stato, infatti, dimostrato che le donne di razza afroamericana hanno un rischio più che raddoppiato di sviluppare vaginosi batteriche rispetto alle donne bianche [51]. candida può colonizzare la vagina in diversi modi: i più frequenti sono la trasmissione sessuale e la diffusione locale dal perineo e dal tratto gastrointestinale. altri fattori possono influenzare il rischio di sviluppare un’infezione da candida, fra cui il diabete, la gravidanza, l’uso di terapie antibiotiche e clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 11 s. ferrero contraccettive, l’immunosoppressione (ad esempio l’infezione da hiv ), le abitudini sessuali (fra cui i rapporti orogenitali) e la razza (afroamericana) [19,52]. in gravidanza, le elevate concentrazioni degli ormoni riproduttivi aumentano il contenuto di glicogeno nell’epitelio vaginale e quindi forniscono una fonte di carboidrati per candida. gli antibiotici predispongono al rischio di sviluppare candida perché eliminano la flora batterica vaginale e quindi favoriscono lo sviluppo di candida nel tratto gastrointestinale, nella vagina o in entrambi. il ruolo dell’associazione metronidazolo e clotrimazolo meccanismo d’azione dei due principi attivi metronidazolo (tabella iii) è un derivato nitroimidazolico con formula chimica c6h9n3o3. è efficace nel trattamento delle infezioni causate da protozoi e batteri anaerobi gram positivi e gram negativi fra cui gardnerella vaginalis. il meccanismo d’azione di tale farmaco non è ancora completamente noto. negli organismi anaerobi, metronidazolo è captato e progressivamente ridotto. il risultato finale dell’alterazione dello stato di ossido-riduzione è la produzione di radicali liberi dell’ossigeno, con perdita della struttura elicoidale del dna [53]; ciò determinerebbe il danno citotossico e l’effetto antimicrobico esercitato dal farmaco. questo meccanismo sembra funzionare solo nei batteri anaerobi, perché la molecola, pur captata dagli organismi aerobi, non subisce modificazioni e non esercita effetto tossico [54]. clotrimazolo (tabella iv ) è un derivato imidazolico con formula chimica c22h17cln2. ha una spiccata attività antimicotica, ma è attivo anche contro alcuni batteri gram positivi. esercita la sua attività fungicida e/o fungostatica attraverso l’inibizione della sintesi dell’ergosterolo, componente delle membrane cellulari micotiche [54]. in particolare, clotrimazolo agisce sull’enzima 14α-demetilasi, responsabile della conversione enzimatica del 2,4-metilendiidrolanosterolo a ergosterolo. tale ridotta o bloccata sintesi altera la funzione di barriera selettiva della membrana citoplasmatica; ciò determina la perdita di potassio e altri costituenti cellulari, con concomitante catabolismo degli acidi nucleici [54]. inoltre, è compromessa la biosintesi di macromolecole, come le proteine, i lipidi, il dna e i polisaccaridi. l’inibizione della 14α-demetilasi potrebbe non essere l’unico meccanismo d’azione di clotrimazolo. infatti, è stato dimostrato che tale farmaco può inibire anche la crescita di attivo contro meccanismo d’azione protozoi y batteri anaerobi gram positivi y batteri anaerobi gram negativi y (tra cui g. vaginalis) captato e ridotto dai microrganismi anaerobi → produzione di radicali liberi dell’ossigeno → danno al dna microbico attivo contro meccanismo d’azione funghi y alcuni batteri y gram positivi lievito y s. cerevisiae in parte ignoto. per quanto riguarda l’attività fungicida: inibizione dell’enzima 14α-demetilasi → inibizione della sintesi di ergosterolo → inibizione della sintesi della membrana cellulare → alterazione della selettività di membrana → perdita di potassio e di altre componenti cellulari, e catabolismo degli acidi nucleici tabella iii caratteristiche di metronidazolo lieviti saccharomyces cerevisiae mutanti incapaci di sintetizzare steroli [55]. efficacia clinica dell’associazione metronidazolo e clotrimazolo come antibatterico e antimicotico l’uso di metronidazolo come gel vaginale (5 g allo 0,75%, una volta al giorno per cinque giorni) permette di coniugare efficacia terapeutica per la cura delle vaginosi batteriche con minori effetti indesiderati sistemici rispetto alla formulazione per via orale, mentre quest’ultima risulta più efficace in caso di infezioni vaginali da trichomonas [1,2,56]. uno studio randomizzato ha confrontato l’efficacia della somministrazione di metronidazolo per via vaginale (gel 0,75%) una o due volte al giorno, dimostrando una simile efficacia terapeutica nei due tipi di trattamento [57]. metronidazolo per via orale può essere utilizzato per la prevenzione delle recidive nelle pazienti con vaginosi batteriche ricorrenti (500 mg due volte al giorno per 10-14 giorni). uno studio randomizzato, controllato, in doppio cieco ha dimostrato che, dopo il trattamento della vaginosi batterica, la somministrazione di metronidazolo in forma di gel vaginale 0,75% due volte alla settimana per sei mesi può ridurre significativamente il rischio di recidive [58]. tabella iv caratteristiche di clotrimazolo clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 12 trattamento delle infezioni vaginali: utilità dell’associazione metronidazolo e clotrimazolo di metronidazolo e 1 parte di clotrimazolo). è importante rilevare che tale combinazione terapeutica non interferisce con la normale flora lactobacillare endogena. l’efficacia terapeutica di tale rapporto è stata dimostrata da numerosi studi, sia in vitro, sia in vivo; tali trial hanno dimostrato la validità terapeutica dell’associazione metronidazolo-clotrimazolo per via locale, evidenziandone l’efficacia nel trattamento di trichomonas, candida spp. e gardnerella vaginalis [3,61-68], e sottolineando l’azione di tipo additivo dei due farmaci [61]. in particolare, è stato condotto uno studio su tale associazione [69], valutandone sia in vitro sia in vivo tanto l’efficacia sulla patologia quanto l’impatto sul microbiota lactobacillare, partendo dalla già rilevata correlazione tra l’alterazione della flora batterica vaginale e l’insorgenza di vaginiti e cistiti. per quanto riguarda l’efficacia sulla patologia, in vitro sono state misurate la mic50 e la mic90 dell’associazione dei farmaci su alcuni ceppi di funghi (tabella v ) e di batteri patogeni (tabella vi), mentre gli stessi parametri sono stati dosati su 5 specie di lactobacilli (s. agalactiae, enterococcus spp., l. acidophilus, l. rhamnosus, l. plantarum) (tabella vi) al fine di scoprire l’impatto del trattamento sul microbiota lactobacillare. l’associazione si è dimostrata efficace contro tutti i funghi studiati, tra cui c. albicans e c. glabrata (tabella v ) e contro g. vaginalis (tabella vi), dati che risultano particolarmente interessanti, dal momento che tutte le donne reclutate per la fase in vivo di questo studio presentavano infezione da uno o due di questi agenti patogeni (tabella vii). tale fase è stata condotta su 20 donne affette da vulvovaginite micotica e/o vaginosi, che sono state trattate per 6 giorni con ovuli vaginali di metronidazolo-clotrimazolo 5:1 una volta/die e lavanda vaginale da effettuare con una soluzione contenente la stessa associazione di farmaci, ugualmente nella proporzione di 5:1. al momento dell’inizio della terapia è stato effettuato un tampone vaginale, che è stato poi analizzato per la rilevazione dell’agente patogeno e del grado lactobacillare (lbg), indice che riflette la predominanza di lactobacilli nella flora batterica vaginale e di conseguenza lo stato di salute di tale mucosa: lbg 1 corrisponde a una predominanza di lactobacilli ed è tipica delle donne sane; lbg 2 (talvolta ulteriormente suddiviso negli stadi “a” e “b”) indica una microflora mista, inquinata da altri tipi di batceppo clotrimazolo-metronidazolo (1:5) mic 50 mic 90 range c. albicans * 0,25 0,5 0,125-0,5 c. krusei # 0,25 0,5 0,25-0,5 c. glabrata 0,25 0,25 0,125-0,5 c. parapsilosis$ 0,125 0,125 0,125-0,5 c. tropicalis 0,5 0,5 c. humicola 0,125 0,125 c. dubliniensis 0,125 0,125 s. cerevisiae 0,125 0,125 ceppo clotrimazolo-metronidazolo (1:5) mic 50 mic 90 range s. agalactiae > 512 > 512 enterococcus spp. > 512 > 512 e. coli > 512 > 512 g. vaginalis < 0,03 < 0,03 l. acidophilus > 512 > 512 l. rhamnosus > 512 > 512 l. plantarum > 512 > 512 tabella v risultati dello studio, fase in vitro: attività antimicotica di clotrimazolometronidazolo (1:5) [69] * è compreso il ceppo di c. albicans atcc 90028 # è compreso il ceppo di c. krusei atcc 6258 $ è compreso il ceppo di c. parapsilosis atcc 22059 tabella vi risultati dello studio, fase in vitro: attività antibatterica di clotrimazolometronidazolo (1:5) [69] placebo ha dimostrato che la somministrazione profilattica di clotrimazolo per via vaginale può anche prevenire la recidiva della sintomatologia [60]. la combinazione di metronidazolo e clotrimazolo presenta molteplici potenziali vantaggi nel trattamento delle infezioni vaginali. innanzitutto il doppio regime terapeutico è attivo su un ampio spettro di patogeni; inoltre tale combinazione terapeutica minimizza l’insorgenza di resistenze spontanee di alcuni microrganismi [3] e previene le superinfezioni da candida albicans [3]. i due farmaci sono tipicamente somministrati in un rapporto di 5:1 (5 parti numerosi studi hanno dimostrato che clotrimazolo è efficace nel trattamento della candida vaginale [19]. può essere somministrato in forma di crema vaginale all’1% (5 g al giorno per 7-14 giorni) [2] oppure al 2% (5 g al giorno per tre giorni). in alternativa, clotrimazolo può essere somministrato in forma di capsule vaginali da 100 mg (una capsula al giorno per sette giorni oppure due capsule al giorno per tre giorni) [2], capsule vaginali da 200 mg (una capsula al giorno due volte alla settimana) o capsule vaginali da 500 mg (monosomministrazione) [59]. uno studio randomizzato controllato con clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 13 s. ferrero teri; lbg 3 si riscontra in mucose vaginali in cui i lactobacilli sono stati completamente rimpiazzati [70]. altri due tamponi vaginali sono stati effettuati in occasione delle visite a 7-10 giorni e a 30 giorni dalla fine della terapia per valutare l’efficacia della stessa. come si può evincere dai dati in tabella vii, a 30 giorni dalla fine della terapia tutte le donne reclutate presentavano un grado lactobacillare ottimale e l’assenza di crescita degli agenti patogeni; non sono stati riscontrati casi di recidive. questo risultato è stato ottenuto in presenza di una terapia comprendente lavande vaginali per 5 giorni consecutivi e va in controtendenza rispetto alla convinzione che tale pratica favorisca l’insorgenza di infezioni vaginali. uno studio più esteso, multicentrico randomizzato e controllato con placebo, ha conf rontato l’efficacia di una terapia combinata con metronidazolo (100 mg) e clotrimazolo (100 mg) rispetto al solo trattamento con clotrimazolo nelle pazienti con infezione vaginale sintomatica causata da trichomonas vaginalis, batteri o candida albicans [71]. 84 pazienti hanno ricevuto la terapia combinata e 81 pazienti hanno ricevuto solo clotrimazolo. la terapia combinata è risultata significativamente più efficace di clotrimazolo nella terapia della candida vaginale [71]. la combinazione metronidazolo-clotrimazolo per via vaginale può anche essere utilizzata in modo sicuro per il trattamento delle infezioni vaginali durante la gravidanza [54]. entrambi i farmaci, se somministrati per via vaginale, sono infatti inclusi nella categoria b della scala utilizzata dalla food and drug administration (fda) americana per la valutazione della sicurezza dell’uso dei farmaci nel corso della gravidanza. l’importanza di evitare di intaccare i lactobacilli endogeni in precedenza è stato illustrato il ruolo dei lactobacilli nell’ostacolare le infezioni vaginali. questo ruolo è confermato dal fatto che le terapie antibiotiche che sopprimono i lactobacilli possono facilitare l’insorgenza d’infezioni vaginali da candida [52] e quindi predisporre a infezioni ricorrenti. ovviamente ogni regime terapeutico adottato per il trattamento delle infezioni vaginali dovrebbe essere selettivamente attivo contro i microrganismi patogeni, senza ostacolare la crescita dei lactobacilli. ciò può facilitare la ricolonizzazione della vagina da parte dei lactobacilli e quindi la diminuzione del ph vaginale riducendo in teoria il rischio di persistenza dell’infezione e di recidive. è stato anche proposto che la ricolonizzazione farmacologica della vagina con lactobacilli possa essere utile per il trattamento delle n età tv-t 0 lbg-t 0 tv-t 1 lbg-t 1 tv-t 2 lbg-t 2 1 29 g. vaginalis 2b ass. crescita 1 ass. crescita 1 2 28 c. albicans 1 + pseudoife ass. crescita 1 ass. crescita 1 3 32 c. albicans 1 + pseudoife ass. crescita 1 ass. crescita 1 4 29 c. albicans 1 + pseudoife ass. crescita 1 ass. crescita 1 5 44 g. vaginalis 3 ass. crescita 2a ass. crescita 1 6 22 c. albicans 1 + pseudoife ass. crescita 1 ass. crescita 1 7 39 c. albicans 1 + pseudoife ass. crescita 1 ass. crescita 1 8 49 c. albicans 2b + cellule di lievito ass. crescita 1 ass. crescita 1 9 23 c. albicans 1 + pseudoife ass. crescita 1 ass. crescita 1 10 40 g. vaginalis 3 ass. crescita 1 ass. crescita 1 11 40 g. vaginalis 2b ass. crescita 2a ass. crescita 1 12 50 g. vaginalis 2b ass. crescita 1 ass. crescita 1 13 45 c. albicans 1 + cellule di lievito ass. crescita 1 ass. crescita 1 14 50 c. albicans 1 + cellule di lievito ass. crescita 1 ass. crescita 1 15 32 c. albicans 1 + pseudoife ass. crescita 1 ass. crescita 1 16 34 c. albicans + g. vaginalis 3 + pseudoife ass. crescita 2a ass. crescita 1 17 24 c. albicans 1 + pseudoife ass. crescita 1 ass. crescita 1 18 50 c. glabrata + g. vaginalis 3 + cellule di lievito ass. crescita 1 ass. crescita 1 19 37 c. albicans + g. vaginalis 3 ass. crescita 2a ass. crescita 1 20 31 c. albicans 1 + pseudoife ass. crescita 1 ass. crescita 1 tabella vii risultati dello studio, fase in vivo: modificazione del livello infettivo e del grado lactobacillare dopo trattamento con clotrimazolometronidazolo [69] lbg = grado lactobacillare; t0 = situazione al momento dell’inizio della terapia; t1 = situazione dopo 7-10 dalla fine della terapia; t2 = situazione dopo 30 giorni dalla fine della terapia; tv = tampone vaginale clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 14 trattamento delle infezioni vaginali: utilità dell’associazione metronidazolo e clotrimazolo vaginosi batteriche e per la prevenzione delle recidive. purtroppo, fino ad ora, non è ancora stata dimostrata l’efficacia di quest’approccio terapeutico, anche a causa della mancanza di standardizzazione nelle preparazioni di lactobacilli disponibili in commercio. i rischi di una terapia antimicrobica errata una diagnosi non corretta dell’infezione vaginale può determinare la prescrizione di una terapia antimicrobica non adeguata. la persistenza dell’infezione, così come frequenti recidive, può avere importanti conseguenze non solo cliniche, ma anche sociali. infatti, si possono verificare diminuzione della produttività lavorativa, riduzione del piacere legato ai rapporti sessuali, problematiche psicologiche e aumento della spesa sanitaria. inoltre, terapie non corrette possono anche causare l’insorgenza di resistenze nei microrganismi responsabili delle infezioni vaginali e la selezione di microrganismi resistenti a tali farmaci. l’aumentata frequenza di candida non albicans è stata correlata al diffuso e inappropriato uso di terapie antimicotiche, all’automedicazione, alle terapie a lungo termine per la prevenzione delle recidive e a ripetuti trattamenti antimicotici per le infezioni ricorrenti. l’eradicazione di candida albicans può causare la selezione di specie (come candida glabrata), che sono resistenti agli antimicotici comunemente utilizzati [72,73]. la somministrazione di una terapia ad ampio spettro, come la combinazione di clotrimazolo e metronidazolo, può ridurre questi rischi aumentando l’efficacia terapeutica non solo nelle infezioni causate da un singolo patogeno, ma anche in quelle miste. conclusioni le infezioni vaginali rappresentano una delle patologie ginecologiche più frequentemente osservate. una corretta diagnosi della causa dell’infezione vaginale è indispensabile per la prescrizione di un’adeguata terapia. numerosi studi in vitro e clinici hanno dimostrato che la combinazione di metronidazolo e clotrimazolo somministrati per via vaginale sono efficaci nel trattamento della maggioranza delle infezioni vaginali. questi due farmaci possono agire in modo sinergico. infatti, metronidazolo ha un’ottima attività antiprotozoaria e contro i batteri anaerobi fra cui gardnerella vaginalis; invece clotrimazolo ha una buona attività antimicotica e verso i batteri aerobi. inoltre non è da sottovalutare l’importanza di un’azione che mira all’agente patogeno “risparmiando” i batteri che inibiscono l’ingresso e la proliferazione degli agenti infettivi (lactobacilli). una buona strategia terapeutica, oltre a considerare lo spettro antimicrobico, dovrebbe sempre tenere conto dell’azione di distruzione o di mantenimento dell’omeostasi, che, nel caso della mucosa vaginale, significa valutare se il farmaco va a uccidere o meno i lactobacilli. in un recente studio [69] l’associazione topica di metronidazolo e clotrimazolo ha dimostrato (in vitro e in vivo) efficacia contro le infezioni vaginali mantenendo inalterata la flora lactobacillare e quindi riducendo i fattori di rischio che possono predisporre a reinfezioni. disclosure il presente articolo è stato supportato da alfa wassermann s.p.a. punti chiave le infezioni vaginali rappresentano la condizione più comune per cui le donne richiedono y una consulenza ginecologica la precisa diagnosi della causa dell ’infezione vaginale è indispensabile per la somministray zione di un’adeguata terapia, per l ’eradicazione dell ’infezione, per la riduzione del rischio di recidive e per diminuire il rischio che gli agenti patogeni sviluppino resistenze l’associazione metronidazolo-clotrimazolo è efficace nel trattamento di un ampio spety tro di germi. infatti, metronidazolo ha ottima attività antiprotozoaria e verso i batteri anaerobi fra cui gardnerella vaginalis. clotrimazolo ha una buona attività antimicotica e contro i batteri aerobi la combinazione metronidazolo-clotrimazolo non agisce sui lactobacilli, consentendo loro y di recuperare più velocemente l ’omeostasi e di contribuire alla mancata ricolonizzazione da parte degli agenti patogeni l’associazione metronidazolo-clotrimazolo può anche essere utilizzata per il trattamento y delle infezioni vaginali durante la gravidanza clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 15 s. ferrero bibliografia acog committee on practice bulletins--gynecology. acog practice bulletin. clinical 1. management guidelines for obstetrician-gynecologists. vaginitis obstet gynecol 2006; 107: 1195-206 centers for disease control and prevention, workowski ka, berman sm. sexually transmitted 2. diseases treatment guidelines, 2006. mmwr recomm rep 2006; 55: 1-94 arisi e. validità della associazione metronidazolo-clotrimazolo nella pratica clinica quotidiana. 3. curr obstet gynaecol (edizione italiana) 2005; 14: 92-6 sweet rl. gynecologic conditions and bacterial vaginosis: implications for the non-pregnant 4. patient. infect dis obstet gynecol 2000; 8: 184-90 eschenbach da. chronic vulvovaginal candidiasis. 5. n engl j med 2004; 351: 851-2 hay pe, lamont rf, taylor-robinson d, morgan dj, ison c, pearson j. abnormal bacterial 6. colonisation of the genital tract and subsequent preterm delivery and late miscarriage. bmj 1994; 308: 295-8 ralph sg, rutherford aj, wilson jd. influence of bacterial vaginosis on conception and 7. miscarriage in the first trimester: cohort study. bmj 1999; 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2(3): 113-119 1 medico di medicina generale, genova. presidente regionale simg liguria british medical journal contiene oltre 4.000 pubblicazioni. l’analisi dei lavori italiani pubblicati evidenzia una assoluta prevalenza di studi osservazionali quasi sempre incentrati su aspetti organizzativi della professione e un piccolissimo numero di studi clinici sperimentali. non esiste quindi nel nostro paese una sviluppata e autonoma produzione di studi sperimentali in medicina generale che siano in grado di rispondere a problemi clinici, professionali o gestionali dei medici di famiglia» [1]. con il decreto ministeriale (dm) del 10 maggio 2001 e le successive normative [27] emanate tra il 2001 e il 2004 (figura 1) l’italia si è allineata a molti paesi europei ed extraeuropei, consentendo ai mmg e pls (pediatri di libera scelta) di effettuare, nel proprio ambulatorio, sperimentazioni cliniche controllate (di fase iii e di fase iv ) con particolare riferimento a quelle che possono migliorare la pratica clinica quale parte integrante dell’assistenza sanitaria. corresponding author dott. pierclaudio brasesco brasesco@fastwebnet.it appropriatezza e ricerca in mg clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 114 il medico di medicina generale e le sperimentazioni cliniche infatti, il dm del 10 maggio 2001, pubblicato sulla gazzetta ufficiale (g.u.) n. 139 del 18 giugno 2001, a titolo “sperimentazione clinica controllata in medicina generale e in pediatria di libera scelta”, autorizza i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta a condurre presso i loro ambulatori professionali sperimentazioni cliniche controllate di fase iii e iv. la promulgazione di questo dm non solo allinea l’italia alle altre nazioni della comunità europea ma, consentendo che la ricerca clinica di tipo sperimentale sia effettuata negli studi dei mmg e pls, garantisce coerenza ai piani sanitari nazionale e regionali che tendono sempre più allo spostamento dell’asse assistenziale dall’ospedale al territorio e all’implementazione della rete dell’assistenza territoriale. la successiva circolare del ministero della salute n. 6 del 2 settembre 2002, pubblicata sulla g.u. n. 214 del 12 settembre 2002 a titolo “attività dei comitati etici istituiti ai sensi del decreto ministeriale 18 marzo 1998” viene invece a chiarire i processi di valutazione dei protocolli di ricerca clinica (sperimentale od osservazionale) da parte dei comitati etici istituiti ai sensi del dm 18 marzo 1998 (g.u. n. 122 del 28 maggio 1998). in ultimo, il decreto legislativo (d. lgs) n. 211 del 24 giugno 2003 a titolo “attuazione della direttiva 2001/20/ce relativa all’applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico” (g.u n. 184 del 9 agosto 2003) riconduce definitivamente la ricerca sperimentale italiana a quella europea. questo decreto affida quindi ai mmg e ai pediatri del territorio il compito e la responsabilità di sperimentare direttamente sugli assistiti alcuni farmaci in fase postmarketing, per valutarne l’efficacia, la tollerabilità e la sicurezza (farmacovigilanza). il territorio, con i suoi operatori (medici) e le sue strutture (aziende sanitarie), recupera così centralità oltre che nella gestione clinica anche nella ricerca, quando questa è rivolta al miglioramento della salute delle persone attraverso interventi che vengono effettuati a domicilio e negli ambulatori. la possibilità di svolgere sperimentazioni cliniche nel territorio offre numerosi vantaggi: possibilità di avere a disposizione pazienti “reali”, con il carico della loro complessità gestionale e delle loro “comorbilità”; maggiore rapidità e “potenza” nella conduzione delle sperimentazioni per l’elevato numero di pazienti arruolabili a livello   fase i serve ad accertare la composizione e l’innocuità dei prodotti farmaceutici di nuova istituzione, per il passaggio dalla valutazione pre-clinica a quella clinica fase ii serve a valutare l’attività e la sicurezza a breve termine di un principio attivo in pazienti affetti da una determinata malattia (studi terapeutici pilota): gli studi coinvolgono un numero limitato di soggetti e spesso, in uno stadio più avanzato, secondo uno schema comparativo (es. controllo con placebo). questa fase ha anche lo scopo di determinare dosi e/o schemi terapeutici per pianificare studi più estesi fase iii gli studi coinvolgono un maggior numero di pazienti e servono a determinare il rapporto sicurezza/efficacia a breve e lungo termine delle formulazioni del principio attivo e a valutarne il valore terapeutico. vengono indagate le reazioni avverse più frequenti e le caratteristiche specifiche del prodotto (es. interazioni clinicamente rilevanti tra farmaci, fattori che condizionano la risposta, quali l’età, ecc.). il programma sperimentale dovrebbe essere preferibilmente randomizzato in doppio cieco e le condizioni degli studi il più possibile vicine alle normali condizioni d’uso fase iv si tratta di studi condotti successivamente alla commercializzazione dei medicinali in base alle informazioni contenute nel riassunto delle caratteristiche del prodotto relativo all’autorizzazione all’immissione in commercio (farmacovigilanza/valutazione del valore terapeutico) tabella i le fasi della sperimentazione clinica figura 1 l’attività sperimentale dei mmg: i cardini normativi [2] dm 17 dicembre 2004 dm 10 maggio 2001 d.lgs 211 24 maggio 2003 circolare ministeriale 6 2 settembre 2002 dm 30 maggio 2001 clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 115 p. brasesco ambulatoriale, in un tempo relativamente breve; maggiore possibilità da parte del servizio sanitario nazionale (ssn) di verificare per il farmaco testato il reale rapporto costo-beneficio. si è trattato dunque di un riconoscimento professionale lusinghiero per la medicina del territorio che vede finalmente pratica clinica e ricerca diventare aspetti inscindibili della primary care. il medico, ora clinico e ricercatore, cessa di essere semplicemente “prescrittore del farmaco” e diventa una importante risorsa terapeutica. inoltre molte patologie rilevanti appartengono esclusivamente all’ambito dell’assistenza extra ospedaliera e, in questi casi, la valutazione dell’efficacia, della sicurezza e della tollerabilità di un farmaco deve avvenire solo nella realtà assistenziale del territorio: ecco quindi la necessità di avvalersi dei mmg e dei pls per le sperimentazioni di fase iii e iv (tabella i). le sperimentazioni cliniche (tutte, anche quelle ospedaliere) sono sottoposte a una rigida regolamentazione che è nota sotto il nome di good clinical practice (gcp) [8]. la buona pratica clinica è uno standard internazionale di etica e qualità scientifica per progettare, condurre, registrare e relazionare gli studi clinici che coinvolgono gli esseri umani. l’aderenza a questi standard di gcp garantisce pubblicamente non solo la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere dei soggetti che partecipano allo studio, in conformità con i principi della dichiarazione di helsinki, ma anche l’attendibilità dei dati relativi allo studio clinico. diventare sperimentatore diventare sperimentatore significa molte cose; innanzitutto occorre essere in possesso di alcuni requisiti essenziali: standard di studio compatibili con la sperimentazione (peraltro già previsti dall’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale 2005 [9]): cartella clinica informatizzata; attività spazio tempo dedicata; altri requisiti consigliabili: svolgere attività ambulatoriale per appuntamento;       utilizzare personale di studio (collaboratrice di studio e/o infermiere professionale); partecipare a una forma associativa (medicina di gruppo). vi sono poi alcuni requisiti di struttura: stanza per le visite; luogo di deposito farmaci (con chiusura); luogo di archivio; attrezzature e strumenti (personal computer, frigorifero, fotocopiatrice). da sottolineare infine la necessità di disporre di tempo da dedicare alla sperimentazione (tabella ii) [10]. un cenno merita poi il ruolo del monitor: il monitor (individuato dalla cro) è un “amico” dello sperimentatore; infatti ha il compito di assicurare che lo studio sia condotto e documentato correttamente nel pieno rispetto del protocollo, delle norme di gcp e delle procedure dello sponsor. durante la visita di avvio della sperimentazione il monitor ha i seguenti compiti, utilissimi allo sperimentatore: riepiloga il protocollo; verifica che siano seguite le regole di gcp; indica come gestire la crf (case report form); espleta con il ricercatore le pratiche burocratiche. è quindi evidente che occorre da parte dello sperimentatore osservare alcuni doveri verso il monitor: disponibilità alle visite del monitor (non sono una perdita di tempo); disponibilità a fornire al monitor il materiale richiesto; riservare tempo adeguato all’eventuale discussione di problemi e procedure.              attività tempo (ore) primo incontro con il monitor (start di attivazione) 1-1,5 verifica eleggibilità pazienti: 10 min x 3 pazienti 5 visita dei pazienti: 30 minuti per 6 pazienti x 14 volte 42 compilazione crf (case report form): 30 minuti x 6 pazienti x 14 volte 42 visite successive del monitor 24-36 riunioni collegiali degli sperimentatori 5-6 totale 119-132,5 tabella ii impegno orario per una ipotetica sperimentazione della durata di un anno di un farmaco anti-ipertensivo [9]. ipotizzando una sperimentazione della durata di un anno di un nuovo anti-ipertensivo si è potuto calcolare che sono necessarie 119132,5 ore alle quali vanno aggiunti tempi non quantificabili (gestione eventi avversi, auditing, ispezioni enti regolatori) clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 116 il medico di medicina generale e le sperimentazioni cliniche il caso di genova a 7 anni di distanza dal dm 10.05.2001 che cosa è successo? sicuramente molti mmg sul territorio nazionale si sono attivati, ma sono state soprattutto le asl a dover compiere il primo passo, cioè la costituzione degli albi dei ricercatori; e qui si è verificato un primo territorio ligure, è convenzionata con 660 mmg di assistenza primaria e 90 pls che operano nei sei distretti territoriali [2]. per coordinare e sviluppare l’attività sperimentale sul territorio, la asl 3 genovese si avvale di una commissione multidisciplinare composta da rappresentanti dei mmg, dei pls, dell’ordine provinciale dei medici e chirurghi di genova e di tre unità operative aziendali (assistenza distrettuale, assistenza farmaceutica convenzionata, affari generali) (tabella iii). l’attività della commissione si riassume essenzialmente nella valutazione dei trial proposti dallo sponsor prima di sottoporli al giudizio del comitato etico e nella formazione di base dei mmg e pls sperimentatori che sono stati precedentemente selezionati sulla base di determinati requisiti: nel 2002 sono stati formati 44 mmg e 9 pls; nel 2007 è stato fatto un corso di retraining a questi sperimentatori e un nuovo corso base per altri 60 mmg e 4 pls. attualmente, quindi, i mmg sperimentatori accreditati sono 104 su 660 mmg operanti in asl 3. rispetto all’attivazione delle sperimentazioni nel periodo 2002-2007 sono state valutate 14 proposte, di cui tre respinte, e sono stati avviati e conclusi 4 trial di fase iii e 6 studi osservazionali. in merito al trend di partecipazione dei mmg alle sperimentazioni, i dati relativi al periodo 2003-2006 dicono che (tabella iv ): 36 mmg su 44 (81%) hanno partecipato ad almeno una fra 3 sperimentazioni cliniche controllate di fase iii (cui si aggiunge 1 pls) e 6 studi non interventistici osservazionali (tutti per i mmg); in questi primi cinque anni di attività l’80% dei medici sperimentatori ha partecipato a più di dieci sperimentazioni cliniche e osservazionali [11]. sono risultati significativi, se pensiamo al fatto che si tratta di una fase di rodaggio e di un compito tradizionalmente alieno alla pratica dei mmg e pls, che richiede comunque tempo e fatica a fronte di un ritorno, in termini di valorizzazione reale dell’attività, per ora modesto. quello che è stato più volte esplicitato nella giornata di retraining, tenutasi il 23 giugno 2007, è che, al di là del compenso economico, l’opportunità di poter sperimentare è per i mmg e per i pediatri una indubbia possibilità di crescita professionale, e che, come tale, deve ricevere un’adeguata valorizzazione curriculare.   figura 2 asl 3 genovese: 760.000 abitanti residenti in sei distretti [2] 1 dirigente medico dell’uo distrettuale 1 dirigente farmacista dell’uo farmaceutica territoriale 1 rappresentante dei mmg 1 rappresentante dei pls 1 rappresentante dell’ordine dei medici e degli odontoiatri della provincia di genova 1 personale del quadro amministrativo dell’uo affari legali con funzioni di segreteria       tabella iii composizione della commissione per la sperimentazione clinica controllata dei mmg e pls della asl 3 genovese [2] problema: non tutte le asl si sono attivate e quelle che si sono attivate lo hanno fatto dandosi regole e norme spesso disomogenee, creando così difficoltà notevoli alla partecipazione dei mmg e alla gestione degli studi stessi, che hanno spesso dimensione nazionale se non europea e debbono quindi confrontarsi a livello normativo con realtà assai differenti, anche da asl ad asl di una stessa regione. in positivo comunque illustrerò l’esperienza dei mmg nella asl 3 genovese (figura 2). la asl 3 genovese, azienda che rappresenta per estensione territoriale e per popolazione assistita circa la metà di tutto il distretto ponente distretto valpolcevera e valle scrivia distretto valbisagno e valtrebbia distretto levante distretto centro distretto medio ponente clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 117 p. brasesco tutti si sono mostrati consapevoli del fatto che la sperimentazione farmacologica sull’uomo impone un grande senso di responsabilità, di cautela e di rispetto di principi di precauzione. è la sperimentazione in età pediatrica ad essere gravata dalle maggiori preoccupazioni di tipo etico: occorre guardare in primo luogo al bambino, aggiungendo alle normali “precauzioni etiche” (parere del comitato etico, consenso informato) ulteriori garanzie a tutela del bambino e della sua integrità psicofisica (divieto di sperimentazioni se non è dimostrato che ne può derivare un immediato vantaggio; assenso del bambino stesso accanto al consenso dei genitori). sono state poi evidenziate le difficoltà rilevate nella conduzione degli studi proposti sia per un’oggettiva mancanza di tempo, sia per la complessità dei protocolli, sia per la diffidenza, o meglio la non abitudine degli assistiti “tipici degli ambulatori” ad aderire a proposte di ricerca, cosa che si traduce in una “ resistenza al consenso informato” massima soprattutto negli studi che coinvolgono i bambini. è stato anche puntualizzato come la maggior parte dei protocolli sperimentali siano ancora disegnati pensando a una “casistica” di tipo universitario, per cui spesso gli studi non sono di agevole attuabilità e si è auspicata, per il futuro, una “taratura” dei protocolli allineata con la realtà dell’assistenza extra-ospedaliera. conclusioni l’attività di ricerca e sperimentazione clinica da parte del mmg, anche alla luce dell’esperienza appena illustrata, si è rivelata senza dubbio portatrice di valori aggiunti alla professionalità del mmg; i mmg e la simg (società italiana di medicina generale), in particolare, considerano la sperimentazione sui farmaci come uno strumento per mettere a punto ipotesi di ricerche originali e autonome della medicina generale, obiettivo che negli ultimi anni si è andato sempre più concretizzando con la realizzazione di ricerche ideate da simg (studi decor, vario, itaca,lesscore, ecc). inoltre la simg ha creato da anni health search, l’istituto di ricerca della medicina generale italiana che offre agli iscritti la palestra in cui esercitarsi per realizzare ricerche di qualità che abbiano rilevanza scientifica e siano condotte con rigore metodologico [12]. nello specifico dell’esperienza genovese si rileva come il tasso di adesione dei mmg al registro degli sperimentatori sia piuttosto alto (15,7%), tenendo presente che per diventare sperimentatori sono richiesti alcuni requisiti di struttura e di gestione che vanno oltre quelli richiesti “da convenzione” allo stato attuale e che comunque si è partiti da zero con medici che da trent’anni non partecipano ad attività del genere; la pronta attivazione da parte della asl 3 genovese rispetto alla legge del 2001 ha consentito parallelamente una buona risposta dei mmg. in molte province italiane, al contrario, non risulta alcuna attività della asl in questa direzione. sicuramente il passo successivo potrebbe essere quello di riconoscere l’attività di sperimentazione come parte integrante, ancorché opzionale, dei compiti del mmg e quindi di attribuire a essa un peso specifico nell’ambito delle attività convenzionali del mmg. in questa direzione va la proposta della rifondazione della medicina generale elaborata dalla fimmg e presentata al governo nella scorsa legislatura (9 giugno 2007) [13]. secondo questo documento l’attività del mmg si deve poter svolgere secondo diverse modalità e sistemi di retribuzione, all’interno di una nuova forma organizzativa definita unità di medicina generale (umg). si tratta di un’unità produttiva che sviluppa sistemi di assistenza, ricerca compliance alle sperimentazioni mmg pls non hanno mai espresso disponibilità a partecipare alle sperimentazioni proposte 8/44 (18%) hanno partecipato ad almeno una sperimentazione 36/44 (82%) 9/9 (100%) hanno partecipato a trial clinici e a studi osservazionali 26/36 (72%) hanno partecipato a soli trial clinici 2/36 (6%) 9/9 (100%) hanno partecipato a soli studi osservazionali 8/36 (22%) hanno ritirato almeno una volta la propria adesione ai trial clinici dopo il meeting investigator o a trial già avviato 6/36 (17%) 2/9 (33%) hanno reclutato un numero di assistiti = 0 6/36 (17%) 2/9 (33%) tabella iv il trend di partecipazione dei mmg alle sperimentazioni [11] clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 118 il medico di medicina generale e le sperimentazioni cliniche e sviluppo secondo il modello della clinical governance (figura 3). le attività del mmg all’interno dell’umg comprendono: attività di tipo fiduciario (quota capitaria); attività di tipo non fiduciario (oraria o per obiettivo). tra queste ultime troviamo: attività di continuità assistenziale notturna, diurna, feriale e festiva, domiciliare e ambulatoriale; attività di assistenza domiciliare programmata, integrata e residenziale, attività assistenziali programmate, quali progetti prevenzione, ambulatori dedicati a malattie croniche, prelievi o prestazioni di particolare impegno professionale (ecg, eco, tao);     attività relative alla gestione del sistema informativo (analisi epidemiologiche, ecc.); attività di formazione, docenza e audit (dentro e fuori l’umg); attività organizzative e gestionali dentro l’umg (coordinatore umg) e fuori dall’umg (attività dirigenziale); tutoring e attività seminariale universitaria e di formazione specifica, attività valutativa per l’esame di stato; attività di ricerca. infine un ulteriore valore aggiunto dell’esperienza consiste in un impulso alla pratica della farmacovigilanza, ancora molto deficitaria nel nostro paese, sia a livello territoriale che ospedaliero.      figura 3 il modello della clinical governance in medicina generale [13] bibliografia 1. brignoli o, recchia g. attualità. la medicina generale: protagonisti nella ricerca. rivista della società italiana di medicina generale 1998; 2. disponibile su: http://www.simg.it 2. valle i. la sperimentazione clinica controllata nello studio dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta: il progetto organizzativo dell’azienda sanitaria 3 genovese. tesi di specialità in igiene e medicina preventiva, 2003 3. dm 10 maggio 2001 in tema di “sperimentazione clinica controllata in medicina generale e in pediatria di libera scelta”. gazzetta ufficiale n. 139 del 18 giugno 2001 4. circolare del ministero della salute n. 6 del 2 settembre 2002 in tema di “attività dei comitati etici istituiti ai sensi del decreto ministeriale 18 marzo 1998”. gazzetta ufficiale n. 214 del 12 settembre 2002 5. dm 18 marzo 1998 in tema di “istituzione dei comitati etici”. gazzetta ufficiale n. 122 del 28 maggio 1998 6. direttiva 2001/20/ce clinical governance educazione continua e permanente audit clinico visione condivisa ricerca & sviluppo efficacia ed efficienzarisk management clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 119 p. brasesco 7. dlgs n. 211 del 24 giugno 2003 in tema di “attuazione della direttiva 2001/20/ce relativa all’applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico”. gazzetta ufficiale n. 184 del 9 agosto 2003 8. linee guida per la buona pratica clinica (cpmp/ich/135/95), allegato al dm del 15 luglio 1997 in tema di “recepimento delle linee guida dell’unione europea di buona pratica clinica per la esecuzione delle sperimentazioni cliniche dei medicinali”. gazzetta ufficiale n. 191 del 18 agosto 1997, supplemento ordinario n. 162 9. accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale ai sensi dell’art. 8 del d. lgs n. 502 del 1992 e successive modificazioni e integrazioni. disponibile su: http://www.fimmg.org/ 10. tomino c. manuale tecnico-pratico sulla sperimentazione clinica dei medicinali. roma: critical medicine publishing, 2004 11. valle i. comunicazione al corso “il mmg e il pls nel processo di sviluppo territoriale delle sperimentazioni cliniche controllate di fase iii e iv e non interventistiche osservazionali”. genova: 23 giugno 2007 12. parretti d, rossi a, filippi a, peruzzi e. sperimentazione clinica in medicina generale: l’esempio dello studio lesscore. rivista della società italiana di medicina generale 2008; 2. disponibile su: http://www.simg.it 13. la ri-fondazione della medicina generale documento approvato all’unanimità dal consiglio nazionale fimmg. roma: 9 giugno 2007. disponibile su: http://www.fimmg.org/ clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 89 andrea ceresoli 1 un caso di prolasso vaginale: l’uso del tension-free sling caso clinico la signora d.f. di 59 anni, altezza 165 cm e peso 71 kg (in sovrappeso, bmi = 25,2), perviene alla nostra osservazione lamentando una sensazione di fastidio e peso vaginale durante lo stazionamento in piedi, con mitto ipovalido e sensazione di incompleto svuotamento minzionale. all’anamesi patologica remota emergono: nodulectomia mammaria destra per fibroma, colon irritabile e quattro gravidanze a termine, di cui due con parto cesareo. l’esame obiettivo dimostra un prolasso anteriore vaginale (pav ) di grado iib (figura 1) insieme a una ipermobilità uretrale asintomatica (qtip test di 50°). la uroflussimetria dimostra un flusso intermittente (qmax = 11 ml/sec) e un residuo post-minzionale pari a 229 ml. la uretro-cistografia evidenzia un difetto centrale della parete anteriore vaginaabstract occult incontinence occurring after surgery for anterior vaginal wall prolapse may be a stressful unmasked condition which may lead to a second surgical approach. for this reason extremely careful selection of patients should be done prior surgery which should treat in the same time either the prolapse and the asymptomatic urethral hypermobility or the intrinsic sphincteric deficency. we report the case of a 59-year-old female presented with symptoms of pelvic prolapse; she denied stress urinary incontinence (sui). the patient was referred to our institution where videourodynamics were performed, revealing a grade iib cystocele (pop-q), a qtip test of 50° and a negative valsalva leak-point pressure test. she had no history of prior anti-incontinence surgeries. pelvic examination identified no sui, with or without reduction of the prolapse. anterior colporrhaphy with transobturatory sub-urethrovesical placement of a new composite polypropylene tension-free sling was performed. her prolapse symptoms resolved, with no newonset of sui. at 2 year follow-up she had complete resolution of prolapse and denied sui or de novo detrusor instability urgency. keywords: incontinence, anterior vaginal wall prolapse, tension-free sling a case report of anterior vaginal prolapse: the use of tension-free sling. cmi 2008; 2(2): 89-95 1 responsabile ambulatorio di incontinenza urinaria, clinica urologica ii, università di milano. unità operativa urologia ospedale san giuseppe, milano caso clinico corresponding author dott. andrea ceresoli ceresoli.md@tin.it perché descriviamo questo caso? la chirurgia mininvasiva del prolasso anteriore vaginale sintomatico presuppone riflessioni circa la attenta selezione delle pazienti, le indicazioni, la tecnica chirurgica e la scelta dei materiali, finalizzate all ’efficacia in termini clinici duraturi garantibili in un singolo tempo unico chirurgico. l’incontinenza occulta post-operatoria deve oggi essere prevenuta grazie a nuovi sling transotturatori tension-free uretrovescicali progettati anche per prevenire la recidiva del prolasso a distanza. considerata la loro migliore biocompatibilità diviene oggi sempre meno proponibile la correzione del prolasso come primo tempo e la cura dell ’eventuale incontinenza post-operatoria con un intervento di sling mediouretrale successivo clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 90 un caso di prolasso vaginale: l’uso del tension-free sling di primo grado. nei due anni di followup la paziente non ha sviluppato recidive di sintomi o di residuo post-minzionale, né alcuna sindrome urgenza-f requenza de novo. discussione il meccanismo con cui agiscono gli sling è di tipo indiretto: non devono creare una tensione diretta sull’uretra perché altrimenti la ostruirebbero nella fase minzionale. devono creare una tensione sull’uretra solo al momento dello sforzo o del colpo di tosse. se il problema viene per metà risolto col posizionamento dello sling, per questo definito tension-free, “semplicemente” contatto con l’uretra, l’equazione non potrebbe nemmeno venire impostata senza la presenza di un persistente, quanto necessario, certo grado di prolasso residuo, insufficiente ad essere sintomatico, ma sufficiente a permettere una mobilità uretrale utile a farla schiacciare sullo sling sottostante facendole collabire le pareti in modo da impedire fughe di urina. lo sling, infatti, rimane l’unica componente fissa e indeformabile dell’equazione. il modello sperimentale di questa equazione è dato dalla tipologia minzionale post-operatoria: una minzione per caduta, senza potere mai più spingere col torchio addominale per fare più in fretta. se durante la minzione si spingesse con l’addome si procurerebbe non più un mitto ipervalido, ma un blocco del flusso dovuto al collassamento dell’uretra contro lo sling. l’efficacia clinica degli sling tension-free dipende così dalla assenza di eccessiva tensione sull’uretra, ma anche da una assente reazione cicatriziale a diretto contatto del collo vescicale e dell’uretra, come evidenziato da jgnatovic e coll. l’utilizzo di sling interamente sintetici provoca mediamente disturbi minzionali post-operatori nel 10% dei casi, con punte descritte in letteratura del 40% [richter e coll.]. l’eccessiva trazione dello sling provoca una subostruzione uretrale che è l’evento fisiopatologico della sindrome irritativa detrusoriale de novo (delorme). clinicamente si configura come una urgenza minzionale post-operatoria. non a caso gli autori che in letteratura presentano le più elevate percentuali di sindromi irritative detrusoriali de novo sono gli stessi che incorrono nelle percentuali più elevate di ritenzioni urinarie transitorie post-operatorie. l’incidenza di figura 1 prolasso anteriore vaginale della paziente le con residuo post-minzionale di 200 ml (figura 2). la diagnostica urodinamica invasiva evidenzia una normale compliance vescicale nella fase di riempimento, con un test di valsalva negativo alla capacità di 400 ml (figura 3). la profilometria pressoria ureterale statica evidenzia una normotonia sfinterica con un deficit trasmissivo dell’impulso addominale dell’80% (figura 4). viene posta diagnosi di prolasso anteriore vaginale sintomatico in senso ostruttivo senza incontinenza urinaria da stress. la paziente risulta a rischio di sviluppare, dopo una chirurgia mirata all’esclusiva cura del prolasso vaginale, una incontinenza urinaria da sforzo post-operatoria da ipermobilità uretrale (incontinenza urinaria da sforzo occulta). viene quindi eseguita una colpoplastica anteriore secondo kelly con il supporto uretrovescicale di uno sling composito (polipropilene con parte centrale riassorbibile) posizionato dietro l’uretra prossimale e la vescica, fissato bilateralmente all’interno del canale otturatorio secondo la tecnica di delorme mediante un singolo tramite che permette di fissare la sola parte anteriore dello sling tension-free (quella che risulta posizionata al di sotto dell’uretra). in seguito all’applicazione di questo supporto la paziente è risultata libera dai sintomi gravativi e ostruttivi delle basse vie urinarie, con risoluzione del residuo postminzionale, senza sviluppo di incontinenza post-operatoria. al follow-up di due anni è mantenuta una continenza urinaria completa insieme a un prolasso anteriore vaginale fisiologico clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 91 a. ceresoli c figura 2 esito dell ’uretrocistografia della paziente b a clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 92 un caso di prolasso vaginale: l’uso del tension-free sling ostruzione da sling varia dal 8,6% nel caso di quelli transotturatori al 20% nel caso di quelli pubovaginali e dipende dal tipo di materiale utilizzato. l’altro meccanismo fisiopatologico ostruttivo è costituito dalla retrazione cicatriziale dello sling che può raggiungere il 10% della sua lunghezza nel giro di un anno dal suo impianto. uno sling tension-free correttamente posizionato può accorciarsi così tanto da esercitare nel futuro una eccessiva tensione sull’uretra, causando subostruzione e quindi una sindrome irritativa detrusoriale de novo. il rimedio è sezionare sulla linea mediana lo sling liberando l’uretra dalla sua ostruzione. così facendo si ripristinano i vantaggi di uno sling tension-free risolvendo l’urgenza minzionale, mantendo l’efficacia del meccanismo antincontinenza. il materiale dello sling è di estrema importanza per quanto riguarda la sua retrazione cicatriziale. abbandonate le reti di marlex per l’eccessivo sviluppo di reazioni cicatriziali, e quelle a micropori che si infettavano fino ad estrudere, restano oggi gli sling a macropori di prolene e di polipropilene biocompatibili in modo equivalente. conclusioni nei casi di prolassi anteriori vaginali senza incontinenza clinica pre-operatoria, l’attuale biotecnologia mette a disposizione materiali sicuri ed efficaci nel lungo periodo a fornire un supporto uretrovescicale in grado di preservare sia dalle recidive del prolasso che dall’insorgenza post-operatoria di una invalidante incontinenza urinaria da sforzo secondaria a una ipermobilità uretrale o a un deficit intrinseco uretrale funzionalmente nascosti od “occultati” dal prolasso. gli sling a componente riassorbibile sono da preferire a quelli interamente sintetici. la tecnica transotturatoria è preferibile rispetto alla sling pubovaginale perché meno invasiva. il meccanismo di funzionamento degli sling transotturatori a componente centrale riassorbibile dipende dal tipo di supporto offerto all’uretra durante il colpo di tosse o lo starnuto. non si tratta di un supporto retrouretrale come nel caso degli sling interamente sintetici. è un supporto parauretrale simile a pdet cmh o2 0 30 60 pves cmh o2 0 30 60 90 120 pabd cmh o2 0 30 60 90 120 35 s 00:00 01:10 02:20 03:30 04:40 05:50 07:00 141 179 250 iniz fd nd cc 90 figura 3 cistometrogramma di philling. si evidenzia compliance normale e test di valsalva negativo alla capacità di 400 ml clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 93 a. ceresoli quello offerto dai punti di sutura parauretrali della tecnica chirurgica classica retropubica di colposospensione secondo burch, gold standard di riferimento di ogni tecnica chirurgica mininvasiva. una volta riassorbita la parte centrale restano due emisling perfettamente integrati fibroblasticamente e fissi nello spazio vescicovaginale, ancorati superiormente nel forame otturatorio. il margine mediale di questi sling compositi viene ad essere definitivamente allocato in posizione parauretrale, offrendo, una volta riassorbita la porzione centrale, così come accade anche nella tecnica di burch, quella resistenza parauretrale sufficiente a far collabire l’uretra mobilizzata dal colpo di tosse. la scomparsa della parte centrale previene dalle reazioni cicatriziali a diretto contatto con l’uretra, e distacca le due ali laterali dello sling, evitando l’ostruzione uretrale diretta dovuta, nel lungo periodo, alla retrazione del materiale. funzionalmente questi prodotti si comportano come gli sling interamente sintetici una volta sezionati nella loro parte centrale, garantendo da subito di non incorrere nella complicanza subostruttiva collegabile alla retrazione del materiale nel lungo periodo. per questo ultimo motivo gli sling uretrovescicali in polipropilene riassorbibili centralmente non presentano la sindrome irritativa detrusoriale de novo a distanza. considerato che il materiale ha scarso tropismo alle infezioni, curabili con la sola terapia antibiotica a largo spettro, restano soltanto i problemi correlati all’estrusione protesica che, al pari degli sling interamente sintetici, presenta una incidenza del 10%. una incontinenza occulta però è tollerata decisamente meno dalla paziente di quanto non sia una sintomatologia localmente irritativa dovuta all’estrusione. figura 4 risultato della profilometria pressoria uretrale statica. pressione uretrale massima di chiusura di 40 cmh2o (normale) con abdominal transmission index = 80% pura cmh o2 0 20 40 pves cmh o2 0 20 40 60 80 pura,diff cmh o2 0 20 40 60 80 10 mm ps ps cp up pb 30 40 pe a parità di necessità di reintervento, un aspetto a favore degli sling transotturatori uretrovescicali tension-free compositi è dato dal fatto che, non soltanto un’incontinenza urinaria viene considerata un vero handicap dalla paziente, ma che viene in contropartita garantita la non recidiva del prolasso che, con le tecniche chirurgiche convenzionali, senza sling retrovescicali, avrebbe un’incidenza del 60% a 5 anni di distanza dall’intervento. figura 5 procedura proposta: procedura transotturatoria per il trattamento chirurgico mininvasivo dell ’incontinenza urinaria femminile da stress con cistocele (prolasso vaginale anteriore) clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 94 un caso di prolasso vaginale: l’uso del tension-free sling valutazione clinica e (video)urodinamica del prolasso vaginale anteriore prolasso anteriore vaginale valutazione clinica + (video)urodinamica fkt trofismo locale stile di vita sling mediouretrale     terapia ivu regolazione intestinale antimuscarinici fkt trofismo locale stile di vita tens-nms        fkt colporraffia sling mediouretrale sling vescicouretrale     colporraffia sling mediouretrale sling vescicouretrale    incontinenza (da sforzo) peso, ingombro (ostruzione) incontinenza (da urgenza) i grado ii-iii grado iv grado i grado bibliografia di riferimento 1. barnes nm, dmochowski rr, park r, nitti vw. pubovaginal sling and pelvic prolapse repair in women with occult stress urinary incontinence: effect on postoperative emptying and voiding symptoms. urology 2002; 59: 856-60 2. broś m, czajkowski k, kornacki p. analysis of complications of the tension-free vaginal tape procedure for surgical treatment of female stress urinary incontinence. ginekol pol 2003; 74: 930-6 3. ceresoli a, guarneri a. differentiated polypropylene tension free sling (t-sling) in noninvasive treatment of pubocervical fascia defects. 5-year follow-up. abstract from siud annual meeting, 10/2007 4. ceresoli a, guarneri a. half absorbable polypropylene tension free sling (herniamesh t-sling/ uromesh2) in non invasive treatment of female cystocele and stress urinary incontinence. 3-year follow up. abstract from 3rd european urological winter escape meeting. tenerife, 12/2004 5. ceresoli a. new partially absorbable polypropylene tension free sling (t-sling) in non invasive treatment of paravaginal pubocervical fascia defects. 3 year follow-up. abstract from xiv congresso nazionale della associazione italiana di urologia ginecologica e del pavimento pelvico (aiug). roma, 9/2004 clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 95 a. ceresoli 6. ceresoli a. partially absorbable tension free sling in non invasive treatment of mild and severe anterior wall prolapse with stress urinary incontinence. medium term follow-up. abstract from congress in new trendy w uroginekologii. lublin, 2005 7. ceresoli a. sling tension free a componente differenziata: risultati a distanza nel trattamento mininvasivo transotturatorio del cistocele di grado medio e severo. abstract from xv congresso nazionale aiug. lecce, 10/2005 8. de tayrac r, gervaise a, chauveaud-lambling a, fernandez h. combined genital prolapse repair reinforced with a polypropylene mesh and tension-free vaginal tape in women with genital prolapse and stress urinary incontinence: a retrospective case-control study with shortterm follow-up. acta obstet gynecol scand 2004; 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2(2): 55-62 1 medicina generale, università degli studi di firenze mia e ricorda solo livelli piuttosto alterati di colesterolo totale (non ricorda il valore preciso) a un esame eseguito alcuni anni prima. dal colloquio emerge inoltre che la madre della paziente è morta a 60 anni per scompenso cardiaco dopo essere stata colpita, un anno prima, da un esteso infarto della parete anteriore. uno zio materno è deceduto per morte improvvisa a 55 anni. dall’esame obiettivo emerge quanto segue: cuore: azione cardiaca ritmica, toni validi, assenza di soffi;  caso clinico corresponding author prof. augusto zaninelli zaninelli@interac.it perché descriviamo questo caso? per stimolare la conoscenza delle dislipidemie familiari da parte del medico di medicina generale, consentendogli quindi di incrementare l ’attività di prevenzione e di esercitare al meglio la gestione in ambito ambulatoriale clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 56 un caso di ipercolesterolemia familiare torace: murmure vescicolare normotrasmesso, assenza di stasi e bronco stenosi; pressione arteriosa = 120/70 mmhg; indice di massa corporea (bmi) nei limiti di norma, circonferenza addominale anch’essa nella norma; assenza di soffi vascolari. viene inoltre rilevato, a livello del tendine di achille di destra, un rigonfiamento di consistenza dura di circa 1,5 cm di diametro. domande da porsi prescrivo un placebo (es. melatonina 3 mg la sera)? posso approfittare del fatto che la signora è venuta in studio per sottoporla a ulteriori accertamenti in senso preventivo (medicina d ’opportunità)? prescrivo un ssri (inibitore selettivo del re-uptake della serotonina)? prescrivo una visita psichiatrica?         il medico approfitta del fatto che la signora si è recata presso il suo studio per sottoporla a ulteriori accertamenti in senso preventivo (secondo la cosiddetta “medicina d’opportunità”). vengono quindi prescritti gli esami ematochimici di routine, t3, t4, tsh, una radiografia del torace e l’elettrocardiogramma (ecg). la radiografia del torace risulta nella norma (figura 1), così come l’ecg (figura 2). agli esami ematochimici di routine si rilevano: glicemia = 90 mg/dl; trigliceridi = 105 mg/dl; colesterolo totale = 275 mg/dl; colesterolo-ldl = 230 mg/dl; colesterolo-hdl = 30 mg/dl; nella norma il dato di emocromo, elettroliti, funzionalità renale, tiroidea ed epatica. il medico decide inoltre di valutare il rischio cardiovascolare sulla base del calcolo del punteggio individuale della paziente (tabella i): da tale calcolo emerge un rischio piuttosto basso, pari all’1,4%. del resto, valutando l’entità del rischio dalle carte (figura 3), emerge che la donna risulta in un’area “verde”, ossia di rischio basso. che fare a questo punto? prescrivere una dieta a basso contenuto di colesterolo e rivedere la paziente dopo un mese, per un nuovo controllo del profilo lipidico? inviare la paziente allo specialista? prescrivere una statina in forma non rimborsabile dal ssn? prescrivere una statina in modo rimborsabile?           figura 1 rx torace della paziente figura 2 ecg della paziente clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 57 a. zaninelli figura 3 stima del rischio cardiovascolare secondo la carta del progetto cuore dell ’istituto superiore di sanità. donna diabetica. disponibile su http://www.cuore.iss. it/valutazione/donnenon.asp non fumatrici fumatrici età: 60-69 anni 130 320252213174 291130 320252213174 291 200 170 150 130 90 mg/dl m m hg età: 50-59 anni 130 320252213174 291130 320252213174 291 200 170 150 130 90 mg/dl m m hg età: 40-49 anni 130 320252213174 291130 320252213174 291 200 170 150 130 90 mg/dl m m hg sesso donna età 50 anni fumatore no pressione arteriosa sistolica 120 mmhg colesterolo totale 275 mg/dl colesterolo-hdl 30 mg/dl diabete no uso farmaci anti-ipertensivi no risultato 1,4% nei prossimi 10 anni questo significa che, su 100 persone con queste caratteristiche, 1,4 saranno colpite da un evento cardiovascolare maggiore (es. infarto o ictus) nei 10 anni successivi tabella i stima del rischio cardiovascolare secondo il calcolo individuale del progetto cuore dell ’istituto superiore di sanità l’analisi dei dati anamnestici (eventi cardiovascolari gravi in parenti di primo grado) e l’esame obiettivo (la presenza di xantoma tendineo) orientano il medico curante a considerare la paziente affetta da una forma eterozigote di ipercolesterolemia familiare: di conseguenza si tratta di un soggetto ad alto rischio di insorgenza di eventi cardiovascolari anche in età relativamente precoce. si ritiene quindi necessario impostare una terapia aggressiva di riduzione dei livelli di colesterolo ldl con statine. il medico quindi decide di prescrivere una statina in modo rimborsabile dal sistema sanitario nazionale, indirizzando poi la paziente a uno specialista. discussione la paziente risulta affetta da una forma eterozigote di ipercolesterolemia familiare ed è, quindi, ad alto rischio di insorgenza di eventi cardiovascolari anche in età relativamente precoce. la presenza di cardiopatia ischemica precoce tra i familiari di primo grado (si considera precoce un evento occorso prima dei 55 anni nei maschi e prima clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 58 un caso di ipercolesterolemia familiare dei 65 nelle femmine), associata a xantomatosi tendinea (responsabile della nodosità osservata al tendine di achille) e a valori di ldl al di sopra del 90° percentile della distribuzione della popolazione (posto a 190 mg/dl), depongono per una diagnosi certa di ipercolesterolemia familiare (vedi score a pag. 61). le dislipidemie familiari sono malattie su base genetica a carattere autosomico caratterizzate da elevati livelli di alcune frazioni lipidiche plasmatiche. tali patologie sono fattori di rischio per l’insorgenza di malattie cardiovascolari (mcv ). è quindi quanto mai necessaria un’identificazione precoce e in quest’ottica il medico di medicina generale è certamente in prima linea, sia nella diagnosi che nell’identificazione di trattamenti adeguati [1]. la diagnosi non è sempre semplice, ma sono segni indicativi la presenza di xantomi (sono accumuli cutanei di colesterolo di colore giallo-arancio che possono essere localizzati ai gomiti, alle ginocchia o negli spazi interdigitali), i valori di colesterolo totale e/o trigliceridi, uno o più familiari di i grado con lo stesso problema e/o con cardiovasculopatie precoci. per valutare la probabilità di essere colpiti da un evento cardiovascolare maggiore, il progetto cuore dell’istituto superiore di sanità ha elaborato le carte del rischio cardiovascolare [2]. si tratta di uno strumento che permette di calcolare, conoscendo il valore di sei fattori di rischio (sesso, diabete, abitudine al fumo, età, pressione arteriosa sistolica e colesterolemia) il rischio di insorgenza di evento cardiovascolare nei 10 anni successivi. il rischio cardiovascolare è espresso in sei categorie di rischio mcv (da i a vi): la categoria di rischio mcv indica quante persone su 100 con quelle stesse caratteristiche potrebbero ammalarsi nei 10 anni successivi. nel caso della signora elena, esaminando la carta del rischio relativa, ossia quella riferita a soggetto di sesso femminile, non diabetico, non fumatore, con valori di pressione sistolica pari a 120 mmhg, si nota che rientra in un valore di rischio piuttosto basso (figura 3). tale dato può essere confermato con maggior precisione mediante il calcolo del rischio individuale (tabella i). tuttavia, benché estremamente utili in molti casi, nel caso di soggetto affetto da ipercolesterolemia familiare i valori di rischio forniti dalle carte non sono sempre da prendere alla lettera. l’ipercolesterolemia familiare, infatti, rappresenta un alto rischio in sé, indipendentemente da fattori di rischio concomitanti, quali una pressione elevata o l’abitudine al fumo, che vengono invece considerati nel calcolo. gli aspetti normativi. la nota 13 la terapia delle ipercolesterolemie familiari è regolamentata dalla nota 13 dell’aifa (tabella ii) [3]. per quanto riguarda lo specifico ambito delle ipercolesterolemie familiari il testo della nota, dopo aver fornito una definizione della patologia, dice che «la rarità di alcune di queste forme, la complessità della classificazione e dell’inquadramento genetico e l’elevato rischio di eventi cardiovascolari precoci suggeriscono di fare riferimento a centri specializzati cui indirizzare i pazienti ai quali viene formulata un’ipotesi diagnostica di dislipidemia familiare». il testo di questa nota è stato soggetto di numerose perplessità all’interno della comunità medica, principalmente a causa della non sempre chiara e univoca interpretazione del testo. innanzitutto il riferimento al tipo di dislipidemie familiari è piuttosto vago e sembra quindi che l’estensore della nota lasci ampia libertà per quanto riguarda la scelta della classificazione delle “dislipidemie familiari”. inoltre, il “fare ricorso ai centri specialistici” nel caso di ipotesti di dislipidemia familiare è fornito come “suggerimento”: non è quindi chiaro se si tratti di un obbligo, per il medico di medicina generale, indirizzare il paziente a uno specialista o se sia solo una procedura consigliata. infine si afferma che i farmaci citati sono in fascia a solo per i pazienti con diagnosi “accertata” di dislipidemia familiare, ma non è chiaro se come diagnosi accertata si possa intendere anche quella basata su criteri clinici (esame obiettivo, anamnesi) condotta dal mmg, o debba essere sostenuta da una visita in un centro specializzato e dalla successiva emissione di uno specifico certificato. se questo fosse l’atteggiamento prevalente ci si troverebbe di fronte a numerosi problemi: identificare centri qualificati con esperienza nella “classificazione e inquadramento genetico” delle forme familiari; avere un quadro di riferimento classificativo uniforme per tutte le strutture; gestire l’invio di migliaia di pazienti, visto che la prevalenza di forme familiari che comportano elevato rischio cv non è bassissima; evitare l’invio a “puro scopo cautelare” a semplice visita cardiologia, internistica,     clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 59 a. zaninelli ecc presso qualsiasi ospedale/servizio ambulatoriale, generalmente inutile per una diagnosi “di certezza” e foriero di induzione di spesa non necessariamente utile (esami, visite ripetute, ecc.). la medicina anticipatoria qual è il ruolo del medico di medicina generale? caratteristiche peculiari della medicina generale sono: è un’assistenza di “primo contatto” che funge da punto di ingresso dei pazienti nel sistema sanitario; ha carattere continuativo, poiché si occupa degli individui, malati o sani, per un lungo periodo di tempo; si fonda su un approccio globale e al tempo stesso altamente personalizzato, intrinseco alla relazione medico-paziente; svolge una funzione di coordinamento sanitario.     al medico di famiglia, dunque, non spetta esclusivamente la cura di patologie già accertate, ma anche la prevenzione. questo concetto è racchiuso nella definizione di “medicina anticipatoria”. si definisce medicina anticipatoria l’insieme della “medicina di iniziativa”, rivolta alle persone sane, che si realizza nell’ambito di programmi di screening di popolazione e si basa su manovre di prevenzione e diagnosi precoce, e della “medicina di opportunità”, in cui il medico intraprende azioni di prevenzione individuale o di educazione sanitaria nei riguardi di un paziente che si rivolge a lui per altri motivi. ma qual è la situazione italiana in merito alla conoscenza e all’applicazione della “medicina anticipatoria” da parte dei medici di medicina generale? alcuni dati a questo proposito ci vengono forniti dall’indagine general practitioners. quality of life (gpqol), volta a sondare la ipolipemizzanti fibrati: bezafibrato fenofibrato gemfibrozil statine: atorvastatina fluvastatina lovastatina pravastatina rosuvastatina simvastatina simvastatina + ezetimibe altri: omega 3 etilesteri            la prescrizione a carico del ssn è limitata ai pazienti affetti da: dislipidemie familiari bezafibrato, fenofibrato, gemfibrozil, atorvastatina, fluvastatina, lovastatina, pravastatina, rosuvastatina, simvastatina, simvastatina + ezetimibe, omega 3 etilesteri; ipercolesterolemia non corretta dalla sola dieta: o in soggetti a rischio elevato di un primo evento cardiovascolare maggiore (rischio a 10 anni ≥ 20% in base alle carte di rischio del progetto cuore dell’istituto superiore di sanità) (prevenzione primaria); o in soggetti con coronaropatia documentata o pregresso ictus o arteriopatia obliterante periferica o pregresso infarto o diabete (prevenzione secondaria) atorvastatina, fluvastatina, lovastatina, pravastatina, rosuvastatina, simvastatina, simvastatina + ezetimibe; o in soggetti con pregresso infarto del miocardio (prevenzione secondaria) omega 3 etilesteri; iperlipidemie non corrette dalla sola dieta: o indotte da farmaci (immunosoppressori, antiretrovirali e inibitori della aromatasi); o in pazienti con insufficienza renale cronica atorvastatina, fluvastatina, lovastatina, pravastatina, rosuvastatina, simvastatina, simvastatina + ezetimibe, bezafibrato, fenofibrato, gemfibrozil, omega 3 etilesteri         tabella ii nota 13 aifa medicina di opportunità. le ragioni del no mancanza di tempo difficoltà organizzative aggiornamento scientifico e culturale problemi economici altre variabili problema nuovo ↔ problema vecchio ambulatorio in città ↔ ambulatorio in campagna medico donna ↔ medico uomo minori contatti giornalieri ↔ maggiori contatti giornalieri paziente donna ↔ paziente uomo paziente anziano ↔ paziente giovane           clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 60 un caso di ipercolesterolemia familiare percezione della qualità della vita del mmg e dei suoi familiari. in questa indagine era stato inviato un questionario a oltre 46.000 medici di medicina generale italiani, ricevendo 3.237 risposte valide (6,8%, ritenuto dagli esperti un buon successo). dall’analisi dei risultati era emerso che la proporzione di medici italiani di medicina generale che usa la medicina di anticipazione è pari al 16%, mentre il 49% dei medici generali dichiara di non conoscerne il significato [4]. questa mancata conoscenza può essere ricondotta a diversi fattori, tra cui il mancato insegnamento universitario (pur con qualche eccezione), il difficile momento professionale, la demotivazione, anche derivante dall’eccesso di burocrazia, il “servizio di polizia farmaceutica” e i carichi di lavoro routinari elevati. del resto non è sempre detto che non conoscere questo termine equivalga a non applicarla, nella pratica. si può quindi dire che, in italia, i medici di medicina generale lavorano in larga misura in termini di “medicina di attesa”, cioè vengono chiamati a rispondere al bisogno espresso dal paziente svolgendo in tal modo un ruolo prevalentemente passivo, utile per numerosi altri aspetti della pratica clinica quotidiana, ma generalmente insufficiente all’azione preventiva, dal momento che la medicina di attesa risponde soltanto al bisogno percepito. la medicina di iniziativa consiste nel richiamare i pazienti, che non si presentano normalmente in studio, secondo interventi o controlli programmati. il problema potrebbe essere risolto chiarendo questo concetto nel “patto” iniziale, ossia nel momento in cui il paziente si reca per la prima volta dal proprio medico per presentarsi. un altro fattore critico della medicina di iniziativa è insito nell’obiettivo proprio della prevenzione: evitare l’instaurarsi di una malattia. il medico di medicina generale è la figura professionale più adatta per attuare una concreta prevenzione primaria. tuttavia appare necessario migliorare la conoscenza, da parte di tutti i medici, di questi aspetti, miglioramento che deve prevedere anche un’inversione di tendenza nella distribuzione delle risorse economiche, che ancora oggi sono troppo sbilanciate sul versante ospedaliero, trascurando, di fatto, il ruolo e l’importanza del medico di famiglia nella prevenzione. il medico di medicina generale: agente di polizia farmaceutica? un anno dopo il caso descritto, il medico viene convocato da un funzionario dell’asl a giustificare la spesa di statine indotta dalle prescrizioni alla signora elena, in quanto da controlli incrociati effettuati, secondo il funzionario la paziente non aveva diritto al farmaco in regime di rimborsabilità. il medico era quindi stato accusato di essere responsabile di una prescrizione non corretta e gli si richiedeva di rimborsare l’asl. l’indagine che seguì confermò che il medico aveva prescritto la statina in modo appropriato e si concluse con le scuse del funzionario. dal caso descritto emerge l’esigenza, da parte del medico, di preparare con cura e conservare tutta la documentazione atta a dimostrare che la sua è una prescrizione consapevole e appropriata: tutti gli elementi, che potranno essere usati sia per scopi clinici sia per altre eventuali necessità, vanno conservati in archivio, tramite la cartella clinica computerizzata. conclusioni l’ipercolesterolemia familiare è causata da un difetto ereditario nella sintesi o nella funzionalità dei recettori delle ldl che ne riduce il catabolismo con il conseguente aumento della concentrazione del colesterolo nel sangue. i pazienti con ipercolesterolemia familiare mostrano un rischio più elevato di andare incontro a patologie cardiovascolari: è di conseguenza essenziale non sottostimare questa patologia e adottare una terapia che coniughi adeguate indicazioni dietetiche a una corretta terapia farmacologica a base di statine. nonostante l’importanza della diagnosi precoce, questa patologia rimane tuttora spesso sotto diagnosticata: la sua diagnosi precoce rappresenta una delle principali sfide della medicina preventiva. l’ipercolesterolemia familiare, infatti, sodtabella iii durata media di una visita paese durata in minuti deviazione standard germania [5] 7,6 4,3 spagna [5] 7,8 4,0 regno unito[5] 9,4 4,7 olanda[5] 10,2 4,9 belgio [5] 15,0 7,2 svizzera [5] 15,6 8,7 stati uniti [6] 16,3 9,7 italia [7] 8,2 4,3 clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 61 a. zaninelli disfa pienamente tutti i criteri della world health organization [8] per la necessità di screening: a tale scopo un criterio utile è fornito dai dutch lipid clinic network criteria (vedi l’algoritmo di seguito riportato) che si basano sul punteggio ottenuto dal livello di colesterolo-ldl e dall’anamnesi del paziente per ciò che concerne gli evenpunteggio storia familiare presenza prematura di malattie vascolari e/o coronariche nella parentela di 1° grado (< 55 anni per i maschi; < 65 anni per le femmine) 1 presenza di livelli di colesterolo-ldl superiori al 95° percentile nella parentela di 1° grado di età adulta 95° percentile di colesterolo-ldl in funzione dell’età < 18 anni 135 mg/dl 18-40 anni 176 mg/dl 41-60 anni 195 mg/dl > 60 anni 202 mg/dl 2 figli di età inferiore ai 18 anni con livelli di colesterolo-ldl superiori al 95° percentile 2 presenza di sintomi e/o arco corneale nella parentela di 1° grado 2 storia personale presenza prematura di malattie coronariche (< 55 anni per i maschi; < 65 anni per le femmine) 2 presenza prematura di malattie cerebrali e/o vascolari periferiche (< 55 anni per i maschi; < 65 anni per le femmine) 2 esame fisico xantoma tendineo 6 arco corneale prima dei 45 anni 2 esame dna riscontro di mutazioni nel gene del recettore per le ldl 8 carenza di recettori per le ldl 8 livelli di colesterolo colesterolo-ldl > 350 mg/dl 8 colesterolo-ldl = 250-319 mg/dl 5 colesterolo-ldl = 193-249 mg/dl 3 colesterolo-ldl = 155-192 mg/dl 1 risultati punteggio 3-5 → ipercolesterolemia familiare possibile punteggio 6-8 → ipercolesterolemia familiare probabile punteggio > 8 → ipercolesterolemia familiare certa ti cardiovascolari. la diagnosi precoce e la conseguente corretta gestione della patologia non può prescindere dal ruolo primario dei medici di medicina generale: una migliore organizzazione e interventi atti a evidenziare l’importanza della medicina preventiva sarebbero innegabilmente utili per ottimizzarne la gestione. bibliografia 1. filippi a, medea g. dislipidemie familiari: come sospettarle e diagnosticarle. rivista della scoeità italiana di medicina generale 2006; 5: 24-6. disponibile su: http://www.simg.it/servizi/ servizi_riviste2006/05_2006/5.pdf 2. progetto cuore. disponibile su: http://www.cuore.iss.it algoritmo per la diagnosi di ipercolesterolemia familiare [9] clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 62 un caso di ipercolesterolemia familiare 3. nota 13 aifa. gazzetta ufficiale n. 71 del 26 marzo 2007. disponibile su: http://www. agenziafarmaco.it 4. bignamini aa. indagine gpqol: general practitioners. quality of life. xviii congresso nazionale simg. firenze, 29-30 novembre 2001 5. deveugele m, derese a, van den brink-muinen a, bensing j, de maeseneer j. consultation length in general practice: cross sectional study in six european countries. bmj 2002; 325: 472-8 6. blumenthal d, causino n, chang yc, culpepper l, marder w, saglam d, stafford r, starfield b. the duration of ambulatory visits to physicians. j fam pract 1999; 4: 264-271 7. aa. vv. vademecum del medico generale. milano: hyppocrates ed, 2002 8. world health organisation, human genetics programme (1997) familial hypercholesterolemia (fh): report of a who consultation. geneva: world health organization, 1997 9. world health organization. familial hypercholesterolemia: report of a second who consultation. geneva: world health organization, 1999 clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 83 appropriatezza e ricerca in mg andrea pizzini 1 gli strumenti di appropriatezza a disposizione del medico di famiglia nasce il bisogno di appropriatezza in sanità “appropriatezza” è un termine astratto del linguaggio comune che denota la relazione esistente fra due cose diverse. se apriamo infatti un dizionario troviamo che l’aggettivo “appropriato” corrisponde ad altri termini come “adeguato” o “conveniente”, i quali reggono il dativo; ciò sta ad indicare che una cosa non può essere appropriata in senso assoluto, ma può soltanto essere appropriata, adeguata o conveniente rispetto a un’altra cosa e, in modo particolare, rispetto al raggiungimento di un determinato fine. negli ultimi anni questo aggettivo ha cominciato a essere usato in ambito medico e nel significato corrente l’appropriatezza di un procedimento clinico viene valutata in relazione ai costi, all’efficacia di quella procedura e ai bisogni della popolazione. infatti fino a non molti decenni or sono l’opera del clinico non poneva il problema dell’appropriatezza in modo pressante come oggi: il fine del medico al letto del malato appariva unitario, gli abstract the world health organization describes three particular features to assess the appropriateness of most medical services provided by clinicians during typical primary care visits: equity, efficacy and effectiveness. but many others aspects are involved and primary care physicians provide a wide range of services, most of which have not been studied sufficiently to develop explicit criteria for appropriateness. this articles describes meaning and characteristics of appropriateness in primary care and underlines the most important difficulties met by general practitioners, from the so called “disease mongering” to the application of the results of trials into the real clinical practice. keywords: appropriateness, primary care, general practitioners criteria and instruments of appropriateness in primary care. cmi 2008; 2(2): 83-88 1 medico di medicina generale, torino strumenti atti a raggiungerlo erano pochi e la valutazione dell’agire medico era semplice. in una parola, la via che conduceva alla buona condotta medica era ben tracciata e al medico non restava che seguirla. la pratica clinica odierna è invece diventata un’attività complessa che prevede fini diversi e che deve tenere conto di numerosi elementi eterogenei: al di là del valore basilare del bene del malato, esistono infatti altri valori estremamente importanti per la moderna medicina. l’appropriatezza è dunque nella sua essenza l’espressione della distanza che intercorre tra un comportamento osservato e un comportamento atteso in base alle conoscenze scientifiche e/o agli aspetti normativi esistenti; in questo senso è quindi intesa come un mezzo per misurare delle attività. misurare l’appropriatezza in medicina generale se si debbono valutare gli strumenti per poter misurare l’appropriatezza nell’ambito corresponding author dott. andrea pizzini andrea.pizzini@tiscali.it clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 84 gli strumenti di appropriatezza a disposizione del medico di famiglia della medicina di famiglia, bisogna ricercare quali sono le peculiarità delle cure primarie. la world heath organization (who) individua nelle cosiddette “3e” le caratteristiche basilari dell’appropriatezza nelle cure primarie [1]: efficacia: intesa come la capacità di misurare la distanza che vi è tra i benefici di un atto medico e i rischi che esso comporta; efficienza: intesa come la capacità di misurare la distanza che vi è tra i benefici di un atto medico e il suo costo; equità: intesa come la capacità di misurare la distanza che vi è tra i benefici di un atto medico e la sua accessibilità per l’utente. si potranno così distinguere diverse forme di appropriatezza a seconda dell’aspetto che viene considerato (tabella i). efficacia: benefici ↔ rischi nell’ambito degli strumenti per misurare l’efficacia, si possono distinguere diverse forme di appropriatezza. appropriatezza metodologica: riguarda lo stile investigativo e operativo del clinico e rappresenta un elemento fondamentale della sua attività. un atteggiamento metodologico corretto prevede: la raccolta delle osservazioni cliniche e strumentali; la formulazione delle ipotesi diagnostiche; l’attuazione di una strategia diagnostica razionale; la correttezza degli interventi terapeutici. appropriatezza scientifica: intesa come appropriatezza scientifica della pratica clinica. essa infatti non riguarda il modo in cui il medico affronta i problemi del suo paziente, ma le conoscenze scientifiche sulle quali le sue decisioni sono basate. un atteggiamento scientifico corretto prevede: interventi eseguiti secondo le linee guida; terapie secondo quanto indicato dall’evidenza scientifica; un aggiornamento continuo del medico.           appropriatezza deontologica ed etica: è l’ultimo elemento da considerare e valuta un’altra componente fondamentale dell’efficacia di un intervento medico, ossia l’aspetto umano del rapporto medico-malato. l’evoluzione tecnologica della medicina ha messo in ombra questo momento dell’agire medico favorendo l’efficienza tecnico-scientifica a scapito della comprensione umana del malato. in tal modo è andata emergendo e diffondendosi, specie negli ambienti specialistici e in quelli che ricorrono molto frequentemente alle tecnologie più elaborate, una medicina fredda, molto preoccupata dell’accuratezza diagnostica e della validità delle prescrizioni terapeutiche, ma indifferente al modo in cui il paziente vive e affronta quell’episodio fondamentale della propria vita che è la malattia. questo modo di professare l’arte medica sottolinea e privilegia uno dei due aspetti basilari della medicina − quello scientifico-tecnologico − ma ignora totalmente il secondo elemento che riguarda il rapporto medico-paziente che viene ad instaurarsi nel corso dell’atto clinico. un atteggiamento deontologicoetico corretto prevede: particolare attenzione al rapporto medicopaziente, all’ascolto e alla comprensione; partecipazione professionale alla vicenda personale del malato. efficienza: benefici ↔ costi appropriatezza economica: riguarda l’aspetto della spesa monetaria necessaria per ottenere i risultati attesi. negli ultimi anni è venuta emergendo una nuova componente della appropriatezza dell’operare medico, che si differenzia nettamente da tutte le forme precedenti per il fatto che non si origina da un’esigenza interna alla medicina, ma da bisogni che sono estrinseci all’ambito sanitario. un atteggiamento economico corretto prevede: valutare se un certo provvedimento, oltre ad essere adeguato a far fronte alla situazione patologica di un malato, non causa un aumento eccessivo delle spese; particolare attenzione al rapporto costo/ beneficio. equità: benefici ↔ accessibilità appropriatezza sociale: riguarda l’aspetto sociale e imparziale del modo di dispensare le cure. il contenimento dei costi, la neces    tabella i. appropriatezza in medicina generale secondo la world heath organization [1] efficacia benefici ↔ rischi appropriatezza metodologica appropriatezza scientifica appropriatezza deontologica-etica    efficienza benefici ↔ costi appropriatezza economica equità benefici ↔ accessibilità appropriatezza sociale clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 85 a. pizzini sità di fornire in modo uniforme la migliore assistenza possibile a tutti, la libertà di scelta del paziente e del medico sono fini fra loro contrastanti. poiché nella realtà le decisioni mediche vengono prese da soggetti che hanno funzioni sociali profondamente diverse (politici, amministratori, medici clinici e non clinici) è indispensabile che ciascuno di questi attori interpreti coerentemente il ruolo e la funzione che gli sono propri. così, mentre spetterà ai politici e agli amministratori preoccuparsi di ridurre la spesa sanitaria in relazione alle esigenze globali della società, il clinico dovrà preoccuparsi prima di tutto del proprio malato e, pur tenendo ovviamente in considerazione le esigenze sociali e la necessità di non favorire gli sprechi, deve garantire che il paziente che gli si è affidato riceva la migliore terapia di cui necessita in quel momento. un atteggiamento sociale corretto prevede: la facile accessibilità ai servizi e alle cure; la libertà di scelta delle cure e dei sanitari; l’uguale assistenza sanitaria a tutti i cittadini. ...e la chiamano appropriatezza! già solo se si considerano i tre elementi dell’appropriatezza descritti nel precedente paragrafo, la situazione risulta per il medico estremamente complessa. tuttavia, a questi fattori se ne sommano molti altri che tendono a confondere ulteriormente, che sottraggono appropriatezza al sistema e che obbligano, specialmente il medico di famiglia, ad un lavoro aggiuntivo (spesso sconosciuto e sottovalutato) di correzione ed educazione. attualmente per verificare se l’operato di un medico di famiglia è appropriato, il ministero della salute, attraverso le asl, stima la spesa in campo farmaceutico: in pratica l’appropriatezza è valutata attraverso il denaro. anche le industrie farmaceutiche hanno interesse nel misurare l’operato del medico di famiglia e lo fanno studiando e mostrando percorsi appropriati di utilizzo dei loro farmaci: in pratica ricercano l’appropriatezza attraverso la salute. ciò appare un controsenso rispetto all’obiettivo ultimo delle due istituzioni, poiché per il ministero della salute l’obiettivo primario è certamen   te la salute dei cittadini, mentre le industrie farmaceutiche perseguono la vendita dei farmaci, ovverosia il denaro! (figura 1). entrambi questi soggetti poi misurano l’operato dei medici contando il numero di ricette fatte. per il medico, al contrario, il problema reale è il malato che ha di fronte: a mio parere, dunque, un sistema di questo tipo è schizofrenico, limitato e, per restare in tema, gravemente inappropriato per la valutazione del nostro lavoro! dai non disease ai disease mongering a rendere difficile il raggiungimento dell’appropriatezza in campo sanitario si aggiunge una lunga serie di moderne tendenze che si vanno oggi sempre più affermando; di fronte a tali situazioni, il medico di famiglia si trova spesso come sola forza di contrasto. alcuni di questi aspetti sono ben illustrati in due articoli pubblicati sul british medical journal. il primo lavoro [2] analizza una tendenza in progressiva crescita: quella di definire come malattia ogni evento o situazione della vita comune, alimentandone la medicalizzazione. l’articolo, che esamina approfonditamente e scientificamente cosa si deve intende oggi realmente per malattia, si conclude stilando una classifica delle prime 20 “non malattie” (tra le 200 individuate) che, pur non rappresentando una reale condizione patologica, sono spesso spacciate come tali figura 1 la misura dell ’appropriatezza dal punto di vista del ministero della salute e dell ’industria farmaceutica appropriatezza attraverso: denaro appropriatezza attraverso: salute ministero della salute farmindustria obiettivo: salute obiettivo: denaro prescrizione clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 86 gli strumenti di appropriatezza a disposizione del medico di famiglia e quindi degne di attenzione, di diagnosi e magari anche di terapia (tabella ii). il secondo articolo [3] descrive un fenomeno in sempre maggior espansione: ovverosia alcune forme di “medicalizzazione a tutti i costi”, che possono oggi essere tranquillamente descritte come disease mongering (letteralmente “commercializzazione delle malattie”, ossia la pratica di spingere una malattia con lo scopo di vendere più farmaci). nell’articolo viene descritta l’arte di creare o modellare il percepito delle malattie per allargare il mercato di farmaci conosciuti, invece di creare nuovi farmaci per malattie conosciute e ben definite da un punto di vista clinico-epidemiologico. gli autori identificano 5 situazioni possibili che si prestano a questa strumentalizzazione e forniscono, per ognuna di esse, un esempio reale. un diffuso fenomeno considerato come un problema medico: la calvizie l’eccessiva perdita di capelli tende spesso ad essere definita come un problema medico; ne consegue che ogni persona ha il legittimo diritto ad accedere alle procedure sanitarie per porre fine al problema! vengono poi prospettate conseguenze infauste: impatto emotivo con possibili ricadute sulla salute, conseguenze lavorative negative e diminuzione del benessere mentale. sintomi modesti come presagio di malattie più serie: il colon irritabile a lungo il colon irritabile è stato considerato un comune disordine funzionale e la gestione prevedeva essenzialmente l’esclusione di sintomi o segni di severità. recentemente, negli stati uniti, una campagna pubblicitaria ha cercato di farlo divenire un problema medico importante sostenendo che è potenzialmente pericoloso («vi è il pericolo che vi sia sotto un problema più serio»). la campagna è stata interrotta per il ritiro dal commercio del farmaco “in lancio” al seguito della comparsa di effetti avversi gravi, a volte anche fatali. problemi personali o sociali come un’unica malattia: la fobia sociale la fobia sociale è definita come un problema sotto-soglia, corrispondente a milioni di persone con una mancata diagnosi di un problema psichiatrico serio. questa concezione porta a considerare ciò che andrebbe inteso come una difficoltà personale o un problema di conflittualità sociale come un problema medico che prevede soluzioni di tipo farmacologico. la medicalizzazione del malessere umano sembra non avere limiti: viene spacciato come problema psichiatrico qualsiasi malessere o comportamento che non sembra conforme alle regole o a quella che viene considerata la comune norma. un fattore di rischio inteso come malattia: l’osteoporosi come l’ipertensione arteriosa e l’ipercolesterolemia, la perdita di massa ossea – che avviene fisiologicamente con l’età – è il tipico esempio di fattore di rischio concettualizzato come malattia. così come l’incremento della pressione arteriosa aumenta il rischio di stroke e l’aumento del colesterolo il rischio di infarto miocardico acuto, così il calo della massa ossea aumenta il rischio di frattura. ma prevenire è sempre meglio di curare? se si analizzano i dati di letteratura si nota che in donne senza fratture con un bmd = -1,6, la somministrazione di alendronato per 4 anni porta ad una riduzione del rischio relativo del 44%. in realtà gli stessi dati, letti più correttamente, indicano che le fratture nel gruppo placebo sono del 3,8% contro il 2,1% di fratture nel gruppo in trattamento, con una riduzione del rischio assoluto ridotto di solo -1,7%! i farmaci sono quindi efficaci in persone malate (ovverosia con pregressa frattura), mentre prescriverli in prevenzione primaria ne aumenta il mercato, ma non garantisce appropriatezza perché vi è un’errata valutazione del rapporto rischio/beneficio, non è una scelta sostenibile economicamenetà lavoro noia borse sotto gli occhi ignoranza calvizie lentiggini orecchie grandi capelli grigi o bianchi bruttezza nascita allergia al xxi secolo cambio di fuso orario infelicità cellulite postumi di sbornia ansia per le misure del pene o invidia del pene gravidanza stress da traffico solitudine 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. tabella ii le situazioni di “non malattia” spesso considerate come patologiche [2] clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 87 a. pizzini te e oltretutto vi sono terapie più idonee ad essere utilizzate in prevenzione primaria: quindi non è appropriato scientificamente, economicamente e socialmente. sarebbe come somministrare un anti-ipertensivo a un non iperteso o un ipocolesterolemizzante a chi non è dislipidemico! (ma forse qualcuno comincia già a sostenere anche questi ultimi due atteggiamenti?!). la prevalenza di una malattia calcolata per ampliare l’entità della patologia: la disfunzione erettile «il 39% degli uomini visitati dai medici di famiglia ha un problema erettile». con questa affermazione si tenta far percepire il problema come il più esteso possibile. da un’attenta analisi dello studio da cui questa percentuale è stata tratta si nota infatti che, nel suo calcolo, sono stati inseriti tutti i gradi di problemi di erezione, quindi anche chi li riferisce solo in modo molto occasionale. la percentuale non tiene inoltre conto dell’età; la suddivisione per fasce di età può certamente fornire una stima più sensata: a 40 anni è il 3%, a 50 il 15%, a 60 il 26%, >70 il 48%. infine, una valutazione ancora più realistica dell’entità del problema si può ottenere eliminando dalla stima le categorie dove la disfunzione erettile è, per motivi clinici, più frequente (es. i diabetici, i cardiopatici, ecc.). i criteri di appropriatezza sono pronti per essere utilizzati nella pratica clinica? ogni giorno noi medici dobbiamo prendere decisioni circa le procedure da consigliare ai nostri pazienti. ad esempio, come riporta un’editoriale del new england journal of medicine [4], se dobbiamo consigliare una coronarografia ci viene naturale fare riferimento a quello che l’evidenza dei lavori scientifici condotti come trial randomizzati ci suggerisce. tuttavia, se si esaminano i 3 lavori più importanti sull’argomento presenti in letteratura, si rileva che, rispettivamente, solo il 13%, 8%, 4% dei pazienti che si presentano comunemente negli ambulatori dei medici di famiglia è paragonabile con quelli della popolazione utilizzata negli studi indicati. nessuno studio fornisce, ad esempio, indicazioni su come trattare un paziente che deve essere sottoposto a coronarografia, ma che ha più di 65 anni, soffre di più di una patologia cronica associata, è dispeptico ed è lavoratore autonomo libero-professionista: tutti questi sono criteri di esclusione dai trial comunemente condotti. l’autore dell’editoriale conclude che si può sostenere tranquillamente che, ad oggi, il 20-40% dei pazienti mediamente non riceve la procedura più appropriata per la sua situazione clinica. la registrazione del lavoro quotidiano: strumento di appropriatezza del medico di famiglia l’appropriatezza è dunque nella sua essenza l’espressione della distanza che intercorre tra un comportamento osservato e un comportamento atteso in base alle conoscenze scientifiche e/o agli aspetti normativi esistenti. occorre dunque, per poterla dimostrare e valutare, un mezzo che consenta di misurare le attività del medico [5]. oggi la cartella clinica informatizzata è lo strumento che più si presta a raggiungere questo obiettivo, consentendo, sia singolarmente che come insieme di medici di famiglia, di elaborare gli esiti dell’attività lavorativa quotidiana. vista l’importanza sempre crescente di vedere affermati i concetti di appropriatezza contro il dilagare dell’improvvisazione e contro il rischio di affrontare solo gli episodi emergenti a discapito della programmazione sanitaria, risulta indispensabile trasformare l’attività lavorativa quotidiana di ognuno di noi come la dimostrazione del reale e la ricerca del possibile in campo assistenziale [6]. tale elaborazione è oggi è praticabile tramite la cartella clinica informatizzata, che tiene traccia dell’attività quotidiana del medico di famiglia, al fine di valutare: gli esiti nel “mondo reale” delle attività sanitarie: ad esempio quali sono le reali attese per gli esami e/o consulenze richieste, come realmente i pazienti assumono le terapie, come realmente un paziente si rivolge al sistema sanitario nazionale, quali sono gli esiti delle procedure dei pazienti al di fuori dei trial, ecc. l’appropriatezza in tutti i campi del lavoro svolto: non solo dal punto di vista della spesa farmaceutica, ma anche dal punto di vista degli esiti. ad esempio è di scarso interesse sapere quanto un medico spende in farmaci anti-ipertensivi se non   clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 88 gli strumenti di appropriatezza a disposizione del medico di famiglia si sa quanti pazienti sono stati curati con tali farmaci, e soprattutto quanti hanno raggiunto l’obiettivo terapeutico e quindi sono salvaguardati dalla progressione della patologia e dalle sue complicanze pertanto per il medico è essenziale poter ribattere ai dati relativi alle spese per la cura di una data patologia, con i dati sul metodo usato per il raggiungimento degli obiettivi di appropriatezza: metodologici, scientifici, deontologici, sociali e quindi, in ultimo, anche economici. bibliografia 1. who: declaration of alma-ata. international conference on primary health care, almaata, ussr, 6-12 september 1978 e successive integrazioni 2. smith r. in search of “non disease”. bmj 2002; 324: 883-5 3. moynihan r, heath i, henry d, gøtzsche pc. selling sickness: the pharmaceutical industry and disease mongering. bmj 2002; 324: 886-91 4. shekelle pg. are appropriateness criteria ready for use in clinical practice? n engl j med 2001; 34: 677-8 5. campbell sm, braspenning j, hutchinson a, marshall nm. research methods used in developing and applying quality indicators in primary care. bmj 2003; 326: 816-9 6. thom dh, kravitz rl, kelly-reif s, sprinkle rv, hopkins jr, rubenstein lv. a new instrument to measure appropriateness of services in primary care. int j qual health care 2004; 16: 133-40 clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 143 probabilmente sottostimato, dal momento che i decessi nei diabetici sono di solito attribuiti alle complicanze (cardiopatia, malattia renale, ecc.) [2]. le malattie cardiovascolari, infatti, nei paesi sviluppati causano fino al 65% di tutte le morti delle persone con diabete [1]. in italia, per il 2007, l’istat stima una prevalenza del diabete noto pari a 4,6% (4,9% nelle donne, 4,4% negli uomini). in base a questi dati le persone con diabete in italia sono circa 2,7 milioni. la prevalenza aumenta con l’età, con un massimo di 17,6% nelle persone con età superiore a 75 anni [3]. negli ultimi anni si sono realizzati importanti progressi per il trattamento del diabete marina maggini 1, valerio aprile 2, sandro baldissera 3, angelo d’argenzio 4, salvatore lopresti 5, oscar mingozzi 6, salvo scondotto 7, nancy binkin 1, angela giusti 1, alberto perra 1, bruno caffari 1 introduzione il diabete è una patologia che ha un forte impatto sulle condizioni di salute della popolazione e un costo socio-economico molto elevato. nel 2003, fra le persone di età compresa tra 20 e 79 anni, si stimava una prevalenza mondiale del 5,1%, che si prevede aumenterà fino al 6,3% nel 2025, coinvolgendo 333 milioni di persone in tutto il mondo, con un incremento pari al 24% [1]. l’organizzazione mondiale della sanità (oms) ha stimato che nel 2005 il 2% del totale delle morti nel mondo fosse da attribuire al diabete (circa 1.125.000), sottolineando come tale contributo alla mortalità generale fosse l’assistenza alle persone con diabete in italia: lo studio quadri abstract to obtain regional and national data on the quality of diabetes care within the italian national health service, a national survey among persons with diabetes was conducted in 2004. a sample of 3,426 diabetic patients (age 18-64 years) were interviewed using a standardized questionnaire. the population was middle-aged (median age 57 years), had a low educational level, and was followed primarily in public diabetes centres. a total of 54% reported having hypertension but 14% were not on treatment; for hypercholesterolemia, the corresponding figures were 44% and 26%. of the 72% who were overweight or obese, 51% were trying to lose weight; 26% currently smoked. only 66% of patients had undergone haemoglobin a1c testing in the past four months (among the 67% who had ever heard of test); 30% suffered from microvascular or macrovascular complications. only 5% received all eight main tests recommended by the guidelines within the specified intervals. our study demonstrates that diabetic patients receive less than optimal care, they are engaged in unhealthy behaviours and received inadequate treatment for comorbidities, and that the translation of guidelines into clinical practice was unsatisfactory. these data have been used to formulate national and regional policy regarding integrated case management to improve the quality of diabetes care. keywords: diabetes mellitus, italy, prevention, quality of health care the health care for diabetic persons in italy: the quadri survey cmi 2008; 2(3): 143-149 1 centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute, istituto superiore di sanità, roma 2 servizio igiene e sanità pubblica, asl lecce, lecce 3 agenzia regionale della sanità, friuli-venezia giulia, udine 4 servizio di epidemiologia, asl ce2, aversa (ce) 5 servizio di epidemiologia, assessorato alla salute, regione calabria, catanzaro 6 dipartimento di sanità pubblica, azienda sanitaria di forlì, forlì 7 dipartimento osservatorio epidemiologico, regione sicilia, palermo corresponding author dott.ssa marina maggini marina.maggini@iss.it gestione clinica clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 144 l’assistenza alle persone con diabete in italia: lo studio quadri e la prevenzione delle sue complicanze. il mantenimento di livelli glicemici adeguati, ad esempio, riduce grandemente il rischio di complicanze microe macro-vascolari sia nelle persone con diabete di tipo 2 sia in quelle con diabete di tipo 1. inoltre, il contemporaneo controllo di altri fattori di rischio quali l’ipertensione, l’ipercolesterolemia, l’eccesso di peso, l’attività fisica e il fumo possono contribuire a prevenire le complicanze associate alla patologia e aumentare la sopravvivenza in termini di anni di vita guadagnati e di anni vissuti in buona salute. in tal senso esistono diverse linee guida che propongono una serie di misure volte a prevenire le complicanze e individuarne precocemente l’insorgenza. per ottenere informazioni sulle condizioni di salute e sulla qualità dell’assistenza erogata alle persone con diabete, l’istituto superiore di sanità (il centro nazionale di epidemiologia e il gruppo del master profea) in collaborazione con le strutture di sanità pubblica di tutte le regioni e province autonome italiane ha condotto nel 2004 un’indagine campionaria intervistando 3.426 persone con diabete. lo studio quadri si è proposto, quindi, di fornire un’immagine della qualità e delle modalità dell’assistenza usando il punto di vista delle persone con diabete [4,5] e di mettere a disposizione dei centri diabetologici, dei distretti, delle asl e delle regioni informazioni utili per migliorare la qualità dei servizi. metodi è stata condotta un’indagine trasversale di prevalenza, in tutte le regioni italiane, su un campione casuale di 3.426 persone con età compresa fra 18 e 64 anni. le persone da includere nello studio sono state selezionate dalle liste di esenzione ticket per diabete presenti nei distretti sanitari. per le regioni più piccole (basilicata, liguria, marche, molise, sardegna, umbria, valle d’aosta) e le province autonome di bolzano e di trento, è stato effettuato un campionamento casuale semplice direttamente sulle liste di esenzione ticket centralizzate. per le regioni più grandi (abruzzo, calabria, campania, emilia romagna, friuli venezia giulia, lazio, piemonte, puglia, sicilia, toscana, veneto) è stato utilizzato il cluster survey design, con i cluster costituiti dai distretti sanitari, all’interno dei quali sono stati selezionati, con campionamento casuale semplice, le persone da includere nello studio. maggiori dettagli sono riportati nel rapporto dell’istituto superiore di sanità [5]. la rilevazione dei dati è stata effettuata da personale sanitario, appositamente formato, tramite intervista diretta con un questionario standardizzato. l’intervista è stata effettuata direttamente a casa delle persone intervistate, previo contatto telefonico preceduto da una lettera di informazione di cui una copia è stata inviata anche al medico curante. per valutare eventuali possibili distorsioni è stato analizzato il tasso di rimpiazzo, in particolare quello dovuto a rifiuto, delle persone campionate: entrambi sono risultati contenuti entro limiti accettabili. la registrazione e l’analisi dei dati raccolti sono state effettuate utilizzando il software epi-info (versione 3.3-2004). tutte le analisi epi-info sono state condotte usando la funzione c-sample, che tiene conto del disegno complesso adottato nello studio. nel rispetto della normativa vigente, lo studio è stato notificato al garante della privacy. le persone con diabete selezionate per l’intervista sono state informate per lettera sugli obiettivi e le modalità di realizzazione dell’indagine e sulle modalità adottate dallo studio per garantire privacy e confidenzialità. gli intervistatori hanno contattato direttamente per telefono le persone selezionate per spiegare gli obiettivi e i metodi dello studio, garantendo la riservatezza delle informazioni raccolte. alle persone selezionate che hanno accettato di essere intervistate, è stato fissato un appuntamento per l’intervista. le interviste sono state condotte a domicilio dell’intervistato o, a sua preferenza, in un locale della asl, in condizioni di massima riservatezza. prima dell’intervista, l’intervistatore ha spiegato ancora gli obiettivi dello studio, vantaggi e svantaggi per l’intervistato e le misure prese per garantirne la privacy. in ogni momento l’intervistato ha avuto la possibilità di decidere di interrompere l’intervista. risultati hanno partecipato all’indagine 3.426 persone con diabete, selezionate con i metodi precedentemente descritti. complessivamente il tasso di partecipazione è risultato accettabile: è stato intervistato il 79% dei titolari con una percentuale di sostituzioni del 21% (7% dovuto a rifiuto). clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 145 m. maggini, v. aprile, s. baldissera, a. d’argenzio, s. lopresti, o. mingozzi nel campione intervistato il 58% è rappresentato da uomini, l’età mediana è di 57 anni con una proporzione di persone con età inferiore a 40 anni pari all’8% delle donne e il 9% degli uomini. oltre un terzo della popolazione intervistata (con stime puntuali fino al 54 %) ha un livello di istruzione basso o molto basso, il 31% (ic95% 30-33) un livello medio inferiore, mentre il 28% (ic95% 26-30) ha un’istruzione superiore o la laurea. il dato è particolarmente importante per la definizione di adeguati programmi di educazione sanitaria e di counselling. il 42% (uomini 55%; donne 25%) del campione nazionale risulta avere un lavoro, senza differenze sostanziali tra i dati delle varie regioni italiane. la percentuale di occupati è più bassa di quella nazionale che nel 2004 era pari al 57% (dati istat fascia d’età 15-64 anni). la differenza più rilevante riguarda le donne che in italia risultano occupate nel 45% dei casi, rispetto agli uomini per i quali questa percentuale è del 70%. questi confronti vanno, tuttavia, valutati con cautela dal momento che i dati non sono standardizzati per età. la percentuale di diabetici seguiti dalle diverse strutture assistenziali dipende dai differenti contesti organizzativi dell’assistenza sul territorio nelle varie regioni: nel campione in studio il 64% ha dichiarato di essere stato seguito nell’ultimo anno principalmente da un centro diabetologico, mentre il 31% si è rivolto soprattutto al proprio medico di medicina generale. complessivamente, la terapia con antidiabetici orali è risultato il trattamento più frequente (61%), il 26% dei pazienti usa insulina da sola o in associazione con antidiabetici orali, mentre il 13% non è trattato farmacologicamente (figura 1). è evidente una variabilità fra le regioni nell’uso delle terapie con un ricorso più frequente all’insulina nelle regioni del sud. il più elevato uso di insulina in sardegna, rispetto alle altre regioni, è giustificato dall’alta prevalenza di persone con diabete di tipo 1. negli ultimi anni vanno accrescendosi le evidenze sul ruolo determinante che alcune condizioni patologiche, dislipidemia, ipertensione e sovrappeso, hanno nel decorso del diabete e nell’insorgenza delle sue complicanze: nella popolazione in studio la maggioranza (76%) dei pazienti intervistati presenta almeno uno dei principali fattori di rischio e il 42% ne ha almeno due. il 54% degli intervistati ha dichiarato di essere iperteso con valori più bassi negli uomini (50%; insulina + orali insulina distribuzione (%) 20 40 60 80 1000 italia veneto val d'aosta umbria trento, p.a. toscana sicilia sardegna puglia piemonte molise marche lombardia liguria lazio friuli v.g. emilia r. campania calabria bolzano, p.a. basilicata abruzzo solo dieta ipoglicemizzanti orali figura 1 distribuzione regionale dei diversi tipi di trattamento ipoglicemizzante clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 146 l’assistenza alle persone con diabete in italia: lo studio quadri ic95% 47-52) rispetto alle donne (61%; ic95% 58-64). il 14% di coloro che si dichiarano ipertesi non segue alcuna terapia, e questa percentuale è più alta negli uomini (16%) che nelle donne (11%). il 44% degli intervistati ha dichiarato di avere il colesterolo elevato (donne 47%; uomini 42%) ma il 26% non segue una terapia specifica. come per l’ipertensione è presente una notevole variazione nelle stime regionali. è importante sottolineare che il trattamento di ipercolesterolemia e ipertensione nei diabetici riduce l’incidenza e la mortalità per patologie cardiovascolari [6-12]. nella popolazione in studio, la percentuale di persone con eccesso di peso è del 72% ed è simile negli uomini (73%) e nelle donne non è sempre, da sola, sufficiente a normalizzare il controllo metabolico, può, tuttavia, favorire il mantenimento di livelli di glicemia adeguati, nonché il controllo dell’ipertensione e dell’ipercolesterolemia, entrambe associate a un incremento del rischio di complicanze. il 25% degli intervistati fuma, valore sorprendentemente simile alla media di fumatori rilevato nella popolazione generale italiana. alle persone intervistate è stato chiesto se un medico avesse mai diagnosticato loro una delle seguenti complicanze: infarto, angina o malattia delle coronarie; ictus o trombosi cerebrale; complicanze renali o oculari causate dal diabete; se avessero mai subito l’amputazione di un dito, un piede o una gamba a causa del diabete. nel complesso la percentuale di persone con almeno una complicanza è risultata pari al 30% (uomini 31%; donne 29%) (tabella i). questa prevalenza raggiunge circa il 42% (ic95% 38-46) nelle persone di età compresa tra 55 e 64 anni, affette da diabete da più di 15 anni. la singola complicanza più f requente nel gruppo di età studiato (18-64 anni) è la retinopatia diabetica (19%) seguita dalla cardiopatia ischemica (13%; uomini 15%, donne 10%). il 3% della popolazione in studio ha dichiarato di aver avuto un ictus. le complicanze cardiovascolari nelle persone con diabete sono complessivamente molto più frequenti rispetto alla popolazione generale e rappresentano la causa più importante di morbilità e mortalità nei diabetici. per quanto riguarda le complicanze agli arti inferiori, l’1% (ic95% 0,6-1,5) del campione esaminato ha subito un’amputazione. in italia si stima che il 50% delle persone con un’amputazione sia affetto da diabete e che il 15% dei diabetici sviluppi nel corso della vita un’ulcera agli arti inferiori. la prevalenza di complicanze aumenta all’aumentare dell’età e della durata del diabete; per tenere conto della diversa frequenza nelle regioni di tali fattori, la prevalenza delle singole regioni è stata standardizzata sulla base della distribuzione per età e durata del diabete dell’intera popolazione in studio. la variabilità tra regioni, anche dopo tale aggiustamento (standardizzazione), rimane sensibile (range 19%-33%) (figura 2).     tabella i prevalenza di complicanze microe macro-vascolari per sesso complicanze uomini donne % ic95% % ic95% totale 31 28 33 29 27 33 solo microvascolari 12 10 13 18 16 20 solo macrovascolari 13 11 15 6 5 8 entrambe 6 5 7 5 4 7 23-29% <23% >29% figura 2 prevalenza di complicanze standardizzata per età e durata del diabete (71%). tra gli obesi, quasi tutti hanno ricevuto il consiglio di dimagrire ma poco più della metà sta facendo qualcosa per ridurre l’eccesso di peso, e quasi 1 su 3 dei pazienti intervistati è sedentario. la riduzione di peso clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 147 m. maggini, v. aprile, s. baldissera, a. d’argenzio, s. lopresti, o. mingozzi l’ospedalizzazione è influenzata dalle attività di prevenzione e può essere considerata un indicatore della qualità organizzativa dell’assistenza sul territorio. in italia il 19% degli intervistati riferisce di essere stato ricoverato nell’anno precedente l’intervista. la variabilità tra regioni, anche dopo la standardizzazione per età e durata del diabete, è sensibile con un range che varia tra l’11% della liguria e il 30% del molise (figura 3). adeguati controlli e cure riducono, nelle persone con diabete, il rischio di complicanze e contribuiscono al miglioramento della qualità di vita. sulla base dei controlli è possibile attuare tempestivamente terapie o altri interventi mirati che prevengono l’insorgenza delle complicanze o, almeno, ne rallentano l’aggravamento. gli interventi preventivi più efficaci sono elencati in diverse linee guida sotto forma di raccomandazioni di comportamento clinico. per lo studio quadri sono state utilizzate come riferimento le linee guida elaborate congiuntamente dalle associazioni italiane dei diabetologi e dei medici di medicina generale (amd-sid-simg, 2001) [13] integrate con altre raccomandazioni autorevoli basate su evidenze scientifiche, in particolare quelle dell’american diabetes association (ada, 2004) [14]. le raccomandazioni considerate prevedono: una visita medica approfondita ogni sei mesi; esame del fondo oculare, esame accurato dei piedi, misurazione della colesterolemia e dell’albumina urinaria a cadenza almeno annuale; emoglobina glicata e controllo della pressione arteriosa a cadenza quadrimestrale; altri controlli e interventi preventivi (autocontrollo glicemico nei soggetti in trattamento insulinico, vaccinazione anti-influenzale, assunzione di acido acetisalicilico nei soggetti a rischio cardiovascolare). per l’analisi, le raccomandazioni sono state considerate applicate in modo soddisfacente se svolte entro il periodo di tempo specificato. soltanto il 49% degli intervistati ha fatto almeno una visita approfondita dal medico di medicina generale o dal diabetologo nell’ultimo semestre. solo due persone intervistate su tre hanno mai sentito parlare dell’emoglobina glicata (hba1c) e, fra questi, solo il 66% ha eseguito questo esame negli ultimi 4 mesi. la frequenza del controllo dei piedi (38%), del fondo oculare (59%), della colesterolemia (83%), della pressione arteriosa (75%) e dell’albumina urinaria (69%) è ampiamente al di sotto dello standard suggerito in tutte le regioni. complessivamente, soltanto il 5% degli intervistati ha eseguito alle scadenze previste tutti i principali controlli necessari per un’efficace prevenzione delle complicanze. conclusioni lo studio quadri ha mostrato che la situazione italiana è ancora lontana dall’aver raggiunto alti livelli di qualità per quanto riguarda l’assistenza alle persone con diabete. hanno partecipato all’indagine, completando la raccolta delle informazioni, tutte le 21 regioni e province autonome italiane. ciò ha consentito la costituzione di un campione ampio e rappresentativo della realtà nazionale. il criterio di selezione (estrazione dalle liste di esenzione) ha consentito di fotografare con buona approssimazione la realtà di tutta la popolazione diabetica e non solo di quella che ha più frequenti contatti con i servizi sanitari. modesto è stato il tasso di non risposta (circa 20%), di cui solo una quota minore è imputabile a rifiuto. è utile ricordare, tuttavia, che la popolazione inclusa nello studio non è rappresentativa di tutta la popolazione dei diabetici in ciascuna regione, se si considera che buona parte della popolazione diabetica si trova nella fascia d’età oltre i 65 anni. attenzione, figura 3 prevalenza di ricoveri standardizzata per età e durata del diabete 23-29% <23% >29% clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 148 l’assistenza alle persone con diabete in italia: lo studio quadri quindi, deve essere posta nel generalizzare i risultati all’intera popolazione diabetica, specialmente per quanto riguarda le complicanze e i ricoveri che aumentano con l’aumentare dell’età. molti paesi occidentali stanno orientando la propria politica sanitaria verso l’adozione di modelli assistenziali in grado di fronteggiare più efficamente la sempre crescente domanda sanitaria in questa area. le linee di indirizzo generali si basano su modelli di gestione integrata come nuovo modo di affrontare le malattie croniche, in cui le strutture sanitarie agiscono come un sistema unitario, attorno alle esigenze complessive del paziente [15-19]. infatti la sanità moderna è sempre più specializzata e richiede di ricomporre in un unico processo tutti gli interventi multidisciplinari dei diversi professionisti sanitari, in collaborazione tra loro. inoltre, nel caso delle malattie croniche, diventa cruciale anche il coinvolgimento attivo del paziente stesso (patient empowerment). anche in italia è cresciuto il dibattito sull’adeguatezza del sistema sanitario ad affrontare, nel futuro prossimo, una riorganizzazione del proprio modello assistenziale come è documentato dall’orientamento dei piani sanitari degli ultimi anni. il centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie e l’istituto superiore di sanità hanno predisposto, a partire dal 2006, il progetto igea (integrazione, gestione e assistenza per la malattia diabetica) che prevede la definizione della strategia complessiva di un intervento che favorisca il miglioramento della qualità della cura per le persone con diabete, attraverso l’adozione di un sistema di gestione integrata della malattia [20,21]. questo modello, organizzato, attivo e multidisciplinare, è basato, sostanzialmente, sull’integrazione e il coordinamento tra i livelli di assistenza e sul coinvolgimento attivo del paziente nel percorso di cura; elementi essenziali sono: l’adozione di un protocollo diagnosticoterapeutico condiviso da tutti i soggetti interessati; la presa in carico dei pazienti in maniera collaborativa tra medici di medicina generale e diabetologi; la condivisione del piano di cura personalizzato; la valutazione periodica secondo il piano di cura adottato, sia da parte dei medici di medicina generale sia dei diabetologi, finalizzata al buon controllo metabolico e alla diagnosi precoce delle complicanze; l’effettuazione, da parte di tutti gli operatori interessati in maniera condivisa e collaborativa, di interventi di educazione sanitaria e counselling delle persone a rischio e delle persone con diabete rivolti, in particolare, all’adozione di stili di vita corretti e all’autogestione della malattia; la raccolta dei dati clinici delle persone con diabete, in maniera omogenea da parte di tutti gli operatori interessati, per consentire valutazioni di processo e di esito. il progetto igea, per l’impronta istituzionale che lo caratterizza, per l’ampia logica partecipativa che l’ha sempre impregnato e per la potenziale capillarizzazione che potrà scaturire dall’impegno assunto da tutte le regioni, può costituire un vero e proprio laboratorio per la ricerca di soluzioni condivise a vari aspetti critici dell’assistenza. è importante considerare, infine, quale significativo valore aggiunto, che il “diabete mellito” può rappresentare un modello per lo sviluppo successivo di programmi analoghi su altre patologie croniche.       bibliografia 1. venkat narayan km, et al. diabetes: the pandemic and potential solutions. in: disease control priority project in developing countries 2nd edition april 2006: 591-603. disponibile su: http://www.dcp2.org/main/ 2. world health organization. preventing chronic disease a vital investment. who global report. geneva, 2005. disponibile su: http://www.who.int/chp/chronic_disease_report/. ed. italiana. disponibile su: http://www.who.int/chp/chronic_disease_report/contents/ italian%20full%20report.pdf 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engelgau mm, jack l et al. the effectiveness of disease and case management for people with diabetes. am j prev med 2002; 22: 15-38 19. task force on community preventive service. recommendations for healthcare system and self-management education interventions to reduce morbidity and mortality from diabetes. am j prev med 2002; 22: 10-14 20. progetto igea. gestione integrata del diabete mellito di tipo 2 nell’adulto – documento di indirizzo. roma: il pensiero scientifico ed, 2008. disponibile su: http://www.epicentro.iss.it/igea 21. maggini m, raschetti r, giusti a, lombardo f, pricci f, rossi mori a et al. requisiti informativi per un sistema di gestione integrata del diabete mellito di tipo 2 nell’adulto – documento di indirizzo. roma: il pensiero scientifico ed, 2008. disponibile su: http://www.epicentro.iss.it/igea clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 159 toimmune, ipertensione arteriosa, pregressa abitudine tabagica. in trentesima giornata post-operatoria il paziente veniva trasferito presso il centro per iicb del policlinico universitario s. orsola-malpighi di bologna al fine di: definire la prognosi relativa alla reversibiy lità della sbs; impostare il programma farmacologicoy nutrizionale necessario per mantenere un adeguato stato di nutrizione. per soddisfare il primo obiettivo sono stati utilizzati i seguenti indicatori: tipo anatomico di sbs, lunghezza e intey grità dell’intestino residuo; tempo intercorso dall’intervento chirury gico di resezione intestinale; concentrazione plasmatica di citrullina. y loris pironi 1, mariacristina guidetti 1, elisabetta lanzoni 1, caterina pazzeschi 1, catia corsini 1 caso clinico descriviamo il caso di un uomo di 47 anni con insufficienza intestinale cronica benigna (iicb) da intestino corto (short bowel syndrome, sbs) post-chirurgico, secondaria ad ischemia dell’arteria mesenterica superiore. in seguito alla comparsa di addome acuto per infarto intestinale mesenterico massivo, il paziente era stato sottoposto a resezione di circa 120 cm di ileo e del colon destro, con confezionamento di ileo-colon trasverso, anastomosi e disostruzione dell’arteria mesenterica superiore. in seconda giornata post-operatoria, a causa dell’estensione dell’infarto intestinale provocato da retrombosi dell’arteria mesenterica, veniva sottoposto a reintervento con ulteriore resezione del tenue residuo, con risparmio della sola prima porzione digiunale e riconfezionamento dell’anastomosi digiuno-colica termino-laterale. l’anamnesi patologica evidenziava: diabete mellito di tipo 1 complicato da nefropatia protidodisperdente, obesità di tipo addominale, dislipidemia, ipotiroidismo ausindrome dell’intestino corto: gestione clinica abstract the management of a case of intestinal failure due to short bowel syndrome (sbs) is described. patients’ care needs an expert multidisciplinary approach. published data have demonstrated that the lack of a specialist staff is a risk factor for patients’ death. the creation of networks linking non-specialist doctors with dedicated centers is recommended. keywords: short bowel syndrome, intestinal failure, home parenteral nutrition, intestinal transplantation, nutritional status short bowel syndrome: clinical management cmi 2008; 2(4): 159-168 1 centro regionale di riferimento per insufficienza intestinale cronica benigna azienda ospedalierouniversitaria di bologna, policlinico s. orsola malpighi corresponding author prof. loris pironi centro regionale di riferimento per insufficienza intestinale cronica benigna policlinico s. orsola malpighi via massarenti 9 40138 – bologna tel/fax: 051.636.30.73 loris.pironi@unibo.it perché descriviamo questo caso? per conoscere la gestione della sindrome da intestino corto secondo le attuali linee guida caso clinico clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 160 sindrome dell’intestino corto: gestione clinica per la realizzazione del secondo obiettivo sono stati effettuati: studi di bilancio energetico, idrico ed y elettrolitico; valutazione integrata dello stato di nuy trizione. tipo anatomico di sbs, lunghezza e integrità dell’intestino residuo questo parametro esprime le potenzialità dell’intestino residuo di recuperare le funzioni perse con la resezione. il paziente aveva una sbs di tipo 2 [1,2], ovvero un’ampia resezione del tenue e del colon con anastomosi digiuno-colon trasverso (figura 1). per la misurazione della lunghezza del tenue residuo a partire dal treitz si è fatto riferimento alla misurazione effettuata dal chirurgo in sede operatoria, che indicava la presenza di circa 30-40 cm di digiuno, ed è stato effettuato un rx tenue frazionato che ha evidenziato un digiuno residuo di circa 50-60 cm (figura 2). per la misurazione del colon residuo si è fatto riferimento ai criteri di cummings [3], in base ai quali risultava in sede il 57% del colon, rappresentato da parte del colon traverso e da discendente, sigma e retto. il referto operatorio e quello radiologico descrivevano come integri sia il tenue che il colon residui. i dati di letteratura [2,4] indicano che nella sbs di tipo 2 la lunghezza di tenue residuo oltre il treitz necessaria per raggiungere l’autonomia nutrizionale, in assenza di patologie, deve essere superiore a 60 cm. quindi il paziente aveva una possibilità, peraltro borderline, di pieno recupero funzionale. tempo intercorso dall’intervento chirurgico di resezione intestinale questo parametro può essere considerato un indicatore indiretto del grado di adattamento post-operatorio raggiunto dall’intestino residuo, a sua volta indicativo del grado di recupero funzionale. nel 90% dei pazienti con sbs tale recupero è massimo entro 2 anni dall’intervento [2,5] . al momento della nostra osservazione il paziente era quindi in una fase precoce di adattamento intestinale, caratterizzata da diarrea grave e da necessità di integrazione nutrizionale per via venosa. concentrazione plasmatica di citrullina la citrullina è un aminoacido non proteico prodotto quasi esclusivamente dagli enterociti e non metabolizzato dal fegato. la concentrazione plasmatica di citrullina è considerata un marker biochimico della massa enterocitaria. il valore soglia della citrullinemia, in grado di differenziare l’iicb reversibile da quella irreversibile, è 20 µmol/l [6]. all’ingresso nel nostro reparto il valore di citrullinemia era di 8 µmol/l. successive valutazioni sono state programmate ogni 6 mesi contemporaneamente agli studi di bilancio. studi di bilancio energetico, idrico ed elettrolitico gli studi di bilancio sono finalizzati alla definizione del programma nutrizionale. il bilancio energetico prevede la valutazione dell’apporto alimentare, l’analisi delfigura 1 tipi anatomici di intestino corto. modificata da [1,2] tipo 3tipo 2tipo 1 clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 161 l. pironi, m. guidetti, e. lanzoni, c. pazzeschi, c. corsini l’assorbimento intestinale e la misurazione del consumo energetico. l’ apporto viene valutato attraverso la registrazione per 7 giorni dei consumi alimentari tramite un diario autocompilato dal paziente. il diario viene poi validato tramite colloquio con la dietista. l’apporto giornaliero medio di energia e nutrienti viene calcolato utilizzando un software dedicato. l’assorbimento intestinale viene studiato misurando l’assorbimento lipidico, il cui meccanismo è più complesso rispetto a quello delle proteine e dei carboidrati. poiché il malassorbimento lipidico è mediamente maggiore di circa il 7-10% rispetto a quello degli altri macronutrienti [7], l’assorbimento energetico totale viene da noi calcolato aumentando del 7% o del 10% l’assorbimento lipidico misurato, a seconda che la sbs sia in fase precoce o tardiva di adattamento. l’assorbimento lipidico viene calcolato come percentuale dei lipidi della dieta: % assorbimento = lip. assunti lip. escreti lip. assunti x 100 per il test il paziente compila il diario alimentare, oppure segue una dieta con 100 g/die di lipidi, e raccoglie le feci durante gli ultimi 2-3 giorni dello studio (i giorni dipendono dal tipo di sbs). l’analisi dei lipidi fecali viene fatta con la metodica di van de kamer [8]. il consumo energetico viene calcolato attraverso formule teoriche e misurato per mezzo della calorimetria indiretta e dell’holter metabolico delle 24 ore. con la formula di harris-benedict [9] si calcola il metabolismo basale teorico (basal energy expenditure, bee). la calorimetria indiretta, attraverso la misura del consumo di ossigeno e della produzione di anidride carbonica nell’espirato, misura il fabbisogno energetico a riposo (resting energy expenditure, ree), che normalmente rappresenta il bee aumentato del 10%. il fabbisogno energetico totale (total energy expenditure, tee) può essere calcolato moltiplicando il bee o il ree per un fattore di attività fisica ed aumentato di un 10% dovuto all’azione dinamico-specifica degli alimenti, oppure può essere misurato con l’holter metabolico (armband). il bilancio energetico, espresso in kcal/24 ore, viene calcolato sottraendo al tee la quota calorica introdotta per os effettivamente assorbita: bilancio energetico = tee ( apporto alimentare x % assorbimento ) per il bilancio idrico gli apporti vengono calcolati misurando i liquidi introdotti con le bevande e gli alimenti, l’acqua metabolica (prodotta dal metabolismo dei macronutrienti) e gli eventuali liquidi introdotti per via venosa. la valutazione delle perdite richiede la misura della diuresi, dell’acqua persa attraverso il tratto gastrointestinale e il calcolo della perspiratio. per gli elettroliti non viene eseguito un vero studio di bilancio, data la difficoltà logistico-analitica di valutare gli apporti. è tuttavia possibile valutare le perdite misurando la loro concentrazione nelle urine, nell’acqua fecale e negli altri liquidi persi attraverso l’apparato digerente. valutazione integrata dello stato di nutrizione (calorico-proteica, idrica ed elettrolitica) la valutazione dello stato di nutrizione (sn) serve per verificare l’efficacia della terapia nutrizionale. lo sn calorico-proteica e lo stato di idratazione si valutano tramite gli indici antropometrici, le proteine plasmatiche, la forza muscolare volontaria [10], la bioimpedenziometria (bia) [11]. gli indici antropometrici utilizzati sono: il peso corporeo, l’indice di massa corporea [bmi = peso (kg) / altezza(m)2], la plica tricipitale (tsf) figura 2 radiografia dell ’intestino residuo con pasto baritato clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 162 sindrome dell’intestino corto: gestione clinica e l’area della sezione muscolare del braccio (ama), questi ultimi indicativi rispettivamente della massa grassa e della massa magra muscolare. il bmi perde di accuratezza quando vi è una ritenzione generalizzata o localizzata di liquidi, mentre l’accuratezza di tutti i parametri antropometrici viene modificata in condizioni di alterato stato di idratazione. le proteine plasmatiche utilizzate sono l’albumina e la prealbumina, proteine di sintesi epatica, rispettivamente a lunga (20 giorni) e breve (2 giorni) emivita. la loro concentrazione risente di numerosi fattori, non solo nutrizionali (alterazioni dello stato di idratazione, flogosi, insufficienza epatica, insufficienza renale, ecc.), dei quali si deve tener conto nell’interpretazione del loro significato come marker nutrizionali. la forza muscolare volontaria è un indice funzionale di sn calorico-proteica. viene valutata misurando la forza della stretta della mano, quindi dei muscoli flessori dell’avambraccio, tramite un dinamometro. la bia consente di valutare la composizione corporea attraverso la misura dell’impedenza generata dall’opposizione al passaggio di una corrente elettrica alternata applicata al corpo umano. il valore dell’impedenza può essere utilizzato in due diverse maniere, secondo il metodo classico e secondo l’analisi vettoriale (biva) [11]. nel primo, attraverso l’uso di formule (validate per confronto con metodiche di riferimento comunemente accettate per determinare la composizione corporea), si ottiene una misura dei compartimenti corporei (in kg e in % rispetto al peso) secondo un modello basato sull’assunto che l’idratazione della massa magra sia costante (73% della massa magra costituito da acqua). poiché in varie condizioni patologiche ciò può non essere vero, è stato proposto di utilizzare direttamente i valori di resistenza e reattanza normalizzati per l’altezza del paziente e plottati su un piano cartesiano (r/h in ascissa e xc/h in ordinata). i valori di riferimento per i vettori così individuati sono definiti nel piano dalle ellissi di tolleranza (al 50%, al 75% e al 95%) per una popolazione di soggetti sani (range di età 1585 anni; bmi 16-31), le quali indicano l’area del grafico in cui il vettore di impedenza di un soggetto con composizione corporea nella norma ha il 50%, il 75% e il 95% di probabilità di cadere (figura 3)1. l’utilizzo contemporaneo delle varie metodiche di valutazione dello sn permette di integrare le informazioni che ciascuna è in grado di fornire, aumentando l’accuratezza finale della valutazione. 1 valori di riferimento: ellissi di tolleranza di una popolazione di soggetti sani (maschi e femmine italiani; età 16-85 anni; bmi 16-31). i vettori entro l’ellisse di tolleranza al 50% percentile indicano una composizione corporea nella norma, i vettori entro l’ellisse di tolleranza al 75% percentile indicano una composizione corporea borderline. i vettori entro e oltre l’ellisse di tolleranza al 95% percentile indicano una composizione corporea francamente alterata: disidratazione (polo superiore dell’ellisse), ritenzione idrica (polo inferiore dell’ellisse), massa superiore alla norma (semiellisse sinistra) e massa corporea inferiore alla norma (semiellisse di destra). follow-up: variazioni del vettore parallele all’asse maggiore indicano variazioni progressive dell’idratazione tissutale (disidratazione nel caso il vettore cada al di fuori del polo superiore, ritenzione idrica con edema evidente nel caso in cui cada oltre il polo inferiore). variazioni del vettore parallele all’asse minore indicano variazioni di massa (aumento di massa verso sinistra, riduzione di massa verso destra). traiettorie oblique indicano variazioni combinate di liquidi e massa figura 3 andamento della composizione corporea, analizzata mediante biva, in un paziente (m, 46 anni) con intestino corto da infarto arterioso mesenterico biva = analisi vettoriale della bioimpedenza xc/h = reattanza/altezza r/h = resistenza/altezza (tratto da [10]) 1, 2, 3 = valutazioni eseguite rispettivamente a 1 mese, 6 mesi e 12 mesi dalla resezione intestinale clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 163 l. pironi, m. guidetti, e. lanzoni, c. pazzeschi, c. corsini la valutazione dello sn degli elettroliti si basa sulla determinazione della loro concentrazione plasmatica e della loro escrezione urinaria delle 24 ore. quest’ultima è importante poiché, anche quando le concentrazioni plasmatiche sono nella norma, valori ridotti di escrezione urinaria possono essere indicativi di un iniziale deficit. gestione e andamento clinico durante la degenza e dopo la dimissione all’ingresso il paziente presentava un peso di 92 kg (bmi 30,5). l’esame impedenziometrico (bia) mostrava una massa cellulare attiva ridotta e un aumento dell’acqua extracellulare e della massa grassa. l’alvo era caratterizzato da diarrea acquosa. durante la degenza è stata avviata una terapia farmacologica per il controllo della diarrea, con loperamide e inibitori della pompa protonica, ed è stata proseguita la rialimentazione orale prescrivendo una dieta ipolipidica e povera in ossalati. frutta e verdura erano consentite in quantità limitate, dando la preferenza a quelle ricche di fibre solubili. veniva data la preferenza ai cibi solidi mentre si limitava l’introduzione di liquidi, evitando quelli iperosmolari e quelli poveri di sali, entrambi responsabili di aumento della diarrea, e somministrando una soluzione reidratante orale (ors). veniva inoltre impostata una nutritabella i andamento dell ’adattamento intestinale, del bilancio energetico e dello stato di nutrizione in un paziente (m, 46 anni) con intestino corto da infarto arterioso mesenterico bee = basal energy expenditure tee = total energy expenditure note: a) calcolato con la formula di harris-benedict, inserendo il peso relativo a un indice di massa corporea di 25; b) calcolato moltiplicando il bee per un fattore di attività pari a c) misurato con holter metabolico delle 24 ore (armband); d), attività invariata, è stato valido il valore misurato a 6 mesi; e) la % di malassorbimento aumenta con l’aumentare dell’apporto orale, anche se non proporzionalmente a esso mesi dalla resezione intestinale valori normali 1 6 12 adattamento intestinale indice di massa enterocitaria citrullina plasmatica ( y µmol/l) 8 26 28 bilancio energetico fabbisogno energetico (kcal/die) basale (bee) y 1.590a 1.590a 1.590a totale (tee) y 1.908b 2.067c 2.067d apporto alimentare orale media diari alimentari (kcal/die) y 1.320 1.848 3.407 espresso come % del bee y 83% 116% 214% espresso come % del tee y 69% 89% 165% assorbimento intestinale lipidico (misurato, % della dieta) e y 27% 37% 48% energetico (calcolato, +7% del lipidico) y 34% 44% 55% espresso come % del tee y 24% 39% 91% apporto con la nutrizione parenterale per giorno di infusione (kcal/die) y 1.342 1.084 930 giorni di infusione alla settimana (n.) y 7 7 4 espresso come % tee settimanale y 70% 52% 26% stato di nutrizione calorico-proteica antropometria peso (kg) y 87,3 90,4 94,0 indice di massa corporea (kg/m y 2) 28,8 29,9 31,0 19-25 proteine viscerali prealbumina plasmatica (mg/dl) y 18,1 21,4 24,2 > 17 albumina plasmatica (g/dl) y 2,6 2,8 3,6 >3,5 bioimpedenziometria massa grassa [kg (%)] y 22,4 (26) 19,2 (21) 22,2 (24) 17-21% massa magra totale [kg (%)] y 64,6 (74) 70,8 (79) 71,8 (77) 79-83% massa cellulare attiva [kg (%)] y 32,2 (37) 35,9 (40) 42,8 (46) 40-45% acqua corporea totale [kg (%)] y 46,0 (53) 49,7 (55) 50,2 (53) 55-60% acqua extracellulare [kg (%)] y 22,1 (48) 23,5 (47) 20,2 (40) 40-45% acqua intracellulare [kg (%)] y 23,9 (52) 26,2 (53) 30,0 (60) 55-60% forza muscolare dinamometria stretta della mano (kg) y 38,9 42,5 42,7 20,0-56,1 clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 164 sindrome dell’intestino corto: gestione clinica zione parenterale (np), integrativa dell’alimentazione orale ma ipocalorica rispetto al fabbisogno, mirata a ottenere un calo di peso attraverso la riduzione della massa grassa con conservazione della massa magra. alla dimissione, dopo un mese di degenza, il peso era di kg 87 (bmi 28,8) e l’impedenziometria evidenziava un aumento percentuale della massa cellulare attiva e una riduzione della massa grassa e dell’acqua extracellulare rispetto all’ingresso. poiché il paziente si trovava in una fase di precoce adattamento della funzione intestinale residua e l’alimentazione per os era ancora inferiore alla necessità energetica quotidiana, è stato impostato un programma di np domiciliare (npd), con miscela personalizzata, per mantenere lo sn e consentire il progressivo reinserimento del paziente nella vita lavorativa e sociale. per la npd è stato posizionato un catetere venoso centrale (cvc) tunnellizzato tipo hickman; è stata prescritta una miscela personalizzata ed è stata programmata l’infusione quotidiana durante le 14 ore notturne. sono state confermate le indicazioni farmacologiche e dietetiche attuate durante la degenza, incoraggiando l’iperfagia per i cibi solidi. la tabella i descrive l’adattamento intestinale, il bilancio energetico, lo sn e la figura 3 descrive la composizione corporea a 1, 6 e 12 mesi dalla resezione intestinale. si osserva il precoce adattamento intestinale, avvenuto entro il sesto mese post-resezione, espresso dall’aumento della citrullinemia da 8 a 26 µmol/l e la successiva stabilizzazione del valore a 12 mesi. contemporaneamente si è verificato: il progressivo aumento dell’apporto aliy mentare orale, fino a sviluppare una iperfagia, a 12 mesi, che ha consentito di introdurre una quota energetica pari al 214% del bee; la riduzione del numero delle evacuazioy ni, da 5-6/die di feci acquose al momento della dimissione a 2-3/die di feci semiliquide a 12 mesi, con progressivo aumento dell’assorbimento intestinale di energia che, a 12 mesi, raggiungeva quasi il 100% del tee. tale miglioramento ha consentito una parallela diminuzione dell’apporto energetico attraverso la npd fino allo svezzamento dalla stessa. domande da porsi quali sono i fattori predittivi di irrevery sibilità dell ’insufficienza intestinale nella sindrome da intestino corto? qual è il programma farmacologico-nuy trizionale necessario per mantenere un adeguato stato di nutrizione? discussione la lunghezza dell’intestino tenue nell’uomo varia da 3 a 8 m. la sbs si sviluppa quando la lunghezza del tenue residuo è inferiore a 200 cm [12]. la sbs è la principale causa di iicb nell’adulto, dove per iicb s’intende una condizione patologica caratterizzata dalla riduzione della massa intestinale funzionante sotto il minimo necessario per consentire una digestione e un assorbimento di nutrienti adeguati al mantenimento del normale stato di nutrizione [13]. dal punto di vista fisiopatologico l’iicb riconosce altri 3 meccanismi principali: le alterazioni croniche della motilità intestinale, le alterazioni diffuse e non reversibili della mucosa intestinale e le fistole intestinali [5,12]. nell’adulto la sbs è essenzialmente una condizione post-chirurgica dovuta a estese resezioni intestinali effettuate per infarto mesenterico, morbo di crohn, volvolo intestinale, traumi accidentali o complicanze chirurgiche [12]. l’epidemiologia della sbs non è completamente nota. facendo riferimento alle casistiche di npd si presume una prevalenza media di iicb di circa 5-6 casi per milione di abitanti, dei quali nell’adulto i tre quarti sono dovuti a sbs, con ampia variabilità tra i diversi paesi [12,14,15]. in base all’intestino residuo la sbs si classifica in 3 tipi anatomici (figura 1): resezione di ampia parte del tenue e di y tutto il colon, con digiuno-stomia; resezione di ampia parte del tenue e di y parte del colon, con anastomosi digiuno-colica; resezione di parte del tenue con anastoy mosi digiuno-ileale e conservazione della valvola ileo-cecale e del colon [1,2]. successivamente alla resezione, l’intestino residuo va incontro a un fenomeno di adattamento che consente il parziale o totale recupero delle funzioni intestinali perse [12,16]. l’adattamento intestinale è rappresentato da una iperplasia della mucosa con aumento delle capacità assorbitive del tenue e da un aumento dell’assorbimento di acqua e sali, ma anche di energia, da parte del colon residuo. l’adattamento è mediato dai nutrienti presenti nel lume intestinale, dalle secrezioni clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 165 l. pironi, m. guidetti, e. lanzoni, c. pazzeschi, c. corsini digestive e dai fattori neuroendocrini sia intestinali che sistemici. si possono distinguere 3 fasi dell’adattamento: la prima, caratterizzata da diarrea severa y e scarso assorbimento, va da 1 a 3 mesi post-resezione; la seconda, associata a un miglioramento y dell’assorbimento con conseguente riduzione della necessità di npd, va da 4 a 12 mesi; la terza, durante la quale l’adattamento y raggiunge il massimo grado, avviene in genere entro 24 mesi e può portare alla totale sospensione della npd. il recupero delle funzioni intestinali da parte dell’intestino residuo può essere facilitato dalle modificazioni della dieta, dalla somministrazione di farmaci, nutrienti e ormoni con effetto specifico, dagli interventi chirurgici mirati ad aumentare la superficie di assorbimento e/o il tempo di contatto nutrienti-mucosa intestinale e infine dal ricorso al trapianto di intestino. la dieta deve rispettare alcune regole di base, le quali vanno adattate alle esigenze del singolo paziente attraverso una stretta attività di counseling da parte di una dietista esperta (tabella ii) [12,17]. la loperamide, gli inibitori della pompa protonica, l’octreotide, la colestiramina e gli antibiotici sono utilizzati per ridurre le perdite e rallentare il transito intestinale [12,17]. la glutammina, aminoacido specifico per gli enterociti, le fibre solubili dalle quali dopo fermentazione intestinale originano gli acidi grassi a catena breve, specifici per i colociti, l’ormone della crescita e il glucagonlike peptide 2 (non ancora in commercio) possono favorire l’adattamento. gli studi non sono concordi sull’efficacia dei soli nutrienti, mentre l’efficacia degli ormoni sembra essere limitata al periodo di somministrazione. la scelta dei pazienti candidati al trattamento ormonale deve essere accurata poiché la somministrazione dell’ormone della crescita può associarsi a effetti collaterali, i più frequenti dei quali sono la ritenzione idrica e una sintomatologia artralgica-miopatica [18]. le opzioni chirurgiche non trapiantologiche per migliorare le funzioni di una sbs consistono prevalentemente nell’allungamento dell’intestino con la procedura ideata da bianchi, nel rallentamento del transito intestinale per mezzo della inversione di un’ansa intestinale e, più recentemente, nella enteroplastica trasversale seriata (serial transverse enteroplasty, step), che consente sia di allungare il tenue residuo sia di rallentare il transito intestinale [19,20]. infine il ricorso al trapianto di intestino è attualmente riservato ai pazienti nei quali la npd fallisce (home parenteral nutrition failure) a causa dello sviluppo di complicanze che mettono a rischio la vita del paziente (epatopatia cronica evolutiva, multiple trombosi venose profonde che limitano la possibilità di posizionamento di cvc, frequenti e gravi episodi di sepsi da cvc), oppure quando risulta inefficace nel mantenere un accettabile stato di nutrizione/ idratazione del paziente [5,14,21,22]. in base al grado di adattamento intestinale raggiunto, l’iicb da sbs si differenzia in una forma reversibile e in una forma irreversibile. la prognosi di reversibilità/irreversibilità viene fatta tenendo conto di tre variabili, due cliniche e una biochimica: tipo anatomico di sbs, lunghezza e intey grità dell’intestino residuo; tempo intercorso dall’esordio di sbs; y concentrazione plasmatica di citrullina. y la tabella iii riporta la lunghezza minima di intestino tenue necessaria, per ciascun tipo anatomico di sbs, perché vi sia una elevata probabilità di svezzamento dalla npd [2]. riguardo al tempo, la probabilità di nutrienti sbs con colon sbs senza colon carboidrati 50-60% delle calorie totali y preferire quelli complessi y limitarne gli zuccheri semplici y 40-50% delle calorie totali y preferire quelli complessi y ridurre al massimo gli zuccheri semplici y grassi 20-30% delle calorie totali y è y indicato l’uso di olio mct assicurare un adeguato intake di acidi grassi essenziali y 30-40% delle calorie totali y assicurare un adeguato intake di acidi grassi essenziali y proteine 20% delle calorie totali y 20% delle calorie totali y fibre fibre solubili y non essenziali y fluidi ors (o bevande ipotoniche se presente tutto il colon) y ors di solito necessarie y ossalati ridurne l’apporto y non necessaria alcuna restrizione y tabella ii indicazioni dietetiche per pazienti con sindrome dell ’intestino corto. modificata da [16] sbs = short bowel syndrome mct = trigliceridi a catena media ors = soluzione reidratante orale clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 166 sindrome dell’intestino corto: gestione clinica svezzamento dalla npd con la sola terapia medica è inferiore al 10% se lo svezzamento non è avvenuto entro 2 anni dall’esordio della sbs [2, 5]. infine la citrullina plasmatica, aminoacido non essenziale, prodotto principalmente dagli enterociti, non utilizzato dal fegato e non incorporato nelle proteine. la citrullina viene per la maggior parte convertita in arginina a livello renale. per questi motivi la citrullinemia viene utilizzata come indicatore di funzionalità della massa enterocitaria [23,24]. crenn ha dimostrato che, in pazienti con sbs e normale funzionalità renale, la citrullinemia correla positivamente con la lunghezza dell’intestino residuo e con il grado di adattamento. per un valore soglia (cut-off ) di 20 µmol/l, la citrullinemia, valutata nei due anni successivi alla resezione, ha una sensibilità del 92% e una specificità del 90% come fattore prognostico di sbs non reversibile [6]. una volta verificata la necessità di un programma di npd in un paziente con sbs, si deve definire la quantità minima di npd necessaria, sia per evitare un eccesso di alimentazione endovenosa sia per favorire lo punti chiave e raccomandazioni la prognosi di reversibilità della insufficienza intestinale cronica benigna (iicb) nella y sindrome da intestino corto (short bowel syndrome, sbs) si basa su tre variabili: tipo anatomico di sbs, lunghezza e integrità dell ’intestino residuo y tempo intercorso dall ’esordio della sbs y concentrazione plasmatica di citrullina y la massima probabilità di reversibilità si ottiene applicando specifici protocolli di terapia y nutrizionale, farmacologica e chirurgica studi di bilancio e valutazioni integrate dello stato di nutrizione sono indispensabili per y pianificare e verificare l ’efficacia dei protocolli terapeutici la complessità della iicb e la grande variabilità da caso a caso richiedono l ’integrazione y di specifiche competenze medico-chirurgiche i dati di letteratura evidenziano che l ’efficacia, la sicurezza e la tempestività dei trattay menti sono proporzionali all ’esperienza del centro medico-chirurgico; poiché la rarità della iicb rende difficile lo sviluppo di una esperienza clinica efficace, è y raccomandata la creazione di reti che facilitino la collaborazione con centri dedicati tabella iii lunghezza dell ’intestino residuo associata a elevata probabilità di iicb irreversibile (dipendenza permanente dalla nutrizione parenterale domiciliare) nelle 3 tipologie di intestino corto * dal treitz (elaborato da [1,2]) ** secondo cummings (da [3]) tipo di intestino corto 1 2 3 tenue residuo (cm)* <100 <60 <35 <100 (se è presente danno di mucosa) <100 (se è presente danno di mucosa) colon residuo (%)** 0% 50% 100% presenza di valvola ileo-cecale no no si svezzamento dalla npd. per ottenere questo risultato si applicano due regole: evitare l’uso esclusivo della npd; 1. implementare il massimo utilizzo della 2. nutrizione orale. l’obiettivo nutrizionale della npd è quello di raggiungere/mantenere lo stato di nutrizione il più vicino possibile alla norma e compatibile con l’efficienza fisica del paziente, evitando comunque un sovraccarico nutrizionale nel corso della singola giornata di infusione (in genere non superando un apporto energetico per infusione pari a 1,3 volte il bee). l’obiettivo dell’alimentazione orale è stimolare l’iperfagia. l’assorbimento dei macronutrienti anche di un sbs ultracorto non è mai del tutto trascurabile. nei pazienti con sbs l’aumento dell’intake orale sino a 2-3 volte il bee può portare a un aumento significativo del bilancio calorico e allo svezzamento dalla npd, anche nei pazienti con un intestino residuo di lunghezza bordeline [2,4,7,25]. gli studi di bilancio e la valutazione dello stato di nutrizione sono indispensabili poiché sono rispettivamente il mezzo e l’indicatore per pianificare e verificare il raggiungimento degli obbiettivi nutrizionali. poiché i dati epidemiologici dimostrano che il successo del trattamento della iicb, come efficacia (stato di nutrizione e qualità di vita), sicurezza (morbidità e mortalità) e tempestività delle misure prese, dipende dall’esperienza dell’équipe medico-chirurgica che segue il paziente, viene raccomandata la creazione di reti che consentano un facile collegamento con i centri specialistici dedicati [26,27]. clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 167 l. pironi, m. guidetti, e. lanzoni, c. pazzeschi, c. corsini bibliografia 1. carbonnel f, cosner j, chevret s, beaugerie l, ngo y, malafosse m et al. the role of anatomic factors in nutritional autonomy after extensive small bowel resection. jpen j parenter enteral nutr 1996; 20: 275-80 2. messing b, crenn p, beau p, boutron-ruault m, rambaud j, matuchansky. long-term survival and parenteral nutrition dependence in adult patients with the short bowel syndrome. gastroenterology 1999; 117: 1043-50 3. cumming jh, james wp, wiggins hs. role of colon in ileal-resection diarrhoea. lancet 1973; 17: 344-7 4. messing b, joly f. guidelines for the management of home parenteral support in adult chronic intestinal failure 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maggior parte dei casi si tratta di ansia o depressione spesso concomitanti. addirittura alcune stime ritengono che il 34% dei pazienti visti dal mmg sia di pertinenza psichiatrica e che il 50% del suo tempo sia dedicato ad affrontare problemi emotivi. la sensazione di chi fa questo lavoro, anche se non avvalorata da numeri, sembra confermare queste valutazioni rafforzate dall’impressione che chi soffre di disordini mentali consulti il mmg più spesso degli altri pazienti e che il maggior carico sia dato da donne e giovani adulti. ogni settimana il numero di pazienti con problemi emotivi che si reca dal mmg è 5 volte superiore a quello visto dagli specialisti e 50 volte maggiore di quello di coloro che verranno ricoverati in strutture psichiatriche [2]. infatti solo il 10% dei pazienti viene inviato allo specialista psichiatra per due ordini di motivi di segno opposto: in primo luogo, la maggior parte dei disturbi emotivi comuni (common mental disorders) non necessita di trattamenti farmacologici o terapie complesse, in secondo luogo le statistiche dicono che gran parte di questi pazienti non viene riconosciuto dai medici di famiglia, incapaci di formulare diagnosi e di introdurre terapie efficaci. c’è comunque sovrapposizione tra le popolazioni che afferiscono ai professionisti che, a livelli diversi, si occupano dell’assistenza dei pazienti con disturbi psichiatrici. come esemplificato in figura 1 (elaborata dal prof. fabrizio asioli), pochi tra i pazienti della popolazione generale con problemi psichiatrici si rivolgono a un medico; inoltre gli assistiti di un mmg solo per una piccola parte si sovrappongono alla popolazione di pazienti che è in carico ai dipartimenti di salute mentale (dsm). il modello “a cancelli” di goldberg e huxley il medico di famiglia in italia è idealmente posizionato nella situazione ottimale perché è, con il suo paziente, al centro del servizio sanitario nazionale. questo fatto è bene esemplificato dal “modello a cancelli”, sviluppato da david goldberg e peter huxley (figura 2) [3]. tale modello ha lo scopo di descrivere il percorso assistenziale più comune seguito dalle persone con disturbi psichici. secondo tale schematizzazione, il percorso seguito dal paziente a partire dalla popolazione generale fino alla condizione più grave di ricovero in ospedale può essere esemplificato in un sistema “a cancelli”, dove ciascun livello è correlato alla presenza di un filtro, il cui superamento rappresenta una sorta di selezione per il paziente: y i livello: morbilità psichiatrica nella popolazione generale. filtro 1: decisione di consultare il mmg; y ii livello: morbilità psichiatrica totale nella medicina generale. filtro 2: ri©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1)4 editoriale conoscimento dei disturbi da parte del mmg; y iii livello: morbilità psichiatrica riconosciuta dal mmg. filtro 3: invio da parte del mmg ai servizi psichiatrici; y iv livello: morbilità psichiatrica totale nei servizi psichiatrici. filtro 4: decisione dello psichiatra di ospedalizzare; y v livello: pazienti psichiatrici ricoverati in ospedale. da questo modello risulta evidente il ruolo fondamentale della medicina generale all’interno di tutto il sistema e l’importanza della corretta diagnosi di disturbo psichiatrico da parte del mmg (secondo filtro), che condiziona tutto il percorso, ossia la presa in carico del paziente da parte del sistema sanitario nazionale [4]. è molto importante quindi che l’intervento del medico di famiglia sia precoce, preciso ed efficace, per evitare il peggioramento della sintomatologia con un’evidente riduzione della qualità della vita per il paziente. riconoscere la patologia in medicina di famiglia il modello di goldberg e huxley permette di rimarcare che un’accurata diagnosi di disturbo psichiatrico da parte del medico di famiglia è fondamentale; dai dati di letteratura è possibile inoltre sostenere che un suo intervento accurato e precoce consente di ridurre il numero delle successive consultazioni, diminuisce le conseguenze della malattia nel tempo e abbrevia la durata degli episodi patologici. nonostante le prove dell’utilità di un approccio adeguato da parte del mmg, è stato stimato che solo il 68% dei pazienti con disturbi psichici che vanno dal mmg ottiene una diagnosi corretta [5]. ma è questo un reale problema o solo una caratteristica insita nel ruolo del mmg? infatti se da un lato è necessario affinare le proprie capacità diagnostiche e assumere l’onere di trattare personalmente determinati pazienti, dall’altro è un dato di fatto che, per il modo di lavorare del mmg e per le caratteristiche dei pazienti che lo consultano, spesso una precisa classificazione secondo i dsm risulta impossibile per due motivi, di seguito descritti. in primo luogo nell’ambito della medicina di famiglia i sintomi emotivi comuni (ansia e depressione) non sono sinonimo di disordine mentale, infatti circa il 30% delle persone senza disordini mentali soffre comunque di fatica cronica e il 12% di umore depresso [6]. gran parte di questi sintomi sono risposte a eventi di vita stressanti che non vanno trattati farmacologicamente; tale concetto diventa prezioso soprattutto per il medico di medicina generale, che risulta attualmente figura 2 il modello a cancelli di goldberg e huxley figura 1 i pazienti con disturbi mentali nella medicina generale e nel dipartimento di salute mentale (dsm) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1) 5 a. pizzini, f. benincasa il più importante gestore della prescrizione di psicofarmaci ed è quindi evidente l’importanza di una sua adeguata formazione in campo psichiatrico. la figura 3 mostra come rassicurazione e supporto costituiscano mezzi molto efficaci nel migliorare notevolmente i sintomi di una popolazione sofferente di disturbi emotivi [7]. inoltre le difficoltà nel porre una corretta diagnosi derivano in primo luogo dal fatto che la maggior parte dei pazienti con disordini mentali che consulta il proprio medico di famiglia presenta più frequentemente un disturbo fisico che non un disturbo psicologico. è stato stimato che in oltre il 90% dei casi, in medicina generale, i disturbi psichiatrici sono inizialmente offerti dal paziente sotto forma di disturbi somatici (ad esempio, disturbi del sonno, la sensazione di sentirsi sempre stanchi, la difficoltà nel gestire le attività della vita quotidiana) [8]. le modalità di presentazione dei problemi fisici e dei disordini mentali possono essere così riassunte: sintomi somatici di disordini mentali; y sofferenze dovute a malattie fisiche; y sintomi che possono celare disordini y mentali: stanchezza, insonnia, mancanza di y energie; vaghi dolori e sofferenze, vertigini, y cefalea; preoccupazioni, tensioni e scarsa mey moria. come è noto, esistono esami di laboratorio per escludere l’origine organica di sintomi psichiatrici, ma non per confermarne la natura. il colloquio è quindi l’unico e fondamentale elemento per giungere alla diagnosi: in psichiatria diagnosi e colloquio sono praticamente sinonimi. nella maggior parte dei casi solo numerosi colloqui potranno dare un’idea precisa della persona che ci si trova di fronte. la conoscenza dei pazienti e lo sviluppo nel tempo di un rapporto continuativo tipica della medicina di famiglia sono dei notevoli vantaggi a patto che l’osservazione del medico sappia rinnovarsi e che il curante sia in grado di considerare il soggetto con occhi nuovi, privi di pregiudizi, pronto a osservarlo secondo due prospettive diverse e contemporanee, combinando a ogni incontro un punto di vista originale, come se si trattasse di un paziente mai visto prima, e un punto di vista abituale sulla base della tradizione sviluppatasi tra i due nel corso del tempo. porre una diagnosi corretta, oltre a fornire un feedback al paziente, concorre comunque a migliorare la comunicazione tra colleghi: infatti la corretta trasmissione di dati e collaborazione tra mmg e psichiatria territoriale permettono sia un adeguato referral (l’invio dei pazienti ai servizi specialistici) sia un adeguato back-referral (i pazienti sottoposti a visita specialistica che possono essere rinviati al medico di famiglia). in numerosi casi, inoltre, la diagnosi è strettamente correlata a una corretta terapia, ed è una forma di categorizzazione di cui è impossibile fare a meno. non bisogna infine dimenticare il ruolo cruciale che il medico di famiglia svolge nell’integrare la valutazione clinica e la terapia dei pazienti psichiatrici con le frequentissime comorbilità di cui tali soggetti soffrono [9]. infatti si assiste a una significativa associazione tra malattie psichiatriche e comuni patologie croniche (diabete mellito, cardiopatia ischemica, osteoartrosi, broncopnemopatia cronica ostruttiva). ne siano esempi il disturbo depressivo conseguente a una cardiopatia ischemica oppure la sindrome metabolica favorita dall’uso cronico di neurolettici in un paziente psicotico. spesso in questi casi la patologia psichiatrica, se non riconosciuta e trattata adeguatamente, è associata a più modesti miglioramenti delle patologie organiche e rende conto di un maggior carico lavorativo per il medico di famiglia sia in termini di un maggior numero di consultazioni sia sotto il profilo dell’impegno professionale. figura 3 il ruolo di rassicurazione e supporto nel migliorare i sintomi di chi soffre di disturbi emotivi. modificata da [7] ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1)6 editoriale bibliografia benincasa f, garrone a, pizzini a, spatola g. orientarsi in psichiatria. manuale di sopravvivenza 1. per il medico di famiglia. roma: giovanni fioriti editore, 2009 bower p, gilbody s. managing common mental health disorders in primary care: conceptual 2. models and evidence base. bmj 2005; 330: 839-42 goldberg dp, huxley p. mental illness in the community: the pathway to psychiatric care. 3. london: tavistock, 1980 goldberg d, huxley p. common mental 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prevalenza piuttosto elevata anche in europa, dove è stato stimato che la percentuale di soggetti sovrappeso (ovvero con body mass index, bmi > 25 kg/m2) sia circa del 40%, mentre il numero di obesi (bmi > 30 kg/ m2) si aggira intorno al 15%. l’obesità è stata definita dalla world health organization ( who) come “epidemia globale”: essa va infatti intesa come una vera e propria patologia ad andamento cronico; inoltre rappresenta uno dei principali fattori di rischio per molte altre malattie gravi, quali il diabete mellito non-insulino dipendente e le patologie cardiovascolari. la who ha inoltre fornito una classificazione dei livelli di sovrappeso sulla base del bmi, riportata in tabella i [1]. è ormai appurato che una dieta equilibrata è fondamentale per il trattamento del sovrappeso. tuttavia, nel caso in cui la valutazione clinicoepidemiologica in pazienti in sovrappeso e obesi dopo applicazione del “metodo dcd” abstract the article describes an experimental observation performed for 2 years on 200 patients: 150 female and 50 male between 25 and 65 years old, overweight with class i, ii and iii obesity ( who classification). patients with overt diabetic pathology and with “borderline” hyperglycemia, hypertriglyceridemia and hypercholesterolemia are subjected to “dcd method ” (appropriate dietary education associated to new-electrosculpture) in bari (dcd office). the aim of the study is weight loss, with patients’ life quality improvement. what we have obtained is an ideal body weight recover without anti-obesity drug use, with maintenance of the results obtained for 18 months. keywords: dcd method, new-electrosculpture, obesity, diet clinical-epidemiological evaluation in overweight and obese patients after “dcd method” application cmi 2009; 3(1): 33-41 1 medico chirurgo, specialista in dermatologia e venereologia, dcd bari 2 medico chirurgo, specialista in chirurgia plastica, dcd roma 3 medico chirurgo e farmacista, dcd roma corresponding author dott.ssa marina conese dottmarinaconese@tiscali.it gestione clinica dieta da sola non sia sufficiente, è possibile associarla a metodiche complementari; una di queste metodiche è rappresentata dalla new-electrosculpture. la new-electrosculpture, considerata in un certo senso l’evoluzione della electrosculpture elaborata all’inizio degli anni ’80 da andré lapasset, è una metodica che si basa sul principio dell’elettroforesi: il paziente, avvolto in un bendaggio apposito, viene collegato all’apparecchio che emette corrente elettrica continua di bassa intensità galvanica (da 5,5 a 6,5 ma). detta emissione ha lo scopo di ripolarizzare la membrana dell’adipocita aprendo i canali di membrana e favorendo in tal modo sia gli scambi intercellulari (con una più efficace eliminazione di tossine) sia la dismissione del grasso disciolto nella cellula stessa. grazie a questo metodo le cellule iniziano a funzionare in maniera più fisiologica, smaltendo meglio i prodotti del loro metabolismo e le tossine (effetto “anti-age”). durante il trattamento non vengono veicolati alcun tipo di farmaci e/o creme di qualclinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 34 valutazione clinico-epidemiologica in pazienti in sovrappeso e obesi dopo applicazione del “metodo dcd” siasi genere; la metodica non presenta effetti collaterali ed è completamente indolore. nonostante questa tecnica sia utilizzata da svariati anni con buoni risultati in numerosi centri di dimagrimento (dcd), al momento non sono disponibili in letteratura veri e propri trial clinici mirati a valutarne l’efficacia da un punto di vista scientifico. in ambito italiano il primo lavoro effettuato sull’uso dell’electrosculpture risale al 1985, anno in cui è stata condotta un’analisi da parte dell’istituto di terapia medica sistematica del policlinico umberto i di roma. lo studio, eseguito su 10 donne di età compresa tra 17 e 45 anni affette da lipodistrofia distrettuale, aveva permesso di evidenziare la riduzione di massa grassa, misurata in termini di circonferenza di coscia, caviglia e polpaccio, dopo 15 sedute di trattamento di 30 minuti ciascuna. successivamente, un’analisi più ampia (condotta su 30 pazienti) è stata svolta da verna e coll. presso l’università la sapienza di roma [2]. lo studio, mirato a verificare efficacia e sicurezza del metodo, ha concluso che è innanzitutto essenziale, per ottenere un dimagrimento adeguato e duraturo, associare la new-electrosculpture alla dieta cadn (ossia la crono alimentazione dissociata normocalorica, che sarà descritta meglio in seguito). l’analisi inoltre ha consentito di confermare che questo trattamento è privo di rischi e che non modifica in alcun modo né i segni vitali né l’ecg. al contrario, è efficace nel migliorare alcuni parametri connessi con la massa grassa, poiché determina una diminuzione dei trigliceridi, del colesterolo totale e del colesterolo-ldl e un aumento del colesterolo-hdl. inoltre il suo utilizzo è legato a un decremento, seppur moderato, delle gamma-glutamil-transpeptidasi, il che mostra la sua azione positiva sul metabolismo. al fine di fornire ulteriori dati sulla newelectrosculpture in associazione con la dieta cadn, abbiamo deciso di condurre il primo trial clinico su un numero più consistente (statisticamente significativo) di pazienti, in modo da verificare gli esiti del trattamento e fornire un razionale scientifico alla sua efficacia. materiali e metodi il nostro studio è stato condotto su un campione di 200 pazienti trattati negli anni 20072008 presso la dcd sede di bari, di cui 150 di sesso femminile (pari al 75% del numero totale dei pazienti) e 50 di sesso maschile (pari al 25%) di età compresa tra 25 e 65 anni (le caratteristiche principali del campione esaminato sono riportate in tabella ii). questo campionamento è stato ottenuto tenendo presente i seguenti criteri di inclusione/esclusione: sono stati y inclusi nello studio i pazienti in sovrappeso, con obesità di classe i, ii e iii (secondo la classificazione della world health organization, tabella i), quelli con patologia diabetica franca e con iperglicemie borderline, ipertrigliceridemie e ipercolesterolemie, pazienti con terapia tiroidea manifesta (in terapia sostitutiva ormonale) e borderline; sono stati y esclusi dallo studio tutti quei pazienti che assumevano sistematicamente farmaci antiepilettici, tranquillanti maggiori e minori, antidepressivi e stabilizzanti dell’umore, cortisonici; classificazione bmi (kg/m2) sottopeso < 18,50 magrezza grave y < 16,00 magrezza leggera y 16,00-16,99 magrezza moderata y 17,00-18,49 valori normali 18,50-24,99 sovrappeso ≥ 25,00 pre-obesità y 25,00-29,99 obesità ≥ 30,00 classe i y 30,00-34,99 classe ii y 35,00-39,99 classe iii y ≥ 40,00 tabella i classificazione delle categorie di peso corporeo stilata dalla world health organization [1] bmi = body mass index sesso pazienti fascia di età (anni) pazienti n. % n. % f 150 75 28-40 50 33 40-65 100 67 m 50 25 25-40 20 40 40-65 30 60 tabella ii campione esaminato ripartito per sesso e fasce di età clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 35 m. conese, g. massiah, p. o. de cavi sono stati y esclusi i pazienti con epilessia, sindromi ansioso-depressive e turbe comportamentali, pazienti portatori di pacemaker o che avevano subito cardioversione farmacologica o elettrica. per ogni paziente arruolato è stata compilata una cartella clinica specifica (figura 1). l’uso di tale cartella clinica ha garantito l’uniformità e la completezza della raccolta dei dati. al momento della visita, prima di aderire al trattamento, sono stati richiesti per ogni paziente esami ematochimici di routine ed esami ormonali tiroidei: emocromo completo con formula e piastrine, sideremia, protidogramma elettroforetico, protidemia, glicemia, hb glicosilata, azotemia, creatininemia, uricemia, esame delle urine completo con sedimento, colesterolemia totale e frazionata, trigliceridi, got, gpt, γgt, bilirubina totale e frazionata, tsh, f t3, f t4, anticorpi anti-microsomiali, anticorpi anti-tireoglobulina, anti-tpo e insulinemia basale. nel 7% dei casi, grazie alla capillarità degli esami condotti, abbiamo reso evidente come, dietro all’incapacità di dimagrire di alcuni pazienti, si nascondessero problematiche ormonali (pazienti del tutto ignari di essere portatori di tiroiditi autoimmuni, ipotiroidismi e/o iperglicemie o diabete franco!). si sottolinea, quindi, ancora una volta l’importanza degli esami ematochimici e ormonali, che vanno assolutamente condotti prima di iniziare ogni trattamento. in questa maniera si studia il paziente più approfonditamente, consigliando regole alimentari adeguate e personalizzate per ogni caso clinico in esame. nella scheda clinica opportunamente redatta sono stati registrati per ogni paziente alcuni parametri antropometrici quali statura, peso, misura della circonferenza polpaccio (pd), margine superiore della rotula (r1), circonferenza alla radice delle cosce (cd), diametro bitrocanterico (db), circonferenza della vita (v), circonferenza dell’ombelico (o), circonferenza del seno all’altezza dei capezzoli (cir-se), lunghezza margine superiore clavicola-capezzolo (sd). ciascuno dei pazienti è stato sottoposto al cosiddetto “metodo dcd”, consistente nell’associazione tra new-electrosculpture e dieta dissociata specifica. ogni soggetto è stato sottoposto a un minimo di 20 sedute di trattamento new-electrosculpture, della durata di 30 minuti l’una, seguendo un protocollo ben preciso: per le prime due settimane le sedute erano eseguite tre volte data di nascita s data archivio figlist psicolabile mestruazioni pillola sindrome premestruale difficoltà digestive alimentazione digestione acqua vbco fumo fegato ca caffèepatite colite gastrite altezza circolazione taglia sedentarietà sport lavoro diete passate pressione sistolica pressione diastolica note dolce salato peso max raggiunto peso forma interventi chirurgici hps cort allergie intolleranze terapia in corso id cd r1 pd bd db o v sd cir-se peso visita peso alla 5 peso alla 15 peso alla 20 peso alla 31 cd 20 r1 20 pd 20 bd 20 db 20 o 20 v 20 sd 20 cir-se 20 cd 31 r1 31 pd 31 bd 31 db 31 o 31 v 31 sd 31 cir-se 31 paz. diabetico paz. ipotiroideo dieta dissociata dieta vegetariana dieta per diabetici figura 1 fac-simile cartella clinica dei pazienti pd = misurazione della circonferenza polpaccio; r1 = margine superiore della rotula; cd = circonferenza alla radice delle cosce; db = diametro bitrocanterico; v = circonferenza della vita; o = circonferenza dell’ombelico; cir-se = circonferenza seno all’altezza dei capezzoli; sd = lunghezza margine superiore clavicola-capezzolo clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 36 valutazione clinico-epidemiologica in pazienti in sovrappeso e obesi dopo applicazione del “metodo dcd” a settimana, e dalla terza settimana in poi con frequenza bisettimanale. inoltre, nel corso della prima seduta sono state consegnate a ogni paziente delle “regole alimentari” da seguire nell’arco dei trattamenti. si è proceduto in questo modo: se il corporea: «dottoressa questa è la nostra ultima spiaggia» era la frase ricorrente all’inizio della visita): le regole alimentari associate all’incremento dell’attività fisica sono state molto vantaggiose per sbloccare questo stato d’animo. ai pazienti diabetici con ipertrigliceridemie è stato consigliato uno schema dietetico a parte, lievemente ipocalorico (di circa 1.625,3 kcal), che prevede la riduzione dei carboidrati in presenza di generosi quantitativi di fibra alimentare. raggiunto l’obiettivo del calo ponderale fissato alla prima visita, si è consigliato il “mantenimento” cioè l’introduzione graduale di tutti gli alimenti, e soprattutto la graduale associazione di carboidrati + proteine + lipidi al consumo dei pasti principali. analisi dei dati nei 200 pazienti arruolati in questo studio sono stati presi in esame i seguenti parametri: il calo ponderale correlato al sesso; y il calo ponderale correlato a patologie; y la perdita di peso medio; y il blocco o l’aumento del peso correlato ai y farmaci assunti durante il trattamento; l’influenza dell’assunzione del contracy cettivo orale; l’ influenza del metodo dcd nei pazienti y con ipertensione arteriosa. esaminiamo di seguito i diversi parametri. calo ponderale correlato al sesso dalla nostra casistica è possibile evidenziare come un calo ponderale più rapido in seguito al metodo dcd (a parità di dieta impartita ed età dei soggetti presi in esame), interessi più il sesso maschile e meno quello femminile (tabelle iii e iv ). questa variazione è da rapportarsi quasi sicuramente a una diversificazione ormonale. tenendo presente le schede delle donne in età fertile trattate, si è notato che quasi tutte (eccetto quelle che assumevano contraccettivi orali) avevano dei picchi di aumento del loro peso (fino a 1,5-2 kg!) in periodo periovulatorio e preciclo (ossia qualche giorno prima di avere le mestruazioni). calo ponderale correlato a patologie i pazienti diabetici e/o con tireopatie e/o con sindrome metabolica hanno un calo tabella iii risultati ottenuti per i pazienti di sesso femminile sesso fascia di età (anni) n. pazienti che hanno raggiunto il peso forma dopo 20 sedute dopo 30 sedute n. % n. % f 28-40 50 38 76 48 96 40-65 100 50 50 95 95 sesso fascia di età (anni) n. pazienti che hanno raggiunto il peso forma dopo 20 sedute dopo 30 sedute n. % n. % m 25-40 20 17 85 19 95 40-65 30 20 67 29 97 tabella iv risultati ottenuti per i pazienti di sesso maschile paziente visitato aveva tutte le analisi ematochimiche richieste nei limiti, si consigliava di seguire un regime alimentare “dissociato” (cadn) frazionando, cioè, il pasto nell’arco della giornata: prevalentemente carboidrati a mezzogiorno e proteine la sera a cena con generosi quantitativi di fibra alimentare. si tratta di un regime normocalorico perché pari a circa 1.794,9 kcal (di cui 23% di proteine, 25% di lipidi e 52% di carboidrati delle calorie totali), che rispetta a ogni pasto la biochimica della digestione (separare gli alimenti, e quindi separare carboidrati e proteine in base alle leggi biochimiche del nostro organismo), basandosi sulla concezione che gli alimenti che formano la nostra nutrizione devono essere considerati sia dal punto di vista quali-quantitativo che della loro combinazione. ai pazienti è stato raccomandato di bere almeno 2 litri al giorno di acqua oligo-minerale, avente un minimo di residuo fisso (e quindi più diuretica). si è inoltre cercato di modificare il loro stile di vita comportamentale per favorire un progressivo recupero delle abitudini all’attività fisica, consigliando loro di camminare a passo veloce almeno mezz’ora al giorno e di fare le scale a piedi. l’85% dei nostri pazienti viveva una situazione di “stallo, disagio psico-fisico” (con deflessioni dell’umore, e quindi scarsa autostima e distorsione della propria immagine clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 37 m. conese, g. massiah, p. o. de cavi ponderale più lento rispetto ai pazienti nelle medesime condizioni di età e di sesso in assenza di patologie. perdita di peso medio sesso femminile delle 150 pazienti trattate (75% del totale) il 33% tra 28 e 40 anni risultano avere un calo ponderale maggiore a parità di sedute e tempo di inizio della dieta rispetto al 66% delle pazienti di fascia di età tra 40 e 65 anni, giustificabile per i medesimi motivi (assunzione maggiore di farmaci nelle pazienti di età superiore a 40 anni e metabolismo basale più lento rispetto alle pazienti più giovani) (tabella iii). sesso maschile nei 50 pazienti trattati (25% dei pazienti totali) il 40% tra 25 e 40 anni risultano avere perdita di peso molto più marcata rispetto al restante 60% dei pazienti di fascia di età tra 40 e 65 anni; questo molto probabilmente è dipeso dal fatto che nel corso dei trattamenti i pazienti di “prima fascia” (25-40 anni) hanno assunto meno farmaci rispetto agli altri e/o semplicemente perché i più giovani hanno un metabolismo più attivo (tabella iv ). blocco o aumento del peso con l’assunzione di farmaci durante il trattamento (antinfiammatori, antistaminici e antibiotici) spesso nel corso dei trattamenti i pazienti, per svariati motivi (febbre, influenza, tonsilliti, allergie, ecc.), hanno dovuto far ricorso a uno o più farmaci appartenenti alle seguenti categorie: fans (soprattutto nimesulide), antibiotici, antistaminici di ultima generazione e anti-leucotrienici. in particolare, in seguito a interventi di chirurgia orale con anestesia e pratiche chirurgiche varie (usurazione di impianti e/o gengivectomie e/o estrazioni, ecc.) successivamente associate ad antinfiammatori e/o antibiotici, abbiamo assistito ad aumenti di peso da 1,5-2 kg protratti oltre la fine dell’assunzione dei farmaci stessi. complessivamente abbiamo stimato in 10-15 giorni l’influenza negativa sul calo ponderale di queste pratiche endo-orali. abbiamo notato quanto queste classi di farmaci svolgano un’azione fortemente “sodio-ritentiva”. alla seduta successiva alla loro assunzione, infatti, si è evinto un netto aumento del peso (anche di 2 kg), che regrediva poi lentamente alla sospensione degli stessi farmaci. anche gli inalanti tipo spray o puff al cortisone usati per pazienti asmatici hanno inciso negativamente sulla perdita momentanea di peso. influenza dell’assunzione del contraccettivo orale nello studio le 23 pazienti che assumevano contraccettivi orali non hanno avuto una differenza di diminuzione di peso statisticamente significativa rispetto alle pazienti della stessa fascia di età che non li assumevano. possiamo pertanto concludere che, per quanto concerne i soggetti inclusi nel nostro studio, l’uso di contraccettivi orali non ha avuto influenza nel decorso del calo ponderale. influenza del metodo dcd nei pazienti con ipertensione arteriosa il 55% dei pazienti arruolati seguivano già una loro terapia anti-ipertensiva. abbiamo monitorato in questi pazienti i valori pressori e abbiamo assistito a una normalizzazione fino a una netta discesa dei valori pressori sia di massima che di minima. in accordo con il curante o con lo specialista cardiologo, si è proceduto, in alcuni di loro, a una riduzione della posologia farmacologica fino addirittura a una sospensione della terapia anti-ipertensiva stessa, con la raccomandazione ai pazienti di monitoraggio costante della loro pressione arteriosa. risultati dalle misurazioni effettuate al termine del ciclo delle 20 sedute di new-electrosculpture confrontate con le misurazioni antropometriche prese alla prima visita del paziente, si è evinto che la riduzione degli stessi parametri è stata più che soddisfacente. nei casi che si sono sottoposti a più sedute (fino a 30), i risultati ottenuti sono stati sicuramente più evidenti, in quanto accompagnati da un’ulteriore riduzione dei volumi e delle taglie. obiettivamente questi dati sono andati di pari passo con un’attenuazione marcata della patologia cellulitica (pefs) con corrispondente miglioramento del microcircolo, del tono e dell’elasticità cutanei e conseguentemente un importante rimodellamento dell’armonia delle forme. è clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 38 valutazione clinico-epidemiologica in pazienti in sovrappeso e obesi dopo applicazione del “metodo dcd” doveroso sottolineare che nella gran parte dei pazienti (92%) non si sono evidenziati effetti collaterali durante tutto il ciclo. solo nell’8% dei pazienti con fototipo ii e iii, con capelli chiari, occhi chiari, cute chiara e pallida (di cui 3% con anamnesi positiva per diatesi allergica) sono state evidenziate manifestazioni orticariodi-simili (dermografismo) nelle zone fasciate, per altro regredite dopo alcune ore dalla seduta di new-electrosculpture. in questi casi è bastato ridurre l’intensità dell’apparecchio nella seduta successiva (portandolo a 3,5 ma) perché il problema non si ripresentasse. il regime dietetico instaurato nel metodo dcd è stato facilmente accettato dai nostri pazienti al fine di raggiungere alcuni scopi fondamentali: recupero del peso ideale sia nel paziente y obeso sia nel paziente obeso affetto da diabete; dieta equilibrata in tutti i casi seguiti con y rispetto dei quantitativi glicidici, proteici e lipidici ripartiti nell’arco della giornata; mantenimento (con controlli bimensili y a distanza di un anno e mezzo dal peso ideale raggiunto) dei risultati con minime escursioni di peso. infatti il recupero del peso perso risulta essere l’aspetto più deludente e controverso di quasi tutte le diete, per non parlare poi del cosiddetto meccanismo a elastico, altamente devastante sia dal punto di vista psicologico che fisico per questa tipologia di pazienti; migliore qualità di vita del paziente traty tato col metodo dcd. in particolare il miglioramento della qualità della vita tiene conto dei seguenti aspetti: attenuazione o scomparsa del gonfiore y e senso di pesantezza degli arti inferiori lamentata nel 90% dei pazienti alla prima visita; miglioramento della fase digestiva: riduy zione o scomparsa dell’acidità, eruttazione, meteorismo, sonnolenza e senso di peso post-prandiale segnalato in prima visita dal 98% dei pazienti; alvo regolarizzato (più dell’80% dei nostri y pazienti soffrivano di stitichezza); riduzione dei valori pressori negli ipertesi y fino alla normalizzazione dei valori stessi. nel 5% dei pazienti riduzione della terapia farmacologica e nel 2% eliminazione della terapia anti-ipertensiva stessa che loro assumevano (decisione terapeutica presa in accordo col curante, con ovvio monitoraggio costante dei valori pressori); gratificazione e profonda soddisfazione y psicologica in quasi tutti i pazienti trattati; ciò ha portato a modificare radicalmente il loro stile di vita, incrementando l’attività fisica e modificando le loro iniziali scorrette abitudini alimentari. conclusioni l’obesità e il sovrappeso rappresentano un problema che nei paesi occidentali assume proporzioni sempre più importanti. un’alimentazione corretta previene l’obesità, che figura 2 risultati in due pazienti (a e b) partecipanti allo studio a b clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 39 m. conese, g. massiah, p. o. de cavi è dimostrato essere uno dei maggiori fattori di rischio delle patologie cardiovascolari, per cui un corretto calo ponderale fino al raggiungimento di un normo-peso non può che ridurre significativamente tale fattore di rischio. il metodo new-electrosculpture, associato alla dieta cadn, può rappresentare un ulteriore aiuto per i pazienti obesi o sovrappeso che si rivolgono ai centri di dimagrimento. il presente studio, che, rispetto alle altre analisi fino ad ora condotte per stimare l’efficacia di questa metodica, ha coinvolto un numero più elevato di pazienti (200 vs 10 e 30 degli studi precedenti), ha consentito di evidenziare l’utilità dell’uso di questa metodica nel trattamento dei pazienti obesi. questa valutazione clinico-epidemiologica, pertanto, consente di suggerire che l’uso del metodo dcd (new-electrosculpture + regole alimentari specifiche) può rappresentare una valida alternativa in tutti quei casi in cui il paziente rifiuti un intervento più cruento (deviazione bilio-pancreatica, bendaggio gastrico, liposuzione, ecc.). infatti i risultati ottenuti nella sede dcd di bari, riguardanti sia il calo ponderale che il mantenimento successivo del risultato raggiunto nel tempo, l’assenza dell’uso dei farmaci e la notevole compliance dei pazienti, evidenziano l’efficacia del metodo dcd e il suo successo protratto nel tempo. questo trial clinico, dunque, può aprire la strada ad altri e più ampi studi che permettano di confermare ulteriormente la validità della metodica. bibliografia world health organization. obesity: preventing and managing the global epidemic. report of a 1. who consultation. who technical report series 894. geneva: world 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elettrocardiografico evidenziava bradicardia siperché descriviamo questo caso il caso clinico descritto consente di sottolineare la problematica, abbastanza attuale, della prevenzione dei maggiori eventi cardiovascolari nei soggetti diabetici, in quanto le complicanze macrovascolari rappresentano la causa principale di morbilità e mortalità nei pazienti con diabete di tipo 2. nonostante l ’aspirina riduca il rischio di eventi in un ampio spettro di pazienti con patologie vascolari in prevenzione secondaria e in alcuni sottogruppi in prevenzione primaria, una parte rilevante di popolazioni a rischio non risulta protetta nel modo atteso corresponding author dott.ssa maria rosaria rizzo mariarosaria.rizzo@unina2.it caso clinico abstract diabetes is characterised by development of specific microvascular complications and by a high incidence of accelerated atherosclerosis. several authors demonstrated that post-prandial hyperglycaemia is certainly an independent risk factor of vascular complications in type 2 diabetes. the endothelial dysfunction, the oxidative stress, the post-prandial hyperglycaemia and the haemostatic and thrombotic parameters alterations are the principal causes for the cardiovascular risk increase in diabetic patient. for this reason many studies on anti-platelet therapy have been made in order to reduce thrombotic complication of diabetes mellitus. however, data suggest that the clinical efficacy of low-dose aspirin in patients with diabetes is substantially lower than in individuals without diabetes. indeed, several evidences support the hypothesis that diabetes might represent a case of “aspirin resistance”. keywords: diabetes mellitus, aspirin resistance, mean amplitude of glycemic excursion (mage) a case of aspirin-resistance probably related to glycemic excursion cmi 2010; 4(3): 131-135 1 vi divisione di medicina interna. dipartimento di gerontologia, geriatria e malattie del metabolismo seconda univesità degli studi di napoli ilaria fava 1, raffaele marfella 1, giuseppe paolisso 1, maria rosaria rizzo 1 un caso di aspirino-resistenza probabilmente legata alla variabilità glicemica ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4)132 un caso di aspirino-resistenza probabilmente legata alla variabilità glicemica l’acido acetilsalicilico (asa), per il suo effetto sia sulla funzionalità piastrinica sia sull’infiammazione, potrebbe rappresentare il candidato ideale per la prevenzione dei maggiori eventi cardiovascolari nei soggetti diabetici [4-6]. tuttavia, un gran numero di pazienti non risulta protetto nel modo atteso [7]. la ridotta efficacia farmacologica dell’ acido acetilsalicilico, definita sia come ridotta capacità di prevenire l’attivazione piastrinica in test in vitro, sia come ridotta capacità di ridurre la sintesi di txa , ha portato a ipotizzare l’esistenza, in alcuni pazienti, di un fenomeno di aspirino-resistenza [8-11]. la resistenza all’aspirina consiste in un’inadeguata inibizione dell’aggregazione piastrinica con conseguente esposizione a un maggior rischio di eventi aterotrombotici. i soggetti resistenti all’aspirina, infatti, hanno un rischio maggiore di avere un attacco cardiaco, un ictus o di morire per una pre-esistente condizione cardiaca. ciononostante, l’american diabetes association (ada) raccomanda l’uso della terapia con aspirina a basse dosi (81-325 mg/die) in prevenzione primaria in pazienti diabetici ad alto rischio di eventi cardiovascolari, anche in assenza di manifestazioni cliniche evidenti, se sono presenti i seguenti fattori di rischio [12]: familiarità per cardiopatia ischemica; y fumo di sigaretta; y ipertensione arteriosa; y peso corporeo > 120% del peso ideale; y microo macroalbuminuria; y colesterolo totale > 200 mg/dl; y colesterolo ldl >100 mg/dl; y colesterolo hdl < 55 mg/dl nelle donne y e < 45 mg/dl negli uomini; trigliceridi > 200 mg/dl. y l’american heart association (aha) raccomanda in prevenzione primaria una dose di acido acetilsalicilico pari a 75-160 mg/ die; inoltre, l’uso dell’aspirina è raccomandato nei diabetici anche nella prevenzione secondaria [12]. l’asa esplica i suoi effetti antitrombotici attraverso l’inibizione irreversibile dell’enzima cox-1 per acetilazione a livello del gruppo idrossilico appartenente a un residuo di serina in posizione 529. in più, le piastrine, essendo anucleate, non sono in grado di sintetizzare nuovo enzima; risulta quindi bloccata la sintesi di txa2 per tutta la vita della piastrina (7-10 giorni); questo dalla paziente. le alterazioni elettrocardiografiche presenti erano compatibili con ischemia miocardica. si praticava, pertanto, un prelievo venoso sia per il dosaggio ematochimico di routine, sia per il dosaggio dei marker di necrosi miocardica, che risultavano negativi. inoltre, la paziente veniva sottoposta a monitoraggio glicemico giornaliero (a digiuno, 2 ore dopo pranzo e 2 ore dopo cena) con riflettometro, oltre che a monitoraggio glicemico continuo con holter glicemico (glucoday®) per 48 ore per la valutazione delle variazioni glicemiche giornaliere. l’analisi delle variazioni glicemiche giornaliere con glucoday® evidenziava una importante ampiezza media dell’escursione glicemica (mean amplitude of glycemic excursion; mage), espressione di elevati picchi glicemici durante l’arco della giornata. continuavano, quindi, le indagini strumentali. l’ecocardiografia evidenziava una lieve ipocinesia in sede inferiore e l’ecg da sforzo risultava positivo per ischemia indotta da stress. a questo punto, la paziente veniva sottoposta a tomoscintigrafia miocardica dopo stimolo e a riposo che risultava negativa per ischemia. dopo aver praticato consulenza cardiologica, che concordava con la diagnosi di probabile ischemia in atto, la paziente veniva trasferita presso l’unità di emodinamica per essere sottoposta all’esame coronarografico. quest’ultimo mostrava un’ostruzione del tronco comune superiore del 75%; pertanto la paziente veniva sottoposta a intervento di bypass aorto-coronarico. discussione l’iperglicemia, l’iperinsulinemia, i prodotti di glicosilazione avanzata (advanced glycosilation endproducts; ages) e l’aumentato stress ossidativo, fattori patogenetici del diabete, colpiscono l’albero vascolare, provocando disfunzione a livello delle cellule endoteliali, delle piastrine e dei leucociti circolanti [1,2]. pertanto, nei pazienti diabetici con complicanze microe macrovascolari, che si manifestano a loro volta come cardiopatia ischemica precoce, eventi cerebrovascolari e/o arteriopatia periferica, il rischio cardiovascolare (cv ) viene attribuito sia all’aterosclerosi sia alla trombosi, determinanti occlusioni vascolari sia per la rottura delle placche arteriosclerotiche sia per l’attivazione piastrinica [3]. di conseguenza, una così complessa patogenesi della malattia vascolare nel diabetico rende difficile la gestione clinica delle complicanze del diabete. c ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 133 i. fava, r. marfella, g. paolisso, m. r. rizzo picchi post-prandiali e non dà informazioni sulla frequenza delle ipoglicemie né sui picchi iperglicemici post-prandiali e notturni. ecco perché è sempre più diffusa la convinzione che “fare la media” delle glicemie non basti e occorra conoscere anche i valori glicemici nei vari momenti della giornata e soprattutto l’entità delle variazioni glicemiche in relazione ai pasti. infatti, ai fini di una migliore comprensione della patogenesi delle complicanze diabetiche, recentemente è stata sottolineata l’importanza dello studio dell’ampiezza delle fluttuazioni attorno alla glicemia media [2325]. in pratica, le continue oscillazioni dei valori della glicemia con presenza di picchi iperglicemici verso valori molto più bassi della media (nadir) sarebbero ancor più responsabili rispetto a valori di glicemia persistentemente elevata. numerosi sono gli studi che hanno dimostrato che l’iperglicemia cronica persistente e le oscillazioni acute della glicemia sono responsabili delle complicanze diabetiche per l’eccessiva glicosilazione proteica e per l’attivazione dello stress ossidativo, con aumentata attività dei polioli, aumentata produzione dei prodotti avanzati di glicosilazione, attivazione della proteina chinasi c e del fattore nucleare nf-kb (nuclear factor kappa b). inoltre, il concetto che i picchi iperglicemici post-prandiali siano dannosi si riferisce non solo ai picchi post-prandiali ma anche alle escursioni inter-prandiali, cioè all’entità delle fluttuazioni acute delle glicemie rispetto al valore medio (mage) [2325]. di conseguenza, uno degli obiettivi più importanti della terapia del diabete dovrebbe essere quello di prevenire l’eccessiva variabilità dei livelli plasmatici del glucosio. in base a tali premesse, in un nostro recente studio abbiamo indagato la possibile relazione tra aspirino-resistenza e le variazioni glicemiche giornaliere. i risultati ottenuti hanno suggerito che le variazioni glicemiche giornaliere possono essere un determinante significativo del ridotto effetto dell’aspirina, anche se sono comunque necessari ulteriori studi per confermare tali dati [26]. conclusioni il caso clinico descritto sottolinea l’importanza di un miglior approccio terapeutico, nei pazienti diabetici, al fine di ottimizzare la prevenzione dei maggiori eventi cardiovascolari, essendo le complicanze macrovascoeffetto è responsabile della lunga durata dell’azione terapeutica dell’aspirina, nonostante la sua emivita plasmatica di soli 20 minuti [13-15]. tuttavia alcuni pazienti diabetici trattati con asa mostrano un’elevata incidenza di eventi trombotici attribuibile, appunto, all’aspirino-resistenza, alla base della quale sono stati proposti vari meccanismi. in effetti, le piastrine di alcuni pazienti mostrano un’iperreattività in vitro e un’incrementata sintesi di txa2 che sembra predire un’aumentata incidenza di infarto miocardico e morte cardiovascolare. il txa2 viene rapidamente idrolizzato non enzimaticamente in txb2, che, a sua volta, viene trasformato in 11-deidro-txb2 ad opera dell’enzima 11-idrossi-trombossano-deidrogenasi, o in 2,3-dinor-tbx2 per beta-ossidazione. la misurazione della concentrazione di txb2 o di 11-deidro-tbx2, nel sangue o nelle urine, permette così di valutare indirettamente la produzione di txa2 [8-11]. ma quali sono i possibili meccanismi alla base dell’inefficacia farmacologica dell’aspirina nei soggetti diabetici? la scarsa compliance o il dosaggio insufficiente, certamente, possono incidere sulla mancata efficacia dell’aspirina [16]. altra possibile spiegazione potrebbe essere la produzione di txa2 attraverso una via di biosintesi insensibile all’aspirina e derivante da monociti-macrofagi sotto stimolo infiammatorio, attraverso la cox-2, enzima inducibile espresso principalmente in queste cellule [17]. ancora, potrebbe essere responsabile dell’aspirino-resistenza, nei soggetti diabetici, lo stato pro-infiammatorio, la presenza di ipertensione arteriosa, e/o gli elevati livelli di colesterolemia [18-20]. un altro possibile meccanismo nei pazienti diabetici potrebbe essere l’esistenza di polimorfismi del gene che codifica per la cox-1, che renderebbero l’enzima resistente all’azione dell’aspirina [21]. recentemente, watala e colleghi hanno riportato una ridotta sensibilità all’aspirina di piastrine di soggetti diabetici, rispetto a soggetti sani, che correlava con il grado di controllo metabolico (livelli di hba1c, emoglobina glicata) [22]. tra le metodiche di controllo della glicemia, il dosaggio dell’emoglobina glicata stima la glicemia media dell’ultimo trimestre; ma, come ogni valore medio, nasconde un limite. infatti, l’emoglobina glicata non descrive le variazioni all’interno di una giornata, non evidenzia i ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4)134 un caso di aspirino-resistenza probabilmente legata alla variabilità glicemica uno degli obiettivi del trattamento nei pazienti con diabete di tipo 2, che limiterebbe molto verosimilmente anche il fenomeno della aspirino-resistenza. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito agli argomenti trattati nel presente articolo. lari la principale causa di morbilità e mortalità nei pazienti con diabete di tipo 2. se la classica terapia con aspirina protegge solo alcuni dei pazienti affetti da diabete mellito, è allora di estrema importanza individuare ulteriori cause di aspirino-resistenza per limitare gli eventi cardiovascolari maggiori. se gli studi dimostrano che l’iperglicemia cronica persistente e le fluttuazioni acute della glicemia contribuiscono all’insorgenza delle complicanze diabetiche, la riduzione della variabilità glicemica dovrebbe essere bibliografia nin jw, jorsal a, ferreira i, schalkwijk cg, prins mh, parving hh et al. higher plasma 1. soluble receptor for advanced glycation endproducts (srage) levels are associated with incident 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famiglia caso clinico 1 una ragazza di 16 anni circa si presenta presso il nostro ambulatorio poiché, da circa 3 giorni, le sono comparse lesioni eritematoedemato-vescicolari al braccio destro (figura 1). la ragazza, in stato generale di buona salute, aiuta la famiglia nei mesi estivi in lavanderia: pensando al vapore caldo del ferro da stiro come causa delle lesioni, la ragazza ha evitato di stirare per due giorni, ma l’estendersi rapido e il cociore intenso l’hanno infine portata alla mia osservazione. clinicamente l’eruzione è caratterizzata dalla comparsa iniziale di eritema ed edema, seguita dall’insorgenza di vescicole, che confluiscono. domande da porre alla paziente ha sofferto da piccola fenomeni di eczema atopico o allergie? assume farmaci potenzialmente sensibilizzanti? quali sostanze usa durante il lavoro in stireria?    abstract although most visits for skin disease are managed by primary care physicians, diagnosis and treatment of skin disease are often difficult for family doctors. in this article, two cases of occupational allergic contact dermatitis in ironers are presented. both patients only developed their dermatitis when they came into contact with formaldehyde. occupational dermatitis are very frequent with important social and economic implications: thus, they represent a therapeutic challenge non only for dermatologists, but also for family doctors. keywords: formaldehyde, allergy, dermatitis, eczema when eczema stay home cmi 2007; 1(4): 181-187 1 medico di famiglia, specialista in dermatologia e venereologia, responsabile nazionale dipartimento dermatologia e venereologia aimef (associazione italiana medici di famiglia) caso clinico corresponding author dott. antonio pugliese email: hpugl@tin.it si è recentemente esposta al sole? ha familiarità per dermatosi? la paziente non si è esposta al sole nei giorni di comparsa delle lesioni, né nei precedenti e nemmeno nei successivi. da piccola ha avuto solo nei primi tre mesi di vita la crosta lattea e non ha mai avuto asma, rinite o allergie cutanee. non assume farmaci di nessun tipo. ha sofferto solo per un breve tempo di colon irritabile, nel periodo in cui, terminata la terza media, ha sostenuto gli esami finali. durante il lavoro in stireria usa diversi appretti, ma riferisce che da diverso tempo sentiva bruciore alle braccia quando le giornate erano più umide e stirava per più di un’ora di seguito. la madre soffre da molti anni di una malattia della pelle che si manifesta sulle braccia e che non è mai guarita; pur essendo stata visitata da diversi medici, non sa precisamente di cosa si tratta. la paura della giovane ragazza è di avere la stessa patologia della madre.   clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 182 quando gli eczemi rimangono in famiglia figura 1 lesioni eritematoedemato-vescicolari della ragazza clinicamente, all’occhio esperto, si tratta di una dermatite irritativa da contatto conseguente a ripetute aggressioni sulla cute da parte di sostanze irritanti come i detersivi o gli appretti, usati durante lo stirare e potenziati dal vapore. tali sostanze esercitano a lungo andare effetti dannosi di varia intensità sul tegumento, danneggiando le difese cutanee rappresentate dal film idrolipidico e dallo strato corneo. queste lesioni, se non trattate, vanno incontro a rottura lasciando erosioni essudanti, le quali si ricoprono di croste siero-ematiche. chiedo se mi fa visitare la madre per eventuale correlazione con la sua patologia (vedi caso clinico seguente). caso clinico 2 la madre della ragazza ha 48 anni circa e soffre, dall’età di 25 anni, di lesioni alle braccia a insorgenza stagionale estiva, con notevole attenuazione invernale (figura 2). nei primi anni di insorgenza le lesioni guarivano completamente durante l’inverno, mentre attualmente persistono, anche se meno intensamente, per tutto l’anno. ha sempre goduto di buona salute, ha avuto una sola gravidanza, non fuma, beve un bicchiere di vino ai pasti, tutte le altre funzioni fisiologiche risultano regolari, non ha sintomi perimenopausali, non è mai stata operata tranne che per delle avulsioni dentali. all’esame obiettivo la cute degli avambracci appare eritematosa, squamosa e ispessita (lichenificata) con una disposizione che si interrompe a livello delle pliche degli avambracci. domande da porre alla paziente soffre di allergie a oggetti metallici (orecchini, cinturini di orologio, ecc.)? ha sofferto da piccola fenomeni di eczema atopico o allergie? ha mai fatto esami specifici? che lavoro faceva all ’epoca di insorgenza delle lesioni? quali diagnosi le sono state fatte e che andamento ha la malattia nel tempo? quali terapie ha seguito? la paziente riferisce di non avere mai avuto problemi di allergie a orecchini, che comunque usa solo raramente; al contrario indossare orologi le crea prurito e peggioramento locale delle lesioni. da piccola ha avuto un episodio riferito come orticaria allergica alle fragole. ha fatto esami ematici generali più volte, ma non le è stato mai riscontrato nulla. la donna non ha mai praticato test epicutanei, né sono state dosate le immunoglobuline e. all’epoca del primo episodio lavorava in campagna come operaia e le lesioni comparvero in autunno: le fu diagnosticata una infezione cutanea e fu trattata con antibiotici locali e sistemici e guarì lentamente. dopo qualche anno cambiò lavoro, aprì una lavanderia e le lesioni non le diedero più tregua nei mesi estivi, comparendo in primavera e permanendo fino agli inizi del freddo. diverse sono state le diagnosi: eritema solare, fotodermatite allergica, orticaria ed eczema. questo problema persistette in modo recidivante nei mesi estivi per una decina di anni, successivamente per 7-8 anni la comparsa fu meno intensa, negli ultimi anni si è ripresentato ingravescente. le cure praticate sono quasi sempre state a base di corticosteroidi locali somministrati ininterrottamente per lunghi periodi di tempo. domande da porsi devo prescrivere esami generali? devo richiedere test epicutanei? devo richiedere il prick test? quale terapia devo praticare? quale prevenzione è possibile? alla paziente prescrivo i test epicutanei e il dosaggio delle immunoglobuline e. i valori di ige sono nella norma, mentre i test risultano positivi per formaldeide e sodio-lauril            clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 183 a. pugliese solfato. quindi pongo la diagnosi di dermatite allergica da contatto (dac) con quadro clinico di eczema cronico lichenificato. non faccio eseguire il prick test poiché la superficie volare delle braccia è affetta dalla patologia e quindi i risultati sono inattendibili, inoltre le ige sono normali. prescrivo alla paziente una terapia corticosteroidea locale con clobetasolo propionato in schiuma una volta al dì a cicli di quattro giorni sì e tre no (poiché in schiuma versafoam), inoltre raccomando di usare tutti i giorni il detergente e una crema idratante della linea fulfil® (poiché i prodotti di questa linea sono privi di sodiolaurilsolfato e di conservanti). le consiglio infine di indossare, a fini preventivi, camicie in cotone abbottonate fino al polso e guanti di cotone durante il lavoro. discussione in dermatologia la dermatite allergica da contatto (dac) è definita come un modello di risposta infiammatoria della cute a insulti indotta da fattori esogeni e/o endogeni. lo spettro clinico delle dermatiti da contatto è molto ampio e vario; in fase acuta si manifestano come: eritema; prurito; vescicolazione isolata o raggruppata. in fase cronica si aggiungono: papulo-vescicole; ipercheratosi; lichenificazione. la dermatite da contatto ha un’incidenza del 2% nella popolazione e del 20-30% nell’ambito delle malattie dermatologiche. le due forme più frequenti di dermatite da contatto sono la dermatite da contatto irritante (dic), dovuta all’esposizione a una sostanza irritante, e la reazione immunologica ritardata in risposta a contatti con allergeni, in individui sensibilizzati, cioè la dermatite allergica da contatto (dac). la patogenesi delle dermatiti da contatto comporta spesso l’esposizione simultanea ad allergeni e irritanti fino a quadri legati a sostanze che si comportano sia da allergeni che da irritanti, vedi il caso della formaldeide e della sua soluzione acquosa, la formalina. esse sono dotate di notevole proprietà irritante, ma anche di grande capacità sensibilizzante. la formaldeide è un gas che ha proprietà di polimerizzare rapidamente, perciò viene sfruttata in campo industriale       in molti settori e con molti nomi commerciali (ossimetilene, aldeide formica, metilaldeide, metanal, oxometano, formalina metilene ossido, ecc.). l’attività antisettica è sfruttata in campo ospedaliero, ad esempio come disinfettante per macchinari per la dialisi, per disinfettare cateteri e strumenti medici e odontoiatrici (in genere come alcol denaturato con formaldeide). in agricoltura è contenuta in erbicidi e fungicidi, è usata come conservante nell’industria alimentare, negli adesivi per legno truciolato e scarpe, nell’industria della carta, nell’industria tessile come apprettante, antipiega e impermeabilizzante. inoltre è possibile trovarla nei cosiddetti “liberatori” di formaldeide, noti con svariati nomi commerciali (es. paraformaldeide, imidazolidinilurea, germal ii, bronopol, quaternium 15, preventol d2 e d3, polynoxylinurea, ecc.) in cosmetici, lozioni per permanenti, shampoo coloranti e vari prodotti industriali, come i cosiddetti “purificatori dell’aria”. la “liberazione” di formaldeide avviene per decomposizione da temperatura o da ph. in passato gran parte delle reazioni allergiche ai tessuti era causata dalla formaldeide liberata dagli stessi poiché contenevano resine di finissaggio in grande quantità. attualmente, nei paesi occidentali, in seguito alle modifiche tecnologiche apportate ai processi produttivi dei tessuti, va diminuendo l’incidenza delle risposte positive alla formaldeide, mentre aumenta la percentuale delle reazioni alle resine in quanto tali. queste modifiche sono state attuate anche alla luce dell’evidenza che la formaldeide è cancerogena in seguito a inalazione; si tende pertanto a eliminarla da tutti i cosmetici al fine di ridurre il rischio. figura 2 lesioni della madre clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 184 quando gli eczemi rimangono in famiglia con l’importazione di indumenti provenienti dalla cina, ove non sono controllate le quantità ammissibili di formaldeide (usata come apprettante e impermeabilizzante per rendere i tessuti ingualcibili e irrestringibili), il problema ricompare in modo consistente. non meno importante è il sodiolaurilsolfato (sodium lauryl sulphate o sls), tensioattivo anionico ampiamente usato come surfactante in shampoo, saponi, dentifrici, bagnoschiuma, creme e persino in farmaci. già diversi anni fa il professor gianni proserpio, incaricato di chimica dei prodotti cosmetici presso la facoltà di farmacia dell’università di torino, sottolineava gli aspetti negativi dei tensioattivi noti come alchil solfati del tipo appunto sls e sles (sodium lauryl ether sulfate o sodium laureth sulfate). questa sostanza viene usata su larga scala per il costo contenuto (tanta schiuma a basso costo), pur essendo un irritante per cute, occhi e vie respiratorie; infatti l’eventuale contatto deve essere seguito da risciacquatura completa della superficie della pelle. sulla tossicità umana vi è stata una grande diatriba, sicuramente è un inquinante per gli animali acquatici (inquinamento dei mari) e per ingestione accidentale provoca nausea, vomito e diarrea. l’effetto irritante di questi tensioattivi sembra crescere in modo proporzionale alla loro concentrazione nei prodotti finiti. una commissione del cosmetic ingredient review negli stati uniti ha recentemente stabilito che questi ingredienti non sono di per sé cancerogeni, ma, già a una concentrazione del 2%, possono causare alcune forme di irritazione cutanea e, più tempo rimangono a contatto con la cute, maggiore è l’intensità di tale irritazione. nei comuni detergenti e shampoo economici che si trovano in commercio, la concentrazione arriva nella stragrande maggioranza dei casi al 10%! si è ormai ampiamente riscontrato che sls denatura le proteine, causando danni alla pelle e agli occhi. può reagire anche con molecole azotate dando luogo alla formazione di nitrosamine, composti di comprovata attività cancerogena. sles è un derivato della combinazione di sls con l’ossido di etilene, è meno penetrante, ha un maggior potere schiumogeno, ma anch’esso può reagire con vari composti formando sia nitrosamine cancerogene che l’ancor più pericolosa diossina. nei casi sopra descritti, l’uso di detergenti a base di sodiolaurilsolfato può essere stato un cofattore per l’insorgenza delle lesioni, in quanto è noto che danneggia la funzione barriera della cute, incrementandone la permeabilità e rendendo quindi più facile la penetrazione degli apteni. il meccanismo d’azione è vario: dalla rimozione dei lipidi di superficie e cornei alla estrazione di aminoacidi e proteine cutanee, fino alla denaturazione della cheratina. a tutto ciò bisogna aggiungere che: la reazione allergica è individuale: tra molti soggetti esposti alla stessa noxa, solo una minoranza si sensibilizza, dopo un periodo di incubazione più o meno lungo, e reagisce in maniera abnorme; le sostanze che possono provocare l’eczema sono composti chimici a struttura generalmente semplice (apteni), a basso peso molecolare, con gruppi chimici capaci di contrarre un legame stabile con il vettore presente nei tessuti cutanei (rappresentato da proteine, polipeptidi, collagene, ecc.). da questa unione nasce il complesso allergologicamente attivo; vi è il rischio di allergia ritardata, con informazione e attivazione linfocitaria, fattore citotossico per le cellule bersaglio a cui è adeso l’antigene. tornando alle pazienti, l’uso di detergenti a base di un irritante quale il sodiolaurilsolfato alterava la funzione barriera della cute; ciò, aggiunto allo stirare, a braccia nude, gli indumenti con alta concentrazione apprettanti, le esponeva al contatto con la formaldeide vaporizzata dalla temperatura del ferro da stiro. nella figlia, che è venuta in contatto per un periodo di tempo più limitato con le suddette sostanze, compare un quadro di dermatite irritativa da contatto, mentre nella madre (già sensibilizzata) persiste un quadro di dermatite allergica da contatto. in conclusione la dac è il risultato di una reazione allergica di ipersensibilità cellulomediata (tipo iv secondo gell e coombs). nella sua genesi si distinguono due fasi: la fase di induzione (o di sensibilizzazione) e la fase di elicitazione (o di risposta). la fase di induzione è caratterizzata dal primo contatto con l’allergene, di solito un aptene che viene coniugato con una proteina cutanea, il quale viene processato dalle cellule di langherans e quindi trasportato attraverso i vasi linfatici dove vengono attivati i linfociti che conservano “la memoria” verso lo stesso allergene e sono in grado di reagire con esso. clinicamente non si osservano lesioni. se la pelle viene nuovamente in contatto con l’allergene, i linfociti sono già sensibilizzati    clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 185 a. pugliese e, dopo un periodo di latenza di circa 1-3 settimane, compare la fase di elicitazione (o di risposta); questa è la reazione flogistica vera e propria, in cui all’effetto finale concorrono molte cellule infiammatorie con espressione di molecole di adesione sull’endotelio vascolare, attivazione del microcircolo, migrazione di linfociti e cellule infiammatorie in sede, stimolazione e degranulazione dei mastociti. in 24-48 ore, il quadro clinico si manifesta come dermatite eczematosa. importanti nell’induzione della malattia sono: peso molecolare e conformazione dell’aptene; predisposizione individuale del soggetto; momento immunologico del soggetto. questi fattori giustificano sia il fatto che, nonostante l’ubiquità di alcuni allergeni, solo alcuni soggetti si sensibilizzano, sia perché, nonostante si venga a contatto con particolari sostanze in modo cronico, ci si può sensibilizzare anche solo dopo anni. diagnosi la classificazione e la terminologia relativa agli eczemi non è ancora standardizzata (nella letteratura inglese e americana si usa indifferentemente il termine di “dermatite” come sinonimo). per impostare correttamente l’iter diagnostico un valido ausilio è rappresentato dall’algoritmo riportato in calce all’articolo, che fornisce uno strumento per orientarsi clinicamente nella valutazione degli eczemi. come abbiamo visto, le due forme principali sono la dermatite da contatto irritante (dic), dovuta alla esposizione a una sostanza irritante, e la dermatite allergica da contatto (dac), ossia la reazione immunologica ritardata in risposta a contatti con allergeni in individui sensibilizzati. le altre forme, come l’eczema nummulare (con chiazze discoidi diffuse), la dermatite atopica, la disidrosi e l’eczema da stasi, sono accomunate dalla clinica nella fase acuta. le lesioni possono essere scatenate da un contatto esogeno o endogeno che può essere professionale o extra-professionale. per identificare il tipo di lesione è molto importante conoscere la storia clinica del paziente, pertanto bisogna condurre sempre una buona anamnesi mirata. stabilita la natura del contatto, si valuta la avvenuta sensibilizzazione e l’aptene responsabile con i patch test o test epicutanei.    una volta individuata la sostanza, disponendo di un buon indice merceologico, si possono valutare gli altri aspetti legati all’interazione ospite-aptene. un esempio è quello dei farmaci foto-sensibilizzanti. quando il paziente assume un farmaco foto-sensibile (es. un fluorochinolone) per bocca, esso si diffonde nei vari tessuti, tra cui quello cutaneo; se il soggetto si espone al sole, si genera l’eczema; se si applica un fans per via topica e poi si espone al sole, il farmaco si fotoattiva, trasformandosi in aptene, in grado di provocare l’eczema. fu park nel 1943 a descrivere, per i sulfamidici, il meccanismo della dermatite da contatto sistemica: in un soggetto sensibilizzato, il mantenimento, la recidiva o la diffusione della dac può avvenire in seguito all’introduzione per via sistemica dell’allergene o di sostanze chimiche affini. ciò determina per esempio il rischio, in soggetti che applicano topicamente per anni penicillina in polvere e poi praticano una fiala intramuscolo di penicillina, di andare incontro a shock anafilattico. si intuisce quindi quanto ampio sia il problema e come una banale sensibilizzazione possa cambiare la vita di un individuo. la formaldeide è molto diffusa e, come abbiamo visto, è presente in tessuti, alimenti, resine formoliche, antisettici e antiossidanti, fino agli alimenti quali formaggi o farine. un soggetto con dac da formaldeide può avere ulteriori eruzioni eczematose dopo ingestione o inalazione di prodotti che la contengono; stesso discorso vale per il sodiolaurilsolfato che ancora oggi è usato come emulsionante in alcune preparazioni farmaceutiche; per questo motivo può avvenire il caso di pazienti che non guariscono mai dall’eczema in quanto, senza rendersene conto, vengono in contatto con l’agente sensibilizzante per via sistemica. i quadri clinici più frequentemente associati sono la dermatite da contatto lichenoide e la polimorfo-like; più rara è la dermatite da contatto a proteine di alimenti. questa breve descrizione non ha certamente la pretesa di essere esaustiva, ma sicuramente può essere utile al medico di famiglia e ai non specialisti del settore per sensibilizzare a questo importante argomento, che volendo può essere approfondito su testi specifici. terapia e prevenzione il consiglio terapeutico iniziale, prima di qualsiasi altro provvedimento, è la prevenzione, quindi la cessazione del contatto con clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 186 quando gli eczemi rimangono in famiglia l’allergene responsabile. ogni trattamento sintomatico è destinato al fallimento se non comprende questa misura fondamentale: l’allontanamento dell’allergene. per impostare correttamente la prevenzione bisogna ricordarsi che non ci sono modalità preventive che garantiscono un controllo definitivo degli eczemi, data la grande diffusione degli allergeni e il loro modo subdolo di essere occultati. avendo presente i fattori di suscettibilità individuali quali atopia, resistenza della cute, pregresse sensibilizzazioni, tipo di esposizione e altre patologie concomitanti, si attuano prevenzione e terapia contemporaneamente, per evitare la mancata guarigione delle lesioni. in sintesi, l’approccio al paziente deve prevedere, oltre ai trattamenti farmacologici, l’eliminazione, per quanto possibile, degli eventuali fattori scatenanti. la prevenzione ha lo scopo di migliorare la qualità di vita del paziente, di ridurre l’estensione, la gravità delle lesioni cutanee e il prurito. la gestione del paziente deve tener conto dell’età, della gravità delle lesioni, dell’impatto della malattia sulla vita di relazione e sociale, e quindi deve essere ovviamente personalizzata. l’eliminazione dei fattori scatenanti passa attraverso: la riduzione al minimo possibile dell’esposizione ad agenti irritanti quali detergenti e creme cosmetiche o indumenti a rischio; la riduzione al minimo possibile dell’esposizione allergenica: apteni da contatto, acari della polvere, derivati epidermici animali, alimenti;   la razionalizzazione dell’ambiente di vita o di lavoro e in generale degli ambienti di permanenza. in ogni caso di eczema clinicamente evidente, l’identificazione della sostanza responsabile è importante, ma la terapia iniziale ha lo scopo di sopprimere la risposta immunitaria cutanea e/o sistemica. in genere gli steroidi topici potenti (es. clobetasolo propionato), somministrati per un periodo breve di una settimana, sono sufficienti a risolvere gran parte delle dermatiti in atto; ovviamente la scelta dello steroide avviene tenendo conto della sua potenza, della sede di applicazione, della estensione della lesione e dell’età del paziente. le medicazioni devono essere poi continuate con topici non steroidei inerti (contenenti pochi allergeni) per proteggere la cute per almeno 30 giorni, tempo del ricambio cellulare dell’epidermide. in caso di necessità, si può ripetere l’applicazione dello steroide ricordandosi che cicli di 3-4 giorni la settimana spengono lentamente l’eczema, senza effetti collaterali. in altri termini, vale il criterio di procedere con medicazioni steroidee e non steroidee alternate. i corticosteroidi orali sono molto utili per ottenere una risoluzione momentanea, ma il loro uso continuo deve essere evitato per i loro effetti collaterali. gli antistaminici sono usati, soprattutto quelli di seconda e terza generazione, poiché hanno una attività inibitoria sulle molecole di adesione (cam) dei linfociti. infatti le cam, durante la flogosi allergica, potenziano le interazioni tra le cellule facilitando l’incontro dell’antigene con il linfocita specifico, il posizionamento dei linfociti specifici solo in siti di reazione e il passaggio attraverso gli endoteli dei linfociti (traffico linfocitario).  gli errori nel trattamento di questi casi l’esecuzione dei test epicutanei non è essenziale per la diagnosi clinica di eczema, quindi con una buona anamnesi mirata già si poteva attuare la prevenzione nella madre e di conseguenza si poteva evitare l ’insorgenza delle manifestazioni nella figlia la terapia doveva necessariamente comprendere l ’uso di prodotti non steroidei per mantenere un buono stato della epidermide anche in condizioni di assenza delle manifestazioni l’esecuzione dei test epicutanei è essenziale per identificare l ’allergene e quindi andava fatta nei periodi di quiescenza della malattia la mancata tempestività nel rilievo di questi due apteni ubiquitari, irritanti, sensibilizzanti e soprattutto per la formaldeide che si libera durante la stiratura per il suo potenziale cancerogeno sulla cute e sulle vie respiratorie     clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 187 a. pugliese algoritmo di orientamento diagnostico dermatite da contatto irritante dermatite allergica da contatto eczema nummulare dermatite atopica pompholyx (o disidrosi) eczema asteatosico (craquelè) eczema da stasi venosa ipercheratosi palmo-plantare         eczemi modalità del contatto professionale ed extraprofessionale esogeno diretto aeromediato endogeno orale intramuscolare o endovenoso respiratorio chirurgico-ricostruttivo       forme di dermatite da contatto dermatite da contatto irritativa o allergica fotodermatite dermatite da contatto aerotrasmessa (airborn contact dermatitis) dermatite da contatto sistemica dermatite da contatto ad espressione non eczematosa (lichenoide, polimorfo-like, ecc) orticaria da contatto protein contact dermatitis        bibliografia 1. white ir, de groot ac. cosmetics and skin care products. in: frosch pj, menne t, lepoitevin jp. contact dermatitis. berlin-heidelberg-new york: springer, 2006; pagg. 493-506 2. bruynzeel dp, diepgen tl, andersen ke for the european environmental and contact dermatitis research group. monitoring the european standard series in 10 centres,19962000. contact dermatitis 2005; 53: 146-9 3. schäfer t, bohler e, ruhdorfer s et al. epidemiology of contact allergy in adults. allergy 2001; 56 : 192-6 4. thomas ks. randomised controlled trial of short bursts of a potent topical steroid versus prolonged use of a mild preparation for children with mild or moderate atopic eczema. bmj 2002; 324: 1-7 5. anonymous. formaldehyde. council on scientific affairs. jama 1989; 261: 1183-7 6. programme on chemical safety and the commission of the european communities © ipcs, cec 2001 clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 43 mario scartozzi 1, eva galizia 2, maristella bianconi 1, rossana berardi 1, stefano cascinu 1 caso clinico un uomo di 63 anni, senza particolari patologie collaterali, eseguì a marzo 2008 una gastroduodenoscopia. da alcuni mesi lamentava anoressia e disfagia ingravescente e, inoltre, aveva assistito a un vistoso calo ponderale, circa 8 kg rispetto al peso abituale. l’esame endoscopico evidenziò un processo espansivo, quasi completamente stenosante e non valicabile neanche dallo strumento sottile, a carico dell’esofago distale, esteso fino al cardias. il processo venne biopsiato e l’esame istologico depose per adenocarcinoma ulcerato. una tac torace-addome (figura 1) confermò la presenza di un diffuso ispessimento parietale dell’esofago distale, per circa 5 cm al di sopra del diaframma, del cardias e della piccola curvatura gastrica. erano presenti, inoltre, tumefazioni linfonodali del diametro massimo di 1,6 cm circa a ruolo di docetaxel nel trattamento del carcinoma gastrico avanzato abstract with a median survival of 9-11 months, advanced gastric cancer represents one of the most aggressive neoplastic disease in western countries. radical surgery is considered the cornerstone for any curative procedure, however only a relatively small proportion of resected cases can be considered cured after surgery. in the last few years research data suggested that advanced gastric cancer can be classified into 2 distinct clinical categories: locally advanced (nonmetastatic, non resectable) and metastatic. while the therapeutic goal in the metastatic setting is palliation and survival improvement, in locally advanced cases one of the main goals of the treatment should be response with the aim to make resectable what was unresectable. the introduction of docetaxel for the treatment of advanced gastric cancer represented then a crucial step forward for the cure of this disease with an improvement in both survival and response rate. in this article we reviewed past and ongoing trials using docetaxel in gastric cancer with the aim to delineate a possible effective strategy for the treatment of this tumour keywords: gastric carcinoma, stomach, docetaxel, dcf schedule role of docetaxel in the treatment of advanced gastric carcinoma cmi 2009; 3(1): 43-52 1 clinica di oncologia medica, azienda ospedaliera ospedali riuniti, università politecnica delle marche, ancona 2 u.o. oncologia medica, fabriano corresponding author stefano cascinu clinica di oncologia medica, azienda ospedaliera ospedali riuniti, università politecnica delle marche, ancona telefono: 071.59.64.171 fax: 071.59.64.192 cascinu@yahoo.com perché descriviamo questo caso? per meglio comprendere come trattare il carcinoma gastrico, quali variazioni di combinazione e di dosi di farmaci chemioterapici siano possibili e quali possano essere le loro conseguenze in termini di tossicità, di percentuali di risposta e di sopravvivenza mediana alla malattia caso clinico livello della piccola curvatura e del tripode celiaco; alcuni linfonodi aumentati di volume vennero rilevati anche nella loggia di barety. l’esofago medio-prossimale appariva diffusamente ectasico. il caso venne inizialmente inviato dal curante a valutazione chirurgica a seguito della quale non si ritenne indicata resezione chirurgica. ad aprile 2008 il paziente iniziò clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 44 ruolo di docetaxel nel trattamento del carcinoma gastrico avanzato trattamento di 391 ng/ml a 20 ng/ml. il trattamento era stato, in generale, ben tollerato. i principali effetti collaterali riferiti dal paziente erano risultati astenia da lieve il paziente venne quindi nuovamente inviato ai colleghi chirurghi che eseguirono una esofagectomia subtotale con gastrectomia parziale per via laparotomica e toracotomia b a b figura 2 tac torace-addome dopo la conclusione della chemioterapia neoadiuvante pertanto un trattamento chemioterapico a scopo neoadiuvante (tabella i) con schema dcf modificato (docetaxel 30 mg/m2 giorni 1-8; cisplatino 60 mg/m2 giorni 1-8; 5-fluorouracile 200 mg/m2 giorni 1-21; q 21). il trattamento venne eseguito per 4 cicli e completato a luglio 2008. durante il corso della terapia il paziente aveva riferito notevole miglioramento soggettivo della disfagia, tanto da poter tornare dopo due cicli all’alimentazione per os e recuperare l’abituale peso corporeo. anche i marcatori tumorali mostravano una sostanziale diminuzione: il cea in particolare era passato dal valore di inizio a moderata (nci ctc grado 1) e sindrome emorroidaria persistente. la tossicità ematologica si era limitata ad anemia lieve (nci ctc grado 1). la tac torace-addome eseguita a luglio 2008 (figura 2) aveva mostrato una risposta parziale di malattia, con persistenza dell’ispessimento parietale a carico dell’esofago distale e del cardias (esteso per circa 4 cm) e riduzione di dimensioni (diametro < 1 cm) delle stazioni linfonodali precedentemente evidenziate. la ristadiazione venne completata da una gastroduodenoscopia, che rilevò una riduzione delle dimensioni della lesione in sede sottocardiale. figura 1 tac torace-addome di stadiazione iniziale clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 45 m. scartozzi, e. galizia, m. bianconi, r. berardi, s. cascinu ca destra, con ricostruzione intratoracica del canale alimentare. l’esame istologico mostrò la giunzione gastroesofagea sostituita da una lesione neoplastica di circa 2,5 cm di diametro, che risultò essere un adenocarcinoma ben differenziato, infiltrante il tessuto fibroadiposo periviscerale e il tessuto muscolare striato. vennero repertate, inoltre, metastasi linfonodali e perilinfonodali in 6 dei 50 linfonodi asportati. i margini di sezione apparivano liberi da malattia, per cui la neoplasia venne classificata come ypt4ypn1m0r0. il tessuto neoplastico presentava un grado di regressione 4 secondo mandard (neoplasia prevalente sulla fibrosi). il decorso post-operatorio era stato regolare, pertanto a ottobre 2008 il paziente era tornato nuovamente alla nostra osservazione per eseguire un trattamento chemioterapico adiuvante (tabella i) con cisplatino e 5-fluorouracile in cicli di 28 giorni (cisplatino 75 mg/m2 giorno 1; 5-fluorouracile 1.000 mg/m2 in infusione continua per 96 ore; q 28), di cui eseguì 2 cicli. l’ulteriore trattamento chemioterapico venne discretamente tollerato, dopo una riduzione delle dosi al secondo ciclo per la comparsa di leucopenia con nci-ctc grado 2. una nuova rivalutazione strumentale eseguita a dicembre 2008 non ha mostrato immagini di recidiva locale o di lesioni secondarie a carico degli organi parenchimatosi, per cui sono iniziati controlli ambulatoriali. il paziente è in buone condizioni cliniche e a sei mesi dall’intervento appare libero da malattia. domande da porsi quale obiettivo ha il trattamento chemioy terapico (palliativo o neoadiuvante)? il profilo di tossicità eventuale è compatiy bile con le caratteristiche del paziente? quale compliance al trattamento ci possiay mo aspettare dal nostro paziente? discussione introduzione nonostante nel corso di questi ultimi decenni l’epidemiologia del cancro gastrico si sia profondamente modificata, soprattutto come conseguenza di un calo significativo di incidenza e mortalità in molti paesi occidentali, esso rappresenta ancora una delle neoplasie più frequenti nei paesi in via di sviluppo. presenta un’incidenza e una mortalità inferiori nella razza caucasica, e negli stati uniti rappresenta la 12° causa di morte per neoplasia, rendendosi responsabile di circa l’1,92% di tutti i decessi legati a neoplasia. inoltre presenta una bassa sopravvivenza, pari a circa il 24% a cinque anni (solo altri quattro tipi di cancro si comportano peggio: il tumore al pancreas, al fegato, all’esofago e al polmone) [1]. nonostante i progressi conseguiti negli ultimi anni nel trattamento delle neoplasie gastriche, la prognosi risulta ancora severa: la durata della sopravvivenza mediana, anche con gli schemi chemioterapici più recenti, si attesta intorno a 9-11 mesi [2,3]. la chirurgia rimane la sola vera chance di guarigione per i pazienti affetti da carcinoma gastrico; tuttavia circa i 2/3 dei pazienti si presentano con una malattia non resecabile alla diagnosi. inoltre, circa il 60% dei pazienti resecati andrà incontro a ricaduta di malattia, locale o a distanza. la chemioterapia sistemica, nei pazienti affetti da carcinoma gastrico avanzato, ha dunque un ruolo importante, anche se con finalità palliativa (controllo dei sintomi, mantenimento della qualità di vita, miglioramento della sopravvivenza). purtroppo, nonostante la disponibilità di numerosi farmaci chemioterapici attivi, da soli o in combinazione, non esiste ancora uno standard terapeutico chiaramente identificabile [4]. alcuni nuovi regimi chemioterapici con farmaci di terza generazione hanno mostrato una buona attività, con percentuali di risposta elevata e miglioramento della sopravvivenza. 5-fluorouracile (5-fu) è da sempre il farmaco di riferimento nel trattamento di questa malattia, ed è parte integrante dei vari schemi chemioterapici maggiormente in uso. le percentuali di risposta con 5-fu come singolo agente, somministrato sia in bolo che in infusione continua (ic), si attestano intorno al 20% [5]. tabella i schemi di terapia utilizzati ic = infusione continua; cddp = cisplatino; 5-fu = 5-fluorouracile schema mg/m2 tempo chemioterapia neoadiuvante: dcf modificato docetaxel 30 giorni 1-8 cisplatino 60 giorni 1-8 5-fluorouracile 200 giorni 1-21 resezione chirurgica chemioterapia adiuvante: cddp/5-fu cisplatino 75 giorno 1 5-fluorouracile 1.000 ic per 96 ore clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 46 ruolo di docetaxel nel trattamento del carcinoma gastrico avanzato l’impiego di altri farmaci in monochemioterapia, come mitomicina, le antracicline (adriamicina, epirubicina), cisplatino o etoposide, ha prodotto risposte obiettive nel 16-30% dei casi. altri farmaci, come i taxani (paclitaxel e docetaxel), irinotecan, uft (per lo più usato in giappone) sembrano offrire migliori risultati al prezzo di una maggiore tossicità. la scelta del trattamento dotato di maggiore efficacia risulta cruciale nei pazienti che si presentano con malattia localmente avanzata non resecabile. per questi casi l’obiettivo del trattamento chemioterapico è portare alla resezione chirurgica quanti più pazienti possibile in modo da ottenere un significativo miglioramento prognostico. i pazienti con carcinoma gastrico avanzato inoperabile che divengono operabili grazie al trattamento chemioterapico presentano infatti una sopravvivenza sovrapponibile, a parità di stadio chirurgico, a quella dei pazienti operabili all’esordio. come conseguenza il tasso di risposta ottenibile col trattamento diventa cruciale molto più che nel setting metastatico dove altri elementi, quali la palliazione dei sintomi e l’incremento di sopravvivenza legati al trattamento acquisiscono grande rilievo. ruolo di docetaxel nel carcinoma gastrico avanzato come agente singolo, docetaxel è stato largamente studiato nel trattamento di pazienti con carcinoma gastrico avanzato, sia in prima che in seconda linea, con tassi di risposta del 26-55% e sopravvivenza mediana tra 9 e 11 mesi, se usato in prima linea. sulla base di tali incoraggianti risultati, sono stati condotti diversi studi di fase ii, allo scopo di testare l’efficacia di docetaxel in combinazione con altri agenti chemioterapici. percentuali di sopravvivenza interessanti sono state raggiunte combinando docetaxel con cisplatino. questi regimi risultano essere ben tollerati, avendo come principale tossicità la neutropenia non complicata. il tasso di risposta in prima linea si aggira attorno al 33-55%, con sopravvivenza mediana di circa 9-10 mesi [6-12] (tabella ii). uno studio italiano in particolare si è proposto di valutare l’efficacia e la tollerabilità della combinazione di epirubicina, cisplatino e docetaxel in pazienti con carcinoma gastrico avanzato; 46 pazienti con carcinoma gastrico metastatico hanno ricevuto epirubicina (50 mg/m2) + docetaxel (60 mg/m2) al giorno 1 e cisplatino (60 mg/m2) al giorno 2, in cicli ogni 3 settimane [11]. tutti i pazienti sono risultati valutabili per la risposta e per la tossicità: sono state osservate 2 risposte complete e 21 risposte parziali, con un tasso di risposta del 50%. il tempo mediano alla progressione (ttp) è stato di 6 mesi e la sopravvivenza mediana (os) di 11,2 mesi. il tipo di tossicità più frequentemente rilevata è stata quella ematologica, con il 46% dei pazienti che ha presentato autore n° pz trattamento risposte (%) os (mesi) kettner et al, 2001 [6] 46 docetaxel + cddp 33 9 ridwelski et al, 2001 [7] 39 docetaxel + cddp 37 10,4 park et al, 2004 [8] 41 docetaxel + cddp (ii linea) 17 5,8 kim et al, 2005 [9] 37 docetaxel + cddp 32,4 235 giorni ajani et al, 2005 [10] 76 79 docetaxel + cddp docetaxel + cddp + 5-fu 26 43 10,5 9,6 di lauro et al, 2005 [11] 46 docetaxel + cddp + epirubicina 50 11,2 park et al, 2005 [12] 47 docetaxel + cddp + 5-fu 40 9,7 thuss-patience et al, 2005 [13] 43 43 docetaxel + 5-fu ic epirubicina + cddp + 5-fu 40 44,4 9,5 9,7 murad et al, 2006 [14] 37 docetaxel + epirubicina + 5-fu 35 10,7 papakostas et al, 2006 [15] 39 docetaxel + 5-fu + lv 26 9 nguyen et al, 2006 [16] 50 (ii linea) 36 (i linea) docetaxel + epirubicina docetaxel + epirubicina 15,5 19,4 5 12 jeung et al, 2006 [17] 66 docetaxel + 5-fu + lv 34,2 9,7 hee et al, 2003 [18] 35 docetaxel + capecitabina 67 17,2 kim et al, 2005 [19] 32 docetaxel + capecitabina 43,8 8,4 chun et al, 2005 [20] 55 docetaxel + capecitabina 40,4 12 hawkins et al, 2003 [21] 42 43 docetaxel + irinotecan docetaxel + 5-fu 37,5 33 9 9,4 tabella ii studi di fase ii di regimi di combinazione comprendenti docetaxel nel carcinoma gastrico avanzato pz = pazienti; os = sopravvivenza mediana; cddp = cisplatino; 5-fu = 5-fluorouracile; ic = infusione continua; lv = leucovorin clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 47 m. scartozzi, e. galizia, m. bianconi, r. berardi, s. cascinu una neutropenia di grado 3-4; inoltre in 4 pazienti sono stati rilevati cinque episodi di neutropenia febbrile. altre tossicità di grado 3 sono state: mucosite (6,5%), vomito (8,7%) e diarrea (2%) [11]. uno studio condotto da murad e colleghi ha valutato l’efficacia e la tollerabilità di un regime di combinazione contenente docetaxel, epirubicina e 5-fu (schema def) nel trattamento di 37 pazienti con carcinoma gastrico localmente avanzato o metastatico. lo schema chemioterapico comprendeva 6 cicli di docetaxel (75 mg/m2 giorno 1), 5-fu (500 mg/m2 giorni 1-3) ed epirubicina (50 mg/m2 giorno 1) in cicli ogni 3 settimane [14]. dei 13 pazienti (35%) che hanno ottenuto una risposta obiettiva, il 3% ha avuto una risposta completa e il 32% una risposta parziale. un vantaggio in termini di clinical benefit (valutazione basata su performance status, guadagno di peso e consumo di analgesici) è stato osservato nel 30% dei pazienti. neutropenia febbrile è stata riportata in 8 pazienti, ma le tossicità di grado 3-4 più frequentemente osservate sono state di tipo non ematologico: alopecia, diarrea e vomito. gli autori hanno concluso che lo schema def fosse efficace nel trattamento di pazienti affetti da carcinoma gastrico avanzato, con un buon profilo di tossicità [14]. papakostas e colleghi hanno valutato la tollerabilità di 6 cicli di un regime contenente docetaxel (75 mg/m2 giorno 1), 5-fu (50 mg/m2 giorni 1-3) e leucovorin (30 mg/ m2 giorni 1-3) (schema tfl) in cicli ogni 3 settimane, nel trattamento di prima linea in pazienti con carcinoma gastrico avanzato [15]. a un’analisi intent-to-treat è stato osservato un tasso di risposte obiettive del 26% (7% risposte complete e 19% parziali) in tutte le sedi metastatiche. con un follow-up mediano di 55 mesi, si è osservata una os di 9 mesi, una ttp di 5,9 mesi e una durata mediana di risposta di 10 mesi, al prezzo di un soddisfacente profilo di tossicità. la neutropenia è stato l’effetto collaterale più frequente (30% dei pazienti); le principali tossicità non ematologiche sono state alopecia (76%), diarrea (30%) e stomatite (30%). i risultati di questo studio di fase ii sembrano suggerire che il tfl sia uno schema dotato di discreta efficacia in pazienti affetti da carcinoma gastrico avanzato, con un profilo di tossicità accettabile [15]. un altro interessante studio di fase ii è stato condotto da nguyen e colleghi [16], che hanno valutato il regime epitax (epirubicina 60 mg/m2 + docetaxel 75 mg/m2, ogni 3 settimane) come trattamento di ii linea (dopo 5-fu e cisplatino) in 50 pazienti con carcinoma gastrico avanzato. lo stesso regime è stato successivamente valutato anche in 36 pazienti come trattamento di i linea. in ii linea, il tasso di risposte obiettive è stato del 15,5% con ttp e os rispettivamente di 2,4 e 5,0 mesi. il trattamento è stato gravato da neutropenia nel 68% dei casi (febbrile nel 40% dei casi); l’utilizzo profilattico di fattori di crescita granulocitari ha ridotto l’incidenza di neutropenia di grado 3-4 al 38,9%. in i linea le risposte obiettive sono state del 19,4%; successivamente 22 pazienti arruolati hanno ricevuto una ii linea e 11 pazienti una iii linea. il ttp e l’os sono state rispettivamente di 4,5 e 12 mesi. il regime epitax ha dunque mostrato una discreta attività nel carcinoma gastrico avanzato, con risposte obiettive che suggeriscono l’assenza di resistenza crociata con la combinazione 5-fu/cisplatino [16]. jeung e colleghi hanno studiato l’efficacia e la tollerabilità di una combinazione contenente docetaxel e 5-fu in infusione continua (ic) associato a leucovorin (flt) in 66 pazienti affetti da carcinoma gastrico avanzato [17]. i pazienti ricevevano docetaxel (75 mg/m2) seguito da leucovorin (20 mg/m2) e 5-f u (1.000 mg/m2 infusione continua giorni 1-3) in cicli ogni 3 settimane. su 57 pazienti valutabili, il tasso di risposte obiettive è stato del 25,7% (34,2% in i linea e 14,2% in pazienti pretrattati). il ttp e la os sono stati rispettivamente 5,2 e 9,7 mesi. l’effetto collaterale di grado 3-4 più frequente è stato la neutropenia, che si è inoltre rivelata la principale causa di interruzione del trattamento. altri tipi di tossicità, ematologica e non, sono stati rari. il regime flt ha dunque mostrato un profilo di efficacia comparabile a quello di altri regimi di seconda generazione e, in considerazione della bassa incidenza di tossicità non ematologica, potrebbe essere un’alternativa ai regimi contenenti cisplatino [17]. risultati incoraggianti (rr 67%; os 17,2 mesi) sono stati ottenuti da hee e colleghi con la combinazione di capecitabina e docetaxel [18]. tuttavia questo studio ha messo in luce una notevole discrepanza tra il ttp (4,8 mesi) e la os (17,2 mesi). le tossicità principali sono state la hand-foot syndrome e la leucopenia [18]. un altro studio di fase ii, sempre comprendente la combinazione docetaxel + capecitabina, ha valutato l’efficacia di tale regime in i linea [19]. 32 pazienti affetti da clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 48 ruolo di docetaxel nel trattamento del carcinoma gastrico avanzato carcinoma gastrico avanzato hanno ricevuto docetaxel (75 mg/m2 giorno 1) e capecitabina (1.000 mg/m2/bid giorni 1-14) in cicli trisettimanali. il tasso di risposte obiettive è stato del 43,8%, il ttp e la os sono stati rispettivamente 5,07 e 8,4 mesi. la neutropenia di grado 3-4 è stata riscontrata nel 9,7% dei pazienti, la hand-foot syndrome di grado 2-3 nel 12,9% dei casi. anche questo studio ha confermato che la combinazione docetaxel + capecitabina è ben tollerata ed efficace in pazienti affetti da carcinoma gastrico avanzato [19]. in un altro studio di fase ii, chun e colleghi hanno valutato il tasso di risposte e la tossicità di docetaxel + capecitabina (regime tx) in 55 pazienti con carcinoma gastrico metastatico. i pazienti hanno ricevuto docetaxel (36 mg/m2 iv giorni 1 e 8) e capecitabina (1.000 mg/m2/bid giorni 1-14) in cicli trisettimanali fino a progressione, ottenendo un interessante 40,4% di risposte obiettive [20]. a un follow-up mediano di 15,9 mesi, il ttp e la os sono risultati rispettivamente 4,5 e 12,0 mesi. la tossicità ematologica è stata moderata e la tossicità non ematologica di grado 3 più frequentemente osservata è stata la stomatite, risultata ben gestibile [20]. basandosi su questi risultati, il regime tx può essere considerato come un’interessante opzione nel trattamento di i linea di pazienti con carcinoma gastrico avanzato. allo scopo di studiare l’effetto dell’aggiunta di docetaxel al regime di riferimento cisplatino + 5-fu (schema cf) sull’outcome dei pazienti con carcinoma gastrico avanzato, è stato disegnato uno studio di fase ii/ iii randomizzato, multicentrico, open-label (studio v325) [22]. nella fase ii dello studio (condotta su 155 pazienti) si è esaminato quale delle due combinazioni contenenti docetaxel (dcf cioè docetaxel + cisplatino + 5-fu; oppure dc, cioè docetaxel + cisplatino) dovesse essere ulteriormente indagata nella fase iii dello studio. un comitato indipendente, basandosi sui dati rappresentati dal tasso di risposte e dalla tollerabilità, ha selezionato lo schema dcf come braccio sperimentale da confrontare con lo schema cf [10]. l’endpoint primario della fase iii dello studio era il ttp, mentre la sopravvivenza globale (os) era uno degli endpoint secondari. 445 pazienti affetti da carcinoma gastrico avanzato sono stati randomizzati a ricevere docetaxel (75 mg/m2 giorno 1) + cisplatino (75 mg/m2 giorno 1) + 5-fu (750 mg/m2/die giorni 1-5) ogni 3 settimane (dcf = 221) o cisplatino (100 mg/m2 giorno 1) + 5-fu (1.000 mg/m2/die giorni 1-5) ogni 4 settimane (cf = 224). il ttp (5,6 vs 3,7 mesi; p = 0,0004): il tasso di risposta (37% vs 25%; p = 0,0106) e la sopravvivenza globale (9,2 vs 8,6 mesi; p = 0,0201) sono risultati significativamente superiori nel braccio dcf rispetto al cf. la sopravvivenza a 2 anni è stata del 18% con il dcf e del 9% con il cf. d’altra parte, tossicità di grado 3-4 sono state più frequenti nel gruppo di pazienti trattato con il regime dcf (69% vs 59%). le maggiori tossicità di grado 3-4 sono state: neutropenia (82% vs 57%), stomatite (21% vs 27%) e diarrea (19% vs 8%). è importante sottolineare comunque che la qualità di vita era mantenuta per un periodo di tempo superiore con il regime dcf rispetto al cf. gli autori hanno concluso che l’aggiunta di docetaxel a cisplatino e a 5-fu migliorava significativamente il ttp, la sopravvivenza e il tasso di risposta in pazienti affetti da carcinoma gastrico avanzato, anche se a prezzo di una maggiore tossicità [22]. sulla base dei risultati dello studio v325 (o tax325), la food and drug administration (fda) ha approvato l’utilizzo di docetaxel, in combinazione con cisplatino e 5-fu, nel trattamento in prima linea di pazienti affetti da carcinoma gastrico (o della giunzione esofago-gastrica) avanzato. vale la pena ricordare che lo schema dcf è stato il primo trattamento a dimostrare un vantaggio sulla sopravvivenza dopo più di un decennio. è interessante notare che, in uno studio di fase ii, park e colleghi (tabella 2) hanno impiegato, in uno schema settimanale, una dose minore di docetaxel (50 mg/m2 invece di 75 mg/m2) in combinazione a 5-fu e cisplatino nel trattamento di prima linea di pazienti con carcinoma gastrico avanzato, osservando un profilo di tollerabilità migliore rispetto al classico schema trisettimanale [12]. all’asco (american society of clinical oncology) del 2006, tebbutt e colleghi hanno presentato uno studio di fase ii in cui 79 pazienti erano randomizzati a ricevere docetaxel (30 mg/m2 giorni 1 e 8), cisplatino (60 mg/m2 giorno 1) e 5-fu (200 mg/m2/die ic) ogni 3 settimane o docetaxel (30 mg/m2 giorni 1 e 8) e capecitabina (1.600 mg/m2/die giorni 1-14) ogni 3 settimane. lo studio ha dimostrato che l’attività del docetaxel era mantenuta a prezzo di una tossicità minore [23]. uno studio di fase ii randomizzato che ha incluso 106 pazienti, ha confrontato l’utilizclinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 49 m. scartozzi, e. galizia, m. bianconi, r. berardi, s. cascinu zo di docetaxel settimanale (30 mg/m2) in associazione a cisplatino e a 5-fu (wtcf) con il classico dcf. le risposte obiettive ottenute dal braccio sperimentale sono state del 49%, a prezzo di una tossicità ematologica e non significativamente inferiore rispetto al dcf classico [24]. roth e colleghi hanno recentemente pubblicato i risultati di uno studio di fase ii randomizzato che ha confrontato il regime ecf con la combinazione docetaxel e cisplatino con o senza l’associazione di 5-f u infusionale (ecf vs tc vs tcf) [25]. il tasso di risposta ottenuto dal tcf (37%) era maggiore rispetto al tc (18%) o all’ecf (25%), anche se le sopravvivenze mediane erano sovrapponibili. questo fatto solleva perplessità sulla scelta del braccio di controllo nello studio v325 [25]. uno studio di fase iii ha confrontato la combinazione docetaxel + carboplatino + 5-fu (dcbf) con il regime ecf e ha confermato il valore di docetaxel nel carcinoma gastrico avanzato [26]. 64 pazienti sono stati randomizzati a ricevere lo schema dcbf (docetaxel 75 mg/m2 giorno 1; carboplatino auc 6 giorno 2 e 5-fu 1.200 mg/m2/die per 3 giorni, ogni 3 settimane) o il regime ecf. tutti i pazienti hanno ricevuto il supporto di fattori di crescita granulocitari a ogni ciclo di trattamento. il regime dcbf è risultato significativamente più attivo, con un maggior tasso di risposte (67% vs 47%), miglior sopravvivenza mediana (12,4 vs 8,7 mesi) e a 2 anni (20% vs 14%) rispetto all’ecf. purtroppo, il basso numero di pazienti arruolati non permette di trarre conclusioni definitive sullo studio [26]. una nuova strategia in corso di studio prevede l’utilizzo di combinazioni contenenti oxaliplatino e docetaxel. il razionale di tale combinazione risiede nel distinto (e complementare) meccanismo d’azione dei 2 farmaci, nell’assenza di resistenza crociata e nel differente profilo di tossicità; inoltre in recenti studi oxaliplatino ha dimostrato un profilo di attività sovrapponibile a quella di cisplatino [27,28]. sono stati sinora condotti diversi studi di fase ii, che hanno fornito risultati incoraggianti: la tabella iii riassume i principali. vale la pena sottolineare la recente esperienza di al-batran e colleghi che con lo schema flot (5-fu, lv, oxaliplatino e docetaxel) hanno ottenuto un interessante tasso di risposta di oltre il 57% con una sopravvivenza libera da progressione e globale rispettivamente di 5,2 e 11,1 mesi [29]. il trattamento è stato ben tollerato, con una neutropenia di grado 3-4 nel 48% dei pazienti, che era febbrile solo nel 3,8% dei casi, con un profilo di tollerabilità nettamente superiore al regime dcf anche per ciò che riguarda le tossicità non ematologiche. è importante sottolineare inoltre che la percentuale di neuropatia sensoriale è stata relativamente bassa (9,3% dei pazienti) indicando che l’aggiunta di docetaxel non aumentava la tossicità neurologica dose-limitante di oxaliplatino. inoltre il regime flot contiene le stesse dosi cumulative di docetaxel contenute nello schema dcf (50 mg/m2 q 14 vs 75 mg/m2 q 21 rispettivamente). sulla base di tali incoraggianti risultati è in corso uno studio di fase iii che confronta il flot con il regime flo in pazienti con carcinoma gastrico localmente avanzato o metastatico. è inoltre in corso un ulteriore studio di fase ii (gate) che analizza 3 diverse combinazioni chemioterapiche come trattamento di i linea in 270 pazienti affetti da carcinoma gastrico avanzato. i regimi testati comprendono l’utilizzo della combinazione oxaliplatino-docetaxel a dosi progressivamente minori. l’endpoint primario dello studio è il tempo a progressione. la combinazione oxaliplatino-docetaxel è inoltre utilizzata in uno studio dell’eortc (ancora in corso di pianificazione) nel set neoadiuvante in pazienti affetti da carcinoma gastrico localmente avanzato: lo studio si autore n° pz trattamento risposte (%) os (mesi) setting al-batran et al, 2008 [29] 54 flot 57,7 11,1 i linea metastatico richards et al, 2006 [30] 71 docetaxel (60 mg/m2) + oxaliplatino (130 mg/m2) q 21 38 9,2 i linea metastatico barone et al, 2006 [31] 20 docetaxel (75 mg/m2) + oxaliplatino (80 mg/m2) q 21 15 6,0 ii linea metastatico dima et al, 2006 [32] 16 docetaxel (50 mg/m2) + folfox6 q 21 44 i linea localmente avanzato o metastatico tabella iii studi di fase ii sull ’utilizzo di combinazioni contenenti oxaliplatino e docetaxel in pazienti affetti da carcinoma gastrico in fase avanzata folfox6 = oxaliplatino 85 mg/m2, 5-fu 400 mg/m2 bolo + 3.000 mg/m2 ic 48 ore, leucovorin 400 mg/m2 giorni 1 e 14 ogni 21 giorni flot = oxaliplatino (85 mg/m2) + lv (200 mg/m2) + 5-fu (2.600 mg/m2 ic 24 ore) + docetaxel (50 mg/m2) q 14 clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 50 ruolo di docetaxel nel trattamento del carcinoma gastrico avanzato propone di indagare l’effetto della combinazione docetaxel + oxaliplatino + 5-fu + lv seguita da oxaliplatino + 5-fu + radioterapia e successiva chirurgia. docetaxel e altri agenti biologici sia l’egfr (epidermal growth factor receptor) che il vegf (vascular endothelial growth factor) risultano iperespressi nel carcinoma gastrico e possono dunque rappresentare potenziali target per trattamenti biologici. purtroppo attualmente esistono soltanto dati preliminari sull’impiego dei farmaci biologici clinicamente già in uso: trastuzumab, cetuximab, bevacizumab, gefitinib, erlotinib e imatinib. solo uno studio di fase ii sta valutando il ruolo di bevacizumab in combinazione con docetaxel (tabella iv ) [33]. conclusioni la chemioterapia in pazienti affetti da carcinoma gastrico avanzato è largamente utilizzata, allo scopo di ottenere risposte obiettive, miglioramento dei sintomi e della qualità di vita e prolungare la sopravvivenza [34]. sulla base dei buoni risultati ottenuti in termini di tassi di risposta, le combinazioni contenenti cisplatino e 5-fu sono state considerate come standard nel trattamento dei pazienti affetti da carcinoma gastrico avanzato [35]. le combinazioni contenenti docetaxel hanno mostrato di possedere un buon profilo di attività e di tollerabilità; particolarmente interessante per la sua efficacia è il regime dcf (docetaxel, cisplatino e 5-fu) che sta iniziando a essere ritenuto un nuovo standard terapeutico nel trattamento dei pazienti con carcinoma gastrico avanzato, avendo mostrato che l’aggiunta di docetaxel a cisplatino e a 5-fu determina un vantaggio in termini di qualità di vita, risposte obiettive, tempo alla progressione e sopravvivenza globale rispetto al solo cisplatino + 5-fu [22,36,37]. questi vantaggi tuttavia sono stati ottenuti al prezzo di una maggiore tossicità, con il verificarsi di neutropenia di grado 3-4 nell’82% dei pazienti (29% dei casi con neutropenia febbrile). il regime dcf dunque dovrebbe essere riservato a pazienti in buone condizioni generali e a quelli in cui è importante ottenere la palliazione dei sintomi e una buona risposta obiettiva. visto l’interessante tasso di risposta ottenuto, il regime dcf dovrebbe avere il suo impiego preferenziale in pazienti con carcinoma gastrico localmente avanzato, allo scopo di migliorare la possibilità di resezione radicale. è importante sottolineare comunque che la somministrazione settimanale o bisettimanale di docetaxel o la sua combinazione con farmaci di nuova generazione (come oxaliplatino) mantiene una buona attività al costo di una tossicità significativamente inferiore rispetto alla formulazione trisettimanale. il caso clinico descritto, pur nella sua peculiarità, dimostra come nella pratica clinica l’uso di un trattamento potenzialmente aggressivo, come il dcf, possa essere modulato nel suo profilo di tossicità variando la modalità di somministrazione, rendendo lo schema più tollerabile rispetto al dcf “classico”. questo mantenendo ovviamente l’efficacia, che è l’obiettivo di ogni trattamento e in particolare nella malattia localmente avanzata non operabile. bibliografia jemal a, siegel r, ward e, hao y, xu j, murray t et al. cancer statistics, 2008. 1. ca cancer j clin 2008; 58: 71-96 nitti d, marchet a, olivieri m, ambrosi a, mencarelli r, farinati f et al. lymphadenectomy 2. in patients with gastric cancer a critical review. suppl tumori 2003; 2: s35-s38 bouvier am, haas o, piard f, roignot p, bonithon-kopp c, faivre j. how many nodes must 3. be examined to accurately stage gastric carcinomas? results from a population based study. cancer 2002; 94: 2862-6 autore n° pz trattamento os (mesi) risposte obiettive (%) enzinger et al, 2006 [33] 20 bevacizumab + docetaxel in fase di studio 27 tabella iv uno studio di fase ii sull ’utilizzo di farmaci biologici in pazienti affetti da carcinoma gastrico in fase avanzata clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 51 m. scartozzi, e. galizia, m. bianconi, r. berardi, s. cascinu wohrer ss, raderer m, hejna m. palliative chemotherapy for advanced gastric cancer. 4. ann oncol 2004; 15: 1585-95 fenogilo-preiser c, carneiro f, correa p. gastric carcinoma. in hamilton s, aaltonin l (a 5. cura di). pathology and genetics. tumors of the digestive system. vol. 1. lyon: lyon press, 2000; pp. 37-52 kettner e, ridwelski k, keilholz u, gallkowski u, gebauer t, kröning h et al. docetaxel and 6. cisplatin combination chemotherapy for advanced gastric cancer: results of two phase ii studies. proc am soc clin oncol 2001; 20: 657a ridwelski k, gebauer t, fahlke j, kröning h, kettner e, meyer f et al. combination 7. chemotherapy with docetaxel and cisplatin for locally 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ruolo di docetaxel nel trattamento del carcinoma gastrico avanzato metastatic oesophago-gastric cancer. j clin oncol 2006 asco annual meeting proceedings part i; 24: abstr 4067 tebbutt n, sourjina t, strickland a, van hazel g, ganju v, gibbs d et al. attax: randomised 24. phase ii study evaluating weekly docetaxel-based chemotherapy combinations in advanced esophago-gastric cancer, final results of an agitg trial. j clin oncol 2007; 25: 4528a roth ad, fazio n, stupp r, falk s, bernhard j, saletti p et al. docetaxel, cisplatin, and 25. fluorouracil; docetaxel and cisplatin; and epirubicin, cisplatin, and fluorouracil as systemic treatment for advanced gastric carcinoma: a randomized phase ii trial of the swiss group for clinical cancer research. j clin oncol 2007; 25: 3217-23 elsaid a, elkerm y. final results of a randomized phase iii trial of docetaxel, carboplatin, and 26. 5fu versus epirubicin, cisplatin and 5fu for locally advanced gastric cancer. j clin oncol 2005; 23: 311s al-batran se, hartmann jt, probst s, schmalenberg h, hollerbach s, hofheinz r et al. phase 27. iii trial in metastatic gastroesophageal adenocarcinoma with fluorouracil, leucovorin plus either oxaliplatin or cisplatin: a study of the arbeitsgemeinschaft internistische onkologie. j clin oncol 2008; 26: 1435-42 cunningham d, starling n, rao s, iveson t, nicolson m, coxon f et al. capecitabine and 28. oxaliplatin for advanced esophagogastric cancer. n engl j med 2008; 358: 36-46 al-batran se, hartmann jt, hofheinz r, homann n, rethwisch v, probst s et al. 29. biweekly fluorouracil, leocovorin, oxaliplatin, and docetaxel (flot) for patients with metastatic adenocarcinoma of the stomach or esophagogastric junction: a phase ii trial of the arbeitsgemeinschaft internistische onkologie. ann oncol 2008; 19: 1882-7 richards da, wilfong l, reznick d, mccollum d, boehm ka, zhan f et al. phase ii 30. multicenter trial of docetaxel+oxaliplatin in stage iv gastroesophageal and/or stomach cancer. proc 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cardiopatia ischemica; inoltre un cugino di 55 anni era affetto da cardiomiopatia dilatativa idiopatica. l’anamnesi fisiologica e patologica remota erano negative. al v mese della sua prima gravidanza, si segnalava l’insorgenza di un episodio di cardiopalmo autorisoltosi. nell’ultimo mese di gravidanza comparivano edemi declivi e tosse stizzosa, soprattutto in clinostatismo. tre giorni dopo il parto, per la persistenza di edemi declivi e comparsa di dispnea e polipnea notturne e un isolato episodio di iperpiressia della durata di 24 ore a risoluzione spontanea, la paziente veniva ricoverata presso l’unità coronarica della città abstract a 32-year-old woman was admitted in congestive heart failure (chf) 3 days after delivery. she had no history of cardiovascular disease and impaired left ventricular ejection fraction (ef 35%). she underwent complete heart catheterisation, selective coronary angiography and right ventricular endomyocardial biopsy (emb).coronary arteries were normal and emb revealed active virus negative myocarditis. serum was positive for anti-heart autoantibodies (aha). thus myocarditis was classified as autoimmune and the patient was treated with immunosuppressive therapy, with clinical and hemodynamic improvement. at 27 months follow-up emb showed healed myocarditis. peripartum cardiomyopathy (ppcm) is a rare disorder in which left ventricular dysfunction and heart failure occur in the peripartum period in previously healthy women. the etiology is still unknown but a sizable proportion of patients may have an underlying organ-specific autoimmune myocarditis. keywords: peripartum cardiomyopathy, heart failure, myocarditis, immunosuppressive therapy a case of peripartum heart failure. cmi 2008; 2(1): 7-15 1 divisione di cardiologia, dipartimento di scienze cardiologiche, toraciche e vascolari, centro “v. gallucci”, università di padova di origine. all’esame obiettivo era presente ritmo di galoppo, soffio sistolico puntale 12/6. l’ecg mostrava tachicardia sinusale e onde t negative diffuse. un ecocardiogramma metteva in evidenza la presenza di un ventricolo sinistro marcatamente dilatato con marcata ipocinesia globale e funzione di pompa severamente depressa (vtd = 116 ml/m2, fe = 36%), insufficienza mitralica di grado moderato-rilevante. la paziente si presentava ipotesa, veniva quindi trattata caso clinico corresponding author dottoressa alida caforio alida.caforio@unipd.it perché descriviamo questo caso? per sensibilizzare al sospetto clinico e a un pronto riconoscimento dei sintomi di una patologia che, seppur rara, si associa ad alte mortalità e morbilità in giovani donne precedentemente sane clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati � un caso di scompenso cardiaco nel peripartum con amine in infusione, diuretici dell’ansa e, dopo stabilizzazione, con bassi dosaggi di ace-inibitore e carvedilolo. tra gli esami ematochimici si segnalava rialzo degli indici di flogosi (ves, pcr) e lieve leucocitosi neutrofila, mentre le indagini sierologiche virali e colturali risultavano negative. veniva dunque posto il sospetto diagnostico di cardiomiopatia dilatativa pel’ecocardiogramma confermava la presenza di un ventricolo sinistro marcatamente dilatato con severa depressione della funzione sistolica (vtd = 114 ml/m2, fe = 35 %), ventricolo destro di normali dimensioni e funzione sistolica ai limiti inferiori, rigurgito mitralico di grado moderato-rilevante. la paziente veniva quindi sottoposta a cateterismo cardiaco con riscontro di coronarie indenni, normali pressioni e resistenze nel circolo polmonare. veniva inoltre eseguita la biopsia endomiocardica (bem), nell’attesa del cui referto la paziente veniva posta in terapia con ace-inibitore, digitale e diuretico dell’ansa. la bem documentava la presenza di miocardite attiva in assenza di genoma virale mediante metodica di reazione a catena della polimerasi (pcr). veniva dunque posta diagnosi di cardiomiopatia dilatativa da miocardite autoimmune peripartum. in collaborazione con i colleghi immunologi, in corso di ricovero, veniva quindi iniziato un regime immunosoppressivo con azatioprina e prednisone (tabella i) in aggiunta alla terapia sintomatica antiscompenso [1]. ai successivi follow-up la paziente presentava un progressivo miglioramento della funzionalità biventricolare in assenza di effetti collaterali della terapia immunosoppressiva (tabella ii) [1]. venivano eseguite delle bem di controllo (3 in tutto), la prima dopo 10 mesi e la seconda dopo 17 mesi dall’inizio della terapia immunosoppressiva, in entrambi i casi con riscontro di miocardite in risoluzione e pcr negativa. dopo la prima bem veniva sospesa la terapia con prednisone ma si continuava, in accordo con l’immunologo, con l’azatioprina, anche alla luce della non ancora completa normalizzazione della funzione sistolica del ventricolo sinistro. la terza bem veniva eseguita dopo 27 mesi con esito di miocardite risolta. il ventricolo sinistro risultava essere di dimensioni e funzione sistolica nei limiti di norma.veniva così sospesa la terapia con azatioprina. la paziente veniva successivamente seguita con periodici controlli clinico-strumentali all’ultimo dei quali, a 5 anni dalla diagnosi, si presentava asintomatica in buon compenso emodinamico. l’ecocardiogramma era nei limiti di norma (fe = 57%). la donna è tuttora in terapia con carvedilolo 6,25 mg ¼ x 2/die ed enalapril 5 mg. alla paziente è stata sconsigliata un’ulteriore gravidanza. prednisone: 1 mg/kg/die per 4 settimane e successivo graduale tapering come di seguito: prednisone 25 mg 2 ½ cpr/die per 20 giorni 2 cpr/die per altri 20 giorni 1 ½ cpr/die per altri 20 giorni 1 cpr/die per altri 20 giorni ½ cpr/die per altri 20 giorni prednisone 5 mg 2 cpr/die per 4 mesi 1 ½ cpr/die per 20 giorni 1 cpr/die per 20 giorni 1 cpr a giorni alterni per 20 giorni ½ cpr a giorni alterni per 20 giorni poi stop azatioprina 50 mg azatioprina 2 mg/kg/die 1 cpr x 3/die per 11 mesi azatioprina 1,6 mg/kg/die 1 cpr x 2/die per 16 mesi tabella i schema della terapia immunosoppressiva nel caso riportato. la durata della terapia sarà poi individualizzata in funzione dei risultati della biopsia endomiocardica di follow-up farmaco effetti collaterali azatioprina stretto monitoraggio della conta dei globluli bianchi. se < 5.000/mm3 si riduce la posologia, se < 4.000/mm3 si sospende temporaneamente monitoraggio della funzionalità epatica   prednisone gli effetti collaterali sono prevalentemente nell’utilizzo a lungo termine (alterazione dei valori glicemici, osteoporosi, ecc) è raccomandata comunque un’adeguata protezione gastrica   tabella ii effetti collaterali della terapia immunosoppressiva ripartum e la paziente veniva trasferita presso la nostra clinica cardiologica per il completamento dell’iter diagnostico. l’esame obiettivo al momento del ricovero rilevava ritmo di galoppo e assenza di segni di stasi venosa centrale e periferica. tra gli esami ematochimici erano negativi gli indici di miocardiocitolisi e vi era una lieve anemia sideropenica; lo screening per autoanticorpi non specifici per antigeni cardiaci risultava negativo, mentre il siero era fortemente positivo per autoanticorpi anti-cuore organo-specifici all’immunofluorescenza indiretta. clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati � a. vinci, a. caforio discussione la cardiomiopatia peripartum (ppcm) è una rara patologia in cui disfunzione ventricolare sinistra e sintomi di scompenso cardiaco sistolico e congestizio si verificano nel periodo peripartum in donne precedentemente sane. l’ incidenza varia da 1/1.300 a 1/15.000 gravidanze e si associa ad alte morbidità e mortalità. criteri diagnostici i criteri diagnostici qui descritti (tabella iii) venivano stilati per la prima volta da demakis e coll. nel 1971 e successivamente ampliati dal peripartum cardiomyopathy: national heart lung and blood institute and office of rare disease workshop nel 2000, associando ai criteri clinici anche la valutazione strumentale ecocardiografica [2]. per quanto riguarda i criteri temporali per la diagnosi, sono stati recentemente descritti casi di ppcm insorti prima dell’ultimo mese di gravidanza e dopo il quinto mese del post partum, aventi le stesse caratteristiche di quelli tradizionali [3-9]. fattori di rischio essi includono: età materna avanzata (superiore ai 30 anni); multiparità; razza africana; gravidanza gemellare;     esordio come scompenso cardiaco secondario a una disfunzione sistolica ventricolare sinistra durante l’ultimo mese di gravidanza o nei primi cinque mesi del post partum assenza di patologie cardiache dimostrabili pre-esistenti alla gravidanza assenza di cause determinabili di cardiomiopatia disfunzione sistolica ventricolare sinistra dimostrata tramite i classici criteri ecocardiografici: frazione di eiezione (fe) inferiore al 45%, oppure valutazione con ecografia m-mode del fractional shortening (fs) inferiore al 30%, oppure entrambe, o diametro telediastolico del ventricolo sinistro superiore a 2,7 cm/m2 1. 2. 3. 4. tabella iii i criteri diagnostici. modificata da [2] obesità; pre-eclampsia; ipertensione cronica; tocolisi prolungata con beta-agonisti. recentemente, però, è stato riportato che la ppcm non riguarda le sole donne multipare: infatti, secondo tale studio, in oltre il 40% dei casi la patologia si verificava in corso della prima gravidanza e nel 50% nel corso della seconda [9]. eziologia l’eziologia rimane incerta, numerosi sono i meccanismi eziopatogenetici proposti (tabella iv ) [10-15]. svariati però risultano gli elementi a supporto di una sottostante miocardite infettiva e/o immunomediata. miocardite la miocardite è una malattia infiammatoria del miocardio che può essere idiopatica, virale e/o autoimmune. la diagnosi di miocardite avviene mediante biopsia endomiocardica (bem), sulla base di criteri istologici, che costituiscono la classificazione di dallas (vedi box pag. 10) [16,17], immunologici, immunoistochimici e mediante analisi molecolare con metodica pcr per la ricerca del genoma virale. la pcr è il gold standard per la diagnosi di eziologia virale. secondo diversi studi [18,19] la positività della pcr per la ricerca del genoma virale e la persistenza del virus potrebbero essere indici prognostici sfavorevoli.     miocardite autoimmunità microchimerismo anomala risposta ai cambiamenti emodinamici che avvengono durante la gravidanza agenti infettivi fattori genetici deficit nutrizionali (selenio, ecc) [12,15] prolattina (forma di 16 kda), ridotta espressione di stat3 e aumento di catepsinad su bem [13-15] 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. tabella iv eziopatogenesi bem = biopsia endomiocardica clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 10 un caso di scompenso cardiaco nel peripartum mediante immunofluorescenza indiretta è inoltre possibile identificare nel siero la presenza di autoanticorpi anti-cuore (aha). si tratta di marcatori di malattia autoimmune cardiaca sia nelle miocarditi che nella cardiomiopatia dilatativa. in un nostro recente studio, questi marcatori sono stati riscontrati nel 56% dei pazienti con miocardite, a sostegno dell’ipotesi immunomediata [18]. sulla base dei risultati della pcr e degli aha, la miocardite viene classificata come [18]: virale: pcr positiva, aha negativi; autoimmune: pcr negativa, aha positivi; virale e immune: pcr positiva, aha positivi; forma idiopatica e/o cellulo-mediata: pcr negativa, aha negativi. i fattori predisponenti e condizionanti l’evoluzione della miocardite sono stati estesamente studiati nel modello sperimentale murino, ma sono poco conosciuti nell’uomo. nel topo i principali determinanti nella miocardite virale sono rappresentati dal grado di patogenicità e cardiotropismo del virus e dal background immunogenetico dell’ospite; fattori addizionali sono gli ormoni sessuali, l’età, il grado di attività fisica e lo stato nutrizionale dell’animale che contrae l’infezione [20-22]. per ciò che riguarda il possibile ruolo svolto dagli ormoni sessuali, si ritiene che il testosterone possa aumentare il numero di recettori virali sulla membrana dei miociti, facilitando i fenomeni di miocitolisi virus-indotta; il periodo del post partum e l’ultimo trimestre di gravidanza costituirebbero fattori di rischio nel sesso femminile, a causa di livelli elevati di progesterone (un ormone di tipo androgenico) [20,21,23]. la bem ha dimostrato la presenza di miocardite in molte pazienti con ppcm, anche se i risultati sono differenti tra i diversi     studi. i motivi alla base di tale discrepanza risiedono essenzialmente nel momento in cui è stata eseguita la bem rispetto all’esordio dei sintomi [10]. autoimmunità nella ppcm elementi in favore dell’ipotesi autoimmune organo-specifica nella ppcm includono la presenza di autoanticorpi anti-cuore circolanti [24,18], la familiarità [25,26], l’infiammazione dell’organo bersaglio (ossia la miocardite) in assenza di genoma virale, nonché la tendenza, già segnalata per altre patologie autoimmuni, a esacerbarsi nel post partum in virtù dell’immunosoppressione fisiologica che ha luogo durante la gravidanza e che viene ad interrompersi con il parto. non è ancora chiaro il ruolo del microchimerismo, cioè delle cellule fetali di origine ematopoietica che vengono in contatto con l’organismo materno durante e dopo la gravidanza [27]. in conclusione la ppcm sembra avere le stigmate di una patologia autoimmune organo specifica cardiaca che si inserisce in un contesto di una alterata risposta immunitaria indotta dalla gravidanza e forse di una predisposizione genetica. agenti infettivi e ppcm le ipotesi a riguardo sono anche qui molteplici. in particolare è stato proposto che l’infezione virale possa essere causa prima della ppcm, oppure che rappresenti un trigger nell’ambito di un meccanismo autoimmune in virtù del mimetismo molecolare (molecular mimicry). inoltre, secondo altri autori, visto che in corso di gravidanza si verificano dei cambiamenti anche in termini di risposta immunomediata, potrebbe trattarsi della riattivazione di un’infezione virale latente. criteri di dallas [16,17] alla prima biopsia si definisce miocardite il reperto di infiltrato infiammatorio miocardico, con associata necrosi e/o alterazioni degenerative dei miociti adiacenti, non tipiche dell ’infarto acuto; in questo caso si parla di miocardite “attiva”, mentre, in assenza di necrosi, si parla di miocardite borderline e, in assenza sia dell ’infiltrato infiammatorio che della necrosi, di biopsia negativa. inoltre nelle biopsie di follow-up nella classificazione di dallas si distinguono i quadri di: miocardite persistente (persistent) miocardite in via di risoluzione o di guarigione (healing) miocardite risolta o guarita (healed)    clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 11 a. vinci, a. caforio un recente studio evidenzia in pazienti con ppcm la presenza del genoma virale alla bem nel 30,7% dei casi, un’alta prevalenza cioè di alterazioni infiammatorie virus-associate. la stessa incidenza e tipologia di virus (pvb-19, hhv6, cmv ) venivano trovate, però, anche nei controlli [28]. sono pertanto necessari ulteriori studi su una casistica più vasta per chiarire il ruolo degli agenti virali nella ppcm. clinica e diagnosi la diagnosi di ppcm dovrebbe essere considerata ogni volta che in una donna, durante il peripartum, vi siano segni di malattia cardiaca non spiegabili. la presentazione clinica più comune prevede segni e sintomi di scompenso cardiaco sia sistolico che congestizio. spesso i primi segni e sintomi di scompenso cardiaco possono essere sottostimati e considerati “parafisiologici” in gravidanza (per es: edemi declivi, dispnea, ecc) (tabella v ) [29]. l’esordio è in genere rapido. l’andamento clinico è estremamente variabile, si va dalla risoluzione completa del quadro clinico allo shock cardiogeno non responsivo alla terapia medica, alla morte. la diagnosi di ppcm è di esclusione. vanno dunque escluse tutte le possibili cause alla base del quadro clinico (tabella vi) [10]. quando c’è il sospetto clinico (tabella v ) in associazione ai criteri diagnostici (tabella iii), l’ecocardiografia è dirimente. ricordiamo che possono esservi anche eventuali alterazioni all’ecg, all’rx torace, al cateterismo cardiaco e può o meno esservi movimento degli indici di miocardiocitolisi [29]. secondo maisch e coll. [30] nelle pazienti con diagnosi di ppcm post partum è indicato eseguire il cateterismo cardiaco e la bem nell’ambito di un normale algoritmo diagnostico, considerando la patologia come una cardiomiopatia dilatativa in corso di definizione eziopatogenetica e allo scopo di impostare dunque una terapia eziologica. secondo altri autori, se la ppcm non dà segni di remissione nell’arco di due settimane, occorre escludere che si tratti di una miocardite [31]. prognosi alcuni autori [2,29] riportano il 25-50% di mortalità nelle ppcm entro tre mesi dal parto. il grado di disfunzione ventricolare sinistra e il suo perdurare costituirebbero degli emodinamico non rispondono in maniera ottimale [31,35,36]. in questi casi la terapia va comunque continuata. qualora questi dati venissero confermati da ulteriori studi, costituirebbero una aggiuntiva evidenza per sconsigliare una successiva gravidanza e per determinare la durata della terapia antiscompenso in queste pazienti. un’ulteriore gravidanza viene in genere sconsigliata poiché il rischio di recidiva rimane alto [2,37-40] anche se la funzione ventricolare sinistra si è normalizzata [32,41]. nelle forme in cui permane la disfunzione, il rischio è che vi sia la progressione della stessa. già nelle forme di cardiomiopatia nota prima della gravidanza [30] il rischio di deterioramento è molto alto sia durante la gravidanza che nel peripartum. infatti, in presenza di fe < 50% con dilataziosegni sintomi terzo tono, soffio eiettivo di nuovo riscontro (da insufficienza mitralica o tricuspidalica) dispnea parossistica notturna edemi declivi tosse notturna crepitii, rantoli dolore toracico turgore giugulare palpitazioni epatomegalia, ascite tabella v domande da porsi e porre alla paziente nel sospetto di una ppcm: accertarsi della presenza/assenza dei segni e sintomi di scompenso elencati [29] infarto miocardico acuto (ima) sepsi pre-eclampsia severa embolia amniotica embolia polmonare      tabella vi diagnosi differenziale [10] indici prognostici negativi per la ppcm. pazienti con severa disfunzione sistolica ventricolare sinistra recuperano e sopravvivono più difficilmente degli altri e sono pazienti che necessitano di un trattamento farmacologico presumibilmente a vita [31]. dato analogo si riscontra in pazienti con miocardite [18]. in più del 50% dei casi, però, la funzione sistolica del ventricolo sinistro migliora entro sei mesi dal parto [32-34]. alcuni autori hanno messo in evidenza che vi sono pazienti in cui la funzione ventricolare sinistra si è normalizzata a riposo, ma che presentano una ridotta riserva contrattile dopo test alla dobutamina. si tratta dunque di cuori che in condizioni di sovraccarico clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 12 un caso di scompenso cardiaco nel peripartum ne ventricolare sinistra si consiglia l’aborto, tranne che nella cardiomiopatia ipertrofica non ostruttiva. nella ppcm una diagnosi precoce e l’inizio della terapia sono essenziali per l’outcome della gravidanza. terapia 1. terapia antiscompenso tradizionale. va iniziata prima possibile. il trattamento dei pazienti con ppcm non è diverso da quello delle altre forme di scompenso cardiaco (ace-inibitori, β-bloccanti, diuretici, digitale) con lo scopo di ridurre il post-carico e il pre-carico aumentando la contrattilità cardiaca. in acuto, a seconda del quadro clinico, potrà esservi necessità di una terapia infusiva a base di agenti inotropi, diuretici, nitrati. in alcuni casi di scadimento emodinamico o di shock cardiogeno refrattari all’utilizzo di terapia infusiva può essere necessario ricorrere all’assistenza meccanica di circolo come ponte sino al recupero spontaneo o al trapianto cardiaco (vedi box pag. 13) [10]. 2. terapia eziologica: terapia immunosoppressiva. vi sono pochi studi riguardanti l’uso di tale terapia nelle ppcm con evidenza alla bem di miocardite. uno di questi è uno studio non randomizzato che ne ha dimostrato l’utilità [42]. in letteratura vi sono risultati controversi sull’efficacia della terapia immunosoppressiva in pazienti con miocardite sia nei bambini sia negli adulti. il motivo può risiedere nella non completa analisi dell’eziopatogenesi sottostante la miocardite. i soggetti che si giovano di tale terapia, infatti, sono quelli che presentano pcr negativa per la ricerca del genoma virale e positività per ricerca di aha, le forme immunomediate appunto [1]; terapia immunomodulante. la terapia con immunoglobuline (ig) endovena ad alte dosi è stata testata in un solo studio randomizzato placebo-controllato in pazienti con cardiomiopatia dilatativa (cmd) di recente insorgenza, senza ottenere un significativo effetto sulla funzione sistolica ventricolare sinistra [43]. un solo studio retrospettivo su ppcm vs controlli storici suggeriva un potenziale ruolo di questa terapia nel migliorare la funzione sistolica ventricolare sinistra, in assenza di effetti sfavorevoli significativi   [44]. in mancanza di studi randomizzati controllati, in ppcm l’impiego di questa terapia rimane da stabilire. in uno studio non randomizzato l’utilizzo dell’agente immunomodulante pentossifillina in aggiunta alla terapia tradizionale avrebbe migliorato lo stato infiammatorio in termini di livelli di tnfα e di outcome della patologia [32,45]; sono però necessari ulteriori studi multicentrici randomizzati per confermare il dato; terapia antivirale. non vi sono dati in letteratura riguardanti tale terapia nella ppcm; terapia con bromocriptina. un recente studio sperimentale riporta come meccanismo eziopatogenetico della ppcm un disordine legato alla prolattina, suggerendo un possibile ruolo terapeutico per la bromocriptina, un inibitore della secrezione della prolattina stessa [13,14]. tuttavia ulteriori studi sono necessari per chiarire la rilevanza nell’uomo del modello sperimentale proposto, anche alla luce della presenza di dati clinici discordanti, secondo i quali in alcuni casi la bromocriptina potrebbe anche causare cardiomiopatia dilatativa [46]. conclusioni nel caso descritto il perdurare della disfunzione biventricolare, pur con un lieve miglioramento delle condizioni di compenso emodinamico, ci ha spinti all’esecuzione del cateterismo cardiaco e della bem. in accordo con quanto descritto in letteratura sulle ipotesi eziopatogenetiche alla base della ppcm, il caso descritto riguarda una miocardite immunomediata, ossia con pcr negativa e positività per aha. la terapia immunosoppressiva ha determinato la risoluzione del quadro clinico-strumentale e una piena guarigione anche dal punto di vista bioptico, in assenza di effetti collaterali. quello che possiamo concludere a proposito delle ipotesi eziopatogenetiche alla base della ppcm è che probabilmente si tratta dunque di un meccanismo di natura immunomediata scatenato da diversi trigger ospite-specifici, inclusa la predisposizione genetica, un’infezione virale latente o de novo, fattori ambientali, ecc. ulteriori studi prospettici, comprensivi delle attuali metodiche immunologiche e virologiche applicate alla bem, sono necessari   clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 13 a. vinci, a. caforio da ricordare durante la gravidanza è controindicato l’uso di ace-inibitori per il rischio di teratogenicità, di insufficienza renale neonatale e morte neonatale; si preferisce quindi sostituirli con idralazina con o senza nitrati e amlodipina; dopo il parto gli ace-inibitori sono un tassello fondamentale della terapia anche in caso di allattamento materno β-bloccanti: non ci sono dati certi a riguardo dell ’uso del carvedilolo in gravidanza, si preferisce comunque l ’uso del metoprololo. il carvedilolo si è dimostrato in grado di aumentare la sopravvivenza nelle donne con cardiomiopatia dilatativa in corso di gravidanza. non si sa ancora se questo valga anche per la ppcm tra i calcio-antagonisti durante la gravidanza è indicata solo amlodipina, gli altri potrebbero avere un effetto inotropo negativo che va dunque evitato digitale può essere usata con tranquillità in gravidanza e dopo il parto anche in caso di allattamento materno, essendo utile sia come agente inotropo sia per il controllo della frequenza cardiaca. vanno però strettamente monitorati i livelli sierici rischio tromboembolico elevato associato a ppcm. va considerata la possibilità di trattare le pazienti con eparine a basso peso molecolare, evitando warfarin in gravidanza. dopo il parto warfarin può essere utilizzato, anche in caso di allattamento materno, soprattutto se fe ≤ 35%      bibliografia 1. frustaci a, chimenti c, calabrese f, pieroni m, thiene g, maseri a. immunosuppressive therapy for active lymphocytic myocarditis: virological and immunologic profile of responders versus nonresponders. circulation 2003: 107; 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2(4): 181-192 1 unità operativa complessa di medicina interna, azienda ospedaliera “ospedale di circolo di busto arsizio”, presidio di tradate (va) corresponding author dott. paolo ghiringhelli pghiringhelli@aobusto.it perché descriviamo questo caso? per ricordare che nella diagnosi delle pneumopatie infettive, specie se complicano quadri cronici come la broncopneumopatia cronica ostruttiva, bisogna porre in diagnosi differenziale anche le micosi e fra queste soprattutto l ’aspergillosi polmonare nelle sue varie espressioni cliniche. solo in lombardia, che possiede circa 10 milioni di abitanti, sono alcune centinaia di casi/anno caso clinico clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 182 diagnosi differenziale delle infezioni da aspergillus nel paziente con broncopneumopatia cronica ostruttiva la radiografia del torace (figura 1 a) e la tc polmonare (figura 2) mostrano la comparsa di addensamenti polmonari sfumati, localizzati prevalentemente nel lobo polmonare inferiore destro, che reagiscono in modo disomogeneo al mezzo di contrasto nell’ambito di un polmone a favo con plurime immagini di degenerazione cistica parenchimali. al momento dell’osservazione il paziente si trovava in terapia cronica inalatoria con fluticasone 500 µg x 2 die e salmeterolo 50 µg x 2 die; inoltre era stato sottoposto a numerosi cicli di steroidi per via sistemisivamente, per altri 7 giorni, gli vengono somministrati amoxicillina/clavulanato 1 g x 3 die. l’esame batterioscopico dell’espettorato mostra la presenza di flora polimicrobica e aspergillus. l’esame citologico evidenzia numerosi polimorfonucleati neutrofili, eritrociti e macrofagi polmonari. la gasanalisi, eseguita in ossigeno a 6 litri al minuto per maschera, rileva: ph = 7,33; y pco y 2 = 38; po y 2 = 59,7; spo y 2 = 88%; hco y 3 = 32 meq; abe = + 8. y all’emocromo viene rilevata neutrofilia (gb = 16.000, n = 88%); inoltre si registrano pcr 34 (< 5) e ves = 74 mmhg alla prima ora. le emocolture risultano negative. è invece positiva la ricerca dell’antigene galattomannano. si presuppone pertanto una possibile infezione micotica polmonare; viene quindi iniziata una terapia con itraconazolo 200 mg iv ogni 12 ore per quattro volte, seguiti da 200 mg per os ogni 12 ore. dopo 7 giorni si assiste alla scomparsa della febbre e a un successivo progressivo miglioramento dell’insufficienza respiratoria e delle condizioni generali. il paziente viene dimesso dopo altri 7 giorni in condizioni cardiorespiratorie e generali accettabili e con un’insufficienza respiratoria parziale corretta da un flusso di ossigeno che, nell’arco di alcune settimane, ritornava ad essere quello di sempre. figura 1 rx del paziente prima (a) e dopo (b) la terapia antibiotica. nella seconda immagine si nota un’evidente progressione dell ’addensamento basale (destra) e comparsa di sfumato addensamento iloperilare (sinistra) ba figura 2 addensamento basale destro in un’area di degenerazione cistica ca anche per alcuni mesi negli ultimi due anni. attualmente assumeva 12,5 mg/die di prednisone. gli viene prescritta levofloxacina 500 mg/ die per 7 giorni, con scarsi risultati. succesclinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 183 p. ghiringhelli il paziente prosegue la terapia con capsule orali di itraconazolo 200 mg x 2 die per altri 3 mesi. il trattamento prolungato viene reputato utile in considerazione della necessità di associare, all’ossigenoterapia, uno steroide per migliorare gli scambi respiratori. a 18 mesi di distanza non si sono verificate evidenti recidive dell’infezione. domande da porsi quali sono i patogeni più comunemeny te in causa nella riacutizzazione della bpco? quali sono i quadri clinici di aspergillosi y polmonare? quali sono i pazienti più suscettibili y all ’infezione da aspergillus? come si effettua una corretta diagnosi? y qual è il razionale della terapia adoty tata? discussione le aspergillosi polmonari sono malattie infettive o allergiche causate da funghi del genere aspergillus. le specie di aspergillus sono tra i più comuni funghi ambientali e si trovano comunemente nei sistemi di aria condizionata o nei termoconvettori, così come nell’ambiente ospedaliero: nei reparti operatori, nelle stanze dei pazienti e sulle apparecchiature ospedaliere. le infezioni invasive sono di solito acquisite per inalazione; i pazienti in generale più suscettibili all’infezione sono quelli affetti da: fibrosi cistica; y bronchite cronica; y asma cronica; y bronchiettasie; y fibrosi polmonari o da pregresse infey zioni; malattie croniche debilitanti o in cui veny gono utilizzati steroidi anche per uso topico inalatorio per lungo periodo di tempo o altri farmaci immunosoppressori, i pazienti onco-ematologici, i diabetici, gli epatopatici cronici, gli uremici, ecc. l’interazione di aspergillus con l’organismo ospite e le conseguenti manifestazioni cliniche sono schematizzate in figure 4 e 5 [1,2]. figura 3 addensamento medio polmonare, aree cistiche e halo sign intorno a un addensamento (freccia) numerosi autori hanno evidenziato la possibile insorgenza di aspergillosi polmonare invasiva nei pazienti con bpco, molti dei quali sottoposti a concomitante trattamento con corticosteroidi, con un’elevata incidenza di mortalità; in questi casi, pertanto, una diagnosi tempestiva risulta cruciale per figura 4 interazione dell ’aspergillus con l ’organismo ospite [1] ai = aspergillosi invasiva abpa = aspergillosi broncopolmonare acuta migliorare l’esito della cura [3,4]. i soggetti più a rischio sono quelli con broncopneumopatia in stadio avanzato (iii o iv secondo la classificazione delle linee guida gold) e in terapia con corticosteroidi. una revisione sistematica condotta da samarakon e coll. [5] ha esaminato i casi di api e bpco riportati in letteratura (60) + 5 casi osservati dagli autori stessi per valutare le indicazioni diagnostiche e clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 184 diagnosi differenziale delle infezioni da aspergillus nel paziente con broncopneumopatia cronica ostruttiva gli outcome clinici. dei 65 casi osservati, 49 pazienti erano in terapia con corticosteroidi sistemici (dose media = 24 mg/ die), 5 con corticosteroidi per via inalatoria e 11 non assumevano terapia con corticosteroidi. la diagnosi di api era definitiva in 43 pazienti e probabile in 22. nel 76% dei pazienti l’analisi della saliva era positiva per aspergillus. 49 pazienti (91%) morirono con api. la somministrazione di corticosteroidi nei pazienti con bpco può essere associata all’indebolimento della risposta immunitaria dell’organismo ospite, ponendolo a rischio di infezioni tra cui quelle da funghi patogeni come appunto aspergillus [6]. la presentazione clinica e radiologica spesso non è specifica, tuttavia il sospetto clinico è fondamentale per un intervento tempestivo e adeguato della patologia. la presenza di bpco è un fattore di rischio per l’insorgenza di concomitanti infezioni e dunque è un rischio aggiuntivo di riospedalizzazione. le infezioni del tratto respiratorio sono una complicanza di riscontro frequente nei pazienti con bpco; nella bpco a uno stadio iniziale il sistema immunitario risulta danneggiato, con una maggiore probabilità di colonizzazione da parte di agenti infettivi; del resto l’infezione è responsabile di un ulteriore danno del sistema immunitario, generando quindi un circolo vizioso che porta a un peggioramento della patologia e a un rischio incrementato di ri-ospedalizzazione [7]. le possibili manifestazioni dell’aspergillosi nel paziente con bpco sono [1]: aspergilloma y . si tratta di un nodulo micotico formato da un’aggrovigliata massa di ife, con essudato fibrinoso e poche cellule infiammatorie, tipicamente incapsulate da tessuto fibroso. l’aspergilloma di solito cresce e può allargarsi gradualmente tra cavità polmonari originariamente causate da bronchiettasie, neoplasie, tbc, altre infezioni croniche polmonari o anche evolvere in un’aspergillosi invasiva. può causare asfissia fatale a causa della massiva emottisi. i segni prognostici sono scarsi e comprendono la scarsa severità della patologia polmonare sottostante, l’incremento nel numero e nelle dimensioni della cavità, l’immunosoppressione, l’aumento delle igg anti-aspergillus, e la presenza di sarcoidosi o hiv; aspergillosi polmonare cronica y . colpisce principalmente soggetti di mezza età con immunosoppressione leggera (bpco, alcolismo, diabete) e ha decorso progressivo. è caratterizzata da tosse cronica, emottisi, perdita di peso e affaticamento. non invade i tessuti o, occasionalmente, con ife non-angioinvasive. dal punto di vista radiologico è molto varia e può presentarsi come cavitaria, fibrosa o necrotizzante; aspergillosi polmonare subacuta invay siva. si tratta di una patologia scarsamente riconosciuta ad elevata mortalità. può insorgere in pazienti con bpco con riacutizzazioni. patologia angioinvasione, necrosi coagulativa, infarto emorragico no angioinvasione, infiammazione poligranulomatosa, necrosi infiammatoria no angioinvasione, ife confinate alla cavità pre-esistente, che non invadono i tessuti ospite neutropenia profonda e prolungata non neutropenico con cgd, in terapia con corticosteroidi, hiv/ aids, non neutropenico con trapianto hsct, gvhd, ricevente di trapianto di organo solido patologia polmonare strutturale pre-esistente, minore deficienza immunologica decorso giorni-settimane settimane-mesi mesi-anni api con angioinvasione api con quadro istologico misto api senza angioinvasione forme croniche invasive forme croniche di aspergillosi polmonare, incluso aspergilloma ife che invadono i tessuti assenza di ife nei tessuti figura 5 i diversi aspetti dell ’aspergillosi. modificata da [2] api = aspergillosi polmonare invasiva cgd = chronic granulomatous disease hsct = hematopoietic stem cell transplantation gvhd = graft versus host disease clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 185 p. ghiringhelli quella nei pazienti con bpco è solo una delle possibili manifestazioni dell’aspergillosi invasiva. essa infatti può presentarsi con forme acute, che sono tipiche dei soggetti gravemente immunodepressi quali i pazienti ematologici, in terapia intensiva, i trapiantati d’organo e quelli affetti da aids; oppure con forme croniche che sono le meno note e il cui decorso è insidioso. queste talora presentano fasi di riacutizzazione portando a danni polmonari progressivi, all’insufficienza respiratoria e alla necessità di ossigenoterapia domiciliare. in questo caso è piuttosto frequente la morte in pochi mesi o anni. l’aspergillus può anche colonizzare i seni paranasali infiltrando le zone limitrofe in modo destruente tale da simulare un’actinomicosi. in assenza di terapia adeguata, l’aspergillosi polmonare invasiva degenera nella maggior parte dei casi in polmonite fatale. nei pazienti neutropenici tale polmonite può essere caratterizzata da infarto emorragico o polmonite progressiva necrotizzante. senza terapia adeguata, l’aspergillosi polmonare invasiva è inoltre complicata da disseminazione nel snc o nelle strutture intratoraciche contigue, inclusi i grossi vasi e il cuore. a causa del suo esito spesso fatale e della rapidità della progressione, la tempestiva somministrazione della terapia antifungina, non appena raggiunta la certezza diagnostica, è fondamentale [9]. la diagnosi di api non è semplice; innanzi tutto è essenziale ricordare che esiste la possibilità di insorgenza di questa infezione nel momento in cui si prendono in considerazione le varie ipotesi diagnostiche differenziali. l’ipotesi diagnostica di aspergillosi invasiva si rafforza in presenza di un processo infettivo polmonare con noduli spesso bilaterali di nuova insorgenza e con: ricerca microscopica e colturale nell’espety torato, nello spazzolato, nel broncoaspirato, nel lavaggio bronco-alveolare (possibili falsi positivi da contaminazione ambientale oltre che saprofitica); ricerca in materiale bioptico in corso di y infezioni invasive (tramite broncoscopia o rinoscopia o biopsie chirurgiche in corso di bonifica dei seni paranasali); la presenza di ife fungine all’esame istoy logico o batterioscopico deve essere confermata all’esame colturale, che permette anche l’identificazione della specie e di escludere falsi positivi; assenza di positività delle emocolture; y ricerca dell’antigene del galattomannano y positiva (possibili falsi positivi da contaminazione e da pregresso trattamento con penicilline) sia nel siero che nel liquido di lavaggio bronco-alveolare [10]; sierologia positiva per y aspergillus (igg e ige); quadro radiografico tipico con addensay menti, nelle forme invasive costituiti da api provata esame istopatologico o citopatologico con ago-aspirato o biopsia ottenuta da ogni lesione polmonare presente da < 3 mesi, mostrando ife compatibili con aspergillus e evidenza di danno tissutale associato, se accompagnato da una delle seguenti: coltura positiva per 1. aspergillus spp. da campione lrt positività per antigene o anticorpo dell’2. a. fumigatus conferma che le ife osservate sono quelle di 3. aspergillus con metodo immunologico, diretto molecolare o colturale api probabile come per api provata ma senza conferma che aspergillus è responsabile (punti 1, 2 e 3 non sono presenti o non sono stati testati) oppure paziente con bpco, di norma trattato con steroidi o di grado severo secondo le linee guida gold (stadio iii o iv) con recente esacerbazione di dispnea, imaging dell’addome suggestivo (radiografia o ct scan; < 3 mesi), e uno dei seguenti: coltura positiva e/o microscopia per y aspergillus da lrt test anticorpi sierici per y a. fumigatus (incluse precipitine): positivi test galattomannano sierico: positivo per 2 volte consecutive (attenzione alle false y positività da precedenti trattamenti con penicilline) api possibile paziente con bpco, di norma trattato con steroidi o di grado severo secondo le linee guida gold (stadio iii o iv) con recente esacerbazione di dispnea, ma senza coltura positiva per aspergillus o microscopia per lrt o sierologia colonizzazione paziente con bpco con coltura per aspergillus positiva da lrt senza esacerbazione di dispnea, broncospasmo o nuovo infiltrato polmonare tabella i aspergillosi polmonare invasiva (api) nel paziente con bpco: definizioni e gradi [8] lrt = lower respiratory tract clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 186 diagnosi differenziale delle infezioni da aspergillus nel paziente con broncopneumopatia cronica ostruttiva n=172 aspergillus positivo nel tratto respiratorio sintomi compatibili con aspergillosi polmonare invasiva imaging toracico anormale presenza di fattori di rischio o bal positivo e esame microscopico positivo aspergillosi polmonare invasiva probabile (n=83) esame istologico? diagnosi clinica confermata? aspergillosi invasiva definita (n=17; 100%) si n=139 n=33 n=16 si n=123 no n=40 si si no n=17 aspergillosi polmonare invasiva probabile (n=66) si no n=0 (0%) colonizzazione da aspergillus (n=9; 100%) colonizzazione da aspergillus (n=89) esame istologico? si no n=9 colonizzazione da aspergillus non confermata (n=80) diagnosi clinica confermata? si no n=0 (0%) no no noduli con il tipico alone di attenuazione a vetro smerigliato (halo sign), mentre nelle forme broncopolmonari allergiche il quadro è quello di un’interstiziopatia polmonare (figura 3); mancato miglioramento clinico con la tey rapia antibiotica ad ampio spettro e invece miglioramento con la terapia antimicotica, in prima battuta a base di itraconazolo o voriconazolo. figura 6 algoritmo diagnostico per aspergillosi invasiva, così come emerso dallo studio di vandevoude e coll. condotto su una coorte di 25.216 pazienti dei quali 172 furono trovati positivi per aspergillus. di questi, 83 casi furono classificati come aspergillosi polmonare invasiva (17 definita, 68 probabile) mentre nei restanti 89 pazienti la presenza di aspergillus era stata considerata come colonizzazione [13] clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 187 p. ghiringhelli l’incidenza dell’aspergillosi invasiva è particolarmente elevata nelle unità di terapia intensiva (icu), dove è stata stimata pari allo 0,3-3,5% e associata a un tasso di mortalità che va dal 77% al 100%. ciò è legato a diversi fattori. in primo luogo nell’unità di terapia intensiva sono raccolti i casi con infezioni di grado più severo e i pazienti sono spesso sottoposti a trattamento con steroidi. inoltre l’aspergillosi spesso non è presa in considerazione; si tratta infatti di una patologia scarsamente evidenziata alle indagini diagnostiche: le colture hanno scarsa sensibilità, gli esami radiologici non sono di aiuto, ma anche nel caso di positività della coltura spesso non si sa quali precauzioni adottare [11]. inoltre vi contribuisce la notevole difficoltà diagnostica (halo sign e air-crescent sign sono spesso assenti, tc scan è in genere poco predittiva e gravata da numerosi fattori confondenti). alla gravità e all’insorgenza dell’infezione nei pazienti non ematologici contribuiscono alcuni fattori di rischio quali bpco, cirrosi, uso di corticosteroidi, diabete, patologie polmonari e malnutrizione [12,13]. nel paziente icu, l’infezione da aspergillus [14]: aumenta la mortalità; y aumenta il rischio di insufficienza renay le acuta; determina una maggiore permanenza in y icu; causa un maggiore utilizzo della ventilay zione meccanica. uno studio mirato a verificare i principali fattori di rischio, le manifestazioni cliniche e gli esiti delle infezioni da aspergillus nei pazienti critici ha permesso di sottolineare l’importanza della bpco quale fattore di rischio. lo studio prospettico multicentrico è stato condotto per un periodo di 9 mesi in 73 unità di terapia intensive (icu), per un totale di 1.756 pazienti. aspergillus spp. è stato rilevato in 36 pazienti: in 14 di essi l’isolamento dell’aspergillus spp. è stato interpretato come colonizzazione, in 20 è stato interpretato come aspergillosi invasiva e in 2 casi non è stato classificato. nelle analisi multivariate il trattamento con steroidi e la bpco sono associate in modo significativo con l’isolamento di aspergillus spp. [15]. nei pazienti in icu con bpco, pertanto, il trattamento con farmaci antifungini deve essere preso in considerazione in presenza di segni clinici di polmonite e in seguito all’isolamento di aspergillus spp. nell’escreato. l’aspergillosi broncopolmonare allergica colpisce prevalentemente i pazienti asmatici in corticoterapia cronica. le forme allergiche non sono meno pericolose delle forme invasive. la temibile aspergillosi broncopolmonare allergica è spesso misconosciuta: se non adeguatamente trattata si aggrava fino a creare fibrosi irreversibile. in questo caso può rendersi necessario, se c’è l’indicazione, il trapianto polmonare. le caratteristiche peculiari di questo tipo di aspergillosi, che devono indirizzare al sospetto diagnostico, sono riportate in tabella ii [16]. nell’aspergilloma la diagnosi è resa ancor più complessa dal fatto che l’escreato di pazienti infetti spesso non contiene aspergillus in coltura, poiché le cavità sono probabilmente escluse dalle vie aeree. un nodulo micotico mobile nell’ambito di una lesione cavitaria è caratteristico all’esame radiologico standard o tc, sebbene tale quadro possa essere causato anche da altri funghi saprofiti. le colture dell’escreato hanno addirittura una minore probabilità di essere positive in pazienti con aspergillosi invasiva polmonare, presumibilmente perché la malattia procede principalmente per invasione vascolare e infarto tissutale. tuttavia, una coltura positiva da escreato o da lavaggio bronchiale consente una forte evidenza presuntiva di aspergillosi invasiva se ottenuta da pazienti con aumentata suscettibilità dovuta a neutropenia, terapia corticosteroidea o aids. la maggior parte delle colture positive per aspergillosi non sono indicative di patologia. tuttavia, per i pazienti ad alto rischio (es. pazienti con segni di neutropenia o malnutrizione, soggetti con tumore ematologico) una coltura positiva è indicativa di infezione invasiva. quando alla positività dell’esame colturale si associano altri fattori di rischio (es. terapia in corso con corticosteroidi, infeostruzioni episodiche delle vie aeree (asma) e dispnea immediata reazione all’antigene dell’aspergillus al test dermatologico anticorpi precipitanti o altri anticorpi igg contro gli antigeni dell’aspergillus concentrazione sierica di ige elevata presenza di ige specifiche contro l’aspergillus, in particolare se il paziente è sintomatico eosinofili nella saliva e nel sangue febbre episodica e infiltrati polmonari: non segmentali e transitori y segmentali con ostruzione bronchiale y altri segni radiografici di infiammazione bronchiale o bronchiectasie centrali: segni circolari od ombre parallele y bande od ombre a forma di guanto dovute a bronchi occupati da muco y fibrosi della porzione superiore y tabella ii caratteristiche dell ’aspergillosi polmonare allergica [16] clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 188 diagnosi differenziale delle infezioni da aspergillus nel paziente con broncopneumopatia cronica ostruttiva zione da hiv, trapianto d’organo, patologie polmonari concomitanti) sono necessarie ulteriori indagini diagnostiche volte a verificare l’effettiva presenza di aspergillosi invasiva. il trattamento di questa patologia risulta infatti sub-ottimale: solo il 38% dei pazienti è ancora vivo dopo la diagnosi [17]. diagnosi le tecniche standard per la determinazone dell’aspergillosi polmonare invasiva sono il lavaggio bronco-alveolare (bal), l’agoaspirato transcutaneo percutaneo o la biopsia toracoscopica assistita [9]. nel corso degli ultimi anni sono stati fatti numerosi progressi per facilitare la diagnosi delle infezioni fungine invasive nei pazienti immunocompromessi con tumore [18]. inoltre nuovi strumenti diagnostici come il test del galattomannano [19] e la tomografia computerizzata ad alta risoluzione [20], validate nei pazienti con patologie ematologiche, sono sempre più diffuse e contribuiscono al riconoscimento della patologia. negli ultimi anni hanno assunto notevole significato alcuni marker potenzialmente in grado di consentire una diagnosi precoce di infezione fungina invasiva, soprattutto nell’ospite immunocompromesso. tra questi si è particolarmente consolidata la ricerca di galattomannano (gm). il gm è un componente polisaccaridico della parete cellulare di aspergillus spp. che viene rilasciato in circolo durante la crescita fungina nei tessuti. la presenza di gm non è costante nel corso dell’infezione, pertanto il saggio deve essere eseguito su campioni seriali. il saggio è specifico per la diagnosi di aspergillosi invasiva a uno stadio precoce (talvolta anteriore alla manifestazione dei sintomi). l’applicazione di eia (enzyme immuno assay) ne ha notevolmente migliorato la sensibilità, tuttavia permane la possibilità di risultati falsamente positivi o negativi. la significatività diagnostica del saggio è strettamente correlata alla positività di campioni seriali del materiale clinico (siero, lavaggio bronco-alveolare, liquido cefalorachidiano), prelevati almeno due volte a settimana, e all’adozione di un corretto valore soglia di interpretazione dei risultati. una riduzione di sensibilità del saggio può essere causata dalla somministrazione di farmaci antifungini (decremento della carica micotica), mentre i falsi positivi possono essere causati da altri funghi con antigeni comuni (penicillium spp., h. capsulatum), infezioni subcliniche, colonizzazione fungina, reazioni crociate con ciclofosfamide, autoanticorpi, assunzione di antibiotici (piperacillina/tazobactam o amoxicillina/acido clavulanico), assunzione di galattomannani con la dieta, età (pazienti pediatrici) e altri fattori. il saggio si è dimostrato di buona utilità nei pazienti oncoematologici (diagnosi anticipata di 1-2 settimane), mentre è risultato meno potenziale per pazienti sottoposti a trapianto d’organo solido. il saggio presenta una sensibilità dell’81% in pazienti sottoposti a trapianto di organo solido e una specificità dell’89% , quando il valore soglia adottato è di 0,5 ng/ml, come raccomandato dal produttore. opzioni terapeutiche: il ruolo di itraconazolo l’itraconazolo è un antimicotico triazolico dotato di ampio spettro d’azione (lieviti e dermatofiti, muffe, funghi dimorfici, dematiacee). rispetto a fluconazolo, itraconazolo è attivo anche su candida krusei e candida glabrata, su aspergillus spp. e altri miceti filamentosi e risulta 100 volte più potente, in vitro, nell’inibire l’enzima target [21]. inoltre il suo spettro d’azione risulta sovrapponibile a quello di amfotericina b e voriconazolo: i dati in vitro dimostrano attività fungistatica versus candida spp., fungicida versus aspergillus spp., compresi a. terreus e a. flavus spesso resistenti ad amfotericina b, mentre i casi di resistenza acquisita da itraconazolo appaiono molto meno frequenti rispetto a quelli osservati con fluconazolo [22,23]. itraconazolo agisce inibendo la sintesi dell’ergosterolo, costituente essenziale della parete cellulare micotica. specificamente, agisce sull’enzima lanosterolo 14-α-demetilasi, il quale converte il lanosterolo, attraverso diversi passaggi, in ergosterolo. questo enzima rimuove l’ingombro sterico e inoltre catalizza la riduzione del ferro, mediata da uno specifico citocromo. itraconazolo interviene inibendo tale citocromo. studi in vitro e in vivo dimostrano che itraconazolo inibisce la crescita di un ampio spettro di funghi patogeni per l’uomo: dermatofiti (trichophyton spp., microsporum spp.; epidermophyton floccosum), lieviti (cryptococcus neoformans, candida spp., compreso c. albicans, c. glabrata e c. krusei, pityrosporum spp.), aspergillus spp., histoplasma clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 189 p. ghiringhelli spp., paracoccidioides brasiliensis, sporothrix schenckii, fonsecaea spp., cladosporium spp., blastomyces dermatitidis, pseudallescheria boydii, penicillium marneffei e vari altri lieviti e funghi [24]. proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche le proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche sono sempre più considerate un fattore chiave nella scelta del farmaco antifungino più appropriato per il trattamento delle infezioni fungine invasive [25]. l’itraconazolo è attualmente disponibile in 3 diverse formulazioni: capsule, soluzione orale e formulazione endovenosa. nei pazienti ad alto rischio, come ad esempio quelli che necessitano di cure intensive, la somministrazione orale può risultare problematica; pertanto può essere ottimale iniziare la terapia con la formulazione iv. nei pazienti icu e in quelli con tumori ematologici, le concentrazioni allo steady state di itraconazolo dopo somministrazione iv sono raggiunte entro 48 ore ed entro 60 ore nei pazienti con hiv. la farmacocinetica dell’itraconazolo è stata studiata in soggetti sani, popolazioni speciali e pazienti trattati con una dose singola e con una dose multipla. in generale itraconazolo risulta ben assorbito. le concentrazioni plasmatiche di picco sono raggiunte entro 2 o 5 ore dopo l’assunzione per via orale. itraconazolo ha una lipofilia elevata e si lega per il 99,8% alle proteine plasmatiche, in particolare all’albumina [26]. nonostante l’elevato legame con le proteine nel plasma, la concentrazione del farmaco nei tessuti è considerevole, con un volume apparente di distribuzione di 11 l/kg: i tessuti quali polmone, rene, fegato, osso, stomaco e muscoli accumulano elevate concentrazioni di itraconazolo. questa particolarità consente di mantenere elevate concentrazioni del farmaco nel sito di infezione [27]. a causa della sua cheratinofilia, itraconazolo tende ad accumularsi nella cute, nei capelli e nelle unghie dove può mantenersi a concentrazioni terapeuticamente utili anche molto dopo la sospensione del trattamento. la formulazione endovenosa e la soluzione orale di itraconazolo impiegano la tecnologia con idrossipropil-β-ciclodestrina per ottenere una soluzione per uso orale o per infusione iv. le formulazioni endovenose sono fondamentali quando è necessario raggiungere alte concentrazioni ematiche in tempi rapidi e consentono più facilmente la somministrazione di dosi di carico e un rapido raggiungimento dello steady state a concentrazioni terapeutiche. dopo la somministrazione iv, la ciclodestrina è rapidamente eliminata per filtrazione glomerulare. con la formulazione iv la concentrazione plasmatica allo steady state può essere raggiunta più rapidamente che con la formulazione orale. un’infusione iv di un’ora di itraconazolo 200 mg due volte al giorno per 2 giorni è sufficiente per ottenere una concentrazione > 500 ng/ml. la somministrazione una volta al giorno allo stesso dosaggio a partire dal 3° giorno consente di mantenere le concentrazioni plasmatiche allo steady state. mentre l’assorbimento ottimale di itraconazolo soluzione orale è ottenuto quando viene somministrato a stomaco vuoto (dopo la somministrazione, itraconazolo è rilevabile in alte concentrazioni nella saliva, rendendo questa formulazione particolarmente appropriata per il trattamento delle infezioni fungine della bocca), la biodisponibilità orale delle capsule è massima quando sono assunte subito dopo un pasto principale. il metabolismo avviene principalmente nel fegato. uno dei principali metaboliti è l’idrossi-itraconazolo, che in vitro mostra un’attività antimicotica paragonabile a quella di itraconazolo. la concentrazione plasmatica dell’idrossi-metabolita è circa il doppio di quella di itraconazolo. l’escrezione avviene principalmente attraverso la bile e le urine [26]. efficacia clinica indicazioni per il trattamento dell’aspergillosi sono fornite dalle linee guida dell’infectious disease society of america (idsa) e sono riassunte in tabella iii [9]. itraconazolo orale in capsule è stato valutato in due studi preliminari nel trattamento di pazienti con aspergillosi invasiva che erano refrattari o intolleranti ad amfotericina b [28,29]. entrambi gli studi concludevano che itraconazolo può rappresentare un’utile alternativa per il trattamento dell’aspergillosi, con livelli di risposta comparabili a quelli di amfotericina b. in seguito è stato eseguito uno studio in aperto, condotto su 31 pazienti, volto a valutare l’efficacia e la sicurezza di itraconazolo iv, seguito da itraconazolo os (200 mg itraconazolo iv bid per i primi due giorni seguiti da clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 190 diagnosi differenziale delle infezioni da aspergillus nel paziente con broncopneumopatia cronica ostruttiva 200 mg/die itraconazolo iv per ulteriori 12 giorni e quindi lo switch alla terapia orale 200 mg bid per le settimane 3-14), in pazienti immunocompromessi (27 soggetti presentavano patologie ematologiche maligne), con diagnosi di aspergillosi polmonare invasiva [30]. l’outcome primario era la risposta complessiva (la somma delle risposte parziali e totali) nella popolazione intention to treat alla fine del trattamento iv e al follow-up. la risposta veniva considerata completa quando tutti i sintomi e le anormalità radiografiche o broncoscopiche presenti al momento dell’arruolamento erano risolti e veniva definita parziale quando vi era un miglioramento maggiore (risposta quasi completa). al termine della terapia iv 10 dei 31 pazienti avevano registrato una risposta al trattamento; al termine del follow-up 8 pazienti avevano registrato una risposta completa, 7 parziale (15/31, 48%). il tempo mediano stimato per ottenere una risposta parziale o completa è stato di 55 giorni. successivamente è stata effettuata un’analisi circostanziata ai pazienti arruolati che in precedenza erano risultati refrattari al trattamento con amfotericina b [31]. dei 21 pazienti, 11 hanno registrato all’ultima valutazione una risposta parziale o completa (52%). nei pazienti neutropenici con malignità ematologiche le infezioni fungine invasive hanno un impatto disastroso sulla prognosi. nonostante il trattamento di profilassi rappresenti una strategia non selettiva, il suo impatto favorevole sull’incidenza delle infezioni e sulla mortalità la rende una terapia di scelta per i pazienti ad alto rischio. una revisione sistematica condotta da glasmacher e coll. [32], che ha preso in esame i vari trial clinici randomizzati (rct) condotti sull’efficacia di amfotericina b, itraconazolo e fluconazolo nella profilassi antifungina nei pazienti neutropenici, ha permesso di dimostrare che itraconazolo è in grado di ridurre le infezioni fungine invasive e la mortalità ad essa connessa nei pazienti neutropenici con malignità ematologiche e nei pazienti dopo trapianto allogenico. itraconazolo è anche indicato, come alternativa a posaconazolo, nel trattamento di profilassi dell’aspergillosi invasiva; risulta inoltre efficace anche nel trattamento dell’aspergilloma e dell’aspergillosi polmonare cronica [33]. le infezioni da aspergillus presentano problematiche molto variegate. sono in grande incremento le pratiche immunosoppressive (es. trapianti, trattamenti con monoclonali, terapie protratte con steroidi e altre condizioni di immunodeficienza) che rendono tale infezione più frequente. in particolare i pazienti ematologici con trapianto allogenico, i trapiantati di fegato, cuore e polmone e quelli con leucemia mieloide presentano rischio elevato. l’aspergillosi polmonare allergica (apa) è una condizione complessa legata all’ipersensibilità all’aspergillus fumigatus. spesso tale patologia viene trattata con la somministrazione di corticosteroidi, in particolare nel trattamento delle esacerbazioni acute, per prevenire le ricadute e mantenere la funzione polmonare. due trial clinici hanno dimostrato che itraconazolo è in grado di ridurre l’infiammazione associata con l’aspergillosi polmonare allergica [34,35]. wark [34] ha anche dimostrato la riduzione dell’infiammazione delle vie respiratorie, evidenziando che i pazienti in trattamento con itraconazolo hanno meno esacerbazioni severe della patologia che richiedano l’uso di prednisone. la terapia con corticosteroidi è quella generalmente più usata nell’apa. due rct hanno dimostrato che itraconazolo 200 mg/bid per 16 settimane è efficace nel migliorare gli esiti della malattia, diminuire l’infiammazione e consentire una diminucondizione terapia di prima linea terapia alternativa aspergillosi polmonare invasiva, aspergillosi tracheobronchiale, aspergillosi cronica polmonare necrotizzante, aspergillosi del snc, infezioni cardiache da aspergillus (endocarditi, pericarditi, miocarditi), osteomieliti da aspergillus, aspergillosi cutanea voriconazolo amfotericina b, amfotericina b complesso lipidico, caspofungina, micafungina posaconazolo, itraconazolo profilassi dell’aspergillosi invasiva posaconazolo itraconazolo, micafungina aspergilloma nessuna terapia o resezione chirurgica itraconazolo o voriconazolo aspergillosi polmonare cronica cavitaria itraconazolo o voriconazolo simile all’aspergillosi polmonare invasiva aspergillosi broncopolmonare allergica itraconazolo voriconazolo o posaconazolo sinusite allergica da aspergillus nessuna o itraconazolo pochi dati sugli altri farmaci tabella iii indicazioni per il trattamento dell ’aspergillosi secondo le linee guida isda [9] clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 191 p. ghiringhelli zione della dose di corticosteroide; inoltre migliora i parametri dell’infiammazione e la concentrazione di ige, migliora la tolleranza all’esercizio e migliora la funzione polmonare [34,35]. simili effetti positivi di itraconazolo sono stati verificati nei pazienti con fibrosi cistica e abpa [36]. conclusioni nel caso descritto il paziente mostrava alcuni dei fattori di rischio per l’infezione da aspergillus, poiché soff riva di bpco grave ed era stato sottoposto a trattamento protratto con corticosteroidi. il trattamento con itraconazolo è stato iniziato prima di avere una certezza diagnostica, anche perché il dosaggio del galattomannano era stato eseguito dopo un trattamento domiciliare con amoxicillina/clavulanato e pertanto non permetteva un attendibile controllo del dosaggio di tale antigene. le caratteristiche radiologiche e l’isolamento del patogeno nell’espettorato hanno rafforzato l’ipotesi di un’infezione aspergillare. l’evidente miglioramento clinico correlato al trattamento ha poi confermato la corretta scelta terapeutica. itraconazolo, che è indicato anche nel trattamento dei pazienti gravemente immunocompromessi come gli ematologici con leucemia acuta, risulta utile anche nel caso di pazienti a rischio ma non immunocompromessi e può pertanto rappresentare una valida alternativa a voriconazolo e amfotericina b. bibliografia www.aspergillus.org.uk1. hope ww, walsh tj, denning dw. the invasive and saprophytic syndromes due to aspergillus 2. spp. medical mycology 2005; 43: s207-s238 bulpa pa, dive am, garrino mg, delos ma, gonzalez mr, evrard pa et al. chronic 3. obstructive pulmonary disease patients with invasive pulmonary aspergillosis: benefits of intensive care? intensive care med 2001; 27: 59-67 rello j, esandi me, mariscal d, gallego m, domingo c, valles j. invasive pulmonary 4. aspergillosis in patients with chronic obstructive pulmonary 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garnacho-montero j, amaya-villar r, ortiz-leyba c, león c, alvarez-lerma f, nolla-salas 15. j et al. isolation of aspergillus spp. from the respiratory tract in critically ill patients: risk factors, clinical presentation and outcome. crit care 2005; 9: r191-9 shah a. fifty years of allergic bronchopulmonary aspergillosis. 16. indian j allergy asthma immunol 2004; 18: 1-11 perfect jr, cox gm, lee jy, kauffman ca, de repentigny l, chapman sw et al for the 17. mycoses study group. the impact of culture isolation of aspergillus species: a hospital-based survey of aspergillosis. clin infect dis 2001; 33: 1824-33 ascioglu s, rex jh, de pauw b. defining opportunistic invasive fungal infections in 18. immunocompromised patients with cancer and hematopoietic stem cell transplants: an international consensus. clin infect dis 2002; 34: 7-14 maertens j, verhaegen j, lagrou k, van eldere j, boogaerts m. screening for circulating 19. galactomannan as a noninvasive diagnostic tool for invasive 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minore entità) e per dispnea per sforzi lievi nell’ultima settimana, non accompagnata da alterazioni dell’alvo o febbre. la paziente era affetta da diabete mellito di tipo 2 e da cardiopatia valvolare mitralica trattata con sostituzione valvolare metallica (protesi di biork-shiley) nel 1982, complicata da fibrillazione atriale cronica e ipertensione polmonare, con pregressa perforazione del lembo d’inserzione (1998). nel 1986 era stata sottoposta a colecistectomia per litiasi. la paziente riferiva allergia alla penicillina (orticaria-angioedema), intolleranza agli ace-inibitori (tosse secca) ed allergia abstract even ascites appears mainly as sign of portal hypertension in patiens with liver cirrhosis, in some case depends on a different lying condition such as right congestive heart failure, peritoneal carcinomatosis or tuberculosis. in these cases, paracentesis represents the key tool for diagnosis. we report a case of cardiac ascites in a 71-years-old woman who developed in four-month an abdominal distension. preliminary exams showed exudative ascites related to portal hypertension, a pelvic mass with caseous apparence, and inflammatory status ad an elevation of ca-125. successive evaluation exluded peritoneal carcinomatosis or tuberculosis, underlyng a tricuspidal regurgitation. the literature on ascites has also been reviewed. keywords: ascites, serum-ascites albumin gradient, ca-125, peritoneal tuberculosis, cardiac ascites a case of inflammatory ascites. cmi 2008; 2(1): 25-36 1 istituto di medicina interna e geriatria, università cattolica del sacro cuore, policlinico universitario a. gemelli, roma ai legumi (orticaria). non assumeva alcolici e non fumava. la paziente era in terapia domiciliare con anticoagulanti orali (warfarin), diuretici dell’ansa (furosemide 500 mg ¼ cpr/die) e antialdosteronici (spironolattone 100 mg 1 cpr/die), glucosidi cardioattivi (digossina 0,125 mg 1 cpr/die), sartani (losartan 12,5 mg 1 cpr x 2/die), sulfaniluree (glimepride 2 mg ½ cpr/die), benzodiazepine (bromazepam 1,5 mg 1 cpr/die). all’ingresso in reparto le condizioni generali erano discrete, la pa 130/85 mmhg, la fc 76/min, la tc 36,8°c. erano presenti caso clinico corresponding author prof. antonio grieco, m.d. dipartimento di medicina interna. policlinico “a. gemelli”. università cattolica del sacro cuore. largo gemelli 8 – 00168 roma tel: +39 (0)6 3015 5451 fax: +39 (0)6 35502775 agrieco@rm.unicatt.it perché descriviamo questo caso? per riportare l ’attenzione del medico internista e di medicina generale su tutte quelle cause di ascite differenti dalla cirrosi epatica clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 26 un caso di ascite infiammatoria marcati edemi declivi colonnari. le giugulari erano turgide e vi era la presenza di reflusso epatogiugulare. all’obiettività toracica la base sx era ipomobile ed ipoespansibile, con contestuale ipofonesi e abolizione del fvt e del murmure. in tale sede vi erano anche dei crepitii inspiratori. sul restante ambito l’obiettività era nei limiti. l’obiettività cardiaca mostrava un’azione aritmica, normofrequente. il primo tono era di timbro metallico come per protesi valvolare, il secondo tono valido con sdoppiamento patologico sul focolaio polmonare; vi era un soffio protosistolico 3/6 meglio ascoltabile sui focolai mitralico e tricuspidalico. l’addome era teso per ascite, con presenza di lesioni da grattamento diffuse sulla cute della regione addominale. la cicatrice ombelicale era normoflessa. alla palpazione si notava assenza di dolorabilità superficiale o profonda. alla percussione vi era un’ipofonesi declive, variabile con il decubito, associata alla presenza del segno del fiotto. all’auscultazione la peristalsi era valida. gli organi ipocondriaci non erano valutabili con precisione per ascite. i risultati degli esami di laboratorio all’ingresso sono riportati nella tabella i. l’ecografia addominale (figure 1, 2 e 3) aveva documentato fegato aumentato di volume a ecostruttura disomogenea e margini finemente irregolari. si rilevavano inoltre: assenza di immagini di patologia a focolaio; vie biliari intraepatiche ed extraepatiche non dilatate; assenza chirurgica della colecisti; assenza di immagini riferibili a patologia litiasica; asse spleno-portale pervio con flusso normodiretto;      valori normali all’ingresso dopo 12 mesi di follow-up emocromo hb 12-16 g/dl 10,8 12,7 mcv 81-99 fl 86,0 93,0 wbc 4,10-9,80 x 103/ui 5,78 9,6 ptl 140-450 x 103/ui 348 273 ematochimici proteine totali 6,5-8,5 g/dl 7,2 6,9 albumina 3,4-4,8 g/dl 4,4 4,02 glicemia 65-110 mg/dl 77 149 creatinina 0,7-1,2 mg/dl 1,3 1,15 azoto ureico 10-23 mg/dl 33 49 sodio 135-145 meq/l 136 136 potassio 3,5-5,0 meq/l 4,7 5,0 calcio 8,5-10,5 meq/l 9,2 8,7 transaminasi go (ast) 7-45 ui/l 18 16 transaminasi gp (alt) 7-45 ui/l 11 14 fosfatasi alcalina 98-279 ui/l 185 64 gamma-glutamil-trasferasi 8-61 ui/l 47 59 bilirubina totale 0,3-1,2 mg/dl 0,5 0,5 bilirubina diretta 0,1-0,3 mg/dl 0,1 0,2 nt-probnp < 150 pg/ml 639 ormonali tsh 0,35-2,80 mui/ml 9,62 3,10 ft3 2,3-4,2 pg/ml 3,0 1,8 ft4 8,5-15,5 pg/ml 13,3 17 farmacologia digossinemia 0,5-2,0 ng/ml 0,90 0,07 emocoagulazione inr 0,8 -1,2 2,70 aptt 20-39” 29,4 indici di flogosi ves 2-30 mm 48 66 proteina c reattiva fino a 3 mg/l 9,5 7,0 microbiologici hbsag negativo igg anti-hcv negativi oncomarkers ca-125 u/ml < 35 ui/l 1.071,5 747,1 ca 19,9, ca 15,3, cea, afp nella norma tabella i esami di laboratorio clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 27 m. biolato, m. l. gabrieli, a. gallo, l. miele, l. riccardi, m. montalto, g. gasbarrini, a. grieco vena porta di calibro normale (10 mm all’ilo) con flusso fasico, epatopeto, di normale velocità media (28 cm/sec); vene sovraepatiche dilatate (fino a 13 mm) con inversione olosistolica del flusso (figura 3); vena cava di calibro aumentato (26 mm nel tratto retroepatico); pancreas visualizzabile a livello di testa e parte del corpo, di normali dimensioni ed ecostruttura;     figura 1 ecografia epatica x = falda di versamento ascitico in sede periepatica figura 2 dilatazione delle vene sovraepatiche. una dilatazione > 6 mm, misurata ad almeno 10 mm dalla confluenza, viene considerata un criterio di insufficienza cardiaca destra vci = vena cava inferiore wirsung non dilatato nei segmenti esplorati; milza ad ecostruttura omogenea di normali dimensioni (diametro di lunghezza massima di 110 mm). si confermava versamento ascitico in sede periepatica e perisplenica e si segnalava falda di versamento pleurico sinistro. la paziente veniva anche sottoposta a rx torace, che rilevava esiti di sternotomia per applicazione di protesi valvolare, falda di   clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 28 un caso di ascite infiammatoria figura 3 flusso doppler misurato a livello di una vena sovraepatica; si osserva la tipica inversione olosistolica del flusso ematico, patognomonica dell ’insufficienza tricuspidalica s = sistole d = diastole figura 4 ecocardiogramma. in proiezione apicale quattro camere si osserva al color-doppler un flusso turbolento in fase sistolica che dal ventricolo destro rigurgita in atrio destro x = valutazione tramite power-doppler dell’insufficienza tricuspidalica; da notare come l’entità del flusso ematico che rigurgita in atrio destro diminuisca progressivamente nel corso della fase sistolica versamento pleurico sinistro, distribuzione della vascolarizzazione polmonare di tipo 2:1 e marcato ingrandimento dell’immagine cardiaca con prevalenza di entrambi gli atri e del ventricolo sinistro. l’ecocardiogramma aveva messo in evidenza un ventricolo sinistro di normali dimensioni e funzione contrattile globale e regionale (fe = 72%), un significativo ingrandimento biatriale (sx > dx), un ventricolo destro lievemente ingrandito, normocontrattile, la presenza di protesi mitralica normofunzionante con rigurgito fisiologico intraprotesico, di una grave insufficienza tricuspidalica (figura 4) e di una moderata ipertensione polmonare (paps 45 mmhg). non vi era versamento pericardico. la paziente veniva quindi sottoposta a paracentesi diagnostica; i risultati degli esami eseguiti sul liquido ascitico sono elencati nella tabella ii. la paziente era successivamente sottoposta a un’ecografia pelvica che documentava, nella porzione sinistra del douglas, la presenza di tessuto ecogeno di 19 x 19 x 36 mm clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 29 m. biolato, m. l. gabrieli, a. gallo, l. miele, l. riccardi, m. montalto, g. gasbarrini, a. grieco adeso al peritoneo parietale, deformabile alla pressione mediante sonda e vascolarizzato al power-doppler (figura 5). per approfondire tale dato, veniva eseguita tc addome-pelvi che rilevava la presenza di formazione solida disomogenea del douglas, di dimensioni 3,5 x 3 cm, indissociabile dall’utero e a contatto con la parete anteriore del retto. nel sospetto di una lesione eteroformativa, la paziente veniva sottoposta ad intervento chirurgico di laparoscopia diagnostica, che non ha evidenziato nulla di particolare a carico di utero e annessi, e in particolare non vi erano localizzazioni macroscopiche di malattia in cavità addominale. si segnalava fegato sovvertito come per cirrosi e la presenza di aderenze omento-parietali che impedivano la visualizzazione del diaframma. le anse intestinali e i mesi erano liberi. nel cavo del douglas si evidenziava una formazione di circa 3 cm di diametro in parte caseosa, in parte facilmente sanguinante. il peritoneo era edematoso come per flogosi intensa. l’esame istologico eseguito sulla formazione del cavo del douglas evidenziava tessuto fibroso sede di flogosi cronica con aspetti di emorragia e aree di depositi di fibrina come da emorragia non recente, mentre la biopsia peritoneale mostrava flogosi cronica con aspetti di granulazione. la biopsia dell’ovaio destro e sinistro mostrava frammenti di corticale ovarica con note di iperplasia fibrotecomatosa. in nessuno dei preparati venivano osservate cellule di natura maligna, né la presenza di granulomi, cellule giganti o eosinofili. inoltre venivano effettuati e ripetuti due volte esami colturali per bk a 30 e 45 giorni su liquido ascitico, feci, urine ed escreato: tutti questi esami risultavano negativi. l’intradermoreazione secondo mantoux a 72 ore risultava negativa, mentre il test del quanti-feron su linfociti prelevati da sangue periferico risultava positivo (tale test è indice di infezione tubercolare latente, ma a giudizio dell’infettivologo non giustificava un’infezione tubercolare attiva a livello peritoneale, né l’inizio di una terapia antimicobatterica). dopo aver incrementato la terapia diuretica con furosemide 250-500 mg/die e spironolattone 25 mg/die, in alcuni mesi si assisteva a una progressiva riduzione del versamento ascitico e del peso corporeo. al controllo successivo, dopo tre mesi, la paziente effettuava una nuova ecografia pelvica (figura 6) e una tc addome-pelvi, e si assisteva sorprendentemente ad una risoluzione figura 5 ecografia transvaginale. nel cavo del douglas presenza di tessuto ad ecogenicità disomogenea vascolarizzato al powerdoppler x = vescica repleta tabella ii esami eseguiti sul liquido ascitico saag = gradiente albumina siero-ascite pmn = polimorfonucleati mn = mononucleati esami chimici glucosio = 105 mg/dl proteine totali = 5,6 g/dl albumina = 3,0 g/dl (albumina sierica = 4,4 g/dl) saag = 1,4 g/dl trigliceridi = 18 mg/dl lattico-deidrogenasi = 286 ui/l (vn < 200) ph = 8,0 esami citologici eritrociti, granulociti, istociti, linfociti e cellule mesoteliali; non evidenza di cellule atipiche conta totale dei leucociti: pmn = 57%, mn = 42% esami microbiologici negativi per germi comuni, anaerobi e miceti clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 30 un caso di ascite infiammatoria completa della formazione a livello del cavo del douglas, confermando al tempo stesso la riduzione di entità del versamento ascitico. una nuova paracentesi mostrava che il liquido ascitico aveva conservato le stesse caratteristiche di essudato, mentre i valori di ca-125 apparivano in riduzione (747,1 u/ml). a distanza di un anno il quadro appariva in remissione; la paziente attualmente prosegue la terapia diuretica con furosemide 750 mg/die e spironolattone 200 mg/die ed è in buone condizioni cliniche. domande da porsi di fronte ad un caso di ascite, ho valutato tutte le cause possibili? potrebbe trattarsi di un’ascite “mista”? per chiarire l ’eziologia di un’ascite devo sempre eseguire la paracentesi? la negatività dell ’esame citologico sul liquido ascitico esclude la presenza di neoplasie? la presenza di essudato esclude la diagnosi di ascite cardiogena? in caso di positività degli indici di infezione tubercolare latente (reazione di mantoux, test del quanti-feron), posso porre diagnosi di ascite tubercolare? discussione l’ascite rappresenta un segno clinico frequente nella pratica clinica e una delle maggiori cause di ricovero ospedaliero in ambito internistico. nella figura 7 è riportata una casistica americana secondo la quale oltre l’80% delle cause di ascite erano riconducibili alla cirrosi epatica [1]; nonostante ciò, in alcuni casi la diagnosi differenziale dell’ascite può rappresentare una sfida non semplice per l’internista. l’ecografia addominale è utile per evidenziare la presenza di ascite in quei casi in cui l’esame obiettivo non è dirimente; la più      figura 6 ecografia transvaginale a distanza di tre mesi. assenza del tessuto ecogeno osservato in precedenza; il cavo del douglas (d) è disteso per la presenza di versamento ascitico che appare omogeneamente ipoecogeno cirrosi hbv e/o hcv-relata 10% cirrosi da altre cause 6% carcinosi peritoneale 10% scompenso cardiaco destro 3% tubercolosi 2% dialisi 1% cirrosi potus-relata 65% figura 7 cause di ascite (casistica usa 1991) [1] clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 31 m. biolato, m. l. gabrieli, a. gallo, l. miele, l. riccardi, m. montalto, g. gasbarrini, a. grieco tabella iii classificazione dell ’ascite in base alle caratteristiche del liquido peritoneale saag = gradiente albumina siero-ascite pt = proteine totali del liquido ascitico malattia colore pt (g/dl) saag (g/dl) conta cellulare altri test cirrosi epatica paglierino o biliare < 2,5 (95%) > 1,1 leucociti < 250/µl in prevalenza macrofagi, cellule mesoteliali carcinosi peritoneale paglierino, emorragico, mucinoso o chiloso > 2,5 (75%) < 1,1 leucociti spesso > 1.000/µl, eritrociti, solo in alcuni casi cellule atipiche citologia, esame istologico della biopsia peritoneale metastatizzazione epatica massiva paglierino, emorragico, mucinoso o chiloso variabile > 1,1 leucociti < 500/µl, eritrociti, solo in alcuni casi cellule atipiche marcata elevazione della fosfatasi alcalina e delle gamma-glutamiltrasferasi sieriche peritonite tubercolare chiaro, torbido, emorragico, chiloso > 2,5 (50%) < 1,1 leucociti > 1.000/µl, in prevalenza linfociti, eritrociti esame colturale per bk, biopsia peritoneale (granulomi caseosi, bacilli alcol-resistenti) peritonite batterica spontanea (monomicrobica) torbido o purulento < 1,0 > 1,1 leucocitici totali > 500/ µl e polimorfonucleati > 250/µl esame colturale, spesso la colorazione di gram risulta negativa. ldh normale, glucosio > 50 mg/dl peritonite secondaria a perforazione intestinale (polimicrobica) torbido o purulento > 1,0 < 1,1 leucocitici totali >500/µl, in prevalenza polimorfonucleati esame colturale, spesso la colorazione di gram risulta negativa. ldh elevato e glucosio < 50 mg/dl scompenso cardiaco destro (insuff. tricuspidalica, pericardite costrittiva, cuore polmonare cronico) paglierino variabile > 1,1 leucociti < 500/µl in prevalenza macrofagi, cellule mesoteliali ascite chiosa chiloso > 2,5 < 1,1 leucociti < 500/µl prevalentemente macrofagi, cellule mesoteliali trigliceridi spesso > 1000 mg/dl, colorazione di sudan sindrome nefrosica paglierino o chiloso < 2,5 < 1,1 leucociti < 500/µl prevalentemente macrofagi, cellule mesoteliali ascite pancreatica (pancreatite, pseudocisti) torbido, emorragico o chiloso > 2,5 < 1,1 leucociti > 500/µl, eritrociti aumento dell’amilasi sia plasmatica che nel liquido ascitico mixedema paglierino > 2,5 > 1,1 leucociti < 500/µl prevalentemente macrofagi, cellule mesoteliali polisierosite paglierino o torbido > 2,5 < 1,1 leucociti > 500/µl, eritrociti, cellule mesoteliali piccola quantità di liquido ascitico evidenziabile con l’ecografia è di 100 ml [2]. l’esame cruciale per l’inquadramento diagnostico dell’ascite è costituito dalla paracentesi cosiddetta “esplorativa”, con aspirazione di almeno 50-100 ml di fluido [3-6]. si tratta di un esame facile, rapido e relativamente sicuro (il rischio sviluppare un ematoma della parete addominale è stimato intorno all’1%). grazie alla paracentesi è possibile prelevare campioni di liquido ascitico per esame chimico (albumina, proteine totali, glucosio, ldh, amilasi, trigliceridi), citologico (tipo di cellule, conta e formula leucocitaria) e microbiologico (germi comuni, anaerobi, miceti, micobatteri). i risultati di questi test sono ottenibili in poche ore, mentre gli esami colturali richiedono almeno 72 ore. il parametro più importante e di maggiore utilità immediata è costituito dal gradiente siero-ascite di albumina (albuminemia plasmatica meno la concentrazione di albumina nel liquido ascitico). questo gradiente correla direttamente con la pressione clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 32 un caso di ascite infiammatoria portale e permette di classificare l’ascite in base alla presenza (≥ 1,1 g/dl) o assenza (< 1,1 g/dl) di ipertensione portale, con una specificità del 96,7% [7-9]. tale gradiente oggi è impiegato a fianco della tradizionale classificazione dell’ascite in essudatizia, da aumentata permeabilità del mesotelio peritoneale, o trasudatizia, da squilibrio delle forze di frank-starling. in base a questa classificazione, viene definita essudatizia un’ascite con una concentrazione di proteine totali > di 2,5 g/dl; tale cut-off ha tuttavia dimostrato una bassa specificità (55,6%) nella pratica clinica, in quanto molte asciti cardiogene hanno un’elevata concentrazione proteica, mentre questa risulta bassa in molte peritoniti batteriche spontanee [10-12]. nella tabella iii è riportata una classificazione delle asciti sulla base delle caratteristiche del fluido peritoneale. nel nostro caso, il gradiente siero-ascite di albumina (1,4 g/dl) deponeva per una forma correlata a ipertensione portale, e allo stesso tempo con caratteristiche essudatizie (proteine totali 5,6 g/dl). la paziente presentava un’ascite ad andamento ingravescente, associata a dispnea da sforzo, versamento pleurico sinistro, edemi declivi, soffio protosistolico sul focolaio tricuspidale, epatomegalia e reflusso epato-giugulare; pertanto la nostra prima ipotesi è stata quella di un’ascite cardiogena secondaria a un’insufficienza tricuspidalica in una paziente con valvulopatia mitralica di vecchia data. gli esami strumentali ci confermavano la presenza di una importante cardiopatia destra caratterizzata da grave insufficienza tricuspidalica, un dato nuovo nella storia cardiologica della paziente, secondario a progressione della valvulopatia mitralica in cui il sovraccarico di volume estendeva al cuore destro attraverso il circolo polmonare, come documentato dall’elevazione della pressione arteriosa polmonare sistolica. lo studio ecodoppler delle vene epatiche ha mostrato un dato chiave: una dilatazione con inversione olosistolica del flusso (invece della fisiologica inversione limitata alla sistole atriale). tale segno è ritenuto indice di conferma della presenza di fegato da stasi secondario a scompenso cardiaco destro da insufficienza tricuspidalica. inoltre, la normalità degli indici di funzionalità epatica e l’assenza di agenti epatolesivi diretti quali virus epatotropi, alcol o farmaci orientavano ad escludere la diagnosi di una eziologia primitiva epatica. tuttavia, alcune caratteristiche del liquido ascitico deponevano contro un’eziologia cardiaca: la caratterizzazione di ascite essudatizia sulla base dell’elevato contenuto di proteine, l’elevata quota cellulare come testimoniato dai valori di ldh, rappresentata da eritrociti, granulociti, macrofagi, linfociti e cellule mesoteliali, e gli indici di flogosi elevati (pcr e ves). infine, il marker neoplastico ca-125 è risultato estremamente elevato (1071,5 u/ml). elevati livelli di ca-125 sono notoriamente associati alla presenza di neoplasie della sfera pelvica, ma recentemente valori elevati di ca-125 sono stati riportati su ampie casistiche come marker aspecifico di infiammazione. l’antigene onco-fetale ca-125 è una glicoproteina ad alto peso molecolare rilasciata dal mesotelio peritoneale in tutte le condizioni infiammatorie, irritative e degenerative. il ca-125 è un marker tipico del carcinoma epiteliale ovarico, ed è stato documentato un valore > 65u/ml in più dell’80% dei pazienti con malattia in stadio avanzato [13]. il ca-125 può essere espresso anche in altri tumori ginecologi (endometrio, tube) e non ginecologici (pancreas, mammella, stomaco, colon e polmone) [14]. anche la sindrome di meigs f requentemente si associa alla elevazione del marker ca-125 [15-17]. è documentato in letteratura un rialzo del ca125 anche in caso di ascite tubercolare, ed è stato osservato che il titolo diminuisce dopo il trattamento specifico protratto: pertanto è stato proposto come un marker di risposta alla terapia anti-tubercolare [18-20]. un rialzo del ca-125 è stato descritto anche in altre condizioni infiammatorie quali l’endometriosi, le sierositi, la malattia infiammatoria pelvica, le cisti benigne, la fibromatosi uterina e perfino durante il ciclo mestruale [21-23]. il ca-125 risulta elevato anche in tutte le condizioni di colestasi, in quanto si tratta di una molecola a eliminazione biliare [24]. trattandosi di un antigene onco-fetale, è iperespresso in gravidanza [25]. l’elevazione dei valori di ca-125 nella nostra paziente ha orientato la ricerca di cause neoplastiche e infiammatorie quali l’ascite carcinomatosa e l’ascite tubercolare. la carcinosi peritoneale è la disseminazione metastatica sulla superficie peritoneale di cellule carcinomatose e si realizza in molti tumori gastrointestinali e ginecologici (tabella iv ) [26]. inizialmente essa è indolente e dà origine allo sviluppo di un versamento ascitico con caratteristiche di essudato e ricco in eritrociti, la cui patogenesi è da ricondurre principalmente a un’aumentata permeabilità mesoteliale [27]. ai fini diagnostici tuttavia non sempre si riescono clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 33 m. biolato, m. l. gabrieli, a. gallo, l. miele, l. riccardi, m. montalto, g. gasbarrini, a. grieco a identificare le cellule maligne all’esame citologico, ed è spesso necessario ricorrere a una biopsia in corso di laparoscopia. successivamente la carcinosi peritoneale evolve in un quadro di sub-occlusione intestinale e di dolore viscerale difficilmente controllabile. una frequente causa di ascite carcinomatosa è il carcinoma ovarico, che si presenta in fase avanzata nel 70% dei casi, esordendo con un’ascite indolente in donne tra i 50 e i 70 anni, spesso associata a sintomi aspecifici come senso di ripienezza post-prandiale, sazietà precoce, dispepsia o meteorismo [28]. inoltre, una minoranza di pazienti si presenta con una condizione benigna nota come sindrome di meigs; tale condizione, descritta per la prima volta nel 1937 [29], è costituita dalla presenza di ascite e versamento pleurico (più frequentemente a destra) in una paziente con fibroma ovarico. in tale condizione, la formazione del fluido ascitico e pleurico è probabilmente da ricondurre all’irritazione della superficie peritoneale da parte di un tumore ovarico solido, con accumulo di un trasudato che eccede le capacità riassorbitive del peritoneo [30]; in genere dopo la rimozione della massa tumorale si assiste alla completa regressione del versamento pleurico e peritoneale [31]. nel nostro caso, né ripetute paracentesi con esami citologici del liquido ascitico, né l’esame istologico della lesione del cavo del douglas e delle ovaie bioptizzate in corso di laparoscopia avevano messo in evidenza cellule atipiche. l’altra ipotesi diagnostica esplorata è stata quella di un’infezione specifica. a un’anamnesi familiare di approfondimento era emerso che il marito della paziente era deceduto per morbo di pott (vale a dire la localizzazione vertebrale del bacillo tubercolare). il bacillo di koch, in condizioni di defedamento o di immunosoppressione, può disseminare dai siti di latenza fino al peritoneo, dando origine a un’ascite essudatizia. ciò può avvenire anche in assenza di sintomi classici di infezione sistemica, come tosse, febbre o versamento pleurico [32]. l’ascite tubercolare rappresenta poco più dell’1% delle cause di ascite e viene diagnosticata con l’isolamento del mycobacterium nel liquido ascitico (che richiede alcune settimane) e/o con la dimostrazione di granulomi caseosi o di bacilli alcol/acido resistenti nelle biopsie peritoneali, effettuate in corso di laparoscopia (l’accertamento considerato più conclusivo) o con la risposta dell’ascite al trattamento specifico [33-36]. i test più recenti, come l’amplificazione con pcr del dna, consentono una diagnosi veloce, ma soffrono di scarsa sensibilità [37,38]. una peritonite tubercolare va sempre sospettata, in quanto la diagnosi tardiva può essere fatale, soprattutto in caso di ascite senza chiara causa epatica, in diagnostica differenziale con le neoplasie [39], e anche nei casi di cirrosi scompensata, quando sono “atipiche” le caratteristiche cliniche o quelle del liquido ascitico o la risposta alla terapia standard. nel nostro caso, pur in presenza di una probabile infezione latente sulla base della positività del test del quanti-feron, l’assenza di granulomi, necrosi caseosa o cellule giganti, nonché la negatività degli esami colturali, permettevano di escludere la presenza di infezione attiva a livello peritoneale. riconsiderando la possibile natura della lesione pelvica documentata e quindi risoltasi spontaneamente nel giro di tre mesi, non è da escludere che si potesse trattare di un versamento ematico in fase di organizzazione, favorito dal fatto che la paziente era in terapia anticoagulante orale, e che si è raccolto nel cavo del douglas perché è la regione più declive della cavità peritoneale. oggi siamo abituati a ritenere un’ascite ad eziologia cardiogena come classicamente un’ascite “trasudazia” per una condizione di ipertensione portale che si viene a instaurare per uno squilibrio delle forze di frank-starling. ma ciò non è sempre vero. due casistiche di 26 e 20 campioni di liquido ascitico di pazienti con ascite cardiogena hanno rivelato la presenza di un essudato con proteine totali > 2,5 g/dl nel 100% dei casi, associato a un saag ≥ 1,1 g/dl [11,40]. inoltre, nei campioni di ascite cardiogena, si sono riscontrati elevati valori di ldh e all’esame citologico tali campioni sono risultati ricchi di eritrociti [11]. la contemporanea presenza di una caratteristica essudatizia dell’ascite e di un elevato gradiente siero-ascite di albumina, tabella iv cause di carcinosi peritoneale disordini primitivi del peritoneo mesotelioma peritoneale carcinoma sieroso papillare peritoneale primitivo metastasi tumori gastrointestinali stomaco colon pancreas altri organi intra-addominali ovaio pseudomyxoma peritonei tumori extra-addominali mammella polmone tumori ematologici linfoma clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 34 un caso di ascite infiammatoria indice di ipertensione portale, costituisce un pattern unico tra i vari tipi di ascite, ed è da considerarsi come patognomonico di una ascite cardiogena. il decorso clinico della nostra paziente è stato caratterizzato da una soddisfacente risposta alla terapia diuretica e, a distanza di un anno, la donna è in buone condizioni cliniche, confermando ulteriormente la diagnosi. ricordiamo pertanto che la contemporanea presenza di elevate proteine nel liquido ascitico e di un elevato gradiente siero-ascite di albumina deve oggi indirizzare la diagnosi verso un’eziologia cardiaca. sottolineiamo infine che il marker neoplastico ca-125 non è efficace nella diagnosi di neoplasie per l’elevata frequenza di falsi positivi, mentre, in accordo con la letteratura, la sua applicazione clinica dovrebbe essere limitata al monitoraggio della terapia nel carcinoma ovarico [41-44]. diagnosi finale ascite secondaria in paziente con scompenso cardiaco destro e grave insufficienza tricuspidale in pregressa insufficienza mitralica. bibliografia 1. runyon ba, reynolds tb. approach to the patient with ascites. in: yamada 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con la comparsa di un unico sintomo, il dolore alla mobilizzazione sia attiva che passiva associato a impotenza funzionale dell’arto superiore sinistro. dopo circa 7 giorni dall’esordio i genitori accompagnano la bambina in pronto soccorso, dove viene valutata per la prima volta. le sue condizioni generali sono buone, è apiretica, si alimenta introduzione la sifilide congenita è una malattia la cui incidenza si era progressivamente ridotta fino agli anni ’90, anche in relazione alle campagne di sensibilizzazione che hanno fatto seguito alla scoperta del virus hiv. alcuni studi hanno dimostrato che nell’ultimo decennio questa patologia sta riemergendo, a causa di vari fattori, fra cui una diminuzione di attenzione riguardo ai rapporti sessuali non protetti, una minore capacità di identificazione da parte del personale medico e un aumento dei flussi migratori da paesi ad alta incidenza. questa forma morbosa, se non riconosciuta tempestivamente, causa delle sequele a lungo termine estremamente invalidanti, quindi la precocità di diagnosi e trattamento sono essenziali ai fini prognostici. considerando la tendenza a riemergere di questa malattia e le difficoltà diagnostiche che pone, è importante riportare i fondamenti per la sua identificazione e gestione. perché descriviamo questo caso per porre l ’attenzione su una malattia che, dopo alcuni anni di declino, sta riemergendo. la sua diagnosi tempestiva è fondamentale per evitare conseguenze invalidanti per il paziente corresponding author dott. piero valentini pvalentini@rm.unicatt.it caso clinico abstract this report describes a rare case of congenital syphilis in a two-month-old romanian infant. diagnosis was possible when the baby showed decrease in the left upper limb movements and a papular rash. her father had been infected and transmitted the infection to the mother, who had two non-treponemal serological tests during pregnancy, both with negative results. congenital syphilis was confirmed by serological tests and the newborn was successfully treated. a global overview on diagnosis and treatment of children with suspected congenital syphilis is presented. keywords: congenital syphilis, syphilis management, syphilis treatment, sexually transmitted disease congenital syphilis in a two-month-old infant cmi 2011; 5(2): 45-54 1 istituto di clinica pediatrica, università cattolica del sacro cuore daniele serranti 1, danilo buonsenso 1, piero valentini 1 sifilide congenita in una bambina di due mesi ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2)46 sifilide congenita in una bambina di due mesi sea rimane oscura a causa dell’assenza di un evento traumatico a cui risalire. a tre giorni dalla prima valutazione della bambina compare febbre elevata (39° c rettali): la bambina viene condotta nuovamente in pronto soccorso dove, oltre all’impotenza funzionale del braccio sinistro, l’esame obiettivo permette di evidenziare a livello cutaneo la presenza di lesioni papulari di circa 1-2 cm di diametro, disseminate e presenti anche a livello palmo-plantare, di colorito roseo, non raggruppate e in differenti stadi evolutivi (alcune in fase di desquamazione). a livello addominale vengono inoltre rilevati epatomegalia marcata (margine inferiore epatico all’ombelicale trasversa) e splenomegalia. la comparsa del rash induce la raccolta di un’approfondita anamnesi, dalla quale emerge che il padre, circa 7 mesi prima della nascita della bambina, aveva presentato la comparsa di una lesione rotondeggiante a livello del solco balano-prepuziale, risultata essere di origine luetica a seguito degli esami sierologici specifici eseguiti (veneral disease research laboratory – vdrl positivo, treponema pallidum hemagglutination test – tpha positivo, igg e igm specifiche positive). a seguito di ciò anche la madre era stata sottoposta alla ricerca di anticorpi antitreponema mediante immunofluorescenza al 7° mese di gravidanza, con esito negativo; negativo era risultato anche il vdrl eseguito al momento del parto, nonostante, nel frattempo, fossero comparse lesioni cutanee da riferire a sifilodermi. sulla base dei suddetti dati anamnestici, la bambina viene sottoposta all’esecuzione di un test emocromocitometrico con formula leucocitaria, alla misurazione degli indici di flogosi (proteina c reattiva) e dei valori ematochimici e infine alla valutazione del profilo sierologico per sifilide. l’emocromo dimostra la presenza di una marcata piastriadeguatamente e non presenta alcun rilievo patologico all’esame obiettivo ad eccezione dell’impossibilità di muovere l’arto, che appare inerte, con il gomito esteso e in posizione addotta, lungo il tronco. il riflesso di moro è asimmetrico e la capacità di muovere la mano è conservata. la madre non riferisce pregressi traumi e non sono presenti ecchimosi, né segni di alcun tipo a livello della cute del distretto interessato. viene ipotizzata una possibile eziologia traumatica: una radiografia dell’arto superiore di sinistra mette in evidenza un’irregolarità del terzo medio della clavicola, classificata come infrazione. l’arto della bambina viene immobilizzato con una fasciatura in adduzione del braccio e flessione a 90° del gomito, anch’esso addotto. fin qui il caso si presenta come una problematica di pertinenza prettamente ortopedica anche se la natura della lesione osrisultati valori normali emocromo globuli rossi 3,24 x 106/mm3 4,20-5,40 x 106/mm3 emoglobina 10,4 g/dl 12,0-16,0 g/dl ematocrito 29,3% 37,0-47,0% piastrine 57,4 x 103/mm3 130-400 x 103/mm3 globuli bianchi 11,4 x 103/mm3 4,00-10,00 x 103/mm3 formula leucocitaria neutrofili 2,42 x 103/mm3 (21,2%) 2,0-7,5 x 103/mm3 (55,0-70,0%) linfociti 7,53 x 103/mm3 (66,0%) 1,5-3,5 x 103/mm3 (20,0-35,0%) monociti 1,26 x 103/mm3 (11,1%) 0,2-0,6 x 103/mm3 (2,0-8,0%) eosinofili 0,08 x 103/mm3 (0,7%) 0,05-0,4 x 103/mm3 (1,0-4,0%) basofili 0,11 x 103/mm3 (1,0%) 0,0-0,1 x 103/mm3 (0,1-1,0%) esami ematochimici azotemia 5 mg/dl 15-50 mg/dl creatinina 0,4 mg/dl 0,6-1,3 mg/dl ast 76 u/l 2-50 u/l alt 41 u/l 2-50 u/l gamma-gt 83 u/l 3-50 u/l tabella i principali esami di laboratorio eseguiti prima dell ’inizio della terapia alt = alanina aminotrasferasi; ast = aspartato aminotrasferasi; gamma-gt = gammaglutamil-transpeptidasi indagine esito pre-terapia post-terapia vdrl su sangue 1/64 1/8 tpha su sangue 1/5.120 1/5.120 fta-abs su sangue +++ (fortemente positivo) +++ (fortemente positivo) igm specifiche su sangue positive tpha su liquor negativo fta-abs su liquor negativo igm specifiche su liquor negative tabella ii esiti degli esami sierologici per sifilide eseguiti prima e dopo l ’inizio della terapia antibiotica; i test non treponemici correlano con l ’attività della malattia e con la risposta alla terapia; la riduzione dei valori quantitativi del titolo vdrl dopo la somministrazione di penicillina permette di attestarne l ’efficacia contro treponema fta-abs = fluorescent treponemal antibody absorptiontest; tpha = treponema pallidum hemagglutination assay; vdrl = venereal disease research laboratory ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2) 47 d. serranti, d. buonsenso, p. valentini discussione valutazione della madre con sospetta sifilide in gravidanza tutte le donne dovrebbero effettuare un test di screening all’inizio della gravidanza al fine di identificare la presenza di un’infezione attiva che potrebbe essere trasmessa al feto. lo screening iniziale si effettua tramite test non treponemici (vdrl o rpr – rapid plasma reagin), che andrebbero ripetuti alla fine della gravidanza, immediatamente prima del parto, per escludere un’acquisizione tardiva dell’infezione [1]. questi test correlano con l’attività della malattia e con la risposta alla terapia, quindi sono anche un importante parametro da valutare prima e dopo la somministrazione di penicillina [2]. in alcuni paesi i test non treponemici sono stati sostituiti dal dosaggio immunoenzimatico delle igg e igm specifiche per treponema pallidum. nel caso da noi riportato il test di screening materno è risultato negativo in due occasioni, al 7° mese di gravidanza e subito prima del parto, e probabilmente si è trattato di un risultato falsamente negativo. infatti, un test non treponemico negativo permette generalmente di escludere il contatto del batterio con l’ospite, anche se, quando il test viene effettuato su campioni con elevate concentrazioni di treponema o di anticorpi anti-treponema, si può avere una reazione falsamente negativa, definita “effetto prozona”. risultati falsi negativi si hanno in una bassa percentuale dei casi, ma si possono osservare anche in caso di sifilide primaria recentemente acquisita, nella sifilide latente e nella sifilide congenita in fase tardiva [3]. reazioni falsamente positive, invece, si possono verificare nelle donne in gravidanza e in caso di infezioni virali, linfoma, tubercolosi, malaria, endocardite, malattie del sistema connettivo o errori di laboratorio [2]. così, la positività del vdrl o del rpr test deve essere confermata da successivi test treponemici. questi test si positivizzano subito dopo l’infezione e rimangono generalmente positivi per tutta la vita, anche a seguito di una terapia efficace. se, quindi, il tpha o gli altri test treponemici risultano persistentemente negativi, si può considerare il risultato del test non treponemico falsamente positivo, altrimenti il reperto è compatibile con un’infezione sifilitica (figura 1). nopenia (piastrine = 57.400/mm3), mentre la proteina c reattiva risulta essere lievemente aumentata (3,60 con un range di normalità compreso tra 0,00 e 1,00). dal punto di vista dei parametri ematochimici si evidenzia un lieve aumento sia dell’aspartato aminotrasferasi (ast) sia della gamma-glutamiltranspeptidasi (gamma-gt). i risultati degli esami sono indicati in tabella i. il test non treponemico vdrl dà esito positivo, come peraltro i test treponemici tpha, fta-abs (fluorescent treponemal antibody-absorption) ed elisa (enzymelinked immuno sorbent assay). viene anche eseguita una radiografia dell’arto superiore sinistro, che dimostra epifisiolisi dell’omero distale. confermato il sospetto di sifilide congenita, la piccola viene sottoposta a rachicentesi per valutare anche l’eventuale coinvolgimento del sistema nervoso centrale (snc). poiché i risultati (tabella ii) permettono di escludere tale coinvolgimento, si decide di instaurare una terapia antibiotica specifica a base di penicillina g acquosa cristallina al dosaggio di 150.000 u/kg/die per via endovenosa suddivisa in 3 dosi giornaliere. inoltre viene eseguito anche un esame radiografico completo dello scheletro al fine di identificare la presenza di altri focolai di osteocondrite o periostite, oltre all’area di epifisiolisi dell’omero distale di sinistra, che esclude la presenza di altre lesioni. ai successivi controlli sierologici si osserva una riduzione progressiva dei valori quantitativi dei test non treponemici, indicativa dell’efficacia della terapia. domande da porsi di fronte a questo caso quali sono le cause di un rash con queste y caratteristiche in un lattante? è un eventualità così rara trovarsi di y fronte a un caso di sifilide congenita? come si dirime il sospetto di un’infezione y congenita da treponema pallidum? come vanno interpretate le sierologie di y una donna in gravidanza e del suo neonato in relazione al sospetto di lue? la madre è stata correttamente valuy tata? che cosa si sarebbe dovuto fare? y qual è il giusto regime terapeutico per y un paziente pediatrico con sifilide congenita? ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2)48 sifilide congenita in una bambina di due mesi quindi l’uso di questi farmaci comporta il successivo trattamento del bambino alla nascita. infine, è essenziale che vengano trattati anche i partner al fine di evitare le reinfezioni [7]. manifestazioni cliniche della sifilide congenita le manifestazioni cliniche della sifilide congenita possono essere distinte in precoci (si verificano durante i primi due anni di vita, tabella iii) e tardive (compaiono gradualmente durante i primi due decenni di vita, tabella iv ). i segni e i sintomi precoci sono simili a quelli delle forme di sifilide secondaria dell’adulto e insorgono nell’arco di settimane o mesi. spesso il primo sintomo a comparire è la rinite persistente, che si osserva nel 4-22% dei neonati infetti [8]. sintomi non specifici includono epatomegalia (51-56% dei casi) splenomegalia (49%) e linfadenopatia generalizzata (32%). di fondamentale importanza nell’indurre il sospetto diagnostico è il rash che classicamente si presenta con caratteristiche lesioni vescicolo-bollose o maculo-papulari, che interessano tutta la superficie corporea compresi i palmi delle mani e le piante dei piedi (35-44%) [9,10]. le lesioni possono presentarsi in stadi evolutivi variabili, non tendono alla confluenza e vanno incontro a desquamazione. inoltre è possibile osservare anche lesioni di tipo condilomatoso (condyloma lata). dal punto di vista labole madri che presentano un quadro sierologico di questo tipo devono essere trattate con penicillina, come d’altronde vengono trattati i pazienti non in gravidanza, al dosaggio appropriato per lo stadio della malattia prima delle ultime 4 settimane di gravidanza, al fine di impedire la trasmissione materno-fetale dell’infezione [4]. in caso di allergia della madre alla penicillina occorre intraprendere una desensibilizzazione [5], dato che trattamenti alternativi non sono risultati efficaci. infatti azitromicina, utilizzata nell’adulto come alternativa, non è raccomandata nella donna gravida, a causa della scarsa capacità di penetrare la placenta [6]. inoltre, sono stati osservati ceppi di treponema resistenti ai macrolidi, figura 1 interpretazione dei test sierologici materni fta-abs = fluorescent treponemal antibody absorption test; rpr = rapid plasma reagin test; tpha = treponema pallidum hemagglutination assay; tppa = treponema pallidum particle agglutination test; vdrl = venereal disease research laboratory vdrl o rpr qualitativo all’inizio della gravidanza negativopositivo infezione esclusa. è consigliato ripetere il test non treponemico al momento del parto confermare il risultato con tpha o tppa o fta-abs negativopositivo confermare il risultato ripetendo test non treponemico quantitativo risultato dello screening falso positivo precoci (entro i primi 2 anni di vita) paziente asintomatico y osteocondrite, periostite (con pseudoparalisi di parrot) y corizza, rinite emorragica y condyloma lata y lesioni bollose, rash plantare/palmare y chiazze mucose y epatomegalia, splenomegalia y ittero y idrope fetale non immune y linfoadenopatia generalizzata y segni a livello del snc; aumento cellularità e proteine del lcs y anemia emolitica, cid, trombocitopenia y polmonite y sindrome nefrosica y ritardo di crescita intrauterina y tabella iii manifestazioni cliniche precoci di sifilide congenita cid = coagulazione intravascolare disseminata; lcs = liquido cerebrospinale; snc = sistema nervoso centrale ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2) 49 d. serranti, d. buonsenso, p. valentini soltanto all’immobilizzazione dell’arto, senza approfondire l’anamnesi su altre possibili cause della lesione osservata. la diagnosi differenziale di una lesione ossea da sifilide congenita va posta con le fratture dell’arto superiore e con le lesioni del plesso brachiale di tipo erb-duchenne, dovute all’esecuzione di manovre ostetriche a causa di un disimpegno difficile della spalla. in questo caso, però, l’arto è immobile e addotto lungo il tronco fin dalla nascita. inoltre, anche un’osteomielite acuta dell’omero si presenta con pseudoparalisi e dolore alla mobilizzazione passiva, ma la presenza di febbre e i reperti radiografici indirizzano la diagnosi. la comparsa del rash, la concomitante epato-splenomegalia e i dati anamnestici hanno indotto all’esecuzione dei test sierologici specifici per treponema pallidum. gestione del neonato con sospetta sifilide congenita i sintomi della sifilide congenita sono spesso subdoli e aspecifici; inoltre più del 60% dei neonati affetti è asintomatico alla nascita [15]. così, i figli di madre con sospetta sifilide in gravidanza devono essere sempre valutati, prima della dimissione. presentiamo qui un elenco delle situazioni in cui è necessario avviare una valutazione complessiva del neonato per sospetto di sifilide congenita: il neonato è sintomatico; y si è verificato un aumento di almeno y quattro volte del titolo non treponemico materno; ratoristico si possono riscontrare anemia e piastrinopenia, quest’ultima spesso associata a sequestro splenico. inoltre è frequente l’innalzamento delle transaminasi e delle gamma-gt, a volte accompagnato da ittero. non è infrequente anche un interessamento renale con sindrome nefrosica. per quanto riguarda le manifestazioni radiografiche, queste comprendono localizzazioni multiple di osteocondrite a livello di polsi, gomiti, ginocchia e caviglie, e di periostite delle ossa lunghe. l’osteocondrite è estremamente dolorosa ed è responsabile sia dell’estrema irritabilità del paziente sia dell’impotenza funzionale del distretto interessato (“pseudo-paralisi di parrot”) [11]. le manifestazioni tardive della sifilide congenita sono espressione dell’infiammazione cronica che affligge i distretti interessati e si manifestano principalmente durante la pubertà [12]. innanzitutto, la periostite cronica porta alla deformazione e all’ispessimento osseo, con formazione delle bozze frontali, ispessimento del terzo sternale della clavicola, deformazione della tibia “a sciabola” e una convessità del margine mediale della scapola. si possono presentare lesioni dentarie, come i “denti di hutchinson” (incisivi con forma cilindrica e intaccatura a mezzaluna), e depressione della radice del naso, che assume un aspetto “a sella” [13]. a livello articolare si può verificare una sinovite, unilaterale o bilaterale, con tumefazione, più frequentemente a livello degli arti inferiori, definita “articolazione di clutton”. l’interessamento del snc si può presentare sottoforma di paresi giovanile o di tabe giovanile (mielo-meningoradicolite che interessa i cordoni posteriori del midollo spinale, con disturbi della sensibilità, atassia, assenza di riflessi, crisi dolorose, disturbi sfinterici, atrofia ottica e miosi), anche se sono manifestazioni abbastanza rare [14]. infine è possibile riscontrare anche la presenza di una cheratite interstiziale e una progressiva ipoacusia neurosensoriale che, associate alle anomalie dentarie, configurano la “triade di hutchinson”. nel nostro caso la prima manifestazione dell’infezione congenita è stata la pseudoparalisi di parrot, comparsa all’inizio del secondo mese di vita, a livello dell’arto superiore di sinistra. in prima battuta questo reperto è stato classificato come l’esito di un evento traumatico, tanto che si è proceduto tabella iv manifestazioni cliniche tardive di sifilide congenita tardive (dopo i 2 anni di vita) sporgenza ossea della fronte (fronte olimpica) y ispessimento uni-bilaterale del terzo prossimale della clavicola (segno di y higoumenaki) tibia a sciabola y convessità del margine mediale della scapola (scapola scafoide) y incisivi superiori a botte con intaccatura a semiluna (denti di hutchinson) y molari inferiori con superficie masticatoria piccola e cuspidi in eccesso (molari y moriformi) carie ripetute y naso a sella (depressione della radice nasale) y ragadi periorifiziali y paresi giovanile y tabe giovanile y cheratite interstiziale uni-bilaterale y sordità neurosensoriale uni-bilaterale y sinovite uni-bilaterale del ginocchio (articolazione di clutton) y gomme luetiche dei tessuti molli y ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2)50 sifilide congenita in una bambina di due mesi toria l’esecuzione dei test treponemici, né la ricerca delle igm specifiche per treponema pallidum. può essere utile esaminare la placenta e il cordone ombelicale tramite l’uso di anticorpi fluorescenti specifici e dimostrare la presenza della spirocheta su materiale proveniente da lesioni sospette o campioni di fluidi corporei (es. secrezione nasale) tramite la microscopia in campo oscuro [16]. i test non treponemici eseguiti sul bambino devono essere effettuati con la stessa metodica di quelli materni al fine di poter effettuare un confronto dei valori ottenuti, per differenziare una reale infezione dal semplice passaggio degli anticorpi materni da madre a feto tramite la placenta [17]. abbiamo realizzato una flow-chart, basata sulle linee guida fornite dai centers for disease control and prevention – cdc [18], la madre non ha effettuato trattamento o y ha assunto terapia non adeguata; la madre ha una scarsa documentazione y sierologica; la madre è stata trattata con antibiotici y diversi dalla penicillina; la madre è stata trattata adeguatamente, y ma non si è verificato un decremento del valore quantitativo del test non treponemico; il trattamento materno è stato effettuato y meno di un mese prima del parto. è necessario effettuare test sierologici non treponemici quantitativi (vdrl o rpr) sul siero del neonato, perché il sangue ottenuto dal cordone ombelicale può essere contaminato da quello materno, producendo un risultato falsamente positivo. non è obbligafigura 2 valutazione del neonato con sospetta sifilide congenita. modificata da [18] abr = auditory brainstem response; csf = liquor cefalorachidiano; rpr = rapid plasma reagin test; vdrl = venereal disease research laboratory neonato figlio di madre con sospetta sifilide in gravidanza test vdrl o rpr positivo test vdrl o rpr negativo esame fisico del bambino patologico y il valore del test in termini quantitativi y almeno 4 volte superiore a quello materno un risultato positivo per la ricerca di y t. pallidum sui fluidi corporei esame fisico del bambino normale e valore del test in termini quantitativi 4 volte inferiore a quello materno scenario 1 neonato con infezione y confermata o altamente probabile scenario 2 madre non trattata y madre trattata y inadeguatamente madre con y insufficiente documentazione madre trattata con y antibiotici diversi dalla penicillina madre trattata < 4 y settimane dal parto scenario 3 madre trattata y adeguatamente durante la gravidanza, prima delle ultime 4 settimane di gestazione, con dosaggio appropriato per l’epoca gestazionale s senza evidenza di y reinfezione o ricaduta (aumento di quattro volte del titolo non treponemico) scenario 4 madre trattata y adeguatamente titoli non treponemici y bassi e stabili durante la gravidanza e il parto (vdrl < 1:2; rpr < 1:4) valutazione del csf y con test vdrl, conta cellulare e proteine emocromo, con conta y piastrinica e formula leucocitaria radiografie dello y scheletro, valutazione della funzionalità epatica, ecografia del cranio, valutazione oftalmologica e abr valutazione del csf y con test vdrl, conta cellulare e proteine emocromo con conta y piastrinica radiografie delle ossa y lunghe non sono richieste y ulteriori valutazioni ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2) 51 d. serranti, d. buonsenso, p. valentini g procaina, penicillina g benzatina). questo è l’unico trattamento la cui efficacia nei pazienti affetti da sifilide congenita sia stata comprovata. in tabella v sono indicati i diversi tipi di regime terapeutico a seconda del profilo clinico e sierologico del neonato affetto [20]. tutti i neonati che presentano una positività al test non treponemico (o le cui madri presentavano positività al parto) dovrebbero essere seguiti attentamente tramite un follow-up basato sulla valutazione clinica e sierologica. generalmente viene eseguito un test non treponemico ogni 2-3 mesi fino a che il test non diventa negativo o il valore quantitativo non diminuisce di quattro volte. se il neonato non è infetto e si è verificato solamente il passaggio degli anticorpi materni oppure se il neonato infetto è stato adeguatamente trattato, il valore quantitativo del vdrl o del rpr dovrebbe diminuire entro il terzo mese di vita per diventare poi negativo al sesto mese. se invece i valori rimangono stabili o aumentano dopo 6-12 mesi, il bambino deve essere rivalutato clinicamente e trattato con un ciclo di 10 giorni di penicillina g per via parenterale. i test treponemici non possono essere utilizzati nel follow-up del neonato trattato, rappresentativa delle situazioni che si possono presentare in un neonato con sospetta sifilide congenita e le relative valutazioni strumentali, che devono essere effettuate nei differenti casi (figura 2). i bambini che sono sintomatici e quelli asintomatici che hanno presentato esito positivo dei test sierologici vengono sottoposti a esami volti a identificare le alterazioni patologiche correlabili alla malattia. vengono eseguiti emocromo completo con formula leucocitaria, valutazione degli indici di funzionalità epatica e renale, esame delle urine, radiografia dell’intero scheletro, visita oculistica e rilevazione di potenziali acustici neuro-sensoriali (auditory brainstem response, abr). inoltre è necessario sempre escludere l’eventuale coinvolgimento del snc, valutando innanzitutto la cellularità e le proteine del liquor cefalorachidiano (csf), che risulterebbero aumentate, e la positività o meno della vdrl sul csf. il risultato di quest’ultimo test va interpretato con cautela dato che la negatività non esclude la neurosifilide [19]. per quanto riguarda il trattamento, come nell’adulto, è basato sulla somministrazione di penicillina, in differenti formulazioni (penicillina g acquosa cristallina, penicillina tabella v trattamento del neonato con sospetta sifilide congenita. modificato da [18] rpr = rapid plasma reagin test; vdrl = venereal disease research laboratory condizione clinico-sierologica trattamento somministrato scenario 1 neonato con infezione confermata o altamente y probabile penicillina g acquosa cristallina: 100.000-150.000 u/kg/die, somministrata iv come 50.000 u/kg/dose ogni 12 ore durante i primi 7 giorni e ogni 8 ore successivamente fino a un totale di 10 giorni di terapia oppure penicillina g procaina: 50.000 u/kg/dose im in dose singola giornaliera per 10 giorni scenario 2 madre non trattata madre trattata inadeguatamente madre con insufficiente documentazione madre trattata con antibiotici diversi dalla penicillina madre trattata < 4 settimane dal parto penicillina g acquosa cristallina: 100.000-150.000 u/kg/die, somministrata iv come 50.000 u/kg/dose ogni 12 ore durante i primi 7 giorni e ogni 8 ore successivamente fino a un totale di 10 giorni di terapia oppure penicillina g procaina: 50.000 u/kg/dose im in dose singola giornaliera per 10 giorni oppure penicillina g benzatina: 50.000 u/kg/dose im in dose singola scenario 3 madre trattata adeguatamente durante la y gravidanza, prima delle ultime 4 settimane di gestazione, con dosaggio appropriato per l’epoca gestazionale s senza evidenza di reinfezione o ricaduta (aumento y di quattro volte del titolo non treponemico) penicillina g benzatina: 50.000 u/kg/dose im in dose singola scenario 4 madre trattata adeguatamente y titoli non treponemici bassi e stabili durante la y gravidanza e il parto (vdrl < 1:2; rpr < 1:4) non è richiesto trattamento, anche se alcuni specialisti utilizzano lo stesso trattamento dello scenario 3 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2)52 sifilide congenita in una bambina di due mesi per quanto riguarda i paesi europei e in particolare l’italia, uno studio multicentrico recente ha dimostrato che attualmente l’incidenza di sifilide congenita si attesta a 20 casi ogni 100.000 nati vivi. negli altri paesi europei sono stati osservati tassi inferiori, anche se probabilmente sono sottostimati [18]. fra i vari fattori implicati nell’aumento della diffusione di questa infezione sicuramente un ruolo fondamentale è stato svolto dalla riduzione dell’attenzione riguardo ai rapporti sessuali non protetti [23] e dall’aumento dei flussi migratori, soprattutto quelli provenienti dai paesi dell’ex unione sovietica, dove la disintegrazione del sistema sanitario nazionale ha determinato l’incremento dei casi di sifilide [24]: mentre nel 1991 l’incidenza era ancora molto bassa (inferiore a 10 casi/100.000/anno) con 0,9 casi di lue congenita/100.000 nati vivi, nel 1999 si registravano incidenze variabili fra 70-80 casi/100.000/anno in estonia a quasi 300/100.000/anno nella federazione russa, con un consequenziale aumento delle forme congenite fino a 8,5 casi/100.000 nati vivi [25]. molto probabilmente in relazione con i flussi migratori est-ovest, nei primi anni ’90 è stata rilevata una recrudescenza di casi di sifilide in numerosi paesi dell’europa occidentale: paradigmatico il caso del regno unito nel quale, nel 2008, sono stati notificati 36 casi di sifilide congenita, il dato più elevato registrato nel decennio precedente [26]. tali modificazioni epidemiologiche sono già state osservate per altre patologie: non è, quindi, una novità che gli scenari nosologici medici stiano cambiando parallelamente agli sconvolgimenti socio-politici che hanno coinvolto e coinvolgono paesi anche molto lontani dal nostro. quello che viene spontaneo domandarsi è quanto siamo pronti ad affrontare tutto ciò. a giudicare da questa storia la risposta più ovvia è: poco. ci sono alcuni aspetti c he è bene sottolineare: innanzitutto, abbiamo un caso di sifilide in un adulto in seguito al quale viene effettuata una valutazione sierologica sulla partner mediante una metodica che non è quella usualmente utilizzata per uno screening. i test di screening sono accomunati da una fondamentale caratteristica, l’elevata sensibilità e, quindi, la capacità di non far sfuggire i soggetti affetti. anche test con tali caratteristiche, comunque, possono avere eccezioni, che vedremo in seguito. dunque, il soggetto testato presenta una risposta negativa, ma l’elevato rischio d’infezione avrebbe richiesto una maggiore attenma possono essere utili per valutare i casi di positività dovuta a passaggio transplacentare degli anticorpi materni. gli anticorpi treponemici trasmessi passivamente dalla madre possono rimanere positivi fino al quindicesimo mese di età, così la positività del tpha o degli altri test dopo 18 mesi è diagnostica di infezione congenita. i bambini che non presentano positività ai test non treponemici alla nascita non hanno bisogno di rivalutazioni o trattamento a distanza. inoltre, quando si rileva la presenza di alterazioni del csf, occorre ripetere una puntura lombare ogni 6 mesi fino a che non si hanno valori normalizzati e, soprattutto se persiste una positività del test vdrl su liquor o altre anormalità della cellularità o della proteinorrachia, non imputabili ad altre malattie, è necessario effettuare il trattamento nel sospetto di neurosifilide [16]. modalità di trasmissione ed epidemiologia della sifilide la sifilide congenita è il risultato del passaggio di treponema pallidum attraverso la placenta, che si può verificare durante qualsiasi fase della malattia materna e in ogni periodo della gravidanza, anche se la maggior parte dei feti si infetta dopo il quarto mese di gestazione. la trasmissione dell’infezione può avvenire anche durante il passaggio nel canale del parto, a seguito del contatto con lesioni sifilitiche a livello genitale. il tasso di trasmissione è estremamente alto ed è stato osservato che dal 70% al 100% dei figli di madre con sifilide acquisisce l’infezione [1]. inoltre, il 40% dei soggetti affetti va incontro a morte fetale o perinatale [21]. la maggior parte dei casi di sifilide congenita viene osservata in paesi in via di sviluppo, anche se nell’ultimo decennio l’incidenza di questa malattia è andata progressivamente aumentando, dopo un lungo periodo in cui se ne era osservata la diminuzione. ciò è testimoniato dai dati dei cdc, che, sulla base delle notifiche effettuate tra 2005 e 2008, riportano un aumento del 23% del tasso di infetti fra i neonati di età inferiore all’anno (da 8,2 casi ogni 100.000 nati vivi nel 2005 a 10,1 nel 2008), dopo una fase di riduzione dei casi durata 14 anni. questi dati sono il riflesso di una recrudescenza della sifilide, che è stata osservata nel periodo compreso tra il 2004 e il 2007 fra le donne di età superiore a dieci anni [22]. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2) 53 d. serranti, d. buonsenso, p. valentini toposta a una prima valutazione clinica per l’impotenza funzionale dell’arto superiore sinistro quando già presenta, unitamente alla madre, le lesioni cutanee caratteristiche della malattia, ma tale segno non viene preso in considerazione, non sappiamo se per distrazione o superficialità. concludendo, la diagnosi è stata posta quando la piccola presentava un quadro conclamato di malattia, mentre, con maggiore attenzione e accuratezza, si sarebbe potuto trattare l’infezione nella madre già durante la gravidanza o, al più tardi, sarebbe stato possibile gestire la bambina sin dal momento della nascita. forse è bene riflettere attentamente sulle nostre capacità di affrontare la medicina del 2000: non manca il know-how, ma occorre metterlo in pratica. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. zione nei suoi riguardi, cosa che avrebbero potuto avere, eventualmente, i servizi territoriali se fossero stati avvisati tempestivamente mediante la notifica che, ricordiamo, è obbligatoria per legge anche nel solo caso di sospetto di malattia infettiva. riepilogando, test non adeguato, non ripetuto, mancata notifica alle autorità competenti o mancata attivazione delle stesse. quando la donna partorisce il test di screening (vdrl) viene effettuato, con esito negativo: tale risposta è descritta come possibile, anche in un soggetto malato, in presenza di eccesso di antigene o di anticorpi (prozona) ed è facilmente superabile l’errore d’interpretazione effettuando diluizioni seriate del siero [27]. la risposta corretta sarà già leggibile a diluizioni di 1/16-1/32; naturalmente, è impensabile che il microbiologo effettui tale lavoro con ogni siero a lui sottoposto, ma potrebbe farlo su campioni selezionati, se debitamente avvertito da chi è responsabile di effettuare un’adeguata anamnesi gravidica che, nel caso in discussione, dobbiamo ritenere non sia stata fatta. infine, la bambina viene sotbibliografia qolohle dc, hoosen aa, moodley j, smith an, mlisana kp. serological screening for sexually 1. transmitted infections in pregnancy: is there any value in re-screening for hiv and syphilis at the time of delivery? genitourin med 1995; 71: 65-7 larsen s, steiner b, rudolph a. laboratory diagnosis and interpretation of tests for syphilis. 2. clin microbiol rev 1995; 8: 1-21 müller i, brade v, hagedorn hj, straube e, schörner 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nella risposta alla terapia di resincronizzazione biventricolare in un paziente affetto da scompenso cardiaco natalia pezzali 1, marco metra 1, livio dei cas 1 sindrome di hopkins maria roberta longo 1, raffaele falsaperla 1, catia romano 1, eleonora passaniti 1, piero pavone 1 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3) 107 clinical management issues point-of-care testing: osservazioni preliminari il termine poct si riferisce a qualunque test possa essere eseguito vicino al paziente e fornisca risultati immediati mediante i quali stabilire rapidamente la diagnosi e/o l’intervento clinico [1]. i test diagnostici rapidi possono trovare impiego in ambito ospedaliero, nell’assistenza territoriale, nell’auto-controllo domiciliare o in farmacia. in tali contesti, la prevenzione dell’errore è fondamentale per evitare cure inappropriate: i test dovrebbero essere accurati, semplici, economici, di facile interpretazione e stabili in condizioni ambientali di conservazione variabili. la frequenza dell’errore pre-analitico, analitico e post-analitico nell’ambito del poct non è nota ma, negli stati uniti, la sorveglianza della qualità è affidata ai centers for medicare and medicaid services (cms) attraverso i clinical laboratory improvement amendments, clia (http://www.cms.hhs. gov/clia): essi hanno stabilito tre categorie di test in base alla complessità metodologica, che può essere elevata o moderata (test introduzione nella popolazione diabetica il monitoraggio di glucosio, emoglobina a1c, chetoni, lipidi e albuminuria favorisce la prevenzione, la diagnosi precoce e la terapia delle complicanze acute e croniche della malattia diabetica e ha un impatto positivo sul processo terapeutico. la tecnologia del point-of-care testing (poct) offre alcuni indubbi vantaggi (immediatezza del risultato, decisioni cliniche rapide, minima quantità di campione biologico, uso del sangue capillare) purché sussista un requisito indispensabile: gli errori pre-analitico, analitico e post-analitico devono essere ridotti al minimo. poiché la predizione richiede strumenti di provata precisione, accuratezza, validità e affidabilità, i produttori devono validare i risultati poct confrontandoli con quelli di laboratori di riferimento. sono attualmente disponibili sul mercato numerosi strumenti poct per eseguire in tempo reale screening, diagnosi e monitoraggio in ambito diabetologico. corresponding author dott.ssa elena matteucci elena.matteucci@med. unipi.it gestione clinica abstract in diabetic patients glucose, haemoglobin a1c, ketones, lipids, and urinary albumin monitoring allows prevention, early detection, and treatment of diabetes-related acute and chronic complications. the point-of-care testing (poct) technology offers convenient aspects, as long as pre-analytical, analytical, and post-analytical errors are minimised. the overview summarises the current state-of-the-art of poct in diabetes care. keywords: point-of-care systems; diabetes mellitus; blood glucose; hba1c; ketones; lipids; urinary albumin the point-of-care testing in diabetology cmi 2011; 5(3): 107-112 1 dipartimento di medicina interna, università di pisa elena matteucci 1, ottavio giampietro 1 il point-of-care testing in diabetologia ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3)108 il point-of-care testing in diabetologia non-waived) o bassa (test waived). questi ultimi sono considerati semplici, accurati, utilizzabili ovunque senza bisogno di personale specializzato o controllo di qualità. gli unici requisiti richiesti sono: registrazione al programma clia; y pagamento delle tasse; y esecuzione secondo le istruzioni della ditta y produttrice. sono state identificate alcune sorgenti di errore analitico [2]. in uno studio che prevedeva ispezioni in loco, i csm hanno riscontrato che: il 32% dei laboratori non aveva le istruy zioni della ditta produttrice; il 32% non eseguiva il controllo di qualità y consigliato; il 16% non seguiva le istruzioni ( y csm fact sheet, visiting clia, certificate of waiver laboratories). sono state elaborate strategie per la prevenzione dell’errore [2] e linee guida sull’uso degli strumenti poct [3] che, se correttamente utilizzati, possono influire sulla durata della permanenza nel dipartimento d’emergenza [4,5]. pochi studi hanno analizzato sistematicamente il rapporto costo/efficacia del poct e con risultati contrastanti, forse perché tale rapporto varia con la patologia e il tipo di test [4,6-8]; inoltre, le condizioni di conservazione e le differenze fra lotti influenzano la qualità analitica [9,10]. in conclusione, la letteratura non conferma molti dei presunti vantaggi del poct, anche se gli attribuisce un ruolo nel migliorare il controllo glicemico, l’assetto lipidico e la sicurezza della terapia anticoagulante [4,6,11-14]. il poct è efficace nella prevenzione primaria e secondaria delle malattie metaboliche e delle loro complicanze acute e croniche mediante il monitoraggio dei livelli ematici e/o urinari di glucosio, chetoni, hba1c, lipidi e albumina [15]; l’immediatezza dei risultati ha un impatto positivo sul processo terapeutico promuovendo la comunicazione tra paziente e operatore sanitario e rinforzando l’apprendimento [16]. dispositivi portatili per la determinazione di glicemia e hba1c uno degli obiettivi della terapia del diabete mellito è il mantenimento di un adeguato controllo glicemico [17]. l’autocontrollo domiciliare della glicemia e la periodica verifica dei livelli di hba1c permettono di valutare l’efficacia della terapia adottata. la misurazione della glicemia capillare ha sostituito la determinazione semiquantitativa del glucosio urinario [18]. gli obiettivi glicemici raccomandati nei diabetici adulti dall’american diabetes association (ada) sono: glicemia capillare preprandiale 70-130 mg/dl e posprandiale < 180 mg/dl [17]. l’imprecisione dei glucometri e la modesta riproducibilità precludono il loro impiego nella diagnosi di diabete mellito [18]. comunque, anche se strumentoe operatore-dipendente [18], l’automonitoraggio glicemico è considerato un vero strumento terapeutico, in particolare nei pazienti trattati con insulina. la maggior parte dei glucometri in commercio usa un metodo elettrochimico: l’enzima glucosio ossidasi catalizza l’ossidazione del β-d-glucosio a d-glucono-1,5-lattone in presenza di flavina adenina dinucleotide con produzione finale di perossido d’idrogeno. molti fattori possono interferire con la determinazione glicemica: trattamento dialitico, insufficienza circolatoria, disidratazione, ossigenazione ematica, sostanze riducenti, iperbilirubinemia, dislipidemia, estremi di ematocrito (figura 1), errori di esecuzione, temperatura e umidità ambiente e differenze fra lotti di strisce reattive [19-23]. l’errore totale < 5% raccomandato dall’ada è difficilmente ottenibile [20], specie quando lo strumento non è utilizzato da personale tecnico [23]. la misurazione periodica dei livelli di hba1c riflette l’andamento del controllo glicemico nei 120 giorni precedenti e deve essere eseguita solo da laboratori che usano figura 1 influenza dell ’ematocrito sulla differenza assoluta fra glicemia capillare e glicemia di riferimento [19-23] ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3) 109 e. matteucci, o. giampietro metodi di dosaggio certificati dal national glycohemoglobin standardization program (ngsp) e partecipano a programmi di valutazione esterna della qualità [18]. alcuni strumenti poct per la determinazione dell’hba1c mediante il principio dell’immunodosaggio hanno ottenuto la certificazione ngsp e dispongono di materiali di controllo esterno di qualità [24] (figura 2). la disponibilità della determinazione poct dell’hba1c migliora il controllo metabolico del paziente diabetico a breve e lungo termine [12,13]. determinazione dei corpi chetonici la chetonemia normale non supera i 0,5 mmol/l; β-idrossibutirrato (βhba) e acido acetoacetico (acac) sono presenti in quantità equimolari, l’acetone volatile è presente in piccole quantità. per prevenire la chetoacidosi, i soggetti affetti da diabete di tipo 1 sanno di dover controllare i chetoni urinari o plasmatici in caso di iperglicemia prima di iniziare un’attività fisica intensa e in corso di malattia intercorrente [17]. un paziente con glicemia > 250 mg/dl e chetonemia > 0,5 mmol/l necessita di intervento terapeutico specifico; con chetonemia > 3,0 mmol/l, è indicato il ricovero [25]. in ospedale, è opportuno misurare i chetoni quando una condizione clinica acuta è associata a iperglicemia; la loro misurazione serve alla diagnosi e al monitoraggio dello stato chetoacidosico [26]. le strisce che usano la reazione con il nitroprusside eseguono una stima semi-quantitativa di acac, ma non di βhba. gli strumenti che misurano il βhba sfruttando la conversione del βhba ad acac catalizzata dalla β-idrossibutirrato deidrogenasi in presenza di nad+, forniscono risultati accurati e precisi [27], ma hanno un costo elevato e il loro uso è limitato ai soggetti con un rischio elevato di episodi di chetoacidosi. valutazione dell’assetto lipidico il national cholesterol education program (ncep) raccomanda che tutti gli adulti oltre i 20 anni di età eseguano una misurazione dei lipidi plasmatici almeno ogni 5 anni (http://www.nhlbi.nih.gov/guidelines/ cholesterol/index.htm). il rischio di malattia cardiovascolare è particolarmente elevato nella popolazione diabetica che dovrebbe controllare il profilo lipidico completo almeno annualmente o ogni 2 anni in caso di rischio modesto (colesterolo ldl < 100 mg/dl, hdl > 50 mg/dl e trigliceridi < 150 mg/dl) [17]. il cholesterol reference method laboratory network (crmln) certifica i prodotti diagnostici per la misurazione dei lipidi plasmatici secondo le linee guida ncep [28]. l’errore totale (somma del bias + 1,96 coefficiente di variazione o cv, dove il bias è la differenza media fra valore misurato e valore di riferimento espresso come percentuale del valore di riferimento, e il cv totale comprende la variabilità intrae inter-dosaggio) dovrebbe essere ≤ 8,9% per il colesterolo totale, ≤ 12% per il colesterolo ldl, ≤ 13% per il colesterolo hdl e ≤ 15% per i trigliceridi. la tecnologia poct sta diventando popolare per la determinazione dei lipidi plasmatici. dopo idrolisi degli esteri del colesterolo l’enzima colesterolo-ossidasi catalizza l’ossidazione del colesterolo a colest4-ene-3-one e perossido d’idrogeno [29]; una reazione perossidasi-mediata converte un cromogeno e l’intensità del colore è letta fotometricamente. in alternativa, un biosensore amperometrico misura l’intensità di corrente. la stessa reazione misura anche il colesterolo hdl previa precipitazione delle lipoproteine non-hdl [30]; il colesterolo ldl è quindi calcolato con la formula di friedewald (colesterolo ldl = colesterolo totale – colesterolo hdl – trigliceridi/5). esistono in commercio strisce reattive per la determinazione quantitativa diretta del colesterolo ldl su sangue intero, che sfruttano la diversa densità di carica superficiale delle figura 2 confronto fra le percentuali di hba1c dosate con poct (metodica di tipo immunologico) o con il metodo di riferimento (cromatografia a scambio ionico) [24] ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3)110 il point-of-care testing in diabetologia lipoproteine [31]. i trigliceridi sono idrolizzati dalla lipoproteinlipasi a glicerolo e acidi grassi; l’enzima glicerolochinasi catalizza il trasferimento di un fosfato dall’atp al glicerolo formando glicerolo-3-fosfato che è poi convertito dalla glicerofosfato ossidasi a diossiacetonefosfato e perossido d’idrogeno. nonostante l’evoluzione tecnica, gli strumenti poct per la determinazione del pannello lipidico non sempre hanno soddisfatto le linee guida ncep [11,32-34]. l’ampiezza del bias limita l’utilità clinica della determinazione [32]. per tali motivi, l’assetto lipidico valutato mediante poct non può servire a stabilire diagnosi o terapie nei singoli pazienti. albuminuria la nefropatia diabetica è una delle cause più comuni di insufficienza renale cronica. è segno precoce di nef ropatia diabetica l’escrezione urinaria di albumina (uaer) in quantità superiori alla norma, ma ancora non dosabili con i test convenzionali. si chiama microalbuminuria un’uaer compresa fra 20 e 200 µg/min (o un rapporto albumina/ creatinina, acr, di 30-300 µg/mg su un campione estemporaneo). a causa della variabilità dell’uaer, la diagnosi richiede che siano patologiche almeno due di tre raccolte urinarie in un periodo di 3-6 mesi. i controlli andrebbero eseguiti annualmente nei soggetti con diabete di tipo 1 con durata di malattia ≥ 5 anni e nei pazienti con diabete di tipo 2 a partire dal momento della diagnosi [17]. le linee guida raccomandano che gli screening siano eseguiti con test dotati di elevata sensibilità (positivi in > 95% dei pazienti con microalbuminuria); il risultato patologico deve essere poi confermato mediante metodo quantitativo da laboratori accreditati [18]. gli analizzatori poct da banco misurano la creatinina colorimetricamente e l’albumina mediante reazione immunoturbidimetrica; la sensibilità e la specificità della diagnosi di microalbuminuria sono risultate 92 e 98%, rispettivamente [35]. alcuni tipi di strisce hanno mostrato una sensibilità del 79% e una specificità del 81% (potere predittivo positivo 46% e potere predittivo negativo 95%) [36]. le strisce immunoenzimatiche, che impiegano anticorpi anti-albumina coniugati con β-galattosidasi, hanno una sensibilità dell’88% e una specificità dell’80% (potere predittivo positivo 69% e potere predittivo negativo 92%) [37]. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. bibliografia ehrmeyer ss, laessig rh. point-of-care testing, medical error, and patient safety: a 2007 1. assessment. clin chem lab 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precision of a dry-chemistry method of lipid screening. 33. public health 2006; 120: 572-6 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3)112 il point-of-care testing in diabetologia shephard md, mazzachi bc, shephard ak. comparative performance of two point-of-care 34. analysers for lipid testing. clin lab 2007; 53: 561-6 sarafidis pa, riehle j, bogojevic z, basta e, chugh a, bakris gl. a comparative evaluation of 35. various methods for microalbuminuria screening. am j nephrol 2008; 28: 324-9 le floch jp, marre m, rodier m, passa ph. interest of clinitek microalbumin in screening 36. for microalbuminuria: results of a multicentre study in 302 diabetic patients. diabetes metab 2001; 27: 36-9 parikh cr, fischer mj, estacio r, schrier rw. rapid microalbuminuria screening in type 2 37. diabetes mellitus: simplified approach with micral test strips and specific gravity. nephrol dial transplant 2004; 19: 1881-5 clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 153 luca masotti 1,5, giancarlo landini 1, fabio antonelli 2, elio venturini 3, roberto cappelli 4, paola rottoli 5 l’applicabilità clinica del d-dimero nella diagnosi di embolia polmonare si riduce nei pazienti anziani caso clinico 1 una donna di 77 anni venne ricoverata per riferita sincope preceduta da prodromi lipotimici associata a dolore lombosciatalgico sinistro non responsivo a nimesulide. in anamnesi si evidenziava un pregresso episodio di embolia polmonare acuta dopo intervento ortopedico al ginocchio sinistro 4 anni prima e safenectomia bilaterale circa 20 anni prima. la paziente era affetta da coxartrosi sinistra in trattamento con fans, ipertensione arteriosa in trattamento con sartani e ipercolesterolemia in trattamento con statine. all’ingresso in reparto la donna era vigile, collaborante e non presentava deficit neurologici. l’esame obiettivo generale risultava nella norma per quanto riguarda gli apparati cardiovascolare, respiratorio e digerente. non si evidenziavano segni clinici di trombosi venosa profonda (tvp) agli arti abstract despite modern algorithms have been proposed for diagnosis of pulmonary embolism (pe), it remains understimed and often missed in clinical practice, especially in elderly patients, resulting in high morbidity and mortality when early and correctly untreated. one of the main controversial issue is represented by the role and applicability of d-dimer in the diagnostic work up of geriatric patients. most recent guidelines in young-adult patients suggest to perform d-dimer assay by elisa or immunoturbidimetric methods only in non high pre-test clinical probability (ptp) patients; in these patients negative d-dimer can safely rule out the diagnosis of pe. this strategy is safe also in elderly patients; however the percentage of patients with non high ptp and negative d-dimer reduces progressively with age, making difficult its clinical applicability. the authors, starting from two case reports, up date the diagnostic management of pe underling the limitations of d-dimer assay in elderly patients. keywords: d-dimer, clinical probability, pulmonary embolism, diagnosis, elderly clinical applicability of d-dimer assay in the diagnosis of pulmonary embolism reduces with aging. cmi 2007; 1(4): 153-164 1 u.o. medicina interna, ospedale di cecina, asl 6 livorno 2 u.o. chimica clinica, ospedale di cecina, asl 6 livorno 3 u.o. cardiologia, ospedale di cecina, asl 6 livorno 4 dipartimento di medicina interna, cardiovascolare e geriatrica, università degli studi di siena 5 dipartimento di medicina clinica e scienze immunologiche, sezione di malattie dell’apparato respiratorio, università degli studi di siena caso clinico corresponding author dott. luca masotti u.o. medicina interna ospedale di cecina via montanara, loc. ladronaia 57023 cecina (li) luca.masotti@tin.it perché descriviamo questi casi? per evidenziare le problematiche diagnostiche dell ’embolia polmonare (ep) nel paziente anziano. presentazione clinica, esami strumentali e di laboratorio possono essere ancor meno specifici rispetto al giovane adulto e talora atipici, determinando talvolta ritardi diagnostici o addirittura diagnosi sbagliate e quindi esponendo il paziente a terapie non corrette. in particolare la stima della probabilità clinica e il dosaggio del d-dimero, punti chiave nell’iter diagnostico dell’ep, possono avere una applicabilità clinica ridotta in questa fascia di età, determinando un aumento dei costi (pazienti anziani con bassa o moderata probabilità clinica pre-test hanno d-dimero elevato in maggior percentuale rispetto al giovaclinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 154 l’applicabilità clinica del d-dimero nella diagnosi di embolia polmonare si riduce nei pazienti anziani ne adulto e questo comporta l ’esecuzione di indagini strumentali che poi risultano negative) ed esponendo i pazienti a maggiori rischi conseguenti alle indagini diagnostiche inferiori. i parametri vitali apparivano nella norma (pressione arteriosa = 110/70 mmhg, fc = 80 bpm, fr = 16 atti/minuto). l’ecg mostrava ritmo sinusale normofrequente, pr, qrs e tratto st nella norma. gli esami ematici erano nella norma. il medico di guardia prescriveva l’infusione di soluzione fisiologica 1.000 cc/die e confermava la terapia in atto da parte della paziente con l’aggiunta di enoxaparina 4.000 ui come profilassi del tromboembolismo venoso (tev ), vista l’anamnesi e la ridotta mobilizzazione della paziente. il giorno seguente la paziente presentava un improvviso malessere associato a dispnea, lipotimia, tachipnea, tachicardia e ipotensione arteriosa (pa = 100/60 mmhg). l’ecg evidenziava tachicardia sinusale (110 bpm), per il resto nei limiti; l’ega evidenziava ipossiemia (pao2 = 56 mmhg) con lieve alcalosi respiratoria (ph = 7,47, paco2 = 36 mmhg). gli esami evidenziavano un discreto calo dell’hb (da 12,5 g/dl a 10,7 g/dl). la stima della probabilità clinica pre-test mediante score di wells modificato evidenziava non alta ptp. il dosaggio del d-dimero mostrava un notevole incremento (5.720 µg/l). l’ultrasonografia venosa degli arti inferiori non evidenziava tvp. veniva eseguita tc polmonare e addome urgente che escludeva la presenza di formazioni trombo-emboliche, ma mostrava emorragia retroperitoneale che veniva oltremodo confermata da un ulteriore calo dell’hb che risultava 7,7 g/dl. la paziente veniva sottoposta in urgenza a emotrasfusioni di globuli rossi concentrati e veniva portata direttamente in sala operatoria per intervento chirurgico. caso clinico 2 una donna di 87 anni fu ricoverata per comparsa improvvisa di dolore epigastrico associato a dispnea a carattere peggiorativo. in anamnesi patologica remota si segnalava pregresso infarto acuto del miocardio con successivo intervento di by-pass aorto coronarico, pregresso impianto di pacemaker cardiaco artificiale per sindrome bradicardica/tachicardica, diverticolosi del colon e artrite reumatoide in fase di quiescenza. quindici giorni prima la paziente era stata ricoverata in altro reparto dell’ospedale per emorragia acuta da gastrite erosiva secondaria all’uso di acido acetilsalicilico che aveva necessitato di 4 unità di globuli rossi concentrati oltre a terapia con inibitori della pompa protonica ev. da segnalare in terapia l’uso di farmaci beta-bloccanti (bisoprololo 2,5 mg/die). all’ingresso in reparto la paziente presentava tachipnea (22 atti respiratori/minuto), ipotensione arteriosa (90/60 mmhg), normale frequenza cardiaca (78 bpm, probabile effetto del beta-blocco) con tracciato ecg che evidenziava ritmo completamente indotto da pm. l’emogasanalisi mostrava quadro di importante ipossiemia (pao2 = 46 mmhg), ipocapnia (paco2 = 29 mmhg), ph sostanzialmente nei limiti con tendenza all’acidosi (7,37) che risultava di tipo metabolico dal valore dei bicarbonato (hco3 = 16 mmol/l). dagli esami ematici emergevano anemia microcitica (hb 9,9 g/dl, mcv = 74), lieve incremento del cpk mb (7,10) e discreto della troponina i (0,30 mg/dl), lieve insufficienza renale (creatinina 1,2 mg/dl, azotemia 67 mg/dl). la radiografia del torace evidenziava modesto impegno interstiziale di tipo edemigeno con minima obliterazione dei seni costo-frenici bilateralmente come da lieve versamento pleurico bilaterale. il sospetto iniziale era quello di scompenso cardiaco in soggetto con sindrome coronarica acuta. comunque veniva valutata la probabilità clinica pre-test per embolia polmonare secondo score di wells modificato che risultava non alta. il dosaggio del d-dimero mostrava notevole incremento (4.439 µg/l). l’ultrasonografia degli arti inferiori non indicava tvp. l’ecocardiogramma mostrava compromissione della cinesi in sede inferoposteriore (già presente in precedente eco), frazione di eiezione moderatamente compromessa (45%) e dilatazione delle sezioni destre (non presente in precedente eco) con pressione arteriosa polmonare stimata, sul rigurgito tricuspidale, di circa 50 mmhg. data anche la comparsa di tachicardia con evidenza di blocco di branca destro completo al monitor ecg, la paziente veniva sottoposta ad angio tc polmonare spirale (figura 1) che mostrava quadro di completa ostruzione di tipo tromboembolico del ramo destro dell’arteria polmonare principale. clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 155 l. masotti, g. landini, f. antonelli, e. venturini, r. cappelli, p. rottoli l e domande da porsi di fronte al sospetto di ep nell’anziano che tipo di metodica per il dosaggio del d-dimero è stata usata: elisa, immunoturbidimetrica, latex o agglutinazione? che sensibilità, specificità, potere predittivo negativo ha tale metodica? qual è la probabilità clinica pre-test di quel paziente? quali sono le indagini che si sono dimostrate utili per il raggiungimento della diagnosi? quali sono i rischi, in termini di effetti collaterali, delle indagini diagnostiche per quel paziente? discussione i due casi clinici descritti evidenziano il processo di esclusione (caso 1) o conferma (caso 2) dell’embolia polmonare (ep) in pazienti anziani. di seguito vengono esposte sinteticamente le linee guida della diagnosi di ep e i particolari aspetti del processo diagnostico di questa patologia nell’anziano, evidenziando il ruolo e l’applicabilità clinica del d-dimero. diagnosi di embolia polmonare la diagnosi di ep in tutti i pazienti, anziani e giovani adulti, richiede un elevato      grado di sospetto clinico; questo deriva dall’integrazione di anamnesi, fattori di rischio per tev (tabella i) e risultato degli esami strumentali considerati di primo livello quali elettrocardiogramma a 12 derivazioni (ecg), emogasanalisi (ega) e radiografia del torace, tutti utili per avvalorare il sospetto clinico ma non specifici e non conclusivi, se non in pochi casi [1-6]. l’iter diagnostico successivo dell’ep prevede la valutazione della probabilità clinica pre-test (ptp) [1-6]: essa quantifica a priori, per mezzo di un punteggio (score), classi di pazienti a differente probabilità di avere figura 1 angio tc polmonare spirale. la freccia indica difetto di riempimento del ramo destro da tromboembolia ap = arteria polmonare ramo dx = ramo destro dell’ap ipercoagulabilità età avanzata gravidanza/contraccettivi orali neoplasie fumo storia personale e/o familiare di tev malattia di crohn sindrome nefrosica anormalità piastriniche/trombofilia congenita o acquisita (deficit di antitrombina iii, proteina c, proteina s, iperomocisteinemia, sindrome da anticorpi antifosfolipidi, ecc) stasi venosa età avanzata immobilità/ospedalizzazione/istituzionalizzazione obesità scompenso cardiaco stroke neoplasie bpco lunghi viaggi insufficienza venosa cronica/vene varicose sindromi da iperviscosità danno della parete vasale interventi chirurgici traumi fratture tabella i fattori di rischio per tromboembolismo venoso (tev ) suddivisi in base alla classica triade di virchow ap ramo dx clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 156 l’applicabilità clinica del d-dimero nella diagnosi di embolia polmonare si riduce nei pazienti anziani realmente una ep. i due principali modelli per la stima della ptp sono lo score di wells e quello di ginevra: entrambi sono stati recentemente modificati [7,8]. il primo identifica attualmente due classi di pazienti: a non alta e ad alta ptp; il secondo continua a identificare tre classi di pazienti: a bassa, moderata e alta ptp (tabella ii e iii). la stima della ptp dovrebbe fare da guida al dosaggio del d-dimero, prodotto di degradazione della fibrina attivata, l’aumento del quale al di sopra del cut-off di 500 µg/l identifica la presenza di fibrinolisi reattiva. il d-dimero si innalza nelle situazioni di tromboembolismo venoso, ma l’elevazione del d-dimero è estremamente aspecifica. concentrazioni elevate di d-dimero sono state infatti descritte in molte condizioni fisiologiche e patologiche (tabella iv ); esistono peraltro condizioni in cui il d-dimero non incrementa in maniera anomala a causa di deficit nell’attività fibrinolitica o nel caso di pazienti che hanno iniziato terapia con eparina o sono in terapia anticoagulante orale [9]. limitazioni dell’applicabilità clinica del d-dimero nei pazienti con sospetto tev sono state segnalate in individui anziani (vedi paragrafo successivo), ospedalizzati, sottoposti a interventi chirurgici, donne in gravidanza o post partum, in soggetti con alta ptp e infine in soggetti con episodi precedenti di tev [10]. esistono in commercio diverse metodiche per il dosaggio del d-dimero, le principali delle quali sono rappresentate dal metodo di agglutinazione al lattice, dal metodo immunoenzimatico elisa (quantitativo, semiquantitativo rapido e qualitativo rapido), da quello immunoturbidimetrico e dal metodo di agglutinazione su sangue intero. tali metodiche hanno differenti sensibilità, specificità e potere predittivo negativo. una recente metanalisi ha concluso che le metodiche elisa in generale (standard e rapide) offrono vantaggi in termini di sicurezza clinica avendo maggiore sensibilità (95% circa) e alto potere predittivo negativo (85-90% circa), seppur bassa specificità (4050%) [11]. la tabella v riassume i dati di questa analisi. le evidenze scientifiche attualmente presenti in letteratura indicano che il dosaggio punti sospetta tvp 3,0 una diagnosi alternativa è meno probabile che l’ep 3,0 frequenza cardiaca > 100 bpm 1,5 immobilizzazione o interventi chirurgici nelle 4 settimane precedenti 1,5 precedenti tvp/ep 1,5 emottisi 1,0 neoplasie 1,0 risultati: ≤ 4 punti  probabilità non alta > 4 punti  probabilità alta   tabella ii score di wells modificato tabella iii score di ginevra modificato punti età > 65 anni 1 precedenti tvp/ep 3 recenti interventi chirurgici o fratture (entro 1 mese) 2 frequenza cardiaca ≥ 75 e ≤ 94 bpm 3 frequenza cardiaca ≥ 95 bpm 5 emoftoe 2 neoplasie in fase attiva 2 dolore unilaterale arti inferiori 3 dolore unilaterale arti inferiori + edema 4 risultati: ≤ 3 punti  probabilità bassa ≥ 4 ≤ 10 punti  probabilità moderata ≥ 11 punti  probabilità alta    clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 157 l. masotti, g. landini, f. antonelli, e. venturini, r. cappelli, p. rottoli del d-dimero nel sospetto di ep è da raccomandare nel soggetto con non alta ptp secondo lo score di wells e bassa/moderata ptp secondo lo score di ginevra. il dosaggio del d-dimero non è al contrario raccomandato nel paziente con alta ptp [1-6]. nei soggetti con non alta ptp la negatività del d-dimero dosato con metodica elisa o immunoturbidimetrica esclude in maniera sufficientemente sicura la diagnosi di ep (eventi tromboembolici venosi a 3 mesi dall’esclusione inferiori al 2%) [1-6,11]. la positività del d-dimero in soggetti con non alta ptp prevede la prosecuzione degli accertamenti diagnostici di conferma/esclusione. nel soggetto con alta ptp, qualora venga effettuato il dosaggio del d-dimero e risulti negativo (evento possibile, seppur in bassissima percentuale), l’iter diagnostico deve comunque essere proseguito [1-6]. in calce all’articolo viene rappresentato uno dei più recenti algoritmi diagnostici per ep. la conferma diagnostica di ep avviene mediante indagini strumentali: angio tc polmonare (tc spirale), scintigrafia polmonare perfusionale o ventilatoria/perfusionale, angio-rm polmonare o angiografia polmonare [1-6]. quest’ultima fino a pochi anni fa era considerata il gold standard diagnostico. attualmente è riservata a una minoranza di casi per la scarsa disponibilità e i potenziali effetti collaterali legati al mezzo di contrasto con in prima istanza l’insufficienza renale acuta e le reazioni allergiche. la tc polmonare è divenuta negli ultimi anni l’esame di prima istanza per l’ampia diffusione, i relativi bassi costi e i tempi di esecuzione piuttosto rapidi [12]. nelle strumentazioni di ultima generazione (multistrato) l’esame riesce a identificare anche le forme periferiche (limite delle tc di prima generazione); quando una tc polmonare multistrato è negativa, l’iter diagnostico di ep può essere concluso [2]. la scintigrafia polmonare dovrebbe essere effettuata solo se disponibile in loco, se la radiografia del torace è negativa e il paziente non è affetto da importante malattia cardiopolmonare pre-esistente (evento difficile nel paziente anziano) e in donne in gravidanza [1]. l’angio-rm polmonare è poco diffusa, costosa e per il momento dovrebbe essere riservata solamente a donne in gravidanza con sospetta ep in alternativa alla scintigrafia polmonare o a pazienti con nota allergia al mezzo di contrasto [1,4,5]. l’uso dell’ecocardiogramma in fase diagnostica è riservato solo al paziente con presentazione di ep massiva, al fine di escludere diagnosi alternative (infarto del miocardio, dissecazione aortica, tamponamento cardiaco, ecc.) [13]. l’ecocardiogramma riveste una fondamentale importanza ai fini della terapia qualora si evidenzi una compromissione ventricolare destra emodinamica, che indirizza all’uso della trombolisi, o non emodinamica, che indirizza alla terapia con eparina non frazionata (sodica) ev. ha infine valore importante nella stratificazione prognostica [2,13,14]. l’ultrasonografia venosa, con metodica a compressione o color-doppler, dovrebbe essere riservata a pazienti con sospetta tvp o tabella iv cause di incremento del d-dimero invecchiamento gravidanza fumo di sigaretta razza nera interventi chirurgici traumi/fratture pre-eclampsia neoplasie infezioni coagulazione intravascolare disseminata (cid) tev fibrillazione atriale sindromi coronariche acute stroke emorragie tabella v specificità, sensibilità e potere predittivo negativo per ep delle metodiche disponibili per il dosaggio del ddimero (valori medi). modificata da [11] metodica sensibilità (%) specificità (%) potere predittivo negativo (%) elisa 95 44 87 elisa rapido quantitativo 95 39 87 elisa rapido semiquantitativo 93 36 80 elisa rapido qualitativo 93 68 89 latex quantitativo 89 45 76 latex semiquantiativo 92 45 83 agglutinazione sangue intero 78 74 69 clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 158 l’applicabilità clinica del d-dimero nella diagnosi di embolia polmonare si riduce nei pazienti anziani in quelle situazioni in cui non è disponibile altra strumentazione, oppure c’è alto rischio di effetti collaterali legati a tale strumentazione oppure si scelga un approccio iniziale meno invasivo [1-6, 15]. nel paziente con alta ptp la presenza di una tvp impone la sospensione delle indagini diagnostiche e l’inizio della terapia [1-6]. come è evidente dalla precedente esposizione, uno dei passaggi fondamentali nell’iter diagnostico dell’ep è la valutazione combinata di ptp e d-dimero che permette di escludere direttamente la presenza di ep o proseguire nelle indagini strumentali per confermarla o escluderla. diagnosi di embolia polmonare nell’anziano e applicabilità clinica del d-dimero l’embolia polmonare nel paziente anziano rimane ancora una patologia sottostimata e sotto-diagnosticata, nonostante incidenza, prevalenza, morbidità e mortalità incrementino esponenzialmente con l’età [16]. l’età superiore ai 75 anni è un fattore prognostico negativo nei pazienti con ep, in termini di sopravvivenza a breve e a lungo termine, ed è stata inserita da auyesky e coll. tra i parametri clinici valutati all’ingresso in reparto indicativi di alto rischio di eventi avversi insieme con ipotensione arteriosa, tachicardia, tachipnea, iposaturazione arteriosa di ossigeno, delirium e presenza di comorbidità [17]. l’ep rimane ancora oggi negli anziani la causa acuta di morte meno sospettata dai clinici. il 40% dei casi di ep in pazienti anziani riscontrati al tavolo autoptico non è infatti diagnosticato ante mortem [18]. nel paziente anziano il processo diagnostico dell’ep presenta molti dubbi e poche certezze [19]. nel paziente anziano la presentazione clinica dell’ep è infatti ancor meno specifica che nel giovane adulto e range fattori di rischio per tev immobilizzazione tvp precedenti tvp/ep chirurgia scompenso cardiaco neoplasie bpco stroke ima 15-67% 15-50% 18-41% 5-44% 5-33% 4-32% 2-27% 3-11% 3-11% sintomatologia e obiettività clinica dispnea dolore toracico sincope tosse emoftoe tachicardia tachipnea shock 59-91,5% 26-57% 8-62% 12-43% 3-14% 29-76% 46-74% 5-31% ecg normale tachicardia sinusale f.a. bbdx s1q3t3 anomalie st-t 21-50% 18-62,5% 7-20,5% 4,5-40,5% 4,5-14% 4-56% rx torace anormale cardiomegalia segni di edema polmonare versamento pleurico atelectasie sovraelevazione emidiaframma 38-96% 22-64% 13-30,5% 15,8-57% 8,5-71% 8,5-28% ecocardiogramma segni di impegno cardiaco destro 50-60% ega pao 2 media paco 2 media d(a-a)o 2 medio 53,5-61,4 mmhg 30-42,1 mmhg 44,8-46,6 mmhg tabella vi range di presentazione di fattori di rischio per tev, sintomatologia, manifestazioni elettrocardiografiche, radiologiche del torace, ecocardiografiche ed emogasanalitiche di pazienti anziani con diagnosi di tev derivati dalla revisioni dei principali studi clinici presenti in letteratura dal 1986 al 2005. il range riporta la percentuale più bassa e più alta riscontrata negli studi analizzati. totale di pazienti analizzati = 650, di cui 246 maschi e 404 femmine. modificata da [19] clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 159 l. masotti, g. landini, f. antonelli, e. venturini, r. cappelli, p. rottoli spesso atipica, rendendo la diagnosi difficile e in molti casi tardiva o addirittura omessa ed effettuata, negli eventi fatali, al tavolo autoptico. pertanto il sospetto clinico di ep in un paziente anziano può non essere immediato e ciò può contribuire a ritardi o errori diagnostici. sintomatologia e obiettività clinica, esami strumentali di primo e secondo livello ed esami di laboratorio possono risentire della frequente comorbidità tipica del paziente anziano; il range di possibilità diagnostiche nell’anziano si amplia notevolmente essendo molto frequenti in quest’età patologie da mettere in diagnosi differenziale con l’ep quali scompenso cardiaco, riacutizzazione di broncopneumopatia cronica ostruttiva, polmoniti, sindromi coronariche acute, ecc [20]. non è da trascurare neanche la possibilità che nell’anziano la causa di una insufficienza respiratoria possa essere dovuta alla presenza contemporanea di due o più cause oppure che una patologia da mettere in diagnosi differenziale con l’ep, quale uno scompenso cardiaco, possa essere la causa stessa di una ep favorita dall’allettamento prolungato [21]. questa frequente comorbidità influenza il punto chiave del processo decisionale diagnostico dell’ep, come detto rappresentato dalla stima della ptp e dal dosaggio conseguente del d-dimero. in tabella vi vengono esposti i risultati principali di una recente revisione sulla presentazione clinica dell’ep nell’anziano [19]. due recenti evidenze della letteratura hanno mostrato che la percentuale di pazienti con alta ptp aumenta con l’aumentare dell’età mentre la percentuale di pazienti con l’associazione non alta ptp/d-dimero negativo si riduce progressivamente nelle classi di età più avanzata, raggiungendo percentuali inferiori al 15% sopra i 75 anni [22,23]. evidenze scientifiche hanno dimostrato che il dosaggio del d-dimero nel paziente anziano con sospetta tev potrebbe essere di scarsa utilità clinica; infatti la percentuale di pazienti con bassi valori di d-dimero, criterio che permetterebbe di escludere la diagnosi nel caso di non alta ptp, si riduce progressivamente con l’incrementare dell’età, tanto che è stimato che meno del 20-25% dei pazienti anziani ultrasettantacinquenni con sospetta ep abbia valori di d-dimero inferiori a 500 µg/l (tabella vii) [24]. la figura 2 mostra i risultati di un recente studio effettuato su pazienti non selezionati con problematiche mediche (erano stati esclusi pazienti con problematiche chirurgiche e/o ortopediche, in cui generalmente il d-dimero risulta superiore al cut-off) afferenti presso il pronto soccorso o già ricoverati in reparti di medicina interna e cardiologia in cui era stato effettuato il dosaggio del d-dimero con metodica elisa (vidas, bioumerieux, francia, sensibilità 100%, specificità 32%) in cui il d-dimero era stato dosato per sospetto tev; nonostante le limitazioni dovute alla retrospettività, l’assenza di valutazione della ptp, della comorbidità e l’assenza di criteri di esclusione, lo studio conferma come la percentuale dei pazienti anziani con d-dimero negativo sia molto tabella vii percentuale di negatività del d-dimero in pazienti anziani con sospetto tev, escluso da accertamenti diagnostici, ricavate dai principali studi presenti in letteratura. modificata da [24] p = prospettico r = retrospettivo quant = quantitativo * retrospettivo analisi post hoc di uno studio prospettico riferimento tipo di tev n° di pz analizzati metodo d-dimero età (anni) d-dimero neg (%) valutazione ptp setting criteri esclusione tipo di studio tardy, throm haemost 1998 ep 53 semi-quant. elisa ≥ 70 17,8 no in/out sì p le blanche, angiology 1999 tvp 98 quant. elisa ≥ 70 3 no in sì p barro, thromb res 1999 tvp/ep 27 quant. latex ≥ 80 0 no in/out sì p masotti, thromb res 2000 ep 23 quant. latex ≥ 65 24 no in/out no r righini, am j med 2000 ep 337 quant. elisa ≥ 60 27 sì out sì p söhne, thromb haemost 2005 pe 234 quant. immunoturbidimetrico ≥ 65 17 sì in/out sì p schutgens, br j haematol 2005 tvp 203 quant. latex ≥ 73,8 12 sì out sì r* aguilar, br j haematol 2005 tvp 387 quant. immunoturbidimetrico ≥ 61 15 sì out sì p clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 160 l’applicabilità clinica del d-dimero nella diagnosi di embolia polmonare si riduce nei pazienti anziani bassa (23,7%, 19,1% e 4,4% rispettivamente nei pazienti con gruppi di età 65-74, 75-84 e ≥ 85 anni) e quindi la applicabilità clinica del d-dimero negli anziani sia molto ridotta [25]. questi dati sono stati recentemente confermati da un altro studio di harper e coll. che hanno evidenziato, utilizzando lo stesso d-dimero con metodica elisa (vidas, bioumerieux, francia) come la percentuale di soggetti non selezionati, afferenti a pronto soccorso, di età compresa tra 60 e 80 anni con d-dimero negativo sia del 26% e diventi del 5% nei soggetti con età maggiore di 80 anni [26]. lo stesso studio evidenzia come la specificità del d-dimero si riduca progressivamente dai soggetti con meno di 40 anni (specificità del 70,5%) ai soggetti con più di 80 anni (specificità del 4,5%) [26]. una specificità del 5%, utilizzando sempre lo stesso tipo di d-dimero, è stata osservata da righini e coll. in pazienti di età superiore a 80 anni con bassa/moderata probabilità per ep, risultando invece del 51% nei soggetti con età inferiore ai 40 anni [10]. al fine di aumentare la applicabilità clinica e la specificità del d-dimero nel paziente anziano è stato proposto di aumentare il cutoff di 500 µg/l. gli studi fino ad ora effettuati hanno condotto a risultati contrastanti; se da un lato infatti potrebbe aumentare la specificità del dosaggio, dall’altro si verifica una pericolosa riduzione di sensibilità che potrebbe determinare la mancata diagnosi di tev in soggetti ritenuti quindi falsamente negativi [27,28]. il recente già citato studio di harper e coll. sembrerebbe comunque smentire queste affermazioni, sostenute in passato da altri autori [27,28], dimostrando che innalzando a 750 µg/l e 1.000 µg/l il cut-off si otterrebbe un incremento notevole di specificità (da 25,3% a 43,4 e 55% rispettivamente nei pazienti nel gruppo di età 60-80 anni, da 4,5% a 13,1 e 27,3% rispettivamente nei pazienti con età > 80 anni) senza significativa perdita di sensibilità [26]. questi dati dovrebbero essere comunque presi con la dovuta cautela, essendo lo studio retrospettivo, e dovrebbero pertanto essere validati prospetticamente mediante l’utilizzo di ben stabiliti algoritmi diagnostici. per le limitazioni fin qui esposte sull’applicabilità del d-dimero nel paziente anziano righini e coll. hanno recentemente proposto un algoritmo diagnostico (riportato a pagina 162), ancora non validato, da attuare nel paziente anziano con sospetta ep in cui è evidente l’assenza di esecuzione routinaria del dosaggio del d-dimero anche in soggetti con non alta ptp, ritenuto di scarsa utilità viste le altissime percentuali di pazienti anziani con d-dimero elevato in assenza di fatti tromboembolici venosi e in molti casi fuorviante e/o responsabile di accertamenti strumentali spesso invasivi e non privi di rischi, eseguiti in conseguenza della sua elevazione e non in base alla clinica [15]. il dosaggio del d-dimero nell’anziano con sospetta ep sarebbe da effettuare solo in casi o situazioni particolari (mancanza di altre strumentazioni diagnostiche, alto rischio di eventi avversi durante l’esecuzione di procedure diagnostiche strumentali) [15]. come è possibile notare viene inoltre suggerito un approccio inizialmente non invasivo caratterizzato dall’esecuzione di un ecocolordoppler venoso la cui risposta dovrebbe essere integrata alla valutazione della ptp [15]. l’esecuzione del d-dimero in pazienti anziani con non alta ptp potrebbe quindi essere svantaggiosa in termini di costo/beneficio dato che molti pazienti, avendo d-dimero positivo, dovrebbero comunque essere sottoposti a ulteriori indagini strumentali. al fine di dimostrare questo rapporto costo/ beneficio, lo stesso gruppo di righini e coll. ha di recente effettuato una analisi su due precedenti coorti di pazienti sottoposti ad accertamenti per sospetto tev [10]. l’analisi ha dimostrato che, perlomeno fino a 80 anni, la strategia diagnostica comprensiva di dosaggio del d-dimero, sia in associazione all’esecuzione di ultrasonografia venosa che non risulta comunque vantaggiosa, seppur di poco, in termini economici rispetto alla strategia che non prevede il suo dosaggio. l’algoritmo sopra descritto potrebbe quindi in futuro essere proposto solo per pazienti 0 10 20 30 40 50 60 <54 55-64 65-74 75-84 >85 età (anni) % pronto soccorso medicina interna e cardiologia complessivi lineare (complessivi) lineare (ps) lineare (med. interna e cardiol.) figura 2 percentuali di pazienti con d-dimero negativo in base all ’età clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 161 l. masotti, g. landini, f. antonelli, e. venturini, r. cappelli, p. rottoli con età ≥ 80 anni. sono necessari futuri studi prospettici e multicentrici per chiarire questa controversia. per quanto riguarda, infine, gli esami di conferma diagnostica dell’ep nell’anziano, è stata dimostrata l’efficacia e la sicurezza dell’angiotc polmonare multistrato e dell’ultrasonografia venosa [10, 29, 30], mentre scintigrafia polmonare [31], ecocardiogramma [32] e angiografia polmonare [33] presentano limitazioni dovute rispettivamente alla frequente presenza di radiografie del torace alterate e/o alla presenza di malattie cardiopolmonari pre-esistenti (scintigrafia), comorbidità (ecocardiogramma) e più frequenti eventi avversi secondari all’uso di mezzo di contrasto (angiografia). conclusioni l’ep dovrebbe essere sempre sospettata, o quantomeno posta in diagnosi differenziale, in un paziente anziano che presenta dispnea o insufficienza respiratoria associata a tachicardia e/o dolore toracico, anche quando l’anamnesi, l’esame obiettivo e i dati strumentali non sono francamente orientativi di questa patologia. il punto chiave dell’iter diagnostico dell’ep, stima della ptp e dosaggio conseguente del d-dimero, è limitato dalla frequente comorbidità che determina una maggiore percentuale di pazienti anziani con alta ptp e una riduzione dei pazienti con l’associazione non alta ptp/d-dimero negativo, fondamentali per escludere la diagnosi. per tale motivo, anche per ripercussioni in termini costo/beneficio, dovrebbero essere favoriti nell’anziano, in particolar modo ultra-ottantenne, algoritmi che non utilizzano in maniera standardizzata il dosaggio del d-dimero, privilegiando indagini non invasive come primo step quali l’ultrasonografia venosa degli arti inferiori. algoritmo diagnostico per ep proposto dalla british thoracic society * effettuabile come alternativa alla tc polmonare se disponibile in loco, rx torace negativo e non anamnesi di malattia cardiopolmonare cronica tc torace scintigrafia polmonare* valutazione probabilità clinica pre-test d-dimero sospetta ep alta moderata bassa positivo negativo no ep diagnosi alternativa ep trattare clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 162 l’applicabilità clinica del d-dimero nella diagnosi di embolia polmonare si riduce nei pazienti anziani algoritmo diagnostico per ep nel paziente anziano proposto da righini e coll. [30] valutazione della probabilità clinica pre-test sospetto di ep negativa positiva ultrasonografia venosa a compressione arti inferiori tc polmonare spirale ep trattare positivo negativa alta probabilità clinica non alta probabilità clinica angiografia polmonare no ep/diagnosi alternativa bibliografia 1. british thoracic society guidelines for the management of suspected acute pulmonary embolism. thorax 2003; 58: 470-83 2. goldhaber sz, elliott cg. acute pulmonary embolism: part i. epidemiology, pathophysiology, and diagnosis. circulation 2003; 108: 2726-9 3. stein pd, woodard pk, weg jg, wakefield tw, tapson vf et al. diagnostic pathways in acute pulmonary embolism: recommendations of the pioped ii investigators. am j med 2006; 119: 1048-55 4. zonzin p, agnelli g, casazza f, favretto g, giuntini c, morpurgo, m et al. commento alle linee guida della task force sull’embolia polmonare della società europea di cardiologia. ital heart j supp 2001; 2: 1342-56 5. esc task force. guidelines 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calvo-romero jm, lima-rodriguez bm; bureo-dacal p, perez-miranda m. predictors of an intermediate ventilation/perfusion lung scan in patients with suspected pulmonary embolism. eur j emerg med 2005; 12: 129-31 32. chung t, emmett l, khoury v et al. atrial and ventricular echocardiographic correlates of the extent of pulmonary embolism in the elderly. j am soc echocardiogr 2006; 19: 347-53 33. stein pd, gottschalk a, saltzman ha, terrin ml. diagnosis of acute pulmonary embolism in the elderly. j am coll cardiol 1991; 18: 1452-7 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 157 clinical management issues si alimenta in maniera adeguata, mostra un buon incremento ponderale e viene pertanto dimesso. all’età di 2 mesi, per la presenza di vomito alimentare con striature ematiche, viene nuovamente ricoverato per compiere ulteriori indagini strumentali e laboratoristiche relative al reflusso gastroesofageo. gli esami ematochimici di routine (emocromo, indici di flogosi, funzionalità epatica e renale) risultano nella norma e la ricerca di sangue caso clinico descriviamo il caso di un bambino giunto alla nostra osservazione all’età di 3 anni per una strana storia di vomito ricorrente e disfagia per i solidi. il nostro piccolo paziente, nato a termine da gravidanza normodecorsa con parto eutocico e nessuna patologia perinatale, all’età di 20 giorni viene ricoverato presso l’uo di neonatologia per scarso accrescimento (circa 60 grammi in 20 giorni) e vomito ricorrente. la ph-metria eseguita evidenzia la presenza di frequenti episodi di reflusso gastroesofageo acido anche durante le ore notturne, mentre gli esami colturali documentano infezione delle vie urinarie da klebsiella. si decide di avviare trattamento per il vomito con terapia posturale e ranitidina (5 mg/kg/ die in 2 somministrazioni), nonché antibioticoterapia mirata dopo antibiogramma per l’infezione delle vie urinarie. dopo pochi giorni le condizioni generali del bambino appaiono in netto miglioramento, il piccolo perché descriviamo questo caso il caso descritto rappresenta un caso di vomito in età pediatrica a eziologia alquanto rara. abbiamo scelto di descrivere questo caso perché riteniamo utile per i lettori sia la descrizione dell ’approccio terapeutico, sia l ’iter diagnostico seguito per giungere a una diagnosi eziologica precisa, nonché a un relativo trattamento risolutivo corresponding author dott. antonio marseglia antoniomarseglia@libero.it caso clinico abstract we describe the case of a three-year-old child who presents recurrent vomiting, dysphagia for solids, and weight deficit. besides the poor general clinical conditions, the kid presents also retrosternal pyrosis. the laboratory tests show the presence of sideropenic anaemia, but it is possible to make a diagnosis only after endoscopy of the superior gastrointestinal tract, which reveals a chronic inflammation due to heterotopy of gastric mucosa. in the suspect of this kind of disease, this test should always be performed, and, if the proton pump inhibitors (ppis) aren’t effective enough, the savary-gilliard® dilators provide a safe and effective therapeutic solution. keywords: oesophageal stenosis, gastric mucosa, dysphagia, paediatric age oesophageal stenosis due to heterotopy of gastric mucosa: a rare case of dysphagia in paediatric age cmi 2010; 4(4): 157-161 1 uoc di pediatria, irccs “casa sollievo della sofferenza”, san giovanni rotondo (fg) 2 scuola di specializzazione in pediatria, università degli studi di foggia antonio marseglia 1,2, maria pastore 1, mario rocco d’altilia 1, michele pellegrino 1, michele sacco 1 stenosi esofagea da eterotopia della mucosa gastrica: un raro caso di disfagia in età pediatrica ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4)158 stenosi esofagea da eterotopia della mucosa gastrica: un raro caso di disfagia in età pediatrica trofica del piloro e viene effettuato un intervento chirurgico di pilorotomia extramucosa. il decorso post-operatorio non presenta complicanze degne di nota e il piccolo viene dimesso in buone condizioni generali. nel successivo follow-up periodico, il paziente mostra relativo benessere con saltuari e ingiustificati episodi di vomito alimentare e dolori addominali non meglio specificati che non hanno spinto né il curante né i genitori a fare ricorso a ulteriori accertamenti. all’età di 3 anni (peso 14,3 kg, < 3 centile; altezza 97 cm, 25-50 centili) il bambino viene inviato per la prima volta alla nostra attenzione per il persistere di vomito, comparsa di disfagia ingravescente per i solidi e deficit ponderale. all’esame obiettivo, peso e altezza risultano ai limiti inferiori della norma e il paziente lamenta disfagia (soprattutto per i solidi) e pirosi retrosternale indicata con molta precisione dal soggetto nonostante la tenera età. le condizioni cliniche generali appaiono scadenti, con ipotonia e ipoelasticità della cute, mucose pallide e poco idratate. la madre riferisce che il vomito segue quasi ogni pasto solido e viene pertanto avviato l’iter diagnostico. gli esami di laboratorio mostrano una condizione di anemia sideropenica (hb = 8,5 g/dl; ferritina = 14 µg/ml; sideremia = 14 µg/ml) in assenza di anticorpi specifici per celiachia. viene ripetuta un’ecografia dell’addome che risulta nella norma. in considerazione della storia clinica (disfagia ingravescente per i solidi), si decide di eseguire una radiografia del primo tratto dell’apparato digerente con bario che mostra, a livello del terzo medio dell’esofago un’immagine di possibile compressione ab-extrinseco e substenosi senza aspetti di specificità. viene eseguito un accurato studio tac del torace che documenta un irregolare ispessimento parietale ipodenso e circonferenziale del viscere esofageo, maggiormente evidente nel tratto sotto-carenale senza evidenti lesioni espansive mediastiniche. dopo aver escluso possibili compressioni ab-extrinseco o processi espansivi a carico del mediastino, si avvia il piccolo a esame endoscopico delle vie digestive superiori. all’esplorazione endoscopica, si rileva, a livello del terzo medio dell’esofago, a circa 14 cm dallo sfintere esofageo e per una estensione di 20 mm, una stenosi del viscere superabile solo con endoscopio pediatrico da 5 mm, che, nel tratto distale, sembra da compressione ab-extrinseco con mucosa parzialmente ulcerata e facilmente friabile, di aspetto crateriforme. la linea z appare in sede normasi decide a questo punto, in considerazione dei parametri auxologici soddisfacenti, di dimettere il bambino con indicazione a proseguire terapia con ranitidina allo stesso dosaggio e di aggiungere sodio alginato (1 ml/kg/die dopo i pasti). dopo circa 10 giorni, il paziente torna all’osservazione clinica per il persistere di vomito alimentare con striature ematiche e nuovamente ricoverato. in considerazione della storia clinica e della sintomatologia non responsiva a terapia medica, viene posta diagnosi di stenosi iperfigura 1 esplorazione endoscopica figura 2 esplorazione endoscopica occulto nelle feci negativa. viene eseguita un’ecografia dell’addome con specifico riguardo alla regione pilorica che evidenzia uno spessore della pars pilorica appena al di sopra dei limiti superiori della norma. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 159 a. marseglia, m. pastore, m. r. d’altilia, m. pellegrino, m. sacco morfologiche del tratto interessato (stenosi, ulcere, fistole) responsabili di dolore, disfagia e vomito. la sua estensione può variare da lesioni microscopiche ad aree visibili macroscopicamente di colore rosso-salmone chiamate inlet patches. la più comune localizzale, il cardias continente, la cavità gastrica, il bulbo e la seconda porzione duodenale indenni (figure 1 e 2). l’esame istologico della biopsia indica un’infiammazione cronica con mucosa gastrica di tipo fundico compatibile con mucosa gastrica eterotopica (hgm). per ulteriore conferma dell’eterotopia e alla ricerca di eventuali altri sedi di mucosa gastrica non visibili all’esame endoscopico, viene eseguita scintigrafia con 99mtc-pertecnetato con riscontro di un modico accumulo della radioattività al terzo distale dell’esofago che conferma la diagnosi. viene avviata terapia con inibitori di pompa protonica (ipp) per 2 mesi con scarso miglioramento della sintomatologia. un successivo esame endoscopico effettuato dopo 8 settimane evidenzia la risoluzione del processo ulcerativo e mostra la persistenza della stenosi (figura 3). si decide di procedere a dilatazione endoscopica meccanica mediante dilatatori di savary-gilliard®, con graduale miglioramento del quadro clinico ed endoscopico. allo stato attuale, sono state eseguite 3 dilatazioni endoscopiche con buoni risultati e senza alcuna complicanza. il paziente non presenta vomito, non lamenta disfagia né pirosi retrosternale. l’alimentazione è soddisfacente e l’accrescimento ponderale nei limiti. i parametri ematochimici risultano nella norma e tuttora il piccolo è in terapia con ipp (1 mg/kg/die) e proseguirà il programma di dilatazioni endoscopiche meccaniche periodiche (figure 4 e 5). discussione il vomito in età pediatrica riconosce differenti cause. oltre alle infezioni delle vie urinarie, che nei primi mesi di vita sono caratterizzate principalmente da scarso accrescimento ponderale e vomito, il reflusso gastroesofageo costituisce la causa più frequente. nei primi mesi di vita, e soprattutto nei maschi, non va dimenticata la possibilità della stenosi ipertrofica del piloro. nella pratica clinica, considerando la frequenza di tale sintomatologia e l’invasività della ph-metria (gold standard per la diagnosi) spesso viene iniziato un trattamento ex-adiuvantibus. analizzando retrospettivamente il nostro caso, non possiamo sapere se la positività dell’urinocoltura e la successiva diagnosi ecografica di stenosi ipertrofica del piloro siano state reperti occasionali o concause del vomito, ma hanno verosimilmente ritardato una diagnosi eziologica precisa. figura 3 dopo trattamento farmacologico con inibitore di pompa protonica per 8 settimane figura 4 dopo la prima dilatazione in base ai dati della letteratura, l’hgm può essere riscontrata lungo tutto il tratto gastrointestinale con una prevalenza variabile dallo 0,1% al 10% [1,2]. sebbene molti casi siano asintomatici, l’hgm (heterotopic gastric mucosa) può causare alterazioni ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4)160 stenosi esofagea da eterotopia della mucosa gastrica: un raro caso di disfagia in età pediatrica membrane esofagee [4], ma potrebbe verificarsi anche una progressione della lesione verso l’adenocarcinoma, che è fortunatamente un evento raro in letteratura [5]. la classificazione clinico-patologica formulata in base a sintomi, segni e anomalie pato-morfologiche è riportata in tabella i [6]. per l’hgm e le sue complicanze non ci sono strategie terapeutiche standardizzate: per tale motivo la classificazione clinico-patologica potrebbe essere utilizzata per definire la migliore terapia [7-9] (tabella ii). conclusioni nel nostro caso clinico, il bambino presentava vomito alimentare e severa disfagia dovuta alla stenosi, e il dolore era conseguenza dell’infiammazione e della lesione ulcerosa che lentamente, poiché sanguinante, aveva determinato una graduale ma severa anemia. non è possibile chiarire alcuna relazione tra i sintomi in età neonatale e la patologia riscontrata, poiché non ci sono sufficienti elementi diagnostici. gli esami strumentali eseguiti in epoca neonatale (egds) escludevano una patologia esofagea già conclamata, e non abbiamo esami istologici che potrebbero supportare la diagnosi. questo caso dimostra come l’hgm complicata da stenosi esofagea possa costituire un’insolita causa di disfagia persistente in età pediatrica. nel sospetto di una simile diagnosi, l’endoscopia del tratto gastrointestinale superiore con biopsie dovrebbe essere sempre eseguita per confermare la diagnosi. qualora la terapia con ipp non risulti efficace, è opportuno eseguire dilatazione perendoscopica della stenosi con dilatatori di savary-gilliard® in quanto – come documentato nel nostro caso – tale procedura è efficace e scevra da rischi. disclosure gli autori dichiarano di non avere alcun confitto di interessi di natura finanziaria. 1 casi asintomatici di hgm esofagea, riscontro occasionale (hgm i) 2 pazienti sintomatici con hgm esofagea con disfagia, odinofagia, o manifestazioni extraesofagee (hgm ii con assenza di anomalie morfologiche) 3 pazienti sintomatici con anomalie morfologiche: stenosi, anelli, ulcere, fistole (hgm iii) 4 casi rari eccezionali con progressione maligna di hgm (hgm iv con displasia) 5 carcinoma (hgm v) tabella i classificazione clinicopatologica della mucosa gastrica a livello esofageo [6] hgm = heterotopic gastric mucosa hgm i nessun trattamento. riscontro occasionale. non sorveglianza endoscopica hgm ii pazienti sintomatici da trattare con completa soppressione acida (ipp) hgm iii complicanze (stenosi) da trattare endoscopicamente mediante dilatazioni. particolare attenzione meritano le stenosi difficili da dilatare che potrebbero richiedere un intervento chirurgico radicale. altra strategia è l’ablazione locale mucosale con argon plasma. hgm iv le biopsie sono necessarie per escludere la progressione maligna delle lesioni hgm v la diagnosi di carcinoma prevede protocolli oncologici terapeutici specifici tabella ii possibili strategie terapeutiche per le classi clinico-patologiche di hgm (heterotopic gastric mucosa) [6] ipp = inibitori di pompa protonica zione congenita risultante da un incompleto processo embrionale di epitelizzazione dell’esofago: l’epitelio colonnare embrionale è gradualmente sostituito da epitelio squamoso, ma se tale processo è incompleto, la persistenza di aree di epitelio colonnare porta alla differenziazione in hgm. le cellule parietali gastriche del tessuto eterotopico sono in grado di secernere acido che può causare infiammazione cronica e ulcerazioni. il successivo processo di cicatrizzazione è responsabile della formazione di stenosi o figura 5 dopo la terza dilatazione zione di hgm nel tratto gastro-intestinale è quella interessante l’esofago cervicale [3] (altre localizzazioni sono in ordine craniocaudale la lingua, il duodeno, il digiuno, il retto). l’eterotopia gastrica in esofago è generalmente riconducibile a una condi©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(4) 161 a. marseglia, m. pastore, m. r. d’altilia, m. pellegrino, m. sacco bibliografia poyrazoglu ok, bahcecioglu ih, dagli af, ataseven h, celebi s, yalniz m. heterotopic gastric 1. mucosa (inlet patch): endoscopic prevalence, histopathological, demographical and clinical characteristics. int j clin pract 2009; 63: 287-91 nihat akbayir, alkim c, erdem l, sökmen hm, sungun a, başak t et al. heterotopic gastric 2. mucosa in the cervical esophagus (inlet patch): endoscopic prevalence, histological and clinical characteristics. j gastroenterol hepatol 2004; 19: 891-6 borhan-manesh f, farnum jb. incidence of heterotopic gastric mucosa in the upper oesophagus. 3. gut 1991; 32: 968-72 karnak i, senocak me, akçören z, büyükpamukçu n, hiçsönmez a. ectopic gastric mucosa 4. causing dysphagia due to strictures in a boy. pediatr surg 1999; 9: 413-5 abe t, hosokawa m, kusumi t, kusano m, hokari k, kagaya h et al. adenocarcinoma arising 5. from ectopic mucosa in the cervical esophagus. am j clin oncol 2004; 27: 644-5 von rahden bh, stein hj, becker k, liebermann-meffert d, siewert jr. heterotopic gastric 6. mucosa of the esophagus: literature-review and proposal of a clinicopathologic classification. am j gastroenterol 2004; 99: 543-51 galan ar, katzka da, castel do. acid secretion from an esophageal inlet patch demonstrated 7. by ambulatory ph monitoring. gastroenterology 1998; 115: 1574-6 klaase jm, lemaire lcjm, rauws eaj, offerhaus gja, van lanschot jjb. heterotopic gastric 8. mucosa of the cervical esophagus: a case of high-grade dysplasia treated with argon plasma coagulation and a case of adenocarcinoma. gastrointest endosc 2001; 53: 101-4 yarborough cs, mclane rc. stricture related to an inlet patch of the esophagus. 9. am j gastroenterol 1993; 88: 275-6 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1) 15 clinical management issues trauma; y metabolic disorders; y endocrine abnormalities; y cerebrovascular accidents; y seizure. y confusion and altered mental status are common problems in ed, and ictal confusion, particularly if protracted, is often a diagnostic challenge. behavioural and mental state disturbances are common but often challenging problems in elderly patients, because seizures may present with nuances that are unique to this age group. nonconvulsive status epilepticus (ncse), an important, and reversible cause of acute confusion, is a possible explanation and probably is frequently missed. the elderly patient with altered mental status pose a difficult diagnostic challenge to the emergenintroduction altered mental status (ams) in the elderly have numerous causes with significant morbidity and mortality. in fact elderly patients usually suffer from comorbidities, and require more time and resources than younger ones. the emergency department (ed) is the interface between community and health care institution, and ams, being a complex symptom, is one of the major challenge for the emergency physician. the first step consists in the patient evaluation, aimed at determining the cause of the complaints. the differential diagnosis for altered mental status is broad and includes: toxins; y infections; y corresponding author dr. rocco galimi department of neurology aovv, presidio ospedaliero di sondalo via zubiani 33 23039 sondalo (so) glrocco@tiscalinet.it gestione clinica abstract in the elderly, new onset of epilepsy is often associated with vague complaints such as confusion, altered mental status, or memory problems. the absence of clinically apparent convulsions in association with an electroencephalogram showing continuous or recurrent seizure activity has been called nonconvulsive status epilepticus (ncse). the purpose of this article is to describe the clinical and electroencephalographic features of ncse in older adults. ncse is an important, under-recognised and reversible cause of acute prolonged confusion. although attempts have been made to define and classify this disorder, there is no universally accepted definition or classification yet that encompasses all subtypes or electroclinical scenarios. a urgent electroencephalogram is considered as the method of choice in the diagnostic evaluation of ncse. further researches are needed to better define ncse. keywords: altered mental status, non-convulsive status epilepticus, absence status epilepticus, complex partial status epilepticus, elderly patient alterazione acuta dello stato mentale nell’anziano: lo stato epilettico non-convulsivo e il ruolo del dipartimento di emergenza cmi 2011; 5(1): 15-25 1 department of neurology, ospedale della valtellina e della valchiavenna. presidio ospedaliero di sondalo rocco galimi 1 sudden altered mental state in the elderly: nonconvulsive status epilepticus and the role of the emergency department ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1)16 sudden altered mental state in the elderly is a medical and neurological emergency that has been associated with significant morbidity and mortality. se seems to occur more frequently in individuals older than 60 years, and the morbidity and mortality of se are significantly greater in this age group. on the basis of another widely used classification, based solely on the presence or absence of convulsions, se can be divided, from an operational and clinical viewpoint, into two main entities (figure 1): convulsive se (cse); y non-convulsive status epilepticus (ncse). y ncse is characterised by behavioural or cognitive change from baseline for at least 30 minutes with eeg evidence of seizures. the main categories of ncse are: complex partial status epilepticus (cpse); y absence status epilepticus (ase). y sustained or recurrent change from baseline behaviour or mental status should be clinically evident. a physician unfamiliar with this kind of patients may not be able to differentiate baseline cognitive and behavioural functions from ictal behavioural and mental state changes. as previously underlined, the detection of this disease may be particularly arduous in elderly subjects, and therefore, a high level of suspicion is essential to obtain an early diagnosis. ncse is the ultimate condition in which the disciplines of neurology and psychiatry meet and, at times, overlap. diagnosis is often delayed and mistaken for delirium, stupor, or other causes of confusion. cy physician, especially in case of a patient with cognitive impairment at baseline (e.g., mental retardation or dementia) or with a previous history of psychiatric disorders. knowing a patient’s baseline mental status is helpful (i.e., obtain this information when appropriate if cross-covering). in fact at least 25% of all ed patients older than 65 years have some form of altered mental status. as the population ages, the elderly will comprise a higher proportion of patients overall. the prevalence of epilepsy is 1% in individuals older than 60 years old and increase with advancing age [1]. nonetheless, epidemiological studies have revealed that epilepsy is most common among persons aged 75 and older [2,3]. the differential diagnosis of any person presenting with a sudden change in mental status should include epilepsy. most epileptic seizures in the elderly are partial with secondary generalisation. the clinical manifestations of seizures in the elderly may be different from those in younger adults and should be differentiated from other medical conditions that cause episodic spells. one of the most serious complications of epilepsy is status epilepticus (se). se can be defined as «continuous seizure activity longer than 30 minutes or two or more sequential seizures without full recovery of consciousness between the seizures». elderly patients with se often demonstrate either no convulsive activity or only minimal motor movements that are often easily overlooked, or exhibit only a blunting of consciousness rather than frank coma. se figure 1 classification of status epilepticus based on the presence or absence of convulsions status epilepticus (se) situation longer than 30 minutes of continuous seizur activity or two or more sequential seizures without full recovery of consciousness between the seizures convulsive status epilepticus (cse) similar to ncse, but with a predominant motor component non convulsive status epilepticus (ncse) range of conditions in which electrographic seizures activity is prolonged and results in nonconvulsive clinical symptoms complex partial status epilepticus (cpse) status that usually presents focal discharges and is considered the equivalent of prolonged or repetitive complex partial seizures absence status epilepticus (ase) status characterised by generalised spike and slow wave discharges ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1) 17 r. galimi characteristics of ncse in the elderly the geriatric population is at special risk for mental alterations for a myriad of reasons. the most common cause of ams in order of frequency are: multifactorial causes; y medications; y infections; y metabolic disorders; y trauma; y neoplasm; y cardiovascular diseases; y dehydration; y nutritional abnormalities; y seizure (epilepsy). y unfortunately, there is only a limited number of articles about the diagnosis of ams in the ed. in the following paragraphs, i will use “nonconvulsive status epilepticus” (ncse) as a descriptive term denoting cases of se with little or no clinical signs of ongoing seizure activity apart from obtundation or subtle motor phenomena. ncse has a heterogeneous presentation, is commonly underdiagnosed, and early detection and treatment require a high level of suspicion. it consists of changes in basal mental status (confusion or depressed level of consciousness) for at least 30 min and eeg evidence of continuous or almost continuous epileptiform activity. slight motor manifestations may be seen, such as eyelid myoclonia, automatisms, nystagmus, or discrete extremity dystonia, in the absence of evident convulsive activity [5]. there is no universally accepted definition of ncse. in a consensus workshop organised by the epilepsy research foundation (amide at facilitating communication and research in this area), it has been defined as «a term used to denote a range of conditions in which electrographic seizure activity is prolonged and results in non-convulsive clinical symptoms» [6]. in general, ncse differs from cse in the lack of a predominant motor component [7]. the definition of ncse preferred by shorvon is «nonconvulsive status epilepticus is a term used to denote a range of conditions in which electrographic seizures activity is prolonged and results in nonconvulsive clinical symptoms» [8]. ncse is an epileptic condition lasting > 30 minutes in which continuous or recurrent seizure activity on the electroencephalogram (eeg) is responsible for diverse clinical symptoms including impairment of consciousness, abnormal behaviour or perception disturbances [4]. it requires eeg for confirmation. agitation in younger patients accessing the ed is much more likely to be the result of substance abuse or underlying psychiatric disease (psychotic or mood disorder), than in the elderly population. post-ictal confusion may last as long as 1-2 weeks in an elderly patient, as opposed to minutes in younger individuals. moreover, many elderly people have medical illnesses that can cause clinical deficits similar to ncse, leading to the risk of misdiagnosis. ncse is under-recognised, particularly in patients who have abnormal baseline cognitive abilities or multiorgan medical illnesses. however few studies have exclusively assessed ncse in the elderly, and ncse may be diagnosed incorrectly as metabolic abnormalities or psychiatric conditions. ncse has been increasingly diagnosed given the higher index of suspicion and recent advances in long-term eeg monitoring among patients with impaired level of consciousness. neurology of the older adult thus demands a more holistic and multidisciplinary approach: distinguishing normal age-related changes from those that require treatment is a challenge. altered mental status should not be attributed to psychiatric causes until a careful history and evaluation have pointed out other aetiologies. the purpose of this article, therefore, is to describe some of the major principles of the diagnosis of ncse in the elderly, in contrast to ncse in younger patients. geriatric assessment, multidisciplinary teams, observation units and geriatric ed have been described and tested to manage elderly ed patients or to shift them towards alternative care sources. even experienced physicians may not made the exact diagnosis during the whole course of the patient’s stay in the ed, despite using all possible means including laboratory and imaging studies. physicians who develop expertise in recognising these nuances will make more timely diagnoses and be less likely to miss the diagnosis. neurologists are ideally placed to manage se, particularly those with a knowledge of eeg, and should be consulted early. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1)18 sudden altered mental state in the elderly [17]. tumours and traumas may each account for another 5 to 10% of ncse [18]. neurodegenerative disorders in adults are progressively recognised as one of the major causes of epilepsy. many of the remainders are multifactorial [19,20]. a history of seizures is not always present, nor is motor activity necessarily associated with ncse. primary generalised “absence” seizures occur in the elderly, usually after an earlier epilepsy diagnosis [21], or with de novo absence se of late onset – often following benzodiazepine or other medication withdrawal, even without earlier epilepsy [22]. ncse can be precipitated by several toxic, metabolic, and epileptic triggers. triggering factors for situation-related ase in the elderly are protean, including psychotropic and other seizure precipitating drugs such as aminophylline, benzodiazepine withdrawal, metabolic imbalance, systemic infections and fever, alcoholism and dehydration [23]. with an increasingly ageing population, and age itself being an independent risk factor for stroke, the incidence and prevalence of post-stroke seizure and post-stroke epilepsy are likely to increase. cerebrovascular disease is the most common underlying cause, although as many as 25-40% of new epilepsy cases in the elderly have no obvious underlying aetiology [24]. most ncse in the elderly are not primarily generalised but of focal onset, complex partial status (cpse), with possible secondary generalisation. older patients were more likely to have focal discharges, again indicating that ncse in the elderly tends to be “symptomatic” or arise from a focal lesion [18,25,26]. the term “symptomatic” indicates that the seizure activity is a secondary phenomenon or a symptom of an underlying disease process. almost 75% of patients older than 40 are women [27,28], and ase over the age of 50 is predominantly a female disorders [29]. globally, ncse appears to have a worse prognosis in the elderly (ncse mortality in elderly patients ranges up to 57% [30]), with more severe underlying processes including infections [31]. the mortality rates for se, which are not uniform across age groups, are about 40% for patients aged older than 60 years and exceed 60% for those older than 80 [32,33]. the use of a classification based on the age at which ncse occurs has recently been suggested [5,34]. rare neuropathologic the two types of ncse have different features: absence se (ase) is characterised by generalised spike and slow wave discharges, while complex partial se (cpse) usually presents focal discharges and is considered the equivalent of prolonged or repetitive complex partial seizures (figures 2 and 3). absence status was reported to occur de novo in later life as a situation-related, single event. ase may be considered those cases similar to «status epilepticus in petit mal» described by schwab [9]. cpse is ncse with a presumed focal onset. cpse was reported less often than absence se until recently, perhaps because of some very stringent definitions. clinical manifestations include an «epileptic twilight state» with a lack of responsiveness or confusion, and bizarre, and particularly fluctuating, behaviour [10,11]. most recently, a classification proposed by the international league against epilepsy (ilae) has subdivided focal ncse (focal; cpse) into aura continua (non-convulsive simple partial se with maintained consciousness) and dyscognitive se (with impaired consciousness) of mesial temporal or neocortical origin. while the forms originating from the mesial temporal lobe regions may be summarised as “limbic status” manifesting with limbic sensations, the manifestations of the neocortical forms reflect the region of origin involved [12]. as stated in the introduction, both the incidence and prevalence of epilepsy are high among the elderly. the incidence of se has a bimodal distribution, with the highest incidences during the first year of life and after the age of 60 [13]. among adults, patients older than 60 had the highest risk of developing se, with an incidence of 86/100,000 persons per year [14-16]. ncse may constitute one quarter of all se in patients over 60 years old, and up to 40% of all se occurs in the elderly. today the estimated frequency of ncse is around 32-85 cases/100,000/year [5]. older adults’ increased risk for stroke, metabolic abnormalities, and comorbid conditions contributes to the frequency of seizures in this population. cerebrovascular disease is the most commonly identified cause of se in the elderly and accounts for the majority of ncse. about 7% of acute strokes provoke at least one epileptic seizure, and about one fifth of these result in se, somtimes nonconvulsive ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1) 19 r. galimi ly is also a relatively common setting for ncse [42]) are common and may lead, in absence of eeg evaluation, to misdiagnosis of ncse as a psychiatric condition [43]. thus, ncse is a highly pleomorphic condition and should be considered in all older patients with unexplained mood dicase reports have described neuropathologic changes associated with se in humans [35,36]. this correlates with neuronal loss within the hippocampus, especially in the ca1 and ca4 regions, as well as neuronal loss in more diffuse brain regions [37]. important differential diagnoses of ncse are: metabolic encephalopathy; y migraine aura; y posttraumatic amnesia; y prolonged post-ictal confusion; y psychiatric disorders; y substance deor intoxication; y transient global amnesia; y transient ischemic attack [38]. y from a electroencephalographic point of view, a clear development with a build-up of rhythmic activity or generalised spike-wave discharges at 3 hz or faster and decremental features with flat periods associated with clinical seizure activity strongly indicate ncse [39]. the spectrum of the clinical features of ncse in the elderly as previously noted, ncse diagnosis is difficult, due to its heterogeneous presentation, which is undistinguishable from other causes of altered awareness: its clinical manifestations can include the full spectrum of mental status changes; patients may only show subtle clinical signs of seizure activity such as mild myoclonic movements; and presentation is very inconsistent, varying in intensity from mild personality changes, such as drowsiness and difficulty in concentration, lethargy, agitation, blinking, confusion, facial twitching, automatisms, to severe manisfestations such as coma [40]. since all the symptoms may be improved by treatment, some investigators consider the clinical and electrographic response to antiepileptic drugs, especially benzodiazepines, an important aspect for the diagnosis of ncse. however, the response to these medications may not be immediate, occurring many days after the beginning of the treatment, precluding its inclusion among major diagnostic criteria [41]. behavioural disturbances related to these confusional states (confusion in the elderfigure 2 electroencephalogram in an absence status epilepticus patient figure 3 electroencephalogram in a complex partial status epilepticus patient with focal discharges sturbance, behavioural changes, language disturbances, cortical blindness, confabulation, psychotic states, sensory phenomena, autonomic disturbances and psychic phenomena. in one larger series of patients with ncse seen in emergency rooms, agitation, lethargy, disruptive behaviour, mutism or other language disturbances, delirium, staring, oral automatisms, inappropriate laughter or crying, rigidity, and several other types of bizarre behaviour were presenting signs [44]. thomas et al. noted that status could be present from 8 hours to 5 days before being diagnosed, and described clinical features such as «interrupted speech, catatonia, slow and ataxic gait». many of the elderly patients diagnosed with ncse have not had epilepsy ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1)20 sudden altered mental state in the elderly diagnostic approach to ncse clinical examination the number of accesses to emergency departments has substantially increased during the past few years, especially for patients aged 65 years and older. the ageing of the general population is a well known trend. by the year 2020, it is estimated that, every second, one person in germany will be older than 50 years old, and some 7% of the population will be 80 or older [51]. the us government predicts that by 2030 there will be 70 million adults over age 65 in the united states. whereas this segment made up 12.4% of the population in 2000, it will account for about 20% by 2030 [52]. furthermore, current demographic trends will lead to an increased prevalence of epilepsy in the general population, leading to the necessity of a major effort aimed at improving our understanding of the clinical course and optimal treatment of epilepsy in this rapidly growing segment of the population. unfortunately, there are documented problems with the quality and continuity of care provided to older ed patients, including failure to recognise problems that could benefit from more careful assessment, failure to refer to appropriate community services, and failure to timely communicate to the primary physician the problems identified and interventions implemented at the ed visit. this may represent a consistent problem in the management of acute mental change, which must be evaluated in rapid sequence or simultaneously while using the tools of basic resuscitation, history, clinical assessment, laboratory evaluation and radiological assessment. a tool that can help in reminding the reasons why a patient can show an altered mental status is common mnemonic called aeiou-tipsm (table i). besides, it is important to remember that elderly patients with se often demonstrate either no convulsive activity or only minimal motor movements that are often easily overlooked, or exhibit only a blunting of consciousness rather than frank coma. the patient may be able to walk and carry out simple activities, but acute fluctuating confusion associated with agitation, bizarre behaviour, staring, increased tone, mutism or subtle myoclonus are features that suggest this diagnosis [53,54]. thus, accurate earlier in life but have had benzodiazepine withdrawal or other significant effects of medications on the brain [22]. visual hallucinations and visual loss similar to those of migraine can be an unusual manifestation of focal ncse [45]. catatonia [46] and atonia [47] have been described as manifestations of ncse. speech difficulties due to dysarthria rather than aphasia can be caused by se arising in the opercular regions [48]. ncse presenting as a progressive aphasia that developed insidiously over 5 weeks has been described [49]. there are often severe language disturbances, with mutism and verbal perseveration. frequent features are bizarre behaviour, agitation, aggressiveness, emotional liability, and hallucinations [50]. occasionally automatisms such as chewing and compulsive handling of objects have been noted, and on examination, frontal release signs and a babinski reflex have been documented [50]. furthermore, it may become especially difficult to diagnose cpse (dyscognitive se) in elderly patients in whom it is as frequent as of 40%. in fact, as already remarked in this article, the differentiation of this type of dyscognitive se from nonepileptic conditions without eeg and by pure clinical means may become challenging even for the skilled epileptologist typical psychiatric manifestations of dyscognitive se include delirium, stupor or catatonia, mental slowing, cognitive decline, aggressive behaviour and psychotic depression. when spreading to the neocortical areas of the temporal lobes, auditory or visual hallucinations may occur. the eeg of dyscognitive se is characterised by irregular or regular focal spikes or spike-wave activity similar to the one observed in aura continua; however, the ictal activity in dyscognitive se tends to involve a larger area which increases the likelihood to detect it by surface eeg [12]. a alcohol, other toxins, drugs e endocrine, electrolytes i insulin, diabetes-related, hypoglycaemia o oxygen, opiates u uremia t trauma, temperature i infection p psychiatric, poisoning, porphyria s stroke, seizure, shock, subarachnoid haemorrhage m metabolic: hyperammonia table i meaning of the mnemonic aeioutipsm ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1) 21 r. galimi zure activity strongly indicate ncse [39]. in ambulatory patients, the most common eeg patterns associated with ncse are generalised spike-and-wave or generalised polyspike-and-wave discharges in the case of ase, or rhythmic focal discharges in the case of cpse [57]. absence status and focal ncse can be distinguished easily by eeg, the former being characterised by generalised 2 to 4 hz spike and wave activity and the latter by more or less focalised discharges generally associated with the temporal or frontal lobe. in perhaps the best study of the eeg in ncse, granner and lee evaluated ncse patients who responded well to antiepileptic drugs [26]. ncse patients who responded well to antiepileptic drugs eeg discharges were often generalised, but many became focal once the medication has been initiated. the researchers found a wide variety of different alterations such as typical or atypical spike wave discharges, multiple or polyspike wave discharges, and also rhythmic delta activity with some spikes. waveform morphologies were remarkably variable; discharge frequencies were generally from 1.0 to 3.5 hz (mean 2.2). most of these changes appeared to be generalised but some were focal. in ncse, ongoing seizure activity, whether focal or generalised, with clearly defined spike-slow-wave discharges usually more than 2 hz, often waxing and waning, is usually diagnostically straightforward [30]. the eeg borderlands of what represent seizures versus what are postictal or interictal patterns, periodic epileptiform discharges (peds), and triphasic waves (tws), have been the subject of some study with incomplete consensus. peds have been referred to as an “irritative” pattern found in temporal proximity to seizures proper; the footprints rather than the animal itself [58]. the clinician should look for signs that would point to potential localisations of a brain disturbance such as focal paresis, focal sensory deficits, or aphasia. in parallel, it is a good idea to look for signs of conditions that could produce symptoms that mimic seizures, but are not seizures, for example irregular heart rates or cardiac murmurs suggesting the risk of syncope. in order to put the patient’s presentation into the proper context, a careful medical history should be taken and standard laboratory tests performed to exclude other possible diagnoses. i suggest making the diagnosis of the ncse only if, in addition to the electrodiagnosis is often delayed and appropriate intervention may not be initiated. the diagnosis of ncse is important because it is potentially reversible. it is difficult to treat this pathology appropriately if the diagnosis does not come to mind. certain clinical features that are more likely to be present in patients in ncse compared with other types of encephalopathy (e.g. waxing and waning state of prolonged seizures, unassociated with major motor activity such as convulsions). either remote risk factors for seizures or ocular movement abnormalities were seen in all patients in ncse. if these tipical features are present, an egc urgently be performed [55]. electroencephalographic evaluation the definite diagnosis of ncse is dependent on electroencephalographic confirmation. electroencephalographic and videoelectroencephalographic studies performed while the patient is experiencing symptoms are crucial to early diagnosis and timely management [56]. since ncse in the elderly is of focal onset [18,25,26], neuroimaging can be taken into consideration in order to identify any underlying structural abnormalities. the hallmark of ncse is a change in behaviour or mental state that is associated with diagnostic eeg changes. eeg evaluation is vital to confirm the diagnosis of ncse and may also be useful to exclude other potential explanations for the clinical signs, such as metabolic disorders, infections of the nervous system, transient ischaemic events or in the case of syndromes whose clinical presentation is dominated by behavioural and psychiatric symptoms. a number of eeg patterns have been described in ncse, and many of these are controversial, particularly if they are ictal. there seems to be agreement that the overall picture of the electroencephalographic discharge and its evolution in time and space is helpful in differentiating the electroencephalography of encephalopathies from that of ncse. the eeg findings of ncse are heterogeneous; generalised or focal (temporal, temporo-frontal) spike-and-slow wave complexes, polyspike discharges, irregular sharp or slow waves may be seen. a clear development with a build-up of rhythmic activity or generalised spike-wave discharges at 3 hz or faster and decremental features with flat periods associated with clinical sei©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1)22 sudden altered mental state in the elderly or fosphenytoin is subsequently given. blood pressure and cardiac rhythm must be monitored continuously during a rapid infusion, and if adverse effects occur, the infusion rate should be slowed. conclusions ams remains a symptom that carries a significant degree of morbidity and mortality, especially in elderly patients with neurological aetiologies (in the elderly 2239% of ams are secondary to medications [60]). ncse, as a complex of symptoms, is and will remain one of the major causes of access to ed. it represents a pleomorphic condition of patient without overt convulsions [30]. although relatively frequent, ncse is a poorly understood and under-diagnosed condition. ncse should be suspected whenever cases of fluctuating consciousness or abrupt cognitive or behavioural changes are noted. the often unspectacular and unspecific clinical manifestation of ncse makes it important to “think of it at all” in any patient presenting with unexplained new onset of behavioural changes, impaired consciousness and/or focal, non-convulsive neurological deficits [61]. ncse is one of the most important neurological emergencies requiring rapid diagnosis, being confirmed by eeg and treated without delay and with appropriate aggressiveness. finally, elderly patients with confusion should undergo diagnostic eeg, particularly if the confusion is episodic or there have been previous episodes of protracted ictal confusion. if eeg is not performed during the symptomatic period, the diagnosis is likely to be missed. more research is needed to determine the effectiveness of screening and intervention strategies targeting at-risk older ed patients. future research should be targeted to investigate and manage this symptom complex. disclosure the author declares that he has no financial competing interests. encephalographic changes, there is clinical evidence from the patient’s history. treatment treatment focuses on correcting underlying pathologic abnormalities such as hyponatremia or drug toxicity, and initiating pharmacologic therapy. from a clinical point of view, the treatment of ncse in the elderly population is complicated by several major factors such as altered pharmacokinetics (i.e. altered drug metabolism and excretion) and comorbidity, related to the risk of interaction with concomitant medications. in treating epilepsy, the choice of antiepileptic drug (aed) is usually dictated by seizure type and tolerability and maybe complicated by comorbidities or age-associated differences in aed pharmacokinetics. the objective should be complete control of seizures, with enhanced quality of life. treatment of ncse in the elderly is strikingly easy in some and impressively difficult in others. the choice of aed should focus on avoidance of side effects and adverse drug-drug interactions. patients with primary generalised, absence se usually respond to modest doses of benzodiazepines and often do not need long-term aed maintenance. cpse is typically due to some underlying lesion and often requires long-term medication. cpse has a mortality of approx. 30% in the elderly, simple partial se 40%, and generalised status 90% [25]; many of the patients with generalised ncse are those mentioned earlier with severe medical and neurological illnesses and prolonged electrographic se. the treatment of ncse needs to be tailored to the perceived urgency and morbidity of the condition. because prognosis varies depending on the causes, and may be a by-product of the morbidity conferred by the inciting brain insult, some experts advocate oral or intramuscular treatment, or supplementation with antiepileptic; others recommend careful monitored use of iv benzodiazepines [30]. the benzodiazepines are considered the first line treatment for both ase and cpse [59]. the initial recommended treatment consists of intravenous diazepam or lorazepam. if seizures persist, a loading dose of phenytoin ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1) 23 r. galimi references hauser wa, annegers jf, kurland lt. prevalence of epilepsy in rochester, minnesota: 1940-1. 1980. epilepsia 1991; 32: 429-45 hauser wa, annegers jf, kurland lt. incidence of epilepsy and unprovoked seizures in 2. rochester, minnesota: 1935-1984. epilepsia 1993; 34: 453-68 olafsson e, ludvigsson p, gudmundsson g, hesdorffer d, kjartansson o, hauser wa. 3. incidence of unprovoked seizures and epilepsy in iceland and assessment of the epilepsy syndrome classification: a prospective study. lancet neurol 2005; 4: 627-34 kaplan pw. nonconvulsive status epilepticus. 4. semin neurol 1996; 16: 33-40 bottaro fj, martinez oa, pardal mm, bruetman je, reisin rc. nonconvulsive status epilepticus 5. in elderly: a case-control study. epilepsia 2007; 48: 966-72 walker m, cross h, smith s, young 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1990, è stato seguito presso l’ambulatorio della clinica di malattie infettive dell’ospedale san martino di genova. dagli esami ematochimici eseguiti all’inizio della presa in carico risultava anche affetto da un’epatopatia hcv-correlata. la situazione immuno-virologica iniziale (cd4+ = 520 cell/mm3) ha consentito di posticipare l’inizio della terapia antiretrovirale, cominciata poi nel 1994 con una monoterapia con zidovudina. per il persistere di uno scarso controllo immuno-virologico, probabilmente correlato anche alla scarsa compliance del paziente, sono state variate molte linee terapeutiche. efficacia e tollerabilità di darunavir ed etravirina in un paziente con retrovirosi e multipli fallimenti terapeutici abstract drug resistance to antiretroviral regimen is a challenging problem in hiv-infected patients. we describe a case of a 45-year-old caucasian male that, after failure of several successive antiretroviral regimens, has been successfully treated with a combination of darunavir, a protease inhibitor, and etravirine, a non-nucleoside reverse transcriptase inhibitor. this case report underlines the difficulties of everyday management of hiv-infected patients and the importance of an early identification of resistances and the individualization of the therapy keywords: antiretroviral regimen, resistance, etravirine, darunavir efficacy and safety of darunavir and etravirine in a patient with retroviruses and multiple virologic failure cmi 2009; 3(3): 109-112 1 clinica di malattie infettive e tropicali, università degli studi di genova, genova corresponding author dott.ssa raffaella rosso raffaella.rosso@unige.it perché descriviamo questo caso? il caso clinico descritto consente di sottolineare la problematica, molto attuale, dell ’insorgenza di resistenze alle diverse classi di farmaci antiretrovirali, che rende la gestione del paziente sieropositivo sempre più difficile. permette inoltre di evidenziare l ’efficacia di alcuni farmaci recentemente approvati, quali darunavir ed etravirina, nel trattamento dei soggetti multi-resistenti caso clinico nel 1998 il paziente ha iniziato la prima terapia antiretrovirale con inibitori delle proteasi (ip), con un regime composto da ritonavir, didanosina e stavudina, senza ottenere comunque una soppressione della carica virale. lo stesso è accaduto con tutti i regimi intrapresi negli anni a seguire. alla fine il paziente ha effettuato una terapia con cinque diversi ip (ritonavir, saquinavir, nelfinavir, clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 110 efficacia e tollerabilità di darunavir ed etravirina in un paziente con retrovirosi e multipli fallimenti terapeutici lopinavir e atazanavir) e con un inibitore nucleosidico della trascrittasi inversa (efavirenz) (tabella i). a giugno 2008 il paziente si presentava in buone condizioni cliniche, in stadio b2 (polmoniti batteriche ricorrenti) secondo la classificazione cdc (centers for disease control), con una carica virale di 11.500 copie/ml e con un valore di cd4+ pari a 354 cell/mm3 (19,5%). il test di resistenza genotipico mostrava alcune mutazioni maggiori (i54v, v82a, l90m) e alcune mutazioni minori (l10iv, l33f, f53l, a71v, g73s) per quel che riguarda i geni delle proteasi e mutazioni (m41l, e44d, d67n, t69d, v118i, m184v, l210w, t215y ) per i geni delle trascrittasi. in pratica il paziente risultava resistente a tutti gli ip e, considerando il precedente fallimento con efavirenz, poteva essere considerato anche resistente a tutti gli inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa (nnrti) disponibili in commercio. si è quindi deciso di iniziare una terapia con darunavir/ritonavir, etravirina e lamivudina. dopo un mese di terapia si è assistito a una notevole diminuzione della carica virale (135 copie/ml) e a un incremento nel numero (519 cell/mm3) e nella percentuale (20,4%) dei cd4+. dopo tre mesi, il paziente ha presentato per la prima volta nella sua vita carica virale soppressa. durante il primo anno di follow-up, la carica virale si è mantenuta costantemente sotto le 50 copie/ml e il numero dei cd4+ ha raggiunto 517 cell/ mm3 (26,7%). il paziente ha tollerato bene il nuovo regime terapeutico, dimostrando una totale aderenza all’assunzione dei farmaci. discussione nonostante la terapia antiretrovirale abbia dimostrato un’enorme efficacia nel trattamento dell’infezione da hiv, parallelamente si è assistito all’emergenza di ceppi virali resistenti a molte delle terapie attualmente disponibili, oggi una delle cause fondamentali di fallimento terapeutico [1,2]. per questo motivo è importante lo sviluppo di nuovi farmaci che siano ben tollerati, attivi contro ceppi resistenti e con un’alta barriera genetica per la selezione di resistenze [3]. questo caso clinico dimostra l’efficacia di un regime basato su darunavir/ ritonavir, etravirina e lamivudina in un paziente che ha dimostrato negli anni precedenti scarsa compliance alle terapie e il cui test di resistenza genotipico non permetteva molte opzioni terapeutiche. lamivudina, nonostante la presenza della mutazione m184v, che la rende inattiva, è stata mantenuta per la sua azione contro la fitness virale. attualmente è stata sospesa, dopo un mese di assunzione, in consiterapia antiretrovirale inizio fine carica virale cd4+ cd4+(%) azt 09/11/1994 19/11/1996 n.d. 376 16 azt+ddi 20/11/1996 19/08/1997 n.d. 295 14 azt+3tc+ddi 20/08/1997 16/06/1998 18.000 380 18 ddi+d4t+rtv 17/06/1998 17/01/1999 190.000 322 16 ddc+d4t+sqv 18/01/1999 04/11/1999 130.000 458 18 azt+3tc+sqv/r 05/11/1999 23/11/1999 400.000 399 19 azt+3tc+nfv 24/11/1999 23/08/2000 58.000 459 22 d4t+ddi+efv 24/08/2000 27/08/2001 95.000 600 19 abc+ddi+lpv/r 13/11/2001 06/12/2001 159.000 513 22 d4t+ddi+lpv/r 07/12/2001 12/10/2002 4.100 662 20 tdf+3tc+sqv/r 30/01/2003 13/08/2003 209.000 589 19 tdf+ddi+efv 14/08/2003 07/08/2005 16.400 409 23 tdf+3tc+atv/r 08/08/2005 07/12/2006 49.600 337 19 3tc 08/12/2006 12/07/2007 19.400 415 22 azt+3tc+lpv/r 13/07/2007 05/06/2008 17.300 213 16 3tc+etr+drv/r 06/06/2008 in corso 11.500 354 19,5 tabella i riassunto dei regimi terapeutici effettuati dal paziente 3tc = lamivudina; abc = abacavir; atv = atazanavir; azt = zidovudina; d4t = stavudina; ddc = zalcitabina; ddi = didanosina; efv = efavirenz; etr = etravirina; lpv = lopinavir; nfv = nelfinavir; rtv = ritonavir; sqv = saquinavir; tdf = tenofovir drv = darunavir /r = ritonavir clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 111 c. bernardini, r. rosso derazione della buona risposta immunovirologica ottenuta col restante schema terapeutico. darunavir è un nuovo ip attivo sia contro ceppi di virus wild-type, sia contro ceppi multi-resistenti [4]. viene assunto in associazione a una bassa dose di ritonavir (100 mg/bid) ed è stato approvato in italia a luglio del 2007 per l’uso in pazienti adulti. ha dimostrato una forte attività antivirale e una buona tollerabilità in pazienti con virus multi-resistenti e che hanno fallito almeno tre linee terapeutiche a base di ip [5]. recenti studi hanno dimostrato la presenza di 11 mutazioni, 5 maggiori (i50v, i54l/m, l76v, i84v ) e 6 minori (v11i, v32i, l33f, i47v, g73s, l89v ), associate a una minore suscettibilità al farmaco [6]. il nostro paziente presentava due delle mutazioni minori e questo gli conferiva una resistenza intermedia. ad avvalorare la nostra scelta, però, sono stati i risultati di due studi pubblicati. il primo dimostra l’esistenza di alcune mutazioni che hanno un impatto favorevole sull’efficacia di darunavir. secondo questo studio le mutazioni identificate sarebbero e35d e v82a, quest’ultima presente nel test genotipico del nostro paziente [7]. il secondo studio, invece, analizza i dati provenienti dai trial power 1 e 2 mettendo a confronto la risposta alla terapia di un gruppo di pazienti che assumevano darunavir come ip, rispetto a un gruppo di controllo in terapia con altri ip. tutto ciò veniva relazionato alla suscettibilità al farmaco valutata secondo il test di resistenza genotipico eseguito al baseline. i risultati hanno dimostrato la superiorità di darunavir rispetto al gruppo di controllo indipendentemente dalla sua suscettibilità al test di resistenza [3]. questi esiti evidenziano l’utilità di tale farmaco, specialmente in pazienti multi-falliti, il cui test di resistenza non lascia al medico molte opzioni terapeutiche. etravirina è un nnrti di seconda generazione, approvato recentemente (18 giugno 2009) in italia. quando è stato scelto da noi come terzo farmaco era disponibile solo nel protocollo di accesso allargato (eap), per cui abbiamo deciso di arruolare il paziente nel protocollo. la nostra scelta si è rivolta verso questo farmaco in considerazione del precedente fallimento terapeutico con efavirenz, nonostante il test di resistenza non mostrasse mutazioni verso i geni della trascrittasi. come è risaputo, le mutazioni nei confronti degli nnrti non sono più visibili al test di resistenza dopo alcuni mesi dalla loro sospensione. per questo motivo è stata scelta etravirina, che ha dimostrato efficacia nell’abbattimento della carica virale, anche in pazienti che mostravano resistenza sia a efavirenz sia a nevirapina [8]. la scelta è inoltre stata supportata dai risultati di uno studio che ha dimostrato l’enorme efficacia immuno-virologica dell’associazione darunavir/ritonavir ed etravirina a 24 settimane di terapia, senza effetti tossici e inaspettate interazioni farmacologiche [9]. conclusioni il caso clinico qui riportato sottolinea le difficoltà che pone la gestione quotidiana di un paziente con una lunga storia di infezione da hiv e multipli fallimenti terapeutici. nonostante esistano delle linee guida da seguire (vedi algoritmo diagnostico finale) [1], ogni paziente necessita di una terapia personalizzata e di un differente approccio da parte del clinico. in questo caso particolare si è dimostrato efficace un regime terapeutico basato su farmaci di recente approvazione. senza la possibilità di effettuare una nuova terapia antiretrovirale, il paziente non avrebbe mai raggiunto la soppressione a lungo termine della carica virale. tutto ciò rende evidente quanto sia importante sviluppare nuovi farmaci per far fronte all’aumento di ceppi virali resistenti. è comunque di estrema importanza effettuare un counselling personalizzato al paziente per quel che riguarda la corretta assunzione della terapia antiretrovirale, al fine di limitare il più possibile lo sviluppo di resistenze alla terapia. disclosure gli autori dichiarano di non avere alcun confitto di interessi di natura finanziaria. clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 112 efficacia e tollerabilità di darunavir ed etravirina in un paziente con retrovirosi e multipli fallimenti terapeutici bibliografia panel on antiretroviral guidelines for adults and adolescents. guidelines for the use of 1. antiretroviral agents in hiv-1-infected adults and adolescents. department of 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di una bassa conta di t-linfociti cd4+), o la chemioprofilassi secondaria di infezioni opportunistiche pericolose per la vita recentemente sofferte. introduzione è noto che il rilievo di parametri laboratoristici profondamente compromessi in corso di infezione da hiv porta all’aids conclamato e alla conseguente presentazione e/o recidiva di gravi infezioni opportunistiche connesse allo stato di immunodeficienza, nonché a una prognosi sfavorevole a breve termine a seguito di elevati indici di morbilità e di mortalità [1-6], nonostante l’esatta soglia di rischio relativa alla conta assoluta dei t-linfociti cd4+ e il ruolo di molteplici co-fattori (ivi inclusa la persistente replicazione virale) necessitino di ulteriore studio. inoltre, è risaputo come pesanti eventi clinici caratterizzino il decorso dei pazienti persi al follow-up e dei soggetti che abbandonano, rifiutano o assumono con aderenza largamente insufperché descriviamo questo caso? il caso clinico, pur nell ’eccezionalità del suo decorso, stimola nel curante diversi interrogativi, sia sulla possibile dinamica che ha portato alla stabilizzazione immunologica e virologica, sia sulla gestione dei pazienti non aderenti alla terapia antiretrovirale corresponding authorprof. roberto manfredi roberto.manfredi@unibo.it caso clinico abstract aim of our report is to present and discuss a paradigmatic case report of a patient followed for hiv infection for over twenty years, who, despite the initial diagnosis of aids presenter (due to the diagnosis of three episodes of cryptococcal meningo-encephalities, and one episode of pneumocystosis), showed a little or a complete lack of compliance to all the therapeutic regimens, including antiretrovirals, and primary and secondary antimicrobial chemoprophylaxis. despite the non-compliance during the last three years of follow-up (from poor adherence to voluntary and complete discontinuation of all the therapies) an unexpected clinical-laboratory stabilisation was observed, with progressive increase of cd4+ t-lymphocyte count (range 410 to 825 cells/µl), and hiv viraemia under control (range 5,970-24,000 hiv-rna copies/ml). this case report arises a number of open questions, concerning the anomalous course of the illness in this patient and the management of non-compliance. keywords: hiv infection, aids presenter, non-compliance, virological and immunological stabilisation virological and immunological stabilisation in aids-presenter, regardless antiretroviral therapy cmi 2010; 4(2): 57-63 1 dipartimento di medicina interna, dell’invecchiamento, e delle malattie nefrologiche, divisione di malattie infettive. “alma mater studiorum” università degli studi di bologna. policlinico s. orsolamalpighi, bologna stabilità virologica-immunologica in un aids presenter a prescindere dalla terapia antiretrovirale clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 58 stabilità virologica-immunologica in un aids presenter a prescindere dalla terapia antiretrovirale si riporta, come oggetto di discussione, un caso clinico estremamente inconsueto, relativo a un paziente con una storia di oltre venti anni di infezione da hiv nota, che ha sempre dimostrato aderenza estremamente ridotta e irregolare ai controlli clinico-laboratoristici, e ancor più a tutti i farmaci di volta in volta raccomandati e prescritti, anche dopo aver sofferto di due diverse infezioni opportunistiche diagnostiche di aids e pericolose per la vita, nonché di due episodi di recidiva della prima infezione (occorsi rispettivamente 14 e 12 anni fa). i puntichiave della disamina della storia clinica vanno ricercati in particolare nel follow-up successivo alla dimissione dopo la quarta, principale patologia opportunistica (una grave pneumocistosi polmonare). nonostante la volontaria, pressoché assente aderenza a tutti i regimi farmacologici antiretrovirali e antinfettivi fortemente raccomandati dai sanitari fin dal primo riscontro dell’infezione da hiv, questo aids presenter è riuscito a recuperare e a mantenere nel corso degli ultimi 12 anni una conta assoluta soddisfacente dei t-linfociti cd4+ (variabile tra 410 e 825 cellule/µl), con una parallela percentuale delle cellule cd4+ compresa tra 23% e 31%, in presenza di livelli di viremia plasmatica di hiv sostanzialmente stabili (compresi tra un minimo di 5.970 copie di hiv-rna/ml, e il più recente, massimo livello pari a 24.000 copie di hiv-rna/ml). descriviamo di seguito il decorso clinicolaboratoristico e il suo follow-up, che attualmente supera i venti anni. caso clinico un paziente di sesso maschile di 45 anni con infezione da hiv presumibilmente contratta negli anni ’80 per uso di eroina ev, veniva diagnosticato nel dicembre 1990, e successivamente iniziava una terapia antiretrovirale con sola zidovudina presso un altro centro. dopo sei mesi, cessava spontaneamente l’assunzione del farmaco e non effettuava alcun controllo clinico e laboratoristico per i successivi otto anni. giunto alla nostra attenzione nel dicembre 1998, a seguito del riscontro di una conta assoluta di t-linfociti cd4+ ridotta a 150 cellule/µl, e di una viremia di hiv elevata a 122.000 copie di hiv-rna/ml, veniva sottoposto a numerosi tentativi di cart consecutivi: lamivudina + zidovudina + saquinavir; y lamivudina + zidovudina + nelfinavir; y lamivudina + stavudina + nelfinavir; y lamivudina + didanosina + lopinavir/riy tonavir. tuttavia il paziente dimostrava sempre un’aderenza assolutamente modesta, tendeva a interrompere spontaneamente le diverse linee terapeutiche proposte, e a non presentarsi alla maggior parte dei controlli clinici, mostrando quindi una compliance assolutamente inadeguata non soltanto nei confronti di tutti i regimi cart prescritti, ma anche alle chemiprofilassi antimicrobiche primarie, nonostante l’assenza di evidenti intolleranze o eventi avversi, o di reazioni allergiche a tutti i farmaci antiretrovirali e antinfettivi di volta in volta raccomandati. in occasione degli svariati episodi di ospedalizzazione (meglio descritti più avanti) non venivano rilevate malattie concomitanti di rilievo, e venivano escluse altre cause di immunodeficienza. tra aprile 1995 e novembre 1997 si rendevano necessari quattro episodi di ricovero ospedaliero presso il nostro centro. inizialmente il paziente sviluppava una meningoencefalite da cryptococcus neoformans, trattata favorevolmente con amfotericina b liposomiale, ma complicata da una recidiva occorsa 14 settimane più tardi, dovuta a una precoce autodimissione del paziente dall’ospedale dopo soli 12 giorni di terapia antimicotica, e dal pervicace rifiuto del trattamento antiretrovirale e antimicotico, nonché alla mancata aderenza ai controlli clinici programmati. nell’ambito della ricaduta dell’infezione da c. neoformans, che veniva nuovamente isolato sia dal liquido cerebrospinale sia dalle emocolture, parallelamente al riscontro di positività per lo specifico antigene polisaccaridico sia sul liquor sia sul sangue, persisteva completa suscettibilità del lievito a tutti i farmaci antifungini testati in vitro. dopo 28 giorni di somministrazione di amfotericina b liposomiale associata a flucitosina si otteneva la negativizzazione della ricerca microscopica e colturale delle blastospore di criptococcus dal liquor e dal sangue, con associata remissione della sintomatologia meningo-encefalitica. sei settimane dopo la dimissione (basata sulla scomparsa di segni e sintomi neurologici e sistemici, e sulla raggiunta negativizzazione delle ricerche microscopiche e colturali delle blastopore di c. neoformans su liquor e sangue), si presentava una nuova recidiva di meningo-encefalite, nonostante l’accettazione del paziente della ripresa della cart clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 59 r. manfredi (condotta con zidovudina, lamivudina, e nelfinavir). all’epoca, lo studio microbiologico del liquor cefalo-rachidiano conduceva all’inatteso isolamento di una rara, isolata infezione da cryptococcus laurentii: questo inf requente lievito veniva caratterizzato con appropriate tecniche di laboratorio, e si dimostrava tra l’altro resistente in vitro sia ad amfotericina b sia a flucitosina, mentre manteneva completa sensibilità a tutti gli antifungini azolici disponibili. nel contempo, c. neoformans non veniva rilevato da tutte le ricerche micologiche appositamente condotte. veniva immediatamente intrapresa una terapia antimicotica con fluconazolo ev ad alte dosi (1.000 mg/die, seguito dopo un settimana da 800 mg/die), mentre il trattamento antiretrovirale veniva continuato senza variazioni. dopo 43 giorni di ricovero ospedaliero, gli esami microscopici e colturali per c. laurentii risultavano negativi su liquor, mentre l’assunzione della cart otteneva un recupero immunologico significativo, come dimostrato da una conta assoluta di t-linfociti cd4+ pari a 256 cellule/µl (il massimo valore fino ad allora raggiunto dal nostro paziente), in associazione con il primo riscontro assoluto di livelli di viremia di hiv indosabile (hivrna < 500 copie/ml). dopo ulteriori 17 settimane, in cui il paziente veniva nuovamente perso al followup, la comparsa di una nuova grave patologia opportunistica aids-correlata (una pneumocistosi polmonare confermata) richiedeva un’altra ospedalizzazione e una terapia antimicrobica specifica. nel corso di tale ricovero, la conta dei linfociti cd4+ era scesa a 202 cellule/µl, mentre la viremia di hiv era risalita a 56.000 copie di hiv-rna/ml, per mancata assunzione della cart. anche a seguito dell’ultima ospedalizzazione, il paziente continuava ad accedere ai nostri servizi ambulatoriali con grande irregolarità (meno di una volta all’anno in media, e per lo più estemporaneamente) e continuava ad assumere antiretrovirali con livelli di aderenza estremamente inaffidabili per circa 18 mesi, sospendendo successivamente di sua iniziativa tutti i farmaci anti-hiv, nonché tutte le chemioprofilassi antimicrobiche secondarie consigliate. nonostante ripetuti tentativi di counselling portati avanti da tutto lo staff sanitario del nostro centro, il paziente proseguiva nella sua assunzione del tutto irregolare dei farmaci antiretrovirali per alcuni mesi, e interrompeva di sua iniziativa la terapia nell’anno 2000 (dieci anni fa), pur continuando a eseguire controlli clinici e laboratoristici a intervalli estremamente irregolari, presso i nostri servizi ambulatoriali. non si rivolgeva nel frattempo ad altri centri clinici. purtroppo, tecniche di monitoraggio terapeutico dei farmaci (therapeutic drug monitoring, tdm) non erano ancora disponibili all’epoca presso il nostro centro, così come saggi virologici e immunologici avanzati. nel corso dell’ultimo decennio di follow-up, la conta dei t-linfociti cd4+ del paziente sorprendentemente oscillava tra 410 cellule/µl (23% dei t-linfociti totali) fino addirittura a 825 cellule/µl (31% dei t-linfociti), mentre la viremia plasmatica di hiv variava tra 5.970 e 24.000 copie di hiv-rna/ml, in totale assenza di qualsivoglia terapia antiretrovirale (nella nostra regione, la distribuzione di tutti i farmaci antiretrovirali è centralizzata presso un unico centro, in cui vengono registrate elettronicamente tutte le prescrizioni). nello stesso periodo, il paziente ci riferiva di aver cessato l’assunzione di sostanze d’abuso. un test genotipico di farmacoresistenza di hiv, effettuato nel novembre 2006, non evidenziava alcuna mutazione né resistenza nei confronti di tutte le molecole antiretrovirali testate, ivi compresi i farmaci assunti nel passato dal paziente con compliance insufficiente. dopo ulteriori due anni di tempo trascorsi in assenza di accertamenti clinici, un controllo recente ha confermato l’assenza di segni e sintomi, e la stabilità della situazione immuno-virologica dell’infezione da hiv: t-linfociti cd4+ = 560 cellule/µl (30% y dei t-linfociti totali); viremia di hiv = 24.000 copie di hivy rna/ml. impiegando campioni di siero congelati negli anni passati, il virus hiv del paziente è stato caratterizzato come appartenente al clade b. un successivo test del tropismo per il co-recettore ccr-5 (test “trofile”), praticato 10 settimane dopo l’ultima dimissione, mostrava il mantenimento di un tropismo virale per il recettore ccr-5. ancora una volta, probabilmente a causa dei “rinforzi” psicologici derivanti dall’erronea interpretazione da parte del paziente dei test di laboratorio rimasti sostanzialmente stabili, e dell’assenza di segni e sintomi specifici di malattia, il paziente ha continuato a fare riferimento sempre al nostro centro, e a rifiutare ogni sorta di terapia antiretrovirale, proseguendo nell’effettuazione di soli conclinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 60 stabilità virologica-immunologica in un aids presenter a prescindere dalla terapia antiretrovirale trolli clinici e laboratoristici, a cadenza per di più saltuaria. apparentemente, proprio in parallelo con il comportamento incongruo perpetuato dal soggetto nei confronti dell’assunzione di qualsivoglia terapia farmacologica (e in particolare della cart), nel corso degli ultimi 12 anni si è andata via via confermando una stabilizzazione completamente inattesa dell’assetto immunologico cellulo-mediato (conta dei t-linfociti cd4+ compresa tra 410 e 825 cellule/µl, in tutti i controlli finora disponibili), in associazione a un recente, moderato incremento della viremia di hiv (range compreso tra un minimo di 5.970 e un massimo di 24.000 copie di hiv-rna/ml, all’ultimo controllo disponibile). in occasione della visita più recente, il paziente ha riportato e manifestato completa stabilità clinica, assenza di disturbi hivcorrelati maggiori e minori, sebbene si sia presentato in meno della metà dei controlli programmati presso i nostri ambulatori, non abbia eseguito accessi presso altri centri ospedalieri, e abbia mantenuto una completa sospensione di qualsivoglia medicamento (cart compresa), ormai perdurante da oltre tre anni. discussione a nostro avviso, il caso clinico riportato fa emergere numerosi punti di dibattito, sebbene anche osservazioni aneddotiche possano fornire rilevanti elementi di discussione nell’ambito della gestione dell’infezione da hiv in ampie coorti di pazienti. la problematica principale, che non sembra trovare risposte affidabili sulla base di quanto finora noto in letteratura, è il recupero apparentemente “spontaneo” di una sorta di competenza immunitaria dopo oltre venti anni di infezione da hiv nota in un aids presenter estremamente immunocompromesso in sede di prima diagnosi, e la concomitante assenza di un severo rialzo della viremia di hiv, dopo periodi prolungati di mancata aderenza a tutti i regimi antiretrovirali proposti, nonché il definitivo, totale abbandono di qualsivoglia terapia efficace su hiv, volontariamente praticato dal paziente in contrasto con tutte le raccomandazioni da parte dei sanitari. mentre i cosiddetti long-term non-progressors rappresentano un sottogruppo numericamente molto esiguo della popolazione di pazienti hiv-positivi [7], non hanno mai sofferto di patologie aids-correlate, e non necessitano di ricevere una cart in accordo con le attuali linee guida terapeutiche [6], questo non appare essere affatto il caso del paziente da noi osservato, che oltre venti anni fa si è presentato alla nostra attenzione come aids presenter, già affetto da molteplici, gravi, e recidivanti patologie opportunistiche aids-correlate, associate a una conta di linfociti cd4+ estremamente compromessa. in un tale scenario clinico, soggetti classificati come aids presenter che abbiano già sofferto di molteplici infezioni opportunistiche aids-correlate (tre episodi di meningoencefalite criptococcica e uno di pneumocistosi polmonare nel nostro caso), sono gravati da una prognosi severa, segnata da una progressione ineluttabile verso patologie opportunistiche nuove o recidivanti, pericolose per la vita e a evoluzione spesso fatale, soprattutto nei casi in cui una cart potente e un’appropriata chemioprofilassi primaria o secondaria delle principali infezioni vengono rifiutate o effettuate irregolarmente [1,2,4-6]. d’altra parte, il paziente qui descritto ha manifestato addirittura tre episodi di meningo-encefalite criptococcica (uno di essi già descritto, in quanto causato dalla specie c. laurentii, raramente patogena per l’uomo) [8], seguiti da un episodio di pneumocistosi accertata, in un’epoca in cui la sua conta assoluta di t-linfociti cd4+ era al di sotto della nota soglia di rischio delle 200 cellule/µl, valida per patologie aidscorrelate quali criptococcosi e pneumocistosi [3,6]. mentre la tendenza intrinseca del nostro paziente a mostrare un’aderenza sempre estremamente ridotta alla cart e a tutte le terapie e profilassi antinfettive ha portato alla rapida comparsa e recidiva di ben tre episodi di meningoencefalite criptococcica in un periodo di tempo relativamente breve, come pure all’insorgenza di una nuova infezione opportunistica quale la pneumocistosi polmonare nei primi anni del suo ventennale follow-up (a conferma dell’elevato indice di recidive e di re-ospedalizzazioni di pazienti che manifestano ridotta aderenza alla cart e alle terapie e profilassi in genere) [5,6,9], sorprendentemente nel corso dei successivi 12 anni non si sono presentate manifestazioni cliniche di rilievo, le valutazioni immunologiche di base hanno sempre confermato valori di linfociti cd4+ periferici largamente superiori a 200-300 cellule/µl, e i test virologici hanno evidenziato modeste modificazioni temporali (ivi compreso il riclinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 61 r. manfredi conoscimento di un virus hiv appartenente al clade b, il mantenimento di un tropismo del recettore ccr-5, e la completa assenza di mutazioni genotipiche, probabilmente evitate dall’assunzione molto limitata di antiretrovirali da parte del paziente, che negli ultimi anni ha totalmente abbandonato qualunque regime cart). la presenza di un tropismo per ccr-5 potrebbe aver mantenuto bassi i livelli di fitness del virus, contribuendo a spiegare almeno in parte la stabilizzazione di malattia in assenza di terapia antiretrovirale. nello stesso periodo di tempo, la cessazione dell’abuso di droghe potrebbe aver giocato qualche ruolo positivo sul decorso clinico, mentre da parte nostra abbiamo certezza circa la mancata prescrizione di qualsivoglia regime antiretrovirale presso altri centri diversi dal nostro (tali prescrizioni sono informatizzate), sebbene all’epoca non fossero disponibili saggi di tdm presso la nostra istituzione. d’altra parte, noi stessi abbiamo avuto modo di osservare recentemente alcuni pazienti hiv-positivi con un decorso clinico e laboratoristico stabile a lungo-lunghissimo termine, nonostante livelli di aderenza ai regimi cart estremamente inadeguati (es. soggetti che hanno volontariamente dimezzato la posologia quotidiana di tutti gli antiretrovirali prescritti, proseguendo tali regimi per anni contro parere sanitario) [10], ma ancora una volta questo non è il caso del paziente qui descritto, che ha sempre manifestato una compliance irregolare e del tutto insufficiente a prescindere dai diversi regimi cart proposti nel corso dell’intero followup effettuato sempre presso il nostro centro, e ha attraversato una fase di malattia conclamata caratterizzata da una gravissima immunodeficienza, e dalla comparsa e successiva recidiva di diverse affezioni opportunistiche tipicamente aids-correlate. la situazione clinica e laboratoristica relativamente stabile offriva al paziente l’errata impressione di poter ridurre a proprio piacimento la frequenza dei monitoraggi clinici e laboratoristici, fino ad arrivare infine a interrompere volontariamente ogni sorta di terapia antiretrovirale e antimicrobica nel corso degli ultimi tre anni. le erronee convinzioni del paziente erano rafforzate dal più recente rilievo di una conta assoluta di linfociti cd4+ relativamente “sicura”, pari a 560 cellule/µl (30% di tutti i t-linfociti), sebbene in presenza di un moderato aumento della carica virale (passata a 24.000 copie di hiv-rna/ml), rispetto a determinazioni di laboratorio precedenti effettuate in condizioni cliniche sovrapponibili, e in assenza di cart e di altre terapie efficaci. comunque, alcuni autori hanno recentemente inquadrato uno spettro molto ampio di condizioni che possono contribuire a far rifiutare o a far postporre la terapia antiretrovirale anche in soggetti con infezione da hiv a elevato rischio di progressione clinica [11] (tabella i), e probabilmente il nostro paziente necessiterebbe di un approccio psicologico e comportamentale mirato e personalizzato, che possa renderlo cosciente dell’elevato rischio di complicazioni pericolose per la vita connesse con le sue scelte, e ancor più del rapporto costo/beneficio estremamente favorevole che le odierne terapie antiretrovirali garantiscono. conclusioni l’atipico caso clinico qui descritto, seppure non foriero di riflessioni estrapolabili all’intera popolazione di soggetti hiv-positivi, lascia numerose questioni aperte al dibattito, ancor più che offrire improbabili tentativi di intepretazione patogenetica, circa quali equilibri si siano creati in questa singola, del tutto particolare evenienza clinica. anche tenendo in debito conto tutte le limitazioni insite nelle osservazioni aneddotiche, e la nostra impossibilità di aver accesso a indagini virologiche e immunologiche di alto livello, siamo fortemente convinti che uno straordinario recupero clinico-immunologico a partenza da una condizione di aids presenter associata a profondi deficit immunitari e a quattro episodi di grave opportunismo correlato ad aids conclamato, fino a giungere a una persistente conduzione di stabilità clinica e immunologica nonostante l’aderenza ridottissima a tutti i regimi antiretrovirali e antimicrobici di volta in volta tabella i motivi di scarsa aderenza alla terapia antiretrovirale individuati dallo studio di rogowskaszadkowska e colleghi [11] mancanza di indicazioni per la terapia (elevata conta dei t-linfociti cd4+, y bassa carica virale) timore di eventi avversi correlati alla terapia antiretrovirale y trattamento di patologie concomitanti, es. terapia con interferone per hcv y lunga distanza da un medico (70-100 km) y dipendenza da sostanze stupefacenti y attesa di nuovi farmaci con minori eventi avversi y timore che l’assunzione dei farmaci prescritti possa interferire con le attività y della vita quotidiana dipendenza dall’alcol y abbandono della terapia dopo un breve periodo di assunzione e scarsa y tolleranza clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 62 stabilità virologica-immunologica in un aids presenter a prescindere dalla terapia antiretrovirale proposti dopo le dimissioni seguite agli episodi di ospedalizzazione, e nonostante il successivo, completo abbandono di ogni regime cart perdurante già da tre anni, possa rappresentare oggetto di dibattito da parte dei medici che trattano persone con infezione da hiv. il caso, inoltre, potrebbe contribuire a invitare alla segnalazione e alla raccolta di casi analoghi da effettuarsi su database prospettici nazionali e internazionali, ai fini di individuare eventuali fattori genetici, immunologici, virologici, e patogenetici, che possano essere alla base di tale inatteso, favorevole andamento dell’infezione da hiv a lungo termine, anche in pazienti già affetti da aids conclamata. l’inattesa stabilizzazione clinico-laboratoristica del paziente presenta insoliti risvolti punti chiave la diagnosi di infezione da hiv in fase già avanzata (c.d. pazienti aids presenter), è y un evento di per sé segnato da una prognosi sfavorevole, in quanto il soggetto con infezione misconosciuta o trascurata non ha potuto trarre beneficio dalle attuali, potenti terapie antiretrovirali di combinazione in termini di aderenza, le attuali terapie antiretrovirali combinate (combined antiretroy viral therapy, o cart), richiedono livelli altissimi di compliance del paziente (livelli richiesti pari a superiori al 95% delle dosi prescritte), ai fini di garantire l ’efficacia ottimale e di scongiurare l ’emergere di ceppi di virus hiv farmaco-resistente in presenza di un grave deficit immunitario associato all ’infezione da hiv, l ’elusione y delle profilassi antinfettive in pazienti con aids conclamata che hanno già manifestato infezioni opportunistiche “maggiori” è foriera di un’elevatissima morbilità e mortalità per ulteriori patologie opportunistiche, e ancor più per recidive delle stesse affezioni già sofferte nel passato il riscontro di una stabilizzazione clinica, di un recupero immunologico, e di livelli di y replicazione virale di hiv relativamente sotto controllo, nonostante un’aderenza alla cart largamente insufficiente per anni, seguita dal totale abbandono di ogni supporto farmacologico da tre anni a questa parte, rappresenta un evento del tutto eccezionale, non riscontrabile finora in letteratura è però esperienza degli autori [10] che anche livelli di aderenza alla cart valutati come y largamente sub-ottimali dalle attuali linee guida non necessariamente portino a un deterioramento dell ’assetto virologico e immunologico dell ’infezione da hiv, e a una successiva progressione clinica di malattia anche casi clinici aneddotici come quello presentato si dimostrano di estremo interesse clinicoy pratico oltre che scientifico, e invitano alla segnalazione e alla raccolta di casi analoghi psicologici e pratici: da un lato funge da potente “rinforzo” positivo per il soggetto, che si vede giustificato a proseguire nella sua gestione personalizzata ma del tutto incongrua della propria malattia, e dall’altro mette in grande imbarazzo gli operatori sanitari, che ogni volta vengono “smentiti” nelle loro affermazioni relative alle necessità terapeutiche del paziente, a loro volta basate sulle esperienze internazionali e sulle vigenti linee guida per la gestione terapeutica dell’infezione da hiv. disclosure l’autore dichiara di non avere alcun conflitto di interessi di natura finanziaria. bibliografia atzori c, clerici m, trabattoni d, fantoni g, valerio a, tronconi e et al. assessment of 1. immune reconstitution to pneumnocystis carinii in hiv-1 patients under different highly active antiretroviral therapy regimens. j antimicrob chemother 2003; 52: 276-81 sabin ca, smith cj, gumley h, murphy g, lampe fc, phillips an et al. late presenters in 2. the era of highly active antiretroviral therapy: uptake of and responses to antiretroviral therapy. aids 2004; 18: 2145-51 clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 63 r. manfredi green h, hay p, dunn dt, mccormack s. a prospective multicentre study of discontinuing 3. prophylaxis for opportunistic infections after effective antiretroviral therapy. hiv med 2004; 5: 278-83 battegay m, fehr j, flückiger u, elzi l. antiretroviral therapy of late 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(diagnosi di carcinomi indolenti, spontaneamente non destinati a divenire sintomatici) è inevitabile nello screening oncologico. la sua rilevanza dipende da diverse condizioni: la prevalenza di cancri indolenti, l’anticipazione diagnostica (lead time) e l’aggressività dello screening, l’aspettativa di vita in funzione della fascia di età. il sovratrattamento (trattamento delle lesioni sovradiagnosticate) accompagna quasi sempre la sovradiagnosi, sia per l’impossibilità di identificare i singoli casi di carcinoma indolente da sottoporre a sola sorveglianza (lo stadio iniziale e un pattern non aggressivo possono suggerire l’indolenza ma sono anche marker di diagnosi precoce, atta a ridurre la mortalità), sia per la limitata aggressività delle terapie, accettabile in funzione del beneficio dello screening. sovradiagnosi e sovratrattamento assumono importanza diversa in funzione della neoplasia oggetto di screening e questo merita una breve riflessione, anche alla luce di opinioni allarmistiche o trionfalistiche che di tanto in tanto fanno capolino creando solamente confusione. che la sovradiagnosi e il sovratrattamento sarebbero stati un grave problema era prevedibile per il carcinoma prostatico, per le molte condizioni favorenti. studi autoptici mostravano elevata prevalenza di carcinoma latente (30-80% in soggetti deceduti per altra causa [1]). il lead time è stimato nell’ordine di 10-12 anni [2]. il psa, test di screening, alterato nel 12-15% degli esaminati, indica la biopsia multipla della prostata, ideale per la diagnosi casuale di neoplasie latenti [3]. l’età media di screening (65 anni) è associata a un’aspettativa di vita di 15 anni (dati italiani), simile al lead time. la sovradiagnosi è stimata almeno al 50% o superiore, a seconda dell’aggressività dello screening [2,4]. in assenza di screening organizzato il poco efficiente screening spontaneo ha causato una vera “epidemia” di carcinoma in tutto il mondo occidentale. negli usa l’incidenza è più che raddoppiata, con un picco nel 1992 e trend analoghi sono stati osservati in molti paesi (australia, svezia) e anche in italia. ad esempio a firenze, dove lo screening spontaneo non esisteva prima del 1990 e la biopsia si è limitata al 15-20% dei casi con indicazione [5], l’incidenza nei maschi di ≥ 55 anni è passata dal 97,9 (x 100.000) nel 1985 al 297,9 nel 2005 (+ 204%), con un chiaro trend dal 1990 [6]. l’aumento di incidenza è stato tale da far percepire subito il rischio di sovratrattamento. si sono sperimentate alternative attendistiche (ad esempio watchful waiting) e attualmente la sorveglianza attiva (active surveillance) è comunemente adottata nei cp a presentazione più favorevole (tipicamente nei casi t1-2; gleason < 7; psa < 10). tale atteggiamento conservativo è purtroppo poco impiegato nell’europa del sud (italia compresa) e dell’est e il sovratrattamento è ancora un enorme ostacolo alla raccomandazione dello screening di popolazione: pur nella evidenza di efficacia (studio erspc = riduzione di mortalità del 20% [3]), gli effetti negativi della sovradiagnosi e soprattutto del sovratrattamento comportano un bilancio sfavorevole in termini di qualità di vita. il carcinoma mammario è un’altra storia. studi autoptici [7] hanno dimostrato prevalenza assai inferiore di carcinoma invasivo e editoriale 1 consulente screening mammografico asl 20 verona, p.o. marzana corresponding author dott. stefano ciatto. asl 20 verona, p.o. marzana. piazza r. lambranzi 1, 37142 marzana (vr) stefano.ciatto@gmail.com clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 4 editoriale in situ (rispettivamente 1,3% e 8,9%). l’anticipazione diagnostica della mammografia è stimata intorno a 2-3 anni [8,9]. il tasso di biopsie (percutanee o chirurgiche) in screening è al massimo del 2-3% [9]. l’età media di screening è 60 anni e l’aspettativa di vita mediamente di 20 anni (dati italiani). le stime di sovradiagnosi, in base ai trial randomizzati (gothenburg e two counties = 1% [10]; nbss i (canada) = 14% [11]; nbss ii = 11% [11]; edinburgh = 13% [11]) e a screening “di servizio” (firenze = 0-13% [1213]) sono abbastanza rassicuranti e non si è mai sostenuto che la sovradiagnosi potesse compensare negativamente i benefici dello screening, che infatti viene comunemente raccomandato dalla ce [14]. con lo screening non si è verificata alcuna “epidemia” di carcinoma mammario: ad esempio in firenze, con copertura totale dal 1990, l’incidenza (50-69enni) è salita da 178,2 nel 1985 a 279,0 nel 2005 (+ 56%, assai meno del + 204% osservato per il carcinoma prostatico), con un trend sostanzialmente stabile [6]. trend analogo è stato osservato in molti altri paesi occidentali dopo l’implementazione di un programma nazionale. in realtà c’è qualche voce contraria, in particolare di alcuni autori scandinavi che sostengono una sovradiagnosi molto più elevata, fino al 30-40% [15] e che lo screening possa fare “più male che bene”. questi studi sono stati fortemente criticati dalla comunità scientifica per l’inadeguatezza del disegno statistico (ad esempio mancato aggiustamento per lead time e dubbia comparabilità delle aree geografiche a confronto) e non sono risultati convincenti. il sovratrattamento è la regola nei casi di carcinoma mammario sovradiagnosticati: nessuno propone la sorveglianza dei carcinomi iniziali o in situ perché non si dispone di indicatori affidabili per l’identificazione delle neoplasie indolenti, perché il deciso shift verso stadi iniziali alla diagnosi è alla base della efficacia dello screening, e infine perché il trattamento sempre più conservativo adottato riduce l’impatto negativo del sovratrattamento. consapevoli però dell’esistenza di un certo grado di sovradiagnosi e sovratrattamento, monitoriamo la terapia adottata [16] per identificare procedure troppo aggressive (ad esempio mastectomia vs chirurgia conservativa, chirurgia ascellare nei carcinomi in situ). la sovradiagnosi di carcinoma invasivi è teoricamente possibile nello screening del carcinoma della cervice uterina (ad esempio è sostenibile che un carcinoma cervicale stadio ia in una donna di 65 anni al suo primo pap test sia sovradiagnosticato), ma di fatto ogni eccesso da sovradiagnosi viene cancellato dalla grossolana riduzione di incidenza dovuta alla bonifica delle displasie cervicali, il reale meccanismo per cui lo screening è efficace, ben evidente i tutti i paesi dove lo screening è adottato da oltre 30 anni. la facile comunicazione alla donna della innocuità di queste lesioni una volta trattate rende minimo l’impatto psicologico della consapevolezza di malattia, comune invece in caso di carcinoma invasivo. il sovratrattamento invece è realtà importante, anche se riguarda lesioni precancerose (carcinoma in situ e displasie gravi). nonostante poche di queste lesioni siano destinate a evolvere in carcinoma, l’impossibilità di identificarle e la limitata invasività della terapia (conizzazione, resezione con ansa, spesso ambulatoriali o in day hospital e con restitutio ad integrum dell’anatomia) rendono accettabile una quota di sovratrattamento probabilmente attorno al 70-80%. caso abbastanza analogo è quello dello screening del carcinoma colorettale. anche qui non si può escludere la sovradiagnosi di forme indolenti, ma anche questo è cancellato dalla diminuzione di incidenza conseguente alla bonifica delle lesioni precancerose (adenomi). tale bonifica è importante sia per lo screening endoscopico, anch’esso raccomandato ma di limitata diffusione [17] per la bassa rispondenza della popolazione, sia per il test del sangue occulto fecale (sof), comunemente adottato: questo, ripetuto ogni 2 anni, consente la diagnosi di un numero di adenomi avanzati addirittura superiore all’endoscopia. poca sovradiagnosi, quindi, ma certamente sovratrattamento, anche in questo caso di lesioni precancerose di cui poche sarebbero progredite fino a carcinoma ma che vengono trattate sia per la limitatezza delle terapie che per la notevole efficacia dello screening: la bonifica degli adenomi è spesso eseguita per via endoscopica ambulatoriale e i pochi casi di resezione limitata intestinale non hanno in genere sequele rilevanti. riassumendo, sovradiagnosi e sovratrattamento, sia pure presenti in misura non trascurabile, non giustificano dubbi sulla convenienza dei tre screening attualmente in atto nella ce e in italia. i benefici dallo screening con mammografia, pap test e sof superano di gran lunga gli effetti negativi di sovradiagnosi e sovratrattamento, clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 5 s. ciatto al momento inevitabili. il fenomeno deve però essere monitorato per verificare eccessi, legati per lo più a protocolli di screening e trattamento inadeguati. sovradiagnosi e sovratrattamento, invece, sono importanti al punto di controindicare lo screening di popolazione per il carcinoma prostatico. nonostante l’evidenza di efficacia [3], il carico in casi sovradiagnosticati e sovratrattati (48 per ogni vita salvata nello studio erspc) è inaccettabile. è peraltro possibile che il monitoraggio dello studio erspc (nel tempo il succitato rapporto 48:1 dovrebbe calare perché i carcinomi clinicamente significativi diagnosticati precocemente nel braccio di screening compaiono successivamente nel braccio di controllo) e la diffusione di scelte di sorveglianza attiva possano modificare il bilancio costi/benefici nei prossimi anni. bibliografia holund b. latent prostatic cancer in a consecutive autopsy series. 1. scand j urol nephrol 1980;14: 29-43 draisma g, boer r, otto sj, van der cruijsen iw, damhuis ra, schröder fh et al. lead times 2. and overdetection due to prostate-specific antigen screening: estimates from the european randomized study of screening for prostate cancer. j natl cancer inst 2003; 95: 868-78 schröder fh, hugosson j, roobol mj, tammela tl, ciatto s, nelen v et al. screening and 3. prostate-cancer mortality in a randomized european study. n engl j med 2009; 360: 1320-8 zappa m, ciatto s, bonardi r, mazzotta a. overdiagnosis of prostate carcinoma by screening: 4. an estimate based on the results of the florence screening pilot study. ann oncol 1998; 9: 1297-300 ciatto s, houssami n, martinelli f, giusti f, zappa m. psa use and incidence of prostate 5. biopsy in the tuscany region: is opportunistic screening discounting biopsy in subjects with psa elevation? tumori 2008; 94: 518-22 rtt registro tumori toscano: 6. http://www.ispo.toscana.it/rtrt/statistiche/sede.html, ultimo accesso 15.01.2010 w7. elch hg, black wc. using autopsy series to estimate the disease “reservoir” for ductal carcinoma in situ of the breast: how much more breast cancer can we find? ann intern med 1997; 127: 1023-8 duffy sw, lynge e, jonsson h, ayyaz s, olsen ah. complexities in estimation of overdiagnosis 8. in breast cancer screening. br j cancer 2008; 99: 1176-8 zappa m, spagnolo g, ciatto s, giorgi d, paci e, rosseli del turco m. measurement of the 9. costs in two mammographic screening programmes in the province of florence, italy. j med screen 1995; 2: 191-4 duffy sw, agbaje o, tabar l, vitak b, bjurstam n, björneld l et al. overdiagnosis and 10. overtreatment of breast cancer: estimates of overdiagnosis from two trials of mammographic screening for breast cancer. breast cancer res 2005; 7: 258-65 moss s. overdiagnosis and overtreatment of breast cancer: overdiagnosis in randomised 11. controlled trials of breast cancer screening. breast cancer res 2005; 7: 230-4 p12. uliti d, zappa m, miccinesi g, falini p, crocetti e, paci e. an estimate of overdiagnosis 15 years after the start of mammographic screening in florence. eur j cancer 2009; oct 28: 1-13 [epub ahead of print] p13. aci e, warwick j, falini p, duffy sw. overdiagnosis in screening: is the increase in breast cancer incidence rates a cause for concern? j med screen 2004; 11: 23-7 perry nm, broeders m, de wolf c, tornberg s, holland r, von karsa l. 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51 anni. nella primavera del 2001, all’età di 45 anni, si presenta dal medico curante per il persistere, da alcune settimane, di una lieve astenia. la paziente è ipertesa dall’età di 34 anni e per questo assume enalapril 20 mg/die. null’altro di rilevante in anamnesi a parte appendicectomia a 18 anni. l’anamnesi fisiologica è nella norma. la donna è coniugata, con 2 figli, e non ha avuto aborti. la madre e una sorella sono ipertese, il padre è diabetico. all’esame obiettivo emerge un moderato sovrappeso e lieve epatomegalia. il curante prescrive alcuni esami ematochimici dai quali si rilevano: got = 56 ui/l (vn < 47 ui/l); gpt = 47 ui/l (vn < 37 ui/l);   abstract metabolic syndrome is a common clinical condition often associated with hepatic steatosis and sometimes with mild transaminases and gamma-glutamyl transpeptidase increase. we report a case of a 45-years-old female, with mild increase of alt, who was followed-up in our department. a liver biopsy was then performed when an atorvastatin-induced alt flare, as well as a positive antinuclear antibody appearance, occurred. a picture of steatohepatitis with sever fibrosis and cirrhosis was found. a caloric restriction with physical activity as well as the use of metformin were recommended. in the following 6 years the patient develops a decompensated cirrhosis and was referred to a transplant unit. this case suggests that non alcoholic steatohepatitis and cirrhosis can develop in patients with metabolic syndrome, especially when other cofactors of liver damage, as alcohol, may be superimposed. in non alcoholic steatohepatitis liver biopsy is mandatory to stage the disease. moreover it is always recommended when different causes may concur to liver damage in the same patient. keywords: metabolic syndrome, nafld, nash, non alcoholic steatohepatitis, cirrhosis a case of metabolic syndrome, positive antinuclear antibodies and cirrhosis. cmi 2007; 1(3): 129-138 1 uoc di medicina interna e gastroenterologia, dipartimento di scienze mediche, ospedale san paolo, savona caso clinico corresponding author dott. alessandro grasso uoc di medicina interna e gastroenterologia, dipartimento di scienze mediche, ospedale san paolo, via genova 37, savona perché descriviamo questo caso? per sensibilizzare il medico internista e il medico di medicina generale all ’identificazione di pazienti con sindrome metabolica a rischio di epatopatia cronica evolutiva (steatoepatite con fibrosi), in modo da poter attivare un programma di follow-up e una corretta stadiazione della malattia che, seppur infrequentemente, può condurre a cirrosi e alle sue complicanze fosfatasi alcalina = 311 ui/l (vn < 300 ui/l); gamma-gt = 189 ui/l (vn < 35 ui/l); hb = 12,3 g/dl; ht = 44%; gb = 4.860 mm3; plt = 153.000 mm3.       clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 130 un caso di sindrome metabolica, antinucleo positività e cirrosi epatica vengono prescritte ulteriori indagini: quick = 96%; colinesterasi = 5.212 ui/l; glicemia = 112 mg/dl; colesterolo totale = 261 mg/dl; hdl-colesterolo = 39 mg/dl; trigliceridi = 187 mg/dl; anti-hcv = negativo; hbsag = negativo; anti-hbsag = positivo; anti-hbcag = positivo. viene inoltre effettuata un’ecografia dell’addome superiore con riscontro di modesta epatomegalia a ecostruttura brillante per steatosi, margini regolari, vena porta di 10 mm di calibro, assenza di splenomegalia. la paziente viene inviata all’ambulatorio epatologico del nostro dipartimento. domande da porre alla paziente da quanto tempo le sono state riscontrate alterazioni degli enzimi epatici? vi è una storia di malattia del fegato nei suoi genitori o fratelli e sorelle? quanto vino o birra beve nell ’arco della giornata? ha assunto continuativamente farmaci negli ultimi 6 mesi? da un approfondimento anamnestico risulta che la paziente ha avuto un incremento ponderale dopo la prima gravidanza (a 26 anni), ha utilizzato la pillola estro-progestinica dall’età di 32 anni sino ai 42 anni (1998), usa saltuariamente ibuprofene, assume 1 bicchiere e mezzo di vino a pranzo e cena da oltre 20 anni, non utilizza nessuna forma di alcol fuori pasto e fuma 10 sigarette al giorno. all’esame obiettivo: pa = 130/80 mmhg; bmi = 28,4; circonferenza vita = 93 cm, lieve epatomegalia. i risultati degli esami biochimici precedenti, che la paziente ci porta successivamente in visione, sono elencati in tabella i.               vengono raccomandate l’astensione assoluta dall’alcol, una dieta ipocalorica, a basso contenuto di grassi animali, e una congrua attività fisica; inoltre sono prescritti controlli semestrali degli enzimi epatici, della glicemia e del profilo lipidico. nell’arco dei 12 mesi successivi vi è persistenza di lieve ipertransaminasemia (< 1,5 vn) con ggt pari a 3 volte i valori normali. nel frattempo viene prescritta dal cardiologo atorvastatina 10 mg/die che la paziente assume dal settembre 2001. gli esiti degli esami effettuati dopo 3 mesi e dopo 6 mesi sono riportati in tabella ii. viene quindi sospesa l’atorvastatina e nel maggio 2002 gli esami sono nuovamente ripetuti, mostrando valori di got = 145 ui/l, gpt = 186 ui/l e ggt = 231 ui/l. la paziente viene nuovamente inviata al nostro ambulatorio epatologico dipartimentale. un ulteriore controllo biochimico rileva: got = 140 ui/l; gpt = 169 ui/l; ggt = 226 ui/l; fosfatasi alcalina = 326 ui/l; bilirubina totale = 1,3 mg/dl; quick = 86%; plt = 154.000 ui/l; albumina = 3,8 g/dl; glicemia = 133 mg/ml; gamma-globuline = 1,1 g/dl; ana positivo (tit. 1/320, fluorescenza punteggiata); ama negativo; asma negativo; lkma negativo; ceuloplasmina = 32 mg/dl; alfa 1 antitripsina = 223 mg/dl; ferritina = 423 mg/dl; indice di saturazione della transferrina = 39%; sierologia per celiachia negativa. viene ripetuta la determinazione degli ana che si confermano positivi (1/160).                    esame del novembre 1988 esame del giugno 1993 esame del maggio 1998 got 41 ui/l 37 ui/l 39 ui/l gpt 52 ui/l 40 ui/l 54 ui/l ggt 112 ui/l 113 ui/l bilirubina totale 0,9 mg/dl tabella i risultati degli esami biochimici condotti prima del 2001 clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 131 a. grasso la ricerca di mutazione del gene hfe per l’emocromatosi genetica (alleli c282y, h63d e s65c) risulta negativa. ad un controllo ecografico si conferma una lieve epatomegalia con ecostruttura brillante, ma contrariamente a quanto descritto dalla precedente ecografia, viene segnalata una ecostruttura disomogenea con margini lievemente irregolari. la milza risulta essere di 11 cm di diametro longitudinale. domande da porsi la paziente ha fondamentalmente una sindrome metabolica con ipertransaminasemia, steatosi all ’ecografia e assenza di marker per virus dell ’epatite b e c. ho bisogno di altre informazioni per una corretta diagnosi? l’antinucleo positività ha signif icato eziologico? è necessaria una biopsia epatica per una miglior identificazione eziologica? devo consigliare una qualche forma di terapia? nel giugno 2002 viene effettuata una biopsia epatica che riscontra un marcato grado di fibrosi con ponti porto-portali e porto-centrali a delimitare aree nodulari di epatociti, infiammazione portale di grado moderato, degenerazione palloniforme nella zona 3, steatosi macrovescicolare nel 50% degli epatociti. vi è assenza di deposti di ferro. il quadro istologico è di steatoepatite con cirrosi (figura 1). viene effettuata un’egd-scopia che riscontra varici esofagee piccole (< 5 mm) con gastropatia congestizia di grado lieve. la paziente viene posta in follow-up biochimico ed ecografico semestrale e viene introdotta in terapia metformina 2 g/die. nella primavera del 2005 vi è riscontro endoscopico di varici > 5mm e gastropatia congestizia di grado moderato. viene introdotto un beta-bloccante (propranololo 60 mg/die). nell’ottobre 2006 riscontro ecografico di falda di versamento ascitico sottodiaframmatica e periepatica. vena porta pervia di 12 mm di calibro. i parametri biochimici sono i seguenti: hb = 12,3; ht = 29,8; mcv = 98; plt = 96.000; quick = 58%; albumina = 3,3 g/dl; bilirubina totale = 2,4 mg/dl (dir 1,7); got = 56 ui/l; gpt = 42 ui/l; alp = 231 ui/l; ggt = 68 ui/l; colinesterasi = 2.167 ui/l; colesterolo totale = 190 mg/dl; hdl = 37 mg/dl; trigliceridi = 156 mg/dl; glicemia = 156 mg/dl,     hb glicosilata = 6,9%; creatinina = 0,9 mg/ dl. il quadro è di cirrosi epatica secondaria a nash, l’indice child pugh è pari a b8, quello meld è pari a 10. la paziente viene quindi avviata a visita trapiantologica. tabella ii risultati degli esami a 3 mesi e 6 mesi dall ’assunzione di atorvastatina esami di dicembre 2001 esami di marzo 2002 got 118 ui/l 172 ui/l gpt 106 ui/l 221 ui/l ggt 211 ui/l 233 ui/l cpk 184 ui/l colesterolo totale 206 mg/dl ldl-colesterolo 144 mg/dl hdl-colesterolo 42 mg/dl trigliceridi 156 mg/dl figura 1 quadro di steatoepatite con cirrosi discussione nella fase diagnostica pre-bioptica questo caso suggeriva 3 ipotesi eziopatogenetiche. la prima consisteva in una genesi primitivamente autoimmune (epatite autoimmune di tipo i), ipotesi suggestiva poiché la paziente è di sesso femminile e presentava ana positività a titolo medio-alto. peraltro la storia naturale di malattia lieve o poco attiva (transaminasi solo lievemente alterate nel corso di un ventennio), un incremento recente della citolisi solo in occasione dell’assunzione di atorvastatina con un rapporto alp/got di 2,32 e un iaihg (international autoimmune hepatitis group) score [1] pre-biopsia di 9, non consentivano di sostenere pienamente l’ipotesi autoimmune. la riduzione dell’iaihg score dopo la biopsia (da 9 a 4), ha consentito di abbandonare definitivamente questa ipotesi. clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 132 un caso di sindrome metabolica, antinucleo positività e cirrosi epatica vi era poi la possibilità di una citolisi di tipo immunomediato slatentizzata da atorvastatina, una condizione infrequente ma descritta in letteratura [2,3]. a supporto di tale ipotesi vi era il moderato flare citolitico apparentemente indotto dall’atorvastatina e persistente dopo la sospensione della stessa, come se quest’ultima avesse potuto agire da trigger di un danno che si era poi automantenuto in maniera attiva. tale ipotesi è però smentita dalla biopsia che non ha descritto alcun elemento riferibile a danno immunologico (come ad esempio epatite d’interfaccia, infiltrato necroinfiammatorio linfoplasmacellulare, rosette di epatociti o aggregati linfoidi). un’ulteriore ipotesi, infine, era quella di un’epatopatia steatosica a genesi metabolica con concomitante modesta, ma non trascurabile, assunzione di alcol, a cui si era sovrapposto un transitorio danno iatrogeno da atorvastatina. la presenza di sindrome metabolica era orientativa in tal senso. e non devono trarre in inganno né la positività degli ana, poiché la si riscontra nel 20% dei pazienti con epatopatia steatosica non alcolica in associazione a un maggior grading infiammatorio e staging fibrotico alla biopsia [4], né la suscettibilità a un sovrapposto danno iatrogeno. la biopsia epatica ha riscontrato in effetti una steatoepatite, ma anche e soprattutto la presenza di cirrosi, che non era prevedibile poiché la storia naturale suggeriva piuttosto una malattia moderata. in tal senso si può sostenere che la concomitante prolungata assunzione di almeno 30 g/die di alcol sia stata una concausa di danno e che abbia accelerato i processi fibrogenetici che hanno condotto alla cirrosi. le questioni cruciali che ci pone il caso clinico sono pertanto: quale sia la storia naturale della epatopatia steatosica non alcolica; quali siano i fattori associati alla progressione (fibrosi avanzata e cirrosi); quale sia il ruolo della biopsia in questa condizione clinica e più in generale nelle epatopatie croniche. i soggetti con ipertransaminasemia, assenza di eziologia virale e di assunzione di significative quantità di alcol (non superiore ai 20 g/die) in presenza di steatosi all’ecografia, possono essere inquadrati come portatori di epatopatia steatosica non alcolica (nafld – non alcoholic fatty liver disease – secondo la letteratura anglosassone). di essi circa il 15-20% presenta steatoepatite non alcolica    (nash – non alcoholic steatohepatitis) a potenziale rischio evolutivo. la nafld è f requente nei pazienti obesi e raggiunge il 90% se sono contemporaneamente presenti obesità, ipertensione arteriosa e diabete mellito. altre caratteristiche frequenti sono la dislipidemia, l’incremento in genere modesto delle transaminasi (in molti casi con got/gpt > 1), iperuricemia e iperferritinemia. le caratteristiche metaboliche sono pertanto quelle dei pazienti con sindrome metabolica. numerosi studi riportano che la prevalenza di sindrome metabolica (secondo i criteri atp iii) in pazienti con nafld va dal 18% al 63%. il meccanismo patogenetico che conduce a steatosi, steatoepatite e fibrosi in pazienti con sindrome metabolica è molto complesso ed è fondamentalmente mediato dall’induzione di insulinoresistenza (figura 2). la progressione in cirrosi e nelle sue complicanze è rispettivamente del 5% e 3% [5]. sebbene tali percentuali siano inferiori a quelle delle malattie croniche a genesi virale e alcolica, il suo impatto nella popolazione generale è destinato a crescere se si considera che il 25% della popolazione generale ha sindrome metabolica, che il 16% della popolazione generale ha steatosi all’ecografia e di queste, come detto, il 15-20% presenta steatoepatite [6]. mentre conosciamo più nel dettaglio la storia naturale delle malattie virali, poco sappiamo di quella di nafld/nash. per quanto riguarda l’epatite c, ad esempio, il 5-20% circa dei pazienti che mantengono l’infezione dopo esposizione al virus è in grado di sviluppare cirrosi dopo 20-25 anni dal momento presunto del contagio virale [7]. i pazienti con cirrosi hcv correlata hanno un rischio del 30% dopo 10 anni di avere malattia epatica scompensata e un rischio di epatocarcinoma dell’1-2% per anno [8]. l’entità dell’ipertransaminasemia ha un’importanza relativa. se è vero che valori persistentemente elevati di transaminasi sono associati a gradi più avanzati di fibrosi [9], è altrettanto vero che fibrosi avanzata o cirrosi all’istologia possono essere presenti, seppur in una percentuale minima (1-5%), in soggetti con infezione da hcv e transaminasi persistentemente normali [10]. per quanto riguarda la nafld, sappiamo che dal 5 al 15% dei pazienti seguiti prospetticamente nel tempo svilupperà cirrosi [5,11]. la variabilità temporale tra il momento presunto di esordio della nafld clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 133 a. grasso figura 2 meccanismo patogenetico della steatoepatite non alcolica fegato muscolo cuore tgl accumulo ectopico snc (ipotalamo) pancreas ffa fegato normale steatosi accumulo di lipidi nel fegato infiammazione massa adiposa ros ossidazione sintesi epatica attivazione cellule stellate leptina adiponectina alterata regolazione produzione citochine tnfα insulino resistenza fibrosi (variabile costantemente assente negli studi) e l’esiguità di studi prospettici, rendono perlopiù speculative tali percentuali. infatti lo studio più numeroso, condotto su ben 420 pazienti con nafld, ha un followup medio di 7,6 anni [5]. la causa epatica, peraltro, è la terza causa di morte in tali pazienti, sottolineando ancora una volta come il soggetto con nafld ha maggiori possibilità di morire per causa cardiovascolare che epatica. ciò spiega anche perché la cirrosi criptogenetica (espressione tardiva della nafld/nash) sia solo la quinta causa di trapianto di fegato [12]. inoltre, in pazienti con nafld/nash, non abbiamo informazioni sull’impatto della terapia nella riduzione dell’incidenza di cirrosi, delle sue complicanze e dell’epatocarcinoma in particolare. è noto che la risposta sostenuta al trattamento antivirale di pazienti con epatite cronica da virus c riduce significativamente il tasso di comparsa di cirrosi, che la risposta al trattamento in pazienti con cirrosi compensata riduce di ben 7 volte la mortalità per cirrosi e di 2,6 volte il rischio di epatocarcinoma [13]. è altrettanto noto che il trattamento con analoghi nucleosidici della cirrosi da virus b è in grado di ridurre la mortalità per cirrosi e la comparsa di complicanze [14]. non vi sono purtroppo dati che dimostrino che la modificazione dello stile di vita o la somministrazione di terapie farmacologiche in pazienti con nafld/ nash o cirrosi criptogenetica abbiano un impatto altrettanto favorevole sull’outcome, in particolare sull’incidenza di nash, mortalità per cirrosi, epatocarcinoma e per causa non epatica. uno degli aspetti cruciali nella gestione del paziente con epatopatia steatosica non alcolica è l’identificazione di quali pazienti siano maggiormente a rischio di progressione. i fattori in grado di predire l’evoluzione in fibrosi e/o cirrosi sono stati ampiamente studiati. le variabili cliniche maggiormente associate al rischio evolutivo sono risultate clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 134 un caso di sindrome metabolica, antinucleo positività e cirrosi epatica essere la presenza di obesità, di diabete e di dislipidemia, e in minor misura l’ipertensione arteriosa, il sesso femminile, il valore di transaminasi e il rapporto ast/alt > 1. pertanto, quanto più sono presenti gli aspetti correlati alla sindrome metabolica, tanto più il paziente ha un rischio di fibrosi avanzata [15,16]. una volta posta la diagnosi di nash è auspicabile agire terapeuticamente su due fronti: il trattamento dell’insulinoresistenza, al fine di ridurre il rischio di progressione della malattia epatica; la correzione delle anomalie metaboliche nel singolo paziente, al fine di ridurre il rischio cardiovascolare e la mortalità per causa non epatica. sebbene vi siano alcun studi che suggeriscono l’efficacia di metformina, rosiglitazone e pioglitazone, una recente revisione sistematica non ha riscontrato elementi per sostenere che il trattamento farmacologico con insulinosensibilizzanti abbia effetti favorevoli in pazienti con nash [17]. analogamente non vi sono evidenze sull’efficacia di altri presidi terapeutici (antiossidanti, acido ursodesossicolico, propiltiouracile, probiotici), mentre la restrizione dietetica e l’attività fisica finalizzate alla perdita di peso corporeo in pazienti obesi rimane l’unica indicazione terapeutica concreta. una prospettiva terapeutica futura potrà probabilmente essere rappresentata da farmaci capaci di interagire con i recettori dei cannabinoidi (antagonisti dei cb1 e agonisti dei cb2): molecole in grado di interagire con tali recettori sembrano in grado di ridurre la progressione della fibrosi sperimentale [18]. tra i fattori concausali in grado di promuovere la progressione di malattia in pazienti con epatopatia cronica di qualsivoglia eziologia vi sono l’alcol, i virus epatotropi (hcv, hbv ), l’accumulo di ferro, l’uso di farmaci a potenzialità epatolesiva e la sindrome metabolica. una combinazione di più fattori agisce in maniera sinergica nella progressione della fibrosi. è noto come vi siano maggiori gradi di fibrosi in pazienti con epatite cronica da virus c che assumono quantità significative di alcol o che abbiano steatosi o steatoepatite non alcolica alla biopsia [19,20]. analogamente soggetti con sindrome metabolica hanno una maggior progressione della fibrosi se utilizzano alcol [21] ed entrambe le categorie di malattia (virale e metabolica) sono maggiormente suscettibili di progressione della   fibrosi se esposte a farmaci con potenziale epatotossicità. la diagnosi di cirrosi nella nostra paziente è giunta nel 2002 sostanzialmente inattesa. in soggetti con epatopatia cronica, la storia clinica di malattia moderata non rappresenta un criterio prognostico affidabile per escludere a priori la presenza di cirrosi. ciò vale per tutte le cause, comprese le malattie a genesi virale e la nash. ne consegue che la diagnostica speculativa può essere possibile solo in presenza di segni palesi di malattia ad andamento evolutivo (piastrinopenia, splenomegalia, evidente irregolarità del profilo e dell’ecostruttura epatica all’ecografia) o delle sue complicanze (riscontro endoscopico di varici esofagee o di gastropatia congestizia, ascite, encefalopatia). in mancanza di tali condizioni, come si verifica nella maggioranza dei pazienti osservati ambulatorialmente, abbiamo a disposizione due tipi di indagini diagnostiche: i metodi invasivi − quali la biopsia epatica − e i metodi non invasivi, sia biochimici che strumentali (elastometria epatica). la biopsia epatica riveste tutt’ora un ruolo fondamentale nel caso in cui è necessario “stadiare” la malattia, ovvero quantificare lo stadio di fibrosi sino alla cirrosi, e in secondo luogo quando è necessario identificare aspetti utili alla diagnosi eziologica, se non è stato possibile definirla altrimenti. nel nostro caso entrambe le condizioni sono state soddisfatte, poiché mediante biopsia è stato possibile identificare la cirrosi, altrimenti sottostimata dalla sola valutazione clinica, nonché escludere aspetti flogistico-necrotici di natura tossica (farmaci) o autoimmune, mostrando invece l’importante grado di steatosi. è stato inoltre escluso l’accumulo intraepatico di ferro. la biopsia epatica è comunque un’indagine invasiva e va riservata ai casi in cui il risultato della stessa sia oggettivamente in grado di modificare le strategie di follow-up e di terapia. per tale motivo stanno assumendo un ruolo sempre più importante i metodi non invasivi. negli ultimi anni sono stati proposti almeno 6 test biochimici e alcuni di essi sono stati validati prospetticamente in pazienti con epatite cronica c. attualmente si ritiene che i test disponibili possano dare informazioni in circa un terzo dei pazienti con epatite cronica c principalmente quando usati in combinazione [22]. recentemente sono stati proposti e validati score prognostici biochimici anche nella nafld clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 135 a. grasso [23], ma il loro potere predittivo dovrà essere confermato su popolazioni numerose di pazienti seguiti prospetticamente. l’elastometria epatica o fibroscan è invece una metodica strumentale non invasiva che utilizza una sonda ecografica con un trasduttore capace di emettere onde elastiche a bassa frequenza che si propagano in maniera diversa a seconda del grado di durezza, e quindi di fibrosi, del fegato. in tal modo è possibile riconoscere i gradi di fibrosi assente o minima da quelli più avanzati, mentre è meno efficace il potere discriminante nei gradi intermedi. intorno all’elastometria vi è un crescente interesse scientifico per le potenzialità diagnostiche e nel follow-up della fibrosi avanzata, della cirrosi e dell’ipertensione portale, anche se uno dei limiti è rappresentato proprio dalla presenza di obesità e di importante steatosi. un algoritmo diagnostico in pazienti con epatopatia cronica è proposto in calce al presente articolo. entrambi i metodi biochimico (fibrotest) e fibroscan hanno un potere predittivo della fibrosi ≥ f2 rispettivamente dell’80% e del 73%, mentre la combinazione delle 2 metodiche raggiunge l’84% [24]. conclusioni il caso clinico presentato dimostra come stadi avanzati di malattia epatica possano essere presenti in soggetti con sindrome metabolica. pertanto nello screening delle epatopatie croniche la sindrome metabolica e la sua espressione epatica, la nafld/ nash, devono sempre essere tenute in considerazione, tanto più che, per motivi epidemiologici, esse occupano una parte percentualmente rilevante nella totalità delle epatopatie croniche. la diagnosi clinica di nafld/nash può essere in alcuni casi difficile quando si sovrappongono elementi clinici fuorvianti, quali la positività di autoanticorpi non organo specifici o flare delle transaminasi, come nel caso presentato. in questi casi la biopsia epatica è essenziale per chiarire la diagnosi. il caso presentato ha evidenziato come talvolta la storia naturale, quand’anche si ipotizzi o si conosca la causa dell’epatopatia cronica, possa essere ingannevole, portando a sottostimare il danno epatico reale qualora si considerino degli elementi clinici che non hanno una stretta correlazione con l’outcome. questo è il caso delle variazioni delle transaminasi nel tempo, in particolare nella epatopatia metabolica, dove ha molto più valore la presenza contemporanea di più condizioni cliniche proprie della sindrome metabolica, poiché il danno epatico è diretta espressione dello stress ossidativo indotto dall’insulinoresistenza. l’outcome clinico, poi, può essere condizionato da fattori concausali di danno, in primis l’alcol e i farmaci. l’assunzione protratta nel tempo di dosi anche modeste di alcol o la presenza di uso cronico di farmaci a potenzialità epatolesiva, sono elementi che debbono far sospettare una malattia istologicamente più avanzata e far pendere la bilancia decisionale verso un accertamento morfologico anche invasivo, quale la biopsia epatica. la biopsia epatica mantiene un importante ruolo diagnostico in pazienti con sospetta epatopatia metabolica, principalmente per finalità di stadiazione. nella stadiazione soprattutto delle epatopatie virali e in minor misura nei soggetti con epatopatia steatosica, lo spazio della biopsia si sta rapidamente riducendo a favore dei test non invasivi, e dell’elastometria in particolare, anche se saranno necessari ulteriori studi su popolazioni numerose per definire correttamente il loro reale ruolo diagnostico e prognostico. gli errori da non commettere considerare la steatosi nel paziente obeso o in sovrappeso come una condizione priva di significato clinico ritenere che modeste quantità di alcol in un soggetto con segni di epatopatia cronica o fattori di rischio per essa siano prive di rischi evitare di raccomandare una modificazione dello stile di vita nel paziente obeso con sindrome metabolica e ipertransaminasemia minimizzare l ’importanza di una corretta diagnosi con stadiazione qualora vi siano fattori evidenti di rischio per malattia avanzata (fibrosi severa e cirrosi)     clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 136 un caso di sindrome metabolica, antinucleo positività e cirrosi epatica raccomandazioni fare sempre un’anamnesi e un esame fisico accurati ricercare sempre informazioni sulla storia naturale della malattia in quel paziente (entità delle alterazioni enzimatiche nel tempo, cofattori di danno epatico, comorbidità) ottenere una stadiazione accurata con metodica eventualmente concordata con lo specialista epatologo effettuare una terapia solo se di comprovata efficacia (antivirali nelle epatopatie virali, modificazione stile di vita nella epatopatia metabolica, immunosoppressori nelle epatiti autoimmuni, ecc) se è presente cirrosi, attivare un programma di sorveglianza rigoroso      algoritmo diagnostico nel paziente con sospetta epatopatia cronica diagnosi presuntiva di epatopatia cronica anamnesi ed esame obiettivo test biochimici funzionali test biochimici eziologici piastrine albumina bilirubina totale quick/inr colinesterasi colesterolo totale antihcv hbsag glicemia colesterolo tot e hdl trigliceridi infezione da hcv infezione da hbv nafld/nash stop sintesi epatica normale ecografia endoscopia segni di cirrosi e/o ipertensione portale farmaci comobidità familiarità età sesso alcol test di stadiazione non invasivi (determinazioni seriate) test biochimici fibroscan biopsia epatica neg got e/o gpt ± alp e/o ggt da almeno 6 mesi pos si no ana, asma lkma ama ferritinemia % saturaz. transferrina ceruloplasmina alfa-1-antitripsina iga anti-transglutaminasi cpk tsh epatite autoimmune tipo i epatite autoimmune tipo ii cirrosi biliare primitiva emocromatosi morbo di wilson deficit di α1-at celiachia malattia muscolare tireopatia test non concordanti test non congruenti con la clinica follow up 10% epatopatie criptogenetiche neg test concordanti test congruenti con la clinica sintesi epatica insufficiente clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 137 a. grasso bibliografia 1. alvarez f, berg pa, bianchi fp, bianchi l, burroughs ak, cancado el et al. international autoimmune hepatitis group report: review of criteria for diagnosis of autoimmune hepatitis. j hepatol 1999; 31: 929-38 2. pelli n, setti m. atorvastatin as a trigger of autoimmune hepatitis. j hepatol 2003; 39: 1095-7 3. alla v, abraham j, siddiqui j, raina d, wu gy, chalasani np et al. autoimmune hepatitis triggered by statin. j clin gastroenterol 2006; 40: 757-61 4. adams la, lindor kd, angulo p. the prevalence of autoantibodies and autoimmune hepatitis in patients with nonalcoholic fatty liver disease. am j gastroenterol 2004 ; 99: 1316-20 5. adams la, lymp jf, 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lombare in scansione postero-anteriore. la paziente era affetta, inoltre, da malattia infiammatoria intestinale (mii) da circa 30 anni in remissione da oltre sei mesi. dall’esame delle precedenti cartelle cliniche era emerso come, a seguito di visita gastroenterologica, sulla base di un sospetto clinico per mii, lo specialista avesse indirizzato la paziente all’esecuzione di un clisma del tenue e di indagini endoscopiche accurate. in particolare, efficacia di risedronato in una donna in post-menopausa affetta da osteoporosi e malattia infiammatoria intestinale abstract post-menopausal osteoporosis is a skeletal disease that can be asymptomatic and is sometimes underdiagnosed and undertreated. post-menopausal osteoporosis can be associated with fractures and consequent impaired quality of life and increase of health care costs. bisphosphonates are a therapeutic choice, because they proved to be effective in preventing bone loss. the current case report shows the efficacy of six-month risedronate administration in a post-menopausal woman affected by osteoporosis and inflammatory bowel disease in reducing biochemical bone turnover markers and increasing bone mineral density. keywords: inflammatory bowel disease, menopause, osteoporosis, risedronate efficacy of risedronate in a post-menopausal woman affected by osteoporosis and inflammatory bowel disease cmi 2010; 4(2): 71-76 1 cattedra di ginecologia e ostetricia. università degli studi di catanzaro “magna graecia” corresponding author dott. stefano palomba stefanopalomba@tin.it caso clinico perché descriviamo questo caso? l’osteoporosi post-menopausale ha ingenti ripercussioni cliniche ed elevati costi diretti e indiretti. nella stessa epoca della vita, un fattore di rischio aggiuntivo è oggi rappresentato dalla coesistenza di malattie intestinali infiammatorie (mii), per le quali la somministrazione a lungo termine di glucocorticoidi induce un ulteriore incremento del rischio di osteoporosi e quindi di frattura patologica. il caso clinico qui descritto mette in luce gli specifici aspetti diagnostici e terapeutici evidenziando l ’efficacia e la sicurezza della somministrazione di un bisfosfonato di terza generazione, risedronato, in una paziente in post-menopausa affetta da osteoporosi e mii in remissione clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 72 efficacia di risedronato in una donna in post-menopausa affetta da osteoporosi e malattia infiammatoria intestinale scopia con endoscopio rigido. durante ogni esame sono state eseguite biopsie multiple. il referto del clisma del tenue con doppio contrasto riportava: «attraverso una sonda con punta nella terza porzione duodenale si iniettano i mezzi di contrasto. la terza porzione duodenale riceve evidente impronta aortica. anse digiunali e anse ileali regolari fino alla fossa iliaca destra. l’ultima ansa ileale, che è plastica, appare dilatata per una lunghezza di circa 10 cm fino alla valvola ileociecale che è stenotica e ha calibro di 2 mm. sulla superficie mucosa dell’ultima ansa ileale sono presenti numerose ulcere aftoidi». al fine di valutare l’estensione della malattia ileale, la paziente era stata successivamente sottoposta a rx tenue, il cui referto riportava «la regolare progressione della sospensione baritata attraverso le anse del tenue digiunale e ileale. rappresentata l’ultima ansa del tenue ileale rivolta verso la valvola ileo-ciecale. cieco e porzione prossimale del colon ascendente in sede pelvica e medializzato». dalla lettura della documentazione portata dalla paziente non era emerso alcun ulteriore reperto rilevante a carico degli altri segmenti gastrointestinali. la paziente aveva, inoltre, portato alla nostra attenzione i risultati degli esami istologici. in particolare, a livello duodenale erano stati rinvenuti frammenti di mucosa duodenale con minima flogosi linfomonocitaria del chorion e lieve e focale aumento dei linfociti intraepiteliali. a livello del grosso intestino, l’esame bioptico aveva riportato la presenza di frammenti di mucosa ileale con discreta flogosi linfomonocitaria estesa in profondità, con emperipolesi e distorsione ghiandolare; era stato inoltre rilevato un frammento necrotico flogistico. la diagnosi definitiva posta era, pertanto, di malattia di crohn (valvola ileo-cecale). anamnesi ed esame obiettivo attraverso la raccolta dell’anamnesi e dopo accurato esame obiettivo sono state escluse artrite reumatoide attiva, malattie epatiche, patologie metaboliche, neoplastiche o endocrine. nella paziente, inoltre, non sono state riscontrate altre possibili concause di osteoporosi come iperparatiroidismo, osteomalacia, morbo di paget delle ossa, osteodistrofia renale. in anamnesi familiare veniva riportata familiarità materna per frattura di femore non traumatica. per quanto riguarda l’anamnesi farmacologica, la paziente riferisce che, a seguito di diagnosi di mii, è stata sottoposta a terapia con mesalazina ad alte dosi (4 g/ die). a causa, però, della mancata risposta al trattamento, lo specialista le ha successivamente prescritto prednisolone 40 mg/die, la cui dose è stata ridotta gradualmente dopo 8 settimane di trattamento. durante la valutazione clinica iniziale, la paziente non riferiva uso di diuretici tiazidici o di altri farmaci interferenti con il metabolismo osseo. negava, inoltre, l’assunzione di glucocorticoidi e/o farmaci antiosteoporotici (bisfosfonati, calcitonina, estroprogestinici, steroidi anabolizzanti) negli ultimi 12 mesi. allo stesso modo, non riferiva l’utilizzo di farmaci ad azione lesiva sul tratto gastrointestinale e/o inibenti la secrezione gastrica. per quanto riguarda le abitudini di vita, la donna riferiva di essere una fumatrice (circa tre sigarette/die) e di assumere modiche quantità giornaliere di alcol (meno di due bicchieri di vino al giorno). durante la stessa visita è stato nuovamente calcolato il valore di crohn’s disease activity index (cdai), che è risultato < 120, confermando lo stato di quiescenza di malattia [1]. indagini di laboratorio in corso di valutazione basale è stato effettuato un prelievo ematico per confermare lo stato di post-menopausa della paziente, per escludere patologie endocrino-metaboliche a impatto osseo e per valutare i principali marker del metabolismo osseo. gli esiti delle rilevazioni dei principali parametri di laboratorio sono riportati in tabella i. per quanto concerne i marker biochimici di turnover osseo, sono stati dosati i livelli parametro livelli rilevati nella paziente livelli normali ormone follicolo-stimolante (fsh) 55 mui/ml 5-20 mui/ml estradiolo 15 pg/ml 20-400 pg/ml calcio 2,4 mmol/l 2,2-2,6 mmol/l fosforo 1,1 mmol/l 1,0-1,4 mmol/l paratormone 42,3 ng/l 10-65 ng/l vitamina d attivata 3,7 ng/ml 2-5 ng/ml tabella i principali parametri di laboratorio clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 73 s. palomba, m. rocca, a. falbo plasmatici di osteocalcina e le concentrazioni urinarie di deossipiridinolina, espressione rispettivamente di deposizione e riassorbimento osseo. esami strumentali al fine di confermare la remissione di malattia, al momento della valutazione basale sono state ripetute una egds e una pancolonscopia. dalle indagini è stata evidenziata l’assenza di lesioni caratteristiche di malattia di crohn. in particolare, la egds ha escluso la presenza di lesioni infiammatorie della mucosa esofagea, reperto importante per la successiva programmazione del trattamento con risedronato. è stata, inoltre, eseguita un’indagine radiografica della colonna dorso-lombare con lo scopo di escludere la presenza di deformità vertebrali. prima dell’inizio del trattamento la dmo è stata nuovamente valutata mediante dexa (hologic qdr 1000, waltham, ma) a livello della colonna lombare antero-posteriore (vertebre l2-4) e dell’ anca. il coefficiente di variazione (cv ) del densitometro per determinazioni ripetute della dmo è risultato dello 0,42% su fantoccio, mentre in vivo è risultato di 1,1% e 1,0% per la colonna lombare e il collo femorale, rispettivamente. il t-score della nostra paziente valutato a livello della colonna lombare e del collo del femore è risultato di -3,2 e -2,9 ds, rispettivamente. il rischio assoluto di frattura stimato a 10 anni secondo l’algoritmo frax [2] risultava pertanto del 14% per le principali fratture e del 3,6% per la frattura di femore, superando a tale livello la cosiddetta soglia di intervento farmacologico. terapia la paziente è stata trattata con risedronato alla dose di 35 mg settimanali per dodici mesi. le è stato consigliato di assumere il farmaco per os, al mattino a digiuno, con abbondante acqua, con successivo mantenimento del digiuno e della stazione eretta per almeno i trenta minuti successivi. non sono state fornite alla paziente restrizioni dietetiche, ma le è stata prescritta una supplementazione con 1.500 mg/die di calcio e 800 ui/die di colecalciferolo (vitamina d3). è stato, inoltre, suggerito alla donna di smettere di fumare, di praticare una regolare attività fisica quotidiana e di segnalare l’insorgenza di ogni evento avverso potenzialmente correlato al trattamento. decorso clinico a dodici mesi di follow-up non è stata evidenziata alcuna riacutizzazione della malattia del crohn. al momento della rivalutazione, infatti, il cdai è risultato < 120, a conferma dello stato quiescenza della mii. la paziente ha ridotto il numero di sigarette fumate giornalmente, non assume più alcolici, sebbene non sia riuscita a incrementare e regolarizzare la propria attività fisica quotidiana. la compliance al trattamento è risultata ottimale. la paziente non ha presentato alcun effetto collaterale relativo all’assunzione del farmaco. dopo dodici mesi di trattamento, è stata rilevata una riduzione dei valori di osteocalcina sierica (1,18 nmol/l vs 1,79 nmol/l al basale) e delle concentrazioni urinarie di deossipiridinolina (4,17 nmol/mmol vs 6,02 nmol/mmol al basale). i controlli dexa sono stati eseguiti con lo stesso strumento da parte dello stesso tecnico di radiologia. le variazioni di dmo dopo dodici mesi di trattamento sono state espresse come percentuale rispetto ai valori registrati al basale in g/cm2. in particolare, è stata riscontrata una dmo significativamente più alta rispetto al valore basale, sia a livello della colonna lombare (0,579 vs 0,563 al basale), sia a livello del collo femorale (0,521 vs 0,483 al basale). il t-score della colonna lombare e del collo femorale è risultato, rispettivamente, di -2,9 e -2,7 ds. il rischio assoluto di frattura stimato a 10 anni secondo l’algoritmo frax [2] è risultato quindi del 13% per le principali fratture e del 2,9% per la frattura di femore. complessivamente, a dodici mesi di trattamento la dmo ha subito un incremento del 7% rispetto ai valori basali; tale trend positivo è stato successivamente confermato dall’esecuzione di una dexa dopo 48 mesi di terapia, in cui è stato evidenziato un aumento di dmo dell’11% rispetto al basale. non sono state riportate fratture patologiche durante il periodo di follow-up. conclusioni diagnostiche la somministrazione di risedronato alla dose di 35 mg settimanali è risultata efficace nella riduzione dei marker di turnover osseo e nel miglioramento della densità ossea in una donna in post-menopausa con osteoporosi e mii in remissione. la paziente non ha subito fratture da fragilità e il trattamento non ha causato alcun effetto collaterale. clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 74 efficacia di risedronato in una donna in post-menopausa affetta da osteoporosi e malattia infiammatoria intestinale domande da porsi quali sono i rischi della terapia steroidea y a lungo termine? qual è il rischio di frattura in una pay ziente con mii? possono i bisfosfonati ridurre la probabiy lità di frattura in post-menopausa? vi sono potenziali controindicazioni y all ’uso dei bisfosfonati? come deve essere monitorizzata nel tempo y la paziente? discussione il caso clinico qui esposto evidenzia l’efficacia dei bisfosfonati e in particolare di risedronato nel trattamento della perdita di massa ossea in una paziente in post-menopausa con osteoporosi e con mii in remissione da più di sei mesi. la menopausa ha un impatto negativo sul metabolismo osseo secondario alle modifiche dell’assetto endocrinologico, caratterizzato da uno stato di fisiologico ipogonadismo [3]. la ridotta concentrazione di estrogeni circolanti, infatti, determina una mancata inibizione dell’azione degli osteoclasti, che a livello osseo inducono quindi un elevato turnover, determinando una riduzione totale della dmo. numerosi dati in letteratura dimostrano come le pazienti affette da mii abbiano, a parità di età, una minore dmo rispetto alla popolazione generale [4-6], con conseguente maggiore rischio di frattura [7-9]. le ipoteraccomandazioni diagnosi è necessario, prima di intraprendere un qualsiasi intervento per osteoporosi, attuare una diagnosi corretta della pay tologia attraverso la densitometria ossea con tecnica dexa, anamnesi ed esame obiettivo accurati, l ’esclusione dei più importanti fattori di rischio e l ’esecuzione di esami ematochimici di i ed eventualmente di ii livello volti a escludere le principali cause di osteoporosi secondaria. la diagnosi di mii e di osteoporosi deve essere formulata esclusivamente secondo i criteri diagnostici approvati y dall ’oms, garantendo una valutazione combinata clinica, biochimica e strumentale. in particolare, la diagnosi di osteoporosi viene posta a seguito del rilievo di un t-score di almeno 2,5 ds al di sotto del valore medio dei giovani adulti sani dello stesso sesso e della stessa razza, mentre la diagnosi di mii deve essere posta dopo un esame clinico approfondito, seguito da indagine endoscopica con esame istologico da biopsia. terapia è importante prestare molta cautela nell ’impiego prolungato dei corticosteroidi in menopausa. tali farmaci, infatti, y influiscono negativamente sul turnover osseo, aggravando ulteriormente la riduzione di densità minerale ossea indotta dal deficit di estrogeni. in un qualsiasi programma terapeutico, le modifiche dello stile di vita con riduzione o eliminazione di fattori di y rischio, quali sedentarietà, fumo di sigaretta e uso di alcolici, assumono un ruolo fondamentale in associazione alla terapia farmacologica. le indicazioni a una terapia farmacologica dell ’osteoporosi devono essere poste in base a un profilo globale di rischio y di frattura. in caso di utilizzo di un bisfosfonato orale, per favorirne il transito esofageo è bene assumerlo con un bicchiere di acy qua semplice (≥ 120 ml) mantenendo il busto in posizione eretta. una volta ingerita la compressa, è necessario che i pazienti evitino di coricarsi per 30 minuti (al fine di prevenire il reflusso gastroesofageo). la supplementazione di calcio e vitamina d deve essere presa in considerazione in caso di un loro apporto dietetico inadeguato. risedronato, se somministrato nella paziente priva di patologia gastroesofagea, è associato a un bassissimo tasso di y effetti collaterali. nonostante ciò, i bisfosfonati in generale sono stati associati ad esofagiti, gastriti, ulcere esofagee e ulcere gastroduodenali. si deve quindi prestare cautela: nei pazienti con anamnesi positiva per disturbi all ’esofago che provocano un ritardo del transito esofageo o dello y svuotamento gastrico, come restringimento o acalasia; nei pazienti incapaci di mantenere il busto eretto per almeno 30 minuti dal momento in cui assumono la comy pressa; se risedronato viene somministrato a pazienti con disturbi in corso, o di recente insorgenza, a carico dell ’esofago o y dell ’apparato gastrointestinale superiore. controindicazioni: ipocalcemia; gravidanza e allattamento; grave compromissione della funzionalità renale (cleay rance della creatinina < 30 ml/min). clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 75 s. palomba, m. rocca, a. falbo si più accreditate sostengono l’intervento di fattori sia dipendenti sia indipendenti nella patogenesi di tale riduzione di massa ossea, in particolare vengono annoverati l’elevata attività infiammatoria presente in corso di patologia intestinale [10] e la somministrazione abituale di glucocorticoidi [5,6]; in aggiunta, vengono considerati numerosi altri fattori, tra cui si ricordano malassorbimento, malnutrizione e deficit vitaminici (calcio, vitamina d, fosfato) [7,8,11-13]. per i suddetti motivi, la mii viene oggi considerata un fattore di rischio aggiuntivo di frattura osteoporotica nelle donne in post-menopausa [6]. diverse terapie hanno dimostrato un certo grado di efficacia nel miglioramento della massa ossea nelle pazienti affette da mii in post-menopausa [14-17]. a tale riguardo, i bisfosfonati [17-20] rappresentano farmaci alquanto efficaci nell’indurre un incremento della massa ossea in questa tipologia di pazienti. dalla letteratura è emersa, in particolare, la capacità di risedronato, bisfosfonato di terza generazione, di ridurre il reclutamento degli osteoclasti e di aumentarne l’apoptosi [19], ricostituendo l’integrità istologica del tessuto osseo. tali effetti biologici si ripercuotono positivamente sulla qualità ossea e sulla densità minerale, con successiva diminuzione del rischio di frattura [20-23]. a conferma dei dati riportati in letteratura, il presente caso clinico descrive gli effetti benefici della somministrazione di 35 mg settimanali di risedronato nell’indurre un incremento significativo della dmo lombare, oltre che un considerevole miglioramento in termini di riduzione dei marker di turnover osseo. di importanza fondamentale per tali trattamenti di lunga durata è la compliance del paziente alla terapia stessa. risedronato, infatti, presenta un tasso di effetti collaterali significativamente inferiore rispetto ai bisfosfonati di prima generazioni, quali clodronato ed etidronato. in accordo con la scheda tecnica, si consiglia la somministrazione con abbondante acqua e a stazione eretta, ma il rischio della comparsa di effetti collaterali a livello gastrico è risultato comunque basso, anche dopo un follow-up di tre anni [20]. nonostante l’elevata maneggevolezza del farmaco, è sempre necessario prima di intraprendere il trattamento escludere, clinicamente o eventualmente endoscopicamente, la presenza di esofagite, controindicazione assoluta al suo impiego. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. algoritmo diagnostico-terapeutico [24] valutazione fattori di rischio familiarità y età y profilo ormonale y stile di vita y fratture pregresse y farmaci y patologie endocrino-metaboliche associate y valutazione densità minerale ossea (dmo*) mediante dexa indicazioni al trattamento farmacologico precedenti fratture femorali e vertebrali (cliniche o morfometriche) donne in post-menopausa e uomini di età ≥ 50 anni altre fratture prevalenti e una bassa dmo* (t-score tra -1 e -2,5) dmo* t-score < -2,5 bassa dmo* (t-score tra -1 e -2,5; osteopenia) se in presenza di rischio di frattura osteoporotica ≥ 20% a 10 anni e/o di frattura femorale > 3% a 10 anni * dmo a livello della testa del femore, anca o colonna mediante dexa. rischio di frattura calcolato sulla popolazione italiana (o di provenienza del paziente) mediante l’algoritmo who (http://www.shef.ac.uk/frax) clinical management issues 2010; 4(2) ©seed tutti i diritti riservati 76 efficacia di risedronato in una donna in post-menopausa affetta da osteoporosi e malattia infiammatoria intestinale bibliografia best wr, becktel jm, singleton jw, kern f. development of a crohn’s disease activity index: 1. national cooperative crohn’s disease study. gastroenterology 1976; 70: 439-44 kanis ja, johnell o, oden a, johansson h, mccloskey e. frax™ and the assessment of 2. fracture probability in men and women from the uk. osteoporos int 2008; 19: 385-97 seeman e. pathogenesis of bone fragility in women and man. 3. lancet 2002; 359: 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management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 111 orazio zanetti 1, angela tommasoni 1,2, giulia lussignoli 1 delirio di gelosia associato a deficit della memoria caso clinico il signor ma, di anni 75, viene ricoverato presso il nostro irccs per la presenza di disturbi comportamentali, divenuti insostenibili per i familiari, associati a deficit cognitivi. da circa nove mesi la moglie e i figli descrivono la comparsa nel paziente di un deficit della memoria per fatti recenti, associato a difficoltà nella gestione del denaro e nella cogestione dell’azienda di famiglia che ha fatto crescere ed è ora affidata per gran parte ai figli. sempre da circa nove mesi sono presenti preoccupazioni eccessive nei confronti di situazioni normali della vita quotidiana con associata deflessione del tono dell’umore in assenza di causa apparente. un mese prima di essere valutato presso il nostro irccs il paziente presenta un episodio di disorientamento spaziale topografico mentre guida la sua automobile; successivamente sono comabstract alzheimer’s disease is a progressive and fatal neurodegenerative disorder manifested by cognitive and memory deterioration, progressive impairment of activities of daily living, and a variety of neuropsychiatric symptoms and behavioural disturbances. a correct and early diagnosis not only allows prompt treatment but can also give the person with alzheimer’s and his family more time to arm themselves with knowledge about this type of dementia and the best way to live with the disease. the role of family physician is very important in early diagnosis: dementia may be suspected if memory deficits are exhibited during the medical history and physical examination. information from the patient’s family members, friends and caregivers may also point to signs of dementia. we report a case of a 75-years-old man who was suffering from cognitive deficits and behavioural problems: the first disease symptom was a strong feeling of jealousy towards his wife. keywords: alzheimer’s disease, dementia, early diagnosis, jealousy jealousy delirium associated with memory deficits. cmi 2007; 1(3): 111-122 1 u.o. alzheimer centro per la memoria, irccs centro s. giovanni di dio fatebenefratelli, brescia 2 università degli studi, pavia caso clinico corresponding author prof. orazio zanetti u.o. alzheimer centro per la memoria, irccs centro s. giovanni di dio fatebenefratelli via piastroni 4, brescia ozanetti@fatebenefratelli.it perché descriviamo questo caso? perché la possibilità di formulare una diagnosi precoce e accurata di demenza, sia sindromica che eziologica, rappresenta senza dubbio uno dei frutti più significativi del progresso scientifico e metodologico al quale si è assistito, soprattutto nell ’ultimo decennio, nell ’ambito delle neuroscienze. la pratica medica per molti anni ha misconosciuto le demenze soprattutto nei soggetti di età avanzata e molto avanzata. ancora oggi è diffuso un certo “ageismo” (pregiudizio nei confronti della vecchiaia) che vede nel declino delle facoltà cognitive dell ’anziano una naturale conseguenza dell ’invecchiamento, o comunque un’ “accettabile” condizione che non è meritevole di indagini diagnostiche, che peraltro non sarebbero comunque giustificate perché si ritiene, erroneamenclinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 112 delirio di gelosia associato a deficit della memoria te, che non esistano cure né farmacologiche né non farmacologiche. in realtà la tempestività della diagnosi e l ’accuratezza della sua tipizzazione permettono di intervenire adeguatamente sui diversi domini, quali la cognitività, l ’umore e il comportamento, lo stato funzionale e le condizioni socio-ambientali ed assistenziali; consentono inoltre di formulare una prognosi. parte integrante del percorso di cura è il supporto dei familiari. la figura chiave per la formulazione del sospetto diagnostico e per garantire la continuità del processo assistenziale è il medico di famiglia parsi ripetuti episodi di delirio di gelosia nei confronti della moglie con agitazione, ansia, nonché aggressività verbale. è quest’ultimo sintomo, il delirio di gelosia e le crisi d’ira verso la moglie, che ha indotto i familiari a rivolgersi al nostro ospedale. il paziente vive con la moglie al proprio domicilio e ha tre figli; ha frequentato la scuola per 8 anni e successivamente ha lavorato come falegname nella azienda di famiglia che ha fatto diventare un’apprezzata impresa mobiliera. non ha mai bevuto alcolici né fumato. dall’anamnesi patologica remota si evince che all’età di 68 anni è stato ricoverato per un intervento di by-pass aorto-coronarico; in quella occasione vennero riscontrate la presenza di ipertensione arteriosa (da allora in trattamento farmacologico), insufficienza renale cronica di grado lieve secondaria ad amiloidosi renale (trattata con cicli di melfalan e desametasone dal 2001 al 2002), anemia macrocitica, ipertrofia prostatica, dislipidemia e ipoacusia bilaterale. l’anno successivo è stato sottoposto ad un intervento di safenectomia destra. le domande da porre ai familiari da quanto tempo sono presenti i disturbi cognitivi (memoria, attenzione, orientamento temporo-spaziale, linguaggio, prassia, calcolo)? qual è stato il primo disturbo cognitivo osservato (memoria, linguaggio o altro)? come si è evoluto nel tempo? vi è presenza di impatto funzionale (in particolare si indagano nei maschi le capacità di usare il telefono, fare acquisti, usare    i mezzi di trasporto, assumere i farmaci, gestire le proprie finanze, e nelle femmine anche la capacità di preparare i pasti, governare la casa e fare il bucato)? sono presenti disturbi del comportamento (in particolare si indaga la presenza di apatia, sintomi depressivi, irritabilità, ansia, agitazione, insonnia, deliri, allucinazioni, alterazioni della condotta alimentare, disinibizione comportamentale)? qual è la terapia farmacologica intrapresa? la risposta è efficace? si sono manifestati effetti collaterali? sono presenti pregressi traumi cranici, episodi depressivi, stato confusionale acuto in corso di patologie intercorrenti, cadute? vi è familiarità per demenza? la raccolta anamnestica effettuata con la moglie ci permette di rilevare che la madre del paziente era affetta da malattia di alzheimer esordita all’età di 79 anni. il paziente non ha mai presentato cadute, traumi cranici, episodi depressivi precedenti, stati confusionali o disturbi pschiatrici. viene descritto come una persona socievole e ottimista, dedita alla propria attività lavorativa. non vengono segnalati disturbi del sonno, alterazioni delle abitudini alimentari né variazioni di peso corporeo. i parenti raccontano che i primi sintomi cognitivi a carico della memoria recente sono comparsi nove mesi prima del ricovero: il paziente si dimenticava dove riponeva gli oggetti o di recarsi ad appuntamenti per impegni lavorativi. la memoria autobiografica era conservata, così come il linguaggio e la capacità di ragionamento. sul piano comportamentale erano comparse ansia per problemi futili e difficoltà nel prendere decisioni. l’uomo era molto preoccupato all’idea di cedere parte del suo terreno per la costruzione di una rotonda vicino a casa e aveva commissionato otto preventivi per il rifacimento del tetto di casa procrastinandone la scelta, tanto da costringere i figli a decidere per lui. un mese prima del ricovero era uscito in auto per recarsi a caccia in un luogo a lui ben conosciuto, ma non era stato in grado di giungere dove era diretto; era però rientrato al domicilio raccontando con disagio l’accaduto ai familiari. successivamente erano comparsi deliri di gelosia nei confronti della moglie, particolarmente disturbanti e di difficile gestione. per la presenza dei deliri i familiari si erano rivolti a uno specialista che aveva prescritto prazepam 20 mg e biperidene 2     clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 113 o. zanetti, a. tommasoni, g. lussignoli mg, senza alcuna efficacia. successivamente erano stati prescritti farmaci neurolettici in associazione (zuclopentixolo e promazina) a cui seguì grave peggioramento dal punto di vista cognitivo, comportamentale e soprattutto motorio. il disturbo mnesico era peggiorato, era comparso disorientamento temporo-spaziale, lo stato di agitazione associato a irritabilità si era accentuato ed erano comparsi bradicinesia, rigidità ai quattro arti, tremore cinetico, atteggiamento camptocormico e disturbo della marcia. in tali condizioni il paziente viene valutato presso i nostri ambulatori dove viene proposto il ricovero in attesa del quale vengono sospesi biperidene, zuclopentixolo e prazepan e prescritti lorazepam (2 mg) serale e trazodone (50 mg) due volte al giorno. all’ingresso in reparto, dopo circa una settimana, i parenti riferiscono un miglioramento dello stato di agitazione, la bradicinesia e il disturbo della marcia erano regrediti, mentre permaneva il delirio di gelosia. sul piano funzionale i familiari riferiscono che il paziente non è più in grado di usare i mezzi di trasporto, di assumere i farmaci, di fare acquisti e di gestire le proprie finanze (sono pertanto compromesse 4/5 delle attività strumentali della vita quotidiana); conserva invece piena autonomia nelle attività di base della vita quotidiana (attività della vista quotidiana, adl, perse = 0/6). la terapia in atto al momento del ricovero è la seguente: atenololo 25 mg/die; ramipril 2,5 mg/die; furosemide 25 mg due volte alla settimana;    acido acetilsalicilico 100 mg/die; simvastatina 40 mg/die; alfusozina cloridrato 10 mg/die; allopurinolo 150 mg/die; trazodone 50 mg x 2/die; lorazepam 2 mg serali. il paziente si presenta vigile, tranquillo, collaborante, disorientato nel tempo e parzialmente orientato nello spazio; presenta deficit della memoria episodica, alterazioni del linguaggio non evidenti e a un primo colloquio non emergono sintomi psicotici. all’esame obiettivo neurologico postura e deambulazione risultano nella norma, mentre è presente una lieve paratonia agli arti superiori e inferiori. l’esame fisico è privo di elementi significativi. gli esami ematici rilevano che sono alterati esclusivamente gli indici di funzionalità renale (azotemia = 78 mg/dl, creatinina 2 mg/dl); funzionalità tiroidea, dosaggio di b12 e folati, calcemia e fosforemia sono invece nella norma. nulla da segnalare per quanto riguarda gli esami di routine quali ecg e rx torace. la valutazione iniziale delle prestazioni cognitive tramite il test di screening mini mental state examination (range = 0-30; valori normali > 24) evidenzia un punteggio patologico di 20/30: il paziente perde 4 punti nell’orientamento temporale, 1 punto nell’orientamento spaziale, 1 punto nel calcolo, 3 nel richiamo ed è evidente l’aprassia costruttiva (1 punto). alla valutazione neuropsicologica testistica, il profilo cognitivo globale risulta caratterizzato da deficit della memoria a lungo termine, della comprensione verbale, delle funzioni prassico-costruttive e della pianificazione visuo-spaziale (tabella i).       tabella i valutazione neuropsicologica: paziente collaborante. alla valutazione neuropsicologica testistica, il profilo cognitivo globale risulta caratterizzato da deficit della memoria a lungo termine, della comprensione verbale, delle funzioni prassicocostruttive e della pianificazione visuospaziale mmse: mini mental state examination funzione test punteggio punt. eq giudizio cognitività globale mmse 20/30 patologico memoria episodica test dei 3 oggetti e 3 luoghi 3/9 patologico memoria verbale a lungo termine memoria di prosa 2/28 0 patologico memoria non verbale a lungo termine richiamo figura di rey 0/36 0 patologico memoria verbale a breve termine digit span 6 4 normale memoria non verbale a breve termine spatial span 4 2 normale linguaggio token test 24,5/36 0 patologico fluenza per lettera 13/3 min 1 borderline fluenza per categoria 24/3 min 2 normale abilità prassico-costruttive copia figura di rey 17/36 0 patologico attenzione e funzioni esecutive test dell’orologio 3/6 patologico trial making test a 81 sec 2 normale trial making test b 530 sec 0 patologico trial making test b-a 449 sec 0 patologico ragionamento astratto non verbale matrici di raven 17/36 1 borderline clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 114 delirio di gelosia associato a deficit della memoria rm cerebrale lieve atrofia corticale a livello temporale e parietale posteriore atrofia temporale mesiale lieve: 1/4 a dx, 2/4 a sx alla scala di valutazione visiva di scheltens (v.n. = 0-1) volume ippocampale: 25° percentile a dx, tra il 1° e il 5° percentile a sx 20 40 60 80 100 4.000 3.500 3.000 2.500 2.000 1.500 volume ippocampale dx 20 40 60 80 100 4.000 3.500 3.000 2.500 2.000 1.500 volume ippocampale sx le linee rappresentano i percentili: 1°, 5°, 25°, 50°, 75°, 99° minimo danno vascolare sottocorticale: punteggio alla scala di danno vascolare sottocorticale di wahlund = 1/3 nelle regioni frontali (2/30 totale) 4 8 12 16 20 40 pu nt eg gi o w ah lu nd età 0 4060 705045 55 65 75 90° percentile 50° percentile clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 115 o. zanetti, a. tommasoni, g. lussignoli durante la prima notte di degenza vengono somministrati 25 mg di promazina per via intramuscolare per la presenza di insonnia associata a stato di agitazione. il mattino seguente il paziente si presenta confuso, confabulante, completamente disorientato nello spazio e nel tempo, con notevoli difficoltà dal punto di vista motorio (bradicinesia, deambulazione non autonoma e caratterizzata da atteggiamento camptocormico). questi disturbi si risolvono dopo due giorni. al momento dell’ingresso in ospedale, sulla scorta delle informazioni anamnestiche e cliniche, la diagnosi differenziale si poneva principalmente soprattutto tra due forme di demenza degenerativa: una a localizzazione prevalentemente corticale e iniziale interessamento dell’ippocampo e del lobo temporale mesiale (malattia di alzheimer, ad); l’altra a sviluppo cortico-sottocorticale con interessamento dei nuclei della base e di altre strutture del tronco e della corteccia, con relativo risparmio del lobo temporale (demenza a corpi di lewy, lbd). al sospetto di lbd contribuisce la marcata sensibilità ai neurolettici manifestatasi in seguito alla prescrizione domiciliare e confermata in seguito alla somministrazione di promazina durate la prima notte di degenza. viene effettuata una tc encefalica senza mezzo di contrasto con reperto di lieve atrofia temporale più evidente a sinistra. la rm cerebrale evidenzia un volume ippocampale patologico a sinistra (figura 1), in assenza di significative lesioni secondarie a danno su base vascolare. il pattern di tau e abeta liquorale è suggestivo per malattia di alzheimer. una scintigrafia cerebrale eseguita con un tracciante per il trasportatore della dopamina (spect dat-scan) indica una integrità delle terminazioni nervose pre-sinaptiche dopaminergiche del sistema nigro-striatale. a completamento delle indagini diagnostiche, è stato eseguito uno studio della qualità del sonno tramite una polisonnografia dalla quale è emerso: “non alterazioni del sonno rem che è caratterizzato da leggere sincronizzazioni verso gli stadi più profondi (stadio 3 e 4)”. il paziente non ha evidenziato disturbi da apnea del sonno o plm (periodic leg movements). nel corso della degenza il paziente ha mostrato un comportamento adeguato all’ambiente, eutimico, ha sempre presentato un elevato livello di collaborazione nei confronti di tutte le attività proposte (esami strumentali, interventi riabilitativi cognitivi, somministrazione di test cognitivi e funzionali). raramente, solitamente in presenza dei familiari, ha mostrato episodi di ansia associata a depressione del tono dell’umore sempre secondari a deliri di gelosia nei confronti della moglie; regolare il ciclo sonno veglia. dal punto di vista cognitivo la memoria episodica era ecologicamente compromessa, era presente deficit di apprendimento di materiale verbale e disorientamento parziale nel tempo. ha partecipato quotidianamente a una terapia di gruppo di riabilitazione cognitiva. dopo 15 giorni di degenza è stata intrapresa terapia con rivastigmina (con progressivo aumento posologico fino a 4,5 mg al giorno) con la quale si è ottenuto un miglioramento delle prestazioni cognitive e nel contempo la regressione del delirio di gelosia. la valutazione pre-dimissione delle prestazioni cognitive mostra un punteggio al mmse di 23/30. il paziente viene dimesso con diagnosi di malattia di alzheimer e con follow-up amfigura 1 esiti degli accertamenti di neuroimaging cerebrale e del dosaggio delle proteine tau e abeta42 liquorali v.n.: valori normali esame del liquor cefalorachidiano proteina tau elevata (652 pg/ml; v.n. < 500 pg/ml) e riduzione di abeta (297 pg/ml; v.n. > 500 pg/ml) 300 500 700 900 1.200 0 ta u abeta 0 1.000600500 700 800 900 400 600 800 1.000 1.100 200 100 300 400200100 area alzheimer area incerta area normale clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 116 delirio di gelosia associato a deficit della memoria bulatoriali con cadenza mensile, al fine di rivalutare il paziente e raggiungere gradualmente la posologia target di rivastigmina tra 6 e 12 mg/die. discussione la demenza è una incompetenza intellettiva acquisita cronico-progressiva associata a cambiamenti della personalità, del comportamento e della emotività, che compromette le possibilità di una vita autonoma e quindi la qualità della vita del malato e di chi gli sta intorno. per la malattia di alzheimer, la messa a punto di criteri diagnostici internazionalmente accettati ha consentito il raggiungimento di elevati livelli di sensibilità e specificità rispetto alla diagnosi istologica di certezza. va sottolineato che né la volumetria ippocampale, né il dosaggio delle proteine tau e abeta liquorali sono state sino ad ora incorporate in condivise linee guida diagnostiche; la diagnosi di malattia di alzheimer si fonda pertanto su criteri clinici che richiedono un’accurata raccolta anamnestica, un esame clinico fisico e neurologico, la valutazione del profilo cognitivo funzionale e comportamentale del paziente; la diagnosi vene corroborata con esami di routine per escludere patologie reversibili (es. distiroidismo, ipoparatiroidismo) e con tc o rm cerebrale per escludere patologie su base vascolare o processi occupanti spazio [1,2]. recentemente, in centri specializzati, si sta diffondendo un impiego delle indagini di neuroimaging finalizzato a una più raffinata – e meno soggettiva o grossolana – analisi del grado di atrofia o di danno su base vascolare. non è da escludere che queste indagini oggettive possano entrare a far parte di linee guida condivise [3]. anche il dosaggio di tau e abeta liquorale non rientra in specifiche linee guida: fra i numerosi marker biologici caratteristiche centrali (essenziali per una diagnosi di possibile o probabile lbd) demenza definita come un declino cognitivo progressivo di intensità tale da interferire con le normali attività sociali o occupazionali il disturbo preminente o persistente della memoria può non essere presente negli stati precoci ma è di solito evidente nella progressione possono essere particolarmente evidenti deficit ai test di attenzione, funzioni esecutive (abilità frontali-sottocorticali) e abilità visuo-spaziali 1. 2. 3. core features (due sintomi core sono sufficienti per diagnosi di probabile lbd; uno per possibile lbd) fluttuazioni della cognitività con importanti variazioni nell’attenzione e stato di coscienza ricorrenti allucinazioni visive che sono tipicamente strutturate e dettagliate parkinsonismo 1. 2. 3. caratteristiche suggestive (suggestive features): se uno o più di questi sintomi è presente insieme a uno o più dei core features può essere fatta una diagnosi di lbd probabile. in assenza di qualsiasi core features, uno o più dei sintomi suggestivi sono sufficienti per porre diagnosi di possibile lbd. la lbd probabile non può essere diagnosticata sulla base dei soli sintomi suggestivi disturbi del sonno rem severa sensibilità ai neurolettici (sviluppo di parkinsonismo con minime dosi) ridotto uptake del trasportatore della dopamina nei gangli della base dimostrato dalla spect o dalla pet 1. 2. 3. criteri di supporto (sono comunemente presenti ma non è dimostrato che abbiano una specificità diagnostica) cadute ripetute e sincopi transitoria e inspiegabile perdita di coscienza severa disfunzione autonomia, per esempio ipotensione ortostatica o incontinenza urinaria allucinazioni in altre modalità (non visive) deliri strutturati depressione relativa conservazione della struttura del lobo temporale mediale alla tc/rmn generalizzato basso uptake alla perfusione pet/spect con ridotta attività occipitale anormale (uptake ridotto) alla scintigrafia miocardica con mibg preminenti attività a onde lente all’eeg con onde nette del lobo temporale 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. casi in cui una diagnosi di dlb è meno probabile in presenza di una malattia cerebrovascolare evidente come segni neurologici focali o dimostrata con neuroimaging in presenza di qualunque altra malattia somatica o disordine cerebrale sufficienti a giustificare in parte o del tutto il quadro clinico se il solo parkinsonismo compare per la prima volta in uno stadio di demenza severa 1. 2. 3. tabella ii criteri diagnostici per la diagnosi di demenza a corpi di lewy [6] lbd: demenza a corpi di lewy; spect: single photon emission computed tomography pet: positron emission tomography mibg: metaiodobenzilguanidina clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 117 o. zanetti, a. tommasoni, g. lussignoli criteri per la diagnosi clinica di malattia di alzheimer probabile demenza stabilita dall’esame clinico e documentata dal mini mental test, dalla blessed dementia scale, o da esami similari, e confermata da tests neuropsicologici deficit di due o più aree cognitive peggioramento progressivo della memoria e di altre funzioni cognitive assenza di disturbi della coscienza esordio tra i 40 e i 90 anni, più spesso dopo i 65 assenza di patologie sistemiche o di altre malattie cerebrali responsabili di deficit cognitivi e mnesici progressivi 1. 2. 3. 4. 5. 6. la diagnosi di malattia di alzheimer probabile è suffragata da deterioramento progressivo di funzioni cognitive specifiche quali il linguaggio (afasia), la gestualità (aprassia), e la percezione (agnosia) compromissione delle attività quotidiane e dei pattern di comportamento familiarità positiva per disturbi analoghi, particolarmente se confermati dal punto di vista neuropatologico conferme strumentali di: normalità dei reperti liquorali standard normalità o aspecificità dell’eeg atrofia cerebrale alla tac cerebrale con documentata progressione dopo osservazioni seriate 1. 2. 3. 4.    altre caratteristiche cliniche in accordo con la diagnosi di malattia di alzheimer probabile includono, dopo l’esclusione di cause alternative di demenza plateau nella progressione della malattia associazione di depressione, insonnia, incontinenza sfinterica, disturbi della percezione, reazioni verbali emotive o fisiche di tipo catastrofico, disturbi sessuali, calo ponderale altre anomalie neurologiche, specialmente nei casi con malattia in fase avanzata, comprendenti segni motori quali ipertono, mioclonie o disturbi della marcia crisi epilettiche nella malattia in fase avanzata tac encefalica normale per l’età 1. 2. 3. 4. 5. caratteristiche che rendono la diagnosi di malattia di alzheimer probabile incerta esordio acuto, apoplettiforme presenza di segni neurologici focali quali emiparesi, deficit sensitivi, alterazioni campimetriche e incoordinazione nelle fasi precoci della malattia crisi o disturbi della marcia all’esordio o nelle fasi iniziali del decorso della malattia 1. 2. 3. diagnosi clinica di malattia di alzheimer possibile può essere fatta sulla base della sindrome demenziale, in assenza di altri disordini neurologici psichiatrici o sistemici sufficienti a causare demenza e in presenza di variazioni nell’insorgenza nella presentazione o nel decorso clinico può essere fatta in presenza di un secondo disturbo cerebrale che è in grado di produrre demenza ma che non è giudicato essere la causa della demenza deve essere usata per fini di ricerca quando un deficit severo delle capacità cognitive gradualmente progressivo è presente senza che sia possibile identificare un’altra causa 1. 2. 3. criteri per la diagnosi di malattia di alzheimer definita i criteri clinici di probabile malattia di alzheimer e quadro istopatologico di malattia di alzheimer ottenuto con biopsia cerebrale o all’autopsia 1. tabella iii criteri per la diagnosi della malattia di alzheimer (ad) secondo il national institute of neurological and communicative disorders and stroke/ the alzheimer’s disease and related disorders association (nincdsadrda) [7] sono quelli che hanno mostrato il miglior profilo di sensibilità e specificità (attorno al 90%) per la diagnosi di malattia di alzheimer e potrebbe essere utile come supporto diagnostico nei pazienti con malattia di alzheimer molto lieve o “preclinica”. l’ecg è fondamentale anche per escludere la presenza di blocchi atrio-ventricolari che sono una controindicazione assoluta all’impiego di farmaci anticolinesterasici (donepezil, rivastigmina e galantamina), specifici per la malattia di alzheimer, la demenza a corpi di lewy e la demenza associata a morbo di parkinson (parkinson-demenza). tornando al caso descritto, il paziente presentava sintomi tipici per la malattia di alzheimer che ricordano la prima paziente descritta da alois alzheimer. nel 1907, infatti, alois alzheimer, e nel 1909 con maggiori dettagli gaetano perusini, descrissero il quadro clinico-patologico di una donna, auguste d., di 51 anni che aveva sviluppato un progressivo decadimento cognitivo con deliri di gelosia e incompetenza sociale [4]. anche il paziente qui esaminato presentava, da più di sei mesi, declino delle funzioni mnesiche con impatto funzionale e deliri di gelosia. nel contempo il paziente aveva manifestato una elevata sensibilità ai neurolettici con rapida comparsa di sintomi della sfera extrapiramidale; l’ipersensibilità ai neurolettici non è tipica della malattia di alzheimer bensì della demenza a corpi di lewy, considerata la seconda più frequente demenza degenerativa dopo la malattia di alzheimer, con una prevalenza del 10-15%. clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 118 delirio di gelosia associato a deficit della memoria così come le allucinazioni visive sono più tipiche della demenza a corpi di lewy, i deliri (gelosia, latrocinio, persecuzione) sono più frequenti della malattia di alzheimer [5]. l’ipotesi che potesse trattarsi di una demenza a corpi di lewy ci ha indotto alla scelta di eseguire una scintigrafia cerebrale con tracciante per il trasportatore della dopamina per lo studio della eventuale degenerazione presinaptica neuronale della via nigro-striatale dopaminergica risultata negativa e quindi non suggestiva per demenza a corpi di lewy. la terapia farmacologica specifica è simile nelle due condizioni patologiche e si avvale dei farmaci anticolinesterasici. le tabelle ii e iii descrivono i criteri di riferimento internazionali per la diagnosi di demenza a corpi di lewy [6] e di malattia di alzheimer [7]. il percorso diagnostico nella maggior parte dei casi sono i familiari che si accorgono della presenza di disturbi mnesici o comportamentali e indirizzano il paziente al medico. meno frequentemente è il paziente stesso che avverte la presenza di problemi di memoria. ancora più raramente il sospetto di una demenza emerge durante il colloquio clinico avviato per altri motivi, senza che siano stati riferiti sintomi cognitivi. l’approccio clinico al paziente con decadimento cognitivo è basato su una valutazione a più stadi. il primo obiettivo è determinare se esiste un deterioramento cognitivo e se questo rispetta i criteri per la demenza. se è identificata una sindrome dementigena, il secondo passo consiste nella valutazione necessaria a determinare l’eziologia della demenza [8, 9] (tabella iv ). la diagnosi di demenza deve essere posta utilizzando criteri standardizzati, quali quelli citati precedentemente. la dimostrazione della presenza di un declino delle funzioni cognitive rispetto ad un precedente livello raggiunto dal soggetto si basa quasi esclusivamente sulla raccolta della storia clinica e sulla valutazione dello stato mentale, poiché molto raramente è possibile disporre di valutazioni psicometriche antecedenti la comparsa dei sintomi clinici. i criteri clinici per la diagnosi delle sindromi demenziali prevedono che il deficit cognitivo sia di entità tale da interferire con le abituali attività lavorative o sociali del paziente; non si tiene conto però del livello usuale di attività del paziente, né della possibile presenza di altre condizioni (ad esempio malattie croniche di natura somatica) che determinano disabilità, né del fatto che la compromissione funzionale possa essere secondaria a disturbi comportamentali o sintomi psichici. è intuitivo che le conseguenze funzionali della demenza tendono a manifestarsi precocemente se un soggetto mantiene responsabilità lavorative o sociali; nel caso di una persona anziana senza impegni sociali, con relazioni spesso limitate ai familiari più stretti e con mansioni ridotte anche nelle attività strumentali più semplici (spesso sostituita dai parenti per atteggiamento protettivo o per la presenza di malattie somatiche o deficit sensoriali disabilitanti), la valutazione dell’impatto funzionale di eventuali lievi deficit cognitivi è ardua e richiede una anamnesi attenta e mirata. la diagnosi di demenza non può essere posta in presenza di uno stato confusionale acuto (delirium). la diagnosi differenziale fra queste due condizioni è agevole, perché il delirium è un quadro clinico ad esordio acuto o subacuto, con alterazioni dell’attenzione, dell’orientamento, del contenuto del pensiero, del linguaggio; vi è un’ampia fluttuazione dello stato clinico che generalmente si accompagna a disturbi dell’ideazione e della percezione (frequenti allucinazioni visive), inversione del ritmo sonno veglia, modificazioni dell’attività psicomotoria (più spesso iperattività, talora invece marcata apatia). in realtà, la demenza costituisce il principale fattore di rischio di comparsa di delirium in concomitanza con malattie acute di varia natura, stress psicofisici (ad esempio un intervento chirurgico oppure un cambio di residenza); dal 40 al 60% dei soggetti con demenza sviluppa almeno un episodio di delirium durante il decorso della malattia. identificare la demenza storia clinica valutazione dello stato mentale esame generale e neurologico valutazione dello stato funzionale, della depressione, dei sintomi non cognitivi     definire l’eziologia della demenza esami di laboratorio neuroimaging test neuropsicologici puntura lombare (opzionale) neuroimaging funzionale (opzionale) eeg (opzionale)       tabella iv il percorso per la diagnosi e la valutazione della demenza clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 119 o. zanetti, a. tommasoni, g. lussignoli la diagnosi di delirium può presentare difficoltà in soggetti con un iniziale deterioramento cognitivo; talvolta lo stato confusionale costituisce l’esordio della demenza o rappresenta l’episodio al quale i familiari fanno risalire l’inizio della malattia. in un paziente nel quale esordisce un delirium, la diagnosi di demenza non può essere comunque posta finché lo stato confusionale non si risolve o non è possibile ottenere una chiara anamnesi caratteristica per demenza. le modalità di esordio e di progressione della demenza, con l’ausilio del neuroimaging, sono generalmente sufficienti a differenziare le varie eziologie (tabella v ). la diagnosi di demenza resta quindi essenzialmente clinica, nella quale grande importanza assumono una attenta raccolta della storia (tabella vi), un corretto colloquio e l’esame obiettivo; solo pochi esami strumentali sono considerati indispensabili. posta la diagnosi di demenza è necessario risalire all’eziologia della sindrome; purtroppo nella maggior parte dei casi la relazione causale non raggiunge un livello di certezza, ma solo un grado più o meno elevato di probabilità. la disponibilità di criteri clinici sempre più precisi ha però aumentato la sensibilità della diagnosi clinica, in particolare per la malattia di alzheimer. a differenza di ciò che comunemente si crede, la diagnosi di malattia di alzhiemer è principalmente una diagnosi di inclusione, piuttosto che di esclusione. l’accuratezza dei criteri clinici rispetto ai dati neuropatologici è stata valutata solo per la malattia di alzheimer e per le demenze vascolari. l’introduzione dei criteri nincds-adrda (national institute of neurological and communicative disorders and stroke/the alzheimer’s disease and relatabella v caratteristiche clinico-strumentali differenziali fra le forme più frequenti di demenza tipo di demenza caratteri clinici salienti neuroimaging frequenza malattia di alzheimer esordio con deficit mnesico (più raramente con deficit neuropsicologici focali) e precoce coinvolgimento globale delle funzioni cognitive. possibile coesistenza di alterazioni comportamentali all’esordio; più frequenti nelle fasi intermedie e avanzate. progressione graduale. esame obiettivo neurologico negativo all’esordio atrofia temporo-parietale, talora asimmetrica, alla tc e rm. ipoperfusione nelle stesse aree alla pet 50-60% demenza vascolare sottocorticale esordio subdolo spesso caratterizzato da decadimento cognitivo con relativo risparmio della memoria, parkinsonismo con disturbo della deambulazione, depressione del tono dell’umore lesioni multiple in aree di confine o lacune nei gangli della base o lesioni estese della sostanza bianca periventricolare alla tc o rm. alla pet ipoperfusione irregolare 15-20% demenza vascolare ischemica (“multiinfartuale”) esordio acuto spesso con sintomi “focali” e progressione “a gradini”. compromissione irregolare delle varie funzioni cognitive. esame obiettivo neurologico con segni focali infarti singoli in aree strategiche (ad esempio infarti talamici, lobo temporale infero-mediale) o multiple lesioni corticali demenza frontotemporale precoci disturbi comportamentali (disinibizione, perdita del controllo sociale, iperoralità, stereotipia), alterazioni dell’affettività (apatia, disinteresse, ipocondria, somatizzazioni) e precoci disturbi del linguaggio (monotonia, ecolalia, perseverazioni) atrofia lobare (frontale o frontotemporale) alla tc o rm. ipoperfusione frontale alla pet 2-9% demenza a corpi di lewy fluttuazione dei disturbi (sia cognitivi sia dello stato di veglia), presenza di allucinazioni visive ben strutturate, segni extra-piramidali e frequenti cadute atrofia corticale aspecifica alla tc o rm. ipoperfusione occipitale alla pet. degenerazione presinaptica neuronale della via nigro striatale dopaminergica alla spet con datscan 7-25% degenerazione cortico-basale aprassia ideomotoria asimmetrica, afasia precoce, disinibizione e segni frontali, distonia di un arto, micolono focale e parkinsonismo atrofia corticale frontotemporale e sottocorticale striatale alla rm rara paralisi sopranucleare progressiva paralisi sopranucleare dello sguardo, instabilità posturale con cadute, disartria, deficit di attenzione e deficit cognitivo di tipo sottocorticale atrofia della porzione anteriore del corpo calloso alla rm. ipoperfusione corteccia frontale alla pet rara clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 120 delirio di gelosia associato a deficit della memoria ted disorders association) ha aumentato la correttezza della diagnosi clinica di malattia di alzheimer, che è passata dal 50-80% all’80-100%. per la demenza vascolare, nonostante l’introduzione nel 1993 della definizione dell’ninds-airen group (national institute of neurological disorders and stroke and association internationale pour la recherché et l ’enseignement en neurosciences)), l’accuratezza dei criteri clinici tabella vi la raccolta anamnestica nella diagnosi delle demenze ucla-npi: ucla neuropsychiatric inventory obiettivi stabilire la presenza di deficit cognitivi e valutare il loro andamento clinico definire una sindrome demenziale valutare il pattern di decadimento cognitivo e i sintomi non cognitivi associati per fare diagnosi eziologica di malattia    procedure la storia di malattia va indagata in modo attento e scrupoloso attraverso un’intervista ai familiari del paziente, e possibilmente registrata in termini semplici, senza interpretazioni o deduzioni psicodinamiche (che sono spesso “guidate” dal referente) quadro premorboso definisce lo sfondo su cui ricostruire la storia di malattia e in cui collocare i disturbi che si sono man mano presentati. occorre indagare il livello cognitivo e culturale, gli interessi, il grado di interazioni sociali e il carattere premorboso esordio il momento cruciale della raccolta anamnestica (e anche il più complesso) è la definizione dell’insorgenza della malattia (epoca e sintomo d’esordio). esempi: introduzione. quando ha cominciato ad avere problemi “di testa”? quando vi siete accorti che qualcosa non andava? esclusione di delirium. ricordate comparsa improvvisa di agitazione psico-motoria, “confusione”, deliri, allucinazioni, magari in coincidenza con un’ospedalizzazione, o un trasloco, o una vacanza? quanto sono durati i sintomi? quando la crisi si è risolta, è tornato tutto come prima? se no, che sintomi sono rimasti? in che cosa il paziente era diverso da prima? definizione del disturbo di memoria. come era la memoria, all’epoca? non ricordava fatti appena successi? non ricordava appuntamenti e scadenze? non ricordava dove riponeva gli oggetti? ripeteva più volte le stesse domande e non ricordava le risposte? dimenticava le visite di figli e nipoti? il disturbo era costante o fluttuante? generale o selettivo? definizione di eventuali disturbi del linguaggio. non trovava le parole durante il discorso? usava spesso i termini “il coso”, “la cosa” per indicare oggetti o persone? usava giri di parole? sbagliava a pronunciare le parole? es.: diceva “latto” o “sedia” invece di “letto”? non ricordava il significato di parole di uso comune? orientamento topografico. si è perso per strada? dove? in un posto nuovo? in una zona nota che frequentava spesso? in casa sua? sintomi motori. ha cominciato ad apparire più lento rispetto al passato? camminava male, a gambe larghe, a passi irregolari? le pareva più rigido? cadeva frequentemente? in che circostanze cadeva? comportamento: ucla-npi. indagare eventuali disturbi comportamentali (vedi) impatto funzionale. indagare impatto sulla funzione         progressione che cosa è successo in seguito? raccogliere la storia di ogni sintomo rilevato all’esordio: è rimasto stabile o è peggiorato nel tempo? quando è peggiorato? come è peggiorato? sono comparsi altri sintomi (vedi domande dell’esordio)? quando? e questi come sono progrediti? quando ricordate per la prima volta la comparsa di impatto funzionale? cosa ha smesso di fare, o cosa ha cominciato a fare meno bene? storia dei disturbi comportamentali: tempo di comparsa, decorso ed eventuale risoluzione (con o senza trattamento) dei disturbi comportamentali anamnesi farmacologica è mai stato trattato con aricept, o memac, exelon o prometax, o reminyl? quando? a che dosaggio è arrivato? con quali effetti? ha sospeso il trattamento? quando e perché? è mai stato trattato con farmaci per il controllo dei disturbi comportamentali? quando? a che dosaggio? che effetto hanno avuto?        sembra ancora piuttosto bassa. recenti studi di correlazione clinico-patologica hanno mostrato che la specificità dei criteri classificativi per la demenza vascolare è tra il 65% e l’80%, mentre la sensibilità è tra il 58% e il 63%. il percorso diagnostico per un paziente affetto da una sospetta demenza è riassunto nell’algoritmo posto in calce all’articolo. clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 121 o. zanetti, a. tommasoni, g. lussignoli domini − cognitività, emotività-comportamento, stato funzionale e relazioni sociali − che nel decorso abitualmente lungo caratterizzano l’evoluzione della malattia [10]. oltre la diagnosi, la gestione del paziente affetto da invecchiamento cerebrale patologico, nella ampia gamma delle sue molteplici varianti − dal lieve decadimento cognitivo alla demenza conclamata −, richiede abilità che sappiano coniugare competenze clinicodiagnostiche e di gestione della cronicità. anamnesi mirata esame fisico e neurologico valutazione dello stato funzionale valutazione dello stato mentale valutazione delle patologie e dei farmaci condurre una valutazione clinica iniziale sintomi indicativi di una possibile demenza sono presenti depressione o delirium? trattamento o rivalutazione nel tempo sono ancora presenti sintomi di possibile demenza? non deficit cognitivi non perdita funzionale risultati normali deficit cognitivi perdita funzionale risultati patologici risultati misti resta il sospetto? rassicurare rassicurare (suggerire un follow-up a 6-12 mesi) interpretare i risultati dei test di valutazione dello stato mentale e funzionale valutazione di secondo livello (clinica e strumentale) test neuropsicologici esami di laboratorio neuroimaging evidenza di demenza? definire l’eziologia valutare e trattare i sintomi non cognitivi considerare la possibilità di interventi riabilitativi prescrivere farmaci specifici pianificare gli interventi sociali di supporto ai caregiver follow-up ogni 3-6 mesi si no si no no no si si algoritmo per la valutazione della demenza conclusioni la disponibilità di procedure finalizzate alla diagnosi tempestiva in un paziente affetto da decadimento cognitivo rappresenta senza dubbio il risultato di un significativo progresso metodologico della pratica medica. la tempestività della diagnosi di demenza e l’accuratezza della sua tipizzazione favoriscono l’adozione di interventi mirati finalizzati al miglioramento dei principali clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 122 delirio di gelosia associato a deficit della memoria bibliografia 1. cummings jl. alzheimer’s disease. n engl j med 2004; 351: 56-67 2. ritchie k, lovestone s. the dementias. lancet 2002; 360: 1759-66 3. frisoni gb. dementia: important advances in research in 2006. lancet neurol 2007; 6: 4-5 4. maurer k, volk s, gerbaldo h. auguste d and alzheimer’s disease. lancet 1997; 349: 1546-9 5. galvin je, polack j, morris jc. clinical phenotype of 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(a cura di) le demenze. torino: utet, 2005; pp. 37-101 10. zanetti o, bianchetti a, trabucchi m. il geriatra e la gestione del paziente demente. giorn gerontol 1995; 43: 343-9 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2) 61 clinical management issues cause di scompenso cardiaco ed è correlato a prognosi infausta. fattori neuroumorali e fattori trofici locali modulano un equiintroduzione la disfunzione sistolica ventricolare sinistra è caratterizzata da rimodellamento ventricolare, causato dal sovraccarico di volume o di pressione, dal deficit delle proprietà contrattili dei miociti conseguente a coronarosclerosi determinante stenosi significative o a infarto del miocardio, ad anomalie geneticamente determinate delle proteine contrattili del sarcomero ad agenti cardiotossici. il “rimodellamento ventricolare sinistro” descrive un processo dinamico caratterizzato da progressiva dilatazione ventricolare sinistra, deterioramento della funzione contrattile del ventricolo e distorsione della forma della cavità ventricolare sinistra e della geometria dell’apparato sottovalvolare mitralico con conseguente insufficienza mitralica. il processo di rimodellamento ventricolare sinistro è lo stadio finale comune di tutte le possibili perché descriviamo questo caso il caso clinico permette di analizzare i possibili fattori determinanti la risposta alla terapia di resincronizzazione biventricolare in pazienti affetti da scompenso cardiaco. apre nuove ipotesi circa i meccanismi molecolari e genetici potenzialmente in grado di influenzare il rimodellamento inverso ventricolare sinistro. permette di indagare la variabilità nella risposta alla crt. offre un possibile futuro scenario di individualizzazione terapeutica geneticamente determinata corresponding author dott.ssa natalia pezzali c/o cardiologia, spedali civili di brescia piazzale spedali civili 1 25123 brescia npezzali@hotmail.com caso clinico abstract this report presents a case of a patient with idiopathic dilated cardiomyopathy and severe left ventricular systolic dysfunction who underwent cardiac resynchronisation therapy (crt). during the follow-up a progressive increase in left ventricular ejection fraction was observed, as well as clinical improvement. no cardiovascular events occurred during the follow-up, except for appropriate implantable cardioverter defibrillator (icd) bursts for fast ventricular tachycardia. genotyping for adrenoceptor gene polymorphisms detected that the patient was glu27glu homozygous carrier. there’s a large interindividual variability in response to crt. despite attempts to identify factors having an impact on this therapy, only qrs duration is accepted according to guidelines. beta-adrenoceptors polymorphisms, modulating sympathetic drive in heart failure and left ventricular remodelling, may have a role in identifying patients with a better response to crt, in order to target and individualise the patients’ treatment. keywords: heart failure, cardiac resynchronisation therapy, genetic polymorphisms possible genetic implications in the response to cardiac resynchronisation therapy in a patient affected by heart failure cmi 2011; 5(2): 61-68 1 cardiologia, dipartimento di medicina sperimentale e applicata, università e spedali civili di brescia natalia pezzali 1, marco metra 1, livio dei cas 1 possibili implicanze genetiche nella risposta alla terapia di resincronizzazione biventricolare in un paziente affetto da scompenso cardiaco ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2)62 possibili implicanze genetiche nella risposta alla terapia di resincronizzazione biventricolare to ventricolare sinistro. la crt determina una riduzione delle dimensioni ventricolari sinistre, misurate come volume telediastolico e telesistolico o come volumi ventricolari sinistri rispetto a pazienti di controllo dopo un mese [3-5]. nello studio care-hf le differenze di volume rimanevano significative anche a 18 mesi [3]. lo studio miracle ha poi dimostrato il miglioramento dei parametri ecocardiografici dopo crt in modo controllato, dimostrando una significativa riduzione dei volumi telediastolici e telesistolici a 3 e a 6 mesi nel gruppo trattato con crt rispetto al gruppo di controllo. tale riduzione ha determinato un parallelo decremento dello stress parietale, che stimola una riduzione dell’ipertrofia ventricolare sinistra e una migliorata funzione contrattile [6]. la progressiva riduzione nel tempo della massa ventricolare sinistra e dei volumi associata alla crt è caratterizzata da un vantaggio meccanico delle alterazioni della struttura ventricolare sinistra, soprattutto tramite la riduzione delle dimensioni dell’anulus mitralico e il ritorno alla normalità dell’apparato sottovalvolare mitralico. nello studio miracle è stata osservata una riduzione dell’entità dell’insufficienza mitralica a 3, 6 e 12 mesi. anche il ripristino della coordinazione temporale dell’attivazione meccanica delle inserzioni dei muscoli papillari è un meccanismo implicato nella riduzione del librio dinamico tra forze che determinano una dilatazione ventricolare sinistra e forze determinanti un pattern di tipo restrittivo, correlato al collagene presente nella matrice extracellulare. tali forze rappresentano un potenziale target terapeutico per attenuare la progressione del rimodellamento verso lo scompenso cardiaco [1]. il concetto di “rimodellamento inverso” è stato coniato per caratterizzare un meccanismo per il quale il rimodellamento non soltanto viene arrestato, ma presenta, almeno in parte, una regressione. la terapia di resincronizzazione cardiaca (crt), accanto alla terapia farmacologica, è ormai considerata una terapia per una popolazione selezionata di soggetti affetti da scompenso cardiaco, in base alle indicazioni poste dalle linee guida [2]. l’obiettivo della crt nei pazienti affetti da scompenso cardiaco con dissincronia ventricolare sinistra è l’ottimizzazione della conduzione atrioventricolare e del riempimento ventricolare sinistro, la coordinazione della contrazione ventricolare destra e sinistra minimizzando il ritardo meccanico intere intraventricolare e il miglioramento della coordinazione interventricolare. è ormai dimostrato come tale terapia determini un miglioramento della sopravvivenza, della capacità funzionale e della qualità di vita. alcuni recenti studi hanno poi valutato l’impatto di tale terapia sul rimodellamendefinizioni di base di genetica codice genetico. il codice genetico è la corrispondenza tra triplette di sequenze geniche e aminoacidi da esse codificate nel processo di espressione proteica. è universale, in quanto seguito dalla maggior parte degli esseri viventi, degenerato perché a ogni tripletta (64 in tutto) può corrispondere più di un aminoacido (20 in tutto) allele. è la variante della sequenza di un gene. gli alleli dei due cromosomi omologhi si dicono omozigoti se sono uguali, eterozigoti se diversi fra loro wild-type. l’allele wild-type è quello giudicato più frequente nella popolazione esone. regione codificante del dna, che viene trascritta nell ’rna messaggero maturo. in un gene gli esoni sono inframezzati da introni introne. regione non codificante del dna, che viene trascritta nell’rna messaggero immaturo e poi tagliata tramite il processo di splicing per generare l ’rna messaggero maturo promotore. è la regione del dna situata a monte del gene alla quale si lega l ’rna-polimerasi per la trascrizione 5' utr. è la regione del dna a monte rispetto alla sequenza codificante che viene trascritta nell ’rna messaggero, ma non tradotta in sequenza proteiche. vi si legano elementi regolatori dell ’espressione genica 3' utr. è la regione del dna a valle rispetto alla sequenza codificante che viene trascritta nell ’rna messaggero ma non tradotta. vi si legano elementi regolatori dell ’espressione genica ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2) 63 n. pezzali, m. metra, l. dei cas resincronizzazione cardiaca. inoltre, vanderheyden e colleghi hanno dimostrato che i pazienti che non rispondono a terapia di resincronizzazione cardiaca hanno un diverso pattern molecolare e β2 rispetto ai responders [12]. le risposte fisiologiche, l’espressione e la funzione dei recettori adrenergici, così come la loro risposta ad agonisti e antagonisti, presentano una marcata variabilità interindividuale. recenti studi hanno dimostrato che i recettori adrenergici sono polimorfici. si definisce polimorfismo una variabilità in una sequenza di dna che si verifica con frequenza allelica > 1% (tabella i). le mutazioni sono invece varianti rare e possono rappresentare la singola base di una patologia ereditata (come per la fibrosi cistica, la leucemia mieloide cronica). in tali casi la mutazione è necessaria e sufficiente a determinare la patologia. i polimorfismi, invece, possono non avere alcun effetto, presentare effetti clinicamente silenti ma evidenziabili tramite test di stimolazione, presentare una bassa prevalenza in alcune patologie e pertanto agire come fattori di rischio di basso livello, possono modificare il decorso della malattia o alterare la risposta alla terapia. i più comuni polimorfismi constano di singole sostituzioni nucleotidiche (single nucleotide polymorphisms, snp). nell’ambito di regioni geniche codificanti, i polimorfismi possono codificare per aminoacidi differenti (polimorfismi non sinonimi) oppure non avere alcun effetto sull’aminoacido codificato, grado di insufficienza mitralica, poiché permette un aumento dell’area di coaptazione dei lembi valvolari [7]. sempre nello studio miracle, parallelamente alla riduzione dei volumi e diametri ventricolari sinistri, alla regressione dell’ipertrofia miocardica e a una riduzione dell’entità dell’insufficienza mitralica, si è osservato un incremento della frazione di eiezione rispetto al basale, rilievo riscontrato anche in altri trial, come il care-hf [3]. il rimodellamento inverso è mantenuto nel tempo dopo la crt, come dimostrato dallo studio mustic [4]. è stata dimostrata la necessità di una crt continua e non intermittente [7], poiché la sospensione della crt determina un peggioramento del rimodellamento. tuttavia, la risposta alla crt è altamente variabile: può essere di entità assente oppure lieve, media o elevata. molti studi hanno focalizzato l’attenzione su fattori anatomici, strutturali e meccanici potenzialmente in grado di influenzare la risposta alla crt [8-10]. recentemente, chakir e colleghi hanno dimostrato che vi è una depressione della regolazione dei recettori β1 e β2 adrenergici (ar) in modelli canini di cuori con dissincronia, dovuta a una depressione dell’espressione genetica per i sottotipi recettoriali, con un miglioramento dopo terapia di resincronizzazione biventricolare, con aumento del rapporto β1/β2 [11]. si osservava infatti soprattutto un incremento dell’espressione dei recettori β1 adrenergici dopo terapia di tabella i il polimorfismo genetico che cos’è è una variabilità nella sequenza di dna rispetto al wild-type che si verifica con frequenza allelica > 1% da che cosa si differenzia è diversa dalla mutazione, che si presenta con frequenza < 1% come si indica si indica scrivendo la forma abbreviata dell’aminoacido che nel wild-type si trova in quella posizione, seguito da un numero che indica la posizione rispetto all’inizio della catena aminoacidica, e infine dall’abbreviazione dell’aminoacido variato. se la mutazione è presente in omozigosi, si indicano prima e dopo il numero lo stesso aminoacido variato rispetto al wild-type. può anche essere indicata in termini di nucleotidi: in questo caso il numero centrale si riferirà alla posizione rispetto all’inizio della sequenza nucleotidica quali regioni può colpire e quali conseguenze può avere può colpire qualsiasi regione, dando origine a variazioni che possono o meno avere una ricaduta sulla proteina finale: troncandola se generano uno stop codon; y modificandone un aminoacido se cambiano una base generando un codone y che codifica per un aminoacido diverso; possono non comportare problemi se il cambiamento del nucleotide y genera un codone che codifica per lo stesso aminoacido o se la variazione avviene su un introne; se colpisce le regioni regolatorie, quali quella promotore, il 5'utr o il y 3'utr, può avere o meno delle conseguenze in termini, ad esempio, di trascrizione, perché la rna-polimerasi e i fattori di trascrizione potrebbero non riuscire ad attaccarsi correttamente alle sequenza di dna ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2)64 possibili implicanze genetiche nella risposta alla terapia di resincronizzazione biventricolare è stato poi dimostrato che la prognosi di pazienti affetti da insufficienza cardiaca con polimorfismo ile164 (thr→ ile a livello dell’aminoacido 164, con riduzione del segnale β2 mediato) è significativamente peggiore (rischio di morte o di trapianto cardiaco = 4,81, p < 0,001, sopravvivenza a 1 anno pari a 42% rispetto al 76% dei pazienti wild-type) [19]. un altro studio ha poi evidenziato che i pazienti ile164 presentano valori di vo2 picco e di percentuale di vo2 picco rispetto al massimo teorico predetto significativamente inferiori rispetto ai pazienti thr164. il cateterismo cardiaco ha rilevato depresse variazioni di indice cardiaco, resistenze vascolari sistemiche, stroke volume dopo esercizio negli omozigoti ile164. nel medesimo studio l’analisi dei polimorfismi in posizione 16 e 27 e degli aplotipi ha evidenziato quanto segue: maggior picco di consumo di ossigeno negli omozigoti arg16 rispetto ai gly16 e nei pazienti con aplotipo arg16glu27, peggior capacità funzionale nei soggetti gly16gln27 [18]. metra e colleghi hanno dimostrato che, in pazienti affetti da scompenso cardiaco, i polimorfismi adrenergici β1 arg389gly e β2 arg16gly non sono correlati alla risposta alla terapia con carvedilolo, mentre gli omozigoti β2 glu27glu presentano un maggior incremento della frazione di eiezione rispetto agli altri pazienti, oltre che una maggiore riduzione della pressione polmonare wedge a riposo e al picco dell’esercizio [20]. il polimorfismo genetico glu27glu manteneva significatività statistica quale determinante del miglioramento della frazione di eiezione anche all’analisi multivariata, unitamente alla causa della cardiomiopatia, alla pressione arteriosa sistolica basale e alla dose di carvedilolo. poiché i recettori adrenergici β1 e β2 sono altamente polimorfici, dato il loro ruolo nella modulazione della risposta alla stimolazione adrenergica potrebbero modulare anche il meccanismo di rimodellamento inverso ventricolare sinistro dopo terapia di resincronizzazione cardiaca (tabella ii). caso clinico analizziamo il caso di un paziente di sesso maschile di 50 anni, sovrappeso, dislipidemico, con intolleranza glucidica e nessuna altra comorbilità di rilievo, affetto da cardiomiopatia dilatativa idiopatica, diagnosticata dopo un primo ricovero per scompenso cardata la degenerazione del codice genetico (polimorfismi sinonimi). possono verificarsi anche a livello della regione 5' (5' u tr, untranslated region), del gene promotore, della regione 3' (3' utr), degli introni. questi sono in genere più frequenti rispetto ai polimorfismi codificanti [13]. per quanto riguarda il polimorfismo arg389gly del recettore β1 adrenergico, i portatori dell’allele arg389 presentano una maggiore risposta all’agonista in vitro, con una maggior sensibilità alla stimolazione simpatica [14]. gli studi in vivo relativi ai polimorfismi dei recettori β1 si sono incentrati sull’insufficienza cardiaca. studi caso-controllo hanno analizzato il ruolo dei recettori β1 polimorfici nella progressione di tale patologia. tesson e collaboratori non hanno rilevato alcuna differenza nella frequenza allelica dei polimorfismi in posizione 49 o 389 tra il gruppo controllo e i pazienti affetti da cardiomiopatia dilatativa idiopatica [15]. covolo e colleghi non hanno rilevato alcuna associazione tra il polimorfismo del recettore β1 arg389gly e il rischio di insufficienza cardiaca [16]. small e collaboratori hanno dimostrato che l’associazione del recettore polimorfico disfunzionante α2c del322-325, localizzato a livello presinaptico e responsabile dell’incrementato rilascio basale di noradrenalina, e del polimorfismo arg389gly, che presenta un aumentato accoppiamento con le proteine g, identifica una condizione di maggior rischio di insufficienza cardiaca [17]. si tratta di un effetto sinergico, non semplicemente additivo. wagoner e colleghi hanno dimostrato che i recettori β1 sono importanti determinanti della capacità di esercizio di pazienti affetti da insufficienza cardiaca [18]. è stato osservato un decremento statisticamente significativo della vo2 picco (consumo di ossigeno al picco) negli omozigoti gly389, che hanno un ridotto accoppiamento del β1 recettore, rispetto ai soggetti arg389 (vo2 = 14,5 ± 0,6 versus 17,7 ± 0,4 ml/kg/min rispettivamente, p = 0,006). gli eterozigoti presentavano livelli intermedi di vo2. i polimorfismi del recettore β2 adrenergico influenzano invece la densità recettoriale. considerando il polimorfismo gln27glu del recettore β2 adrenergico, i portatori dell’allele glu27 hanno una ridotta downregulation in vitro con una conseguente maggior densità recettoriale, così come i portatori dell’allele arg16 del polimorfismo β2 arg16gly [13]. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2) 65 n. pezzali, m. metra, l. dei cas diopolmonare eseguito prima dell’impianto rilevava lieve compromissione della capacità funzionale. il test risultava sottomassimale (53% della frequenza cardiaca massima teorica per età), in terapia beta-bloccante. veniva interrotto al carico di 140 watt x 2’ per esaurimento muscolare. il picco del consumo di ossigeno era pari a 17,6 ml/kg/ min (60% del massimo teorico per età) e la soglia anaerobica = 10,3 ml/kg/min, pari al 33% del massimo teorico. il paziente veniva successivamente sottoposto a regolari controlli clinici e strumentali, durante i quali si rilevava un iniziale miglioramento clinico e della funzione sistolica ventricolare sinistra e una stabilità della capacità funzionale. a una valutazione a 6 mesi dall’impianto, infatti, si osservava buon compenso clinico ed emodinamico, classe nyha ii, disfunzione sistolica di grado medio all’ecocardiogramma (fe = 35%). non vi erano segni clinici né ecocardiografici di congestione polmonare e/o sistemica e vi era una modiaco, durante il quale veniva eseguita coronarografia con rilievo di coronarie indenni. il paziente presentava disfunzione sistolica ventricolare sinistra di grado severo (frazione di eiezione, fe = 25%), qrs ≥ 150 msec e blocco di branca sinistro completo; era in ritmo sinusale, classe nyha ii-iii. era in terapia medica ottimizzata con enalapril, carvedilolo, antialdosteronico, furosemide, digitale e terapia anticoagulante (per prevenzione del rischio di trombosi endocavitaria in presenza di marcata dilatazione ventricolare sinistra). veniva sottoposto a impianto di pacemaker biventricolare nel 2003. l’ecocardiogramma pre-impianto evidenziava ventricolo sinistro dilatato (diametro telediastolico = 74 mm), con asincronia settale da blocco di branca sinistro, ipocinesia della parete inferiore e dell’apice, severa disfunzione sistolica ventricolare sinistra (fe = 25%), riempimento ventricolare sinistro da alterato rilasciamento diastolico, insufficienza mitralica moderata. il test da sforzo cartabella ii i polimorfismi dei recettori β adrenergici: schema riassuntivo dei risultati degli studi citati recettore β 1 adrenergico arg389gly xiao, 2003 [14] arg389 presentano maggior sensibilità alla stimolazione sinaptica rispetto ai gly389 tesson, 1999 [15] rilevata l’assenza di differenze nella frequenza allelica tra il gruppo di controllo e gli affetti da cardiomiopatia dilatativa idiopatica covolo, 2004 [16] rilevata l’assenza di associazione con il rischio di insufficienza cardiaca small, 2002 [17] l’associazione con del322-325 del recettore polimorfico disfunzionante α 2 c comporta un maggior rischio di insufficienza cardiaca wagoner, 2000 [18] gli omozigoti gly389 presentano un decremento della vo 2 picco rispetto ai soggetti arg389, mentre gli eterozigoti hanno livelli intermedi di vo 2 . inoltre gli omozigoti gly389 hanno un ridotto accoppiamento del β 1 recettore metra, 2010 [20] nei pazienti con scompenso cardiaco questo polimorfismo non è correlato alla risposta alla terapia con carvedilolo posizione 49 tesson, 1999 [15] rilevata l’assenza di differenze nella frequenza allelica tra il gruppo di controllo e gli affetti da cardiomiopatia dilatativa idiopatica recettore β 2 adrenergico gln27glu liggett, 2001 [13] i portatori dell’allele glu27 hanno minor downregolazione in vitro e quindi maggior densità recettoriale metra, 2010 [20] gli omozigoti glu27glu con scompenso cardiaco hanno un maggior incremento della frazione di eiezione e una maggiore riduzione della pressione polmonare wedge a riposo e al picco dell’esercizio rispetto ai pazienti wild-type arg16gly liggett, 2001 [13] i portatori dell’allele arg16 hanno minor downregolazione in vitro e quindi maggior densità recettoriale wagoner, 2000 [18] gli omozigoti arg16 presentano un maggior picco di consumo di ossigeno rispetto ai gly16. inoltre i soggetti con aplotipo arg16glu27 hanno un maggior picco di consumo di ossigeno mentre i soggetti gly16glu27 hanno peggior capacità funzionale metra, 2010 [20] nei pazienti con scompenso cardiaco questo polimorfismo non è correlato alla risposta alla terapia con carvedilolo thr164ile liggett, 1998 [19] i soggetti ile164 affetti da insufficienza cardiaca hanno prognosi peggiore rispetto ai pazienti wild-type. inoltre i soggetti ile164 presentano un ridotto segnale β 2 -mediato wagoner, 2000 [18] i pazienti ile164 presentano valori di vo 2 picco e di percentuale di vo 2 picco rispetto al massimo teorico predetto inferiori rispetto ai pazienti thr164. inoltre gli omozigoti ile164 hanno depresse variazioni di indice cardiaco, resistenze vascolari sistemiche e stroke volume dopo l’esercizio ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2)66 possibili implicanze genetiche nella risposta alla terapia di resincronizzazione biventricolare del sistema adrenergico mediata dai polimorfismi dei recettori β, possa condizionare la risposta alla terapia di resincronizzazione cardiaca. dopo terapia di resincronizzazione ventricolare, il beneficio in termini di sopravvivenza è stato accertato tramite i dati derivanti da trial multicentrici e da rianalisi di registri e casistiche di singoli centri. tuttavia il grado di miglioramento e di risposta alla terapia di resincronizzazione biventricolare presenta un’ampia variabilità. il decrease-hf study, ad esempio, ha mostrato che il 34% dei pazienti ha un incremento marcato della frazione di eiezione entro 6 mesi (≥ 10 unità) [21]. quali fattori permettano di discriminare i soggetti con potenziale miglior risposta alla crt è argomento non ancora del tutto chiarito. la causa della cardiomiopatia è correlata al grado di miglioramento del rimodellamento inverso. un precedente studio evidenzia come il miglioramento sia maggiore nelle forme idiopatiche rispetto a quelle ischemiche. tuttavia l’impatto sulla mortalità riguarda l’avvenuto rimodellamento inverso per sé, al di là del grado di aumento della frazione di eiezione. infatti una variazione di frazione di eiezione ≥ 6 dopo terapia di resincronizzazione si correlava a un minor tasso di eventi [22]. il rimodellamento non appariva quindi essere direttamente causato dall’eziologia della cardiomiopatia. potrebbe anche essere correlato a intrinseche caratteristiche del soggetto, come anche evidenziato da recenti dati sulla presenza di aree cicatriziali nel contesto di cuori esenti da coronaropatia, la cui presenza ha un impatto prognostico [23]. sono stati proposti molti parametri quali possibili predittori della riposta alla crt, soprattutto correlati alla dissincronia ventricolare sinistra, valutati con metodica di imaging [24,25]. questi non hanno però dimostrato nessun valore predittivo in trial prospettici [26]. l’unico parametro accettato e indicato nelle linee guida è la durata del qrs [27,28]. tuttavia la risposta alla terapia di resincronizzazione potrebbe essere influenzata da meccanismi diversi, correlati al rimodellamento ventricolare sinistro, come l’attivazione neuroormonale. è stato poi dimostrato che la terapia di resincronizzazione cardiaca riduce il rimodellamento ventricolare sinistro, l’espressione di tnfα e l’apoptosi. questo contribuisce all’impatto favorevole della crt sulla progressione dell’insufficienza cardiaca e sulla sopravvivenza [29]. poiché l’iperattivazione derata riduzione della capacità funzionale (vo2 picco = 16,1 ml/kg/min al test da sforzo cardiopolmonare). data la persistenza di disfunzione sistolica ventricolare sinistra di grado medio-severo in controlli successivi, il paziente veniva sottoposto a upgrading da pacemaker biventricolare a defibrillatore biventricolare dopo circa 3 anni dal primo impianto, in base alle emergenti evidenze scientifiche e all’aggiornamento delle linee guida. veniva progressivamente incrementato il dosaggio di carvedilolo data la possibilità di una titolazione ulteriore di tale farmaco in presenza di ritmo elettroindotto. da una dose di carvedilolo pre-impianto di 50 mg/die, il farmaco veniva infatti titolato sino a una dose di 62,5 mg/die, massima dose tollerata. nel follow-up, a un controllo del defibrillatore, si rilevavano due episodi di tachicardia ventricolare sostenuta, correttamente riconosciuta e interrotta dal device con burst. veniva pertanto associata terapia con amiodarone. in controlli successivi eseguiti nell’arco di 7 anni dopo il primo impianto, si evidenziava un progressivo miglioramento della funzione sistolica ventricolare sinistra e della geometria di camera e una riduzione dell’entità del rigurgito mitralico. a 7 anni dall’impianto, all’ecocardiogramma, si osservava infatti una riduzione della dimensione del ventricolo sinistro (dtd = 74 mm pre-impianto → 60 mm), un miglioramento della funzione sistolica ventricolare sinistra (fe = 25% pre-impianto → 45%) e un’insufficienza mitralica lieve. veniva pertanto sospesa la terapia con digitale e anticoagulante. durante il follow-up il paziente è sempre stato in buon compenso emodinamico. non sono stati registrati ricoveri per causa cardiovascolare, in particolare non si è verificata nessuna ospedalizzazione per insufficienza cardiaca. il paziente, previo consenso informato, è stato sottoposto a prelievo di sangue venoso per la genotipizzazione, per i polimorfismi genetici del recettore β1 adrenergico arg389gly e del β2 recettore arg16gly e gln27glu. è stata evidenziata omozigosi β2 glu27glu. discussione il caso clinico riportato evidenzia come fattori genetici, in particolare la modulazione ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2) 67 n. pezzali, m. metra, l. dei cas α-miosina e per la serca e la riduzione dei livelli di mrna per il bnp, l’incremento del rapporto α/βmhc [30,31]. la genotipizzazione per il polimorfismo gln27glu del recettore β2 adrenergico potrebbe dunque essere utile per discriminare i pazienti con potenziale maggior beneficio dopo terapia di resincronizzazione biventricolare, in termini di maggior incremento della frazione di eiezione e ridotto numero di eventi cardiovascolari nel follow-up, correlati a una maggior entità del rimodellamento inverso. potrebbe dunque contribuire a un’individualizzazione della terapia. il dato dovrà tuttavia essere validato su una adeguata popolazione di pazienti e non può attualmente essere utilizzato nella pratica clinica. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. simpatica ha un ruolo determinante nel processo di rimodellamento ventricolare sinistro ed è fattore determinante la prognosi nello scompenso cardiaco, è ipotizzabile che la modulazione del sistema adrenergico mediante i polimorfismi del recettore β possa influenzare la variabilità interindividuale nella risposta alla crt. metra e colleghi hanno dimostrato che, in pazienti affetti da scompenso cardiaco, gli omozigoti β2 glu27glu presentato un maggior incremento della frazione di eiezione rispetto agli altri pazienti, oltre che una maggiore riduzione della pressione polmonare wedge a riposo e al picco dell’esercizio, dopo terapia con carvedilolo [20]. è interessante notare come lo stesso polimorfismo sia associato a un miglioramento significativo anche dopo terapia di resincronizzazione cardiaca, in un contesto in cui il rimodellamento inverso si associa a meccanismi molecolari simili a quelli indotti dalla terapia beta-bloccante, quali l’incremento dei livelli di mrna per la catena pesante della bibliografia st john sutton m, keane mg. reverse remodelling in heart failure with cardiac resynchronisation 1. therapy. heart 2007; 93: 167-71 dickstein k, vardas pe, auricchio a, daubert jc, linde c, mcmurray j et al; and the esc 2. committee for practice guidelines. developed with the special contribution of the heart failure association and the european heart rhythm association. 2010 focused update of esc guidelines on device therapy in heart failure. eur heart j 2010; 21: 2677-87 cleland jcf, daubert jc, erdmann e, freemantle n, gras d, kappenberger l et al; for the 3. cardiac resynchronization-heart failure (care-hf) study investigators. the effect of cardiac resyncronization on morbidity and mortality in heart failure. n engl j med 2005; 352: 1539-49 linde c, leclercq c, rex s, garrigue s, lavergne t, cazeau s et al. long-term benefits 4. of biventricular pacing in congestive heart failure: results from the multisite stimulation in cardiomyopathy (mustic) 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patients with clinical 9. improvement but no significant left ventricular reverse remodelling after crt. am heart j 2011; 161: e21 shanks m, delgado v, ng ac, auger d, mooyaart ea, bestini m et al. clinical and 10. echocardiographic predictors of nonresponse to crt. am heart j 2011; 161: 552-7 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(2)68 possibili implicanze genetiche nella risposta alla terapia di resincronizzazione biventricolare chakir k, daya sk, aina t, tunin rs, dimaano vl, abraham tp et al. mechanisms of 11. enhanced beta-adrenergic reserve from cardiac resynchronization therapy. circulation 2009; 119: 1231-40 vanderheyden m, mullens w, delrue l, goethals m, de bruyne b, wijns w et al. myocardial 12. gene expression in heart failure patients treated with cardiac resynchronization therapy responders versus nonresponders. j am coll cardiol 2008; 51: 129-36 liggett sb. beta-adrenergic receptors in the failing heart: the good, the bad and the unknown. 13. j clin invest 2001; 107: 947-8 xiao rp, zhang sj, chakir k, avdonin p, zhu w, bond ra et al. enhanced g(i) signalling 14. selectively negates beta-2 adrenergic receptor (ar)-but not beta-1 ar-mediated positive inotropic effect in myocytes from failing rat hearts. circulation 2003: 108: 1633-9 tesson f, charron p, peuchmaurd m, nicaud v, cambien f, tiret l et al. characterization of 15. a unique genetic variant in the beta-1 adrenoceptor gene and evaluation of its role in idiopathic dilated cardiomyopathy. j mol cell cardiol 1999; 31: 1025-32 covolo l, gelatti u, metra m, nodari s, piccichè a, pezzali n et al. role of beta-1 and beta-16. 2 adrenoceptor polymorphisms in heart failure: a case-control study. eur heart j 2004; 25: 1534-41 small km, wagoner le, levin am, kardia sl, liggett sb. synergistic polymorphisms of 17. beta-1 and alfa 2c adrenergic receptors and the risk of congestive heart failure. n engl j med 2002; 347: 1135-43 wagoner le, craft la, balkrishna s, suresh dp, zengel 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heart failure patients treated with cardiac resynchronization therapy. eur heart j 2008; 29: 2497-505 assomull rg, prasad sk, lyne j, smith g, burman ed, khan m et al. cardiovascular magnetic 23. resonance, fibrosis and prognosis in dilated cardiomyopathy. j am coll cardiol 2006; 48: 197785 hawkins nm, petrie mc, macdonald mr, hogg kj, mcmurray jj. selecting patients for 24. cardiac resynchronization therapy: electrical or mechanical dyssynchrony? eur heart j 2006; 27: 1270-81 hawkins nm, petrie mc, burgess mi, mcmurray jj. selecting patients for cardiac 25. resynchronization therapy: the fallacy of echocardiographic dyssynchrony. j am coll cardiol 2009; 53: 1944-59 chung es, leon ar, tavazzi l, sun jp, nihoyannopoulos p, merlino j et al. results of the 26. predictors of response to crt (prospect) trial. circulation 2008; 117: 2608-16 beshai jf, grimm ra, nagueh sf, baker jh 2nd, beau sl, greenberg sm et al; rethinq study 27. investigators. cardiac-resynchronization therapy in heart failure with narrow qrs complexes. n engl j med 2007; 357: 2461-71 miyazaki c, redfield mm, powell bd, lin gm, herges rm, hodge do et al. dyssynchrony 28. indices to predict response to cardiac resynchronization therapy: a comprehensive, prospective single-center study. circ heart fail 2010; 3: 565-73 d’ascia c, cittadini a, monti mg, riccio g, saccà l. effects of biventricular pacing on 29. interstitial remodelling, tumor necrosis factor-alpha expression and apoptotic death in failing human myocardium. eur heart j 2006; 27: 201-6 vanderheyden m, vrints c, bartunek j. the molecular fingerprint of cardiac dyssynchrony and 30. cardiac resynchronization therapy. heart fail rev 2011; 16: 227-33 lowes bd, gilbert em, abraham wt, minobe wa, larrabee p, ferguson d et al. myocardial 31. gene expression in dilated cardiomyopathy treated with beta-blocking agents. n engl j med 2002; 346: 1357-65 prescrizione off-label: un’assunzione di responsabilità maria rosa luppino 1 sifilide congenita in una bambina di due mesi daniele serranti 1, danilo buonsenso 1, piero valentini 1 un caso di iperinflazione polmonare nello scompenso cardiaco cronico: il ruolo della terapia diuretica e della riabilitazione cardiorespiratoria claudio di gioia 1, giuseppe de simone 1, antonio di sorbo 1, gabriele borzillo 1, giovanni d’addio 1, alessandro ciarimboli 1, ilernando meoli 2, massimo romano 3, andrea bianco 4 possibili implicanze genetiche nella risposta alla terapia di resincronizzazione biventricolare in un paziente affetto da scompenso cardiaco natalia pezzali 1, marco metra 1, livio dei cas 1 sindrome di hopkins maria roberta longo 1, raffaele falsaperla 1, catia romano 1, eleonora passaniti 1, piero pavone 1 clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 3 manuela pedron 1 lo screening neonatale e il ruolo del pediatra di base introduzione le malattie metaboliche sono patologie ereditarie a trasmissione genetica causate dall’assenza o dalla carenza di uno dei sistemi intracellulari deputati a una o più delle vie metaboliche essenziali. tale alterazione genera l’assenza o la riduzione di un enzima specifico, con conseguente blocco della via metabolica implicata e accumulo dei metaboliti a monte del blocco. la classificazione accettata universalmente è quella di saudubray, che suddivide queste malattie in tre aree (tabella i) [1]. le manifestazioni cliniche sono molto varie e dipendono dalla via metabolica che viene interrotta: possono essere acute e pericolose per la vita del bambino oppure di carattere cronico e con una degenerazione lenta e potenzialmente possono causare danni a carico di qualunque sistema o organo (ad esempio possono generare ritardi di tipo mentale, problemi motori o disturbi di svariati apparati, quali il sistema gastrointestinale e il cardiocircolatorio). anche l’età di esordio è estremamente variabile e dipende dal momento in cui l’accumulo di metaboliti tossici o la carenza del substrato enzimatico diventano significativi. l’esordio inoltre può essere esacerbato da fattori ambientali, quali le abitudini dietetiche o altre patologie intercorrenti. benché la prevalenza di ogni singola patologia non sia molto elevata, il loro peso complessivo non è da sottovalutare: negli stati uniti l’incidenza totale di questo gruppo di malattie è stimata tra 1/1.400 e 1/5.000 nati vivi, mentre in italia è intorno a 1/2.500 nati vivi. l’errore più comune nella gestione delle malattie metaboliche ereditarie risiede nel ritardo diagnostico [2]. il riconoscimento precoce delle malattie metaboliche ereditarie, ottenuto tramite lo screening neonatale, è infatti la condizione essenziale affinché possano essere curate in maniera adeguata: dove già applicato, si è registrata, infatti, la riduzione della morbilità, delle ospedalizzazioni e della mortalità precoce (la cosiddetta “morte in culla”). al contrario di quanto spesso si crede, la diagnosi delle malattie metaboliche non richiede l’utilizzo di tecniche particolarmente sofisticate: il sospetto diagnostico è possibile anche per il pediatra che opera sul territorio e le indagini di primo livello possono essere eseguite nei laboratori di base. gli screening neonatali sono stati introdotti circa 50 anni fa negli stati uniti, in seguito alla messa a punto del test di guthrie per la fenilchetonuria, e sono stati poi introdotti in svariati paesi europei, in australia e in india. successivamente, con metodiche analoghe, sono state sottoposte a screening in alcuni paesi altre 2-3 malattie ereditarie (galattosemia, malattia delle urine a sciroppo d’acero e difetto di biotinidasi) e le analisi per l’ipotiroidismo congenito e per la fibrosi cistica. alla fine degli anni ’90 sono state messe a punto nuove modalità diagnostiche, tra cui la spettrometria di massa tandem, che hanno permesso di individuare con maggiore facilità questo tipo di patologie. in particolare la spettrometria di massa tandem consente, tramite l’esame di una singola goccia di editoriale 1 vice presidente aismme associazione italiana sostegno malattie metaboliche ereditarie onlus corresponding author manuela pedron info@aismme.org clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 4 editoriale aismme (associazione italiana sostegno malattie metaboliche ereditarie) l’aismme è stata costituita nel novembre 2005 da un gruppo di genitori con figli affetti da malattie metaboliche ereditarie. ha sede a padova. lavora a supporto di malati e famiglie su tutto il territorio nazionale attraverso: un y sito internet (www.aismme.org) che riporta le attività dell ’aismme, news dal mondo relative alle malattie metaboliche ereditarie, informazioni su centri di cura e diagnosi, consigli sui problemi relativi all ’aspetto socio-sanitario nella gestione dei malati un y centro di aiuto/ascolto per informazioni e consigli pratici: numero verde 800.910.206, tel. 049/99.00.700 tutti i giorni dalle 10.00 alle 17.00. rispondono genitori, in collaborazione anche con medici dei centri screening, dei centri di cura e di diagnosi il y notiziario aismme news: l’organo di informazione dell’associazione che tratta gli argomenti della prevenzione neonatale e delle malattie metaboliche ereditarie, distribuito a medici e operatori sanitari, inviato in tutta italia e scaricabile anche dal sito internet sangue, di analizzare contemporaneamente e quantificare vari metaboliti (acilcarnitine, aminoa cidi), consentendo di identificare alla nascita circa 40 malattie metaboliche: acidurie orga niche, difetti della β-ossidazione degli acidi grassi, aminoacidopatie e difetti del ciclo dell’urea. in italia la regione che per prima ha applicato a tutti i neonati lo screening allargato è stata, nel 2004, la toscana. a partire da questa prima esperienza anche le altre regioni si stanno organizzando affinché lo screening metabolico allargato possa essere attivato a tutti i neonati del loro territorio: la sicilia ha già attivato la fase sperimentale del test, in emilia romagna se ne discute a livello istituzionale. invece su progetto sperimentale sin dal 2004 è stato applicato da qualche anno a tutti i neonati della liguria e una parte del lazio. entro il 2009, grazie anche alle campagne di sensibilizzazione dell’associazione italiana sostegno maaminoacidopatie-difetti del ciclo dell’urea acidurie organiche difetti della beta-ossidazione degli acidi grassi fenilchetonuria y iperfenilalaninemia y iperglicinemia non chetotica y argininemia y tirosinemia tipo i-ii-iii y malattia delle urine a sciroppo y d’acero (msud) ipermetioninemia y iperammoniemia, y iperornitinemia, omocitrullinemia (sindrome hhh) atrofia girata della coroide e y della retina omocistinuria y deficit di argininsuccinico y sintetasi deficit di argininsuccinico liasi y deficit di arginasi y citrullinemia tipo ii (deficit di y citrina) propionico aciduria y metilmalonico aciduria y (difetti mut, cbl a, b, c, d) malonico aciduria y isovalerico acidemia y glutarico aciduria tipo i y deficit di olocarbossilasi y sintetasi deficit di biotinidasi y deficit di idrossi metil-glutarily coa-liasi 3-metilglutaconico aciduria y deficit di 3-metilcrotonil coay carbossilasi deficit di y β-chetotiolasi deficit 2-metilbutirril-coay deidrogenasi deficit 2-metil-3-idrossibutirrily coa-deidrogenasi deficit di acil-coa-deidrogenasi y a catena corta (scad) deficit di acil-coa-deidrogenasi y a catena media (mcad) deficit di acil-coa-deidrogenasi y a catena molto lunga (vlcad) deficit di idrossi-acil-coay deidrogenasi a catena lunga (lchad) deficit proteina trifunzionale y (tfp) deficit multiplo di acil-coa y deidrogenasi (mad) deficit del trasportatore di y carnitina deficit di carnitin palmitoil y transferasi tipo i deficit di carnitin palmitoil y transferasi tipo ii deficit di carnitina-acilcarnitina y translocasi tabella i le 40 malattie metaboliche ereditarie identificabili mediante screening neonatale clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 5 m. pedron lattie metaboliche ereditarie (aismme), lo screening metabolico allargato troverà applicazione in tutto il veneto, nel friuli venezia giulia e nelle provincie di trento e bolzano [3]. il ruolo del pediatra nel maggio 2008 la sissme (società italiana studio malattie metaboliche ereditarie) e la sisn (società italiana screenings neonatali) hanno elaborato “linee guida per lo screening neonatale esteso e la conferma diagnostica” [4] con lo scopo di definire l’elenco delle patologie diagnosticabili con l’introduzione di uno screening esteso e di individuare ruoli e competenze dei professionisti impegnati a diverso livello nella cura di tali malattie. in figura 1 è riportato il percorso che intercorre tra il sospetto diagnostico e la presa in carico del paziente con accertata presenza di malattia rara. all’interno di tale flusso è possibile individuare diversi livelli di assistenza: livello di base: pediatra che opera sul tery ritorio e responsabile del reparto di maternità a cui è afferito in prima istanza il paziente; livello intermedio: specialista in malattie y metaboliche pediatriche a cui fare riferimento in fase diagnostica e per l’impostazione della terapia; livello di struttura clinica integrata: rey parto degenza ordinaria e reparto terapia intensiva o sub-intensiva; consulto specialistico: genetista medico, y patologo clinico, specialista in endocrinologia e metabolismo, ecc. all’interno di questo processo il ruolo del pediatra è fondamentale. in primo luogo, data l’importanza della diagnosi precoce per questo tipo di patologie, è importante che il pediatra mantenga sempre un forte sospetto diagnostico. in questa prima fase il compito del pediatra è quello di avviare gli esami di primo livello, indirizzando i genitori del bambino al laboratorio di riferimento. ma l’applicazione del test è solo un primo passo, anche se importante: nell’eventualità in cui lo screening abbia dato esito positivo, è poi necessario che il pediatra si impegni nella presa in carico del piccolo malato. la diagnosi precoce mediante screening neonata le consente infatti di adottare una terapia, talvolta già in fase presintomatica. test di i istanza sospetto positivo retest duplicato positivo valutazione rischio richiamo basso rischio positivo contattare maternità contatto diretto paziente richiamo alto rischio negativo negativo caso chiuso caso chiuso contatto diretto paziente contattare maternità contattare centro clinico di riferimento test conferma al follow-up registro malattie rare il trattamento consiste spesso in una terapia dietetica, che ad esempio può prevedere la riduzione dell’assunzione di cibi proteici con supplementazione tramite miscele di aminoacidi (es. dieta povera di fenilalanina nella fenilchetonuria, povera in leucina-isoleucinavalina nella malattia delle urine a sciroppo d’acero, a contenuto proteico limitato nelle organico acidurie) o pasti regolari evitando digiuni prolungati, talora con ridotto apporto di grassi in alcuni difetti della beta-ossidazione mitocondriale. in altri casi può essere utile la terapia vitaminica (ad esempio vitamina b12 nella metilmaloni coaciduria, biotina nei difetti multipli di carbossilasi) e/o la terapia farmacologica (ad esempio carnitina in organicoacidurie e difetto sistemico di carnitina o l-dopa in iperfenilalaninemia da difetti bh4). benché la terapia sia spesso decisa in accordo con lo specialista di malattie metaboliche, è il pediatra che è tenuto seguire il paziente nella fase di follow-up, verificando figura 1 flusso dal sospetto diagnostico alla presa in carico del paziente [4] clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 6 editoriale l’aderenza alla terapia e la sua efficacia. il pediatra potrà inoltre trovare aiuto e indirizzare le famiglie dei bambini con queste patologie alle associazioni di pazienti, che potranno supportarli nella quotidianità della convivenza con la malattia. infine il pediatra può essere di aiuto alle società scientifiche impegnate nella cura delle malattie metaboliche ereditarie e all’istituto superiore di sanità nella raccolta dei dati epidemiologici e clinici, per incentivare e supportare la ricerca. in conclusione, secondo quanto definito dalle linee guida sissme-sisn il pediatria è tenuto a: acquisire conoscenze di base sullo screey ning esteso; acquisire conoscenze di base sulle patoloy gie oggetto di screening; connettersi ai referenti locali dello screey ning; connettersi agli specialisti di riferimento; y identificare i possibili soggetti non sottoy posti allo screening; acquisire la diagnosi e sovrintendere al y follow-up a lungo termine; informare direttamente e con materiali y appositi (eventualmente anche multilingue, per gli stranieri) le famiglie. bibliografia saudubray jm, ogier h, charpentier c. clinical approach to inherited metabolic diseases. in: 1. fernandes j, saudubray jm, van den berghe g (a cura di). inborn metabolic diseases: diagnosis and treatment. berlin: springer-verlag, 1995 gupta a. to err is genetics: diagnosis and management of inborn errors of metabolism (iem). 2. anthropologist special volume 2007; 3: 415-23 http://www.aismme.org3. sismme-sisn. linee guida per screening neonatale esteso e conferma diagnostica. maggio 4. 2008 clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 45 fabio di stefano 1 un caso di insufficienza respiratoria acuta in un giovane adulto caso clinico un uomo di 40 anni viene ricoverato per dispnea acuta insorta da poche ore. è pallido, cianotico, sofferente, astenico e polipnoico. all’anamnesi viene riferita una febbricola, insorta da circa una settimana, trattata con antipiretici e, la notte precedente l’insorgenza della dispnea acuta, si era verificato un movimento febbrile fino a 39,5°c associato a brividi squassanti, poliuria e disuria. il paziente ha sempre goduto di buona salute, pratica attività sportiva agonistica (corsa campestre) e si era allenato anche durante la settimana in cui presentava la febbricola. l’esame clinico rivela una frequenza cardiaca di 120 battiti al minuto, una frequenza respiratoria di 40 atti al minuto, pressione arteriosa 115/65 mmhg e una sao2 in aria ambiente dell’81%; la temperatura è di 39°c. lo stato di coscienza è conservato anche se il paziente appare abbastanza obnubilato. all’auscultazione polmonare si rilevano rantoli a piccole bolle diffusi su tutto l’ambito polmonare. i toni cardiaci sono ritmici, taabstract a 40 years old man presents with a few hours history of progressive dyspnea. he was suffering from almost a week of low grade fever. the night before the onset of dyspnea he had high fever (39,5°c), polyuria and dysuria. his blood pressure is 115/65 mmhg and his oxygen saturation while breathing ambient air is 81%. chest auscultation reveals rales bilaterally. a chest radiography shows bilateral pulmonary infiltrates consistent with pulmonary edema. how should this patient be evaluated to establish the cause of the acute pulmonary edema and to determine appropriate therapy? keywords: acute pulmonary edema, differential diagnosis a case of acute respiratory failure in a young man. cmi 2007; 1(2): 45-50 1 dipartimento di medicina interna, azienda usl di chieti, unità operativa di medicina respiratoria ed allergologia, ospedale g. bernabeo, ortona (ch) chicardici e le pause libere. i polsi periferici sono ben palpabili ma iposfigmici. l’addome è trattabile, ma è presente dolore alla palpazione profonda dell’ipogastrio. si somministra immediatamente o2 ad alti flussi con maschera di venturi (fio2 = 50%) e si esegue un ecg che evidenzia solamente una tachicardia sinusale. si incannula una vena periferica, si effettua un prelievo per emocromo, glicemia, azotemia, creatinina, elettroliti, ves, ast, alt, ldh, cpk, cpk-mb troponina, inr, pt, ptt, fibrinogeno, d-dimero e b-peptide natriuperché descriviamo questo caso? per valutare in una situazione di emergenza i metodi diagnostici più appropriati e idonei alla identificazione delle cause (cardiogeniche o non-cardiogeniche) dell ’edema polmonare acuto, in modo da iniziare prontamente la terapia ottimale corresponding author dott. fabio di stefano ospedale g. bernabeo c. da santa liberata 66026 ortona (ch) f.distefano@aliceposta.it caso clinico clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 46 un caso di insufficienza respiratoria acuta in un giovane adulto retico (bnp); vengono inoltre prelevati un campione di sangue arterioso per l’emogasanalisi (ega) e tre campioni di sangue venoso per l’emocoltura. dopo aver posizionato un catetere vescicale, si raccolgono campioni di urina per l’esame chimico fisico e per l’urinocoltura. viene iniziata una infusione di 500 ml di ringer lattato. si esegue una rx torace che evidenzia un edema polmonare acuto le cui caratteristiche radiologiche sono indicative di una causa non cardiogenica (figura 1, tabella i). i valori dell’ega eseguita in aria ambiente sono: pao2 = 40 mmhg; paco2 = 28 mmhg; hco3 = 25,3 mmol/l; ph = 7,44. nonostante la somministrazione di o2 ad alti flussi con maschera di venturi (fio2 = 50%), la sao2 migliora solo lievemente; il quadro emodinamico rimane relativamente instabile nonostante un’altra infusione di 500 ml di ringer lattato. gli esami ematochimici rivelano: ipersedimetria (ves 80); leucocitosi neutrofila (24.000 con 80% di neutrofili); aumento del fibrinogeno (710 mg/dl); normalità degli indici di funzionalità epatica, coagulativa e renale; bilancio idro-elettrolitico conservato; troponina, d-dimero e bnp non significativi. l’esame chimico fisico delle urine evidenzia un tappeto di leucociti. in attesa dei risultati di urinocoltura ed emocoltura si inizia terapia antibiotica con piperacillina 4 g x 4 volte/die ev più amikacina 1,5 g monodose/ die. il paziente viene trasferito dall’area di accettazione all’area sub-intensiva della nostra unità operativa dove viene sottoposto a una ventilazione meccanica non invasiva           (vmni) con c-pap (continous positive pressure airways) alla stessa fio2 (50%) e con una pressione positiva di fine espirazione (peep) di 10 cmh2o. dopo circa 8 ore la vmni con c-pap viene interrotta in considerazione del quadro relativamente stabile dal punto di vista emodinamico e della pronta risposta alla somministrazione di o2 in maschera di venturi (sao2 98% con una fio2 del 50%). le condizioni cliniche vanno rapidamente migliorando, tanto che dalla quarta giornata il paziente prosegue le sue cure in degenza ordinaria. infine arrivano i risultati dell’urinocoltura e dell’emocoltura positivi per escherichia coli ad alta carica batterica (rispettivamente 107 e 106 cfu). domande da porsi l’anamnesi e l ’esame obiettivo orientano per una causa cardiogenica o non cardiogenica di edema polmonare acuto? se ci orientiamo per un edema polmonare cardiogenico o non cardiogenico, dalla anamnesi ed esame obiettivo quali potrebbero essere le cause più probabili? il tracciato ecg mostra alterazioni aspecifiche e/o particolari per una patologia cardiaca in atto (aritmie, evidenza di ischemia o infarto del miocardio o dati indiretti di una embolia polmonare)? l’rx torace evidenzia aumento delle dimensioni dell ’ombra cardiaca e/o altri segni indicativi di insufficienza cardiaca? ci sono ulteriori esami (ad esempio enzimi di necrosi miocardica, amilasemia, lipasemia, ecc…) che dobbiamo aggiungere alla routine ematochimica? è necessario eseguire un ecocardiogramma in urgenza? se l ’edema polmonare acuto non risponde alla terapia medica, sono presenti controindicazioni all ’uso della ventilazione meccanica non invasiva con ventilatore c-pap (continous positive pressure airways)?        caratteristiche radiologiche edema polmonare cardiogenico edema polmonare non cardiogenico dimensioni cardiache aumentate normali ampiezza dei peduncoli vascolari agli ili radiologici generalmente aumentata generalmente normale o ridotta distribuzione vascolare invertita normale disposizione dell’edema centrale e simmetrica periferica e asimmetrica versamento pleurico generalmente presente generalmente assente “cuffing” peribronchiale generalmente presente generalmente assente linee settali generalmente presenti generalmente assenti broncogrammi aerei generalmente assenti generalmente presenti tabella i caratteristiche radiologiche che possono aiutare a differenziare l ’edema polmonare cardiogenico dall ’edema polmonare non cardiogenico clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 47 f. di stefano in caso di mancato miglioramento dell ’edema polmonare acuto con ventilazione meccanica non invasiva con ventilatore c-pap, quali sono le condizioni cliniche e i parametri emogasanalitici che rendono non più procrastinabile l’uso della ventilazione meccanica invasiva con intubazione endotracheale? discussione il caso clinico descritto, caratterizzato da una ipossia severa senza alcun segno di insufficienza ventilatoria, definibile come la incapacità di mantenere una sufficiente eliminazione della co2, e caratterizzato da un quadro radiologico di infiltrati diffusi bilaterali polmonari in assenza di segni di insufficienza ventricolare sinistra, è un edema polmonare acuto non cardiogenico scatenato da una sepsi urinaria. l’edema polmonare acuto non cardiogenico viene definito anche ards (acute respiratory dystress syndrome) o ali (acute lung injury) a seconda se il rapporto pao2/fio2 è rispettivamente < 200 mmhg e < 300 mmhg [1,2]. dal punto di vista fisiopatologico, a differenza dell’edema polmonare cardiogenico causato da un aumento della pressione idrostatica all’interno dei capillari polmonari [3], l’edema polmonare non cardiogenico è il prodotto di complesse interazioni tra elementi cellulari e mediatori dell’ infiammazione [4-7]. il caso clinico riportato descrive un paziente con funzioni vitali ben rilevabili ma instabili, soprattutto a carico del sistema respiratorio: in particolare, l’alterazione nella distribuzione del rapporto ventilazione/perfusione (v/q) con shunt elevato [8], ha determinato: ipossia acuta con tachipnea e aumento del consumo di o2 dei muscoli respiratori, ipertono adrenergico reattivo, spesso accompagnato da un effetto di vasodilatazione sistemica legato al rilascio dei mediatori dell’infiammazione, che si traduce, dal punto di vista cardiovascolare, in un quadro di tachicardia con pa generalmente conservata o moderatamente ridotta. un paziente del genere richiede immediatamente la somministrazione di o2 ad alti flussi con maschera di venturi e, una volta risolto il problema principale della grave desaturazione in o2 e confermata mediante ega l’assenza di problemi associati a carico della ventilazione alveolare, il paziente potrà essere avviato ad una diagnostica di laboratorio e strumentale che dovrà confermare l’esclu figura 1 rx torace: quadro di edema polmonare acuto con caratteristiche radiologiche indicative di una causa non cardiogenica sione delle cause cardiogeniche dell’ edema polmonare acuto (tabella ii), confermare un quadro di ards o ali e orientare verso le possibili cause (tabella iii). una volta stabilita la diagnosi sarà opportuno trattare il paziente con sistemi di supporto respirainfarto miocardico acuto insufficienza ventricolare sinistra rigurgito mitralico stenosi mitralica disfunzione diastolica tabella ii cause di edema polmonare cardiogenico torio come una ventilazione meccanica non invasiva con c-pap, che permettano di mantenere l’attività respiratoria spontanea facendo aumentare il volume polmonare, con conseguente aumento della superficie di scambio, riduzione della frazione di shunt e miglioramento del rapporto pao2/fio2 [9-11]. la c-pap può essere somministrata per cicli di un’ora seguiti da brevi fasi di respiro spontaneo della durata di 15-30 minuti, sempre somministrando o2 ad alti flussi e sotto monitoraggio non invasivo della pa e sao2. il ricorso alla ventilazione invasiva deve essere preso in considerazione quando si verificano le seguenti condizioni: peggioramento dei parametri emogasanalitici nonostante c-pap, grave instabilità emodinamica, aritmie gravi, apnea o bradipnea (< 12 atti/min), alterazioni dello stato di coscienza, necessità di proteggere le vie aeree clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 48 un caso di insufficienza respiratoria acuta in un giovane adulto (vomito, sanguinamenti), pneumotorace o pneumomediastino, incapacità del paziente a cooperare, impossibilità di adattare la maschera [12,13]. l’edema polmonare acuto non cardiogenico (sia esso ards o ali a seconda della gravità clinica espressa dal rapporto pao2/ fio2) è una sindrome ad eziologia multifattoriale e ovviamente richiederà innanzitutto il trattamento della patologia di base. nel caso clinico descritto il trattamento, costituito da una terapia antibiotica mirata sulla sepsi urinaria, ha riportato il paziente nel giro di pochi giorni ad una condizione ottimale di emodinamica e di saturazione di o2. a parte la terapia della causa eziologica dell’ards/ali e il trattamento di supporto dell’insufficienza respiratoria acuta, basato a seconda del livello di gravità sulla ventilazione artificiale non invasiva o invasiva o sulla semplice somministrazione di o2 con maschera di venturi, sono stati sperimentati trattamenti farmacologici volti a bloccare la catena infiammatoria causa dell’ards/ali [14-20]. fino ad oggi questo approccio non è stato efficace, probabilmente per la estrema complessità del numero dei mediatori e delle loro interazioni che spesso attivano meccanismi a cascata. anche l’utilizzo degli steroidi, proposti in passato a dosaggi elevati e in fase acuta, si è rivelato controproducente per l’esiguità degli effetti positivi a scapito di un aumentato rischio di complicanze infettive o peggioramento di infezioni già in atto [21,22]. conclusioni per un paziente che si presenta con un edema polmonare acuto, la valutazione dovrebbe iniziare con una accurata anamnesi (dai familiari se il paziente non è collaborante per la gravità della sua condizione fisica) ed esame obiettivo. una speciale attenzione dovrebbe essere posta ai segni e sintomi di patologia cardiaca acuta o cronica, come pure alle evidenze di una patologia infettiva primaria polmonare come una polmonite o una patologia infettiva extrapolmonare. un elettrocardiogramma dovrebbe subito essere effettuato per escludere modificazioni indicative di ischemie cardiache, anche se la sola presenza di queste modificazioni non può definire con assoluta certezza come cardiogenico un edema polmonare acuto. la misura del bnp è auspicabile ed è molto utile se il valore è inferiore a 100 pg/mm, perché in tale caso una insufficienza cardiaca è molto improbabile [23]. la radiografia del torace dovrebbe essere visionata molto attentamente per ricercare la disposizione edi caratteri radiologici che contraddistinguono l’edema polmonare acuto cardiogenico da quello non cardiogenico. se la diagnosi è dubbia, un’ecocardiografia transtoracica può valutare la funzione sistolica del ventricolo sinistro, il funzionamento e continenza delle valvole aortica e mitralica. con un approccio a gradini secondo un definito algoritmo diagnostico, alla maggioranza dei pazienti con edema polmonare acuto le cause possono essere diagnosticate in modo non invasivo, e la terapia può essere somministrata mano a mano che si percorrono le fasi dell’algoritmo diagnostico. per esempio se è sospettata una infezione, la terapia antibiotica dovrà essere iniziata non appena sono stati prelevati campioni biologici (sangue, urine, liquido pleurico, ecc…) per le indagini microbiologiche e le colture batteriche. se la desaturazione in o2 del paziente è tale da richiedere la ventilazione meccanica non invasiva o invasiva a seconda della gravità e ci sono dubbi sulla natura dell’edema polmonare, è necessario adottare una ventilazione a bassi volumi e pressioni di supporto [24,25], in modo da non correre il rischio di danneggiare il parenchima polmonare e determinare un barotrauma che può avere come conseguenza uno pneumotorace, enfisema mediastinico e sottocutaneo, condizioni che aggraverebbero ancopolmoniti infezioni extrapolmonari sepsi shock settico,emorragico, ipovolemico cid (coagulazione intravascolare disseminata) aspirazione inalazione di fumi tossici annegamento danno da riperfusione ipertrasfusione trauma multiplo con contusioni polmonari pancreatite peritonite reazione da farmaci (es. fans, narcotici, interleuchina-2) reazione da droghe (es. oppioidi, cocaina di sintesi artificiale) edema polmonare da altitudine ostruzione delle vie aeree superiori edema polmonare neurogeno edema polmonare da riespansione polmonare tabella iii cause di edema polmonare non cardiogenico clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 49 f. di stefano ra di più la prognosi. nei pazienti in cui l’edema polmonare acuto è complicato da uno stato di shock, l’inserzione di un catetere nell’arteria polmonare è necessaria per gli errori nel trattamento di questo caso assumere come cardiogenico un edema polmonare acuto non cardiogenico, e trattarlo con dosi elevate di diuretici e farmaci (come i nitrati) che riducono il pree postcarico, rendendo il circolo ancora più emodinamicamente instabile per sostenere il circolo in un edema polmonare acuto non cardiogenico, esagerare con la somministrazione di fluidi e determinare paradossalmente un sovraccarico di volume che complica il quadro clinico iniziale con una componente cardiogenica di edema polmonare, dovuta all ’incremento della pressione idrostatica nei capillari polmonari e ulteriore stravaso fluido negli spazi interstizio-alveolari. tale evenienza è comune in particolar modo nei pazienti anziani che presentano una sclerodegenerazione cardiaca senile, o in pazienti più giovani che presentano una funzionalità cardiaca compromessa cronicamente da una qualche patologia   identificare le cause dell’edema polmonare e somministrare in modo appropriato la terapia, considerando la impraticabilità del circolo superficiale. algoritmo diagnostico per la differenziazione clinica tra edema polmonare cardiogenico e non cardiogenico clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 50 un caso di insufficienza respiratoria acuta in un giovane adulto bibliografia 1. bernard g, artigas a, brigham k et al. the american-european consensus conference on ards: definitions, mechanisms, relevant outcomes, and clinical trial coordination. am j respir crit care med 1994; 149: 818-24 2. schuster dp. what is acute lung injury? what is ards? chest 1995; 107: 1721-6 3. ware lb, matthay ma. acute pulmonary edema. n engl j med 2005; 353: 2788-96 4. zapol w, rie m, frikker m et al. pulmonary circulation during adult respiratory distress syndrome. in: zapol w, falke w. acute respiratory failure: lung biology in health and disease. new york 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negativa per osteoporosi e positiva per malattia di alzheimer, ex-forte fumatore, con storia di potus fino al 2008. l’anamnesi patologica remota metteva in evidenza: infezione cronica da hbv (verosimilmente carrier sano), sindrome ansioso-depressiva, bpco (non in terapia con corticosteroidi) e frattura ileo-ischio-pubica dopo trauma efficiente. nel febbraio 2008 per la comparsa di disturbi ingravescenti alla deambulazione, associati a paraparesi e completa immobilizzazione a letto con gravi algie diffuse localizzate a livello dorsale, veniva sottoposto a una rmn rachide che evidenziava crolli vertebrali a livello di d5, d6 e d11. perché descriviamo questo caso perché l ’osteoporosi maschile è un fenomeno più diffuso di quanto si possa pensare, la consapevolezza del problema è ancora scarsa, anche nei casi conclamati e la percentuale dei pazienti che ricevono un trattamento adeguato è marcatamente minore rispetto alla popolazione femminile. il tasso di mortalità dopo frattura d ’anca o di femore nell ’uomo risulta più elevato rispetto alle donne; questi tipi di fratture, unitamente a quelle vertebrali, sono responsabili dell ’aumento della mortalità a lungo termine, di deformità e algie alla colonna vertebrale, del declino funzionale e peggioramento della qualità della vita corresponding author prof. mario barbagallo mabar@unipa.it caso clinico abstract osteoporosis in men is frequently not considered, underdiagnosed and often undertreated. in contrast with osteoporosis occurring in women, the genesis is frequently secondary (30-60%) with a complex diagnostic approach. a careful anamnesis and physical examination associated with laboratory and instrumental evaluation are necessary for an accurate diagnosis. the clinical case presented concerns a 70-year-old man with negative family history for osteoporosis and a personal history of depression, hbv carrier, and chronic obstructive pulmonary disease (copd) in a heavy ex-smoker with history of alcoholism. the comprehensive geriatric evaluation allowed us to diagnose a multifactorially secondary osteoporosis associated to osteomalacia probably generated by the combination of alcohol abuse with consequent severe malnutrition, heavy smoking and copd, physical inactivity and rapid weight loss. keywords: male osteoporosis, alcohol abuse, osteomalacia, malnutrition, chronic obstructive pulmonary disease osteoporosis in men: a case report cmi 2010; 4(3): 117-123 1 cattedra di geriatria, università degli studi di palermo ligia j. dominguez 1, simona miraglia 1, mario barbagallo 1 osteoporosi maschile: un caso clinico ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3)118 osteoporosi maschile: un caso clinico l’esame obiettivo all’ingresso mostrava: tachicardia; y emitoraci ipoespansibili agli atti del rey spiro; suono aspro diffuso; y mv e fvt lievemente ridotti ai campi y medio-apicali; cifoscoliosi severa; y addome trattabile alla palpazione supery ficiale e profonda; organi ipocondriaci nei limiti; y lieve ginecomastia maggiore a destra. y alla mobilizzazione presentava segno di lasegue positivo bilateralmente, rot 2/4 a destra, 3/4 a sinistra agli arti inferiori, simmetrici invece agli arti superiori. la valutazione funzionale iniziale evidenziava: quasi totale perdita delle abilità per lo y svolgimento delle attività basilari della vita quotidiana: activities of daily living (adl) = 1/6 [1]; totale perdita delle abilità strumentali: y instrumental activities of daily living (iadl) = 0/8 [2]; elevato rischio di caduta: test di tinetti y = 6/28 [3]; presenza di una depressione di grado sey vero: geriatric depression scale (gds) = 12/15 [4]; cattivo stato nutrizionale: y mini-nutritional assessment (mna) = 13/30 [5]; nessun deterioramento cognitivo: y mini mental state examination (mmse) = 30/30 [6]. il paziente lamentava inoltre intensa rachialgia misurata tramite scala visiva (visual analogic scale [vas] = 8/10). gli esami strumentali mostravano bassi livelli densitometrici ossei sia a livello vertebrale (t-score = -4,6 ds; bmd, bone mineral density = 0,694 g/cm2) che femorale (t-score = -4,1 ds; bmd = 0,541 g/cm2), e la radiografia della colonna dorso-lombare evidenziava diverse fratture vertebrali (a livello di d5, d6, d11) di grado moderato e severo secondo la classificazione di genant. il rischio di f rattura osteoporotica a 10 anni secondo l’indice frax (fracture risk assessment tool) [7] era del 46% e il rischio di frattura femorale a 10 anni era del 40%. l’ecografia epatica era normale. gli esiti degli esami ematochimici di primo e di secondo livello sono riportati in tabella i. il paziente veniva quindi ricoverato in neurochirurgia e sottoposto a un intervento di spinosectomia e laminectomia di d5 e d6 (marzo 2008); l’esame istologico dei frammenti ossei prelevati escludeva il sospetto di lesioni neoplastiche ripetitive. il paziente veniva dimesso con diagnosi di «paraparesi conseguente a mielopatia dorsale da verosimile crollo di d5 e di d6 conseguente a patologia osteoporotica». nell’agosto 2008 per il persistere della sintomatologia eseguiva un secondo intervento di fissazione dei segmenti superiori al crollo (d4) e dei tre segmenti al di sotto del crollo stesso (d7, d8, d9) con lieve miglioramento della sintomatologia a carico degli arti inferiori. nel settembre 2008 perveniva presso la nostra unità operativa per una valutazione completa del quadro osteoporotico. parametro valori riscontrati valori normali emocromo nella norma assetto epatico alt 11 ui < 40 ui ast 8 ui < 40 ui ggt 20 ui 8-61 ui assetto renale azotemia 29 mg/dl 10-50 mg/dl creatinina 0,77 mg/dl 0,6-1,5 mg/dl elettroliti sierici sodio 136 meq/l 132-148 meq/l potassio 4,1 meq/l 4,1-5,6 meq/l calcio 8,8 mg/dl 8,1-10,4 mg/dl calcio corretto 9,3 mg/dl 8,1-10,4 mg/dl fosforo 3,4 mg/dl 2,5-5 mg/dl testosterone totale 4,94 ng/ml 3-10 ng/ml testosterone libero 4,4 pg/ml 0,3-3,2 pg/ml cortisoluria 44 µg/24 h 10-100 µg/24 h acth 62 pg/ml 20-100 pg/ml funzionalità tiroidea tsh 0,96 µui/ml 0,25-5 µui/ml ft3 6,15 pmol/l 4-8,30 pmol/l ft4 14,99 pmol/l 9-20 pmol/l indici di flogosi ves 67 mm pcr 11,07 mg/l altri albuminemia 3,4 g/dl 3,4-4,8 g/dl fosfatasi alcalina 199 ui 25-132 ui magnesemia 1,6 mg/dl 1,7-2,1 mg/dl calciuria 20 mg/24h 50-400 mg/24h paratormone 76 pg/ml 15-65 pg/ml osteocalcina n-mid 137,9 ng/ml 3,8-25 ng/ml beta-crosslaps 1,14 ng/ml 0,115-0,748 ng/ml 25-oh vitamina d3 6,3 ng/ml > 30 ng/ml tabella i esiti degli esami eseguiti dal paziente ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 119 l. j. dominguez, s. miraglia, m. barbagallo pratica sport? cammina tutti i giorni? si espone al sole? qual è la sua terapia farmacologica (pory re attenzione all ’uso di glucocorticoidi, anti-convulsivanti, levotiroxina a dosi soppressive, eparina, immunosoppressori, antiretrovirali, sali di litio, agonisti del gnrh, inibitori dell ’aromatasi, chemio e radioterapia)? da che patologie è affetto? y ha riscontrato calo della libido? disfuny zione erettile? ha avuto figli? ha avuto sintomi più generali come la diminuzione della forza muscolare (in modo da escludere l ’ipogonadismo)? ha mai fatto uno screening per l ’osteopoy rosi e dosato la vitamina d? discussione nella normale pratica clinica, l’osteoporosi maschile è una patologia spesso poco considerata, nonostante anche nell’uomo anziano sia evidente una continua perdita di tessuto osseo con conseguente fragilità e aumento del rischio fratturativo. inoltre, durante l’invecchiamento si osserva una maggiore prevalenza di comorbilità, deterioramento delle funzioni neuromuscolari, e una maggiore incidenza di cadute, tutti fattori che contribuiscono a un aumento esponenziale dell’incidenza di f ratture osteoporotiche [8,9]. l’importanza dell’osteoporosi maschile è confermata da studi epidemiologici, i quali mostrano che un terzo delle fratture da osteoporosi si verificano nell’uomo [10]. il tasso di mortalità dopo frattura di femore nell’uomo risulta più elevato rispetto alle donne [11]; si riscontra una mortalità quattro volte superiore nei primi tre mesi e del 20% a un anno [12]. in generale nell’uomo il declino funzionale e il peggioramento della qualità della vita in seguito alle fratture da osteoporosi è più consistente che nella donna [13,14]. a differenza dell’osteoporosi femminile, la genesi di quella maschile è nel 30-60% dei casi di natura secondaria, per cui il percorso diagnostico può risultare più complesso [9,15]. nell’uomo con osteoporosi è importante escludere la presenza di ipogonadismo, alcolismo, mieloma multiplo, iperparatiroidismo, malassorbimento e uso di corticosteroidi (tabella ii). nel caso clinico che abbiamo presentato, almeno quattro fattori possono aver contribuito alla genesi della osteoporola valutazione multidimensionale ha indirizzato la nostra diagnosi per un’osteoporosi secondaria associata a osteomalacia; nel caso descritto queste due patologie sembrano riconoscere una genesi multifattoriale: il tabagismo, l’alcolismo e la malnutrizione severa che ne deriva, l’assenza di attività fisica e la rapida perdita di peso (oltre 15 kg) che il paziente aveva subìto dalla comparsa della paraparesi e la depressione. il primo approccio terapeutico è stato la supplementazione orale di calcio (1 g/die), di magnesio (400 mg/die di mg pidolato) e di vitamina d per via parenterale (ergocalciferolo 400.000 ui, 2 fiale im, una fiala ogni 15 giorni). dopo circa un mese è stato osservato un aumento dei valori di vitamina d3 (27,1 ng/ml), un rientro nel range di normalità del paratormone, della calciuria e della magnesemia; è stato quindi prescritto al paziente trattamento con teriparatide (20 µg/die sc) associato alla somministrazione di calcio (1g/die) e vitamina d (800 ui/die ) per os. è stata iniziata terapia antidepressiva con escitalopram 10 mg/die, successivamente – dopo 6 mesi – ridotta a 5 mg/die. durante un controllo a giugno 2009 il paziente aveva ormai ripreso la deambulazione, inizialmente con l’ausilio delle stampelle e successivamente senza, aveva riacquistato circa 8 kg di peso corporeo, riferiva una netta diminuzione della rachialgia (vas = 2/10) e anche un miglioramento dello stato umorale. durante un controllo nell’ottobre 2009, dopo un anno di terapia, la rivalutazione funzionale ha mostrato un importante recupero dell’autonomia, dell’autosufficienza e dell’equilibrio e ha confermato il miglioramento dello stato umorale (adl = 5/6; iadl = 6/8; test di tinetti = 18/28; gds = 4/15; mna = 24/30). il paziente è inoltre stato sottoposto a una radiografia della colonna dorso-lombare che non ha mostrato l’insorgenza di nuove fratture vertebrali; gli esami ematochimici di controllo risultavano nella norma. domande da porre al paziente ha familiarità per fratture di femore o y di colles? durante la sua vita ha subito fratture? quale sono le sue abitudini alimentari e y il suo stile di vita? beve il latte? consuma anche altri latticini (yogurt, formaggi, gelati)? con che frequenza e in che quantità li consuma? con che frequenze e in che quantità beve alcol e caffè? fuma? ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3)120 osteoporosi maschile: un caso clinico e/o sistemica (non utilizzati nel caso del nostro paziente), da un ipogonadismo relativo, dal basso indice di massa corporea tipico di questi soggetti (cachessia), dalla carenza di vitamina d e dalla vita sedentaria [17]. nel caso da noi esaminato era evidente una grave carenza di vitamina d. un ultimo, ma non meno importante, fattore contribuente è la depressione. i meccanismi biologici ed endocrini responsabili della perdita di massa ossea nei soggetti depressi non sono stati del tutto chiariti, ma sembra rilevante il ruolo dell’eccesso di cortisolo plasmatico a sua volta dovuto a una attivazione dei neuroni ipotalamici crh-secernenti (corticotropin releasing hormone) [18]. inoltre, recentemente è stata segnalata la possibilità che la terapia con antidepressivi inibitori del reuptake di serotonina (ssri) possa aumentare il rischio di fratture [19]. in 5.008 soggetti di età superiore ai 50 anni, seguiti per 5 anni, l’uso giornaliero di antidepressivi ssri è stato documentato in 137 soggetti (114 donne) ed è risultato associato a un rischio circa doppio di fratture e, in maniera dose-dipendente, a un aumento del rischio di cadute, anche dopo correzione per diverse variabili confondenti. una recente revisione della letteratura, che ha preso in esame studi pubblicati dal 1970 al 2008, conferma questa possibile associazione e segnala la necessità di effettuare trials controllati, randomizzati e prospettici con un numero adeguato di partecipanti per verificare questi risultati [20]. diagnosi nell’osteoporosi maschile un’approfondita anamnesi è indispensabile al fine di valutare la presenza di familiarità per osteoporosi e di fratture pregresse, incluse quelle vertebrali e/o di femore, oltre che indagare sull’assunzione di calcio con la dieta, sulla terapia farmacologica, sul consumo eccessivo di alcol e sull’uso di tabacco. l’esame obiettivo deve essere completo e deve considerare i segni di ipogonadismo, di abuso di alcol o da effetto di glucocorticoidi. le indagini strumentali si avvalgono della radiologia classica, della densitometria ossea e dell’ultrasonografia e, solamente in casi selezionati, della tomografia computerizzata e della risonanza magnetica. tutti questi esami sono stati spesso integrati dalla valutazione del rischio di frattura a 10 anni con algoritmi quali il fracture risk assessment tool (frax) [7]. al fine di escludere un’osteoporosi secondaria vengono utilizzati esami biochimici di primo livello (emocromo, funzionalità resi e dell’osteomalacia, due condizioni che nell’anziano spesso coesistono: l’abuso di alcol, con la malnutrizione che ne deriva, il fumo e la depressione. l’alcol può determinare l’insorgenza di osteoporosi tramite diversi meccanismi: deficit nutrizionale, alterazione del metabolismo della vitamina d, anomala secrezione di paratormone, incremento dell’escrezione renale di calcio, ipogonadismo e ridotta proliferazione degli osteoblasti [16]. i deficit nutrizionali più frequentemente associati all’abuso di alcol comprendono quelli delle vitamine d, c, b12 e k, così come il deficit proteico/ calorico, di selenio, calcio, magnesio, fosforo e zinco. anche il fumo può determinare osteoporosi sia direttamente, provocando un rallentamento del metabolismo osseo probabilmente agendo sul recettore nicotinico per l’acetilcolina, sia indirettamente favorendo patologie polmonari come la bpco. inoltre l’osteoporosi associata a bpco severa può anche dipendere dall’uso cronico di glucocorticoidi per via inalatoria disordini endocrini diabete mellito y iperparatiroidismo y ipertiroidismo y ipogonadismo y sindrome di cushing y malattie gastrointestinali cirrosi biliare primitiva y gastrectomia y intervento di chirurgia bariatrica y malattia celiaca y malattie infiammatorie intestinali y sindrome da malassorbimento y osteoporosi iatrogena analoghi del gnrh y anticonvulsivanti y antiretrovirali y chemioterapia y glitazoni y glucocorticoidi y ormoni tiroidei in eccesso y altre alcolismo y anemia perniciosa y artrite reumatoide y emocromatosi y fibrosi cistica y immobilizzazione y insufficienza renale y ipercalciuria y iperomocisteinemia y malattia polmonare cronica ostruttiva y malnutrizione severa y mastocitosi sistemica y neoplasie y omocistinuria y post-trapianto y tabella ii possibili cause di osteoporosi secondaria ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 121 l. j. dominguez, s. miraglia, m. barbagallo di frattura rispetto al gruppo placebo dopo circa 2 anni [26]. altri studi inoltre hanno confermato l’effetto favorevole di zoledronato sulla massa minerale ossea in uomini con carcinoma prostatico in deprivazione androgenica per terapia con analoghi del gnrh [27,28], ma ancora senza evidenza di riduzione di fratture. teriparatide rappresenta la frazione biologicamente attiva dell’ormone paratiroideo umano prodotto con la metodologia del dna ricombinante. il trattamento di 18 mesi con teriparatide, oltre a determinare l’incremento della densità minerale ossea [29], riduce in maniera significativa il rischio di nuove fratture vertebrali e non vertebrali. il farmaco si è inoltre dimostrato efficace nella cura dell’osteoporosi cortisonica nei maschi [30], e il suo impiego è consigliato negli uomini con una notevole riduzione della formazione ossea e con fratture severe multiple [31]. nell’osteoporosi secondaria a ipogonadismo può essere presa in considerazione una terapia sostitutiva con testosterone, utile nel contrastare i sintomi generali e specifici dell’ipogonadismo; la sostituzione ormonale con testosterone ha dimostrato di incrementare la densità minerale ossea, ma non ci sono ancora evidenze di una riduzione del rischio di fratture [32]. conclusioni l’osteoporosi maschile è una malattia cronica associata a elevata mortalità, disabilità e rilevanti costi economici. nonostante ciò è una patologia ancora sottostimata e sicuramente sottotrattata. la progressione dell’osteoporosi con l’età impone un approccio preventivo precoce basato su regole di igiene di vita. è fondamentale, specie nell’osteoporosi maschile, una diagnosi accurata e la scelta di un trattamento personalizzato e sicuro. risulta importante infine porre l’accento sulla terapia non farmacologica spesso poco presa in considerazione: basti infatti pensare che usata correttamente può avere effetti paragonabili a quelli della terapia farmacologica. il sinergismo e i possibili effetti positivi delle due terapie in combinazione è quindi facilmente immaginabile. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. nale, funzionalità epatica, fosfatasi alcalina, elettroforesi siero-proteica, calcio e fosforo sierico e urinario, albuminemia, ves) e di secondo livello (es. paratormone, vitamina d, anticorpi anti-transglutaminasi, ormoni tiroidei, gonadotropine e ormoni sessuali, cortisolo urinario, ferritina e marcatori del turnover osseo). terapia l’obiettivo primario della terapia dell’osteoporosi maschile, analogamente a quanto accade per quella femminile, è la prevenzione delle fratture. l’approccio ideale interessa fattori nutrizionali, riabilitativi e farmacologici. il trattamento non farmacologico include una corretta alimentazione, ricca di calcio, magnesio, vitamina d e antiossidanti, e un adeguato apporto proteico, evitando gli eccessi di sale. al paziente devono essere consigliati lo svolgimento di un’attività fisica moderata e l’esposizione alla luce solare. è inoltre necessario attuare degli opportuni interventi sul rischio di caduta ed eliminare i fattori di rischio modificabili come il fumo e l’alcol. fondamentale risulta un’adeguata integrazione di calcio e vitamina d. l’assunzione giornaliera raccomandata è di 1.000-1.500 mg di calcio e 800 ui di vitamina d, con uso di supplementazione qualora l’apporto dietetico non risulti sufficiente. in italia i farmaci indicati nell’osteoporosi maschile e rimborsati (secondo le indicazioni della nota 79 aifa) sono alendronato, risedronato, zoledronato e teriparatide. in assenza di studi specifici che abbiano valutato gli effetti della terapia con ranelato di stronzio negli uomini non vi è ad oggi l’indicazione per l’uso di questo farmaco nell’uomo. alendronato, risedronato e zoledronato appartengono alla classe dei bisfosfonati, il cui meccanismo di azione si esplica tramite una riduzione del rimodellamento osseo. alcuni trials clinici controllati e randomizzati hanno dimostrato l’efficacia di alendronato [21,22] e risedronato [23-25] nel ridurre in modo significativo l’incidenza di fratture nell’osteoporosi maschile sia idiopatica sia indotta da glucocorticoidi. anche zoledronato si e dimostrato efficace nel ridurre il rischio di frattura osteoporotica nel sesso maschile: uno studio, condotto su circa 1.000 pazienti dei quali circa ¼ maschi, ha evidenziato l’efficacia di un’infusione di 5 mg di zoledronato una volta all’anno dopo il trattamento chirurgico per frattura di femore nel ridurre del 35% il rischio relativo ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3)122 osteoporosi maschile: un caso clinico punti chiave l’osteoporosi è una patologia più frequente di quanto si possa credere e anche l ’uomo può y esserne affetto il valore densitometrico non è l ’unico parametro da considerare nella valutazione del y rischio fratturativo, ma va integrato per esempio con algoritmi di rischio come il frax [7] che include altri fattori di rischio come l ’età, la familiarità, la storia di fratture, l ’uso di farmaci, ecc. non limitarsi a porre attenzione al calcio assunto con la dieta poiché i parametri nutriy zionali che incidono sono svariati è raccomandabile effettuare il dosaggio della vitamina d (prima di intraprendere qualy siasi terapia è necessario raggiungere un valore adeguato della stessa) la terapia non farmacologica può avere un’azione simile a quella farmacologica; è necesy sario quindi abbinare sempre le due terapie è importante porre attenzione alle controindicazioni dei farmaci, ad esempio storia di y ulcera peptica o esofagite per i bisfosfonati orali o fibrillazione atriale per zoledronato ev. bisogna quindi raccogliere un’attenta anamnesi patologica prima di scegliere il trattamento farmacologico più idoneo è fondamentale per una buona compliance del paziente alla terapia instaurare un buon y rapporto medico-paziente e spiegare in modo preciso modalità e tempi di assunzione della stessa. si devono valutare via e modo di somministrazione più adatti al singolo caso (per es. consigliare l ’infusione annuale di zoledronato nei pazienti anziani con demenza o con diverse comorbilità e polifarmacoterapia) per assicurare la corretta assunzione della terapia prescritta bisogna verificare che le abiy lità cognitive del paziente siano sufficienti o, in caso contrario, sincerarsi della disponibilità di un caregiver bibliografia katz s. assessing self-maintenance: activities of daily living, mobility, and instrumental activities 1. of daily living. j am geriatr soc 1983; 31: 721-7 lawton mp, brody em. assessment of older people: self-maintaining and instrumental activities 2. of daily living. gerontologist 1969; 9: 179-86 tinetti me. performance-oriented assessment of mobility problems in elderly patients. 3. j am geriatr soc 1986; 34: 119-26 yesavage ja, brink tl, rose tl, lum o, huang v, adey m et al. development and validation 4. of a geriatric depression screening scale: a preliminary report. j psychiatr res 1982; 17: 37-49 vellas b, villars h, abellan g, soto me, rolland y,. guigoz y et al. overview of the mna-5. -its history and challenges. j nutr health aging 2006; 10: 456-65 folstein mf, folstein se, mchugh pr. “mini-mental state”. a practical method for grading 6. the 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soc 2002; 50: 1644-50 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 123 l. j. dominguez, s. miraglia, m. barbagallo center jr, nguyen tv, schneider d. mortality after all major types of osteoporotic fractures 13. in men and women: an observational study. lancet 1999; 76: 235-42 hasserius r, karlsson mk, jonsson b, redlund-johnell i, johnell o. long-term morbidity and 14. mortality after a clinically diagnosed vertebral fracture in the elderly: a 12and 22-year followup of 257 patients. calcif tissue int 2005; 76: 235-42 stein e, shane e. secondary osteoporosis. 15. endocrinol metab clin north am 2003; 1: 115-34 alvisa-negrín j, gonzález-reimers e, santolaria-fernández f, garcía-valdecasas-campelo e, 16. valls mr et al. osteopenia in alcoholics: effect of alcohol abstinence. alcohol 2009; 5: 468-75 franco cb, paz-filho g, gomes pe, nascimento vb, kulak ca, boguszewski cl et al. 17. chronic obstructive pulmonary disease is associated with osteoporosis and low 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e il conseguente progressivo incremento della prevalenza delle patologie croniche, richiede un’attenta riflessione sul modo in cui le linee guida cliniche vengono sviluppate e applicate. il problema riguarda tutti i paesi nel mondo, non soltanto quelli più ricchi: il report dell’organizzazione mondiale di sanità (oms) recentemente pubblicato [1] ha messo in evidenza come è proprio nei paesi in via di sviluppo che è prevedibile il maggior numero di decessi dovuti alle malattie croniche. quando si pensa alle popolazioni in via di sviluppo, si tende a immaginare che il loro principale problema sanitario sia rappresentato dalle malattie infettive (hiv/ abstract the aging of the population, in italy as well as in all the countries of the european union, and the increasing prevalence of chronic diseases pose challenges to the development and application of clinical guidelines. guidelines have been developed to improve the quality of health care. anyway, family physicians sometimes find many obstacles in integrating guidelines into medical practice. in the care of older individuals with several comorbid diseases, application of clinical guidelines is not only difficult, but may also lead to undesirable effects. in this article, the author take a review, published in jama, as a starting point to discuss the role and the importance of guidelines in patients with comorbid disease in the italian context. the review analyses the hypothetical case of a 79-year-old woman with chronic obstructive pulmonary disease, type 2 diabetes, osteoporosis, hypertension and osteoarthritis, and describes the situation of the aggregated recommendations from the most relevant guidelines. the conclusion is that, to improve the care of older patients with complex comorbidities, developing new measures and new guidelines is extremely necessary. keywords: clinical guidelines, comorbidities, old patient why do family physicians find it difficult to apply clinical guidelines? cmi 2007; 1(2): 63-68 1 medico di medicina generale, torino aids, tubercolosi, malaria), dalle malattie materno-infantili, dalle carenze nutrizionali e tutt’al più dai danni per violenze e traumi. invece sono le malattie croniche ad avere, anche in questi paesi, la maggiore prevalenza e incidenza sia in termini di morbilità che di mortalità. inoltre, mentre si prevede che nei prossimi 10 anni i decessi dovuti a malattie infettive, malattie materno-infantili e carenze nutritive multiple caleranno del 3%, i casi di morte per malattie croniche aumenteranno nello stesso periodo del 17%. questo significa che dei 58 milioni di decessi che erano previsti dall’oms nel 2005, ben 3 milioni sono attribuibili a malattie croniche (figura 1); si deve inoltre evidenziare come soltanto il 20% delle morti per malattie croniche avviene nei paesi ad alto reddito, mentre l’80% si registra nei paesi corresponding author dott. andrea pizzini andrea.pizzini@tiscali.it clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 64 perché il medico di famiglia ha difficoltà ad applicare le linee guida? a reddito medio-basso, in cui vive la maggioranza della popolazione mondiale. nemmeno i paesi meno sviluppati sono immuni da questo problema, che risulta invece in continua crescita (figura 2). l’italia è il paese dell’unione europea con il maggior numero di persone anziane (tabella i): i dati indicano che l’indice di vecchiaia (termine usato per descrivere il peso della popolazione anziana in una determinata popolazione) è nel nostro paese il più alto, con valori che raggiungono in alcune regioni livelli estremamente elevati (ai primi posti troviamo liguria, toscana, emilia romagna, friuli venezia giulia, umbria e piemonte). un’età superiore ai 65 anni è inoltre caratterizzata da comorbidità, definita come la presenza concomitante di due o più patologie nello stesso soggetto. è stato valutato, infatti, che la maggioranza delle persone tra 65 e 79 anni presenta 4,9 malattie, mentre traumi 9% altre malattie croniche 9% diabete 2% malattie respiratorie croniche 7% cancro 13% malattie cardiovascolari 30% malattie trasmissibili, malattie materno-infantili e carenze nutrizionali 30% figura 1 previsioni per il 2005 sulle cause di morte nel mondo, in tutte le età. nel 2005 erano previsti circa 58 milioni di morti, di cui 35 milioni (il 60%) causati da malattie croniche. per inquadrare queste cifre nella giusta prospettiva, circa 17 milioni (il 30%) sono stati attribuiti a malattie infettive, maternoinfantili e carenze nutrizionali multiple. si prevedeva inoltre che altre 5 milioni di persone, il 9% del totale, sarebbero morte per violenze e traumi 0 2.000 4.000 6.000 8.000 10.000 12.000 14.000 paesi a basso reddito paesi a reddito medio-basso paesi a reddito medio-alto paesi ad alto reddito de ce ss it ot al i( m ig lia ia ) malattie trasmissibili, malattie materno-infantili e carenze nutritive malattie croniche* incidenti figura 2 decessi previsti per cause principali e per gruppi di reddito per il 2005, in tute le età. la maggior parte delle morti si registra nei paesi a reddito mediobasso, in cui vive la maggioranza della popolazione mondiale * le malattie croniche includono malattie cardiovascolari, tumori, malattie respiratorie croniche, diabete, disordini neuro-psichiatrici e degli organi sensoriali, disturbi muscolo-scheletrici e malattie della cavità orale, disturbi digestivi e genitourinari, anomalie congenite e malattie della pelle clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 65 a. pizzini nei soggetti con più di 80 anni il numero delle patologie sale a 5,4 [3]. la comorbilità è legata a una maggiore durata dell’ospedalizzazione, alla ri-ospedalizzazione dei pazienti a breve e lungo termine, alla comparsa di complicanze e alla scarsa qualità della vita del paziente anziano. infine, la comorbilità incrementa il rischio di mortalità e di disabilità ben oltre quello osservabile in una singola specifica malattia. ottimizzare il trattamento per questa fascia di popolazione diventa dunque un’esigenza ad alta priorità. inoltre è facile immaginare come tutti questi problemi si riflettano sul lavoro quotidiano di chi opera nell’ambito della medicina generale: il medico di famiglia, che difficilmente partecipa alla costruzione delle linee guida, è quello che si trova più spesso a doverle mettere in pratica, unico baluardo nei confronti della tanto citata appropriatezza. un esempio pratico in un interessante articolo pubblicato su the journal of the american medical association (jama) gli autori ipotizzano un caso pratico, realistico, di una signora di 79 anni affetta contemporaneamente da diabete mellito tipo 2, ipertensione arteriosa, osteoartrosi, osteoporosi e bpco [4]. l’esame del caso fornisce lo spunto per delineare un’attenta analisi dell’applicabilità delle linee guida a un paziente anziano con polipatologia. i dati che ne emergono evidenziano in modo chiaro la dicotomia esistente tra la teoria delle linee guida e la pratica clinica corrente: quest’ultima dovrebbe trovare in esse gli strumenti per la gestione quotidiana delle malattie; invece, spesso, le linee guida derivano da studi clinici che sono effettuati in maniera randomizzata e controllata (rcts) e sono dunque caratterizzati dal fatto di escludere i pazienti con patologie concomitanti fornendo in definitiva solo risultati “medi”, con evidenti difficoltà di estrapolazione e applicazione nella pratica. gli autori dello studio americano hanno selezionato, tra le 15 patologie croniche più frequenti, le 9 che sono abitualmente gestite dalla primary care, che in italia corrisponde al medico di famiglia: diabete mellito, ipertensione arteriosa, osteoartrosi, osteoporosi, bpco, fibrillazione atriale, scompenso cardiaco, angina stabile ipercolesterolemia. sono volutamente escluse la depressione e la demenza per le difficoltà di gestione più basate sul paziente e sul suo ambiente che sulla patologia stessa. è stata quindi “creata” un’ipotetica paziente di sesso femminile, di 79 anni, con le seguenti 5 patologie, tutte di moderata severità: diabete mellito tipo 2; ipertensione arteriosa; osteoartrosi; osteoporosi; bpco. sono poi state prese in esame le più importanti linee guida attualmente esistenti in merito alla gestione di queste patologie, e sono state estratte le raccomandazioni relative a terapia, esami, automonitoraggio, cambiamenti nelle abitudini di vita, dieta, esercizi fisici, coinvolgimento degli specialisti o di altri operatori sanitari e frequenza del follow-up. si è cercato da un lato di ridurre al massimo la complessità del trattamento, scegliendo, quando possibile, farmaci raccomandati per più di una condizione e combinando i consigli in maniera omogenea e dall’altro di limitare i costi consigliando, in caso di più opzioni terapeutiche, sempre quella meno cara. risultati solo 4 delle 9 linee guida relative alle patologie elencate (diabete, osteoartrosi, angina e fibrillazione atriale) affrontano il problema delle persone anziane con comorbidità.      paese indice di vecchiaia austria 88,27 belgio 91,27 danimarca 84,64 finlandia 76,73 francia 80,15 germania 97,49 grecia 100,08 irlanda 49,98 italia 116,54 lussemburgo 76,51 olanda 72,83 portogallo 86,07 regno unito 81,46 spagna 98,86 svezia 92,89 unione europea (15) 91,28 tabella i indice di vecchiaia nei paesi dell ’unione europea [2] clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 66 perché il medico di famiglia ha difficoltà ad applicare le linee guida? ora farmaci altro ore 7 inalazione di ipratropio alendronato 70 mg 1 volta/sett controllo dei piedi stazione eretta per 30 min quando assunto alendronato misurazione glicemia ore 8 calcio 500 mg e vitamina d 200 ui idroclorotiazide 12,5 mg lisinopril 40 mg gliburide 10 mg asa 81mg metformina 850 mg naprossene 250 mg omeprazolo 20 mg assumere colazione sodio 2,4 g/die potassio 90 mmol/die evitare acidi grassi saturi e colesterolo adeguata assunzione di magnesio e calcio dieta per diabetici dieta per ipertesi ore 12 assumere il pranzo sodio 2,4 g/die potassio 90 mmol/die evitare acidi grassi saturi e colesterolo adeguata assunzione di magnesio e calcio dieta per diabetici dieta per ipertesi ore 13 inalazione di ipratropio calcio 500 mg e vitamina d 200 ui ore 19 inalazione di ipratropio metformina 850 mg naprossene 250 mg calcio 500 mg e vitamina d 200 ui lovastatina 40 mg assumere la cena sodio 2,4 g/die potassio 90 mmol/die evitare acidi grassi saturi e colesterolo adeguata assunzione di magnesio e calcio dieta per diabetici dieta per ipertesi ore 23 inalazione di ipratropio al bisogno inalazione di albuterolo tabella ii regime terapeutico basato sulle linee guida per un’ipotetica donna di 79 anni con ipertensione arteriosa, diabete mellito, osteoporosi, osteoartrosi e bpco competenze del paziente competenze del medico protezione delle articolazioni risparmio di energie esercizio fisico non sollevare pesi se sono presenti problemi ai piedi o osteoporosi esercizio aerobico per 30 min/die rinforzo muscolare evitare esposizione a fattori di rischio per bpco calzature adeguate limitare l’alcol mantenere un corretto peso corporeo con valori di bmi compresi tra 18,5 e 24,9           praticare vaccinazioni antinfluenzale antipneumococcica controllo della pressione arteriosa ad ogni visita e qualche volta a domicilio valutare l’automonitoraggio glicemico controllo dei piedi (ad ogni visita se è presente neuropatia, altrimenti controllare annualmente sensibilità, integrità della cute, vascolarizzazione e struttura biomeccanica) esami di laboratorio microalbuminemia annuale se non ancora positiva creatininemia ed elettroliti 1-2 volte/anno colesterolo annuale funzionalità epatica 2 volte/anno emoglobina glicata 2-4 volte/anno referrals terapia fisica controllo oftalmologico dexa ogni 2 anni educazione del paziente alto rischio dei piedi, cura dei piedi, calzature per i piedi osteoartrosi uso dei device per bpco diabete mellito                      tabella iii raccomandazioni basate sulle linee guida per un’ipotetica donna di 79 anni con ipertensione arteriosa, diabete mellito, osteoporosi, osteoartrosi e bpco clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 67 a. pizzini applicando le linee guida scrupolosamente, l’ipotetica paziente di 79 anni dovrebbe assumere 12 farmaci in 19 somministrazioni giornaliere in 5 momenti diversi della giornata, più alendronato da assumere 1 volta alla settimana: la complessità della terapia è da considerarsi elevata (score di 14). inoltre la paziente dovrebbe seguire 6 diversi tipi di consigli dietetici per 3 volte al giorno (tabella ii). il costo della sola terapia farmacologica calcolato dagli autori è di 4.877$ l’anno. le raccomandazioni tratte dalle linee guida (tabella iii) prevedono 7 attività di competenza del paziente e 7 di competenza del medico curante. le interazioni che possono derivare dall’aderenza contemporanea alle 5 linee guida (tabella iv ) includono quelle tra i medicinali, tra le terapie e le patologie, le interazioni con i cibi oltre che quelle per i target terapeutici: non infrequentemente infatti una raccomandazione per una patologia contraddice quella di un’altra (ad esempio per quello che riguarda l’attività fisica vi è incompatibilità tra osteoartrosi, osteoporosi e bpco). conclusioni con il progressivo invecchiamento della popolazione è cresciuto anche il numero di soggetti che sviluppano malattie croniche e che nel corso della vita vengono esposti a un numero sempre crescente di farmaci. pazienti con polipatologie, spesso croniche, e con politerapie costituiscono anche la quota più consistente di pazienti anziani a cui il medico di medicina generale deve far fronte. sebbene le linee guida (elaborate per lo più in ambito specialistico) provvedano a fornire informazioni dettagliate per la gestione delle singole patologie croniche, esse falliscono nel fornire elementi chiari e univoci per i pazienti anziani con più patolopatologia farmaco con potenziale interazione tipo di interazione farmaco e altre patologie farmaci per altre patologie farmaco e cibo ipertensione arteriosa idroclorotiazide, lisinopril diabete: diuretico aumenta la glicemia e i lipidi terapia diabete: idroclorotiazide può ridurre l’effetto di gliburide non sono note interazioni diabete mellito gliburide, metformina, asa, atorvastatina non sono note interazioni terapia osteoartrosi: fans con asa aumentano il rischio di sanguinamento terapia diabete: gliburide più asa può aumentare il rischio di ipoglicemia; asa può ridurre l’effetto di lisinopril asa con alcol: aumento del rischio di sanguinamento gastrointestinale atorvastatina con succo di pompelmo: dolori muscolari, debolezza gliburide con alcol: ipoglicemia, flushing, tachipnea e tachicardia metformina con alcol: estrema stanchezza, respiro pesante metformina con qualsiasi tipo di cibo: riduzione dell’assorbimento del farmaco osteoartrosi fans ipertensione: fans aumentano la pressione arteriosa e il rischio di insufficienza renale terapia diabete: fans con asa aumentano il rischio di sanguinamento terapia ipertensione: fans riducono l’efficacia dei diuretici non sono note interazioni osteoporosi calcio, alendronato non sono note interazioni terapia diabete: calcio può ridurre l’efficacia di asa; asa con alendronato può causare reflusso gastrico terapia osteoporosi: calcio può ridurre il livello serico di alendronato alendronato con calcio: assunti a stomaco vuoto (> 2 ore dall’ultimo pasto) alendronato: evitare succo d’arancia calcio con acido ossalico (spinaci e rabarbaro) o fitico (crusca e cereali integrali): assumendoli insieme può ridursi l’assorbimento del calcio (> 2 ore dall’ultimo pasto) bpco beta-agonisti short-acting non sono note interazioni non sono note interazioni non sono note interazioni tabella iv potenziali interazioni farmacologiche per un’ipotetica donna di 79 anni con le patologie croniche considerate clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 68 perché il medico di famiglia ha difficoltà ad applicare le linee guida? gie croniche: infatti raramente si trovano in esse raccomandazioni per soggetti con 3 o più patologie, situazione che include la metà delle persone con più di 65 anni. dall’analisi del caso ipotizzato in jama emerge che ricavare le indicazioni per la gestione di questa tipologia di pazienti da quanto riportato nelle linee guida comporterebbe un trattamento con un numero di farmaci estremamente elevato, con conseguente alto rischio di errore di assunzione, alta complessità di gestione, facili interazioni farmacologiche ed eventi avversi e, in ultima analisi, alta probabilità di ospedalizzazione. bibliografia 1. world health organization preventing chronic diseases a vital investment. world health organization global report 2005. disponibile su: http://www.who.int/chp/chronic_disease_ report/en/ 2. aa.vv. indice di vecchiaia nei paesi dell’unione europea. prometeo-atlas, 2001 3. della morte d, gazzella f, galizia g et al. la comorbilità nell’anziano: epidemiologia e caratteristiche cliniche. g gerontol 2004; 52: 267-72 4. boyd cm, darer j, boult c, fried lp, boult l, wu aw. clinical practice guidelines and quality of care for older patients with multiple comorbid disease. jama 2005; 294: 716-24 clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 63 rita de sanctis 1, igina d’antoni 1, ester del signore 1, bruno gori 1, flavia longo 1 introduzione dagli anni trenta l’incidenza del carcinoma polmonare è progressivamente aumentata fino a diventare la prima causa di morte per neoplasie maligne negli uomini e nelle donne, seppure con un ritardo di qualche decennio a causa della diffusione dell’abitudine al fumo tra le donne nel secondo dopoguerra [1]. d’altronde, il fumo di sigaretta è il principale agente eziologico nella patogenesi del carcinoma polmonare, in quanto è responsabile di oltre il 90% dei casi di carcinoma polmonare nei paesi industrializzati [2]. esiste una precisa correlazione tra la quantità di sigarette fumate e il rischio di sviluppare una neoplasia broncopolmonare: questo rischio aumenta di circa 10 volte, rispetto alla popolazione dei non fumatori, per i fumatori di 20 sigarette al giorno, e di almeno 20 volte per coloro che fumano in media 40 sigarette al giorno per venti anni o più, tendendo a ridursi notevolmente nei soggetti che smettono di fumare, senza tuttavia riportarsi ai valori presenti tra i non fumatori [3]. ruolo di docetaxel nel trattamento multimodale del tumore del polmone non a piccole cellule abstract we report the case of a 53-year-old woman with brain metastatic non-small cell lung cancer (nsclc). diagnosis was made during brain surgery. brain metastases were treated both with surgery and radiotherapy. the chemotherapy schedule was cisplatin 75 mg/m2 and docetaxel 75 mg/m2 1q21 for up to six cycles. toxicities encountered were easily manageable. subsequent thoracic radiotherapy improved tumor response and quality of life. keywords: non-small cell lung cancer, brain metastases, concurrent chemoradiotherapy, docetaxel the role of docetaxel in the multimodal treatment of non-small cell lung cancer cmi 2009; 3(2): 63-69 1 day hospital oncologia a, policlinico umberto i, università “sapienza” di roma, viale regina elena 324 corresponding author dott.ssa rita de sanctis policlinico umberto i istituto di radiologia centrale viale regina elena 324 00161 roma rita.desanctis@yahoo.it perché descriviamo questo caso? l’articolo fornisce un esempio paradigmatico di trattamento del tumore polmonare non a piccole cellule metastatico. attualmente sono possibili trattamenti integrati, spesso anche concomitanti (in quanto sinergici tra loro), che possono condurre a un buon controllo della malattia con miglioramento della qualità di vita e incremento conseguente della sopravvivenza in una neoplasia a prognosi così infausta caso clinico alla diagnosi, il carcinoma polmonare si presenta in forma localmente avanzata (iii stadio) in circa il 30% dei casi e in forma metastatica (iv stadio) in circa il 40%. in questi pazienti, in assenza di trattamento, la sopravvivenza mediana è di 4-5 mesi, con meno del 10-15% di sopravviventi a un anno. con un’adeguata terapia medica, la sopravvivenza mediana raddoppia (8-9 mesi), la sopravvivenza globale a 1 e 2 anni è rispettivamente del 30-40% e del 10-15% [4]. clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 64 ruolo di docetaxel nel trattamento multimodale del tumore del polmone non a piccole cellule a 5 anni non sopravvive più dell’1% dei casi; si tratta dei casi di malattia oligometastatica, in cui coesistono metastasi solitarie e una lesione polmonare primitiva tecnicamente resecabile [5]. nel 1995, una metanalisi di studi clinici randomizzati ha indicato che nei pazienti in stadio avanzato la chemioterapia basata sull’impiego di cisplatino è in grado di indurre un modesto ma significativo vantaggio in termini di sopravvivenza rispetto alla sola terapia di supporto [6]. il ruolo che il trattamento medico ricopre nella strategia terapeutica dei tumori polmonari si è progressivamente modificato nel corso degli ultimi anni. infatti, principalmente per il tumore polmonare non-microcitoma, si è passati dal convinto astensionismo, secondo cui la cura dei tumori polmonari era unicamente affidata alla chirurgia e, in seconda istanza, alla radioterapia, alla fase attuale in cui l’utilizzo della chemioterapia ha assunto un ruolo ben preciso in tutti gli stadi della malattia [7]. presentiamo il caso clinico di una donna affetta da tumore polmonare non-microcitoma (non-small cell lung cancer, nsclc) metastatico alla diagnosi in cui è stato perseguito un trattamento integrato efficace sia in termini di risposta che di miglioramento della qualità di vita. caso clinico la paziente, r. b., era un’infermiera professionale di 53 anni, ammalatasi di tubercolosi all’età di 27 anni, fumatrice di 40 sigarette/die da circa 35 anni (equivalente a 70 pacchetti/anno), ipertesa in trattamento. dal novembre 2007 lamentava insonnia, episodi di iperfagia e insorgenza di un’intensa cefalea in regione nucale e temporale destra a carattere trafittivo persistente da circa due mesi e parzialmente responsiva ai fans. per il progressivo peggioramento di tale sintomatologia si recava presso lo specialista neurologo che le prescriveva terapia domiciliare con clonazepam e aceclofenac, che la paziente assumeva con beneficio da circa 5 giorni. in seguito alla comparsa di laterodeviazione della rima orale a sinistra, la paziente si recava al pronto soccorso dove effettuava tc encefalo con mezzo di contrasto che mostrava presenza di tre formazioni espansive con discreta componente edemigena, con aspetto digitato in sede fronto-temporale (diametro massimo, dm = 37 mm), frontobasale destra e frontale sinistra; le lesioni in sede fronto-basale destra e frontale sinistra presentavano aspetto iperdenso compatibile con componente ematica, mentre la lesione in sede fronto-temporale destra appariva ipodensa con orletto periferico isodenso; si evidenziavano infine marcati fenomeni di compressione sul parenchima cerebrale fronto-temporale destro con shift a sinistra della linea mediana e aspetto compresso sul svst (sistema ventricolare sopratentoriale). per tale motivo eseguiva infusione ev di mannitolo e veniva inviata presso il reparto di neurologia per impostazione dell’iter diagnostico-terapeutico. si procedeva quindi, per approfondimento diagnostico, a tc torace-addome che mostrava un ulteriore processo espansivo parenchimatoso di tipo neoformato con componente necrotica nel contesto di 60 mm a livello del lobo superiore del polmone destro, coinvolgente il ramo segmentario del bronco lobare superiore. il processo infiltrava la pala superiore della grande scissura e si sviluppava nel segmento apicale del lobo inferiore del polmone destro con digitazioni verso la pleura paravertebrale. si evidenziava, inoltre, la presenza di segni di diffusione verso l’ilo polmonare, con marcata aderenza alle pareti del tratto intraed extrapericardico dell’arteria polmonare destra. concomitavano adenopatie con dm = 15 mm in sede ilare omolaterale e manifestazioni di enfisema nel parenchima polmonare. l’aggredibilità della lesione encefalica di dimensioni maggiori, unitamente all’importanza del quadro clinico neurologico, poneva l’indicazione all’exeresi della lesione neoformata in sede fronto-temporale destra, il cui esame istologico deponeva per metastasi di carcinoma con aspetti papillari di origine polmonare, ttf1 (thyroid transcription factor 1) positivo ed egfr (epidermal growth factor receptor) positivo. la rmn encefalo post intervento mostrava reazione edemigena fronto-insulare profonda con lieve shift controlaterale della linea mediana (circa 6 mm) mentre rimanevano invariate le altre due lesioni della stessa natura localizzate nel centro semiovale di sinistra (6 mm x 7 mm) e in sede fronto-basale destra (9 mm x 7 mm). a completamento della stadiazione, la paziente eseguiva inoltre scintigrafia ossea, risultata negativa. effettuava quindi videat radioterapico che poneva indicazione per trattamento whole brain in dieci applicazioni con frazionamento di 300 cgy (eseguita nel gennaio 2008) e clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 65 r. de sanctis, i. d’antoni, e. del signore, b. gori, f. longo infusione di mannitolo e corticosteroidi con controllo della sintomatologia. iniziava contemporaneamente trattamento chemioterapico secondo schema cisplatino 75 mg/m2 giorno 1 e docetaxel 75 mg/m2 giorno 1 ogni 21 giorni. nel febbraio 2008, la tc total body di rivalutazione dopo tre cicli rilevava stabilità delle lesioni encefaliche e polmonare, secondo i criteri recist (response evaluation criteria in solid tumors). al termine del terzo ciclo, la paziente presentava discromia cutanea di grado 2 (g2), eritrodisestesia palmo-plantare g3, parestesie agli arti superiori e inferiori asintomatiche non interferenti con le attività della vita quotidiana (grado moderato, g2). la paziente assumeva la profilassi con g-csf pegilato e terapia antiemetica con aprepitant, evitando così episodi di neutropenia febbrile e di vomito, ma presentando solamente rari episodi di nausea di grado lieve (g1). le tossicità dermatologiche e neurologica rendevano necessaria la riduzione del dosaggio del 20%. la scarsa compliance verso le terapie anticomiziali e l’autogestione della terapia domiciliare della paziente-infermiera rendevano necessario un nuovo ricovero presso il reparto di neurologia per crisi tonico-cloniche ricorrenti e ipertermia. durante il ricovero eseguiva rmn encefalo che mostrava risposta parziale al trattamento, per cui proseguiva la chemioterapia mantenendo il dosaggio diminuito, anche in considerazione della risoluzione delle tossicità dermatologiche, in associazione con la nuova terapia anticomiziale con clonazepam. nel maggio 2008 la tc total body di rivalutazione dopo sei cicli mostrava una risposta parziale della lesione polmonare e regressione completa della lesione del centro semiovale parietale sinistro. in considerazione del down-staging della lesione polmonare (da t4n1 a t2n0) si richiedeva videat radioterapico e la paziente veniva quindi sottoposta, da giugno ad agosto 2008, a trattamento locale suddiviso in 39 applicazioni con frazionamento di 180 cgy/die; le dosi complessive raggiunte sono state 5.040 cgy sulla regione mediastinica e 1.980 cgy in boost. la tc total-body di ristadiazione eseguita nell’ottobre 2008 confermava stabilità di malattia polmonare e risposta completa cerebrale. in considerazione della risposta al trattamento, confermata da rmn encefalo, si è proposto e iniziato un trattamento chemioterapico di mantenimento con erlotinib riportando una stabilità di malattia (tabella i). domande da porsi quanto la complicanza della broncopneuy mopatia cronica ostruttiva nei fumatori, specialmente nei forti fumatori come nel caso descritto, può mascherare i sintomi (inizialmente respiratori) di una neoplasia polmonare? la comparsa di cefalea persistente, scarsay mente controllabile con la terapia medica, e/o sintomi neurologici a carico dei ritmi circadiani o del controllo dell ’appetito in un paziente a elevato rischio di sviluppare una neoplasia polmonare deve portare a individuare una migliore terapia sintomatica oppure a un adeguato iter diagnostico che conduca alla patologia sottostante? qual è il proprio ruolo nella gestione iny tegrata della cura del paziente? è possibile superare il problema della scary sa compliance della paziente alla terapia mediante la comunicazione? discussione nell’anamnesi fisiologica si osserva la presenza del più importante fattore di rischio per lo sviluppo del tumore polmonare, il fumo di sigaretta, in associazione alla diagnosi di patologia tubercolare in età giovaneadulta, anch’essa fattore di rischio. l’esposizione al fumo di sigaretta viene calcolata step terapia 1 chirurgia: exeresi della lesione encefalica di dimensioni maggiori 2 radioterapia whole brain: in 10 applicazioni con frazionamento di 300 cgy chemioterapia: cisplatino + docetaxel 3 radioterapia: in 39 applicazioni con frazionamento di 180 cgy 4 chemioterapia di mantenimento: erlotinib tabella i schema riassuntivo che illustra la sequenza dei vari tipi di trattamenti terapeutici che sono stati somministrati alla paziente clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 66 ruolo di docetaxel nel trattamento multimodale del tumore del polmone non a piccole cellule come quantità di sigarette fumate, che viene standardizzata con la formula dei pacchetti/anno. il suo rischio relativo rispetto a un non fumatore risulta pertanto aumentato di circa 20 volte. è ormai noto che l’abitudine protratta del fumo porta allo sviluppo di una broncopneumopatia cronica ostruttiva che, a sua volta, costituisce un fattore di rischio aggiuntivo. come nel 32% dei soggetti affetti da neoplasia polmonare, la paziente ha manifestato sintomi legati alla malattia metastatica (presentazione tardiva), con emiparesi del faciale e cefalea di nuova insorgenza e refrattaria alla terapia medica. nel caso clinico presentato è stato seguito un approccio diagnostico di tipo sequenziale nel quale sono state previste una tc encefalo con mezzo di contrasto che ha evidenziato tre lesioni espansive escludendo la possibilità di una primitività cerebrale, una tc toraceaddome con mezzo di contrasto al fine di individuare la sede della primitività e una scintigrafia ossea. l’evidenza di una neoformazione polmonare con margini spiculati, le secondarietà encefaliche e le adenopatie ilari sono fortemente indicative di neoplasia polmonare. la paziente è stata infine sottoposta a valutazione della funzionalità respiratoria, cardiovascolare e metabolica. nei tumori metastatici, soprattutto in quelli polmonari con prognosi rapidamente infausta, il primo obiettivo terapeutico è il miglioramento della sintomatologia. pertanto si è ritenuta prioritaria l’asportazione della lesione encefalica di maggiori dimensioni al fine di ridurre i sintomi neurologici e al contempo di valutare l’istotipo della neoplasia. il referto anatomopatologico ha deposto per un adenocarcinoma papillare. in questo caso sono stati valutati l’espressione del ttf1 e dell’egfr. l’immunoistochimica viene in aiuto all’anatomopatologo dal momento che i marcatori nucleari p63 e ttf1 sono altamente specifici e permettono una diagnosi differenziale tra squamoso e non-squamoso. in presenza di positività per ttf1 siamo di fronte a un adenocarcinoma [9] mentre la positività per p63 è diagnostica per un’istologia squamosa [10]. mutazioni cromosomiche acquisite giocano un importante ruolo nello sviluppo e nella progressione dei tumori; tali alterazioni genetiche si realizzano in un significativo numero di neoplasie polmonari non-microcitoma e comprendono l’amplificazione della regione 14q13.3, che contiene il gene ttf1, amplificazione che induce un incremento nell’espressione della proteina ttf1. inoltre, elevati livelli di ttf1 sono associati a una dimensione minore della neoplasia, al genere femminile e a una sopravvivenza maggiore per gli adenocarcinomi [11]. in assenza di ulteriori sospetti alla stadiazione ed essendo le lesioni secondarie esclusivamente a livello cerebrale, la paziente non è stata sottoposta a esame pet, tecnica con cui si ottengono immagini tomografiche dopo la somministrazione di un radiofarmaco che emette positroni (2-f-2-deossid-glucosio). le metastasi cerebrali sono molto frequenti nei pazienti affetti da neoplasia polmonare e spesso rappresentano un’importante causa di morbosità e mortalità. l’incidenza delle metastasi cerebrali per le neoplasie polmonari è del 10% al momento della diagnosi, e il 35-50% dei pazienti le svilupperanno nel corso della storia naturale della malattia [12]. la prognosi per pazienti affetti da carcinoma polmonare con metastasi cerebrali varia notevolmente in base alle strategie terapeutiche messe in atto: passando da 1-2 mesi con la sola terapia di supporto, a 3-6 mesi con la radioterapia whole brain (wbrt, whole-brain radiotherapy o radioterapia panencefalica) fino a 10-12 mesi con la chirurgia o la radiochirurgia [13]. d’altronde non esiste un trattamento univoco dei pazienti affetti da carcinoma polmonare con metastasi cerebrali, ma deve essere dettato dal quadro clinico complessivo. la maggior parte dei pazienti, come la signora r. b., si presenta già con metastasi multiple: in questi casi, il trattamento è finalizzato alla palliazione dei sintomi e alla preservazione di una buona funzione neurologica. la radioterapia convenzionale (wbrt) è stata per anni lo strumento cardine delle terapie palliative, eppure in una popolazione selezionata di pazienti è stata dimostrata la maggiore efficacia della resezione chirurgica di una singola lesione metastatica seguita da radioterapia standard [14]. le linee guida prevedono un trattamento radioterapico e chirurgico, non chemioterapico, per le metastasi cerebrali da nsclc. l’impiego della chemioterapia nel trattamento delle metastasi cerebrali è stato limitato perché la barriera ematoencefalica (bee) è stata ritenuta responsabile della mancanza di efficacia di una terapia sistemica a tale livello: in effetti la bee impedisce l’ingresso nel liquido interstiziale di qualunque sostanza incapace di diffondere liberamente attraverso le membrane. tuttavia la sua importanclinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 67 r. de sanctis, i. d’antoni, e. del signore, b. gori, f. longo za è probabilmente sovrastimata nel caso di metastasi macroscopiche, poiché la barriera è stata già interrotta a questo stadio e i suoi capillari sono stati sostituiti da neovasi privi delle sue proprietà fisiologiche. pertanto gli agenti chemioterapici in tali condizioni possono penetrare nell’encefalo e così agire sulla biologia delle cellule tumorali [15]. importanza dell’istologia nel trattamento del nsclc il carcinoma polmonare non a piccole cellule (nsclc) è costituito da un numero elevato di sottotipi istologici diversi, come emerge dalla classificazione dell ’organizzazione mondiale della sanità ( world health organization, who) [20]. i. carcinoma squamoso varianti: papillare, a cellule chiare, a piccole cellule, basaloide y ii. adenocarcinoma acinare y papillare y carcinoma bronchiolo-alveolare y non mucinoso y mucinoso y misto mucinoso non mucinoso o indeterminato y adenocarcinoma solido con formazione di mucina y misto y varianti: adenocarcinoma mucinoso (“colloide”), cistoadenocarcinoma mucinoso, ad y anello con castone, a cellule chiare iii. carcinoma a grandi cellule varianti: carcinoma neuroendocrino a grandi cellule, carcinoma neuroendocrino a y grandi cellule combinato, carcinoma basaloide, carcinoma linfoepitelioma-like, carcinoma a cellule chiare, carcinoma a grandi cellule con fenotipo rabdoide iv. carcinoma adenosquamoso v. carcinoma con elementi pleomorfi, sarcomatoidi o sarcomatosi vi. carcinoma non classificabile (indifferenziato) l’istologia è diventata uno dei più importanti fattori prognostici dopo che per anni è stato quasi del tutto ignorata. infatti, le metanalisi e le revisioni degli studi di fase ii-iii condotti negli ultimi 25 anni hanno messo in evidenza un chiaro rapporto tra istologia e prognosi soltanto in pochissimi casi [8]. oggi, con l ’avvento di nuove combinazioni di chemioterapia e dei nuovi farmaci a bersaglio molecolare, la situazione è radicalmente cambiata poiché vi è la necessità di informazioni sempre più precise riguardo al tipo istologico di ogni singola neoplasia per poter personalizzare il trattamento. il patologo deve usare i mezzi a sua disposizione per distinguere tra istologia squamosa e non squamosa, per non rischiare di negare al paziente una terapia potenzialmente più efficace. il nsclc è una patologia estremamente eterogenea e non è sempre facile ottenere un dato preciso; tuttavia bisogna cercare di ridurre al minimo quel 30% di diagnosi di “non altrimenti specificato” (nos, not otherwise specified) a cui ci si trova di fronte ancora oggi: il loro trattamento espone il paziente a inutili rischi di tossicità e con tutta probabilità gli nega un trattamento efficace. bisogna quindi iniziare a ragionare come per il tumore della mammella, nella cui gestione il clinico è guidato dall ’anatomopatologo non solo da un punto di vista diagnostico ma anche prognostico e terapeutico. uno dei problemi maggiori per raggiungere questo obiettivo è di tipo metodologico-pratico. in presenza di malattia avanzata l ’anatomopatologo si trova spesso a fare diagnosi su citologia di essudati pleurici o su piccoli frammenti bioptici. questo aspetto può creare non poche difficoltà, soprattutto perché i criteri morfologici convenzionali per distinguere i tumori squamosi dai non squamosi possono essere inficiati dalla scarsa quantità del materiale a disposizione. nonostante la classificazione istologica delle neoplasie polmonari sia fondamentalmente basata su criteri morfologici, studi ancillari con l ’immunoistochimica e la fish (fluorescent in situ hybridization, tecnica eseguita in caso di risultato dubbio all ’immunoistochimica) possono fornire ulteriori informazioni di ordine prognostico clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 68 ruolo di docetaxel nel trattamento multimodale del tumore del polmone non a piccole cellule non è ancora definitivamente stabilito se la sola chemioterapia sia superiore alla wbrt oppure se la combinazione delle due modalità terapeutiche sia da preferire: ulteriori studi sono pertanto necessari. la nostra paziente, valutata da un team multidisciplinare, ha eseguito un trattamento integrato chemioradioterapico (chemioterapia con cisplatino e docetaxel, secondo lo schema terapeutico di fossella, in concomitanza con la wbrt) preceduto dalla resezione della maggiore delle lesioni encefaliche. l’associazione di cisplatino (o carboplatino, in caso di funzionalità renale compromessa) con una molecola di ultima generazione quale docetaxel, paclitaxel, gemcitabina o vinorelbina costituisce lo schema chemioterapico di riferimento, con un tasso di risposte obiettive del 25-35%, una mediana di sopravvivenza di circa 8-9 mesi e un miglior profilo di tossicità [16]. in numerosi studi randomizzati i nuovi schemi a due farmaci contenenti platino hanno evidenziato la loro superiorità rispetto alla monochemioterapia o alla combinazione a tre farmaci [17]. dove indicata, la chemioterapia ottiene generalmente la massima risposta dopo tre cicli e va somministrata, in relazione al profilo di sicurezza e all’efficacia, per un massimo di 4-6 cicli. da un’attenta analisi della letteratura appare evidente che docetaxel, appartenente alla famiglia dei taxani, è il farmaco che dà migliori risultati in associazione a cisplatino, rispetto alle altre doppiette, in termini di sopravvivenza, di qualità di vita, di controllo dei sintomi e di radiosensibilizzazione, con un profilo di tossicità accettabile [18,19]. dopo sei cicli di chemioterapia la paziente ha presentato risposta completa a livello cerebrale e risposta parziale della lesione polmonare (t2n0), inizialmente aderente alle pareti del tratto intraed extrapericardico dell’arteria polmonare destra, senza sicuro piano di clivaggio (t4n1). in questo caso la chemioterapia è risultata un’utile strategia d’induzione per il controllo locale della neoplasia polmonare, rendendo così possibile un successivo approccio radioterapico a tale livello in assenza di tossicità cardiaca. gli eventi avversi manifestati dalla paziente sono stati di ordine dermatologico e neurologico: discromia di grado moderato, eritrodisestesia palmoplantare di grado severo e neurotossicità periferica di grado moderato. la riduzione di dose del 20% è stata imposta dall’impatto negativo di tali effetti collaterali sulla qualità di vita della paziente. la chemioterapia cui è stata sottoposta la paziente, come nei pazienti con malattia loco-regionale, è stata parte integrante di un programma terapeutico multimodale comprendente radioterapia e chirurgia con l’obiettivo di migliorare la qualità di vita e di prolungare la sopravvivenza. la chemioterapia concomitante con la radioterapia encefalica e toracica potrebbe essere presa in considerazione nei pazienti con nsclc con sole metastasi cerebrali, buone condizioni cliniche generali e senza versamento pleurico maligno, migliorando il controllo della malattia a livello cerebrale e toracico. la ricerca clinica attuale è quindi orientata a identificare programmi di cura “personalizzati” utilizzando valutazioni prospettiche dei problemi clinico-biologici dei vari sottogruppi di pazienti al fine d’identificare nuove procedure terapeutiche personalizzate dotate di maggior efficacia e minori effetti collaterali. disclosure lo studio è da considerarsi indipendente e non sponsorizzato. gli autori non dichiarano alcun conflitto di interessi. bibliografia jemal a, chu kc, tarone re. recent trends in lung cancer mortality in the united states. 1. j natl cancer inst 2001; 93: 277-83 peto r, lopez ad, boreham j, thun m, heath c jr. mortality from smoking in developed 2. countries 1950-2000: indirect estimates from national vital statistics. oxford: oxford university press, 1994 us department of health and human services (usdhhs). public health service, centers for 3. disease control and prevention (cdc). cigarette smoking: attributable mortality and years of potential life lost, united states, 1950-1990. mmwr morb mortal wkly rep 1993; 42: 37-9 clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 69 r. de sanctis, i. d’antoni, e. del signore, b. gori, f. longo spira a, ettinger ds. multidisciplinary management of lung cancer. 4. n engl 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nell’ultimo anno il paziente è stato ricoverato per tre volte per scompenso cardiaco (sc) congestizio. l’anamnesi patologica remota metteva in evidenza: infarto miocardico acuto (ima) anteriore y esteso (2003); impianto di defibrillatore cardiaco imy piantabile (icd) bicamerale (2004); insufficienza valvolare mitralica di grado y medio a eziologia mista (funzionale-degenerativa); perché descriviamo questo caso l’insufficienza renale o il peggioramento della funzione renale rappresentano tra i maggiori problemi per il trattamento del paziente con insufficienza cardiaca. esistono numerosi meccanismi attraverso i quali la sindrome cardiorenale potrebbe peggiorarne il decorso clinico e la sua associazione con una prognosi severa è inequivocabile. sono tuttavia ancora incerte le possibilità di trattarla, vale a dire di migliorare la funzione renale e, di conseguenza, la prognosi del paziente corresponding author dott. pompilio faggiano via trainini 14 25133 brescia caso clinico abstract cardio-renal syndrome (crs) is a renal dysfunction occurring in a large percentage of pts hospitalised for congestive heart failure (chf). it is characterised by an excessive fluid retention inside the body, resistance to conventional medical therapy, worsening renal function ( wrf) and higher mortality. the prevalence of crs is likely increased because of the improved survival of hf patients. wrf occurs frequently among hospitalised hff and is associated with a significantly worse outcome. clinical features at admission can be used to identify patients at high risk for developing wrf. the clinical case presented concerns a 70-year-old diabetic man with post-ischemic cardiomyopathy and chronic kidney failure, admitted to our division for acute heart failure. during hospitalisation he showed a progressive wrf and resistance to diuretic treatment. after ultrafiltration treatment there was a progressive clinical improvement. many treatments have been investigated in order to improve renal function, but none has been demonstrated to improve clinical outcome. currently ultrafiltration is reserved to patients with volume overload when traditional medical therapies fail and/or patients become resistant to diuretics. keywords: heart failure, cardio renal syndrome, diuretics, ultrafiltration heart failure and cardiorenal syndrome: a case report cmi 2011; 5(1): 27-35 1 cattedra di cardiologia, università degli studi di brescia valentina zilioli 1, marco triggiani 1, giacomo faden 1, elisa locantore 1, savina nodari 1, pompilio faggiano 1, livio dei cas 1 scompenso cardiaco e sindrome cardiorenale: un caso clinico ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1)28 scompenso cardiaco e sindrome cardiorenale: un caso clinico il paziente venne pertanto trattato con alte dosi di furosemide endovena (6 fiale in bolo ev + 500 mg/24 h infusione continua) e dopamina al dosaggio di 2-3γ/kg/min, senza sostanziale miglioramento del quadro clinico e con scarsa risposta diuretica (500 cc di urine concentrate). si decise quindi di potenziare furosemide (boli da 125 mg endovena per 2/die, in aggiunta all’infusione continua) associando metazolone 10 mg a giorni alterni. nelle giornate successive venne riscontrata la persistenza di marcati segni e sintomi di sc congestizio, scarsa diuresi giornaliera (nonostante il progressivo potenziamento della terapia diuretica); progressivo peggioramento della funzionalità renale (creatinina 4,1 mg/dl) e comparsa di iponatriemia e di iniziale iperkaliemia (na+ = 129 mmol/l e k+ = 5,4 mmol/l). vennero quindi contattati i colleghi nefrologi allo scopo di iniziare il trattamento con ultrafiltrazione. dopo poche sedute vi furono notevole deplezione di liquidi, significativo calo ponderale, netta riduzione degli edemi declivi, risoluzione del quadro ascitico e aumento della sensibilità alla terapia diuretica tradizionale. al controllo ecocardiografico pre-dimissione si evidenziava calo dei valori di pressione arteriosa polmonare (paps = 40-45 mmhg), assenza di segni di congestione epato-cavale, riempimento ventricolare sinistro pseudo-normale e riduzione dell’entità del vizio valvolare mitralico (da severo a medio). agli esami ematochimici emergevano miglioramento della funzionalità renale (creatinina = 3 mg/ dl) ed elettroliti sierici nella norma. venne pertanto confermata la terapia domiciliare con aggiunta di metazolone (10 mg/die a giorni alterni) con assoluta controindicazione all’utilizzo di fans. le domande da porsi quando si parla di sindrome cardiorey nale? nello scompenso cardiaco avanzato quali y dosi di diuretico somministrare e con quale modalità? come si correggono gli squilibri elettroliy tici del sodio e del potassio? quando ricorrere alla rimozione non fary macologica dei fluidi? quale il metodo più appropriato? e i y risultati? ipertensione arteriosa polmonare di y grado lieve-moderato (paps = 40-50 mmhg); diabete mellito (dm) in terapia insulinica y con scarso controllo dei valori glicemici (ultima hba1c = 10,2%); insufficienza renale cronica moderata (uly tima creatinina = 2,3 mg/dl); ipertensione arteriosa; y esiti di pta + stent su arteria femorale y superficiale destra (2001); fibrillazione atriale parossistica; y dislipidemia; y obesità; y storia di ipertiroidismo verosimilmente y iatrogeno (amiodarone). la terapia domiciliare del paziente comprendeva: carvedilolo 50mg/die; enalapril 10 mg/die; furosemide 250 mg/die; spironolattone 100 mg/die; ticlopidina 500 mg/die; atorvastatina 40 mg/die; nitrato transdermico 10 mg/die e terapia insulinica secondo schema. nel febbraio 2008 il paziente giunge in pronto soccorso per la comparsa di marcata astenia e dispnea a riposo associati a riscontro di aumento ponderale, evidenti edemi declivi bilaterali e oligo-anuria. dal colloquio con il paziente era emerso inoltre che nelle settimane precedenti aveva assunto terapia con fans (nimesulide 1 cpr/die) per curare un forte mal di schiena. all’ingresso in reparto il soggetto si presentava ipoteso (pa = 90/60 mmhg), tachicardico (fc = 90 bpm), polipnoico, astenico, asintomatico per angor e apiretico. l’esame obiettivo mostrava reperti di stasi polmonare e periferica (rantoli crepitanti bi-basilari al torace, edemi declivi colonnari bilaterali, marcato turgore epato-giugulare). all’rx torace veniva evidenziati ili ampliati su base vascolare e versamento pleurico bilaterale di modesta entità. il controllo ecocardiografico trans-toracico confermava la severa disfunzione sistolica globale del ventricolo sinistro (fe = 25%) e peggioramento del grado del vizio valvolare mitralico (im severa). emergevano inoltre riempimento ventricolare sinistro di tipo restrittivo, severo incremento dei valori derivati di pressione arteriosa sistolica polmonare (paps = 70-75 mmhg) e marcata congestione epato-cavale (vci = 30 mm). agli esami ematochimici vi era evidenza di iniziale peggioramento della funzione renale (urea = 185 mg/dl; creatinina = 3,4 mg/dl). ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1) 29 v. zilioli, m. triggiani, g. faden, e. locantore, s. nodari, p. faggiano, l. dei cas portata cardiaca adeguata alle esigenze di perfusione periferica [12]. la funzione renale è inizialmente compensata dalla vasocostrizione elettiva dell’arteriola efferente glomerulare (mediata dall’angiotensina ii) con mantenimento del fgr e aumento della frazione di filtrazione. questo meccanismo non si realizza pienamente, infatti per eccesso di vasocostrizione e per lo shift dei fluidi nel compartimento extravascolare si verifica l’ulteriore riduzione di flusso plasmatico renale con conseguente peggioramento della funzionalità renale e progressivo decremento della diuresi [13]. dal punto di vista clinico, tuttavia, nei pazienti ospedalizzati per sc si assiste al paradosso secondo cui la ridotta funzione renale non correla con la ridotta funzione sistolica, con il grado di oliguria e l’incremento del peso corporeo. ciò suggerisce che le alterazioni fisiopatologiche della funzione renale nei pazienti scompensati siano molto complesse e non solamente legate alla ridotta portata cardiaca. altri fattori neuro-ormonali e vascolari infatti sono coinvolti nel declino della funzione renale in questi pazienti. questi includono l’ossido nitrico, le prostaglandine, i peptidi natriuretici, la vasopressina e l’endotelina, i quali possono mediare la perfusione renale indipendentemente dall’emodinamica cardiaca (figura 1). anche l’aumento della pressione venosa centrale (pvc), e di conseguenza della pressione venosa renale, possono causare un calo nella gfr attraverso un meccanismo sia diretto sia indiretto [14]. la pvc è risultata determinante indipendentemente dal fgr in pazienti con insufficienza cardiaca e in cardiopatici con normale funzione sistolica ventricolare sinistra [15,16]. la pressione atriale destra è risultata il più importante fattore indipendente correlato con la fgr in un ampio gruppo di pazienti con sc acuto sottoposti a monitoraggio emodinamico [17]. infine è stato dimostrato che l’aumento discussione la presenza o lo sviluppo di insufficienza renale (ir) in pazienti con sc viene spesso definita come sindrome cardiorenale (scr). la scr è una condizione di frequente riscontro nei pazienti affetti da sc ed è sempre più riconosciuta quale fattore di rischio indipendente di morbilità e mortalità [1,2]. la prima descrizione della scr risale al 1951 e si deve al medico francese ledoux [3]. recentemente ronco e colleghi hanno proposto una nuova definizione di scr intesa come «un disordine fisiopatologico del cuore e del rene, in cui la disfunzione acuta o cronica di un organo può indurre una disfunzione acuta o cronica dell’altro» [4]. per questo motivo è stato proposta una suddivisione della scr in 5 diversi sottotipi (tabella i). l’aumentata sopravvivenza e qualità di vita dei pazienti con sc legate ai significati progressi terapeutici rappresentano insieme all’incrementata incidenza del diabete mellito (dm) le principali cause della diffusione di questa sindrome. inizialmente la scr è stata descritta nei pazienti con severa disfunzione sistolica ventricolare sinistra; tuttavia alcuni studi hanno dimostrato che il peggioramento della funzione renale non è correlato con il peggioramento della fe. infatti questa sindrome ricorre anche in pazienti che presentano un quadro di sc con preservata funzione sistolica, con storia clinica di ipertensione arteriosa, dm, obesità e con una pre-esistente alterazione della funzionalità renale [5,6]. l’analisi dei dati del registro adhere ha mostrato che un filtrato glomerulare (fgr) inferiore a 59 ml/min/1,73m2 è rilevabile fino al 63% dei pazienti ricoverati per sc acuto [7]. inoltre, numerosi studi hanno evidenziato che il peggioramento della funzione renale nei pazienti ospedalizzati per sc è comune (dal 30 al 50% dei pazienti a seconda del criterio utilizzato) ed è associato a un incremento della durata del ricovero, dei costi, della mortalità ospedaliera e a un tasso più elevato di re-ospedalizzazione e di morte dopo la dimissione [8-11]. la funzione cardiaca e renale sono strettamente collegate tra loro e le alterazioni emodinamiche proprie dello sc sono probabilmente le cause principali di ir. infatti l’ipotensione arteriosa e la bassa gittata cardiaca stimolano le risposte intrarenali (sraa) e sistemiche (sns) finalizzate alla ritenzione dei liquidi e al ripristino di una scr tipo 1 (acuta) caratterizzata daun rapido deterioramento della funzione cardiaca, con conseguente danno renale acuto scr di tipo 2 (cronica) caratterizzata da alterazioni croniche della funzione cardiaca che causano progressiva ir cronica scr tipo 3 (acuta) caratterizzata da un brusco e iniziale peggioramento della funzione renale, con conseguente grave disfunzione cardiaca scr tipo 4 (cronica) caratterizzata da una condizione di iniziale irc che contribuisce alla riduzione della funzionalità cardiaca e/o di un aumentato rischio di eventi cardiovascolari avversi scr di tipo 5 (secondaria) caratterizzata dalla presenza combinata di disfunzione cardiaca e renale a causa di malattie sistemiche acute o croniche tabella i classificazione della sindrome cardiorenale (scr) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1)30 scompenso cardiaco e sindrome cardiorenale: un caso clinico lenza in quanto necessari nel ridurre la stasi polmonare e periferica. i dati del registro adhere mostrano che circa il 90% dei pazienti ospedalizzati per sc acuto viene trattato con furosemide per via endovenosa [7]. la classe di diuretici più utilizzata nel trattamento dello sc congestizio sono i diuretici dell’ansa. nonostante la loro comprovata efficacia, esistono ancora molti dubbi su quale sia la giusta dose di diuretico da somministrare nei pazienti ospedalizzati per sc acuto. non esiste un dosaggio massimo “teorico’” del diuretico da utilizzare, infatti anche le linee guida dell’heart failure society of america consigliano di utilizzare i diuretici dell’ansa «alle dosi necessarie per produrre un tasso di diuresi sufficiente e per raggiungere uno stato ottimale del volume extracellulare» [19]. nell’escape trial elevate dosi di diuretico dell’ansa somministrate per via endovenosa non sono state associate a una maggiore perdita di peso durante l’ospedalizzazione [20]. nuove informazioni per l’ottimizzazione della terapia diuretica in questa tipologia di pazienti potrebbero venire dal dose trial che ha randomizzato circa 300 pazienti affetti da sc acuto a ricevere alte della pressione intra-addominale, possibile causa sia di ipoperfusione renale sia di aumento della pressione venosa renale, è associato a un calo della filtrazione glomerulare, e che le variazioni dopo terapia della pressione intra-addominale sono a loro volta correlate con le variazioni della funzione renale in misura maggiore rispetto a qualsiasi variabile emodinamica [18]. la terapia medica può essa stessa contribuire allo sviluppo della sindrome cardiorenale. terapia le diverse opzioni terapeutiche che si annoverano in letteratura per il trattamento della scr mirano essenzialmente a modificare l’emodinamica del rene per indurlo a riequilibrare il bilancio idrosalino [12]. il ripristino e il mantenimento del bilancio idrico consentono ai pazienti con sc refrattario di raggiungere livelli funzionali accettabili con maggiore intervallo libero dai sintomi di congestione. i diuretici rappresentano un caposaldo nel trattamento dei pazienti con sc. i diuretici sono infatti i farmaci sintomatici per eccelfigura 1 rappresentazione schematica dell ’emodinamica cardiaca anp = atrial natriuretic peptide; bnp = brain natriuretic peptide; gfr = glomerular filtration rate; kim-1 = kidney injury molecule; n-gal = neutrophil gelatinase-associated lipocalin; raa = renin-angiotensinaldosterone system danno renale acuto ipoperfusione acuta rilascio di ossigeno ridotto necrosi/apoptosi gfr diminuita resistenza a anp/ bnp biomarker kim-1, cistatina-c, n-gal, creatinina malattia cardiaca acuta o procedure scompenso acuto insulto ischemico angiografia coronarica chirurgia cardiaca danni mediati a livello emodinamico danni mediati a livello umorale danno immuno-mediato attivazione endoteliale attivazione monociti pressione venosa aumentata perfusione diminuita attivazione simpatica fattori esogeni mezzi di contrasto ace inibitori diuretici tossicità vasocostrizione fattori ormonali co diminuita bnp natriuresi attivazione raa, ritenzione di na + h 2 0, vasocostrizione segnali umorali secrezione citochine attivazione delle caspasi apoptosi attivazione delle caspasi apoptosi ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1) 31 v. zilioli, m. triggiani, g. faden, e. locantore, s. nodari, p. faggiano, l. dei cas sto fenomeno si associa a prognosi infausta ed è più frequente nei pazienti con sc cronico trattati a lungo con terapia diuretica [31]. sono stati valutati diversi approcci terapeutici per cercare di risolverla (tabella iii), e nella pratica clinica quotidiana le strategie devono essere adattate alle caratteristiche specifiche di ciascun paziente. queste misure possono essere inefficaci negli stadi avanzati di sc e quindi in questi casi potrebbe essere opportuno prendere in considerazione la dialisi o l’ultrafiltrazione [32]. l’ultrafiltrazione (uf) isolata è una terapia extracorporea che non comporta scambi diffusivi di elettroliti e soluti, ma solo la rimozione di acqua plasmatica. nel corso dell’uf la concentrazione sodica nell’ultrafiltrato rimosso è molto simile a quella dell’acqua plasmatica tanto che il liquido rimosso viene considerato come isotonico rispetto al plasma; l’uf infatti non modifica la concentrazione sodica del plasma a differenza dei diuretici che invece favoriscono l’eliminazione di urina ipotonica riducendo in maniera inferiore il pool sodico espanso [33]. numerosi studi hanno dimostrato l’efficacia dell’’uf nell’interruzione del circolo vizioso che vede come protagonisti la riduzione della volemia efficace, l’attivazione del sraa e del sna, la ritenzione di acqua e sale e l’edema sia periferico sia centrale [34,35]. questi studi hanno documentato la riduzione delle pressioni di riempimento ventricolare sinistro e destro con uf, insieme alla ripresa della diuresi associata a una nuova e adeguata risposta ai diuretici. la ripresa della diuresi è imputabile a diversi fattori [36]: vs basse dosi di furosemide e infusione continua vs boli [21]. i risultati preliminari di questo studio, presentati all’american college of cardiology (acc) 2010 di atlanta, non hanno mostrato una differenza statisticamente significativa nell’endpoint primario di efficacia (sintomi nella valutazione globale del paziente a 72 ore) tra i gruppi di trattamento a dosaggio intermittente e continuo (p = 0,47). la strategia di trattamento ad alte dosi di diuretico ha invece mostrato solo una maggiore tendenza verso il miglioramento dei sintomi rispetto alle basse dosi (p = 0,06) [22]. molti aspetti della farmacologia dei diuretici dell’ansa potrebbero in parte spiegare l’ampia variabilità nel dosaggio utilizzato nei vari studi sullo sc congestizio [23,24]. i diuretici agiscono su due versanti: sul rene, dove stimolano la natriuresi/diuresi, e sul cuore dove determinano venodilatazione, riducono la pressione di incuneamento capillare polmonare e ottimizzano il precarico. l’insufficiente distribuzione tubulare dei diuretici dell’ansa (da diminuito flusso ematico renale e ridotta attività del sistema di trasporto tubulare prossimale) e l’iponatriemia (frequentemente osservata nelle fasi avanzate dello scompenso cardiaco), contribuiscono al ben noto spostamento a destra delle curve dose risposta di furosemide responsabile della ridotta efficacia dei diuretici (figura 2) [25]. tra le opzioni terapeutiche studiate per ovviare a questo problema si annovera per esempio l’utilizzo di una modesta dose di soluzione salina ipertonica (ssi) che preceda la somministrazione di furosemide al fine di ottenere una transitoria espansione del volume extracellulare, un miglioramento della perfusione renale, un aumento della concentrazione tubulare di sodio, con conseguente aumento della diuresi e miglioramento dei livelli sierici di creatinina e del fgr [26,28]. è stato osservato che l’impiego di dosi troppo elevate di diuretico è spesso associato a peggioramento della funzione renale: l’uso cronico dei diuretici infatti determina una marcata ipertrofia del tubulo distale e può essere di per sé causa di un peggioramento del filtrato glomerulare mediato da un’iperattivazione di renina e aldosterone (meccanismo del feedback tubulo glomerulare) [29,30]. l’eccessiva contrazione di volume intravascolare, l’attivazione neuro-ormonale e la ridotta secrezione tubulare (conseguenza per esempio all’abuso di fans) sono alcuni dei fattori (tabella ii) che contribuiscono al fenomeno della resistenza al diuretico. quefigura 2 furosemide: spostamento a destra della curva dose-riposta chf = congestive heart failure; crf = chronic renal failure ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1)32 scompenso cardiaco e sindrome cardiorenale: un caso clinico fosfodiesterasi possono avere effetti favorevoli sulla funzione renale; mancano tuttavia dati che dimostrino effetti favorevoli sulla prognosi [39]. sono ora disponibili nuovi agenti farmacologici, quali gli antagonisti del recettore v2 della vasopressina e del recettore di tipo a1 dell’adenosina, che tuttavia non hanno mostrato effetti favorevoli sulla sopravvivenza. conclusioni la scr riconosce momenti funzionali diversi e complessi, talvolta anche temporaneamente reversibili con appropriati provvedimenti terapeutici, e rappresenta non tanto un’entità clinica autonoma quanto l’espressione di uno stadio avanzato di malattia e al tempo stesso un marcatore prognostico di progressione dello sc. un corretto riconoscimento clinico, oltre che un razionale inquadramento fisiopatologico, sono presupposti di un trattamento efficace. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. riduzione della risposta neuro-ormonale e y quindi degli effetti negativi dell’angiotensina e delle catecolamine sulla ritenzione idrosodica; riduzione dello stato di sovraccarico emoy dinamico del ventricolo destro con diminuzione del regime pressorio in vena renale e quindi miglioramento del gradiente di filtrazione a livello glomerulare; aumento della perfusione renale da miy glioramento delle condizioni pressorie e riduzione dell’ischemia renale e della vasocostrizione intrarenale. l’efficacia dell’uf è stata dimostrata in diversi recenti studi. il primo, eseguito da bart in 40 pazienti, ha dimostrato un significativo miglioramento dei segni clinici di sc, in particolare della dispnea già a 48 ore, tuttavia non ha evidenziato vantaggi dell’uf rispetto alla terapia diuretica nella perdita di peso corporeo [37]. lo studio unload ha dimostrato in 200 pazienti randomizzati in due gruppi, uf vs diuretici ad alte dosi, che l’uf a 48 ore si associava a una maggiore riduzione, persistente fino a 90 giorni, del peso corporeo e della dispnea, oltre a una significativa riduzione delle ospedalizzazioni e della loro durata [38]. resta però da chiarire se l’impiego dell’uf incida realmente su mortalità e morbilità in pazienti con sc. gli inotropi sono frequentemente utilizzati nei pazienti con scr. la dopamina a basse dosi, la dobutamina e gli inibitori delle eccessivo aumento di volume intravascolare attivazione neuro-ormonale incremento del riassorbimento salino in risposta a eccessiva contrazione di volume ipertrofia del nefrone distale ridotta secrezione tubulare (insufficienza renale, fans) ridotta perfusione renale (bassa portata cardiaca) ridotto assorbimento intestinale di un diuretico orale non compliance a regime terapeutico o dietetico (dieta ad alto contenuto di sodio) tabella ii cause di resistenza ai diuretici diminuire l’apporto dietetico di na+/h 2 o e monitorare gli elettroliti ripristinare il volume extracellulare in caso di ipovolemia aumentare la dose e/o la frequenza di somministrazione del diuretico utilizzare la via ev (più efficace della via orale) e somministrare in bolo, oppure infusione ev (più efficace che la somministrazione di un’alta dose in bolo) utilizzare associazioni di più farmaci: furosemide + hctz y furosemide + spironolattone y metolazone + furosemide (questa associazione è efficace anche in caso di insufficienza renale) y associare dopamina o dobutamina alla terapia diuretica ridurre la dose dell’ace-inibitore oppure utilizzare dosi molto basse di ace-inibitori considerare l’ultrafiltrazione o la dialisi se la risposta alle strategie sopra citate non è soddisfacente tabella iii approccio terapeutico alla resistenza ai diuretici ace = enzima di conversione dell’angiotensina; hctz = idroclorotiazide ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1) 33 v. zilioli, m. triggiani, g. faden, e. locantore, s. nodari, p. faggiano, l. dei cas bibliografia hillege hl, girbes ar, de kam pj, boomsma f, de zeeuw d, charlesworth a et al. renal 1. function, neurohormonal activation, and survival in patients with chronic heart failure. circulation 2000; 102: 203-10 smith gl, lichtman jh, bracken mb, shlipak mg, phillips co, dicapua p et al. renal 2. impairment and outcomes in heart failure: systematic review and meta-analysis. j am coll cardiol 2006; 47: 1987-96 ledoux p. the cardiorenal syndrome. 3. avenir med 1951; 48: 149-53 ronco c, haapio m, house aa, anavekar n, bellomo r. cardiorenal syndrome. 4. j am coll cardiol 2008; 52: 1527-39 forman de, butler j, wang y, abraham wt, o’connor cm, gottlieb ss et al. incidence, 5. predictors at admission, and impact of worsening renal function among patients hospitalized with heart failure. j am coll cardiol 2004; 43: 61-7 butler j, 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fisiopatologici che sottendono alla condizione definita come sindrome cary diorenale (scr) non sono ancora oggi ben delineati e non ci sono evidenze scientifiche consolidate sul suo corretto management il trattamento più comune degli stati di congestione con sovraccarico di liquidi è il traty tamento con diuretici l’utilizzo dei diuretici è spesso limitato dalla contemporanea comparsa di un ir e dallo y sviluppo di una sorta di resistenza ai diuretici stessi per ottenere efficacia diuretica occorre ottimizzare le dosi y esistono alternative terapeutiche alle dosi massimali di furosemide (per esempio l’associazioy ne con i tiazidici). queste misure possono essere inefficaci negli stadi avanzati dello sc l’ultrafiltrazione isolata può essere una soluzione all’instaurarsi di un progressivo accumulo y di acqua e sale con il vantaggio di assicurare una maggiore stabilità cardiovascolare ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(1)34 scompenso cardiaco e sindrome 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riservati clinical management issues 2011; 5(3) 79 clinical management issues accessori della respirazione, di entità tale da determinare una difficoltà a pronunciare frasi complete, associato a un reperto obiettivo di silenzio respiratorio nonostante fosse già stata iniziata la somministrazione di o2-terapia con occhialini nasali al flusso di 6 l/min con netto miglioramento della sahbo2 (94%). viene portato un misuratore di picco di flusso ma il paziente non riesce ad eseguire la manovra. descrizione del caso un uomo di 43 anni, accompagnato dalla moglie, si presenta al pronto soccorso (ps) alle 3 del mattino per la comparsa da circa un’ora di tosse secca e dispnea ingravescente a riposo, nonostante l’assunzione, a domicilio, di salbutamolo aerosol predosato (metered dose inhaler, mdi) 100 µg (= 2 puff ). l’infermiere di triage rileva i seguenti parametri vitali: pressione arteriosa (pa) = 155/95 mmhg; y frequenza cardiaca (fc) = 125 battiti/min; y frequenza respiratoria (fr) = 30 atti/min; y saturazione ossiemoglobinica (sahbo y 2) in aria ambiente = 84%; temperatura corporea (tc) = 36,3 °c. y in seguito a tale rilevazione, l’infermiere attribuisce al paziente un codice giallo e lo accompagna nella sala di emergenza. il medico di turno riscontra la presenza di un respiro affannoso, con utilizzo dei muscoli perché descriviamo questo caso per evidenziare la necessità di valutare in modo corretto e intervenire rapidamente nel caso di riacutizzazione di asma bronchiale. in questi casi, infatti, il rischio di esacerbazioni anche gravi è piuttosto consistente, ma può essere evitato con la pronta somministrazione di brocodilatatori inalatori ad azione rapida corresponding author dott. domenico lorenzo urso mimmourso71@yahoo.com caso clinico abstract asthma is a chronic inflammatory disease of the airways with a worldwide prevalence ranging from 1% to 18%. we report the case of a 43-year-old man with acute asthma exacerbation admitted to emergency department. all patients with asthma are at risk of having exacerbations characterised by worsening symptoms, airflow obstruction, and an increased requirement for rescue bronchodilators. patients should be evaluated and triaged quickly to assess the presence of exacerbations and the need for urgent intervention. the goals of treatment may be summarised as maintenance of adequate oxygen saturation with supplemental oxygen, relief of airway obstruction with repetitive administration of rapid-acting inhaled bronchodilators, and treatment of airway inflammation with systemic corticosteroids. keywords: asthma; exacerbation; bronchodilator; corticosteroids; emergency department acute exacerbation of asthma: a case report cmi 2011; 5(3): 79-85 1 dirigente responsabile u.o. pronto soccorso, presidio ospedaliero “v. cosentino”. cariati m. (cs) domenico lorenzo urso 1 l’asma bronchiale acuto: un caso clinico ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3)80 l’asma bronchiale acuto: un caso clinico domande che emergono durante il caso clinico qual è la probabile causa di riacutizzay zione? quali notizie anamnestiche devono esy sere rilevate? quali sono i parametri per stabilire la y gravità della crisi di asma? perché, dopo aver somministrato salbutay molo per via inalatoria, il medico di ps decide di aggiungere un farmaco anticolinergico? sulla base di quale valutazione il medico y di ps dispone il ricovero ospedaliero? discussione introduzione l’asma bronchiale è una malattia infiammatoria cronica delle vie aeree la cui prevalenza, seppure con differenze significative nelle diverse aree geografiche, è compresa tra 1% e 18% [1]. tutti i pazienti con asma bronchiale sono a rischio di sviluppare una riacutizzazione di malattia. la riacutizzazione di asma bronchiale, definita anche asma acuto o crisi di asma, è caratterizzata da tosse, senso di oppressione toracica e difficoltà respiratoria ingravescente a riposo associata a limitazione al flusso nelle vie aeree che può essere quantificata con semplici misurazioni della funzione polmonare come il picco di flusso espiratorio (pef) e/o il volume espiratorio forzato al primo secondo (forced expiratory volume, fev1) [2]. la riacutizzazione di asma bronchiale è una delle più comuni cause di visita urgente dal medico di medicina generale (mmg) e/o al pronto soccorso/dipartimento di emergenza (ps/dea) [3]. il deterioramento della funzione respiratoria si può verificare nell’arco di ore, giorni o settimane sebbene, in rari casi, possa realizzarsi nell’arco di minuti. la gravità delle riacutizzazioni varia da forme lievi a esacerbazioni gravi pericolose per la vita [2]. nonostante siano state elaborata numerose linee guida nazionali e internazionali [1,4,5], la mortalità per riacutizzazione di asma bronchiale è spesso correlata a una non corretta valutazione della gravità della riacutizzazione e/o a un ritardato e/o non adeguato trattamento farmacologico [2]. lo scopo di questo lavoro è quello di fornire un approccio sistematico all’asma acuto, il medico, preso atto di trovarsi di fronte a un paziente con asma acuto grave, dispone il trattamento terapeutico. dopo la somministrazione di o2-terapia si provvede alla somministrazione di salbutamolo mdi 100 µg con distanziatore: 4 puff e metilprednisolone 80 mg ev. la moglie riferisce che con il marito, affetto da asma bronchiale dall’età di 15 anni e in trattamento con beclometasone/formoterolo mdi 100/6 µg, 2 puff x 2/die, aveva trascorso la serata in casa con amici e che uno di questi ultimi, fumatore incallito, non aveva voluto rinunciare al piacere di qualche sigaretta nonostante fosse ospite in casa di un soggetto asmatico. «purtroppo» dice la moglie «quest’anno è la quarta volta che veniamo al ps per una crisi d’asma». il trattamento terapeutico, sebbene associato a un miglioramento della sahbo2 (94%), non determina una riduzione della dispnea del paziente per cui, dopo circa 20 minuti, si provvede alla somministrazione di salbutamolo/ipatropio bromuro 75/15 µg mdi con distanziatore, 4 puff. dopo circa 15 minuti, dato l’evidente miglioramento clinico, al paziente viene chiesto di effettuare il picco di flusso il cui valore è di 350 l/min (60% del predetto). dopo circa 20 minuti dalla precedente somministrazione si provvede all’ulteriore somministrazione di salbutamolo/ipatropio bromuro 75/15 µg mdi con distanziatore, 4 puff. le somministrazioni vengono ripetute ogni ora per le successive 3 ore. nonostante i benefici del trattamento farmacologico, dopo circa 3 ore dall’accesso in pronto soccorso, con un valore di pef (peak expiratory flow, flusso espiratorio) di 400 sforzo fisico y aria fredda e/o secca y iperventilazione y fattori emozionali y inquinanti ambientali y cambiamenti climatici y fumo di sigaretta y additivi e coloranti alimentari y acido acetilsalicilico e fans y reflusso gastroesofageo y allergeni a cui il soggetto è sensibile y infezioni virali y tabella i i fattori scatenanti una crisi di asma bronchiale l/min (69% del predetto) e una sahbo2 in aria ambiente del 95%, si dispone il ricovero ospedaliero. ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3) 81 d. l. urso per crisi di asma fatale o quasi-fatale (tabella ii) [14]. all’esame obiettivo è necessario riconoscere i segni di un imminente arresto respiratorio (tabella iii) [13,14]. poiché la riacutizzazione di asma bronchiale è associata a un’ostruzione variabile al flusso nelle vie aeree, può essere documentata e quantificata con una semplice misurazione del pef e/o fev1 [12]. la misurazione del grado di ostruzione bronchiale espressa come riduzione percentuale del pef e/o fev1 rispetto al teorico (o al personal best del paziente) costituisce un parametro oggettivo sia per stabilire la gravità della riacutizzazione sia per valutare la sua risposta al trattamento farmafinalizzato da un lato a valutare la gravità della riacutizzazione e dall’altro a impostare un trattamento farmacologico adeguato minimizzando gli effetti collaterali della terapia. epidemiologia le riacutizzazioni, in canada, sono responsabili del 25% circa dei costi totali per la cura dell’asma [6]. dal 2001 al 2003, negli stati uniti, per riacutizzazioni asmatiche sono stati registrati circa 4.210 morti per anno, circa 504.000 ricoveri ospedalieri e 1.800.000 visite al ps/dea. tra i soggetti asmatici le percentuali di riacutizzazione con necessità di accesso al ps/dea sono risultate più elevate nei bambini rispetto agli adulti, nelle donne rispetto agli uomini e negli individui di razza nera rispetto a quelli di razza bianca [7]. circa il 6-13% degli asmatici con riacutizzazione in atto che accedono al ps/dea necessita di ricovero in ospedale [8] e di questi ultimi solo il 4% richiede il ricovero in una unità di terapia intensiva (uti) [9]. fattori scatenanti i fattori scatenanti una crisi di asma bronchiale, definiti triggers, sono elencati nella tabella i. l’importanza dei diversi fattori nel singolo individuo è subordinata alla tipologia e alla severità dell’asma [10,11]. essi includono allergeni, ma anche fattori non allergici come le infezioni virali, gli inquinanti indoor e outdoor e i farmaci [11]. i fattori scatenanti più importanti nei pazienti con asma grave sono l’acido acetilsalicilico e i farmaci antinfiammatori non steroidei (fans), le emozioni e i cambiamenti climatici [11,12]. valutazione di gravità la definizione di gravità e la valutazione della risposta al trattamento farmacologico sono i cardini della corretta gestione del paziente con riacutizzazione di asma bronchiale [4]. allo scopo di identificare quei pazienti con una riacutizzazione grave la classificazione di gravità, prevede [4,13]: corretta anamnesi; y attento esame obiettivo; y valutazione del grado di ostruzione brony chiale e dello stato di ossigenazione. l’anamnesi di un paziente con asma acuto è finalizzata a individuare i fattori di rischio controllo e gravità dell’asma asma non controllato o scarsamente controllato y precedenti ricoveri ospedalieri per asma y precedenti ricoveri in terapia intensiva per asma y storia di ripetuti accessi al ps/dea per asma y trattamento farmacologico per l’asma scarsa aderenza al trattamento farmacologico per l’asma y eccessivo o recente incremento d’uso di farmaci y β 2 -agonisti short-acting (saba) non adeguato dosaggio di corticosteroidi inalatori (csi) y anamnesi positiva per uso di corticosteroidi orali (cso) y trattamento farmacologico in monoterapia con farmaci y β 2 -agonisti long-acting (laba) politerapia con farmaci antiasmatici y asma da acido acetilsalicilico o fans y fattori psicosociali età avanzata y scarsa percezione della dispnea y malattie psichiatriche y basso livello socio-economico y abitudine al fumo y abuso di alcol y scarsa conoscenza dell’asma e del suo trattamento y tabella ii i fattori di rischio per crisi di asma fatale o quasi-fatale uso dei muscoli accessori della respirazione y frequenza cardiaca > 120 battiti/min y frequenza respiratoria > 25 atti/min y difficoltà a parlare y alterazione del sensorio y silenzio respiratorio all’auscultazione del torace y diaforesi y pef < 30% del predetto e/o fev y 1 < 25% del predetto dopo 2 ore dal trattamento sahbo y 2 < 90% cianosi y tabella iii segni di imminente arresto respiratorio fev1 = volume espiratorio massimo nel i secondo; pef = flusso espiratorio ; sahbo2 = saturazione ossiemoglobinica cologico così come indicato nella figura 1 [3,12]. valori di pef/fev1 < 25% del teorico (o del personal best) al momento dell’acceso al ps/dea o < 40% del teorico (o del personal best) dopo adeguato trattamento farmacologico definiscono un sottogruppo di pazienti con riacutizzazioni asmatiche la cui gravità è tale ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3)82 l’asma bronchiale acuto: un caso clinico devono essere inizialmente trattati con o2terapia, con farmaci β2-agonisti short-acting (saba) per via inalatoria e con corticosteroidi (cs) per via sistemica [17]. la dose e la frequenza di somministrazione di questi farmaci e l’eventuale aggiunta di altri agenti farmacologici è subordinata alla gravità della riacutizzazione e alla risposta stessa al trattamento (figura 1) [3]. o 2 -terapia la somministrazione di o2 con maschera venturi o con occhialini nasali deve essere effettuata in tutti i pazienti con attacco acuto di asma a un flusso tale da determinare una sahbo2 ≥ 92% [18]. farmaci β 2 -agonisti i saba per via inalatoria (salbutamolo, terbutalina, formoterolo) sono i farmaci di prima scelta nel trattamento dell’asma acuto [3,12-14,16,18]. una revisione cochrane ha dimostrato che la somministrazione di saba come mdi con distanziatore è alda essere pericolose per la vita (life-threatening asthma) e per le quali è necessario il ricovero in uti [12]. la misurazione del pef/fev1, effettuata da personale adeguatamente formato, è possibile nella maggior parte dei pazienti che accedono al ps/dea [15], ma non deve ritardare l’inizio del trattamento farmacologico [12,13]. il monitoraggio della sahbo2 è necessaria in tutti i pazienti con riacutizzazione di asma bronchiale mentre l’emogasanalisi arteriosa (ega) deve essere limitata ai pazienti in cui la sahbo2 < 90% [2]. non esiste alcuna indicazione all’esecuzione di un rx torace durante una riacutizzazione di asma bronchiale a meno che l’esame obiettivo non suggerisca la concomitante presenza di una complicanza (focolaio broncopneumonico, pneumotorace) o nel caso in cui il trattamento farmacologico non è seguito da un miglioramento clinico [16]. trattamento farmacologico tutti i pazienti con riacutizzazione di asma bronchiale che accedono al ps/dea figura 1 gravità della riacutizzazione ega = emogasanalisi; fev1 = volume espiratorio massimo nel i secondo; pef = flusso espiratorio ; sahbo2 = saturazione ossiemoglobinica; uti = unità di terapia intensiva valutazione iniziale anamnesi, esame obiettivo, sahbo 2 (o ega), valutazione fev 1 /pef pef o fev 1 ≥ 40 % del predetto (lieve o moderata) pef o fev 1 < 40 % del predetto (grave) pef o fev 1 < 25 % del predetto (pericolosa per la vita) o y 2 -terapia: con occhialini nasali o maschera venturi (sahbo 2 > 92%) broncodilatatori per via inalatoria y : saba (es. salbutamolo mdi 100 µg con distanziatore 4 puff ogni 20 min nella prima ora e poi ogni ora) o saba/ anticolinergici short acting (es. salbutamolo/ipatropio bromuro 75/15 µg mdi con distanziatore: 4 puff ogni 20 minuti nella prima ora e poi ogni ora) corticosteroidi per via sistemica y : metilprednisone 40 mg ev/os o idrocortisone 100 mg ev/os dopo 2-3 ore dall’inizio del trattamento valutazione fev 1 /pef buona risposta (pef o fev 1 ≥ 70%) risposta incompleta 40% ≤ pef o fev 1 ≤ 69 % scarsa risposta pef o fev 1 < 40 % dimissione con piano d’azione scritto ricovero in presenza di sintomi e/o fattori di rischio per asma fatale o quasi fatale ricovero in uti ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3) 83 d. l. urso sebbene la relazione dose risposta non y sia stata ben studiata si ritiene che, nella maggior parte dei pazienti, per migliorare la funzione polmonare siano necessarie dosi medio-alte di cs (800 mg di idrocortisone o 160 mg di metilprednisolone suddivise in 4 somministrazioni). la somministrazione di corticosteroidi inalatori (csi) ad alte dosi associata alla somministrazione di corticosteroidi per via sistemica sembra essere in grado di determinare, soprattutto negli attacchi asmatici più gravi e prolungati, un più rapido miglioramento clinico rispetto alla sola somministrazione di corticosteroidi per via sistemica, ma i dati disponibili in letteratura non sono esaustivi [24]. altri farmaci i derivati xantinici (teofillina e aminofillina) non sono raccomandati nel trattamento dell’attacco acuto di asma poiché il loro uso, in aggiunta ai saba per via inalatoria, non determina un’ulteriore broncodilatazione. inoltre il loro uso, specie nei pazienti ipossiemici, è gravato da numerosi effetti collaterali a carico dell’apparato cardiovascolare e del sistema nervoso centrale poiché il range terapeutico dei derivati xantinici è prossimo alla concentrazione tossica [25]. i dati disponibili in letteratura non supportano l’uso routinario di magnesio solfato nelle riacutizzazioni di asma bronchiale, ma una revisione cochrane ne ha documentato l’efficacia (2 g ev) nel migliorare la funzione polmonare nei pazienti che non rispondono al trattamento iniziale con broncodilatatori per via inalatoria e corticosteroidi per via sistemica e nei pazienti con grave ostruzione bronchiale (fev1 o pef < 25-30% del predetto) [26]. la somministrazione di una miscela elioossigeno (79:21) riduce il lavoro respiratorio e migliora l’assorbimento dei farmaci somministrati tramite aerosol per cui potrebbe essere indicata nel trattamento dei pazienti con riacutizzazione grave che non hanno risposto al trattamento iniziale [27]. monitoraggio clinico-strumentale e destinazione del paziente la valutazione del paziente con attacco acuto di asma deve essere effettuata dopo la somministrazione della dose iniziale di saba e dopo 60-90 minuti dall’inizio del trattamento nei pazienti che hanno richiesto ulteriori dosi di saba [11]. il paziente trettanto efficace che la somministrazione con nebulizzatore ma ha il vantaggio di un minor tempo di somministrazione (da 4 a 8 puff in 2 minuti vs 10-20 minuti di ogni singola nebulizzazione) [19]. nel caso di asma acuto grave la nebulizzazione continua è da preferire alla nebulizzazione intermittente poiché la prima è in grado di determinare una maggiore broncodilatazione e una riduzione della necessità di ospedalizzazione del paziente [20]. tra i farmaci saba per via inalatoria salbutamolo è di gran lunga il più utilizzato nei ps/dea [3]. la somministrazione per via orale e/o parenterale di saba non è raccomandata poiché, a parità di efficacia, queste vie di somministrazioni, rispetto alla via inalatoria, sono gravate da maggiori effetti collaterali [2,3]. i farmaci β2-agonisti a lunga durata d’azione (laba) (formoterolo e salmeterolo) per via inalatoria non sono indicati nel trattamento dell’attacco acuto di asma [12,16,18]. farmaci anticolinergici gli anticolinergici impiegati nel trattamento dell’asma includono ossiotropio bromuro e ipatropio bromuro. quest’ultimo, somministrato per via inalatoria, ha un inizio di azione lento per cui non è indicato come farmaco in monosomministrazione nel trattamento dell’asma acuto nel ps/dea. è stato, tuttavia, dimostrato che l’aggiunta di ipatropio bromuro per via inalatoria a salbutamolo per via inalatoria è, nei casi di asma acuto grave, più efficace rispetto alla somministrazione del solo salbutamolo per via inalatoria e si traduce in una riduzione del 25% della necessità di ospedalizzazione [21]. corticosteroidi una dose di cs per via sistemica dovrebbe essere somministrata entro un’ora dall’accesso in ps/dea dei pazienti con asma acuto. questi farmaci non hanno azione broncodilatatrice ma sono estremamente efficaci nel ridurre l’infiammazione presente nelle vie aeree dei soggetti asmatici. malgrado alcune controversie sulla loro efficacia, sulla dose e la via di somministrazione, i dati evidenziati in due revisioni sistematiche, possono essere sintetizzati come segue [2,22,23]: i cs per via sistemica richiedono un intery vello di tempo > alle 6 ore per migliorare la funzione polmonare; la loro somministrazione per via endoy venosa o per via orale ha uguale efficacia nell’attacco acuto di asma; ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3)84 l’asma bronchiale acuto: un caso clinico in corso avrebbe dovuto meglio indagare su eventuali altri elementi anamnestici (ricoveri ospedalieri e/o in uti) indicativi di asma fatale o quasi fatale. da un punto di vista terapeutica la mancata risposta alla somministrazione di saba ha indotto il medico di ps ad associare un farmaco anticolinergico a breve durata d’azione (ipatropio bromuro) per via inalatoria per migliorare la broncodilatazione. la decisione di ricoverare il paziente è dettata dalla gravità della riacutizzazione e dall’incompleta risposta al trattamento farmacologico (pef ≤ 69% del predetto). conclusioni l’asma acuto, specie nella sua forma grave, è una vera e propria emergenza medica che se non prontamente riconosciuta e trattata è gravata da un elevato tasso di mortalità. il grado di gravità della riacutizzazione dipende dalla sintomatologia clinica, dall’esame obiettivo e dalla misurazione della funzione polmonare (pef/fev1) unitamente alla valutazione degli elementi anamnestici che suggeriscono un asma fatale o quasi fatale. il trattamento farmacologico basato sull’o2terapia, sulla somministrazione di saba per via inalatoria eventualmente associati a farmaci anticolinergici a breve durata d’azione per via inalatoria, e di cs per via sistemica deve essere iniziato rapidamente e i benefici clinico-funzionali da esso derivanti devono essere opportunamente monitorati. il ricovero o la dimissione a domicilio con piano d’azione scritto dipende dalla risposta al trattamento farmacologico analizzata alla luce della storia clinica del paziente. disclosure l’autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. che, a 2-3 ore, dall’accesso e nonostante un trattamento farmacologico intensivo con broncodilatatori per via inalatoria (saba associati o meno a farmaci anticolinergici a breve durata d’azione) e cs per via sistemica, presenta una persistente riduzione della funzione respiratoria (pef/fev1 = 40-69% del teorico) deve essere attentamente valutato. necessitano di ospedalizzazione i pazienti che presentano difficoltà respiratoria, uso dei muscoli accessori della respirazione, necessità di o2-terapia per mantenere una sahbo2> 92%, e quei pazienti che presentano fattoti di rischio di per asma fatale o quasi fatale (tabella ii). i pazienti che presentano obnubilamento del sensorio, fatica respiratoria, ipercapnia (paco2 > 42 mmhg) e persistente compromissione della funzione respiratoria (pef/fev1 < 40% del predetto) devono essere ricoverati in uti e adeguatamente valutati per un ventilazione non invasiva con bipap (bilevel positive airway pressure) o per l’intubazione tracheale [2]. i pazienti che hanno beneficiato del trattamento terapeutico (pef/fev1 ≥ 70%) possono essere dimessi con adeguato piano d’azione scritto. analisi del caso clinico nel caso clinico in esame il medico di pronto soccorso ha valutato la riacutizzazione di asma come grave sulla base dell’intensità dei sintomi (uso dei muscoli accessori della respirazione, difficoltà nell’eloquio), dell’obiettività toracica (silenzio respiratorio), della sahbo2 in aria ambiente (84%) e dell’incapacità a effettuare la misurazione del pef. la causa della riacutizzazione asmatica è probabilmente da ricercare nell’esposizione al fumo di sigaretta avvenuto al sera precedente. se il medico di ps ha focalizzato la propria attenzione sulla verosimile causa scatenante la crisi, sull’epoca di insorgenza della malattia, sul trattamento farmacologico in atto e sul numero di accessi al ps/dea nell’anno bibliografia global strategy for asthma management and prevention. global initiative for asthma (gina) 1. 2010. disponibile su: http://www.ginasthma.org (ultimo accesso: luglio 2011). la traduzione italiana è disponibile su: http://www.ginasthma.it rodrigo gj, rodrigo c, hall jb. acute asthma in adults: a review. 2. chest 2004; 125: 1081-102 emergency treatment of asthma. lazarus sc. 3. n engl j med 2010; 363: 755-64 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2011; 5(3) 85 d. l. urso national institutes of health, national heart, lung and blood institute national asthma 4. education and prevention program. expert panel report 3: guidelines for the diagnosis and management of asthma 2007; publ. no. 08-4051 bts. british thoracic society scottish intercollegiate guidelines network. british guideline 5. on the management of asthma. thorax 2008; 63(suppl iv ): iv1-iv121 krahn md, berka c, langlois p, detsky as. direct and indirect costs of asthma in canada, 6. 1990.cmaj 1996; 154: 821-31 moorman je, rudd ra, johnson ca, king m, minor p, bailey c, et al; centers for disease 7. control and prevention (cdc). national surveillance for asthma – united states, 1984-2004. mmwr surveill summ 2007; 56: 1-54 rowe bh, bota gw, clark s, camargo ca; multicenter airway research collaboration 8. investigators. comparison of canadian versus american emergency department visits for acute asthma. can respir j 2007; 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4: cd002884 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 87 clinical management issues migliore la malattia (di qualunque natura essa sia) e tutto l’iter terapeutico. inoltre lo sviluppo di una notevole quantità di materiale informativo – esterno al medico, facilmente reperibile, meno “emotivamente selezionato” e quindi più oggettivo – ha sviluppato e alimentato negli addetti ai lavori un interesse crescente per la relazione medico-paziente e il bisogno di informazione di quest’ultimo. questo interesse ha prodotto diversi lavori scientifici che hanno analizzato vari aspetti della relazione-medico paziente, soprattutto in ambito oncologico: le abilità comunicative che il medico deve y possedere, dalla conoscenza delle regole base della comunicazione allo sviluppo di tecniche facilitanti precisi momenti, per esempio la gestione delle cattive notizie [2]; il bisogno reale (punto di vista del pazieny te) o presunto (punto di vista del medico) di informazione del paziente, studiandolo in tutte le fasi della malattia (dalla diagnosi alla terminalità) e prestando particolare attenzione al processo di presa di decisione terapeutica [3]; le fonti di informazione preferite dai pay zienti e dai familiari [4]; il ruolo dell’informazione nella gestioy ne del distress (ansia e depressione) e dell’adattamento alla malattia oncologica (stile di coping) [5]; il ruolo e i bisogni dei familiari all’interno y della relazione medico-paziente [6]; la problematica del diritto del paziente y all’informazione, ma anche alla non inannalisa giacalone 1 dire e sapere: il dilemma medico-paziente la base di ogni relazione soddisfacente è una buona comunicazione tra i soggetti coinvolti, siano essi docente-discente, marito e moglie o, nel nostro caso specifico, medico e paziente. «ogni processo comunicativo tra esseri umani possiede due dimensioni distinte: da un lato il contenuto, ciò che le parole dicono, dall’altro la relazione, ovvero quello che i parlanti lasciano intendere, a livello verbale e più spesso non verbale, sulla qualità della relazione che intercorre tra loro» (p. watzlawick) [1]. due dimensioni: contenuto e relazione. due modalità espressive: verbale (che attiene alla parola, scritta e orale) e non verbale (il linguaggio del corpo, ma anche le modalità espressive che accompagnano l’eloquio – tono, velocità, timbro, ecc.). quindi, esprimere e soddisfare il bisogno di informazione sono due momenti importanti che definiscono la qualità della relazione tra medico e paziente – sbilanciata, paternalistica, autoritaria, condivisa o consumistica, per citare alcuni modelli – e, allo stesso tempo, ne definiscono anche i contenuti. se, da un lato, lo spostamento di accento da “dire la verità” a “fornire l’informazione” ha comportato in questi ultimi decenni l’assunzione da parte del medico di una posizione più paritaria nei confronti del paziente, una relazione meno paternalistica e una comunicazione più oggettiva, meno influenzabile dall’emotività, dall’altro lato si è visto che un paziente correttamente informato può sviluppare maggior autonomia e autodeterminazione, può affrontare in modo editoriale 1 psicologa, psicoterapeuta. oncologia medica a, centro di riferimento oncologico irccs, aviano (pn) corresponding author dott.ssa annalisa giacalone agiacalone@cro.it ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3)88 editoriale formazione (artt. 30 e 31 del codice di deontologia medica, 2006 e legge n. 675/96 sulla privacy). nonostante la maggioranza dei medici si orienti internazionalmente per un atteggiamento che promuova una comunicazione efficace, sincera ed esaustiva, prevale ancora al giorno d’oggi un diffuso comportamento di emarginazione del paziente anziano riguardo alla comunicazione della diagnosi che, invece, viene detta ai familiari. grassi, ad esempio, in un’indagine condotta su 675 medici italiani ha riscontrato che se il 45% si dichiarava d’accordo con l’assunto che il paziente deve essere completamente informato sia riguardo alla diagnosi sia riguardo alla prognosi, nella pratica clinica solo il 25% di essi comunicava la diagnosi al proprio paziente [7]. più spesso di quanto non si creda la relazione medico-paziente viene ostacolata dagli atteggiamenti negativi del clinico verso l’anzianità. adelman ha dimostrato che i medici tendono a passare meno tempo con i pazienti anziani rispetto a quelli giovani e prestano minor attenzione ai loro bisogni inespressi e alle loro preferenze. i pazienti anziani, da parte loro, possono soffrire di deficit sensoriali, deficit funzionali e di deterioramento cognitivo che richiedono di conseguenza una maggiore attenzione da parte dei sanitari durante i colloqui [8]. un altro punto cruciale nella relazione medico-paziente è il desiderio di conoscenza di quest’ultimo. a leydon si deve il riconoscimento dell’importanza che il diniego – un meccanismo di difesa frequentemente usato dai pazienti per far fronte all’impatto emotivo che malattie gravi e potenzialmente mortali suscitano – ha nell’adattamento alla malattia oncologica: può indurre i malati a limitare il dialogo con i medici [9]. atteggiamento, questo, che sembra caratterizzare la maggioranza dei pazienti anziani italiani. uno studio, condotto su 122 soggetti oncologici anziani in attesa di sottoporsi al primo ciclo di chemioterapia, ha dimostrato che preferivano ricevere un’informazione parziale, adeguata ma non esaustiva; desideravano limitare sia la quantità di informazioni che potevano ricevere durante il colloquio con i medici, sia la ricerca di ulteriori informazioni presso altre fonti (umane e/o cartacee). in particolare, un terzo dei pazienti preferiva delegare al proprio medico oncologo tutte le decisioni inerenti alla malattia, in quanto voleva evitare di ricevere le informazioni negative attese [10]. ultimo, ma non di minore importanza, è il ruolo che i familiari possono assumere all’interno di questa delicata relazione: facilitatori o ostacolo alla comunicazione? è indubbio che i familiari svolgano un importante e gravoso lavoro assistenziale. la disponibilità di schemi di trattamento più agevoli, la riduzione dei tempi di ricovero e il maggior utilizzo del day hospital hanno comportato in questi ultimi anni il passaggio delle richieste di assistenza da professionali a informali, queste ultime a carico dei membri della famiglia. questo aiuto, inteso come supporto sociale costante, copre tre dimensioni: informale, strumentale ed emozionale. il sostegno strumentale è correlato ai compiti. fornire questo tipo di sostegno significa ad esempio occuparsi di trasportare in auto il paziente all’appuntamento con il medico, cucinare i pasti, pulire la casa. il sostegno emozionale è direttamente collegato alla capacità di affrontare la paura e ciò che non si conosce. fornire questo tipo di sostegno aiuta il paziente a sentirsi stimato, desiderato e amato. il sostegno informale riguarda la condivisione delle conoscenze su un dato problema o argomento. fornire questo tipo di sostegno aiuta il paziente ad avere accesso a e ad elaborare l’informazione ricevuta sulla sua malattia. ma i familiari, che molto spesso si pongono nei confronti del medico come unici interlocutori, conoscono il bisogno informativo dei loro cari ammalati? dalla mia esperienza con il paziente oncologico anziano, maturata presso il cro istituto nazionale tumori di aviano (pn), emerge un giudizio negativo sui caregiver come interlocutori privilegiati del medico [6]. i nostri dati (studio condotto su 112 caregiver, di cui il 41% costituito da coniugi e il 45% da figli) dimostrano che anche quando i familiari sono in grado di riconoscere qual è il livello di conoscenza della diagnosi e dei trattamenti che i pazienti anziani in generale desiderano ricevere, non sono in realtà capaci di riconoscere i veri bisogni informativi del proprio caro. questa difficoltà sembra sia dovuta sia all’atteggiamento protettivo verso proprio caro ammalato nei confronti di tutto quanto può essere per lui fonte di angoscia, sia alla tendenza del caregiver a sostituire i propri bisogni e le proprie paure a quelli del paziente stesso. sottolineare con il medico che il paziente non deve sapere, che per il suo bene deve ignorarare la diagnosi, permette ai familiari di sentirsi utili, di sentire di aver assolto il loro compito di protezione del malato anche da notizie che non può ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 89 a. giacalone capire («non ha studiato», «non sa nulla di medicina», per fare degli esempi); ma soprattutto permette ai caregiver di proteggersi da un coinvolgimento emotivo più profondo nelle angosce del proprio paziente, nelle sue preoccupazioni e aspettative. la comunicazione caregiver-paziente è certamente difficile a causa delle importanti implicazione emotive che gli stretti legami di parentela comportano, e lo è tanto più quanto la malattia progredisce [11]. è importante aiutare i familiari che assolvono alla funzione di caregiver e di interlocutore preferenziale dei medici a rompere il silenzio che circonda la malattia cancro. qual è allora il compito che il medico è chiamato ad assolvere? il cambiamento culturale che internet ha provocato sta lentamente portando a un cambiamento anche nella relazione medico-paziente-familiare: informazione e consenso obbligano i medici a considerare maggiormente i bisogni conoscitivi dei propri pazienti riguardo a diagnosi, prognosi e trattamenti proposti. il medico oggi non può più permettersi di basarsi solo sulla sua esperienza, sui suoi valori personali o sul suo stato emotivo quando deve decidere se, quanto e in che modo rivelare la diagnosi al paziente anziano. addestrarsi a migliorare le proprie abilità comunicative deve essere uno tra gli obiettivi formativi principali dei medici per evitare di scivolare nella collusione con la famiglia e negare l’informazione al paziente, ma anche per porsi all’interno della relazione come facilitatori della comunicazione tra pazienti e familiari. infatti, un paziente anziano informato è un paziente più collaborante, più soddisfatto della relazione con il proprio medico e certamente meno sospettoso. lo psicologo, nelle realtà che ne prevedono la figura in équipe, può essere una valida risorsa per tutte le figure coinvolte nella comunicazione (personale sanitario, paziente, familiari) ma non deve diventare il delegato di una relazione vissuta come difficile, disturbante o ostacolante. lo psicologo può aiutare i pazienti anziani a esprimere ansie, dubbi, domande non formulate ai loro caregiver e ai medici, così come può aiutare i familiari a esplorare i bisogni informativi dei loro cari ammalati per poter offrire un sostegno ancor più sollecito e attento. ma la relazione principale è e deve restare quella medico-paziente. bibliografia watzlawick p, beavin jh, jackson dd. pragmatics of human communication. new york: ww 1. norton, 1967 back al, arnold rm, baile wf, tulsky ja, fryer-edwards k. approaching difficult 2. communication tasks in oncology. ca cancer j clin 2005; 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3(1): 27-32 1 divisone di cardiologia. ospedale carlo poma, mantova corresponding author dott. michele romano m67romano@hotmail.com caso clinico la presenza di dislipidemia in trattamento con dieta ipocalorica; il paziente risulta inoltre soff rire di diabete non insulinodipendente. perché descriviamo questo caso? per porre l ’attenzione sulle precauzioni che è necessario prendere quando si decide di inserire uno stent medicato in un paziente cardiologico. nonostante la sua grande efficacia, presenta il rischio dell ’insorgenza di trombosi intrastent, ed è importante sapere come agire quando ci si ritrova costretti a sospendere la doppia terapia antiaggregante. per porre l ’attenzione sulle precauzioni che è necessario prendere quando si decide di inserire uno stent medicato in un paziente cardiologico. nonostante la sua grande efficacia, presenta il rischio dell ’insorgenza di trombosi intrastent, ed è importante sapere come agire quando ci si ritrova costretti a sospendere la doppia terapia antiaggregante clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 28 la terapia antiaggregante dopo stent medicati può diventare un problema? da circa un mese sono presenti sintomi suggestivi per angina da sforzo. nella settimana precedente al ricovero si rilevano sintomi a bassa soglia, con un episodio di dolore a riposo della durata di cir100 mg di acido acetilsalicilico (asa); y 75 mg di clopidogrel (dopo carico di 300 y mg per os); 25 mg di atenololo; y metformina per os. y l’ecocardiogramma risulta nei limiti (figura 2). viene posta indicazione a esame coronarografico, che mostra stenosi critica del ramo della discendente anteriore e della coronaria destra (figure 3 e 4). nella stessa seduta si procede a effettuare un’angioplastica coronarica con impianto di stent des tipo xience® (everolimus) 3 x 15 mm su ramo iva e 2,75 x 12 mm su coronaria destra, ottenendo un buon risultato angiografico (figura 5). il paziente viene quindi dimesso, dopo un totale di quattro giorni di degenza, con la seguente terapia: asa 100 mg/die; y clopidogrel 75 mg/die; y atenololo 25 mg/die; y sinvastatina 20 mg/die; y terapia antidiabetica per os. y viene consigliato al paziente di eseguire la doppia terapia antiaggregante per almeno 12 mesi dalla procedura di angioplastica. dopo circa 30 giorni il paziente giunge di nuovo in pronto soccorso per marcata astenia. in questa occasione riferisce di soffrire di rettorragia da una settimana; risulta asintomatico per angor. gli esami ematochimici mostrano una marcata anemia con valore di hb di circa 8 g/dl. il paziente viene ricoverato nel reparto di medicina d’urgenza ove è sottoposto a emotrasfusione e a un esame gastroduodenoscopico che risulta negativo. la colonscopia, al contrario, mostra la presenza di una massa figura 1 elettrocardiogramma durante angor eseguito nel corso della visita in pronto soccorso i ii iii avr avl avf v1 v2 v3 v4 v5 v6 figura 2 ecocardiogramma del paziente setto interventricolare = 10 mm; parete posteriore = 9 mm; frazione di eiezione = 60%; non alterazioni della cinetica ca 20 minuti, in seguito al quale il paziente viene ricoverato in pronto soccorso. l’ecg, eseguito in pronto soccorso, mostra sottoslivellamento del tratto st a sede anteriore (figura 1). gli enzimi di citonecrosi cardiaca risultano negativi per danno miocardico. il paziente viene quindi trasferito nel reparto di cardiologia con diagnosi di angina mista. l’esame obiettivo, eseguito all’atto del ricovero in reparto, è nella norma. viene pertanto impostata una terapia con: clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 29 m. romano nel tratto distale del colon discendente che risulta essere, all’esame bioptico, un adenoma. a causa di questa seconda patologia, è necessario sospendere la doppia terapia antiaggregante. come procedere per scongiurare il pericolo di trombosi intrastent? discussione come comportarsi con la terapia antiaggregante? la trombosi intrastent può essere classificata secondo un criterio temporale in acuta (entro 24 ore dall’impianto), subacuta (da 24 ore a un mese) e tardiva (oltre un mese dall’impianto, in corso di doppia terapia antiaggregante o dopo la sua sospensione). nella pratica clinica si osservano casi non trascurabili di trombosi tardiva dello stent spesso associati alla prematura sospensione della doppia terapia antiaggregante [1-3]. le cause di trombosi tardiva intrastent non sono chiare. viene ipotizzato che una delle cause possa risiedere in un effetto negativo della sospensione improvvisa del clopidogrel e della conseguente iperaggregazione piastrinica. attualmente la terapia antiaggregante piastrinica è indicata per la durata di un mese dopo impianto di stent non medicati, 6-12 mesi per stent medicati [4]. lo studio credo ha dimostrato una significativa riduzione di eventi maggiori nei pazienti trattati con acido acetilsalicilico e clopidogrel per un periodo maggiore di 12 mesi [5]. sulla base di un crescente numero di evidenze, la comunità scientifica sta tuttora considerando l’evenienza di prolungare la doppia terapia antiaggregante principalmente nei pazienti ad alto rischio di trombosi intrastent. l’aggiornamento delle linee guida acc/aha/scai 2005 per la pci (percutaneous coronary intervention) [6] e l’ulteriore aggiornamento del 2007 [7] affermano che i pazienti trattati con impianto di des che non siano ad alto rischio di sanguinamento necessitano di un regime antiaggregante piastrinico doppio (classe i) prolungato (12 mesi). inoltre, nei pazienti nei quali una trombosi dello stent può avere effetti gravissimi se non addirittura letali (sinistra tronco comune non protetto, ultimo vaso residuo), potranno essere considerati studi sull’aggregazione piastrinica. in tali pazienti, la dose di clopidogrel dovrà essere aumentata anche fino a 150 mg al giorno se viene dimostrata un’inibizione dell’aggregazione piastrinica inferiore al 50% (classe iib). figura 3 esame coronarografico figura 4 esame coronarografico dimostrano come la sospensione del clopidogrel dopo stent des è associata a un alto rischio di trombosi di stent (figure 6 e 7) [8,9]. nel caso clinico qui descritto la sospensione della doppia antiaggregazione si è resa necessaria per una sopravvenuta morbidità. in letteratura ci sono abbondanti dati che clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 30 la terapia antiaggregante dopo stent medicati può diventare un problema? 0 2 4 6 8 24186 des-c des+c 12 in ci de nz a pe rc en tu al e cu m ul at iv a mesi 5,0 2,0 des+c des-c -3,3 (-6,3 -0,3) 0,031 % (95% ci) p figura 5 esiti dell ’angiografia del paziente dopo impianto di stent xience® figura 6 livelli di mortalità stimati usando l ’analisi landmark a 6 mesi. modificata da [8] des+c = drug-eluting stent con clopidogrel; des-c = drug-eluting stent senza clopidogrel clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 31 m. romano come gestire la doppia terapia antiaggregante in questo paziente in modo da evitare che lo stent medicato da amico diventi nemico delle coronarie? è ormai noto che i risultati migliori si ottengono con un des e l’uso prolungato di clopigogrel, quelli peggiori con un des e l’uso breve di clopidogrel [10]. partendo da questo razionale abbiamo deciso per questo paziente di sospendere la terapia con asa mantenendo invece la somministrazione di clopidogrel. il primo beneficio ottenuto con la sospensione di asa è stata la scomparsa del sanguinamento e quindi la tranquillità di non dover più ricorrere a emotrasfusioni. in considerazione della natura benigna della neoformazione si è procrastinato l’intervento ad almeno 6 mesi dalla procedura di angioplastica. tre giorni prima dell’intervento il paziente ha sospeso anche clopidogrel ed è stata introdotta la terapia con eparina a basso peso melocolare a dosaggio coagulante, sospesa poi il giorno prima dell’intervento. il paziente ha ricominciato la terapia con clopidogrel la terza giornata dopo l’intervento, mentre asa è stato aggiunto il sesto giorno. non si sono verificati eventi avversi 0 2 4 6 8 24186 des-c des+c 12 in ci de nz a pe rc en tu al e cu m ul at iv a mesi 7,2 3,1 des+c des-c -4,1 (-7,6 -0,6) 0,021 % (95% ci) p figura 7 livelli di mortalità o di infarto miocardico non fatale stimati usando l ’analisi landmark a 6 mesi. modificata da [8] des+c = drug-eluting stent con clopidogrel; des-c = drug-eluting stent senza clopidogrel durante il periodo di wash out con terapia antiaggregante. attualmente il paziente rimane asintomatico per angina con prova da sforzo a 12 mesi negativa per ischemia inducibile. conclusioni gli stent medicati hanno rivoluzionato le strategie terapeutiche nei pazienti coronaropatici. se da un lato, spinti dall’entusiasmo derivante dai benefici ottenuti in termini di riduzione di restenosi e di ripetuta rivascolarizzazione, siamo tentati di allargare le applicazioni dei des, dall’altro le segnalazioni sulla possibilità di un maggior rischio di trombosi intrastent con questi stent potrebbe indurci alla limitazione del loro utilizzo anche laddove effettivamente utili. tuttavia, mentre il ruolo protettivo della doppia antiaggregazione sembra consolidato per i primi 3-6 mesi, non esiste alcuna certezza circa l’efficacia a più lungo termine. alcuni studi hanno chiaramente individuato nell’interruzione della duplice terapia antiaggregante un importante fattore di rischio di trombosi tardiva. bibliografia waters re, kandzari de, phillips hr, crawford le, sketch mh jr. late thrombosis following 1. treatment of in-stent restenosis with drug-eluting stents after discontinuation of antiplatelet therapy. catheter cardiovasc interv 2005; 65: 520-4 clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 32 la terapia antiaggregante dopo stent medicati può diventare un problema? ong atl, mcfadden ep, regar e, de jaegere ppt, van domburg rt, serruys pw. late 2. angiographic stent thrombosis (last) events with drug-eluting stents. j am coll cardiol 2005; 45: 2088-92 joner m, finn aw, farb a, mont ek, kolodgie fd, ladich e et al. pathology of drug-eluting 3. stents in humans. delayed healing and late thrombotic risk. j am coll card 2006; 48: 193202 wiviott sd, braunwald e, mccabe ch, horvath i, keltai m, herrman jp et al; triton-timi 4. 38 investigators. intensive oral antiplatelet therapy for reduction of ischaemic events including stent thrombosis in patients with acute coronary syndromes treated with percutaneous coronary intervention and stenting in the triton-timi 38 trial: a subanalysis of a randomised trial. lancet 2008; 371: 1353-63 steinhubl sr, berger pb, mann jt for the credo investigators. early and sustained dual 5. oral antiplatelet therapy following percutaneous coronary intervention. a randomized controlled trial. jama 2002; 288: 2411-20 acc/aha/scai 2005 guideline update for percutaneous coronary intervention: a report 6. of the american college of cardiology/american heart association task force on practice guidelines. smith sc jr, feldman te, hirshfeld jw jr, jacobs ak, kern mj, king sb 3rd etl al; american college of cardiology/american heart association task force on practice guidelines; acc/aha/scai writing committee to update 2001 guidelines for percutaneous coronary intervention. circulation 2006; 113: e166-286 king sb 3rd, smith sc jr, hirshfeld jw jr, jacobs ak, morrison da, williams do et al. 2007 7. focused update of the acc/aha/scai 2005 guideline update for percutaneous coronary intervention: a report of the american college of cardiology/american heart association task force on practice guidelines: 2007 writing group to review new evidence and update the acc/aha/scai 2005 guideline update for percutaneous coronary intervention, writing on behalf of the 2005 writing committee. circulation 2008; 117: 261-95 eisenstein el, anstrom kj, kong df, shaw lk, tuttle rh, mark db et al. clopidogrel use and 8. long-term clinical outcomes after drug-eluting stent implantation. jama 2007; 297: 159-68 kuchulakanti pk, chu ww, torguson r, ohlmann p, rha sw, clavijo lc et al. correlates and 9. long-term outcomes of angiographically proven stent thrombosis with sirolimusand paclitaxeleluting stents. circulation 2006; 113: 1108-13 lee ch, lim j, low a, tan hc, lim yt. late angiographic stent thrombosis of polymer-10. based paclitaxel eluting stent. heart 2006; 92: 551-3 clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 39 vengono eseguite emocolture seriate e quindi si prescrive terapia antibiotica con cefalosporina di iii generazione (cefotaxime 2 g x 2 ev), dimostratasi inefficace in quanto, dopo tre giorni di trattamento, vi era ancora persistenza della febbre. la lunga durata della febbre, l’assenza di sintomi specifici e l’anamnesi positiva per procedure odontoiatriche in portatrice di graziano antonio minafra 1, donatella concetta cibelli 1, maria pipino 1, vincenzo dargenio 1, francesco ventrella 1 caso clinico una donna di 59 anni, con diabete mellito di tipo 2 insulino-trattato, portatrice da alcuni anni di protesi valvolare mitralica meccanica in terapia anticoagulante orale (tao), viene ricoverata per comparsa da dieci giorni di iperpiressia (temperatura corporea massima = 38,5 °c) continuo-remittente, astenia marcata e dispnea a riposo. a domicilio è stata trattata con paracetamolo e claritromicina per os (250 mg x 2/die per 7 giorni). un mese prima del ricovero si era sottoposta ad avulsione dentaria, profilassata con amoxicillina (1 g x 2/die per os per 14 giorni). dati di laboratorio significativi all’ingresso: anemia: hb = 10,8 g/dl; y leucocitosi neutrofila: gb = 14.700/m y 3; neutrofili = 84%; incremento degli indici di flogosi: pcr = y 35 mg/dl (vn = 0-0,5); ves = 68 mm/h. un’endocardite infettiva complicata trattata con successo con linezolid abstract despite significant improvements in surgical and medical therapy, prosthetic valve endocarditis (pve) is a diagnostic and therapeutic challenge and is often associated with a severe prognosis. we report a case of a 59-year-old woman, with pve and bacterial endocarditis (streptococcus bovis) successfully treated with linezolid. linezolid is a bacteriostatic oxazolidinone antibiotic that has been proven to be effective for the treatment of patients with pneumonia, skin and soft tissue infections, and infections due to gram-positive cocci. linezolid is not yet recognised as a standard therapy for infective endocarditis, but its use becomes a necessity when infection is due to multidrug-resistant microorganisms. keywords: streptococcus bovis, prosthetic valve endocarditis, infective endocarditis, linezolid a severe infective endocarditis successfully treated with linezolid cmi 2010; 4(1): 39-48 1 s.c. medicina interna ospedale “g. tatarella” – cerignola asl fg (direttore dott. francesco ventrella) corresponding author dott. francesco ventrella f.ventrella@tiscali.it caso clinico perché descriviamo questo articolo per ricordare che nello studio diagnostico delle fuo (febbre di origine sconosciuta) bisogna sempre considerare in diagnosi differenziale le endocarditi (valutare sempre l ’opportunità di eseguire ecocardiogramma transesofageo). inoltre la terapia antibiotica dell ’endocardite a volte può richiedere diversi cicli con farmaci differenti per riuscire a eradicare l ’infezione clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 40 un’endocardite infettiva complicata trattata con successo con linezolid protesi valvolare meccanica ci ha portato a sospettare un’endocardite batterica. domande da porre alla paziente quali sono le caratteristiche della febbre (è y di tipo continuo o continuo-remittente? è associata a brividi scuotenti?) ha notato l ’insorgenza di esantemi e/o y macchie cutanee (tipo noduli)? a domicilio ha assunto antibiotici, e se sì y quale antibiotico e per quanti giorni? per tale sospetto clinico sostituiamo la cefalosporina con ampicillina + sulbactam 3 g x 4/die ev. tale antibiotico a tali dosaggi è considerato un’opzione terapeutica nelle endocarditi, in cui non si dispone ancora del risultato dell’emocoltura [1,2]. in sesta giornata il laboratorio comunica la positività dell’emocoltura con isolamento dello streptococcus bovis. contestualmente la paziente viene sottoposta a un ecocardiogramma transesofageo (ete), che evidenzia la presenza di tre vegetazioni isoecogene sub-centimetriche, adese alla valvola meccanica e aggettanti in atrio sinistro, ad elevata mobilità e alto rischio embolico (figura 1). viene quindi formulata la diagnosi di «endocardite batterica tardiva da streptococcus bovis su protesi valvolare mitralica meccanica» e viene impostata terapia antimicrobica endovenosa associando rifampicina (600 mg/ die) ad ampicillina/sulbactam (3 g x 4/die), già in corso. tale scelta terapeutica è stata guidata dalle seguenti considerazioni: i suddetti antibiotici avevano le mic più y basse all’antibiogramma; ampicillina/sulbactam, già in corso, avey va mostrato una buona efficacia clinica (scomparsa della febbre), per cui non vi erano ragioni per interromperla; rifampicina è contemplata tra i farmaci y di scelta nell’endocardite su valvola artificiale [2]; sia ampicillina, sia rifampicina sono cony template come valida opzione terapeutica per il trattamento delle endocarditi batteriche nel documento “orientamenti terapeutici per il trattamento delle sepsi e delle endocarditi in medicina interna”, redatto a cura della fadoi (federazione della associazioni dei dirigenti ospedalieri internisti) [3]. nei giorni successivi la paziente continua a rimanere apiretica e presenta un sensibile miglioramento delle condizioni generali e un progressivo decremento degli indici di flogosi. le linee guida sul management dell’endocardite batterica, sia su valvola nativa che su protesi valvolare [3-9], prevedono la necessità della valutazione del trattamento chirurgico. se infatti nella fase di esordio dell’infezione la terapia è essenzialmente medica (antibiotici), allorché il quadro clinico, il monitoraggio ecocardiografico transesofageo o i risultati microbiologici facciano sospettare la persistenza dell’infezione oppure la possibile insorgenza di complicazioni, la terapia chirurgica diventa indispensabile e urgente. da ciò emerge la necessità di una valutazione multidisciplinare del paziente, che contempli lo specialista cardiochirurgo. il nostro ospedale non è dotato di u.o. di cardiochirurgia, per cui è stato necessario contattare un altro ospedale. l’attesa della disponibilità del posto letto, associata all’opportunità di stabilizzare la paziente prima del viaggio, hanno comportato l’esecuzione del trasferimento presso una struttura ospedaliera plurispecialistica di ii livello, dotata di cardiochirurgia, dopo 14 giorni di trattamento presso il nostro reparto. i colleghi cardiochirurghi, dopo lo studio delle condizioni cliniche generali della paziente e delle caratteristiche delle vegetazioni, considerando anche il miglioramento dei parametri clinici e bioumorali, hanno escluso l’indicazione all’intervento figura 1 ecocardiogramma transesofageo della paziente: valvola mitralica con vegetazioni endocarditiche clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 41 g. a. minafra, d. c. cibelli, m. pipino, v. dargenio, f. ventrella chirurgico, in quanto la paziente non presentava le condizioni che rendono necessaria la sostituzione valvolare (tabella i). in particolare è significativa l’assenza di malfunzionamento valvolare, di segni di scompenso cardiaco e di estensione dell’infezione alle regioni perivalvolari all’ete. infine il germe isolato all’antibiogramma risultava responsivo alla terapia antibiotica. all’atto della dimissione, dopo sei settimane di degenza, considerato che le vegetazioni endocarditiche, sebbene ridotte di volume, erano ancora presenti, e quindi la terapia antibiotica da noi impostata con ampicillina/sulbactam + rifampicina (effettuata per un totale di 8 settimane) si era rivelata solo parzialmente efficace, i colleghi cardiologi e cardiochirurghi decidono la prosecuzione della terapia antibiotica a domicilio mediante switch terapeutico con gentamicina (80 mg x 3 /die) + ceftriaxone (2 g/die), protocollo terapeutico previsto dalle linee guida dell’american heart association [5]. dopo circa due settimane dall’inizio del nuovo regime terapeutico, la paziente giunge di nuovo alla nostra attenzione, in quanto, da esami di laboratorio eseguiti per monitorare la terapia, è stato evidenziato un aumento dell’azotemia (120 mg%) e della creatinina (1,9 mg%), associato a malessere generale e astenia. la diagnosi più probabile è subito apparsa quella di danno renale acuto da aminoglucoside. provvediamo a sospendere la terapia antimicrobica (wash-out terapeutico di 48 ore), provvedimento a cui fa effettivamente seguito il miglioramento degli indici di funzionalità renale. tuttavia, durante la degenza, la paziente manifesta improvvisa cefalea temporo-parietale sinistra associata a emianopsia; viene eseguita d’urgenza una tc cerebri, che evidenzia «ischemia cerebrale con infarcimento emorragico occipito paraippocampale sinistro», completata da tc total-body, che non documenta altre lesioni. contestualmente viene eseguito un nuovo controllo ecocardiografico, che documenta la persistenza delle vegetazioni endocarditiche sulla protesi valvolare mitralica: viene pertanto posta la diagnosi di «ictus ischemico cardioembolico con infarcimento emorragico secondario in corso di endocardite batterica». per l’insorgenza di tale complicanza, sono nuovamente interpellati i colleghi cardiochirurghi, i quali non ritengono, per il momento, di porre l’indicazione all’intervento di sostituzione valvolare, in quanto viene ritenuta prioritaria la stabilizzazione delle condizioni cerebro-vascolari. inoltre la paziente ha presentato un solo episodio embolico e la tc total body ha escluso che altri distretti siano sede di foci settici, legati alle vegetazioni valvolari. viene pertanto concordata una rivalutazione cardiochirurgica dopo breve periodo. contestualmente i colleghi ci comunicano i risultati di due emocolture effettuate durante la degenza che confermano l’isolamento di s. bovis con maggiore sensibilità a vancomicina, ceftriaxone, linezolid e acido fusidico. valutati opportunamente i trattamenti antibiotici fino ad allora già effettuati e il pregresso episodio di insufficienza renale acuta iatrogena (che rendeva inopportuno l’utilizzo di vancomicina, altrimenti consigliata dalle linee guida), si decide di avviare un trattamento con ceftriaxone 2 g/die ev (proseguito per 14 giorni) + linezolid 600 mg x 2/die ev per 5 giorni, proseguito poi a domicilio altri 9 giorni a 600 mg x 2/die per os. la scelta di linezolid è stata motivata dalla comprovata efficacia della molecola in numerosi studi clinici in infezioni gravi da batteri gram-positivi, comprese le endocarditi [10-18]. è anche citato nelle linee guida americane (aha) sulle endocarditi per l’utilizzo nelle forme da gram-positivi multiresistenti [5]. endocardite infettiva su valvola nativa insufficienza aortica e mitralica acuta, insufficienza y cardiaca evidenza di estensione perivalvolare (infezione localmente y non controllata) infezione persistente dopo 7-10 giorni di y antibioticoterapia adeguata infezione dovuta a microrganismi con scarsa risposta alla y terapia antibiotica (funghi, brucella spp., coxiella spp., staphylococcus lugdunensis, enterococcus spp., con alto grado di resistenza a gentamicina, microrganismi gramnegativi) vegetazione mobile di dimensione > 10 mm prima o y durante la prima settimana di terapia antibiotica embolie ricorrenti nonostante adeguata terapia y vegetazioni ostruenti y endocardite infettiva su protesi valvolare pve (endocardite su valvola protesica) precoce y disfunzione di una valvola protesica emodinamicamente y significativa evidenza di estensione perivalvolare y infezione persistente dopo 7-10 giorni di y antibioticoterapia adeguata embolie ricorrenti nonostante adeguata terapia y infezioni causate da microrganismi con scarsa risposta y alla terapia antibiotica vegetazioni ostruenti y tabella i condizioni in cui deve essere considerato il trattamento cardiochirurgico in corso di endocardite infettiva, su valvola nativa e/o su protesi valvolare [4] clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 42 un’endocardite infettiva complicata trattata con successo con linezolid inoltre, in questo caso, è stata giudicata particolarmente vantaggiosa la disponibilità di linezolid in formulazione sia ev sia orale, caratteristica che rende possibile, dopo un ciclo iniziale di trattamento ev, lo switch alla terapia domiciliare per os. un nuovo ete, al termine del ciclo di 14 giorni, documenta l’assenza delle vegetazioni endocarditiche precedentemente visualizzate. nel contempo si è ottenuto un pieno recupero delle condizioni neurologiche. viene pertanto sospesa la terapia antibiotica in corso con indicazione a un follow-up clinico ed ecocardiografico a distanza, che ha dimostrato la completa tabella ii criteri clinici per il sospetto di endocardite infettiva (ei) [7] sospetto clinico elevato (indicazione urgente per screening ecocardiografico ed eventuale ricovero ospedaliero) nuova lesione valvolare/soffio (da rigurgito) y fenomeno/i embolico/i di causa non nota y sepsi di origine indeterminata y ematuria, glomerulonefrite e sospetto infarto renale y febbre più: y materiale protesico all’interno delle valvole cardiache y altre cause predisponenti per ei y aritmie ventricolari o disturbi di conduzione di nuova comparsa y prima manifestazione di scompenso cardiaco congestizio y emocolture positive (se il microrganismo identificato è tipico) y manifestazioni cutanee (olser, janeway) od oftalmiche (roth) y infiltrati polmonare multifocali a rapida modificazione (ei delle sezioni y destre) ascessi periferici (renali, splenici, rachidei) di origine sconosciuta y predisposizione e recenti procedure diagnostiche/terapeutiche y notoriamente associate a batteriemia significativa sospetto clinico basso febbre più nessuno dei precedenti y criteri maggiori emocolture positive per ei: microrganismi tipici compatibili con ei isolati da 2 emocolture separate: y streptococcus viridans y , streptococcus bovis, staphylococcus aureus, o gruppo hacek enterococchi acquisiti in comunità in assenza di un focus primario y oppure microrganismi compatibili con ei isolati da emocolture persistentemente positive, definite y come: almeno 2 emocolture positive ottenute distanziate da più di 12 ore y tutte e 3 o la maggior parte di 4 emocolture separate, la prima e l’ultima distanziate da y più di 1 ora oppure singola emocoltura positiva per y coxiella burnetii o titolo anticorpale igg fase i > 1/800 evidenza di interessamento endocardico: risultati ecocardiografici (ete) positivi per ei (vegetazioni, ascessi, nuova parziale y deiscenza di protesi valvolare) oppure nuova insufficienza valvolare y criteri minori condizioni predisponenti: cardiopatie predisponenti o uso di droghe per via endovenosa y temperatura > 38 °c y fenomeni vascolari: embolia arteriosa maggiore, infarti polmonari settici, aneurismi y micotici, emorragie intracraniche o congiuntivali, lesioni di janeway fenomeni immunologici: glomerulonefrite, noduli di osler, macchie di roth, positività del y fattore reumatoide evidenza microbiologica: emocoltura positiva non costituente criterio maggiore (come y definito sopra) o evidenza sierologica di infezione attiva da parte di microrganismo compatibile con ei endocardite certa se sono presenti: 2 criteri maggiori o y 1 criterio maggiore e 3 criteri minori o y 5 criteri minori y endocardite possibile se sono presenti: 1 criterio maggiore e 1 criterio minore o y 3 criteri minori y tabella iii criteri di duke modificati per la diagnosi di endocardite infettiva (ei) [21] clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 43 g. a. minafra, d. c. cibelli, m. pipino, v. dargenio, f. ventrella guarigione dell’infezione. pertanto non è stato più necessario procedere all’intervento di sostituzione della protesi valvolare. discussione le endocarditi infettive (ei) rappresentano ancora oggi un evento grave, con tassi di mortalità del 20-25% a un anno se non trattate, specie se causate da germi farmacoresistenti [19,20]. nei soggetti con febbri di origine sconosciuta (fuo) bisogna sempre considerare nella diagnosi differenziale la presenza di un’endocardite. nella tabella ii sono elencati i criteri clinici che devono far sospettare la presenza di una vegetazione valvolare infetta e nella tabella iii i criteri per la diagnosi di certezza. l’insorgenza di un’ei è generalmente la conseguenza di una batteriemia (altrimenti transitoria) in un soggetto portatore di condizioni predisponenti la colonizzazione batterica delle valvole cardiache. numerose procedure mediche, soprattutto quelle odontoiatriche (tabella iv ), determinano una batteriemia transitoria in una percentuale significativa di pazienti, che nel caso delle manovre odontoiatriche può oscillare dal 50% al 90% [22]. la frequente batteriemia, che insorge nella maggior parte dei pazienti dopo un’estrazione dentale, si estingue di solito nel giro di 15 minuti, sebbene in alcuni casi siano state osservate delle emocolture positive dopo oltre un’ora dalla procedura dentale invasiva. oltre ai trattamenti odontoiatrici, altre procedure diagnostico-terapeutiche invasive possono causare batteriemia transitoria (broncoscopia, sclerosi delle varici esofagee, colangiopancreatografia retrograda perendoscopica, posizionamento di stent uretrali, cistoscopia, interventi sulla prostata). se il paziente è portatore di condizioni cardiologiche predisponenti (tabella v ), la fugace batteriemia, che consegue alle suddette procedure, può causare un’endocardite batterica. da ciò la necessità di effettuare un’idonea profilassi antibiotica nei pazienti a rischio, in particolare nei pazienti con malattia valvolare cardiaca [3, 4,6-9,23,24]. la nostra paziente, circa 30 giorni prima del ricovero, si era sottoposta ad avulsione dentaria in occasione della quale era stata eseguita una profilassi antibiotica con amoxicillina, che, pur essendo uno degli antibiotici consigliati allo scopo, si è dimoprofilassi antibiotica raccomandata aha bsac estrazioni dentali sì sì* procedure parodontali inclusa la chirurgia, lo scaling, la levigatura, il sondaggio delle tasche parodontali e i richiami periodici di mantenimento sì ns posizionamento di un impianto o il reimpianto di un dente avulso sì ns strumentazione endodontica solamente oltre apice e chirurgia endodontica sì ns posizionamento sottogengivale di fibre antibiotiche o di retrazione sì ns posizionamento iniziale di bande ortodontiche sì ns anestesia intraligamentosa sì ns igiene o profilassi di denti naturali o di impianti quando ci si aspetta un sanguinamento gengivale sì ns incisione o drenaggio di tessuti infetti sì ns tabella iv procedure dentali che richiedono una profilassi antibiotica nei pazienti a rischio alto o moderato secondo le indicazioni dell ’american heart association e della british society for antimicrobial chemotherapy [25] aha = american heart association; bsac = british society for antimicrobial chemotherapy; ns = non specificato * solo chirurgia parodontale o scaling con o senza anestesia tabella v patologie che possono predisporre allo sviluppo di endocardite infettiva [25] aha = american heart association; bsac = british society for antimicrobial chemotherapy; ns = non specificato raccomandazioni di profilassi aha bsac valvole cardiache artificiali sì sì endocardite pregressa sì sì malattie cardiache congenite con cianosi sì sì ricostruzione chirurgica di shunt polmonari sì sì disfunzioni valvolari acquisite sì sì cardiomiopatie ipertrofiche sì sì prolasso della valvola mitrale con rigurgito sì sì difetti del setto atriale riparati chirurgicamente ns sì sindrome di marfan ns sì clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 44 un’endocardite infettiva complicata trattata con successo con linezolid strata stranamente inefficace a prevenire l’endocardite. i batteri più comunemente coinvolti nell’eziologia delle ei (tabella vi) sono gli streptococchi soprattutto del gruppo viridans, sebbene negli ultimi decenni siano notevolmente aumentate le endocarditi causate dagli stafilococchi, soprattutto dallo s. aureus, e da bacilli gram-negativi, cosiddetto gruppo hacek (haemophilus, actinobacillus, cardiobacterium hominis, eikenella corrodens) [26]. nei pazienti portatori di protesi valvolare, come nel caso della nostra paziente, l’endocardite viene classificata in due gruppi: precoce (entro 2 mesi dall’impianto della valvola) e tardiva (a distanza di più di 2 mesi dall’impianto, generalmente oltre 6-12 mesi). la distinzione è importante, perché diversa è l’eziologia batterica delle due forme. l’ei precoce è conseguenza di un’infezione verificatasi al momento dell’intervento: i punti di attacco del germe sono generalmente i punti di sutura della valvola. è quindi un’infezione ospedaliera: i batteri coinvolti sono spesso multiresistenti (stafilococchi, gram-negativi). l’ei tardiva è un’infezione acquisita in comunità, quindi ha un’eziologia simile a quella dell’ei su valvole native, con minore probabilità di batteri multiresistenti. per quanto riguarda il management dell’endocardite batterica, va ricordato che è opportuno effettuare almeno tre emocolture (in 24 ore) possibilmente da due siti diversi (ad esempio alternando le due braccia) prima di iniziare una qualsiasi terapia empirica antibiotica. la resistenza agli antibiotici rappresenta infatti un limite per le opzioni terapeutiche e può condizionare l’outcome dell’infezione [27,28]. per quanto riguarda il caso della nostra paziente, l’infezione è risultata solo parzialmente responsiva alla prima terapia antimicrobica (ampicillina/sulbactam + rifampicina), eseguita nel corso dei primi due ricoveri ordinari (in totale 8 settimane), e anche alla terapia con gentamicina + ceftriaxone, sospesa dopo due settimane per tossicità renale da gentamicina. il ceppo di s. bovis si è dimostrato in vivo “relativamente resistente”, rispetto a quanto documentato in vitro dall’antibiogramma. la guarigione definitiva è stata invece conseguita con l’impiego dell’associazione ceftriaxone + linezolid per due settimane. linezolid è un farmaco che appartiene alla classe degli oxazolidinoni e il suo spettro d’azione risulta efficace verso diversi organismi gram-positivi multifarmaco-resistenti, inclusi stafilococchi coagulasi-negativi (cns), staphylococcus aureus meticillino-resistente (mrsa), staphylococcus aureus con resistenza intermedia ai glicopeptidi (gisa) ed enterococchi vancomicino-resistenti (vre) [11,13]. gli oxazolidinoni agiscono tramite inibizione della sintesi proteica dei batteri (figura 2) e sono inibitori reversibili non selettivi delle monoaminossidasi. per tale ragione linezolid può provocare interazione con agenti adrenergici e serotoninergici [6,10]. linezolid è dotato di una buona penetrazione tissutale ed è stato utilizzato con successo in casi di sepsi, infezioni della cute e dei tessuti molli, osteomieliti e infezioni protesiche, polmoniti comunitarie e nosocomiali, meningiti ed endocarditi. in letteratura sono stati infatti pubblicati dati interessanti di ei trattate con linezolid [14-16]. linezolid offre un ottimo profilo farmacocinetico e una biodisponibilità quaagente ei su valvola nativa ei su valvola nativa protesica, forma precoce (< 2 mesi) ei su valvola nativa protesica, forma semitardiva (2-12 mesi) ei su valvola nativa protesica, forma tardiva (> 12 mesi) ei del tossicodipendente staphylococcus aureus 25-40% 22% 12% 18% 74% stafilococchi coagulasi-negativi 3-8% 32% 32% 11% 3% streptococchi 30-65% 3% 9% 31% 8% enterococchi 5-17% 8% 12% 11% 1,5% difteroidi 5% 0 3% bacilli gram-negativi 4-10% 11% 3% 6% < 1% cocco bacilli gram-negativi 0 0 11% miceti 1-3% 7% 12% 1% 1,5% polimicrobica 1-3% 2% 6% 5% 3% colture negative 3-10% 7% 6% 8% 7% tabella vi principali agenti patogeni responsabili di ei nei soggetti adulti [26] clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 45 g. a. minafra, d. c. cibelli, m. pipino, v. dargenio, f. ventrella si del 100% dopo somministrazione orale, il che consente di ovviare alla necessità della somministrazione ev. in italia linezolid ha indicazione per il trattamento delle polmoniti acquisite in comunità, delle polmoniti nosocomiali e delle infezioni della cute e dei tessuti molli, quando si sospetta o si ha la certezza che siano causate da batteri gram-positivi sensibili. questo antibiotico non è ancora contemplato nella terapia standard delle ei, ma sia le linee guida americane [5], sia le recentissime (2009) linee guida europee sul management delle endocarditi, elaborate dalla società europea di cardiologia (esc) [7], prevedono il suo utilizzo nelle forme da gram-positivi multiresistenti. nel nostro caso la durata del ciclo di terapia con linezolid in associazione a ceftriaxone è stata di 14 giorni, periodo che potrebbe apparire molto contenuto. in genere la durata del trattamento con linezolid, per avere un outcome positivo, va da un minimo di 14 sino a solitamente 28 giorni, con prolungamento massimo fino a 48 giorni [12,29]. nel nostro caso, linezolid è stato utilizzato in una paziente che aveva già effettuato circa 10 settimane di terapia antibiotica che, se non era stata in grado di eradicare l’infezione, aveva comunque comportato la parziale riduzione volumetrica delle vegetazioni endocarditiche. questo ci ha consentito di programmare tempi minori di utilizzo di linezolid stesso, anche in considerazione del rischio di gravi effetti collaterali, quali neurite ottica, neuriti periferiche e mielotossicità, associati all’uso di linezolid, particolarmente se prolungato per più di due settimane [30-32]. in particolare il rischio di neurotossicità da linezolid nella nostra paziente poteva essere aumentato per due ragioni: presenza di diabete mellito di tipo 2, che già y predispone alle neuropatie periferiche; anamnesi di recente danno cerebrale con y emianopsia sinistra da complicanza cardio-embolica. trattamento domiciliare e ambulatoriale trattandosi di un’infezione che necessita di trattamento antibiotico per diverse settimane, si pone spesso il problema della lunga durata della degenza in ospedale. alcuni studi hanno affrontato l’argomento, proponendo uno schema che contempli una prima fase di trattamento ospedaliero, seguita da un successivo trattamento domiciliare [33,34]. tutti i pazienti con ei devono essere ricoverati per una valutazione multidisciplinare e devono essere trattati in ospedale per almeno 1-2 settimane, monitorando le possibili complicanze cardiache e non cardiache, in particolare gli eventi embolici. l’incidenza delle complicanze emboliche si riduce rapidamente durante la prima settimana di terapia antimicrobica. successivamente il paziente può essere gestito a domicilio con frequenti visite ambulatoriali. infatti, col termine ambulatory treatment ci si riferisce a un ambiente di cura (solitamente l’ospedale), cui il paziente afferisce per ricevere infusioni ev di antibiotico (trattamento outpatient) e poi torna a casa. tale situazione si distingue da quella del paziente cosiddetto non-inpatient, il quale riceve le cure in ambiente domiciliare in seguito a visita domiciliare o nello studio del medico di base. l’espressione out patient and home parenteral antibiotic therapy (ohpat) comprende entrambi i concetti sopra descritti: si esegue terapia antibiotica di valenza ospedaliera (e linezolid formazione del complesso 30s subunità 50s formazione del complesso 70s mrna 5’ 5’ 3’ 3’ figura 2 linezolid inibisce una fase precoce della sintesi proteica ribosomiale dei batteri; blocca infatti la formazione del complesso 70s, attraverso il legame con la subunità ribosomiale 50s isolati streptococchi (non enterococchi) con sensibilità piena alla penicillina y (mic ≤ 0,1 mg/l) con infezione di valvole originarie, rapida (< 7 giorni) risposta alla terapia antibiotica vegetazioni < 10 mm all’ecocardiogramma transesofageo y assenza di complicanze cardiovascolari quali insufficienza valvolare di grado non y trascurabile, insufficienza cardiaca, anomalie nella conduzione, sepsi, eventi embolici la situazione familiare del paziente è compatibile con una terapia ambulatoriale y tabella vii criteri in cui si può considerare il trattamento antibiotico domiciliare in corso di ei, dopo un regime di ricovero di almeno due settimane [4] controllata da personale ospedaliero), ma a domicilio del paziente. l’uso della terapia antibiotica parenterale al di fuori dell’ambiente ospedaliero è stato istituito negli stati uniti più di 20 anni fa, ma è una pratica relativamente nuova in italia. tale gestione, tuttavia, si porrà con clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 46 un’endocardite infettiva complicata trattata con successo con linezolid sempre maggiore diffusione nel nostro paese, in considerazione degli attuali orientamenti di politica sanitaria tendenti a ridurre sempre più il ricorso al ricovero ordinario, potenziando regimi assistenziali alternativi, quali il day hospital, l’ospedalizzazione domiciliare e i trattamenti ambulatoriali. ciò ovviamente nei casi in cui le condizioni di stabilità del paziente e la garanzia di una sufficiente compliance dello stesso e dei suoi familiari forniscano le necessarie garanzie di sicurezza (tabella vii). nel nostro caso indubbiamente la situazione clinica della paziente era piuttosto impegnativa, veramente ai limiti per un trattamento domiciliare. tuttavia l’alta compliance della paziente e dei suoi familiari ci ha consentito ugualmente di eseguire senza problemi una parte del * dopo la diagnosi di vegetazione endocarditica, lo specialista cardiochirurgo dovrà valutare nel singolo caso, sulla base di parametri clinici (segni di iniziale scompenso cardiaco) ed ecocardiografici (dimensioni e caratteristiche della vegetazione/i), se vi è indicazione o meno all’intervento chirurgico: nei casi in cui l’intervento non è indicato il paziente necessiterà solo di terapia antibiotica per un tempo compreso solitamente tra le 4 e le 6 settimane paziente con febbre continua o continuo-remittente associata a brividi in anamnesi fattori di rischio per endocardite eseguire emocolture in attesa degli esiti delle emocolture iniziare terapia antibiotica a largo spettro emocoltura positiva emocoltura negativa positiva per vegetazione/i* ecocardiografia transesofagea negativa per vegetazione/i stop indagare altre cause di febbre di origine sconosciuta positiva per vegetazione/i* stop ecocardiografia transtoracica negativa per vegetazioni ecocardiografia transesofagea trattamento antibiotico in regime di ospedalizzazione domiciliare. conclusioni linezolid viene considerato una valida alternativa terapeutica nei casi di endocardite da mrsa o cocchi multiresistenti. sebbene l’esperienza clinica in tal senso sia ancora limitata e non siano disponibili ampi studi comparativi, un numero crescente di casi di ei trattati con successo è stato descritto in letteratura. i lavori pubblicati suggeriscono che linezolid possa essere preso in considerazione come terapia dell’endocardite infettiva quando non sono disponibili o utilizzabili altre opzioni terapeutiche (es. vancomicina) algoritmo decisionale clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 47 g. a. minafra, d. c. cibelli, m. pipino, v. dargenio, f. ventrella [12], come si è appunto verificato nel caso da noi descritto. particolarmente interessante è la possibilità, dopo un periodo di terapia ev in regime di ricovero, di proseguire la terapia a domicilio grazie alla formulazione orale dell’antibiotico. in conclusione, nel caso da noi descritto, la paziente, grazie a una prolungata terapia antibiotica, ha evitato un intervento cardiochirugico altamente rischioso per le comorbilità presenti, malgrado il quadro clinico sia stato complicato dalla nefrotossicità iatrogena (indotta da aminoglucosidi) e da un ictus cardioembolico, complicazioni che sono state favorevolmente superate, con pieno recupero delle condizioni preesistenti. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. bibliografia cunha ba (a cura di). antibiotic essentials 2007. royal oak: physician’s press, 20071. gilbert dn, moellering rc jr, eliopoulos gm, sande ma. the sanford guide to antimicrobial 2. therapy 2005. sperryville: antimicrobial therapy inc., 2005 bulfoni a, concia e, costantino s, di rosa s, iori i, mathieu g et al. orientamenti terapeutici 3. per il trattamento delle sepsi e delle endocarditi in medicina interna. gruppo multidisciplinare fadoi. giornale italiano di medicina interna 2004; 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128: 1004-8 carmona it, dios pd, scully c. an update on the controversies in bacterial endocarditis of 25. oral origin. oral surg oral med oral pathol oral radiol endod 2002; 93: 660-70 boumis e, alba l, cicalini s, de marco m, festa a, macrì g et al. endocarditi infettive. 26. protocollo per la diagnosi e la terapia. recenti prog med 2004; 95: 591-603 howden bp, ward pb, charles pg, korman tm, fuller a, du cros p et al. treatment outcomes 27. for serious infections caused by methicillin-resistant staphylococcus aureus with reduced vancomycin susceptibility. clin infect dis 2004; 38: 521-8 woods cw, cheng ac, fowler vg jr, moorefield m, frederick j, sakoulas g et al. endocarditis 28. caused by staphylococcus aureus with reduced susceptibility to vancomycin. clin infect dis 2004; 38: 1188-91 ng kh, lee s, yip sf, que tl. a case of streptococcus mitis endocarditis successfully treated 29. by linezolid. hong kong med j 2005; 11: 411-3 beekmann se, gilbert dn, polgreen pm; idsa emerging infections network. toxicity of 30. extended courses of linezolid: results of an infectious diseases. society of america emerging infections network survey. diagn microbiol infect dis 2008; 62: 407-10 linam wm, wesselkamper k, gerber ma. peripheral neuropathy in an adolescent treated 31. with linezolid. pediatr infect dis j 2009; 28: 149-51 chao cc, sun hy, chang yc, hsieh st. painful neuropathy with skin denervation after 32. prolonged use of linezolid. j neurol neurosurg psychiatry 2008; 79: 97-9 nathwani d, conlon c, on behalf of the ohpat uk workshop. outpatient and home 33. parenteral antibiotic therapy (ohpat) in the uk: a consensus statement by a working party. clin microbiol infect 1998; 4: 537-51 francioli pb, stamboulian d. outpatient treatment of infective endocarditis. 34. clin microbiol infect 1998; 4 (suppl 3): s47-s55 clinical management issues � ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) editoriale sono troppe, sono noiose, pompose, autoreferenziali e brutte a vedersi; non modificano la pratica medica, contengono troppa spazzatura e non aggiungono niente di nuovo. inoltre, non le legge nessuno. quelli riportati sono solo alcuni punti della lista dei “difetti delle riviste mediche” stilata da richard smith, past editor del british medical journal [1]. se queste sono le critiche mosse a riviste autorevoli quali appunto il bmj o il jama, e se, come emerge da indagini del bmj stesso, meno dell’1% degli articoli pubblicati dalle più prestigiose riviste del settore è considerato valido e rilevante dai medici che lavorano sul campo, l’idea di pubblicare un nuovo giornale in grado di fornire contributi realmente differenti e innovativi può sembrare come minimo azzardata. è innegabile: le riviste mediche sono ormai innumerevoli e nel contempo internet e lo sviluppo informatico hanno contribuito a diffondere la sensazione che reperire le informazioni sia semplice e immediato e che autori e lettori possano comunicare tra loro senza bisogno di intermediari. in quest’ottica, il ruolo delle riviste sembra scarso e il loro futuro alquanto incerto. nella sua attività quotidiana, il medico ha la necessità di far fronte alle esigenze dei pazienti cercando l’informazione corretta tra la mole di conoscenze accumulata in oltre 5.000 anni di storia della medicina: il professionista da un lato sente l’imperativo di mantenersi aggiornato, dall’altro si trova letteralmente travolto dall’eccesso di notizie. eppure, nonostante il sovraccarico di informazioni e di letteratura e nonostante l’accesso immediato ad internet, molte delle richieste dei medici continuano a rimanere senza risposta [2]. i dati che servono davvero sono di difficile reperibilità e spesso gli stessi professionisti “non sanno ciò che non sanno” [3]. ma che cosa cercano veramente i lettori di una rivista specializzata nel settore medico? da uno studio [4] condotto sui medici di medicina generale, che sono quelli più numerosi e con il maggior numero di pazienti, è emerso che le 10 domande più frequenti sono: qual è il farmaco di scelta per la condizione x? qual è la causa del sintomo x? quale test è indicato nella condizione x? qual è la dose del farmaco x? come dovrei trattare la condizione x? come dovrei gestire il problema x? qual è la causa del segno x? qual è la causa del risultato x del test y? può il farmaco x causare la reazione avversa y? potrebbe questo paziente avere la malattia x? sia che riguardino dettagli su un dato effetto collaterale, ragguagli sui test diagnostici o sui criteri di diagnosi, le esigenze di informazione sorgono quando il medico si trova di fronte al paziente reale, durante il consulto, in corsia o nello studio medico. dalle analisi emerge infatti che spesso i medici non sono consapevoli dei propri possibili bisogni di informazione fintanto che non vengono in contatto con il paziente: è in questa occasione che riescono meglio a iden          � clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati editoriale tificare le proprie incertezze, dimostrando talora che i bisogni sono superiori a quello che sarebbero disposti ad ammettere [5]. è da queste riflessioni che ha preso forma il progetto di una nuova rivista, con l’obiettivo di proporre casi reali che forniscano al lettore, accanto ad alcune risposte, lo spunto per far emergere domande, bisogni, stimoli di approfondimento e di ricerca di informazione. per questo motivo il “cuore” di clinical management issues è costituito dai casi clinici: nella descrizione del caso il medico è invitato a mettersi nei panni del collega che si trova di fronte allo specifico paziente, a porsi delle domande a cui cercare di dare risposta, a farsi sorgere dubbi sull’ipotesi diagnostica, sulle indagini da richiedere, sui farmaci da prescrivere. le domande che nascono da un caso reale sono spesso complesse, multidimensionali e coinvolgono diverse aree della conoscenza medica; raramente i trial clinici o le linee guida sono sufficienti per rispondere a questi interrogativi: le caratteristiche peculiari del paziente, il contesto clinico, le preferenze del malato stesso sono spesso ben diverse da quelle descritte nei trial e non consentono di applicare i risultati dello studio al singolo individuo. il caso clinico ha il vantaggio di seguire il ragionamento diagnostico del medico, dalla rilevazione dei segni e sintomi del paziente, all’ipotesi diagnostica, alla verifica della correttezza di questa ipotesi. lo scopo che la rivista si propone è quello di presentare questo percorso esaminandone i punti critici per riconoscere le possibili incertezze, formulare le domande, cercare le risposte e applicarle alla patologia del paziente. oltre a ciò, e in considerazione del fatto che circa un terzo dei quesiti clinici che i professionisti si pongono riguarda il corretto uso dei farmaci (dalle dosi alle interazioni agli effetti collaterali) [6,7], la rivista cercherà inoltre di fornire informazioni su di essi, integrando i casi clinici con rubriche specificatamente dedicate. la nostra volontà è di offrire un prodotto con dei contenuti fruibili, utili, interessanti e con una ricaduta pratica. in questo senso anche l’impostazione grafica è stata pensata con l’obiettivo di rendere la rivista facilmente consultabile anche per chi, come il medico, spesso ha il tempo contato. per questo motivo sono stati introdotti numerosi box, tabelle e schemi riassuntivi che consentono al lettore di comprendere con una rapida occhiata l’argomento trattato e i punti salienti dell’articolo. inoltre, con l’aiuto del comitato scientifico, composto da esperti nelle diverse aree terapeutiche, e, speriamo, con il valido supporto dei lettori, ci piacerebbe che la rivista, sia in forma cartacea che attraverso il suo sito, possa col tempo costituire una “comunità di discussione”: per questo uno spazio sarà riservato alle lettere dei lettori per approfondire la discussione, dissentire, proporre casi e soluzioni, insomma per confrontarsi. un’area dove medici di medicina generale, specialisti e ospedalieri possano trovare un luogo di incontro e spunti per la discussione e il confronto. ringraziamo tutti i componenti del board e i collaboratori che con impegno ed entusiasmo hanno accettato di lavorare con noi e portare avanti questo progetto. la speranza è che questa rivista possa diventare un utile strumento per i lettori e che, con il loro aiuto, possa continuare a crescere e ad arricchirsi. bibliografia 1. smith r. moving beyond journals: the future arrives with a crash. bmj 1999; 318: 1637-9 2. ely jw, osheroff ja, chambliss l et al. answering physicians’ clinical questions: obstacles and potential solutions. j am med inform assoc 2005; 12: 217-24 3. williamson jw, german ps, weiss r, skinner ea, bowes f. health science information management and continuing education of physicians. a survey of us primary care practitioners and their opinion leaders. ann intern med 1989; 110: 151-60 4. ely jw, osheroff ja, gorman pn et al. a taxonomy of generic clinical questions: classification study. bmj 2000; 321: 429-32 5. smith r. what clinical information do doctors need? bmj 1996; 313: 1062-68 6. covell dg, uman gc, manning pr. information needs in office practice: are they being met? ann intern med 1985; 103: 596-9 7. gorman pn, yao p, seshadri v. finding the answers in primary care: information seeking by rural and nonrural clinicians. medinfo 2004; 11: 1133-7 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 97 clinical management issues livello del quadrante supero-interno della mammella destra, del diametro massimo di 40 mm. a livello del cavo ascellare omolaterale non furono riscontrate adenopatie caso clinico una donna di 67 anni si presentò alla nostra attenzione nel luglio 2004 per l’autoriscontro di una massa al livello del quadrante supero-interno della mammella destra. l’anamnesi familiare non evidenziò casi di tumore della mammella nei parenti di i e ii grado. la paziente era in ottime condizioni generali e da circa 3 anni assumeva ace inibitori per un’ipertensione arteriosa moderata. l’esame obiettivo rivelò la presenza di una massa di consistenza lignea al perché descriviamo questo caso per illustrare le possibilità terapeutiche di cura del tumore al seno metastatico, ponendo un’attenzione particolare ai vantaggi offerti dall ’uso di docetaxel corresponding author filippo montemurro filippo.montemurro@ircc.it caso clinico abstract metastatic breast cancer is a very heterogeneous disease, both from a clinical and a biological point of view. despite being still incurable, the expanding therapeutic repertoire has determined a progressive increase in median survival. we describe the clinical course of a 67-year-old woman with a locally advanced, hormone-receptor positive breast cancer with synchronous liver metastases. single-agent docetaxel at the dose of 100 mg/m2 for 8 cycles determined a pathological complete remission in the breast and a near complete remission of liver metastases. after more than 4 years from diagnosis, the patient is alive and without signs of tumour progression. based on this clinical case, we discuss management issues like the choice of the initial treatment, the use of monochemotherapy vs polychemotherapy, the worth of surgery of the primary tumour in patients with stage iv disease, and the issue of maintenance endocrine therapy. furthermore, we reviewed the pivotal role of docetaxel in the management of advanced breast cancer. whether monochemotherapy or polychemotherapy is felt to be an adequate choice in the clinical practice, docetaxel qualifies as one of the most active and manageable agents. single agent activity ranging from 20-48% in terms of response rate has been reported in several clinical trials in patients treated in various clinical settings. docetaxel-based combinations with other cytotoxic agents have become established in the first line treatment both in patients with anthracycline-resistant and anthracycline-sensitive metastatic breast cancer. finally, docetaxel has been shown to be an optimal companion drug for biologically targeted agents like trastuzumab or bevacizumab, resulting in further treatment options. keywords: metastatic breast cancer, docetaxel, polychemotherapy, monochemotherapy current problems in the first-line treatment of metastatic breast cancer: focus on the role of docetaxel cmi 2010; 4(3): 97-107 1 divisione di oncologia medica 1, fondazione del piemonte per l’oncologia, istituto per la ricerca e la cura del cancro, strada provinciale 142, km 3,95, 10060 candiolo filippo montemurro 1 problematiche attuali nel trattamento di i linea del carcinoma della mammella metastatico: focus sul ruolo di docetaxel ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3)98 problematiche attuali nel trattamento di i linea del carcinoma della mammella metastatico: focus sul ruolo di docetaxel all’herceptest), positivo nel 20% delle cellule neoplastiche. prima di avviare la paziente a un trattamento neoadiuvante, si procedette a una stadiazione tramite tomografia assiale computerizzata (tac) dell’encefalo, torace e addome e scintigrafia ossea. l’esame tac rivelò la presenza di focalità epatiche al livello di s2, s4, s6 e s7, del diametro massimo di 2 cm, sospette per secondarietà. la scintigrafia ossea risultò negativa per interessamento scheletrico di malattia. si procedette quindi a una biopsia epatica con ago sottile al livello di una delle lesioni evidenziate alla tac. l’esame citologico confermò la diagnosi di metastasi da carcinoma della mammella. lo studio citologico fornì un profilo di biomarcatori simile a quello del tumore primitivo (er 75%, pgr 45%, her2: 1+). il programma terapeutico fu ridiscusso con la paziente alla luce del riscontro di sospette. il resto dell’esame obiettivo non rivelò reperti anomali. una mammografia confermò la presenza di un nodo unico a livello della mammella destra, del diametro massimo di 35 mm, con calcificazioni “a grano di sale” nella sua compagine. fu anche effettuata una risonanza magnetica nucleare (rmn) con studio dinamico che mise in evidenza la presenza di un’alterazione di segnale nel contesto della ghiandola mammaria della mammella destra, in accordo con il dato clinico e mammografico (figura 1). l’esame microistologico su core biopsy della lesione mammaria confermò la diagnosi di carcinoma duttale infiltrante scarsamente differenziato della mammella con il seguente profilo di biomarcatori: recettore estrogenico (er) positivo nell’80% delle cellule neoplastiche, recettore per il progesterone (pgr) positivo nel 50% delle cellule neoplastiche, her2 negativo (1+ figura 1 risonanza magnetica mammaria prechemioterapia l’esame evidenzia una voluminosa impregnazione di mezzo di contrasto paramagnetico al livello del quadrante supero-interno della mammella destra (a). l’esame dinamico rivela una curva di intensità/tempo suggestiva per malignità (b) figura 2 risonanza magnetica mammaria dopo 8 cicli con docetaxel l’esame evidenzia una spiccata regressione volumetrica della lesione del quadrante supero interno della mammella destra, con persistenza di areole di impregnazione (a). l’esame dinamico di queste areole rivela una curva di intensità/tempo suggestiva per malignità (b). l’esame depone per minima persistenza di malattia a b a b ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 99 f. montemurro in fase metastatica, il repertorio di scelte terapeutiche possibili sia ampio e complesso. numerosi fattori contribuiscono a questa complessità: la presentazione clinica può essere estremamente eterogenea, con pazienti asintomatiche e poche localizzazioni di malattia fino a quadri drammatici di malattia con metastasi critiche per sede ed estensione. l’eterogeneità biologica del tumore della mammella rappresenta un ulteriore elemento di stratificazione sia prognostica sia predittiva nei confronti dell’efficacia di terapie mirate. su questo importante substrato clinico e biologico, uno sforzo è quindi richiesto per utilizzare correttamente, o più spesso ragionevolmente, la grande quantità di armi terapeutiche disponibili. il caso clinico descritto presenta alcuni spunti di discussione che saranno sviluppati brevemente. alcuni di questi, più concettuali, sono: approccio terapeutico iniziale in paziente y in stadio iv di malattia (ormonoterapia vs chemioterapia); scelta della modalità chemioterapica (poliy chemioterapia vs monochemioterapia); ruolo della chirurgia del tumore primitivo y in una paziente con metastasi sincrone; ruolo dell’ormonoterapia di mantenimeny to dopo chemioterapia. un argomento più specifico è infine rappresentato dalla scelta di docetaxel e dai suoi possibili utilizzi in monochemioterapia e in associazione con altri agenti chemioterapici. approccio terapeutico iniziale in paziente in stadio iv di malattia il carcinoma della mammella metastatico è generalmente considerato una malattia non guaribile in quanto espressione di disseminazione sistemica e di coinvolgimento multiorgano. gli obiettivi del trattamento sono la cura dei sintomi associati alle metastasi, la preservazione di una buona qualità di vita e il prolungamento della sopravvivenza [1]. negli ultimi anni si è assistito a un progressivo miglioramento della sopravvivenza mediana dal momento della diagnosi di carcinoma della mammella, grazie in buona parte all’espansione dell’armamentario terapeutico [2]. un adeguato utilizzo delle terapie oggi disponibili consente spesso una sorta di cronicizzazione della malattia. questo si traduce in lunghe sopravvivenze con qualità di vita soddisfacente. dopo i deludenti risultati degli studi randomizzati con chemioterapia ad metastasi epatiche. in considerazione dei dati clinici e anatomopatologici si decise di avviare una terapia ormonale di i linea con un inibitore non steroideo dell’aromatasi (letrozolo), che la paziente cominciò ad assumere nell’agosto del 2004. dopo 3 mesi di trattamento, una tac del torace e dell’addome mostrò una sostanziale stabilità dimensionale delle lesioni epatiche, mentre all’esame clinico il diametro massimo della lesione mammaria risultò di 45 mm. si decise quindi di avviare una chemioterapia di i linea con docetaxel 100 mg/m2 ogni 3 settimane. dopo 4 somministrazioni di docetaxel, complessivamente ben tollerate, fu registrata una regressione parziale della lesione mammaria, il cui diametro massimo si era ridotto a 25 mm. anche a livello epatico fu osservata una remissione parziale di malattia con regressione di tutte le lesioni precedentemente rilevate dalla tac e persistenza di una sola lesione metastatica. si procedette quindi alla somministrazione di altri 4 cicli di chemioterapia. a causa di una ritenzione idrica di grado ii, gli ultimi due cicli furono somministrati applicando una riduzione della dose del 25%. dopo l’8° ciclo, all’esame obiettivo la lesione mammaria non risultò più palpabile (remissione clinica completa). l’esame rmn delle mammelle evidenziò la presenza di aree residue di enhancement di segnale al livello della sede della lesione nota (figura 2). la tac dell’addome confermò la presenza di un’unica lesione epatica residua, di dimensioni stabili rispetto alla rilevazione precedente. a maggio del 2005, completato il programma con docetaxel e visti i risultati degli esami di ristadiazione, si decise di procedere con un intervento di mastectomia semplice con ricostruzione immediata. l’esame istopatologico della mammella destra non evidenziò focolai residui di malattia (remissione completa patologica). da giugno 2005 la paziente avviò una terapia ormonale di mantenimento con exemestane. nel febbraio 2010, all’ultimo follow-up clinico-strumentale, la paziente si presentò in ottime condizioni generali e senza segni di ripresa di malattia. discussione il caso clinico esposto illustra come, nel trattamento del carcinoma della mammella ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3)100 problematiche attuali nel trattamento di i linea del carcinoma della mammella metastatico: focus sul ruolo di docetaxel interpretare gli studi clinici (es. problematica del cross-over delle pazienti assegnate alla monochemioterapia), è ragionevole pensare che sia la monochemioterapia sia la polichemioterapia sono modalità terapeutiche idonee da utilizzare a seconda delle circostanze. le circostanze sono rappresentate dal tipo di paziente (modalità di presentazione clinica, assetto biologico della neoplasia, età, comorbidità) e dalle sue aspettative e preferenze, dalla modalità di presentazione clinica e dalle caratteristiche del tumore [1]. ruolo della chirurgia del tumore primitivo tradizionalmente, nel carcinoma della mammella in stadio iv, la chirurgia ha sempre avuto un ruolo puramente palliativo. il progressivo incremento della sopravvivenza mediana ottenuto con l’introduzione di nuovi farmaci efficaci sul controllo sistemico ha portato a un progressivo rilancio della metastasectomia e della chirurgia del tumore primitivo nei casi con metastasi sincrone. il carcinoma della mammella esordisce in stadio iv nel 4-7% dei casi [9-12]. è ragionevole aspettarsi che l’introduzione di metodiche diagnostiche più sensibili come la pet possa portare a un incremento di questa percentuale (stage shift). numerosi studi retrospettivi evidenziano come la chirurgia del tumore primitivo in una paziente con metastasi sistemiche possa essere associata a un prolungamento della sopravvivenza (tabella i) [9-13]. la metodologia di questi studi, purtroppo, non è robusta al punto da escludere il dubbio che la migliore prognosi possa non essere sicuramente attribuibile al ruolo terapeutico della chirurgia. può darsi, infatti, che la posalte dosi con reinfusione di cellule staminali emopoietiche, gli oncologi hanno imparato a non considerare più l’eradicazione della malattia metastatica l’obiettivo principale del trattamento. la terapia ormonale di i linea rappresenta, in caso di tumori potenzialmente ormonosensibili, una scelta ragionevole, nonché raccomandata da autorevoli algoritmi terapeutici [3]. gli studi con inibitori dell’aromatasi hanno fornito rassicurazioni anche sul fatto che la terapia ormonale rappresenta un trattamento con rapporto tossicità/beneficio ottimale anche in pazienti con localizzazioni viscerali di malattia [4-6]. monochemioterapia o chemioterapia di associazione? per una paziente per la quale si ritenga indicato l’avvio di una chemioterapia, un aspetto critico è rappresentato dalla scelta tra l’uso di un agente chemioterapico singolo oppure di un’associazione tra più farmaci chemioterapici. alcuni dei vantaggi della monochemioterapia sono la possibilità di utilizzare ciascun singolo agente al dosaggio massimo e la disponibilità di più farmaci da utilizzare in sequenza alla comparsa di progressione di malattia. quelli della polichemioterapia sono, in generale, un tasso di risposte obiettive maggiore rispetto alla monochemioterapia, e un tempo a progressione più lungo. pochi studi di confronto tra polichemioterapia e monochemioterapia evidenziano poi un beneficio anche in termini di sopravvivenza globale a favore della polichemioterapia [7,8]. in genere, i benefici della polichemioterapia sono ottenuti a prezzo di un moderato incremento degli effetti collaterali del trattamento. in base a queste osservazioni e a una serie di altri problemi aperti sul modo corretto di autore tipo di studio numero di pazienti percentuale di pazienti operate hr per la sopravvivenza (chirurgia vs no chirurgia) khan [9] analisi di registro 16.024 57% 0,61 (0,58-0,65) rapiti [10] analisi di registro 300 42% 0,6 (0,3-0,7) babiera [14] database istituzionale 244 34% 0,50 (0,21-1,19) gnerlich [15] analisi di registro 9.734 47% 0,62 (0,59-0,66) fields [16] database istituzionale 409 46% 0,63 (0,42-0,67) blanchard [11] database istituzionale 395 65% 0,7 (0,56-0,91) neuman [13] database istituzionale 186 37% 0,71 (0,47-1,06) tabella i analisi retrospettiva dell ’efficacia della chirurgia del tumore primitivo hr = hazard ratio ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 101 f. montemurro scelta di docetaxel nel trattamento di i linea del carcinoma della mammella in stadio iv nel caso clinico descritto, nel momento in cui è stata presa la decisione di avviare un trattamento chemioterapico, la scelta è ricaduta su docetaxel. in accordo con i dati della letteratura medica, docetaxel è, tra quelli disponibili per uso clinico, uno dei farmaci chemioterapici con l’attività antitumorale più elevata. docetaxel in monochemioterapia i primi studi randomizzati valutarono l’efficacia di docetaxel come singolo agente sia nei confronti di doxorubicina [20], sia, in pazienti pretrattate con antracicline e in linee di chemioterapia successive alla prima, nei confronti di combinazioni chemioterapiche come mitomicina c e vinblastina [21], metotrexate e 5-fluorouracile [22], vinorelbina e 5-fluorouracile [23]. in alcuni di questi studi, docetaxel risultò associato a un miglioramento significativo del tasso di risposte tumorali [21,22,24], del tempo a progressione [21,22] e della sopravvivenza globale [21], rispetto ai trattamenti di confronto. docetaxel alla dose di 100 mg/m2 ogni 3 settimane è stato anche confrontato con l’altro taxano, paclitaxel, alla dose di 175 mg/m2 ogni 3 settimane in donne con malattia resistente alle antracicline. da questo confronto è emerso un trend verso l’incremento del tasso di risposte (32% vs 25%), e un vantaggio significativo in termini di tempo mediano a progressione (5,7 vs 3,6 mesi, p = 0,0001) e della sopravvivenza mediana (15,7 vs 12,7 mesi, p = 0,03). la tabella ii riassume i dati di attività clinica di docetaxel come singolo agente, con sibilità stessa di procedere alla chirurgia del tumore primitivo sia un marcatore surrogato di altri indicatori di buona prognosi come, ad esempio, la buona risposta ai trattamenti medici con conseguente controllo della malattia sistemica. nonostante queste limitazioni, è ragionevole proporre a una paziente con malattia in stadio iv l’asportazione del tumore primitivo in virtù di questo teorico beneficio prognostico, considerando anche le eventuali ricadute psicologiche positive sulla paziente. ruolo dell’ormonoterapia di mantenimento dopo chemioterapia la prassi di aggiungere un farmaco ormonale dopo una regressione o stabilizzazione di malattia indotta con un trattamento chemioterapico è diffusa tra gli oncologi. non esistono, di fatto, studi prospettici che ne valutino l’efficacia nei confronti, ad esempio, dell’avvio di una terapia ormonale quando il tumore mostra segni di ripresa. uno studio prospettico suggerì che, in pazienti con tumori ormono-positivi, l’associazione di chemioterapia ed endocrinoterapia prolungasse il time to treatment failure rispetto alla sola chemioterapia [17]. in aggiunta, pochi studi retrospettivi evidenziarono un migliore outcome clinico in pazienti a cui, alla fine del trattamento chemioterapico veniva aggiunta una terapia ormonale di mantenimento [18,19]. nonostante queste limitazioni, aggiungere un farmaco ormonale di mantenimento in una paziente in risposta o stabilizzazione di malattia rappresenta una scelta idonea, considerando che la chemioterapia nella malattia metastatica non ha, nella maggioranza dei casi, un’efficacia eradicante. autore, anno linea dose (mg/m2) orr (%) n paz. ttp (mesi) os (mesi) chan, 1999 [24] i/ii, non antra 100 48 161 6,5 15 nabholtz, 1999 [21] i/ii, precedenti antra 100 30 203 4,8 11,4 sjostrom, 1999 [22] i/ii, precedenti antra 100 42 143 6,8 10,4 bonneterre, 2002 [23] i/ii, precedenti antra 100 43 86 7 16 o’shaughnessy, 2002 [7] i-iii, precedenti antra 100 30 256 4,2 11,5 jones, 2005 [25] i/ii, precedenti antra 100 32 225 5,7 15,4 harvey, 2006 [26] i/ii 100 36 188 4,6 14,7 75 23 188 3,5 10,1 60 22 151 3,4 11,3 sparano, 2009 [27] i/ii, sensibili antra 75 26 373 7 20,6 marty, 2005 [28] i, her2-positive 100 31 94 6,1 22,7 miles, 2008 [29] i, her2-negative 100 44 241 8,1 31,9 tabella ii attività antitumorale di docetaxel come singolo farmaco nel carcinoma metastatico della mammella (bracci di monochemioterapia in studi clinici randomizzati) la denominazione “sensibili antra” indica pazienti che hanno ricevuto antracicline come parte del trattamento neoadiuvante o adiuvante per un tumore operabile e che sono ricadute dopo almeno 12 mesi da completamento antra = antracicline; orr = risposta globale (remissione completa + remissione parziale); os = sopravvivenza mediana; ttp = tempo mediano a progressione o sopravvivenza libera da progressione mediana ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3)102 problematiche attuali nel trattamento di i linea del carcinoma della mammella metastatico: focus sul ruolo di docetaxel docetaxel in schemi di polichemioterapia l’elevata attività clinica di docetaxel e la possibilità di utilizzare dosaggi inferiori rispetto ai 100 mg/m2 ogni 3 settimane hanno fatto sì che questo farmaco diventasse il componente base di associazioni polichemioterapiche che oggi costituiscono standard di riferimento nel trattamento del carcinoma mammario metastatico. la tabella iii mostra alcuni esempi di queste associazioni, con i relativi risultati di attività clinica. dato il crescente numero di pazienti precedentemente esposte a trattamenti adiuvanti contenenti antracicline, l’interesse negli ultimi anni si è concentrato su combinazioni di docetaxel e farmaci della classe degli antimetaboliti come capecitabina e gemcitabina. in particolare, lo studio di joyce o’shaugnessy ha valutato un’associazione di docetaxel alla dose di 75 mg/m2 ogni 3 settimane in associazione a capecitabina alla dose di 1.250 mg/m2 2 volte al giorno per 14 giorni ogni 21 (ct) [7]. quest’associazione ha un razionale preclinico basato sul riscontro che il trattamento con docetaxel è in grado di indurre un’upregulation della timidina fosforilasi nelle cellule tumorali [34]. come si può notare dalla tabella iii, il trattamento combinato comportò un incremento del tasso di risposte obiettive, del tempo mediano a progressione e della sopravvivenza globale, rispetto al solo docetaxel alla dose di 100 mg/m2. il miglioramento dell’attività antitumorale è stato però associato a un significativo incremento degli effetti collaterali di grado 3 e 4, soprattutto per quanto riguarda la stomatite (17,4% vs 5%), la diarrea (14,4% vs 5,4%) e la sindrome mano-piede (24% vs 1%). queste tossicità hanno comportato la necessità di ridurre i dosaggi dei farmaci in 163 delle 251 pazienti arruolate nel braccio di combinazione, cifra poco meno che doppia rispetto a quanto l’inclusione di studi clinici più recenti rispetto a quelli che sono stati già descritti. dalla tabella ii emergono due aspetti che hanno importanti implicazioni cliniche: il tasso di risposta a docetaxel come siny golo agente non è mai inferiore al 30%, a prescindere dal sottogruppo biologico preso in considerazione (es. tumori her2 positivi o negativi). il tasso di risposta tende a variare di poco in relazione alla linea di trattamento per la malattia metastatica; docetaxel ha un’attività antitumorale che y sembra essere dose-dipendente, ma già alla dose di 60 mg/m2 il tasso di risposte è paragonabile a quello di altri agenti comunemente utilizzati nel trattamento del carcinoma della mammella, a parità di linea terapeutica [26]. questa consistenza dell’attività antitumorale nei vari studi e la possibilità di usufruire di un range di dosaggi terapeutici senza modificare lo schema di somministrazione fanno di docetaxel un farmaco estremamente flessibile e adattabile alle esigenze della singola paziente. la somministrazione di docetaxel al dosaggio di 100 mg/m2 è la più efficace, ma anche quella caratterizzata da maggiori tossicità. nel già citato studio di harvey [26], condotto in pazienti alla ii linea chemioterapica, dosaggi minori di docetaxel (75 mg/m2 e 60 mg/m2) furono associati a significative riduzioni delle tossicità principali. per quanto riguarda la tossicità ematologica, ad esempio, l’incidenza di neutropenia febbrile fu del 14,1, del 7,4 e del 4,7% e quella di anemia di grado 3 e 4 fu del 13,5, dell’8,9 e del 6% per dosaggi di 100, 75 e 60 mg/m2, rispettivamente. anche tossicità non ematologiche tipiche di docetaxel, come l’astenia, la ritenzione idrica e la mucosite, risultarono attenuate per dosaggi inferiori a 100 mg/m2. autore, anno linea schema (pazienti) comparatore (pazienti) orr (%) ttp (mesi) os (mesi) nabholtz, 2003 [30] i, no antra at (214) ac (215) 59 (+12)* 9,3 (+1,35)* 22,5 bontenbal, 2005 [31] i, sensibili antra at (109) fac (107) 59 (+15)* 8 (+1,4)* 22,6 (+4,2)* bonneterre, 2004 [32] i, sensibili antra et (70) fec (72) 59 (+27) 8,6 34 (+6) o’shaughnessy, 2002 [7] i-iii, prec antra ct (255) t (256) 42 (+12)* 6 (+1,9)* 14,5 (+3)* sparano, 2009 [27] i, prec antra t-pld (378) t (373) 35 (+9)* 9,8 (+2,8)* 20,6 chan, 2009 [20] i/ii, prec antra gt (153) 32 8 19,3 ct (152) 32 8 21,4 mavroudis, 2010 [33] i, sensibili antra et (136) 51 10,6 37,6 ct (136) 53 11 35,7 tabella iii attività antitumorale di docetaxel in schemi di polichemioterapia (studi randomizzati) nelle colonne orr, tpp e os i numeri tra parentesi indicano il guadagno assoluto per ciascun clinical outcome rispetto al braccio di confronto; l’asterisco indica una differenza statisticamente significativa. la denominazione “sensibili antra” indica pazienti che hanno ricevuto antracicline come parte del trattamento neoadiuvante o adiuvante per un tumore operabile e che sono ricadute dopo almeno 12 mesi da completamento ac = adriamicina 60 mg/m2, ciclofosfamide 600 mg/m2; antra = antracicline; at = adriamicina 50 mg/m2, docetaxel 75 mg/m2; ct = capecitabina 1.250 mg/m2 2 volte al giorno per 14 giorni, docetaxel 75 mg/m2; et = epirubicina 75 mg/m2, docetaxel 75 mg/m2; fac = 5-fluorouracile 500 mg/m2, adriamicina 50 mg/m2, ciclofosfamide 500 mg/m2; fec = 5-fluorouracile 500 mg/m2, epirubicina 75 mg/m2, ciclofosfamide 500 mg/m2; gt = gemcitabina 1.000 mg/m2 giorni 1, 8 ogni 21, docetaxel 75 mg/m2; orr = risposta globale (remissione completa + remissione parziale); os = sopravvivenza mediana; t = docetaxel 100 o 75 mg/m2; t-pld = docetaxel 60 mg/m2, doxorubicina liposomiale pegilata 30 mg/m2; ttp = tempo mediano a progressione o sopravvivenza libera da progressione mediana ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 103 f. montemurro che i due regimi costituiscono due standard di riferimento in pazienti pretrattate con antracicline. la scelta tra i due regimi può essere effettuata sulla base del profilo delle tossicità attese. le combinazioni di docetaxel con antimetaboliti sono state sviluppate per l’esigenza di mettere a punto regimi attivi in pazienti precedentemente esposte ad antracicline e hanno arruolato pazienti pretrattate per la malattia metastatica. un recente studio del gruppo ellenico di ricerca oncologica ha confrontato, in prima linea di trattamento, uno schema ct con una dose di capecitabina ridotta (950 mg/m2/die per 14 giorni ogni 21) con uno schema con docetaxel ed epirubicina (entrambi i farmaci alla dose di 75 mg/m2 ogni 21 giorni) [33]. i risultati depongono per una sostanziale equivalenza fra i due regimi, stabilendo così il ruolo della combinazione ct come alternativa a regimi basati sulle antracicline nel trattamento di i linea del carcinoma metastatico della mammella. da questo confronto emerge anche un migliore profilo di tollerabilità del ct, con minore incidenza di neutropenia di grado 3-4 e di astenia. la riduzione della dose di capecitabina ha comportato anche la riduzione dell’incidenza di sindrome manopiede di grado 3 e 4, che si è presentata nel 4% delle pazienti. docetaxel in associazione ad agenti biologici l’elevata attività antitumorale di docetaxel nel carcinoma della mammella e il prevedibile profilo di effetti collaterali, modulabile con opportune variazioni della dose, ha fatto sì che questo farmaco diventasse la base di associazioni con farmaci a bersaglio molecolare (tabella iv ) [37]. in pazienti con malattia her-positiva, il sinergismo di azione tra docetaxel e trastuzumab, osservato in modelli preclinici [40], ha trovato conferma clinica. in uno studio randomizzato di fase ii, l’aggiunta di trasturiscontrato nel braccio di monoterapia. alcuni studi retrospettivi hanno suggerito che dosaggi minori di docetaxel e capecitabina sono associati a migliore tollerabilità e ad attività clinica comparabile ai dosaggi pieni [35]. una delle obiezioni principali al dato di aumentata sopravvivenza con il regime ct è rappresentato dal basso tasso di crossover delle pazienti nel braccio di monochemioterapia a ricevere, al momento della progressione, un trattamento con capecitabina. in uno studio retrospettivo della casistica arruolata nello studio di o’shaughnessy, il crossover a capecitabina dopo progressione durante docetaxel di i linea è risultato associato a una migliore sopravvivenza rispetto ad altre terapie di salvataggio [36]. questi dati suggeriscono la validità clinica di una strategia di monoterapia con docetaxel, seguito, al momento della progressione di malattia, da capecitabina. allo scopo di mettere a punto uno schema con docetaxel e antimetabolilti alternativo al ct, chan e collaboratori hanno condotto uno studio randomizzato in 305 pazienti con carcinoma metastatico della mammella precedentemente esposte ad antracicline [20]. lo schema di confronto consisteva in docetaxel alla dose di 75 mg/m2 (giorno 1 ogni 3 settimane) e gemcitabina 1.000 mg/ m2 (gt) (giorni 1 e 8 ogni 3 settimane). le dosi di ct erano quelle dello studio di o’shaughnessy [7]. nel complesso, l’efficacia dei due regimi è stata sovrapponibile (vedi tabella iii). il regime gt ha comportato una maggiore incidenza di leucopenia di grado 3 e 4 e un maggiore ricorso a emotrasfusioni, mentre il ct è risultato associato a una maggiore incidenza di diarrea, mucosite e sindrome mano-piede di grado 3 e 4. a parte le differenze nel profilo di effetti collaterali, la percentuale di pazienti che ha dovuto interrompere il trattamento con gt a causa di tossicità è risultata pari alla metà di quelle che hanno dovuto interrompere il trattamento con ct (13 vs 27%, p = 0,002). in base a questi risultati, si può affermare autore, anno schema dose di docetaxel (mg/m2) n. paz orr (%) ttp (mesi) os (mesi) marty, 2005 [28] th 100 92 61 (+30)* 11,7 (+5,6)* 31,2 (+8,5)* montemurro, 2004 [38] th 75 42 67 9 wardley, 2010 [39] th 75 110 72,7 12,8 nr cth 75 112 70,5 17,9* miles, 2008 [29] tb 7,5 mg/kg 100 248 55 (+11)* 30,8 tb 15 mg/kg 247 63 (+19)* 10,1 (2)* 30,2 tabella iv attività antitumorale di combinazioni di docetaxel e agenti biologici nelle colonne orr, tpp e os i numeri tra parentesi indicano il guadagno assoluto per ciascun clinical outcome rispetto al braccio di confronto; l’asterisco indica una differenza statisticamente significativa cth = capecitabina 950 mg/m2 2 volte al giorno per 14 giorni ogni 21, docetaxel 75 mg/m2, trastuzumab; orr = risposta globale (remissione completa + remissione parziale); os = sopravvivenza mediana; tb = docetaxel 100 mg/m2, bevacizumab; th = docetaxel 100 o 75 mg/m2, trastuzumab; ttp = tempo mediano a progressione o sopravvivenza libera da progressione mediana ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3)104 problematiche attuali nel trattamento di i linea del carcinoma della mammella metastatico: focus sul ruolo di docetaxel mg/m2 ogni 3 settimane con bevacizumab (7,5 mg/kg e 15 mg/kg ogni 3 settimane) è stata recentemente confrontata con docetaxel in associazione a placebo in donne con carcinoma mammario her2-negativo alla prima ricaduta metastatica [29]. in questo studio, l’aggiunta di bevacizumab ha determinato un significativo incremento delle risposte obiettive e del tempo mediano a progressione, con un vantaggio di mesi per la dose di 15 mg/ kg. è interessante notare come in questo studio l’incidenza di ipertensione e proteinuria di grado superiore a 2 sia stata molto bassa (3,2% e 0,4% rispettivamente, con la dose più alta di bevacizumab). attualmente questo regime non è ancora registrato per l’uso clinico in italia, ma sarà presto disponibile, rappresentando, visti i risultati di attività, un’importante opzione terapeutica di prima linea per donne con carcinoma mammario metastatico her2-negativo. conclusioni è stato presentato il caso clinico di una donna di 67 anni con carcinoma della mammella in stadio iv d’esordio per localizzazioni secondarie epatiche. dopo un tentativo con ormonoterapia, è stata somministrata una monochemioterapia con docetaxel alla dose di 100 mg/m2 ogni 3 settimane per 8 cicli, che ha determinato una remissione completa patologica del tumore primitivo e una durevole remissione di malattia al livello epatico. il caso clinico ha presentato numerosi spunti di discussione che evidenziano quanto il trattamento del carcinoma mammario metastatico necessiti di scelte mirate sulle caratteristiche della paziente, della modalità di presentazione di malattia e della biologia tumorale. docetaxel si conferma, dopo anni dalla sua introduzione nella cura del carcinoma della mammella, un farmaco di punta sia in monoterapia, sia in schemi di associazione con altri chemioterapici o agenti biologici. disclosure il presente articolo è stato supportato da sanofi-aventis. zumab (dose di carico di 4 mg/kg e successive dosi settimanali di 2 mg/kg) a docetaxel (alla dose di 100 mg/m2) ha determinato un tasso di risposte obiettive del 61%, un tempo a progressione mediano di quasi un anno e una sopravvivenza globale di oltre 30 mesi, con un miglioramento significativo rispetto a docetaxel in monoterapia (tabelle ii e iii) [28]. un elemento significativo dal punto di vista clinico è che la tossicità della combinazione di docetaxel e trastuzumab è sostanzialmente la stessa di docetaxel da solo. il profilo di effetti collaterali, nella nostra esperienza, è ancora più favorevole con una dose di docetaxel di 75 mg/m2 senza apparente riduzione di efficacia [38]. nel tentativo di potenziare ulteriormente questa associazione, wardley e collaboratori hanno paragonato uno schema con docetaxel e trastuzumab (dose di carico di 8 mg/kg e successive dosi di 6 mg/kg ogni 3 settimane) allo stesso schema con l’aggiunta di capecitabina alla dose di 950 mg/m2 al giorno per 14 giorni ogni 21 (cth) [39]. a prezzo di un moderato incremento dell’incidenza di sindrome mano-piede di grado 3 (17% vs 1%) e di diarrea di grado 3 e 4 (11% vs 4%), lo schema cth è risultato associato a un significativo incremento del tempo a progressione mediano. un altro agente biologico che è stato combinato con successo con docetaxel è bevacizumab, un anticorpo monoclonale anti-vascular endothelial growth factor. attualmente bevacizumab è registrato in associazione con paclitaxel in donne con carcinoma della mammella her2-negativo alla prima ricaduta metastatica. uno studio di fase iii ha confermato la superiore efficacia di questa combinazione rispetto a paclitaxel da solo, con un raddoppio del tempo a progressione mediano da 5,9 mesi a 11,8 mesi [41]. la combinazione con bevacizumab è risultata associata a comparsa di ipertensione (14,8% vs 0,0%), proteinuria (3,6% vs 0,0%), cefalea (2,2 vs 0,0%) di grado 3 e 4 e di ischemia cerebrovascolare (1,9 vs 0,0%). questi effetti collaterali, che sono stati causa frequente di interruzione del trattamento, possono essere in parte spiegati da un possibile effetto antiangiogenetico additivo di paclitaxel somministrato in modalità settimanale [42]. la combinazione di docetaxel alla dose di 100 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 105 f. montemurro bibliografia cardoso f, bedard pl, winer ep, pagani o, senkus-konefka e, fallowfield lj et al. international 1. guidelines for management of metastatic breast cancer: combination vs sequential single-agent chemotherapy. j natl cancer inst 2009; 101: 1174-81 giordano sh, buzdar au, smith tl, kau sw, yang y, hortobagyi gn et al. is breast cancer 2. survival improving? cancer 2004; 100: 44-52 nccn guidelines v 1.2010. disponibile online su: http://www.nccn.org/professionals/3. physician_gls/pdf/breast.pdf mouridsen h, gershanovich m, sun y, perez-carrion r, boni c, monnier a et al. phase 4. iii study of letrozole versus tamoxifen as first-line therapy of advanced breast cancer in postmenopausal women: analysis of survival and update of efficacy from the international letrozole breast cancer group. j clin oncol 2003; 21: 2101-9 nabholtz jm, buzdar a, pollak m, harwin w, burton g, mangalik a et al. anastrozole is 5. superior to tamoxifen as first-line therapy for advanced breast cancer in postmenopausal women: results of a north american multicenter randomized trial. arimidex study group. j clin oncol 2000; 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17: 2763-8 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3)106 problematiche attuali nel trattamento di i linea del carcinoma della mammella metastatico: focus sul ruolo di docetaxel chan s, romieu g, huober j, delozier t, tubiana-hulin m, schneeweiss a et al. phase iii 20. study of gemcitabine plus docetaxel compared with capecitabine plus docetaxel for anthracyclinepretreated patients with metastatic breast cancer. j clin oncol 2009; 27: 1753-60 nabholtz jm, senn hj, bezwoda wr, melnychuk d, deschênes l, douma j et al. prospective 21. randomized trial of docetaxel versus mitomycin plus vinblastine in patients with metastatic breast cancer progressing despite previous anthracycline-containing chemotherapy. 304 study group. j clin oncol 1999; 17: 1413-24 sjostrom j, blomqvist c, mouridsen h, pluzanska a, ottosson-lönn s, bengtsson no et al. 22. docetaxel compared with sequential methotrexate and 5-fluorouracil in patients with advanced breast cancer after anthracycline failure: a randomised phase iii study with crossover on progression by the scandinavian breast group. eur j cancer 1999; 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27: 4522-9 marty m, cognetti f, maraninchi d, snyder r, mauriac l, tubiana-hulin m et al. randomized 28. phase ii trial of the efficacy and safety of trastuzumab combined with docetaxel in patients with human epidermal growth factor receptor 2-positive metastatic breast cancer administered as first-line treatment: the m77001 study group. j clin oncol 2005; 23: 4265-74 miles d, chan a, romieu g, diéras v, glaspy j, smith i et al. randomized, double-blind, 29. placebo-controlled, of bevacizumab with docetaxel or docetaxel with placebo as first-line therapy for patients with locally recurrent or metastatic breast cancer (mbc): avado. proc am soc clin oncol 2008; 26: abstr lba1011 nabholtz jm, falkson c, campos d, szanto j, martin m, chan s et al. docetaxel and 30. doxorubicin compared with doxorubicin and cyclophosphamide as first-line chemotherapy for metastatic breast cancer: results of a randomized, multicenter, phase iii trial. j clin oncol 2003; 21: 968-75 bontenbal m, creemers gj, braun hj, de boer ac, janssen jt, leys rb et al. phase ii to iii 31. study comparing doxorubicin and docetaxel with fluorouracil, doxorubicin, and cyclophosphamide as first-line chemotherapy in patients with metastatic breast cancer: results of a dutch community setting trial for the clinical trial group of the comprehensive cancer centre. j clin oncol 2005; 23: 7081-8 bonneterre j, dieras v, tubiana-hulin m, bougnoux p, bonneterre me, delozier t et al. phase 32. ii multicentre randomised study of docetaxel plus epirubicin vs 5-fluorouracil plus epirubicin and cyclophosphamide in metastatic breast cancer. br j cancer 2004; 91: 1466-71 mavroudis d, papakotoulas p, ardavanis a, syrigos k, kakolyris s, ziras n et al. randomized 33. phase iii trial comparing docetaxel plus epirubicin versus docetaxel plus capecitabine as firstline treatment in women with advanced breast cancer. ann oncol 2010; 21: 48-54 sawada n, ishikawa t, fukase y, nishida m, yoshikubo t, ishitsuka h et al. induction of 34. thymidine phosphorylase activity and enhancement of capecitabine efficacy by taxol/taxotere in human cancer xenografts. clin cancer res 1998; 4: 1013-9 leonard r, o’shaughnessy j, vukelja s, gorbounova v, chan-navarro ca, maraninchi d et al. 35. detailed analysis of a randomized phase iii trial: can the tolerability of capecitabine plus docetaxel be improved without compromising its survival advantage? ann oncol 2006; 17: 1379-85 miles d, vukelja s, moiseyenko v, cervantes g, mauriac l, van hazel g et al. survival benefit 36. with capecitabine/docetaxel versus docetaxel alone: analysis of therapy in a randomized phase iii trial. clin breast cancer 2004; 5: 273-8 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2010; 4(3) 107 f. montemurro chiuri ve, silvestris n, lorusso v, tinelli a. efficacy and safety of the combination of docetaxel 37. (taxotere) with targeted therapies in the treatment of solid malignancies. curr drug targets 2009; 10: 982-1000 montemurro f, choa g, faggiuolo r, donadio m, minischetti m, durando a. a phase ii 38. study of three-weekly docetaxel and weekly trastuzumab in her2-overexpressing advanced breast cancer. oncology 2004; 66: 38-45 wardley am, pivot x, morales-vasquez f, zetina lm, de fátima dias gaui m, reyes do et 39. al. randomized phase ii trial of first-line trastuzumab plus docetaxel and capecitabine compared with trastuzumab plus docetaxel in her2-positive metastatic breast cancer. j clin oncol 2010; 28: 976-83 pegram md, konecny ge, o’callaghan c, beryt m, pietras r, slamon dj. rational 40. combinations of trastuzumab with chemotherapeutic drugs used in the treatment of breast cancer. j natl cancer inst 2004; 96: 739-49 miller k, wang m, gralow j, dickler m, cobleigh m, perez ea et al. paclitaxel plus bevacizumab 41. versus paclitaxel alone for metastatic breast cancer. n engl j med 2007; 357: 2666-76 jiang h, tao w, zhang m, pan s, kanwar jr, sun x. low-dose metronomic paclitaxel 42. chemotherapy suppresses breast tumors and metastases in mice. cancer invest 2010; 28: 74-84 clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 161 roberto manfredi 1 introduzione com’è noto da molti anni, l’epatite cronica da virus hcv ha un decorso spesso progressivo, che porta a seri danni epatici (ivi compresi cirrosi epatica, scompenso epatico ed epatocarcinoma), nonché a multiformi patologie sistemiche immunomediate connesse all’infezione da hcv. le più recenti formulazioni di interferone (interferone pegilato), in associazione con specifici farmaci antivirali per questo virus a rna (in primis, ribavirina), hanno inciso in misura altamente significativa sulla storia naturale dell’infezione cronica da hcv, portando a una completa guarigione in un numero relativamente alto di casi, o quanto meno riducendo e rallentando significativameninterferone pegilato, ribavirina e frequente terapia di supporto con fattori di crescita. quale patogenesi per una grave psoriasi che complica il trattamento dell’epatite cronica da hcv? abstract one of the most effective treatments for hcv and hbv infection is the combination of pegylated ifn-alpha and ribavirin. however, both ifn-alpha and ribavirin can induce hematologic toxicity, which can compromise treatment adherence and dose maintenance and could, therefore, influence outcomes. hematopoietic growth factors (e.g. filgrastim) can provide significant benefits in the treatment of this toxicity, but they can also exacerbate cutaneous psoriasis. we report a case of a 54-year-old woman with chronic, progressive hepatitis c, treated with long-term pegylated interferon plus ribavirin, associated with multiple cycles of filgrastim for a severe, recurring granulocytopenia. the patient developed an extensive and severe psoriasis, which improved only after specific treatment with cyclosporin. the case highlights the importance of treatment adherence and dose maintenance to obtain a sustained virologic response, and underlines the difficulties of the management of this disease when side effects, such as hematologic toxicity and psoriasis, are present. keywords: chronic hcv infection, peginterferon, ribavirin, filgrastim, adverse events, psoriasis, cyclosporin pegylated interferon, ribavirin, and frequent supportive therapy with growth factors. which pathogenesis for a severe psoriasis complicating the treatment of chronic hcv hepatitis? cmi 2009; 3(4): 161-169 1 dipartimento di medicina interna, dell’invecchiamento, e delle malattie nefrologiche,“alma mater studiorum” università degli studi di bologna, policlinico s. orsolamalpighi, bologna corresponding author prof. roberto manfredi e-mail: roberto.manfredi@ unibo.it caso clinico perché descriviamo questo caso? l’epatopatia hcv è una patologia estremamente diffusa, gravata da elevati indici di cronicizzazione, che tende a evolvere verso una malattia epatica progressiva dalla prognosi frequentemente sfavorevole. scopo del presente contributo è descrivere un caso infrequente di sviluppo di una severa, estesa forma di psoriasi cutanea in una paziente monoinfetta con hcv, che ha sviluppato per la prima volta questa importante complicazione in corso di trattamento con interferone pegilato e ribavirina, supportati dal frequente ricorso a fattori di crescita per i granulociti neutrofili (filgrastim) clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 162 interferone pegilato, ribavirina e frequente terapia di supporto con fattori di crescita te la progressione di malattia verso le fasi di epatopatia terminale, così come verso la cirrosi epatica franca, e le complicazioni neoplastiche epatiche [1,2]. sebbene abbiano ampiamente contribuito a incrementare la proporzione di pazienti con risposta virologica e clinica sostenuta (mantenuta nel tempo), le attuali dosi consigliate di peg-interferone e di ribavirina sono gravate con elevata frequenza da seri e talora intensi eventi indesiderati [1,3,4]. la mielotossicità rappresenta il motivo più comune di riduzione della posologia dei farmaci e/o del ricorso a terapie di supporto mirate a mantenere una conta leucocitaria, eritrocitaria e piastrinica sufficienti, e a evitare interruzioni della terapia antivirale o somministrazione dei farmaci a dosaggio ridotto per lunghi periodi, tutte condizioni che notoriamente influenzano in misura negativa l’esito finale della terapia antivirale dell’epatite cronica da hcv. inoltre, in sottogruppi di popolazione particolari, come quello composto da pazienti coinfetti con il virus hiv, i principali predittori di tossicità ematologica conseguente all’uso di peg-interferone e ribavirina per la terapia di una concomitante epatopatia cronica da hcv sembrano essere rappresentati dalla somministrazione concomitante dell’antiretrovirale zidovudina (azt), dalla compresenza di una malattia epatica avanzata (cirrosi), da un ridotto peso corporeo, e da livelli di emoglobina al baseline inferiori a 14 g/dl [4]; tali dati necessitano tuttavia di ulteriori conferme derivanti da ampie esperienze condotte su soggetti monoinfetti con il solo virus hcv. a causa di tali rischi di tossicità [3,5], fin dal 2005 le linee guida e le raccomandazioni di esperti sono state indirizzate a trattare le complicazioni ematologiche più frequenti conseguenti al trattamento dell’epatite c [6]; le indicazioni prevedono: un più rapido e “aggressivo” ricorso a y specifici fattori di crescita ematopoietici (es. eritropoietina in caso di anemia, e granulocyte colony-stimulating factor o filgrastim per la neutropenia); l’utilizzo di farmaci antidepressivi e any siolitici per la gestione di alcuni disturbi neuropsichici [3]; la prosecuzione della terapia anti-hcv y possibilmente mantenuta a posologia adeguata [3,7,8]. queste indicazioni mirano a massimizzare l’aderenza alla terapia, a prevenire le riduzioni di dosaggio degli antivirali, a migliorare gli indici di qualità di vita, e a incrementare il numero dei soggetti in grado di portare a termine il ciclo terapeutico con peg-interferone e ribavirina mantenendo i dosaggi più efficaci. in questo processo assistenziale, assumono una rilevante importanza una serie di implicazioni, ivi inclusi aspetti di tipo farmacoeconomico e regolatorio, poiché dati da studi randomizzati sull’impiego di fattori di crescita a diversi dosaggi e con diversi ritmi di somministrazione sono finora scarsi, e, soprattutto, la somministrazione di questi costosi fattori di crescita ematopoietici in pazienti senza malattia epatica avanzata (cioè una franca cirrosi epatica), continua a essere effettuata in regime off label [3,9]. nonostante la potente attività delle attuali combinazioni terapeutiche nei confronti dell’infezione cronica da hcv, gruppi selezionati di pazienti (quali soggetti con multiple coinfezioni epatiche, pazienti coinfetti con il virus hiv, e pazienti portatori di alcuni genotipi di virus hcv di più difficile gestione terapeutica, es. genotipi 1 e 4), restano a elevato rischio di ottenere indici di risposta più ridotti, e di essere destinati a una più elevata frequenza di recidive dopo aver completato il ciclo terapeutico. conseguentemente, il ri-trattamento con i farmaci attualmente a disposizione, o l’attesa di ulteriori risorse terapeutiche [2], sono, ad oggi, le soluzioni per i pazienti classificati come non-responder o relapser. infine, l’ottimizzazione della relazione medico-paziente può contribuire in misura significativa al buon esito di un trattamento impegnativo, quale quello per l’epatite cronica da hcv, e può giocare un ruolo cruciale nel far superare la maggior parte degli eventi avversi di natura psicosomatica e la necessità di sottoporsi a svariati controlli clinici e di laboratorio, e la frequente somministrazione di numerosi farmaci orali e parenterali, ivi compresi quelli indicati di volta in volta per la correzione e il controllo degli effetti indesiderati che derivano dai protocolli stessi di terapia anti-hcv [9,10]. scopo del presente contributo è descrivere un caso infrequente di sviluppo di una severa, estesa forma di psoriasi cutanea in una paziente monoinfetta con hcv, che ha presentato per la prima volta questa importante complicazione in corso di trattamento con interferone pegilato e ribavirina. il trattamento era inoltre supportato dal ricorso a fattori di crescita per i granulociti neutrofili (filgrastim), al fine di recuperare i recidivanti episodi di neutropenia indotta dalla terapia antivirale e di mantenere posologie efficaci clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 163 r. manfredi di ambedue gli antivirali. ciò perché la paziente aveva già manifestato episodi di fallimento di precedenti tentativi terapeutici anti-hcv e soffriva di un’epatopatia cronica a evoluzione cirrogena. il caso clinico viene discusso sulla base delle evidenze di letteratura disponibili, che riportano una ridotta incidenza di casi di psoriasi occorsi o esacerbati in soggetti affetti da epatopatie virali croniche (sia da virus hcv, sia da virus hbv ) in trattamento con regimi antivirali specifici, con o senza l’aggiunta di fattori di crescita ematopoietici. nel caso qui descritto la somministrazione concomitante di peg-interferone e ribavirina per il trattamento dell’epatopatia cronica da hcv e il ripetuto e prolungato ricorso all’impiego di filgrastim per la correzione della neutropenia, non consentono di individuare le specifiche responsabilità patogenetiche dei singoli composti nello sviluppo della grave forma di psoriasi che ha complicato il decorso clinico della paziente. caso clinico la paziente (54 anni al momento della nostra osservazione) aveva ricevuto nel passato molteplici trasfusioni di sangue ed emoderivati. a 47 anni, dopo un riscontro occasionale di persistenti alterazioni delle transaminasi sieriche e un primo esame sierologico risultato positivo per anticorpi antihcv, le era stata diagnosticata un’infezione cronica da hcv. l’anamnesi personale e familiare risultavano negative per psoriasi, e non coesistevano condizioni patologiche o iatrogene di immunodepressione. due anni più tardi, una biopsia epatica che portava a un esame istopatologico proprio di un’epatopatia cronica aggressiva, e la concomitanza di elevati livelli plasmatici di hcv-rna, suggerivano l’inizio di un primo ciclo terapeutico condotto con l’associazione interferone alfa più ribavirina, ciclo interrotto dopo quattro mesi, per lo più a causa del manifestarsi di leucopenia grave e ricorrente. un anno più tardi, nonostante il riscontro di indici di citolisi epatica relativamente più contenuti (got = 42 u/l, gpt = 45 u/l), la replicazione del virus hcv era ancora elevata (1.620 x 103 copie/ml), ma il test genotipico dimostrava un genotipo 1b di hcv (che notoriamente presenta indici di risposta meno favorevoli di altri). si optava pertanto per un periodico monitoraggio clinico, laboratoristico e ultrasonografico addominale. venti mesi dopo, la disponibilità delle formulazioni di interferone pegilato consentì di tentare un nuovo ciclo terapeutico antihcv, praticato con interferone pegilato alfa-2a 180 µg/settimana sc, in associazione a ribavirina 800 mg/die per os. nonostante molteplici, ripetuti episodi di significativa neutropenia e trombocitopenia, manifestatisi già nel corso del primo mese di trattamento (con un nadir della conta assoluta dei neutrofili ripetutamente inferiore a 750 cellule/µl), che accompagnavano il followup della paziente durante l’intero ciclo di terapia anti-hcv e portavano a frequenti aggiustamenti (riduzioni) di dosaggio e soprattutto alla somministrazione ripetuta di cicli di 2-5 giorni di filgrastim sc allo scopo di correggere la granulocitopenia, veniva raggiunto un virological success, come evidenziato da livelli non rilevabili di hcvrna dopo tre mesi (valore mantenuto in seguito), e da indici di citolisi epatica che raggiungevano e si mantenevano nell’ambito dei normali limiti di laboratorio. dopo il sesto mese di terapia, a causa della persistenza di mielotossicità, si decise di ridurre il dosaggio di peg-interferone a 135 µg alla settimana, mentre la posologia di ribavirina venne stabilmente aggiustata a 600 mg/die. nonostante tali riduzioni di dosaggio, si rendevano spesso necessari ulteriori e molteplici cicli terapeutici con filgrastim (di 2-3 giorni di durata ciascuno) per la correzione della persistente neutropenia (es. quando la conta assoluta dei neutrofili risultava inferiore a 750 cellule/µl). benché il ciclo di 12 mesi di interferone pegilato e ribavirina fosse stato completato con successo, a soli tre mesi di distanza la paziente presentò una recidiva virologica, espressa dall’incremento degli indici di replicazione di hcv (2.475 x 103 copie/ ml), associata a nuovo rialzo degli indici di citolisi epatica (got = 70 u/l, gpt = 86 u/l), mentre l’esame emocromocitometrico si manteneva nella norma. dopo la ricaduta, la donna continuò i monitoraggi clinici e laboratoristici periodici che, a distanza di 15 mesi dal termine del ciclo terapeutico antivirale, mostravano indici replicativi di hcv persistentemente elevati (hcv-rna plasmatico = 1.950 x 103 copie/ml), e transaminasi ancora alterate (got = 63 u/l, gpt = 63 u/l). sette mesi più tardi, previa biopsia epatica, fu realizzato un nuovo studio istopatologico, che evidenziava una progressione verso una cirrosi epatica di grado moderato-severo (score di knodell pari a 11), clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 164 interferone pegilato, ribavirina e frequente terapia di supporto con fattori di crescita valutata come franco peggioramento rispetto all’esame istopatologico risalente a circa quattro anni prima. a causa del decorso clinico-patologico sfavorevole, e nonostante la presenza di una malattia cronica da hcv di genotipo 1, che aveva recidivato dopo 12 mesi di apparente e momentanea risposta al trattamento, sette mesi dopo veniva concordato con la paziente un nuovo tentativo terapeutico con gli stessi farmaci già impiegati in precedenza: interferone pegilato alfa-2a 180 µg/settimana sc, più ribavirina 1.000 mg/die. ancora una volta, fin dalle prime settimane di terapia comparvero sia trombocitopenia (peraltro mai associata a segni di sanguinamento), sia, soprattutto, granulocitopenia. quest’ultima, per gravità e tendenza a recidivare, richiedeva ripetuti cicli di fattore di crescita granulocitario (filgrastim sc alla dose di 300 µg 2-3 giorni ogni due settimane nei primi tre mesi, fino a dosaggi di 300 µg due volte alla settimana, praticati a partire dal quarto mese di terapia anti-hcv, al fine di mantenere per quanto possibile inalterato il dosaggio pieno di peg-interferone e di ribavirina, i quali a loro volta agivano efficacemente e rapidamente sull’attività replicativa di hcv (hcv-rna = 675-956 copie/ml), e sulle transaminasi sieriche (got = 56-61 u/l, gpt = 43-76 u/l), sebbene nel corso di questo ciclo terapeutico non si raggiungessero né una completa negativizzazione della viremia di hcv, né una completa normalizzazione degli indicatori di citolisi epatica. all’inizio del quinto mese di terapia di associazione con peg-interferone e ribavirina (con frequente supporto di brevi cicli di filgrastim sc), facevano la loro comparsa numerose lesioni a forma di placche eritemato-desquamative, associate a moderato prurito, localizzate inizialmente al cuoio capelluto, dove venivano trattate con applicazioni locali di betametasone, con scarsa risposta clinica. entrando nel sesto mese di terapia antivirale per hcv, e ancora in assenza di una completa risposta virologica e degli indici di citolisi epatica, si manifestava un franco peggioramento delle lesioni cutanee a placche, che si estendevano rapidamente coinvolgendo il 75% della superficie cutanea, e richiedendo consulenze dermatologiche e biopsie cutanee, che confermavano, attraverso l’esame istologico, una grave forma di psoriasi. un mese più tardi, nonostante la terapia con interferone pegilato e ribavirina fosse stata interrotta al settimo mese del ciclo terapeutico, si rendeva ancora necessario somministrare filgrastim sc (300 µg, tre volte alla settimana), al fine di preparare la paziente a ricevere una terapia sistemica con ciclosporina, in quanto la granulocitopenia tendeva a persistere, come testimoniato da una conta assoluta di neutrofili persistentemente inferiore a 750 cellule/µl. in attesa della somministrazione di ciclosporina, e in corso di terapia di recupero con filgrastim, si presentava un ulteriore, significativo aggravamento del quadro psoriasico, che non rispondeva ad alcun trattamento locale e topico. anche una terapia corticosteroidea sistemica praticata temporaneamente (per due settimane) otteneva soltanto benefici limitati e molto transitori (agendo per lo più sul sintomo prurito), mentre si assisteva a un severo peggioramento delle lesioni cutanee disseminate (che coinvolgevano viso e capo, tronco, gomiti e arti, per un’estensione superiore al 75% della superficie corporea), subito dopo la sospensione della terapia steroidea. soltanto la somministrazione di ciclosporina a dosaggio pieno (400 mg/die, successivamente ridotto a 250 mg/die, per 6 giorni alla settimana), riusciva per la prima volta a ottenere una parziale remissione della psoriasi sistemica della paziente, che al terzo mese di follow-up era ancora caratterizzata da gravi manifestazioni cutanee disseminate, in assenza comunque di ulteriori complicazioni. nel frattempo, purtroppo, la concomitante epatopatia cronica da hcv non arrestava la sua evoluzione sfavorevole verso una franca forma di cirrosi epatica. discussione negli ultimi due decenni l’interferone, nelle sue varie forme, ha rappresentato un presidio ampiamente prescritto nella terapia sistemica delle epatiti croniche, di alcune neoplasie e di numerose altre condizioni patologiche. secchezza della cute, prurito, e soprattutto caduta temporanea dei capelli sono eventi indesiderati della sfera dermatologica ben noti nei soggetti sottoposti a terapia interferonica. per quanto concerne specificamente l’insorgenza o la slatentizzazione di psoriasi, i primi aneddotici report di letteratura di una possibile induzione o aggravamento di tale patologia dermatologica sono giunti alla nostra attenzione a partire dai primi anni ’90 (1993-1997) [11-19], epoca in cui l’interferone alfa non pegilato rappresentaclinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 165 r. manfredi va il composto di più largo impiego anche rispetto ad altri interferoni. in particolare veniva ampiamente somministrato nella terapia delle epatiti virali croniche da hbv e da hcv. dai casi riportati in letteratura sembra che l’eziologia della concomitante infezione cronica epatica b o c non giochi un ruolo nel provocare o nel riesarcerbare la psoriasi, e che il ruolo dell’interferone di per sé sia ampiamente preponderante, quando confrontato con quello di altri farmaci, come ribavirina (antivirale ampiamente somministrato ai pazienti con infezione cronica da hcv negli anni successivi; non sono riportati in letteratura casi di psoriasi apparentemente insorti in corso di trattamento con la sola ribavirina) [11-19]. alla metà degli anni ’90, alcuni autori hanno ipotizzato possibili reazioni autoimmuni come elemento patogenetico di supporto della comparsa o della slatentizzazione della psoriasi in soggetti con epatite virale cronica trattata con interferone e derivati [14], mentre alcune forme di psoriasi complicate da artrite (artropatia psoriasica) sono state attribuite a un’associazione diretta tra la somministrazione di interferone alfa e lo sviluppo di casi di artriti sieronegative [15-18]. in un caso particolare, un’oligoartrite associata a sacro-ileite sieronegativa, risultata negativa anche alla ricerca degli specifici antigeni hla, era complicata anche da coinvolgimento del rachide [18]. negli anni successivi (2000-2007) sono stati pubblicati altri report nella letteratura internazionale [20-26]; tutti vedevano coinvolti pazienti in trattamento per un’epatite cronica da hcv con interferone o con interferone pegilato più ribavirina, ed erano caratterizzati da un’evoluzione differente dopo interruzione della terapia ed eventuale rechallenge con gli stessi farmaci (ovvero, talora risoluzione della psoriasi dopo discontinuazione della terapia per l’epatite cronica da hcv, e più frequente riesacerbazione a seguito di un’eventuale rechallenge effettuato con i medesimi farmaci). alcuni degli autori di questi ultimi lavori hanno riconosciuto un simile potenziale anche per i derivati pegilati degli stessi interferoni, co-somministrati con ribavirina [22,24-26]; nella maggior parte dei questi episodi, la psoriasi migliorava o guariva a seguito dell’interruzione della terapia specifica anti-hcv, sebbene il decorso dell’epatite virale cronica risultasse per lo più sfavorevole, salvo in un caso [25], principalmente a causa della precoce comparsa delle lesioni cutanee psoriasiche, e della conseguente necessità di interrompere prematuramente l’intero trattamento con interferone-ribavirina, ben prima del completamento del ciclo terapeutico. dal punto di vista patogenetico, a differenza di altri autori che hanno invocato potenziali meccanismi immuno-mediati (anche nei casi in cui, insieme a una riesacerbazione di psoriasi, interveniva un pioderma gangrenosum) [26], yamamoto e collaboratori già nel 1995 avanzarono l’ipotesi che la stessa infezione cronica da hcv, ancora non sottoposta a trattamento specifico, possa essere implicata nell’agire da trigger della comparsa e/o della slatentizzazione della psoriasi, attraverso alcuni ipotetici meccanismi patogenetici immunomediati innescati dall’hcv stesso [27], limitando in tal modo il presunto nesso causale con la somministrazione di interferone e di altri antivirali. d’altro canto, nello stesso anno e sulla stessa rivista scientifica (acta dermo-venereologica), rahamimov e colleghi affermavano che una pregressa diagnosi di psoriasi non era da considerare una controindicazione per la terapia interferonica in corso di epatopatia cronica da hcv [28], contribuendo in tal modo a rendere ancor meno certi i nessi epidemiologici, patogenetici e clinici tra queste evenienze patologiche nella comune pratica clinica, e sottolineando indirettamente la stringente necessità di compiere ulteriori ricerche in tale campo, che ancora presenta numerose questioni rimaste prive di risposte. d’altra parte, un ulteriore, singolo case report pubblicato nello stesso anno, sottolineava il ruolo dell’interferone pegilato alfa-2b nell’indurre un’estesa psoriasi de novo, insorta dopo le prime quattro settimane di trattamento di un’epatite cronica da hbv (non da hcv ) [29]. in quest’ultimo episodio, la psoriasi scompariva definitivamente dopo l’interruzione del trattamento, cosicché il ruolo giocato dal peg-interferone di per sé sembrava superare quello dell’epatopatia cronica virale di base nel condizionare la comparsa di questa seria affezione dermatologica. un caso analogo era stato osservato un anno prima: una ragazza di 10 anni, trattata con interferone alfa-2a per un’epatite cronica da hbv, aveva manifestato la comparsa contemporanea di psoriasi e di vitiligine, che in tale caso non erano regredite dopo l’interruzione del trattamento interferonico [30]. a complicare ulteriormente questi elementi eziologici e patogenetici, resta da considerare con la massima attenzione il ruolo dei fattori di crescita ricombinanti, e in particolare di quello più largamente usaclinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 166 interferone pegilato, ribavirina e frequente terapia di supporto con fattori di crescita to in questo campo, nonché nella paziente da noi descritta, ossia il recombinant human granulocyte colony-stimulating factor (hug-csf). infatti, sebbene due report di letteratura abbiano descritto casi aneddotici di pazienti neoplastici che hanno sofferto di forme di psoriasi estese e complicate, o casi di esacerbazione di psoriasi pustolosa palmo-plantare intervenuti dopo la somministrazione di trattamenti a base di rhugcsf (filgrastim o lenograstim) [31,32], c’è un’evidenza contrastante pubblicata da hino e colleghi, che hanno osservato addirittura un’attività apparentemente favorevole di filgrastim su un caso inveterato di pustolosi palmo-plantare, probabilmente attribuibile anche alla concomitante correzione della conta dei leucociti e dei granulociti, indotta dallo stesso fattore di crescita [33]. nei soggetti affetti da un’epatopatia virale cronica, la comparsa, la slatentizzazione, o un apparente peggioramento di un quadro clinico di psoriasi in pazienti trattati contemporaneamente o a cicli con peg-interferone associato a ribavirina e spesso a fattori di crescita leucocitari ricombinanti, resta a nostro avviso un evento di interpretazione patogenetica estremamente complessa: da ciò derivano inevitabili perplessità sul versante terapeutico e preventivo. conclusioni e questioni aperte il caso clinico qui descritto, ancorché rappresenti un’evenienza infrequente, solleva una serie di questioni intriganti e ancora irrisolte in questo campo: il ruolo giocato dall’interferone (o dai y derivati pegilati dell’interferone) e dall’associazione con ribavirina nella comparsa, nella slatentizzazione, o nella riesacerbazione della psoriasi nelle epatiti virali croniche; il ruolo delle epatiti croniche concomiy tanti (da virus hcv o da virus hbv ) in tale contesto; gli eventuali rischi di sviluppo o slatentizy zazione di psoriasi in soggetti sottoposti a terapia interferonica per un ampio spettro di patologie diverse dalle epatiti virali croniche; l’intervallo temporale che precede la comy parsa di tale complicanza dermatologica; l’esistenza di indicatori di intensità, duy rata, e tendenza alla risoluzione di questa potenzialmente grave affezione cutanea e sistemica una volta sospesa la terapia interferonica; la valutazione del rapporto costo/beneficio y per decidere se e come sottoporre a trattamento specifico pazienti con epatite virale cronica evolutiva con anamnesi personale o familiare di psoriasi; l’eventuale ruolo patogenetico e clinico y connesso all’aggiunta in terapia di fattori di crescita ricombinanti (es. filgrastim nel caso descritto); il y management complessivo, sia dermatologico, sia epatologico, di questi pazienti del tutto peculiari. sulla base della letteratura scientifica finora disponibile (che al momento si fonda per lo più su casi singoli, aneddotici, descritti retrospettivamente), sembra fortemente necessario il ricorso a studi approfonditi al fine di chiarire e sistematizzare la frequenza, le caratteristiche cliniche, la durata e l’esito dei casi di psoriasi, che insorgono, si slatentizzano, o si riesacerbano in pazienti trattati per epatopatie virali croniche, con attenzione focalizzata anche sulle conseguenze a carico delle malattie epatiche stesse e del loro trattamento. nuove conoscenze patogenetiche possono significativamente tradursi, sul versante assistenziale, in tangibili proposte per la prevenzione e la gestione complessiva di queste complicazioni dermatologiche acute o invalidanti, di cui si attende un inevitabile incremento di incidenza complessiva, parallelamente all’incremento delle indicazioni all’uso terapeutico degli interferoni (pegilati e non), e del numero dei soggetti con epatopatie croniche esposti a peg-interferone, ad altri agenti antivirali, e a fattori di crescita ricombinanti (filgrastim, lenograstim e simili). riguardo il management della psoriasi in questi particolari pazienti, gli specialisti dermatologi devono essere coinvolti quanto più precocemente possibile al fine di [34]: individuare fattori di rischio nel singolo y paziente, di ottenere una diagnosi precoce (possibilmente associata a conferma istopatologica); prendere in considerazione eventuali diay gnosi differenziali in pazienti con infezione cronica da hcv che ricevono terapie farmacologiche multiple e hanno frequenti co-morbidità (es. infezione da hiv ); di controllare periodicamente tali soggetti y in corso di trattamento e nel tempo. secondo le evidenze al momento disponibili, anche nei pazienti con infezione da clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 167 r. manfredi hcv risultati affetti da una psoriasi di nuova diagnosi o con una riesacerbazione di malattia psoriasica, in caso di mancata risposta alle terapie locali e topiche, ciclosporina sembra un trattamento adeguato, sebbene con tempi e modalità di somministrazione che vanno individualizzati su ciascun singolo paziente, caso di malattia, e sua evoluzione, come recentemente commentato da imafuku e colleghi [35]: la terapia con ciclosporina, come nel caso da noi presentato, è in genere efficace e ben tollerata, in confronto con un trattamento steroideo sistemico. in ogni caso, anche i composti di nuova generazione (quali etanercept) appaiono promettenti in un prossimo futuro, poiché agiscono sulla componente attivata del tumor necrosis factor-alpha (tnf-alfa), che sembra presentare un ruolo rilevante nella patogenesi e nella clinica della stessa malattia cronica da hcv complicata da psoriasi [36]. recentemente, un uomo con coinfezione da hcv e da hiv, che presentava un’artropatia psoriasica risultata refrattaria a ciclosporina a e a metotrexate, è stato trattato con successo con etanercept, molecola che sta guadagnando un forte razionale per una gestione clinica efficace di queste associazioni patologiche [36]. punti chiave l’epatopatia hcv è una patologia estremamente diffusa, gravata da elevati indici di y cronicizzazione, e di evoluzione verso una malattia epatica progressiva dalla prognosi frequentemente sfavorevole (cirrosi epatica, epatocarcinoma) l’introduzione delle formulazioni pegilate degli interferoni, unitamente all ’impiego di y una terapia antivirale specifica (ribavirina), ha radicalmente migliorato le aspettative terapeutiche di tali pazienti che, se trattati con dosaggi appropriati e mantenuti nel tempo, possono eradicare l ’infezione in una proporzione di casi fino ad alcuni anni fa inimmaginabile l’interferone, come immunomodulatore, è notoriamente in grado di innescare patologie y immuno-mediate e autoimmuni (es. tiroiditi) la stessa epatopatia cronica da hcv è gravata da un’elevata frequenza di complicazioni y immunomediate (es. crioglobulinemia) l’interferone nelle sue diverse formulazioni sta espandendo le sue indicazioni terapeutiy che in diverse aree della medicina, e sarà di necessità un farmaco di impiego sempre più frequente la psoriasi (frequente patologia dermatologica) può essere innescata, slatentizzata, o riey sacerbata dalla somministrazione di interferone nelle sue diverse formulazioni anche altri farmaci, tra cui i fattori di crescita di frequente impiego nei pazienti con miey lotossicità indotta dalla stessa terapia interferonica, si sono dimostrati coinvolti nell ’induzione o nella riesacerbazione di gravi forme di psoriasi le difficoltà di trattamento di una psoriasi insorta in corso di trattamento interferonico, y antivirale, spesso supportato dalla somministrazione di fattori di crescita, possono essere notevoli, e spesso si impone l ’interruzione della terapia interferonica o anche solo la sua riduzione di posologia, con inevitabili conseguenze sfavorevoli sul trattamento della malattia di base (epatite cronica da hcv, nel nostro caso) un’adeguata anamnesi personale e familiare relativamente ad antecedenti di psoriasi, y deve essere condotta in ogni paziente candidato alla terapia interferonica, soprattutto se affetto da epatopatia cronica da hcv la collaborazione tra internista, epatologo, infettivologo, e dermatologo, è indispensabile y per un rapido inquadramento diagnostico e terapeutico, e per la gestione delle complesse interrelazioni tra le patologie in causa e i relativi trattamenti farmacologici sul versante dermatologico, nei casi non responsivi a terapie topiche e locali, anche la cicloy sporina può sortire un ruolo efficace, ivi compresi i pazienti con epatopatia cronica hcvcorrelata sottoposti a terapia con interferone clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 168 interferone pegilato, ribavirina e frequente terapia di supporto con fattori di crescita bibliografia simin m, brok j, stimac d, gluud c, gluud ll. cochrane systematic review: pegylated 1. interferon plus ribavirin vs. interferon plus ribavirin for chronic hepatitis c. aliment pharmacol ther 2007; 25: 1153-62 degertein b, lok as. update on viral hepatitis: 2007. 2. curr opin gastroenterol 2008; 24: 306-11 thevenot t, di martino v, lunel-fabiani f, venlemmens c, becker mc, bronowicki jp et 3. al. complementary treatments of chronic viral hepatitis c. gastroenterol clin biol 2006; 30: 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un fatto che tutti considerano “evidente”. la capacità di relazionarsi in modo adeguato con il proprio assistito non include soltanto una comunicazione chiara, né unicamente l’ascolto delle esigenze specifiche espresse dal malato, né solo la raccolta anamnestica, essenziale per indirizzare il percorso diagnostico e terapeutico, ma implica anche la consapevolezza del fatto che si tratta di una relazione, appunto, non esente da dinamiche di potere, da aspettative reciproche, e che coinvolge due soggettività, due soggetti, di cui uno è portatore di una domanda di cura non sempre così chiaramente espressa. questa relazione è cruciale per garantire quella che viene definita la compliance del paziente. la problematicità della relazione con il paziente diviene tanto più marcata nel momento in cui il medico si trova di fronte a cittadini provenienti da paesi extracomunitari, migrati, rifugiati, ecc, soggetti sempre più presenti nelle grandi città così come nei piccoli centri. la presenza dei migrati fa emergere numerose problematiche, non soltanto dal punto di vista sociale, ma anche in una prospettiva assistenziale, in ambito socio-sanitario; certamente, infatti, essi sono portatori di un disagio reale e psicologico, che non è riconducibile solamente alla “nostalgia”. alcuni dei problemi che il medico incontra nella risposta al paziente migrato (o rifugiato, ecc) possono derivare dalla difficoltà complessiva di comunicazione con il paziente, intendendo con questo non soltanto quelle dovute alla scarsa conoscenza della nostra lingua (che sovente questi pazienti, al contrario, padroneggiano piuttosto bene), ma anche quelle scaturite dai differenti codici espressivi e dalle diverse concezioni di salute e malattia. può inoltre accadere che il medico si “avvicini troppo” al paziente o che lo assecondi totalmente, cercando di soddisfare alla leteditoriale 1 psichiatra, asl3, torino corresponding author dott.ssa ivana nannini nannini.to@libero.it alcuni fattori che influenzano la salute dei pazienti immigrati problema della lingua diverse abitudini alimentari assenza di supporto familiare allargato, separazione dai figli, frammentazione del nucleo famigliare clima diverso degrado abitativo difficoltà dell ’accesso ai servizi sanitari, specie nei centri non metropolitani mancanza di lavoro e di reddito o sottoccupazione in lavori rischiosi e non tutelati grande investimento emotivo nel progetto migratorio che si scontra con le difficoltà reali aspettative economiche dei famigliari rimasti nel paese d ’origine assimilazione massiva della cultura ospitante o atteggiamento troppo difensivo           clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 52 editoriale tera tutte le esigenze espresse, o immaginate, del paziente, senza riuscire a conservare quella giusta distanza che consente una corretta relazione di cura. così facendo, potrebbe anche accadere di trascurare alcune patologie, poco comuni in italia, ma frequenti nei paesi di origine. la complessità della relazione con questo paziente “altro”, diverso, può condurre, come risultato, a una scarsa compliance del malato ai trattamenti: infatti talvolta i soggetti migrati “rispondono” non recandosi agli appuntamenti successivi alla prima visita o non eseguendo alcuni esami prescritti, in modo apparentemente incomprensibile per il medico italiano, il quale si trova spesso impreparato, o perplesso, con il dubbio di non avere gestito questi malati nel modo più adeguato. la descrizione di un caso esemplificativo può essere utile per chiarire questa complessità. la consultazione di una signora marocchina presso il proprio medico di base la signora a.f., 38 anni, di origine marocchina, si reca presso il proprio medico di base (presso cui risulta regolarmente iscritta) a causa di gastropatie, coliche, dolori addominali e occasionale vomito mattutino, tutti sintomi di cui soffre da qualche tempo. si prepara per questa visita fin dal mattino e si veste in modo tradizionale, cosa che di solito non fa quando svolge il suo lavoro di badante. appena entrata in studio, la donna dice subito al medico di avere pochissimo tempo, perché deve tornare subito al lavoro. riferisce al medico, in un discreto italiano parlato velocissimo, tutti i sintomi gastrointestinali (vomito, coliche, ecc) e anche di aver dormito molto poco ultimamente, con un sonno disturbato da incubi, e di sentirsi molto stressata e stanca. il medico asseconda la fretta della malata, concludendo rapidamente la visita e prescrivendo analisi di routine, gastroscopia e un blando ipnoinduttore in gocce. invita quindi la paziente a ripresentarsi la settimana successiva. dopo due mesi a.f. ritorna presso lo studio del suo medico di base, accompagnata però da una volontaria, membro di un gruppo di sostegno per donne migranti: consegnano gli esiti degli esami prescritti a suo tempo dal medico. gli esami stupiscono sfavorevolmente il medico, che domanda alla paziente come mai abbia atteso tanti giorni a ripresentarsi. la volontaria riferisce che a.f. vive in condizioni terribili e che lavora moltissime ore al giorno senza sosta e alla sera è distrutta; quando l’hanno incontrata, non solo le condizioni fisiche della paziente erano scadenti, ma la donna viveva in un’abitazione in degrado, quasi in uno stato di abbandono, e la sua alimentazione era quasi interamente composta da cibi in scatola. dagli esami emerge infatti che la donna è affetta da anemia e da una gastrite grave. inoltre, sempre dal racconto della volontaria, il medico apprende la difficile situazione famigliare in cui si trova a.f.: i figli vivono in marocco e il marito vuole divorziare. la donna, con scolarità media, lavora come badante in una grande città del nord in cui risiede ormai da diversi anni con regolare permesso di soggiorno. la sua attività consiste nell’assistenza a un malato terminale anziano, lavoro molto faticoso sia dal punto di vista fisico che emotivo e che spesso finisce per prolungarsi ben oltre l’orario concordato inizialmente. la signora si trova inoltre in una difficile situazione economica, poiché invia regolarmente denaro ai figli, ma deve anche sostenere pesanti condizioni locative. a.f. è pertanto provata dal punto di vista psicologico, così come da quello economico, e si è progressivamente isolata: all’ansia derivante dal trovarsi in una situazione di lavoro faticosa e al contempo precaria, si assomma la difficoltà reale in cui vive, in un paese straniero, lontana dai propri famigliari e in una cultura così differente dalla propria, dovendo comunque garantire un aiuto economico ai figli. il medico, rendendosi conto, grazie ai racconti della volontaria, dei problemi psicologici e della necessità di sostegno di a.f., la indirizza a un servizio territoriale, dove una psicologa l’ascolterà per aiutarla. la donna non troverà però gratificante il rapporto con la psicoterapeuta che, a suo dire, “non la capisce”, così preferirà orientarsi verso un’altra associazione che le è stata segnalata dalla prima, in cui può incontrare anche altre donne del suo stesso paese, sede in cui stabilisce delle relazioni positive e progressivamente migliora (riesce a dormire e ad avere cura della casa). la prima associazione l’aiuta inoltre a risolvere i problemi burocratici legati alla sua situazione (il rinnovo del permesso di soggiorno, la ricerca di un nuovo lavoro in clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 53 i. nannini seguito al decesso del primo anziano da lei assistito, la stipulazione di un contratto di lavoro regolare, ecc.) e l’accompagna anche dal medico di base per proseguire la cura della gastrite e dell’anemia. osservazioni il caso descritto consente di evidenziare i molteplici problemi che si possono celare dietro alla richiesta di visita medica da parte un immigrato, e in particolare di una donna migrata. la visita medica si rivela cruciale, sia come momento di segnalazione di un malessere (che, benché fisico, è in realtà dovuto a molteplici motivazioni), sia come inserimento del soggetto dentro a una “rete di senso” che riconferisce valore alla sua persona, alla sua identità, anche come donna, pur se come portatrice di sofferenza, cioè “al negativo”. pertanto, il fatto che il primo consulto si sia concluso in modo così veloce, con una quasi automatica richiesta di esami da parte del medico di base, è indicativo della difficoltà che i medici incontrano ad affrontare situazioni di questo tipo in modo non medicalizzante. sarebbe certamente stato più utile invitare la donna a dedicare a se stessa più tempo, almeno quello di una visita medica. il desiderio di assecondarla, nella sua fretta, ha impedito al professionista di conoscere la situazione complessiva della paziente che avrebbe rivelato, forse, quali fossero le sue reali condizioni di vita, consentendo al medico di valutare in modo più opportuno le fonti di ansia e di depressione che potevano aver innescato anche le manifestazioni fisiche di malattia. molti immigrati, infatti, si trovano in situazioni di abbandono, di isolamento, di lavoro precario, ma anche in condizioni di sfruttamento o di forte soggezione, che possono essere indagate dal medico se egli si pone in una condizione di “giusta distanza” dal paziente. in pratica è utile dedicare più tempo e attenzione al racconto del malato, non solo per raccogliere le informazioni anamnestiche in modo “scientifico”, ma anche per raccogliere elementi sulla condizione complessiva (famiglia, ambiente lavorativo e sociale, ecc) oltre che sul vissuto dell’individuo in merito al proprio progetto migratorio. da non sottovalutare, inoltre, altri aspetti: accade spesso che il malato stesso non conosca i propri diritti nei confronti delle prestazioni erogate dal sistema sanitario nazionale e che quindi abbia difficoltà a eseguire gli esami prescritti dal medico o ad acquistare i farmaci poiché non sa se deve pagarli o meno. il medico, pertanto, potrebbe essere un punto di riferimento anche per fornire un supporto in tal senso. peraltro alcuni pazienti hanno resistenza verso certi esami, per fattori da indagare volta per volta, correlati a elementi culturali o di genere. il caso descritto evidenzia un altro elemento importante: per molti di questi pazienti si rivela cruciale l’aiuto offerto dalle associazioni. è quindi essenziale sottolineare l’importanza di un lavoro comune, di una rete integrata tra associazioni di volontariato, mediatori culturali, servizi sociali e medici di base. dal canto loro i medici di famiglia, come emerge da numerosi interventi sull’argomento e dall’attenzione che vi è dedicata anche all’interno di congressi, desiderano una maggiore informazione e formazione che consenta loro di far fronte alle problematiche legate ai pazienti immigrati. inoltre sarebbe utile dotare i medici di una serie di informazioni sulle associazioni e sulle strutture esistenti sul territorio (ad esempio tramite la distribuzione di opportuni opuscoli informativi, da fornire ai migrati stessi al momento della visita). certamente la rete dei servizi in risposta ai soggetti migrati, rifugiati, richiedenti asilo, minori migrati soli, ecc, comprendenti i centri d’accoglienza e informazione (non quelli di accoglienza temporanea!), di ascolto e di orientamento, è in gran parte ancora da costruire e si presenta frammentata, anche se molto si sta facendo. nella prospettiva transculturale, che è quella che ci troviamo a vivere quotidianamente, è perciò auspicabile che il medico di base, punto di riferimento eletto, scelto dal paziente, divenga sempre più capace di cogliere nel proprio assistito migrato quei segni di difficoltà, oggetto della domanda d’aiuto e di cura, ascoltandolo in modo adeguato, alla dovuta distanza. il ruolo del medico di base, nella piena consapevolezza della complessità dei problemi della migrazione, è innegabilmente cruciale e va dunque anche ben oltre una funzione squisitamente “scientifica”, poiché la medicalizzazione dei bisogni non è la migliore risposta alla domanda di cura. clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 99 carlo ciglia 1 l’educazione terapeutica in ambito cardiovascolare le degenze medie dei circa 100.000 casi di infarto miocardico acuto che si verificano ogni anno in italia si sono estremamente contratte (nei casi non complicati 5-7 giorni) grazie a un atteggiamento aggressivo (trombolisi, angioplastica) e a una migliore organizzazione, che hanno drasticamente ridotto la mortalità ospedaliera. ma questo, paradossalmente, non migliora gli esiti a distanza, come dimostrano i dati degli studi euroaspire, che continuano a segnalare lo scarso controllo dei fattori di rischio e la non soddisfacente aderenza alle terapie prescritte nel post-infarto [1]. sullo scenario delle malattie cardiovascolari in italia pesano inoltre circa 1.000.000 di pazienti con scompenso cardiaco, sottoposti ad “affollate” terapie farmacologiche e spesso costretti a ripetuti nuovi ricoveri ospedalieri. gli entusiasmanti progressi in cardiologia – tecniche interventistiche su coronarie e valvole, nuove protesi, pacemaker sofisticati, defibrillatori impiantabili, device bridge al cardiotrapianto – hanno dilatato i campi di applicazione e migliorato la prognosi delle malattie cardiovascolari. ma, a differenza di altri ambiti medici (diabetologia, nefrologia, onco-ematologia, pneumologia), la ricerca dell’alleanza terapeutica col paziente in cardiologia non ha trovato altrettanto puntuale applicazione e si avverte come non trascurabile la necessità di limitare derive tecnologiche che potrebbero pesare negativamente sulla qualità di vita dei malati. si tratta di recuperare le radici antropologiche della medicina: una prassi che applica verità scientifiche per il bene del paziente. in questa prospettiva trova la sua migliore collocazione l’educazione terapeutica, definibile come «un atto terapeutico continuo, caratterizzato da: accompagnare, mettersi insieme, nella malattia cronica, per contrattare, concordare […] la realizzazione di interventi possibili, finalizzati al raggiungimento del massimo risultato clinico e della migliore qualità di vita percepita per ogni paziente» [2]. disciplina insegnata in molte università europee, nell’iter formativo del medico e di altri operatori della salute, ha trovato in italia illustri pionieri a padova: renzo marcolongo e leopoldo bonadiman, in onco-ematologia e in medicina generale [3]. in ambito cardiologico il gruppo italiano di cardiologia riabilitativa e preventiva (gicr-iacpr), soprattutto con l’area psicologi, si sta facendo carico di sviluppare questo approccio, estensibile alle strategie della prevenzione [4]. «se ogni malato è di fatto sempre obbligato ad imparare a gestire la sua malattia, allora chi lo cura è di fatto sempre tenuto ad insegnargli come farlo, a condizione che entrambi lo facciano con competenza» [3]. quest’ultima presuppone un percorso, una formazione, purtroppo non reperibile nell’usuale curriculum dei medici e degli specialisti. è basilare una riflessione sull’idea stessa di malattia, ancora fortemente connotata dalla visione positivistica: deviazione dalla norma di parametri biologici, da classificare (disease), trascurando il vissuto del paziente (illness) per una pretesa oggettività e lasciando sullo sfondo i riflessi familiari e sociali della stessa (sickness). l’attuale modello bio-psico-sociale della malattia ha illustri referenti in ambito editoriale 1 responsabile del reparto di cardiologia riabilitativa e preventiva casa di cura “villa pini d’abruzzo” chieti corresponding author dott. carlo ciglia carciglia@libero.it clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 100 editoriale medico e filosofico (weizsacker, jaspers, gadamer, pellegrino): malattia non come incidente di percorso, da cancellare al più presto, ma come una “chance”, una possibilità che la vita dà a se stessa per comprendersi. un’idea diversa di salute, come stato intermedio della vita dell’uomo in continua trasformazione, per raggiungere un punto ulteriore, di livello più alto, che indica qual è la direzione del nostro arco vitale (weizsacker). quindi un’opportunità per introdurre correzioni, cambiamenti, spesso in momenti di svolte biografiche [5]. è evidente quanto ciò sia rilevante anche in prevenzione primaria, per soggetti portatori di fattori di rischio cardiovascolare (fumo, obesità, ipertensione, diabete, dislipidemie) così strettamente legati allo stile di vita e ancora così rilevanti dopo un evento acuto: infarto miocardico acuto o intervento cardiochirurgico (prevenzione secondaria). le paternali dei medici ancora oggi si concludono con frasi tipo «mi raccomando i farmaci… e la correzione dei fattori di rischio, ovviamente!», come se dall’esperienza della malattia acuta scaturisse automaticamente un radicale mutamento della vita precedente. è evidente il fallimento di questo tipo di approccio prescrittivo nella gestione della fase cronica della malattia. il counselling motivazionale, nella sua forma breve (di ascendenza e diffusione anglosassone) [6,7], si propone come strumento dell’educazione terapeutica (culturalmente legata alla francia), ma da considerare come pezzi complementari di un unico puzzle: quello dell’educazione alla salute. è «un intervento volontario e consapevole, basato su abilità di comunicazione e di relazione» [8], nei processi decisionali del paziente. si tratta di lavorare con i pezzi che porta il paziente per costruire un percorso condiviso [6]. se si immagina di “calare” questa modalità nell’incontro con un sopravvissuto a un infarto miocardico acuto, evento giunto improvvisamente nella sua biografia, si capisce che «non è possibile scorporare la comunicazione dall’intervento di cura per affidarla ad altri» [9]. la complessità del comportamento comunicativo, che usa i canali del verbale e del non verbale (intonazionale, paralinguistico, cinesico), include la capacità di ascoltare, di chiedere, di rispondere, anche emotivamente (non è proibito al medico!) e di informare/educare [10]. tutto questo non è appannaggio esclusivo dello psicologo, ma è richiesto a ogni operatore impegnato in attività sanitarie e sociali (counselor). la tecnica del role playing, con l’uso della telecamera per la ripresa e la successiva analisi di incontri medico-paziente, veri o simulati, si è rivelata un ottimo e rapido strumento didattico nella formazione del counselor, perché consente di cogliere errori e criticità [11]. nella nostra esperienza con i cardioperati la giusta valorizzazione dell’aspetto biografico si sostanzia nel chiedere la narrazione del percorso che ha portato all’intervento. ascoltandola e guidandola otteniamo la “diagnosi educativa” del malato che abbiamo di fronte. la buona comunicazione è scomoda: «rinuncia a seguire il proprio filo logico, per accogliere la logica estranea del paziente» [9]. chiedendoci/chiedendogli: «chi è? che ha? che cosa sa e che cosa fa della sua malattia? che progetti ha?» [3], avremo la più attendibile piattaforma scientifica per una accurata diagnosi e per impostare la migliore terapia, non solo farmacologica, con il suo coinvolgimento. la multiprofessionalità presente nell’ambito della cardiologia riabilitativa (oltre al cardiologo, lo psicologo, il fisioterapista, l’infermiere dedicato) consente un approccio “olistico” alla malattia. i periodici incontri di gruppo con i malati e con i loro familiari, partendo dalle loro domande sui fattori di rischio, sugli elementi peculiari delle varie patologie, sull’alimentazione e sull’attività fisica e lavorativa, diventano un punto di riferimento nella gestione della cronicità. stupisce riscontrare ancora molte resistenze e poca diffusione per questo “moderno” tipo di approccio terapeutico in cardiologia, che tra l’altro ha documentato un ottimo rapporto costo/beneficio [4]. le risorse ancora troppo sbilanciate sulla fase acuta della malattia e una visione ancora troppo ospedalocentrica penalizzano queste nuove “visioni” presso i decisori del mondo della sanità, medici inclusi. occorre dotarsi di un’ottica nuova, che comprenda un’altra domanda: perché il medico non cambia? la sua formazione deve essere rivisitata. per curare al meglio bisogna «usare proprietà chimicobiologiche e culturali; avere a disposizione più riferimenti (farmacologici, etici, genetici, antropologici, biologici) cioè più logiche, più risorse, inclusi i mondi personali del malato e del medico» [12]. clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 101 c. ciglia bibliografia kotseva k, wood d, de backer g, de bacquer d, pyörälä k, keil u; euroaspire study 1. group. euroaspire iii: a survey on the lifestyle, risk factors and use of cardioprotective drug therapies in coronary patients from 22 european countries. eur j cardiovasc prev rehabil 2009; 16: 121-37 carboni l. strumenti educativi: creatività ed efficacia. 2. giornale italiano di diabetologia e metabolismo. atti 3° congresso roche patient care. villa erba (como), 2000 marcolongo r, bonadiman l, rossato e, belleggia g, tanas r, badon s et al. curare “con” il 3. malato. l’educazione terapeutica come postura professionale. torino: edizioni change, 2006 assr agenzia per i servizi sanitari regionali. linee guida nazionali su cardiologia riabilitativa 4. e prevenzione secondaria delle malattie cardiovascolari. assr: 2005 tolone o. la malattia immortale. nuovo pensiero e nuova medicina fra rosenzweig e weizsacker. 5. teoria 2008; 1: 235-42 miller wr, rollnick s. il colloquio motivazionale. trento: erikson, 2004 6. butler c, mason p, rollnick s. cambiare stili di vita non salutari. strategie di counseling 7. motivazionale breve. trento: erikson, 2003 bert g. per un miglior rapporto tra medico e malato: un traguardo possibile. 8. recenti progressi in medicina 2006; 97: 548-55 quadrino s. il professionista sanitario e la comunicazione: storia di un amore difficile. 9. janus 2006; 23 sommaruga m. comunicare con il paziente. roma: carocci faber, 2005 10. moja e, vegni e. la visita medica centrata sul paziente. milano: raffaello cortina, 2000 11. cavicchi i. le metamorfosi nella medicina: tra ipotesi e libertà. in: aa.vv. l’educazione come 12. terapia a cura di s.spinsanti. roma: esseditrice, 2001 clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues � adriano pessina 1 la relazione con il paziente terminale nella medicina contemporanea sono stati molto valorizzati i temi della comunicazione con il paziente, della corretta informazione, del rispetto della sua autonomia decisionale, anche se tutto ciò si è spesso risolto in termini puramente procedurali, dando vita a moduli di consenso informato, più o meno standardizzati, che, con il tempo, si sono mostrati per quello che sono: una forma di delega di responsabilità che tutela giuridicamente il medico e lo mette al riparo – in parte – da quei contenziosi che derivano dall’aumentata pratica di una medicina pensata in termini eminentemente contrattualistici. non tutte le informazioni si possono fornire con un pezzo di carta e ci sono notizie che i medici amano dare di persona: sono quelle che sanciscono un risultato sperato. ma ci sono notizie che sono difficili da comunicare: sono quelle che riguardano il fallimento di un intervento, o che annunciano la possibilità di una morte più o meno imminente. il dovere di dire la verità al paziente sembra, in questi casi, incontrare molti ostacoli, che si materializzano in vari interrogativi: a chi tocca parlare, come lo si deve fare, quando lo si deve fare. e anche se esistono vari suggerimenti psicologici che possono aiutare il medico ad attuare una corretta comunicazione, il problema resta. se, infatti, osserviamo attentamente la situazione, ci rendiamo facilmente conto di come queste domande abbiano, spesso, sullo sfondo, una inconfessata finalità: “liberarsi” al più presto da un’incombenza sgradevole. fare bene, certo, ma soprattutto fare presto per rimuovere una situazione che di fatto grava esistenzialmente, psicologicamente e professionalmente sul medico. in effetti, quando si introduce l’argomento della morte non solo come possibilità statistica, ma come evento prossimo che qualcuno che ci sta di fronte dovrà affrontare, muta il senso stesso della relazione. nessuna relazione professionale in quanto tale può farsi carico della questione esistenziale del morire. le competenze scientifiche sono azzerate di fronte a qualcosa che riguarda la condizione umana e ne determina un aspetto tanto singolare quanto universale. il dobbiamo morire è diverso dal sapere che colui con il quale sto parlando, a cui stringerò la mano per salutarlo, sta per morire. ciò che più si teme è il rischio di diventare permeabili alla sofferenza, di dover sopportare qualcosa a cui, in fondo, spesso, non si è preparati, non tanto in termini psicologici o procedurali, ma in termini esistenziali. si pensa, in effetti, che soltanto mantenendo una giusta distanza con le sofferenze e i disagi esistenziali altrui si possa esercitare la professione medica: questa convinzione ha una parte di verità, ma non deve farci dimenticare che non è rimuovendo o nascondendo la fatica dell’esistere che la si può affrontare nelle sue differenti forme. nella relazione con il paziente terminale ci sono due soggettività che si possono incontrare soltanto se entrambe sono disponibili alla cosa più difficile: all’ascolto e, a volte, al silenzio come potente mezzo di comunicazione. molte volte si trascura questo aspetto della relazione, e cioè il momento dell’ascolto e dell’accoglienza della paura, a volte della disperazione, della persona che deve affrontare la consapevolezza del morire e a cui dobbiamo offrire la possibilità di parlare della propria imminente morte. editoriale 1 professore straordinario di filosofia morale, direttore del centro di ateneo di bioetica università cattolica del sacro cuore, milano corresponding author prof. adriano pessina adriano.pessina@unicatt.it clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati � editoriale con chi, infatti, potrà sfogare le proprie angosce, con chi potrà esprimere i propri timori, con chi potrà condividere i propri bilanci esistenziali e le proprie delusioni? la risposta che siamo soliti dare è che si tratta di una questione personale, che deve trovare la sua collocazione nell’alveo famigliare, o all’interno di eventuali strutture di aiuto e di conforto. nel migliore dei casi, inoltre, il paziente può essere indirizzato a qualche psicologo o, se religioso, a qualche sacerdote. del resto, si osserva, non è possibile fare di più. la professione del medico è, in fondo, un mestiere altamente specializzato, che non contempla anche una preparazione di ordine psicologico, né si possono chiedere virtù eroiche a chi la esercita, né si può ipotizzare un impiego del tempo (già così scarso, si suole dire) che sottragga il medico alle sue attività di ricerca, alla sua prassi clinica. sono tutte osservazioni ineccepibili. se restiamo all’interno della logica dei diritti e dei doveri, è sufficiente una comunicazione veritiera, corretta, aperta, capace di non togliere la speranza al paziente (come insegna anche il codice deontologico, senza però spiegare come si possa fare), per assolvere all’ingrato compito di dare brutte notizie. ma se cambiamo la prospettiva, se cerchiamo di pensare nei termini della condizione umana del nostro paziente (un nostro che indica qualcosa di più di un legame professionale?), allora comprendiamo che è possibile fare qualcosa di più: offrire un’autentica disponibilità all’ascolto. comunicare sul posto di lavoro, che è lo studio medico, qualcosa che riguarda la dimensione più intima della persona umana, cioè la sua fine, significa esporla esistenzialmente in un ambiente in cui incombe, per sua natura, l’impersonalità e l’estraneità. per il paziente, soffrire in un letto d’ospedale, che è diventato il suo mondo esistenziale, significa soffrire in un ambiente che è anche il posto di lavoro di altri: significa interferire con le dinamiche e i tempi di lavori di altri. venire a conoscenza della propria morte, più o meno imminente, dentro questi ambienti significa scoprire la propria radicale solitudine, perché fuori da quegli spazi la vita continua e il tempo altrui diventa un tempo estraneo quando il proprio tempo si fa breve. di fronte a questa situazione occorre creare uno spazio umano alla comunicazione infausta e questo avviene, mi sembra, laddove si crei una reale possibilità di ascolto. ascoltare: una delle più difficili attività umane. perché noi siamo soliti udire le parole, sentire i suoni, percepire i rumori: ascoltare significa pazientare, cioè adeguarsi ai tempi della comunicazione altrui e non imporre i nostri tempi a chi sa che il proprio tempo è divenuto breve, troppo breve. ora, questo ascolto mi sembra particolarmente doveroso quando ci si deve occupare di giovani pazienti, di bambini, di ragazzi, di adolescenti. ciò che dico non deriva da alcuna esperienza specifica, e questo parrà, a molti, un limite, perché spesso si pensa che si possa parlare soltanto a partire da qualche esperienza: quello che intendo dire deriva da una riflessione di ordine filosofico. altri potranno dare suggerimenti concreti: ciò che, qui, vorrei però sottolineare è un altro aspetto, che potrei definire esistenziale. noi uomini siamo disarmati di fronte alla morte, perché della morte non si ha alcuna esperienza: molti hanno esperienza del morire altrui, o del decesso altrui, ma mai della morte. la morte depotenzia, in qualche modo, la sicurezza della nostra competenza, della nostra maturità umana. il pensiero del morire, infatti, ci consegna a una condizione di esposizione e di fragilità che ci rende, sotto certi aspetti, compagni di avventura di chi ci precederà attraversando un’esperienza in prima persona che non è delegabile a nessuno. ascoltare, in questi casi, significa condividere uno spazio e un tempo, nel quale le relazioni umane si intrecciano con le irripetibili differenze che fanno di ognuno di noi un unico io. il fatto che il medico, colui che possiede l’arte della guarigione, sappia prendersi cura del proprio paziente nell’ascolto delle sue paure e delle sue tristezze è un compito, mi sembra, fondamentale, che appartiene alla struttura di chi, per usare un facile gioco di parole, è un medico e non soltanto fa il medico. tutto ciò è distante sia dall’immagine di una medicina paternalistica, in cui il medico pretende di sostituirsi ad altre figure significative per l’esistenza del proprio paziente, sia da quella strettamente contrattualistica, che confina l’arte medica alla diagnostica, alla clinica, alla prestazione d ’opera. tutto ciò, piuttosto, ha a che fare con la responsabilità personale del medico di fronte alla sua stessa personalità umana. infatti, saper ascoltare significa saper intrattenere relazioni personali che hanno a che fare con la costruzione della propria identità umana. chi sa accogliere con serenità la propria condizione umana sa clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati � a. pessina anche consegnare serenità a chi lo precede sulla via della morte. il medico non può e non deve sostituirsi a nessuno, ma non deve nemmeno farsi sostituire nel suo compito, e la medicina, che è un’arte che si avvale di molte conoscenze scientifiche, richiede un’attenzione alla condizione umana che non si esaurisce in nessun approccio naturalistico, perché l’uomo è sempre di più di una complessa macchina organica. tutto ciò, ripeto, diventa particolarmente rilevante laddove si ha a che fare con i giovani, con i ragazzi, con i bambini, con coloro che hanno il diritto di incontrare non soltanto un esperto, un tecnico altamente specializzato, ma un uomo, una persona umana. ci sono mestieri che non si imparano, se non si impara a essere uomini. il tempo per ascoltare, il tempo per pensare, il tempo per condividere, il tempo per parlare del morire è l’unico tempo che non possiamo sacrificare laddove il tempo si è fatto breve. un tempo che, un giorno, sarà anche il nostro. ci sono limiti che il medico, nella sua professione, non può valicare, ma questa capacità di non sostituirsi ad altri, questa consapevolezza che dopo un paziente ce ne sarà un altro, che a una visita ne seguirà un’altra, non può diventare un alibi per sottrarci al compito, professionale perché umano, di ascoltare e, a volte, di ascoltarci nelle parole e nelle paure altrui. 41 clinical management issues linda iurato 1 ruolo del mmg nella diagnosi e nel trattamento delle cefalee editoriale 1 uoc di neurologia, ospedale sant’ottone frangipane, ariano irpino asl av corresponding author dott.ssa linda iurato lindaiurato@yahoo.it da un punto di vista strettamente semantico, il termine “cefalea” comprende tutti i dolori acuti e cronici localizzati alla testa; il cosiddetto “mal di testa” è senza dubbio uno dei più comuni stati dolorosi dell’essere umano e il motivo più frequente, oggi, di ricorso al medico. un episodio di cefalea grave e disabilitante viene riportato almeno una volta all’anno dal 40% degli individui in tutto il mondo, mentre sino al 90% delle persone in italia presenta almeno una cefalea all’anno. le cause di cefalea possono essere sia internistiche sia neurologiche e la patologia cefalalgica riveste giustamente un ruolo di grande interesse per il medico di medicina generale. il “mal di testa” è infatti una delle patologie a più elevato impatto socio-economico del terzo millennio, e, oltre che di natura idiopatica, può anche essere sintomo di patologie sottostanti. oggi, al medico di medicina generale si richiede conoscenza e competenza nella diagnosi delle principali e più frequenti cefalee primarie; inoltre il medico di famiglia deve saper riconoscere i sintomi di allarme di cefalee sintomatiche di patologie gravi, sospettare o riconoscere le cefalee secondarie e inviare a consulenza specialistica i casi dubbi o che richiedono una diagnosi di livello più avanzato (cefalee primarie a bassa prevalenza e rare, pazienti con comorbilità o effetti collaterali dovuti al trattamento farmacologico, pazienti con cefalee croniche quotidiane e/o da abuso farmacologico, pazienti con complicanze, ecc.). la nuova classificazione ihs (international headache society) [1] è fondamentale per il corretto inquadramento nosografico delle cefalee ed è uno strumento importante per il medico di medicina generale, consentendo di ridurre al minimo la variabilità diagnostica tra i diversi esaminatori: in effetti, oggi nell’ambito delle cure primarie la cefalea è una patologia sottodiagnosticata. per una corretta diagnosi delle cefalee sono necessari da parte del medico la stesura di un’anamnesi completa e accurata, l’esame obiettivo generale e neurologico completo (compreso il fondo oculare) e l’esame del diario del paziente, in cui gli viene richiesto di registrare le caratteristiche della cefalea, i sintomi associati e i farmaci utilizzati. la causa più rilevante di errore diagnostico nell’ambito delle cure primarie è la non completa raccolta dell’anamnesi. a tal proposito la stesura dell’anamnesi deve essere strutturata su aspetti strettamente specifici: y i parametri temporali della cefalea; y le caratteristiche del dolore cefalalgico; y il background familiare; y i fattori predisponenti, scatenanti o aggravanti la cefalea; y i fattori che migliorano la cefalea; y l’impatto della cefalea sulla qualità di vita; y i farmaci che il paziente utilizza abitualmente, le tempistiche e le modalità di utilizzo. l’anamnesi, l’esame obiettivo e la conoscenza dei criteri diagnostici ihs permettono al medico di medicina generale di formulare una diagnosi di i livello, cioè di riconoscere le più frequenti cefalee primarie o sospettare una cefalea secondaria. 42 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) editoriale nella gestione del paziente cefalalgico affetto da cefalee primarie, il mmg deve instaurare un rapporto di fiducia con il proprio paziente, anche attraverso una chiara e corretta informazione. il problema della cefalea deve essere presentato al paziente come una malattia fisica cronica, come ad esempio l’asma o l’ipertensione, che va seguita negli anni, e che può migliorare o peggiorare: infatti, la risposta alla terapia, sia in acuto sia in profilassi, si può modificare con l’evoluzione della patologia. per l’emicrania, ad esempio, proprio a causa della sua natura cronica, si utilizzano una terapia dell’attacco, detta anche “terapia sintomatica”, e una terapia di profilassi. per monitorare l’efficacia della terapia nel tempo, un utile strumento è il diario, in cui il paziente annota il farmaco utilizzato di volta in volta, l’efficacia sul dolore e sui sintomi di accompagnamento, la presenza di recidive, il consumo dei farmaci prescritti e i possibili eventi avversi. sulla base di questi dati, il mmg dovrebbe identificare tutti i fattori scatenanti e aggravanti dell’attacco e cercare di eliminare questi fattori che contribuiscono ad aumentare la frequenza e l’intensità delle crisi, scegliendo la terapia di profilassi più adatta per il singolo paziente. in conclusione, la diagnosi e la terapia delle cefalee costituiscono un capitolo della neurologia in cui è fondamentale la collaborazione tra i mmg e gli specialisti [2]. il mmg ha il compito di educare il paziente alla corretta gestione della propria patologia, quindi è importante spiegare al paziente i limiti del trattamento terapeutico: la terapia di prevenzione è efficace nel lungo termine solo nel 50% dei casi e non è in grado di eliminare le cefalee primarie, ma solo di alleviarne i sintomi. alcuni effetti collaterali, inoltre, possono causare l’abbandono terapeutico; tra i più frequenti ricordiamo l’aumento di peso e l’astenia. nella scelta della terapia di profilassi bisogna tener conto di alcune situazioni cliniche concomitanti (es. ansia, reflusso gastroesofageo, ipertensione, ecc.). oggi la sfida “migliorare la qualità di vita del paziente cefalalgico” si vince se il mmg è un alleato dello specialista in questo percorso assistenziale condiviso. quindi è fondamentale che il medico di famiglia nella gestione diagnostica e terapeutica del paziente con cefalea indirizzi fin dall’inizio il proprio assistito a un neurologo, per condividere con lo specialista successivamente la presa in carico del paziente. bibliografia 1. headache classification subcommittee of the international headache society. the international classification of headache disorders. cephalalgia 2004; 24 (suppl.1): 9-160 2. robbins l. clinical pearls for treating patients with headache. headache 2000; 40: 701-2 ruolo del mmg nella diagnosi e nel trattamento delle cefalee linda iurato 1 un caso di gliomatosi secondaria da astrocitoma gemistocitico responsivo al trattamento combinato con bevacizumab e temozolomide elisa trevisan 1, michela magistrello 1, roberta rudà 1, riccardo soffietti 1 l’importanza della comunicazione della diagnosi nella sclerosi multipla elena tsantes 1, caterina senesi 1, erica curti 1, franco granella 1 evoluzione della vaccinazione antimeningococco gianni bona 1, carla guidi 1 riabilitazione cognitiva in pazienti neuro-oncologici: tre casi clinici chiara zucchella 1, andrea pace 2, francesco pierelli 1,3, michelangelo bartolo 1 clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 155 andrea pizzini 1 l’aderenza terapeutica nella pratica clinica la scarsa aderenza alla terapia è oggi considerata una delle più delicate barriere per il raggiungimento del risultato clinico voluto, rimanendo un momento critico irrisolto nella via che conduce al successo terapeutico [1]; è infatti noto che circa un paziente su quattro non segue adeguatamente la prescrizione farmacologica indicatagli dal proprio medico [2]. garantire un’aderenza ottimale è particolarmente complesso nel caso di patologie croniche, che prevedono l’assunzione del farmaco per lunghi periodi di tempo: per molte terapie (anti-ipertensiva, ipoglicemizzante, ipolipemizzante, ecc.) è indispensabile la continuità della cura, anche per molti anni, per ottenere quello che le linee guida indicano come risultato rilevante del successo terapeutico [3,4]. inoltre molto spesso i pazienti con patologie croniche, e in particolare quelli più avanti con gli anni, possono essere gravati da comorbidità e sottoposti quindi a regimi di politerapia, rendendo l’aderenza al trattamento ancora più complessa. il medico, seguendo i principi della medicina basata sull’evidenza, usa le nozioni scientifiche più rilevanti e aggiornate per guidare le proprie decisioni in campo terapeutico. tuttavia una volta che la prescrizione è compilata, il destino della terapia è in gran parte nelle mani del paziente. le principali barriere all’aderenza dipendono infatti dal paziente stesso. osterberg e coll. riportano che le ragioni tipiche fornite dai pazienti per non assumere il farmaco che era stato loro prescritto includono [4]: dimenticanza; y altre priorità; y decisione di saltare una dose; y mancanza di informazioni adeguate; y fattori emozionali. y anche i medici tuttavia hanno delle responsabilità nella scarsa aderenza a un regime terapeutico; in particolare spesso non forniscono al paziente informazioni chiare sulla terapia prescritta, in termini di posologia, intervallo tra le dosi, particolari avvertenze da seguire (es. assunzione dopo i pasti o prima di coricarsi), possibile insorgenza di eventi avversi, nonché benefici attesi dal farmaco e influenza della compliance adeguata sull’efficacia della terapia (figura 1). spesso inoltre un follow-up approfondito del paziente, che preveda visite periodiche durante le quali valutare i progressi della cura e sottolineare nuovamente la necessità di seguire il modo corretto la prescrizione, è utile per motivare il malato, incrementando di conseguenza l’aderenza. molta della letteratura sull’aderenza alla terapia è focalizzata sui vari metodi disponibili per misurarne l’osservanza. tali metodi vanno dal conteggio delle pillole, al report del paziente, alle impressioni del medico (che, ad esempio, può sospettare una scarsa compliance quando il proprio assistito omette di presentarsi agli appuntamenti), alla valutazione della concentrazione del farmaco nel sangue. per semplificare si può, tuttavia, idealmente misurare l’effetto dell’aderenza terapeutica con il più obiettivo outcome di salute: la mortalità [1]. nel 2006 è stata pubblicata sul british medical journal una meta-analisi che ha preso in esame gli esiti dei principali articoli editoriale 1 medico di medicina generale, torino corresponding author dott. andrea pizzini andrea.pizzini@tiscali.it clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 156 editoriale strategie per incrementare la compliance porre attenzione ai marker di non-aderenza, quali ad esempio appuntamenti mancati, y assenza di risposta al trattamento, mancata richiesta di rinnovamento della ricetta enfatizzare il valore del regime terapeutico proposto e dell ’importanza della compliance y per garantirne l ’efficacia scoprire le opinioni e la percezione del paziente nei confronti della compliance: evideny ziare i suoi limiti a seguire in modo adeguato una prescrizione ed elaborare strategie per supportarlo fornire informazioni chiare e semplificare, per quanto possibile, gli schemi terapeutici y coinvolgere i famigliari o gli amici del paziente, in modo che lo supportino e lo aiutino y prendere in considerazione l ’uso di formulazioni diverse del farmaco, se disponibili, che y possano concorrere ad aumentare la compliance: cerotti transdermici, formulazioni a lento rilascio, farmaci con emivita lunga, ecc. figura 1 le interazioni tra paziente, medico e sistema sanitario e i loro possibili effetti negative sulla compliance. modificata da [4] interazione del medico con il sistema sanitario scarsa conoscenza dei costi del farmaco y scarsa conoscenza delle agevolazioni per il paziente y comunicazione medico-paziente insufficiente. il paziente pertanto ha una scarsa comprensione: della propria patologia y dei rischi e dei benefici della terapia y dell’uso corretto del farmaco prescritto y interazione del paziente con il sistema sanitario appuntamenti con il curante saltati y scarsa interazione con lo staff (es. infermieri, y specialista, ecc.) difficoltà di accesso ai farmaci (es. costi elevati, y terapie particolari da eseguire in centri specializzati, ecc.) frequenti modificazioni del piano terapeutico y paziente medico sistema sanitario di letteratura eseguiti fino a quel momento sull’argomento [5]: gli autori si sono posti come obiettivo quello di verificare quale relazione vi sia tra un’adeguata aderenza alla terapia farmacologica prescritta e la mortalità in generale. gli studi che rispondevano ai rigidi criteri di inclusione erano 21, per un totale di più di 45.000 pazienti. i trial inclusi nell’analisi avevano preso in considerazione patologie come il diabete mellito, la dislipidemia, lo scompenso cardiaco, la terapia immunosoppressiva dopo il trapianto d’organo, la terapia dopo un infarto miocardico, la terapia in pazienti affetti da hiv; 8 studi avevano inoltre valutato il trattamento con placebo (19.500 pazienti). la meta-analisi ha mostrato una consistente correlazione tra l’aderenza alla terapia farmacologica e la mortalità: per i pazienti con una buona compliance il rischio di mortalità era circa la metà rispetto ai soggetti con una scarsa aderenza terapeutica. ciò dimostra l’importanza di valutare questo aspetto non soltanto nella pratica clinica quotidiana, ma anche nella valutazione degli studi post-marketing dei farmaci recentemente immessi sul mercato. per una migliore comprensione dei dati di efficacia o della percentuale di eventi avversi di una farmaco, i pazienti dovrebbero sempre essere stratificati in base a criteri di aderenza o meno alle terapie in oggetto. un altro dato che emerge dallo studio è che anche i pazienti che utilizzavano il placlinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 157 a. pizzini cebo, se aderenti alla terapia inattiva prescritta, avevano un rischio di mortalità di circa la metà rispetto ai pazienti poco aderenti a tale terapia. questo risultato, anche se a prima vista appare inspiegabile, può essere compreso attraverso la seguente interpretazione: i pazienti che sono più aderenti alla terapia farmacologica loro assegnata (anche se si tratta di un placebo, inattivo dal punto di vista farmacologico) sono anche quelli che seguono in modo più preciso le indicazioni relative alle modificazioni dello stile di vita che sono stati loro indicate a corredo della terapia (la dieta, l’esercizio fisico, il regolare follow-up, lo screening e l’uso degli altri farmaci prescritti per le altre patologie). tutto ciò ha sicuramente un effetto positivo indipendente sulla mortalità. inoltre i pazienti poco aderenti alle terapie spesso scelgono coscientemente di utilizzare sempre dosaggi più bassi rispetto a quelli consigliati o hanno altre patologie concomitanti, come la depressione, che concorrono di per sé a diminuire la compliance a qualsiasi prescrizione medica. in conclusione, quindi, l’aderenza terapeutica alla terapia medica prescritta può essere intesa come un marker di corretto comportamento per tutti gli aspetti riguardanti la salute. infatti, le persone che sono maggiormente aderenti alle terapie sono quelle con migliori outcome di salute, indipendentemente dalla patologia considerata e dalla terapia prescritta; come se si potesse parlare di un effetto “aderenza alla salute” in generale per il paziente [6]. bibliografia di matteo mr, giordani pj, lepper hs, croghan tw. patient adherence and medical treatment 1. outcomes: a meta-analysis. med care 2002; 40: 794-811 di matteo mr. variations in patients’ adherence to medical recommendations: a quantitative 2. review of 50 years of research. med care 2004; 42: 200-9 ellis s, shumaker s, sieber w, rand c. adherence to pharmacological interventions. current 3. trends and future directions. the pharmacological intervention working group. control clin trials 2000; 21: s218-25 osterberg l, blaschke t. adherence to medication. 4. n engl j med 2005; 353: 487-97 simpson sh, eurich dt, majumdar sr, padwal rs, tsuyuki rt, varney j et al. a meta-analysis 5. of the association between adherence to drug therapy and mortality bmj 2006; 333: 15-20 pizzini a. esiste l’effetto “aderenza alla salute”? 6. avvenire medico 2007; 7: 20 clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 71 marina conese 1, maria teresa laura abbruzzese 2, grace massiah 3, piero oberto de cavi 4 introduzione negli ultimi anni i disturbi del comportamento alimentare (dca) sono stati oggetto di attenzione per l’aumento dei casi rilevati nella pratica clinica. i dca sono meglio definiti come persistenti disturbi del comportamento alimentare e/o di comportamenti finalizzati al controllo del peso, che danneggiano la salute fisica o il funzionamento psicologico e che non sono secondari a nessuna condizione medica o psichiatrica conosciuta [1]. l’eccessiva importanza attribuita al peso, alle forme corporee e al controllo dell’alimentazione costituiscono la psicopatologia nucleare di tutti i disturbi dell’alimentazione, che, in aggiunta, presentano delle caratteristiche peculiari: anoressia ner vosa y : è caratterizzata dal mantenimento attivo di un basso peso corporeo (bmi < 17,5 kg/m2) e dalla presenza di amenorrea; bulimia nervosa y : presenta abbuffate ricorrenti e comportamenti del controllo del peso estremi, e viene riconosciuta in studio multidisciplinare: metodo dcd applicato a pazienti con disturbi del comportamento alimentare (dca) abstract eating disorders are quite common in clinical practice and can include out-of-control behaviours and thoughts that powerfully reinforce unhealthy eating patterns. they include anorexia nervosa and bulimia nervosa and binge eating disorder. we conducted a trial on 102 patients (89 females and 13 males) to investigate the efficacy of “dcd method ” (appropriate dietary education associated to new-electrosculpture) on patients with obesity and eating disorders. the study underlines the efficacy of “dcd method ”, especially when supported by behavioural therapy, in obese and overweight patients. keywords: dcd method, new-electrosculpture, eating disorders multidisciplinary study: dcd method applied to patients with eating disorders cmi 2009; 3(2): 71-80 1 medico chirurgo, specialista in dermatologia e venereologia. dcd bari 2 psicologa. dcd bari 3 medico chirurgo, specialista in chirurgia plastica. dcd roma 4 medico chirurgo e farmacista. dcd roma corresponding author dott.ssa marina conese dottmarinaconese@tiscali.it gestione clinica caso di non soddisfacimento dei criteri diagnostici dell’anoressia nervosa; disturbi dell’alimentazione incontroly lata (bed): sono caratterizzati da un elevato introito di cibo sia durante i pasti sia fuori pasto, e dalla presenza di episodi ricorrenti di abbuffate, che però non sono accompagnate da strategie per compensare l’ingestione di cibo in eccesso. i soggetti affetti sono spesso in sovrappeso o obesi, e, oltre alle complicanze tipiche dell’obesità, presentano frequentemente disturbi depressivi e di ansia; disturbi dell’alimentazione non altriy menti specificati (nas): si tratta di quei disturbi non ben conosciuti che non soddisfano i criteri diagnostici principali né dell’anoressia nervosa né della bulimia nervosa né del disturbo dell’alimentazione incontrollata. i dca vengono più frequentemente diagnosticati, in concomitanza con il loro esordio, nell’adolescenza e tra gli adulti nella prima fascia d’età compresa tra i 30 e i 40 anni: in genere la maggior parte di questi ultimi clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 72 studio multidisciplinare: metodo dcd applicato a pazienti con disturbi del comportamento alimentare (dca) pazienti presenta già dei disordini alimentari attorno ai 20 anni d’età. l’incidenza nel sesso femminile e in quello maschile si pone in un rapporto di 3:2. i pazienti affetti da bed (binge eating disorder) presentano uno stile alimentare “caotico”: un elevato introito di cibo sia durante i pasti sia fuori pasto porta i soggetti affetti a manifestare episodi ricorrenti di abbuffate (assunzione di quantità di cibo superiore rispetto a quella che la maggior parte di persone mangerebbe nello stesso periodo di tempo e in circostanze simili), non accompagnati, però, da strategie per compensare l’ingestione di cibo in eccesso, come avviene nella bulimia nervosa. ne risulta che le persone che soffrono di questo disturbo sono in sovrappeso o obese, a differenza del paziente bulimico che risulta essere nella massima parte dei casi in normopeso. le conseguenti complicanze organiche possono essere: diabete di tipo 2 (non insulinodipendente), ipertensione arteriosa, malattie cardiovascolari, disturbi del sonno e del respiro. inoltre è importante sottolineare che il bed presenta comorbidità con disturbi depressivi e disturbi di ansia. le abbuffate vengono classicamente suddivise dagli autori in: soggettive y : la quantità di cibo è soggettivamente elevata; oggettive y : la quantità del cibo è effettivamente esagerata (es. il paziente svuota il frigorifero). descrizione dello studio presentazione dello studio secondo gli ultimi studi condotti nel 2007 dall’associazione italiana di dietetica e nutrizione clinica (adi, http://www. adiitalia.net), la puglia, regione nella quale si è svolto il trial descritto in questo articolo, risulta essere terza dopo sicilia e campania per numero di abitanti in sovrappeso. più in dettaglio 50 pugliesi su 100 hanno problemi di peso: di questi, 38 sono in sovrappeso e 12 obesi. questa statistica riguarda soprattutto le fasce giovani di età e incide indifferentemente sui due sessi. spesso i pazienti affetti da bed, pur non conoscendo esattamente la natura della loro patologia, si rivolgono ai centri per la cura dell’obesità piuttosto che ai centri per la cura dei disturbi del comportamento alimentare. anche i centri dcd per il dimagramento corporeo rappresentano un valido aiuto per questa tipologia di paziente. in particolare il metodo dcd di bari prevede l’associazione di quattro diverse componenti, di seguito descritte (new-electrosculpture, cronoalimentazione dissociata normocalorica, terapia cognitivo-comportamentale e colloqui di sostegno psicologico, vedi tabella ii). la new-electrosculpture è una metodica indolore che si basa sul principio della elettroforesi: il paziente viene avvolto in un apposito bendaggio e collegato all’apparecchio che emette corrente elettrica continua di bassa intensità galvanica (5,5-6,5 ma) avente lo scopo di favorire gli scambi intercellulari e la dismissione del grasso disciolto nella cellula stessa, senza veicolazione di farmaci e/o creme. a essa viene associata una dieta particolare, la crono-alimentazione dissociata normocalorica (cadn): si tratta di un regime alimentare “dissociato”, che consiste nel frazionare il pasto nell’arco della giornata riservando prevalentemente carboidrati a mezzogiorno e proteine alla sera, insieme a generosi quantitativi di fibra alimentare. tabella i distribuzione dei disturbi dell ’alimentazione nel mondo anoressia nervosa bulimia nervosa distribuzione mondiale società occidentali in modo predominante società occidentali in modo predominante età adolescenza (alcuni giovani adulti) giovani adulti (alcuni adolescenti) sesso 90% femmine femmine in modo predominante (proporzione incerta) classe sociale possibile maggior prevalenza nelle classi sociali elevate distribuzione simile in tutte le classi prevalenza 0,3% nelle adolescenti 1% nelle donne tra 16 e 35 anni incidenza (per 100.000 abitanti/anno) 19 nelle femmine, 2 nei maschi 29 nelle femmine, 1 nei maschi modificazione secolare possibile incremento incremento clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 73 m. conese, m. t. l. abbruzzese, g. massiah, p. oberto de cavi il metodo dcd, di validità ed efficacia testate [2,3], consta soltanto delle due fasi appena citate. a bari, però, vengono aggiunte due ulteriori componenti: la terapia cognitivo-comportamentale (tcc, oppure cbt per gli anglosassoni) e i colloqui di sostegno psicologico. la terapia cognitivo-comportamentale implica l’attenzione ai pensieri (cognitivo) e ai comportamenti (comportamentale) coinvolti nello sviluppo e nel mantenimento del disturbo psicologico. già adottata nel trattamento di depressione, ansia, attacchi di panico, disturbi ossessivo-compulsivi e fobie, la tcc e si è rivelata anche molto efficace nella cura dei disturbi del comportamento alimentare. si tratta di una psicoterapia sviluppata negli anni ’60 da aaron temkin beck che è: str utturata y : si articola secondo una struttura ben definita e non in maniera rigida; direttiva y : il terapeuta istruisce il paziente; di breve durata y ; orientata al presente y : volta a risolvere i problemi attuali. tale terapia è finalizzata a modificare i pensieri distorti, le emozioni disfunzionali e i comportamenti di “disagio” del paziente, riducendo in modo duraturo il sintomo fino all’eliminazione. il metodo cognitivo-comportamentale che è stato applicato nel centro dcd di bari per il suddetto studio è quello di fairburn, caratterizzato dall’approccio interdisciplinare integrato (il paziente viene seguito da un’équipe formata da medico, psicologo e dietista) con modello trans-diagnostico (applicabile con minime modifiche a tutti i disturbi alimentari). per i disturbi dell’alimentazione incontrollata nei pazienti in sovrappeso e obesi, oltre alla terapia cognitivo-comportamentale di fairburn (che mira a interrompere i fattori del mantenimento del dca), sono stati associati colloqui di sostegno psicologico basati sui principi della terapia sistemico-familiare (assessment familiare), coinvolgendo, cioè, le famiglie dei pazienti con bed. obiettivi dello studio in concomitanza con la perdita di peso attraverso il metodo dcd, per ogni paziente affetto da disturbi dell’alimentazione incontrollata si sono proposti i seguenti obiettivi: sviluppare uno schema di autovalutazione y funzionale; valutare l’importanza del sostegno psicoy logico nei pazienti che seguivano il percorso dcd; valutare quanto il sostegno psicologico y abbia aumentato la motivazione del pametodo dcd di bari new-electrosculpture y dieta cadn (crono-alimentazione dissociata normocalorica) y tcc (terapia cognitivo-comportamentale) y colloqui di sostegno psicologico y tabella ii schematizzazione della terapia per il bed e altri disturbi alimentari utilizzata al dcd di bari principali fattori di rischio nei disturbi alimentari generici sono condizioni presenti anche in altri disturbi psichiatrici generali sono condizioni non modificabili che aumentano la probabilità di sviluppare un disturbo del comportamento alimentare specifici sono condizioni presenti solo nei disturbi del comportamento alimentare ziente e facilitato il superamento delle difficoltà del paziente stesso nel seguire le regole alimentari; valutare quanto la terapia cognitivo-comy portamentale di fairburn abbia interrotto i comportamenti disfunzionali che creavano “disagio” nel paziente. materiali e metodi la nostra ricerca è stata condotta su un campione di 102 pazienti (89 femmine e 13 maschi) di età compresa tra 18 e 65 anni (tabella iii), seguiti nell’anno 2008 presso la sede dcd di bari. tutti i pazienti sono stati sottoposti a 30 sedute di new-electrosculpture della durata di 30 minuti l’una, come da protocollo dcd (per le prime 2 settimane le sedute erano eseguite 3 volte a settimana, e dalla terza settimana in poi con frequenza bisettimanale), associate a regole alimentari adeguate e personalizzate per ogni caso esaminato. infatti la classica dieta dissociata normocalorica è stata consegnata ai pazienti figura 1 principali fattori di rischio nei disturbi alimentari clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 74 studio multidisciplinare: metodo dcd applicato a pazienti con disturbi del comportamento alimentare (dca) sesso pazienti terapia pazienti n° % n° % f 89 86,3 con tcc 44 49,4 senza tcc 45 50,6 m 13 12,7 con tcc 8 61,5 senza tcc 5 38,5 tabella iii campione esaminato per lo studio clinico del dcd di bari: i pazienti, di età compresa tra 18 e 65 anni, sono stati ripartiti per sesso e percorso terapeutico sesso terapia n. pazienti fascia di età (anni) pazienti n. % f con tcc 44 18-40 24 54,5 40-65 20 45,5 senza tcc 45 18-40 20 44,4 40-65 25 55,6 tabella iv campione femminile esaminato ripartito per percorso terapeutico e fascia di età sesso terapia n. pazienti fascia di età (anni) n. pazienti m con tcc 8 18-40 6 40-65 2 senza tcc 5 18-40 2 40-65 3 tabella v campione maschile esaminato ripartito per percorso terapeutico e fascia di età sesso terapia n° pazienti livello di peso iniziale (bmi) pazienti n° % f con tcc 44 sovrappeso 11 25,0 obesità i classe 9 20,4 obesità ii classe 16 36,4 obesità iii classe 8 18,2 senza tcc 45 sovrappeso 5 11,1 obesità i classe 10 22,2 obesità ii classe 25 55,6 obesità iii classe 5 11,1 tabella vi campione femminile esaminato ripartito per percorso terapeutico e livello di peso iniziale sesso terapia n° pazienti livello di peso iniziale (bmi) n° pazienti m con tcc 8 sovrappeso 2 obesità i classe 3 obesità ii classe 2 obesità iii classe 1 senza tcc 5 sovrappeso 2 obesità i classe obesità ii classe 3 obesità iii classe tabella vii campione maschile esaminato ripartito per percorso terapeutico e livello di peso iniziale parte, lievemente ipocalorico con riduzione dei carboidrati a discapito di generose quantità di fibre. dei 102 pazienti, 52 sono stati seguiti col metodo dcd + colloqui di soche avevano tutti gli esami ematochimici nei parametri della norma; ai pazienti diabetici o con ipertrigliceridemie o iperglicemie si è consigliato invece uno schema dietetico a clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 75 m. conese, m. t. l. abbruzzese, g. massiah, p. oberto de cavi stegno psicologico e 50 pazienti, che hanno costituito il campione di casi-controllo, solo col metodo dcd. nello specifico (tabelle iii-vii): 32 pazienti (31 femmine e 1 maschio) y di età compresa tra 18 e 60 anni hanno effettuato la terapia cognitivo-comportamentale (a richiesta del paziente); 50 pazienti (45 femmine e 5 maschi) casiy controllo di età compresa tra 25 e 65 anni sono stati seguiti solo col metodo dcd, senza la tcc. a tutti i pazienti erano stati consegnati in prima seduta di trattamento le regole alimentari adeguate, il diario della pianificazione alimentare e il diario emotivo data:___________ cognome:________________________________ nome:__________________________ ora cibi e liquidi consumati luogo abb. sogg/ogg normale restrizione food checking body checking, evitamento vomito, lassativi, diuretici attività fisica commenti figura 2 il diario alimentare giornaliero fornito a tutti i pazienti che partecipavano allo studio clinico figura 3 esempio di diario emotivo, fornito solo ai pazienti dello studio clinico che seguivano la tcc data:__________ giorno:__________ ora:__________ situazione sensazione corporea emozione comportamento disfunzionale pensiero o preoccupazione strategia usata per gestire la crisi* descrivere l’evento attuale quale 1. sensazione ho provato? quanto 2. intensa era? (1-100%) quale 1. emozione ho provato? quanto 2. intensa era? (1-100%) che tipo di comportamento ho avuto? che cosa mi è passato per la 1. mente? che tipo di errore di 2. ragionamento ho fatto? quanto credo al pensiero? 3. (0-100%) quale strategia ho usato per gestire la crisi? parlando al telefono con gianni, che mi ha detto che non possiamo vederci il fine settimana sensazione di 1. essere grassa 90%2. tristezza1. 90%2. mi sono pizzicata per 20 minuti le pieghe delle cosce (body checking) io non gli piaccio (pensiero 1. automatico), sono grassa, ho le gambe grosse. è per questo che non gli piaccio, perché sono grassa (preoccupazione per peso e forme corporee), devo fare merenda (preoccupazione per l’alimentazione) generalizzazione2. 95%3. decentramento (sono pensieri dovuti al mio disturbo dell’alimentazione, ho etichettato in modo non accurato un evento avverso). distanziamento dal comportamento (sono riuscita a fare merenda) * decentramento, distanziamento del comportamento dei pensieri, risposte di coping (cose da fare, cose da pensare), risoluzione dei problemi, ristrutturazione cognitiva, mindfulness, fare l’opposto 20 pazienti (13 femmine e 7 maschi) di età y compresa tra i 18 e 59 anni sono stati seguiti solo inizialmente con terapia cognitivo-comportamentale, e poi per svariati motivi hanno abbandonato gli incontri ma non il metodo dcd. in più della metà di questi casi (12 pazienti), dopo i primi colloqui informativi con la psicologa riguardo i disturbi del comportamento alimentare, i pazienti hanno acquisito coscienza e autoconsapevolezza del loro problema e hanno continuato le sedute solo con i colloqui di controllo; (quest’ultimo solo nei pazienti che seguivano la tcc). il diario alimentare (figura 2) ha avuto un duplice obiettivo: autocontrollo dell’alimentazione del pay ziente; controllo da parte di medici e psicoy logi per avere un quadro completo del comportamento alimentare di ogni paziente. il diario alimentare è risultato utile per effettuare un monitoraggio su alimenti piaclinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 76 studio multidisciplinare: metodo dcd applicato a pazienti con disturbi del comportamento alimentare (dca) nificati, alimenti effettivamente consumati e quantità, orari abituali del consumo di cibo da parte dei pazienti e in alcuni casi il luogo (lavoro, casa) e il tempo in cui venivano consumati i pasti. inoltre all’interno del diario abbiamo ritenuto opportuno inserire uno spazio per i commenti in cui il paziente ha potuto riportare riflessioni personali sui propri comportamenti alimentari o sulla dieta stessa, eventuali trasgressioni e farmaci assunti. il diario emotivo (figura 3) è sostanzialmente finalizzato a interrompere i comportamenti disfunzionali, quali abbuffate, nibbling (termine inglese che indica l’abitudine a spizzicare fuori pasto), digiuno, vomito autoindotto, esercizio fisico eccessivo, evitamenti dell’esposizione del corpo, dispercezione corporea. serve inoltre ad aiutare il paziente a comprendere e ad approfondire il proprio disagio e punti di debolezza. ai 52 pazienti che hanno seguito la terapia cognitivo-comportamentale, oltre alla consegna del diario emotivo, è stato spiegato che cos’è lo schema di autovalutazione disfunzionale e si è proceduto a progettare un intervento mirato a sviluppare uno schema di autovalutazione funzionale considerando per ogni singolo paziente i propri ambiti di vita (aspetti sociali, familiari, professionali e personali, come hobby e interessi). il lavoro è stato suddiviso in tre fasi: fase iniziale y : è stato somministrato un test motivazionale in cui venivano valutate, su una scala da 0 (per niente) a 10 (moltissimo), le motivazioni dei pazienti, la fiducia in se stessi, quanto impegno erano disposti a mettere e quanto erano concordi con gli obiettivi del metodo dcd. il punteggio totale (score) ci ha fatto comprendere in quale stadio del cambiamento si trovava il paziente (tabella viii). alla quarta seduta si è iniziato il lavoro motivazionale vero e proprio, per far maturare (e mantenere nel tempo) nel paziente la spinta necessaria per impegnarsi al massimo nel percorso dcd, rispettando le regole alimentari impartite, i controlli medici e i colloqui con la psicologa; fase intermedia y : durante i colloqui venivano valutati i fattori del mantenimento del disturbo alimentare. dopo aver verificato la presenza di fattori di rischio e fattori precipitanti nel dca si è iniziato a lavorare sullo schema di autovalutazione disfunzionale di ogni paziente (figure 4 e 5), cercando di sviluppare delle strategie (valorizzando le risorse del paziente e lavorando sui suoi punti di debolezza) che consentissero al soggetto di valutarsi in altri ambiti di vita che non fossero solo alimentazione, peso e forme corporee. il lavoro veniva effettuato pianificando la giornata del paziente cercando di comprendere che cosa egli desiderasse cambiare. durante i colloqui, quindi, si lavorava per la sospensione dei comportamenti stadio spiegazione precontemplazione non ho nessuna intenzione di iniziare una terapia contemplazione da una parte vorrei iniziare una terapia, dall’altra no determinazione sono determinato a iniziare una cura entro massimo un mese azione sto già cercando di guarire dal mio disturbo dell’alimentazione tabella viii stadi del cambiamento nell ’atteggiamento del paziente nei confronti della malattia eccessiva importanza attribuita al peso eccessiva importanza attribuita alle forme eccessiva importanza attribuita al controllo alimentare crescita di lanugine sul corpo perdita di massa ossea diminuzione della temperatura corporea pelle secca che si screpola, spesso con colorito giallognolo o grigiastro sviluppo di costipazione i capelli diventano sfibrati e cadono rallentamento della funzione tiroidea diminuzione della frequenza cardiaca e respiratoria diminuzione della pressione sanguigna unghie fragili mani e piedi freddi figura 4 schema di autovalutazione disfunzionale clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 77 m. conese, m. t. l. abbruzzese, g. massiah, p. oberto de cavi disfunzionali e strategie usate dal paziente. durante la fase intermedia di terapia psicologica venivano prese in considerazione tutte quelle situazioni, prevedibili e non, che venivano definite ad alto rischio (natale, pasqua, cene, feste, ecc.) si faceva in modo che il paziente sviluppasse delle strategie di coping (fronteggiamento, capacità di risolvere i problemi) per prevenire e gestire al meglio tali eventi. ai pazienti venivano prescritti degli homeworks da effettuare a casa che erano via via concordati tra terapeuta e paziente. inoltre, in alcune situazioni di stress, veniva associato un “training di rilassamento progressivo”, utilizzato anche per acquisire maggiore consapevolezza del proprio corpo; fase conclusiva y : il paziente veniva seguito con colloqui bi-settimanali per essere sostenuto nella delicata fase del mantenimento del metodo dcd (progressiva introduzione di tutti gli alimenti e graduale associazione di carboidrati + proteine + lipidi al consumo dei pasti principali) e per la prevenzione delle ricadute. analisi dei dati nei 102 pazienti dcd sono stati presi in esame i seguenti parametri: calo ponderale correlato al sostegno psicoy logico nei 52 pazienti (cioè quanto i colloqui con la psicologa hanno influito sulla diminuzione di peso dei nostri pazienti) versus i 50 pazienti casi-controllo. in questi 52 pazienti abbiamo valutato: analisi motivazionale. nel colloquio il y paziente lavorava sulla motivazione finalizzata alla continuità e costanza del percorso dcd; livello delle abbuffate, stress e ansia; y controllo dei comportamenti di y nibbling; analisi dell’autostima e percezione della y propria immagine corporea; schema di autovalutazione disfunzioy nale (cattiva valutazione di se stessi: fattori di rischio fattori precipitanti fattori di mantenimento specifico schema di autovalutazione disfunzionale eccessiva importanza a peso, forme, controllo dell’alimentazione dieta ferrea: controllo del peso preoccupazione peso, forme, alimentazione food checking, body checking, evitamenti basso peso ↓ sindrome da digiuno rinforzi positivi rinforzi negativi comportamenti di compenso abbuffate figura 5 flow-chart per l ’autovalutazione disfunzionale propria valutazione solo in base al peso, forme corporee e controllo dell’alimentazione); nei 50 casi-controllo abbiamo valutato il y calo ponderale nelle 30 sedute di newelectrosculpture e l’abbiamo raffrontato poi al calo del peso dei pazienti che durante il trattamento dcd seguivano il sostegno psicologico. risultati e conclusioni dalla nostra casistica si evince come il calo ponderale nei pazienti che seguivano i colloqui di sostegno psicologico versus i casi-controllo fosse costante e nettamente aumentato (tabelle ix-x). sesso terapia n. pazienti fascia di età (anni) n. pazienti pazienti che hanno raggiunto il peso forma dopo 30 sedute n. % f con tcc 44 18-40 24 23 95,8 40-65 20 20 100 senza tcc 45 18-40 20 18 90,0 40-65 25 23 92,0 tabella ix risultati ottenuti per i pazienti di sesso femminile clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 78 studio multidisciplinare: metodo dcd applicato a pazienti con disturbi del comportamento alimentare (dca) una quasi completa interruzione dei fattori di mantenimento del dca (disturbo del comportamento alimentare) in questi pazienti. più in dettaglio: nel 90% dei casi si è assistito a riduzione y delle abbuffate, maggiore autoconsapevolezza, diminuzione dello stress e ansia con maggiore gestione degli eventi stressanti da parte del paziente; nel 99% dei casi seguiti si sono verificate y riduzione e maggiore autoconsapevolezza dei comportamenti di nibbling; nel 90% dei casi si è notato aumento y dell’autostima con gestione dei conflitti sulla percezione della propria immagine corporea; nel 99% dei nostri pazienti si è assistito a y uno sviluppo di uno schema di autovalutazione funzionale (cambiamento in positivo della valutazione di se stessi), rafforzato soprattutto dalla trasformazione fisica a cui erano andati incontro seguendo il percorso dcd (con il raggiungimento dell’obiettivo del loro peso forma). ne sono conseguite anche una riduzione dell’evitamento della propria immagine corporea, una maggiore consapevolezza di sé con maggiore controllo degli impulsi (figura 6). è risultato anche positivo in tutti i casi l’assessment familiare, sostenendo la famiglia del paziente. il presente studio ha consentito di sottolineare l’importanza che può avere un sostegno psicologico accostato a un percorso di dimagrimento in tutti i pazienti in sovrappeso e obesi, sia tra i portatori sia tra i non portatori di dca. disclosure lo studio è da considerarsi indipendente e non sponsorizzato. gli autori non dichiarano alcun conflitto di interessi. sesso terapia n. pazienti fascia di età (anni) n. pazienti pazienti che hanno raggiunto il peso forma dopo 30 sedute n. % m con tcc 8 18-40 6 5 83,3 40-65 2 2 100 senza tcc 5 18-40 2 1 50,0 40-65 3 2 66,7 tabella x risultati ottenuti per i pazienti di sesso maschile figura 6 schematizzazione grafica degli obiettivi raggiunti dai pazienti in esame in termini di importanza attribuita ad alcuni valori fondamentali questo dato sottolinea l’importanza del sostegno psicologico nei pazienti che affrontano questo percorso di dimagrimento. il lavoro motivazionale condotto dalla nostra équipe ha dato esito positivo in tutti i nostri pazienti con sviluppo da parte degli stessi di strategie di coping da utilizzare nelle situazioni di rischio; si è assistito quindi a clinical management issues 2009; 3(2) ©seed tutti i diritti riservati 79 m. conese, m. t. l. abbruzzese, g. massiah, p. oberto de cavi bibliografia dalle grave r. terapia cognitivo comportamentale dei disturbi dell’alimentazione durante il 1. ricovero. positive press, 2003 conese m, massiah g, de cavi po. valutazione clinico-epidemiologica in pazienti in sovrappeso 2. e obesi dopo applicazione del “metodo dcd”. cmi 2009; 3: 33-41 verna r, noya di lannoy a, pasquale m, de vitis s, riitano g, verna f. a clinical research, with 3. a laboratory evaluation, to assess the 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aver sempre sentito parlare, ovunque, compreso l’ambiente medico, della tossicodipendenza da eroina come di una condizione dagli esiti incerti che poteva eccezionalmente guarire ma per ragioni non chiare. tutt’oggi, trovo sconcertante come l’approccio a una malattia che ha causato migliaia di morti, decimando generazioni di giovani e rovinando migliaia di famiglie, oscilli spesso in maniera inconcludente tra matteo pacini 1 introduzione il caso che vado ad illustrarvi è uno dei tanti esempi, pur nella sua particolarità, di una malattia molto chiacchierata ma poco compresa in termini scientifici, quasi che la sua riduzione a parametri e stereotipi fosse un modo miope e rinunciatario e non una tecnica per gestirla più prontamente e con maggiori garanzie. la malattia in questione è la dipendenza da eroina, che nel nostro paese ha attraversato un periodo epidemico negli anni ’70 per poi divenire endemica, cioè stabile, da anni. tutt’oggi, oltre i due terzi dei casi gestiti dai servizi per le tossicodipendenze riguardano l’eroina, e la tendenza rivela una nuova fase di crescita dei nuovi casi per anno. dopo anni di attività clinica in questo settore, la cosa più atroce e tragica di questa condizione mi appare sempre la stessa: quando in italia il problema esplodeva, in ritardo di oltre un decennio rispetto per esempio agli stati uniti, le terapie efficaci un caso di tossicodipendenza abstract methadone maintenance is one of the well-known harm reduction strategies for public health intervention in heroin addiction. the significance of methadone treatment in preventing needle sharing, which in turn reduces the risk of hiv and hcv transmission among injectors, has been demonstrated. methadone maintenance is also considered gathering site where heroin addicts can effectively acquire knowledge on harm reduction and drug rehabilitation. we report a case of a 34-years-old patient with a history of heroin abuse. therapy with methadone was essential for an adequate management of the case. the article describe difficulties and complexities of heroin abuse management and the therapeutic role of methadone. keywords: heroin, drug abuse, methadone a case of drug abuse cmi 2008; 2(3): 135-141 1 psichiatra, istituto di scienze del comportamento g. de lisio. università di pisa corresponding author dott. matteo pacini paciland@virgilio.it perché descriviamo questo caso per fornire al medico indicazioni circa la gestione della dipendenza da eroina, patologia spesso poco approfondita e compresa. al contrario, oggi vi sono criteri diagnostici, di trattamento e di gestione standardizzati, che, se seguiti in modo corretto, rendono più rapide e probabili le remissioni caso clinico clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 136 un caso di tossicodipendenza il dramma e il semplicismo dell’idea che “basta dire no”, e che uno slogan spiritoso e sdrammatizzante (tipo “o ci sei, o ti fai”) possa sbloccare la coscienza dei tossicomani. tra dramma e spiritosaggini continuano ad ammalarsi, a rovinarsi e a morire ogni anno nuove persone. caso clinico quando il paziente si presentò alla nostra osservazione, a 34 anni compiuti, era sposato e padre di un bambino ed era reduce dall’ultima esperienza che dovrebbe “far aprire gli occhi”, in questo caso il carcere, e da un ricovero per disintossicazione. sia da solo che insieme alla moglie aveva tentato in tutto una quindicina di volte, per non contare i tentativi autogestiti, di porre fine al problema con l’eroina. in poche parole, questo comportamento si riproponeva, e si imponeva al centro della sua vita, e ogni volta creava i presupposti per far crollare quel che di buono i due riuscivano a ricostruire. vivere con l’eroina era come avere un mutuo da pagare con rate quotidiane, a volte più di una rata al giorno, senza sapere quando si sarebbe estinto e fino a dove sarebbe aumentato il tasso. i tentativi, poi, erano per lo più soluzioni per arginare l’uso pesante, quotidiano e non più soddisfacente di eroina e riprovare ad usarla in maniera “controllata”, a dosi minori, con minor spesa e sentendola meglio. la morte era passata vicina per ragioni non direttamente connesse alla droga. una promettente carriera con prospettive di guadagno ottime era stata invece “bruciata” anche a causa della droga. dagli altri il paziente era presentato come un individuo aggressivo, già dalla prima adolescenza, facile alla rissa o all’aggressione per futili motivi, brillante sotto certi aspetti ma socialmente pericoloso e soprattutto impulsivo, avventato, anche a suo rischio e pericolo. dopo un’apparente richiesta di trattamento, il paziente manifesta un atteggiamento direttivo. egli chiarisce di volere una terapia “diversa” da quelle precedenti, imperniata su un suo impegno a star lontano dall’eroina; indica egli stesso la via: usare al meglio gli psicofarmaci, in particolare gli antidepressivi, per tenerlo lontano dal desiderio di usare droghe, e come misura immediata disintossicarsi dal metadone che durante il ricovero aveva assunto fino alla dose di 40 mg/die. posto di fronte alle diverse alternative terapeutiche, dimostrava assoluta avversione nei riguardi di cure che «creavano dipendenza, sostituivano una dipendenza con un’altra e non gli impedivano di usare eroina». affermava che il farmaco ideale per lui, tra quelli specificamente indicati nella dipendenza da eroina, era naltrexone (antagonista), poiché, non permettendogli di ottenere l’effetto piacevole dell’eroina, gli avrebbe consentito di non assumerla più. di fronte alla proposta di utilizzare metadone secondo un programma di mantenimento, e a dose superiore a quella fino ad allora assunta, obiettava che il metadone non poteva fare la differenza, perché “se voleva farsi lo avrebbe potuto fare” e che se mai avesse smesso di farsi sarebbe stato per sua decisione, perché è una cosa “di testa”, specialmente nel suo caso. ripeteva che la sua personalità lo rendeva diverso da altri tossicomani, e che nel suo caso bisognava trovare soltanto il momento giusto: dato che era morto recentemente il padre, e che lui aveva giurato sulla sua tomba che sarebbe guarito “senza niente” e “una volta per tutte”, sentiva che il momento giusto era arrivato. al commento che questo tentativo era già stato fatto innumerevoli altre volte, con esito fallimentare, ribatteva che “proprio perché ci ho provato dieci volte, e qualcuna ero quasi sul punto di riuscirci, l’undicesima sarà la volta buona”. la proposta fu un programma standard per la dipendenza da eroina, che prevedeva la fase di induzione (aumento farmacologicamente guidato) della tolleranza agli oppiacei tramite metadone a dose crescente, seguito da una fase di mantenimento. l’obiettivo sarebbe stato quello di portare ad estinzione l’impulso a cercare la droga, secondo quello che il paziente stesso voleva ottenere. la reazione fu negativa: il paziente si riteneva “non capito”, e che non vi fosse alcuna necessità di “cronicizzare” la dipendenza con una cura lunga. per quanto concerne la disintossicazione, il paziente ripeteva che il metadone doveva essere tolto rapidamente, perché più a lungo lo avesse preso, più difficile sarebbe stato “levarselo”, e che aveva effetti devastanti sul fisico nel lungo termine, specialmente a dosi alte (cioè, secondo il paziente, sopra i 40 mg/die). a tal proposito chiedeva la possibilità di essere inviato a un centro di disintossicazione ultrarapida, perché una disintossicazione rapida era il miglior modo di “troncare” con la dipendenza, e iniziare l’astinenza supportato nella maniera migliore dagli altri, dall’ambiente, clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 137 m. pacini dalle circostanze e soprattutto dalla propria forza di volontà. dopo quindici giorni di terapia con metadone a dose crescente (50 mg la prima settimana e 60 mg la seconda settimana), il paziente non si presentò all’appuntamento. colleghi del day hospital dello stesso dipartimento lo riaccompagnarono a qualche giorno di distanza presso l’ambulatorio, riferendo che il paziente si era rivolto al servizio richiedendo una disintossicazione rapida o l’invio in un centro che la praticasse, ma i colleghi avevano ritenuto precario l’equilibrio psichico e non congrua la richiesta rispetto alla prognosi e alle aspettative. nel colloquio si ribadì la strategia terapeutica, che prevedeva il raggiungimento di una dose efficace, con un periodo di mantenimento non definibile a priori, durante il quale si sarebbe svolta la riabilitazione. il paziente, di fronte alla fermezza con cui da una parte si affermavano i dati di efficacia della terapia proposta, dall’altra si giudicavano pericolosi, oltre che inutili, progetti di rapida disintossicazione, si animò e si dimostrò scettico. la moglie dimostrò invece di essere convinta, ma temeva di contraddirlo e di dissociarsi dalla sua linea. un altro medico, che ascoltava la conversazione, scuoteva la testa come per dire che «non c’è niente da fare, non c’è modo di farlo ragionare». sentendosi in qualche modo messo “in minoranza”, il paziente chiese, come fosse una provocazione, una previsione precisa circa la dose di farmaco che sarebbe servita per ottenere il risultato che gli si prospettava, il tempo entro cui, secondo noi, non si sarebbe più drogato. la risposta, che lo sorprende perché non se ne aspetta una, è «la dose media è 100 mg al giorno, ma visto che hai un disturbo dell’umore associato probabilmente sarà sui 150 mg, e ci vorranno più o meno sei mesi». il paziente, incredulo, ripete: «tra sei mesi quindi lei mi dice che non mi drogo più?». alla conferma di questa previsione, il commento è: «allora dottore prendo 150 mg e aspetto il tempo che mi ha detto, ma se non funziona e mi continuo a drogare la vengo a cercare... se per lei va bene...» il programma riprende, la dose di metadone è aumentata gradualmente fino a 150 mg (circa in 3 mesi), segue una fase con dose stabile. le urine sono inizialmente positive, la percentuale delle positività su campioni settimanali è del 100% nei primi due mesi, del 75% nel terzo e quarto mese, nel quinto mese vi è una sola positività. le urine successive rimarranno negative. ogni settimana, il colloquio di aggiornamento è una specie di riproposizione dello stesso dibattito: il paziente ripete le “sue” soluzioni, ma mantiene l’impegno di proseguire la terapia concordata. quando la dose arriva intorno ai 100 mg, il colloquio è più breve, il paziente ribadisce ancora le sue posizioni e il suo scetticismo, ma in maniera meno agguerrita e più sommaria. la settimana successiva vi è solo un accenno di confronto sul metodo terapeutico, e il paziente sembra non tenerci molto, per la prima volta, a sostenere le sue posizioni su forza di volontà, disintossicazione, dipendenza dai farmaci, ecc. nell’uscire dall’ambulatorio il paziente si ferma sulla soglia, si volta un attimo e con un mezzo sorriso dice: «sa una cosa dottore? più metadone prendo, e più la penso come lei». la settimana successiva sarà la prima senza eroina. discussione questo caso è un caso di tossicodipendenza. la tossicodipendenza non è una malattia complessa, ma difficile. la differenza che passa tra complesso e difficile è una questione di rapporto medico-paziente: tecnicamente, è possibile prevedere la risposta in maniera standardizzata, con riferimenti precisi in termini di dosaggio del farmaco (in questo caso metadone) e di tempi di risposta. esiste un decorso standard che può essere previsto e quindi corrispondere a una “prognosi”, il che consente di “stare a vedere” come evolve la situazione e di dare per scontata la ricaduta se non si interviene. esiste un decorso terapeutico che prevede una effetti a breve termine effetti a lungo termine euforia, amplificazione e distorsione dei sensi, riduzione dell’ansia distacco dalla realtà, deficit della capacità critica e riduzione dello stato di coscienza rash depressione respiratoria nausea e vomito sedazione e analgesia ipotensione inibizione della peristalsi miosi prurito inibizione dell’eiaculazione            dipendenza (addiction) maggiore incidenza infezioni, es. infezioni batteriche, hiv, epatite (nel caso di uso ev) collasso venoso (insufficienza venosa periferica) ascessi artriti e patologie reumatologiche (nel caso di uso ev) tolleranza, assuefazione ridotta tolleranza al dolore disforia odontopatia con carie del colletto disregolazione ormonale nella donna           tabella i effetti dell ’uso di eroina clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 138 un caso di tossicodipendenza latenza prima della comparsa della risposta, che di solito è graduale. tutto questo però non semplifica la situazione: il 90% dello sforzo per arrivare a una soluzione è teso a far collaborare il paziente per il tempo necessario a permettere al farmaco di agire, o meglio per permettere al soggetto di agire avendo assunto il farmaco, ovviamente alla dose corretta. la supposta complessità della tossicodipendenza è un grosso fraintendimento: i fattori, innumerevoli, che possono essere descritti nelle vite dei tossicodipendenti, condizionano l’uso delle droghe, ma per definizione stessa della malattia “tossicodipendenza” non hanno più un peso significativo quando il “drogato” è divenuto “tossicomane”. riconoscere un tossicomane distinguendolo da una persona che si droga, con problemi annessi e connessi, è il primo passo per poter dare una risposta terapeutica sensata. un drogato “non patologico”, cioè problematico ma non dipendente, non necessariamente ha bisogno di un trattamento di fondo, e può rispondere alle più svariate forme di intervento, dalla residenza protetta alla disintossicazione, o anche spontaneamente smettere di drogarsi, con la piena libertà di scelta sul fatto di rimanere o meno astinente. un tossicomane non ha questa libertà, e non la riavrà da solo. la diagnosi di tossicodipendenza si fa accertando semplicemente il seguente disturbo: la persona cerca di astenersi da un comportamento che continua a mettere comunque in atto, contro le proprie intenzioni ma secondo un istinto non evidentemente non controllabile. quando il progetto prevede il restare lontano dall’eroina, ma il “movimento in avanti” non può che passare attraverso l’eroina, si è dentro una tossicodipendenza. ogni ragione e intenzione si scontra con un istinto che rema in senso contrario, e per sua natura biologica è più forte, più rapido. la parte superiore del cervello è superata in partenza dalla parte istintuale, che guida senza un senso, ma secondo una smania (craving) il comportamento. una volta posta la diagnosi, si apre automaticamente un ventaglio di opzioni terapeutiche; attualmente per la dipendenza da eroina si può affermare quanto segue: i trattamenti di provata efficacia comprendono trattamenti farmacologici a base di antagonisti (naltrexone) e agonisti (metadone, buprenorfina) [1]; i trattamenti di provata efficacia prevedono una fase lunga di mantenimento, du  rante la quale e grazie alla quale si svolge la riabilitazione del paziente; i trattamenti a breve termine, come la disintossicazione, non hanno alcun impatto sul rischio di ricaduta, che è per definizione scontato nella tossicodipendenza. nell’impostazione di un trattamento efficace, la disintossicazione non è un passaggio necessario, e, quando praticato in ambiente protetto (carcere, ospedale) con successivo ritorno del paziente all’ambiente naturale, può aumentare il rischio di overdose. il trattamento con metadone dei trattamenti sopraelencati, il mantenimento con metadone è il più studiato, e quello di efficacia maggiore [2,3]. i primi parametri da tener presenti sono: la probabilità che un paziente abbia un beneficio immediato; la probabilità che rimanga in trattamento; la probabilità che, quindi, grazie al trattamento, risolva il problema. il trattamento metadonico di mantenimento è il regime più affidabile, qualunque sia la tipologia di paziente tossicodipendente. i pazienti meno gravi sono da avviare comunque al trattamento più affidabile. l’affidabilità del trattamento metadonico è relativa a due fattori: la dose e la durata del trattamento. per capire i principi di funzionamento di questo metodo, è utile raccontarne le origini. a metà anni ’60 negli stati uniti i tossicomani erano un problema di ordine pubblico, e sembravano ingestibili a livello carcerario. su uno “zoccolo duro” di tossicomani criminali fu provato un programma pilota di terapia metadonica, basato sulla cosiddetta teoria metabolica di dole e nyswander [4]: la tossicomania, anche dopo l’assenza prolungata dell’eroina, era comunque contrassegnata da uno squilibrio nel metabolismo cerebrale, e dal persistere di alcuni sintomi di “deficit oppiaceo”, da cui il concetto di “astinenza protratta”, o “astinenza post-astinenziale”. associato a questo deficit oppiaceo era il rischio di ricaduta e la smania ricorrente di riassumere narcotici (il “recividismo”). l’esposizione all’eroina aveva in un certo senso abituato irreversibilmente il cervello a non tollerare l’assenza prolungata di eroina, non per un malessere attuale e vivo, ma come la privazione di un benessere assoluto.     clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 139 m. pacini se così era, un apporto esterno di sostanza con lo stesso tropismo (cioè che si attaccava agli stessi “punti cerebrali”), ma privo del suo effetto “euforizzante”, avrebbe potuto “saziare” il cervello fino a spengere la voglia di eroina, e nel contempo ripianare la carenza di funzione oppiacea. la conferma di questa teoria negli anni successivi è alla base della diffusione del trattamento metadonico. prima ancora che questo effetto anti-craving (anti-desiderio) fosse dimostrato, il metodo elaborato da dole e nyswander si basava su un’idea pratica, cioè il “blocco narcotico”. somministrando metadone a dosi crescenti, si sarebbe indotta una progressiva assuefazione, superiore a quella inducibile con l’eroina, cosicché i tossicomani non avrebbero potuto più “sentire” l’eroina, anche a dosi elevate. il “blocco” si può ottenere anche, e più rapidamente, usando un antagonista (naltrexone), ma il blocco ottenuto mediante il metadone aveva una marcia in più: il tossicomane che ha ancora smania, ma non riesce più a sentire l’eroina, se e appena può abbandona il trattamento e ritorna all’eroina. questo è facile con naltrexone, che può essere sospeso senza conseguenze. in chi è invece assuefatto a 100 mg o più di metadone, la sospensione brusca è seguita da un’astinenza lunga e intensa; in più, il paziente reso tollerante a 100 mg o più che non assuma la sua dose giornaliera e usi eroina, non ha molte probabilità di sentire qualcosa, e dovrebbe attendere di essere nel mezzo dell’astinenza da metadone per poter ancora usare eroina con piacere. il paziente quindi rimane “legato” al programma il tempo sufficiente perché si sviluppi piano piano l’azione anti-desiderio. il desiderio, durante il trattamento con metadone, tende ad estinguersi in maniera dose-dipendente, mentre per chi rimane in trattamento con naltrexone il desiderio si riduce ma in maniera indiretta, per un “mancato effetto dell’eroina” e non per un effetto “anti-desiderio”, e può comunque rimanere una smania significativa, con maggior rischio di ricorso a surrogati (ansiolitici e alcol). le dosi utilizzate nel trattamento metadonico corrispondono a ben oltre quelle sufficienti a coprire l’astinenza. del resto, il danno in termini di “legame” con la sostanza è il primo a strutturarsi, seguìto anche dall’assuefazione somatica, per cui è naturale che serva più stimolo oppiaceo per estinguere il desiderio che non per estinguere l’astinenza. nel trattamento metadonico, quel qualcosa di più “oppiaceo” che passa per il cervello del paziente non serve a coprire un buco, ma a controbilanciare quel “qualcosa di più” di desiderio che si è sviluppato, come in una bilancia a due piatti. il piatto della voglia ritorna a posto quando il piatto dell’oppio si appesantisce. il trucco del gioco sta nel fatto che l’oppio “terapeutico” non induce esso stesso tossicomania, ma semplicemente inganna il cervello con un falso messaggio equivalente alla presenza stabile di una quantità elevata di oppiaceo. le dosi medie efficaci corrispondono a livelli circolanti, e anche i soggetti che per os necessitano di dosi molti più alte (fino a oltre 1.000 mg) o per cui bastano poche decine di mg (più rari) hanno in realtà livelli di metadone circolante uguali. la dose per os, come per altri farmaci, è solo una variabile farmacocinetica ma non l’unica. la necessità di raggiungere le dosi efficaci spingendo in alto la tolleranza del paziente impone una grande cautela, poiché gli oppiacei in sovradosaggio sono potenzialmente letali, compresi quelli terapeutici, e quindi la procedura richiede settimane di graduali aumenti. nel frattempo, il paziente risulta sempre più protetto da overdose con eroina, per lo stesso meccanismo del “blocco narcotico” e perché il metadone presente occupa i siti recettoriali dell’eroina, schermandone l’azione. le affermazioni dei pazienti rispetto a questa realtà sono sintomatiche della tendenza a seguire la smania per l’eroina, oppure della scarsa consapevolezza di avere una malattia (cioè una prognosi). il paziente che ricerca una soluzione rapida, 99 volte su 100 ha in mente di riprendere fiato per poi ritornare a usare eroina da una posizione più agevole, cosa che comunque non durerà che pochi giorni: la ricaduta non è un nuovo episodio, ma una ripresa di un meccanismo che non si è azzerato, ma è rimasto pronto a ripartire da dove lo si era lasciato. l’idea che “basta dire no” o che è sufficiente la “forza di volontà” sono erronee: avere speranza è utile se spinge a tener duro e a cercare una soluzione, mentre è deleterio se distoglie da una soluzione concreta e dà in pasto a una certezza di ricaduta. il rifiuto della “dipendenza” dai farmaci è un rifiuto più o meno consapevole dell’esistenza della malattia. una terapia non può indurre, mantenere o spostare su un altro oggetto la tossicomania, altrimenti non sarebbe terapeutica ma dannosa, o comunque inutile. infatti, la terapia è lo strumento irrinunciabile per interromclinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 140 un caso di tossicodipendenza pere il corso naturale della tossicomania, e se evidentemente la soluzione del problema dipende dall’efficacia della terapia, il malato curato dipende dalla terapia finché la malattia non si è spenta. le malattie croniche si concludono soltanto con la morte del malato, o tardivamente dopo aver prodotto danni estesi e irreversibili. il gioco di parole tra “dipendenza” come “tossicodipendenza” e “dipendenza” da una terapia efficace è fumo negli occhi: la dipendenza “tossica” è una malattia psichica proprio perché non si riesce a evitare la fonte della propria distruzione, mentre la “dipendenza” terapeutica è un appoggio su cui poter contare per tenere a bada una malattia che da sola altrimenti non se ne va. in tutti e due i casi, la dipendenza è data dalla malattia, e mai dalla terapia. la preoccupazione dei pazienti di rimanere legati al farmaco se assunto “a lungo” e a dose “elevata” è fasulla, accade di solito il contrario per chi segue un regime di mantenimento a dose efficace. invece, a rimanere legati alle terapie inutili sono proprio coloro che, per il rifiuto di un regime a lungo termine, passano anni a ripetere disintossicazioni, trattamenti a breve termine, “scalaggi” più o meno rapidi del farmaco, ecc. i pazienti di solito pensano che la soluzione migliore sia qualcosa che blocca o interferisce con l’effetto dell’eroina (naltrexone, ma anche per esempio, disulfiram negli alcolisti). questo pensiero è assurdo se si pensa che la prima e decisiva interferenza con un comportamento, in situazioni normali, dovrebbe essere l’intenzione di non metterlo in atto. il danno, lo sconforto e la distruzione portate dalla dipendenza dovrebbero essere un motivo più che valido per astenersi, se le cose fossero sotto controllo. anziché riconoscere che il problema viene “da dentro” come rottura dell’equilibrio tra istinto e intenzione, il tossicomane medio continua a spostare l’attenzione “sull’esterno”, come se ogni volta fosse la sostanza a decidere se farsi o non farsi usare. la terapia deve invece puntare sul controllo del comportamento e non sull’effetto della droga. quando il tossicomane sta meglio, non è più disperato e la visione delle cose cambia radicalmente, purtroppo sbilanciandosi sul versante opposto: insorge cioè il pensiero che la soluzione possa venire “da dentro”, spontaneamente e senza un intervento esterno. l’intervento medico, per convincere il paziente a lasciare che un fattore esterno (il farmaco) agisca gradualmente sul nucleo “interno” del problema è oltremodo difficoltoso: il paziente ragiona pensando «il problema è fuori, la soluzione è dentro»: invece è la malattia ad essere dentro al soggetto, mentre la terapia proviene dall’esterno e deve essere introdotta tante volte prima di poter funzionare appieno. in tutto questo, anche il paziente vive questa contraddizione in maniera cosciente, e quando parla della propria dipendenza, senza dover decidere sulla terapia, è di solito chiarissimo: anzi, ascoltarlo è indispensabile per porre diagnosi, perché sono le sue contraddizioni e la sua perdita della libertà che definiscono la malattia tossicomanica. che va diagnosticata sempre rispetto all’individuo, mai rispetto alla sostanza in sé (quantità, liceità) o alla società (condotte problematiche, problemi legali, status socioeconomico). per fortuna la terapia stessa sterza il pensiero del tossicomane verso quello del medico, e gli consente di entrare in possesso della visione corretta per proteggersi dalla recidiva, continuando la terapia e comprendendone lo scopo. purtroppo, i ritardi nel trattamento sono legati anche a una pratica medica non uniforme sul territorio e a volte platealmente errata. gli errori da parte medica sono fondamentalmente due: il primo è quello di scambiare il trattamento di mantenimento come una “scuola di pensiero”. la scuola di pensiero può identificarsi con una teoria o un’interpretazione, ma i dati di efficacia restano e vanno conosciuti. sostituire alla “scuola di pensiero” un’altra “scuola di pensiero” senza però prospettive di affidabilità non è una dimostrazione di democrazia, ma un torto che si fa ai pazienti. ritenersi soddisfatti perché con il metodo x “qualcuno” ce l’ha fatta è un comportamento irresponsabile, perché applicando invece il metodo scientificamente efficace potevano farcela, oltre che quel qualcuno, anche centinaia di altri. il secondo errore è quello di rimanere “bloccati” nella gestione delle terapie per l’idea che ogni caso è un caso a sé, e che quindi il problema sia e rimanga multifattoriale, non riducibile a uno schema terapeutico o a un insieme di criteri diagnostici. questo atteggiamento non è lungimirante, ma è presbite, perché è la negazione del concetto di malattia, che, ricordiamo, è la codifica di una storia decennale di malattie di singoli individui. la standardizzazione del trattamento è il mezzo per permettere ad ogni storia particolare di liberarsi dalla prigione, uguale per tutti, in cui la malattia costringe a stare. clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 141 m. pacini poter diagnosticare la tossicomania con un criterio preciso è una conquista, perché consente di adattare il trattamento alla prognosi. sapere che data una diagnosi e una prognosi il trattamento può essere standardizzato è una conquista terapeutica che rende più rapidi e probabili le remissioni. si tratta quindi di una malattia difficile, ma non complessa per la quale esiste una cura tra le più studiate della storia della medicina, efficace, salvavita, disponibile da quarant’anni. sconsigliarla è qualcosa di più che ignoranza. intraprenderla è qualcosa di più che una speranza. trattamento con metadone della dipendenza da oppioidi bibliografia 1. van den brink w, haasen c. evidenced-based treatment of opioid-dependent patients. can j psychiatry 2006; 51: 635-46 2. mattick rp, breen c, kimber j, davoli m. methadone maintenance therapy versus no opioid replacement therapy for opioid dependence. cochrane database syst rev 2003; 2: cd002209 3. mattick rp, kimber j, breen c, davoli m. buprenorphine maintenance versus placebo or methadone maintenance for opioid dependence. cochrane database syst rev 2008; 16: cd002207 4. dole vp, nyswander me. heroin addiction. a metabolic disease. arch intern med 1967; 120: 19-24 formulazione della diagnosi di tossicodipendenza valutazione dell’adeguatezza del trattamento con metadone nel singolo paziente: controindicazioni, soggetti particolari ottenimento consenso informato disimpegno dalla terapia (lungo termine) e follow-up prescrizione definizione dose target e piano terapeutico stabilizzazione e mantenimento aggiustamento dose verifica effetti collaterali verifica compliance paziente esecuzione test diagnostici (es. urine) raggiungimento della tolleranza induzione clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 139 piero valentini 1, donatella angelone 1, francesca crea 2, annalisa pantosti 3 caso clinico il caso riguarda un ragazzo di 15 anni, la cui storia clinica inizia tre giorni prima del ricovero ed è caratterizzata da cefalea, dolori lombari e febbre. per la comparsa di vomito e il progressivo aumento della lombalgia e della temperatura febbrile, poco sensibili al trattamento analgesico-antipiretico, il paziente viene accompagnato in ospedale, dove l’esame clinico rileva condizioni generali mediocri, temperatura corporea di 40 °c, tachipnea (30 atti respiratori/min), normali valori pressori (120/75 mmhg), sensorio integro, con tendenza al sopore ma buona risposta agli stimoli dolorosi (gcs 14), importante meningismo senza deficit focali, spiccata lombalgia, splenomegalia e diffusa riduzione del murmure vescicolare. sulla cute sono evidenti una lesione da ustione superficiale, sulla coscia sinistra, e una lesione caratterizzata da un’area eritematosa con suppurazione centrale, circoscritta, che interessa gli strati profondi, a livello dorsoinfezione invasiva grave da s. aureus meticillino-resistente (clone usa300) in un adolescente italiano abstract this report describes an uncommon presentation of invasive community-acquired methicillinresistant s. aureus (ca-mrsa) infection in an immunocompetent adolescent without any other risk factor, characterized by septicaemia, meningitis, necrotising pneumonia and deep venous thrombosis (dvt). successful treatment was performed with linezolid, rifampicin and low-molecular-weight heparin (lmwh). mrsa molecular typing revealed the presence of panton-valentine leukocidin (pvl) gene, and a genetic background identical to usa300 clone, an emerging aggressive ca-mrsa strain in usa and europe. keywords: mrsa, sepsis, meningitis, necrotizing pneumonia, antibiotic resistance severe invasive methicillin-resistant s. aureus (usa300 clone) infection in an italian adolescent cmi 2009; 3(4): 139-151 1 istituto di clinica pediatrica, università cattolica del sacro cuore 2 divisione di endocrinologia, ospedale pediatrico “bambino gesù” 3 dipartimento di malattie infettive, parassitarie e immunomediate, istituto superiore di sanità, roma corresponding author dottor piero valentini e-mail: pvalentini@rm.unicatt.it perché descriviamo questo caso? la malattia descritta è stata provocata da un agente patogeno, lo s. aureus meticillino-resistente (mrsa), noto sinora soprattutto come causa di infezione in soggetti e reparti a rischio, ma sempre più spesso identificato come agente eziologico di quadri clinici presenti in comunità. inoltre, negli ultimi anni, sono stati resi noti più frequentemente casi complicati da fenomeni trombotici, che costituiscono una ulteriore difficoltà diagnostica, spesso di non immediato riscontro. viene riportato l ’approccio diagnostico-terapeutico adottato, illustrando i meccanismi patogenetici che possono spiegare le complicanze trombotiche e gli stretti legami esistenti fra queste e la diffusione/resistenza di mrsa caso clinico lombare, riferita a una puntura d’insetto non specificato. il quadro clinico descritto fa ipotizzare una patologia infettiva, con clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 140 infezione invasiva grave da s. aureus meticillino-resistente (clone usa300) in un adolescente italiano possibilità di coinvolgimento delle strutture meningee e polmonari; l’approccio iniziale deve tendere alla raccolta di dati utili a una definizione dell’eziologia e della localizzazione d’organo. gli esiti delle indagini laboratoristiche e diagnostiche effettuate sono riportati in tabella i. sulla base del duplice interessamento, in seconda giornata di degenza viene resa nota la crescita nell’emocoltura di staphylococcus aureus (s. aureus) meticillino-resistente, per cui viene introdotta nello schema terapeutico anche vancomicina. la temperatura febbrile persiste a livelli superiori ai 38 °c finché, fra la quinta e la sesta giornata, si assiste alla svolta della storia: l’antibiogramma evidenzia una sensibilità subottimale del microorganismo per vancomicina e, il giorno dopo, una tac toraco-addomino-pelvica (figura 1), mostra lesioni polmonari diffuse, alcune delle quali escavate, versamento pleurico bilaterale, trombosi di vena azygos, vena cava inferiore nel tratto sottorenale, vena iliaca comune di destra e di sinistra (figura 2). lo schema terapeutico viene completamente modificato, sostituendo vancomicina con linezolid e rifampicina; inoltre, viene iniziata la somministrazione di eparina a basso peso molecolare (low-molecular-weight heparin, lmwh) per via sottocutanea al dosaggio di 12.000 ui/die, avviando contemporaneamente la ricerca di eventuali fattori trombofilici, identificati in una doppia eterozigosi per il fattore v di leyden e nella mutazione del gene g20210a della protrombina. nei giorni successivi la temperatura corporea ritorna progressivamente a valori normali (figura 3): la terapia antibiotica viene protratta per 5 settimane, quindi il paziente viene dimesso in una situazione di netto miglioramento delle condizioni generali, regressione delle trombosi venose profonde e netta riduzione del versamento pleurico e delle lesioni parenchimali polmonari. la terapia anticoagulante viene protratta per 6 mesi. domande da porsi di fronte a questo caso quali sono i patogeni più comunemente in y causa nelle forme di polmonite e di meningite in età adolescenziale? quali sono i possibili fattori di rischio? y quali sono gli accertamenti fondamentali y da effettuare prima dell ’inizio della terapia antibiotica? quale schema terapeutico iniziale è più y razionale adottare? quali complicanze o difficoltà terapeutiche y si possono prevedere di fronte a una eziologia stafilococcica? figura 1 tac polmonare eseguita in 5a giornata di degenza. lesioni nodulari multiple del parenchima, alcune delle quali presentano area di escavazione centrale. massivo versamento pleurico bilaterale tabella i esiti degli esami effettuati dal paziente aptt = tempo di tromboplastina parziale attivata; inr = international normalized ratio; tap = tempo di attività protrombinica meningeo e polmonare, viene intrapresa terapia antibiotica empirica con ceftriaxone e claritromicina, la prima per la capacità di raggiungere le meningi e l’efficacia nei confronti dei principali agenti eziologici di meningite, la seconda per la specifica attività terapeutica nei confronti di patogeni intracellulari quali il m. pneumoniae, ipotizzabile sia per il quadro radiologico sia per l’età del paziente. indagine esiti emocromo leucociti = 10.300/mm3 (86% neutrofili) piastrine = 130.000/mm3 emogasanalisi po 2 = 73 mmhg emocoltura positiva per s. aureus meticillino-resistente rachicentesi normoglicorrachia proteinorrachia = 392 mg/dl pleiocitosi = 600 leucociti/mm3 antigeni capsulari assenti proteina c reattiva (pcr) 187 mg/l (vn < 3 mg/l) test emocoagulativi tap = 20,90 sec aptt = 42 sec inr = 1,57 fibrinogeno = 1.060 mg/dl (vn = 200-400 mg/dl) antitrombina iii = 39,8% (vn = 70-120%) d-dimeri > 4.500 ng/ml (vn < 278 ng/ml) rx torace «reperto micronodulare diffuso» tac cranio negativa per edema, emorragie e aree ischemiche clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 141 p. valentini, d. angelone, f. crea, a. pantosti discussione quello descritto è un caso non comune di infezione invasiva da s. aureus meticillino-resistente acquisito in comunità (camrsa), caratterizzato dalla presenza di meningite, sepsi, polmonite necrotizzante e trombosi venosa profonda (dvt). di seguito vengono valutati separatamente i differenti aspetti di questo complesso quadro clinico. l’agente eziologico gli stafilococchi sono microorganismi ubiquitari, diffusamente presenti nell’ambiente, patogeni per umani e animali, caratterizzati dalla peculiarità di liberare nel mezzo di coltura coagulasi che permettono l’identificazione dei ceppi umani virulenti [1]: le coagulasi reagiscono nel plasma inducendo la conversione del fibrinogeno in fibrina e, quindi, la produzione di coaguli. “stafilococchi coagulasi-positivi” è, attualmente, sinonimo di staphylococcus aureus [2]. lo s. aureus è responsabile di infezioni cutanee superficiali, cellulite, foruncoli, infezione di ferite, ascessi dei tessuti profondi, flebiti, endocarditi, pericarditi, polmoniti, empiemi, osteomieliti, artriti settiche; inoltre, è una causa frequente di infezioni nei bambini, rimanendo un problema clinico impegnativo, nonostante i progressi dell’antibioticoterapia [2,3]. i ceppi di s. aureus meticillino-resistenti (mrsa) mostrano una sensibilità scarsa o nulla verso penicilline penicillinasi-resistenti, cefalosporine, aminoglicosidi, macrolidi, tetracicline [4,5] e vengono acquisiti più facilmente in ambiente ospedaliero che in comunità: degenze prolungate, terapie antibiotiche frequenti o prolungate e procedure invasive sembrano essere i fattori predisponenti più frequenti. dagli anni ’90 infezioni causate da questa tipologia di agenti microbici sono state osservate sempre più frequentemente in soggetti in assenza dei suddetti fattori di rischio: non si trattava solo di infezioni purulente della cute e dei tessuti sottocutanei (sstis), ma anche del torrente sanguigno (sepsi), del polmone e dell’apparato muscolo-scheletrico [6]. in particolare, gli mrsa acquisiti in comunità (ca-mrsa) si associano a quadri clinici gravi come la sepsi, la purpura fulminans, la fascite necrotizzante e la polmonite necrotizzante, e possono essere definiti come tali quando vengono isolati durante le prime 48 ore di ospedalizzazione in pazienti nei quali siano assenti fattori di rischio per infezione da mrsa [7-14]. le infezioni da ca-mrsa nei bambini sono in aumento in tutto il mondo [15-17]. figura 2 ecodoppler vena cava inferiore che mette in evidenza il trombo occupante gran parte del lume figura 3 andamento della temperatura febbrile (°c) in relazione alle terapie effettuate 35,0 35,5 36,5 37,5 38,5 39,0 te m pe ra tu ra co rp or ea (° c) giornate di ricovero 36,0 37,0 38,0 5 62 vancomicina rifampicina, linezolid, teicoplanina enoxaparina sodica clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 142 infezione invasiva grave da s. aureus meticillino-resistente (clone usa300) in un adolescente italiano in alcuni centri pediatrici gli mrsa costituiscono fino al 76% dei ceppi di s. aureus isolati [16,18]: negli stati uniti, in particolare, il ceppo denominato usa300 è diventato una causa predominante di infezioni acquisite in comunità [19]. la colonizzazione delle fosse nasali anteriori o di altri siti corporei da parte di questo ceppo si associa a un rischio significativamente maggiore di successive infezioni, se paragonata alla colonizzazione da parte di ceppi di s. aureus meticillino-sensibili (mssa) [20]. la spiegazione di questo fenomeno può essere ricercata in un aumento del livello di esposizione della popolazione ad antibiotici attivi sugli mssa, ma non sugli mrsa [21]. i fattori che hanno facilitato la diffusione in comunità degli mrsa comprendono sovraffollamento, frequenti contatti cutanei, cute abrasa o compromessa, esposizione a effetti personali contaminati, difficoltà nel mantenere l’igiene personale e accesso limitato alle cure sanitarie. sinora i focolai epidemici di infezione da ca-mrsa sono stati affrontati con strategie mirate alla cura delle ferite, all’aumento dell’igiene e alla regolare pulizia di superfici esposte a una frequente contaminazione ambientale [22]. in europa l’incidenza di infezioni dovute a ca-mrsa sembra essere inferiore a quella registrata negli usa, anche se dati epidemiologici recenti dimostrano come queste infezioni siano in aumento: in un ospedale francese l’incidenza di infezioni cutanee e dei tessuti molli da ca-mrsa è passata dallo 0% nel 2000 al 6,8% nel 2003 [23]. a copenhagen il numero di mrsa isolati principalmente da infezioni cutanee acquisite in comunità è raddoppiato dal 2003 al 2004 [24]. inoltre, i ceppi circolanti sono più eterogenei rispetto a quanto accade oltreoceano [25]. un’ulteriore novità epidemiologica di recente acquisizione è l’isolamento, in numerosi paesi (paesi bassi, germania, belgio, svizzera, finlandia, norvegia, regno unito, stati uniti, australia) di ceppi di s. aureus produttori di leucocidina di panton-valentine (pvl), causa soprattutto di infezioni della cute e dei tessuti molli e di polmoniti necrotizzanti antibiotico-resistenti in soggetti non ospedalizzati [26]. la pvl è una citotossina bicomponente, codificata dai geni pvl luk-s-pv e luk-f-pv, che distrugge i leucociti attraverso la formazione di pori nella membrana cellulare [27]. studi su conigli hanno dimostrato che la somministrazione intradermica di pvl causa lesioni infiammatorie gravi e necrosi cutanee e tissutali [28]. in effetti, la presenza di questa tossina sembra essere associata a una maggiore gravità delle infezioni [29,30] e recentemente è stato dimostrato un suo ruolo essenziale nella patogenesi della polmonite necrotizzante [31]. un altro gene presente nei ceppi di s. aureus usa300, importante per l’aggressività del microbo, è il fnbb che codifica per le proteine fnbpa e fnbpb, associate a una aumentata capacità di adesione e invasività da parte dello s. aureus [32-36]. il ceppo di ca-mrsa coinvolto nel caso descritto aveva le caratteristiche genotipiche del clone usa300 (agr tipo 1, st8, t008), isolato recentemente anche in un altro bambino italiano [37] e che in germania è diventato il secondo clone di ca-mrsa isolato, in ordine di frequenza, dopo quello “europeo” [38] (agr tipo 3, st80), tipicamente resistente all’acido fusidico [39,40]. la polmonite necrotizzante gli s. aureus produttori di pvl dimostrano particolare propensione ad aderire al collagene che viene esposto dall’azione distruttiva dei virus sull’epitelio, pertanto sono particolarmente attratti da una mucosa bronchiale danneggiata. una volta stabilita l’adesione, inizia una rapida moltiplicazione con produzione di altre citotossine, come le emolisine, che favoriscono un ulteriore danno tissutale e la diffusione batterica [41]. l’azione della pvl protegge gli stafilococchi dall’attacco dei polimorfonucleati, mentre l’azione sinergica delle varie tossine necrotizzanti [42] risulta in una vasculite con conseguente formazione di vaste aree di infarto ed emorragia [14]. tradizionalmente, la polmonite stafilococcica è stata associata a un quadro clinico caratterizzato da dispnea sproporzionata rispetto al danno polmonare e cianosi del letto ungueale e delle labbra [43]. la presenza della pvl si associa, secondo la “classica” descrizione resa da gillet nel 2002, a un rapido deterioramento della funzione respiratoria, con l’insorgenza di una sindrome da distress respiratorio acuto, caratterizzata da febbre > 39 °c, frequenza respiratoria > 40 atti respiratori/min, frequenza cardiaca > 140 bpm, emottisi e ipotensione [30]. tuttavia, il sospetto clinico di un quadro di simile gravità può essere suscitato con difficoltà quando anche segni lievi di coinvolgimento respiratorio possono mancare. anche nel nostro paziente, nonostante il massiccio danno polmonare testimoniato dalle inclinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 143 p. valentini, d. angelone, f. crea, a. pantosti dagini radiologiche, non era presente una compromissione funzionale di eguale entità. infatti, l’rx torace all’ingresso in ospedale è stato effettuato, parallelamente ad altri accertamenti, per identificare la sorgente della febbre, che più di altri segni ha caratterizzato l’esordio e il decorso del quadro clinico, non già per una semeiotica suggestiva. la febbre, la mialgia e i brividi, che possono indirizzare verso una patologia non specifica o di eziologia virale, sono anche frutto dell’azione di tossine stafilococciche. sono riportati in letteratura quattro casi di grave polmonite, rimandati al domicilio dopo una prima valutazione con un semplice trattamento sintomatico [44-46]. di fronte a questa sintomatologia, la rilevazione di una proteina c reattiva (pcr) elevata (anche > 200 g/l) può aiutare a intuire la reale gravità della situazione. un’altra caratteristica che deve allertare il clinico è la presenza di una siffatta sintomatologia in un soggetto giovane, senza fattori di rischio e con storia di foruncolosi o altra patologia infettiva cutanea, soprattutto quando siano presenti anche vomito e/o diarrea e/o shock tossico, prodotti da altre tossine stafilococciche [10]. l’esecuzione di emocoltura ed esame batterioscopico di eventuali campioni di escreato ematico possono aiutare a identificare i microrganismi, anche se questa eventualità non è frequente: nei bambini è molto difficile ottenere un escreato e le emocolture risultano positive più facilmente in altre infezioni che nel corso di polmoniti [14]. le indagini radiologiche forniscono documentazioni che non differiscono dalla classica descrizione della polmonite stafilococcica, vale a dire aree di consolidamento parenchimale rotondeggianti, che usualmente cavitano entro 96 ore e possono risolversi completamente o con residuo pneumatocele oppure dare luogo a fistole, empiema o necrosi. soprattutto la coalescenza delle lesioni cavitate è considerata quasi patognomonica di eziologia stafilococcica, così come l’interessamento di un intero emitorace in un bambino [43]. le forme pvl-associate cavitano più facilmente rispetto alle polmoniti da mrsa ospedaliere e presentano usualmente versamento pleurico [30]. sebbene le cavitazioni possano essere rilevate anche mediante radiografie standard seriate, sono meglio evidenziate mediante la tomografia assiale computerizzata (tac), soprattutto per ciò che riguarda la loro evoluzione [47-50]. poiché le possibilità di una diagnosi eziologica e, quindi, del supporto di un antibiogramma, non sono elevate, e considerato che è stata calcolata una mortalità attesa del 75% [30], è fondamentale iniziare quanto prima possibile una terapia antibiotica efficace, ma alcune considerazioni rendono ragione delle difficoltà nell’impostarla: i beta-lattamici inducono la produzione y dell’alfa-emolisina stafilococcica, uno dei maggiori responsabili dei processi necrotici polmonari [42]; le penicilline penicillinasi-resistenti (fluy coxacillina) sovraregolano la produzione di alfa-emolina e pvl; inoltre, sebbene l’associazione di questa tipologia di antibiotici a clindamicina o a linezolid possa essere teoricamente efficace, di fatto c’è la concreta possibilità che, in vivo, flucoxacillina penetri poco nei tessuti necrotici e possa così, paradossalmente, favorire ulteriormente la produzione di pvl [51]; dosi convenzionali di vancomicina, antiy stafilococcico per definizione, non hanno efficacia sulla produzione di esotossine, raggiungono concentrazioni polmonari spesso inefficaci in questo tipo di polmoniti e, nonostante alti livelli ematici, non riescono a evitare che una batteriemia sia rilevabile anche a distanza dall’inizio della terapia [47,51]. pertanto, solo sporadicamente vancomicina è stata efficace come antibatterico utilizzato isolatamente [52,53]. la spiegazione potrebbe ritrovarsi in concentrazioni minime inibenti (mic) elevate sin dall’esordio del quadro clinico [50,54,55]. quali sono le alternative possibili? la letteratura fornisce molti suggerimenti, nessuno, purtroppo, definitivo: cotrimoxazolo ha mantenuto una sua efy ficacia nei confronti dei ceppi di mrsa; ciononostante il suo uso non è frequente [56]; vancomicina, clindamicina, linezolid, riy fampicina e cotrimoxazolo sono stati usati in polmoniti pvl-associate in svariate posologie e associazioni fra loro, con esiti altalenanti [10,30,47,57,58]; clindamicina e linezolid hanno il vantagy gio di inibire la produzione delle tossine [59]: a concentrazioni subinibitorie clindamicina, linezolid e acido fusidico inducono una riduzione del livello di pvl dose-dipendente, a differenza di oxacillina che a basse concentrazioni può addirittura triplicarne il livello [60]. clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 144 infezione invasiva grave da s. aureus meticillino-resistente (clone usa300) in un adolescente italiano tra i farmaci di recente generazione, linezolid appare il più promettente nei confronti dei ceppi di mrsa, soprattutto quando associato a rifampicina, magari come associazione di seconda scelta dopo un fallimento dei glicopeptidi [47,48,61-64]. peraltro, rifampicina e acido fusidico non dovrebbero mai essere usati singolarmente per la facile insorgenza di resistenze [65]. la terapia intrapresa inizialmente in modo empirico nel nostro paziente, comprendente ceftriaxone e claritromicina, è inefficace nei confronti dell’mrsa; inoltre, la mic di vancomicina, aggiunta successivamente, era di 2 µg/ml, un valore borderline: infatti il suo inizio non coincise con una regressione della temperatura febbrile. la scelta di linezolid si è fondata sulla sua ottima attività antistafilococcica e sull’alta capacità di penetrazione nel tessuto polmonare e nel liquor cefalorachidiano (lcr). la meningite l’isolamento di ca-mrsa dal lcr è raro. sporadiche rilevazioni sono presenti in letteratura: una bambina di 16 mesi, morta per sepsi, presentava ascessi multipli in numerosi organi, compreso il cervello [66]. in un altro caso, a essere colpita era stata una donna, con storia di foruncolosi e farmacodipendenza, che sviluppò un ascesso cerebrale da ca-mrsa [67]. più numerose le segnalazioni relative a casi associati a interventi neurochirurgici [68-70] nei quali sono state affrontate nuove strategie terapeutiche adatte a superare il problema della scarsa penetrazione degli antibiotici attraverso la barriera emato-encefalica, sia attraverso l’associazione fra vancomicina e rifampicina, sfruttando l’ottima capacità di penetrazione di quest’ultima [71], sia attraverso la diretta somministrazione intratecale della prima [72,73]. teicoplanina possiede interessanti caratteristiche farmacocinetiche, tra cui un’emivita estremamente prolungata. dati sperimentali hanno rilevato una sua capacità di penetrare le meningi infiammate e raggiungere livelli adeguati nel liquor, purché somministrata in infusione continua [74]. confortanti dati sul suo uso provengono da un’esperienza effettuata in un centro neurochirurgico turco [75]. aneddotico il suo utilizzo per via intratecale [76-78]. nel nostro paziente, nonostante nella fase d’esordio il quadro clinico fosse caratterizzato da un modesto interessamento dello stato di coscienza, che ha suggerito l’esecuzione di una rachicentesi, l’interessamento del sistema nervoso centrale non ha successivamente costituito motivo di sofferenza per il paziente, né di apprensione per i medici. la glicorrachia a livelli di normalità, nonostante l’iperproteinorrachia e la pleiocitosi, suggerisce un’invasione liquorale in fase molto precoce, probabilmente non progredita per la successiva terapia antibiotica. i fenomeni trombotici una particolare caratteristica di questo caso è stata la coesistenza di una trombosi venosa profonda nel corso dell’infezione invasiva da ca-mrsa. questo aspetto è stato recentemente sempre più spesso descritto, soprattutto in corso di osteomieliti. la tendenza a sviluppare fenomeni trombotici dipende, probabilmente, da più fattori: le tossine rilasciate dallo s. aureus possono provocare spasmo della muscolatura liscia e aggregazione piastrinica; alcuni enzimi possono interagire con il fibrinogeno causando la formazione di trombi; la necrosi tissutale, associata con la produzione di pvl, può provocare compressione o stasi venosa [79]; l’immobilità, l’elevata frequenza di procedure ortopediche o chirurgiche di altro tipo e la disidratazione sono tutti fattori favorenti una trombofilia [80]. è tuttavia suggestivo il dato che evidenzia la netta prevalenza di fenomeni trombotici in corso di infezioni da camrsa produttori di pvl [7,81,82]. infatti, in uno studio del 2004, è stato evidenziato come la pvl-positività sia legata a una maggiore prevalenza di complicanze [10/33 nel gruppo pvl-positivo versus 0/23 nel gruppo pvl-negativo (p = 0,002)] [82]. poiché la presenza della pvl sembra associata con fenomeni flogistici più imponenti, sia locali che generali, è stata proposta la definizione di “sindrome di panton-valentine” per indicare un quadro clinico caratterizzato da osteomielite, infezione cutanea, polmonite e trombosi venosa profonda, dovuto a uno s. aureus pvl-positivo, indipendentemente dalla sua suscettibilità alla meticillina [80,83]. ma come può lo s. aureus influire sui meccanismi coagulativi? le proteine batteriche superficiali possono interagire con le piastrine direttamente, legandosi ai recettori di superficie [84,85], o indirettamente, usando una proteina dell’ospite, come il fibrinogeno (fg), come ponte fra componente batterica e recettore piastrinico [84,86]. queste proteine leganti il fibrinogeno (fgbps) sono state ben caclinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 145 p. valentini, d. angelone, f. crea, a. pantosti ratterizzate nello s. aureus e possono essere divise in due categorie: mscramms (microbial surface components recognizing adhesive matrix molecules) e serams (secretable expanded repertoire adhesive molecules) [87]. le prime, inducendo l’attivazione e l’aggregazione piastrinica e la conseguente formazione di trombi di piastrine e fibrina, proteggono lo s. aureus dall’azione dei neutrofili [88,89]. fra le seconde, la coagulasi costituisce un modello di manipolazione biologica dell’ospite da parte dello s. aureus a suo vantaggio, formando un complesso con la protrombina [90] resistente alla maggior parte degli anticoagulanti [91], capace di convertire il fibrinogeno in fibrina attraverso un meccanismo alternativo alla classica attivazione proteolitica della protrombina in trombina [92]. questo particolare aspetto rivestirebbe un ruolo di particolare importanza nella persistenza della batteriemia attraverso la continua dismissione di s. aureus dai trombi dei vasi venosi profondi [93]. nel nostro paziente l’infezione ha permesso di mettere in evidenza uno stato di trombofilia congenito (mutazione del gene del fattore v di leyden e della protrombina) che ha sicuramente avuto la maggiore responsabilità nello sviluppo della trombosi venosa profonda (dvt); tuttavia, sia le caratteristiche biologiche appena descritte, sia le esperienze sempre più numerose riportate in letteratura, dimostrano la “propensione” degli s. aureus pvl-positivi a provocare fenomeni trombotici [7], che potrebbero essere la sorgente di emboli settici capaci di causare coinvolgimenti polmonari come quello riportato. su queste basi, è ipotizzabile, sebbene non ancora chiaramente dimostrato [93], un ruolo determinante degli anticoagulanti anche nella risoluzione del processo infettivo, facendo mancare allo s. aureus l’azione protettiva esercitata dai trombi. una nota finale va dedicata alla possibilità di una diagnosi precoce. l’individuazione della dvt è stata possibile grazie alla decisione di effettuare una valutazione total body alla ricerca di altri foci metastatici d’infezione: sarebbe auspicabile che, di fronte a patologie a carattere settico con persistenza della febbre nonostante una terapia antibiotica razionale, venga sempre effettuata una ricerca di eventuali localizzazioni trombotiche profonde. disclosure gli autori dichiarano di non avere alcun confitto di interessi di natura finanziaria. raccomandazioni per la gestione delle polmoniti in età pediatrica. modificato da [94] accertamenti diagnostici la radiografia del torace non deve essere eseguita routinariamente nei bambini con poly monite non complicata. nel follow-up, deve essere ripetuta solo in caso di persistenza di sintomatologia febbrile o respiratoria esami microbiologici: emocoltura; tampone nasale e faringeo nei bambini di età < 18 mesi y per ricerca di antigeni virali; esame colturale di liquido pleurico quando presente indicazioni al ricovero in ospedale sato y 2 < 92% frequenza respiratoria > 50 atti/min y dispnea y apnee y segni di disidratazione y scarsa compliance familiare y terapia antibiotica amoxicillina per via orale è l ’antibiotico di prima scelta nei bambini di età < 5 anni e in y tutti i casi di sospetta infezione da s. pneumoniae. valide alternative sono rappresentate da amoxicillina/clavulanato, cefaclor, eritromicina, claritromicina e azitromicina i macrolidi rappresentano i farmaci di prima scelta nei bambini più grandi, nel sospetto y di polmonite da mycoplasma se viene ipotizzato che lo s. aureus sia l ’agente patogeno, è appropriato utilizzare un y macrolide o un’associazione di flucoxacillina ed amoxicillina clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 146 infezione invasiva grave da s. aureus meticillino-resistente (clone usa300) in un adolescente italiano la via di somministrazione endovenosa deve essere usata solo nel caso in cui il bambino non y sia in grado di assumere la terapia per bocca (es. per vomito) o in caso di sintomatologia grave. gli antibiotici utilizzati sono: amoxicillina/clavulanato, cefuroxime, cefotaxime; amoxicillina, ampicillina, o penicillina se vi sia il sospetto di infezione da s. pneumoniae. il passaggio dalla via di somministrazione endovenosa a quella orale deve essere preso in y considerazione dopo la comparsa di segni di miglioramento clinico terapie di supporto ossigenoterapia in caso di sato y 2 < 92% idratazione per via endovenosa con monitoraggio degli elettroliti sierici y antipiretici e analgesici y monitoraggio dei parametri vitali almeno ogni 4 ore y algoritmo essenziale per la gestione delle meningite batterica in ambiente ospedaliero. modificato da [95] cid = coagulazione intravasale disseminata; gsc = glasgow coma score; hib = haemophilus influenzae tipo b; lcr = liquido cefalo-rachidiano; pa = pressione arteriosa; tac = tomografia assiale computerizzata caso sospetto di meningite batterica (mb) valutazione clinica: segni di shock, cid, deficit neurologici focali? accesso venoso prelievi ematici eseguire tac cranio iniziare subito antibiotico o acyclovir se sospetta encefalite erpetica rachicentesi controindicazioni alla rachicentesi ipertensione endocranica lesioni cutanee lombari grave ipotensione (pa < 100/60 mmhg) cid piastrinopenia (< 50.000/mm3) gcs < 8 convulsioni patologicanegativa impossibile stabilizzare il paziente stabilizzazione del paziente invio lcr in microbiologia inizio antibioticoterapia aggiungere desametasone se ipertensione endocranica o sospetta eziologia pneumococcica o da hib risposta terapeutica soddisfacente ? iniziare subito terapia antibiotica ed eventuale terapia di supporto nosì continuare terapia deficit neurologici focali segni di ipertensione endocranica rivalutazione clinico-laboratoristica eventuale modifica terapeutica clinical management issues 2009; 3(4) ©seed tutti i diritti riservati 147 p. valentini, d. angelone, f. crea, a. pantosti bibliografia recommendation: icsb subcommittee on taxonomy of staphylococcal micrococci. 1. zentralbl bakteriol (naturwissenschaft) 1976; 5(suppl): 129-33 sattler cv, correa ag. coagulase-positive staphylococcal infections (2. staphylococcus aureus). in: feigin rd, cherry jd, demmler gj, kaplan sl (a cura di). textbook of pediatric infectious diseases. philadelphia, pa: saunders, 2004; pp. 1099-129 caksen h, uzum k, yuksel s. prognostic factors in children with 3. staphylococcus aureus sepsis. j emerg med 2003; 25: 199-201 acar jf, chabbert ya. methicillin-resistant staphylococcemia: bacteriological failure of treatment 4. with cephalosporins. antimicrob agents 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circa il 5-10% dei casi presenta una familiarità positiva per la malattia. la patologia presenta un decorso progressivo e inarrestabile, con potenziale coinvolgimento di tutti i gruppi muscolari (arti, tronco e distretto bulbare), e porta al decesso nella maggior parte dei casi in circa 2-4 anni, di solito a causa di progressiva insufficienza respiratoria e, più raramente, di grave denutrizione o polmonite ab ingestis. la sua incidenza nei paesi occidentali è di circa 2,0-2,9 casi per 100.000 abitanti/anno, la prevalenza è di circa 8 casi per 100.000 abstract amyotrophic lateral sclerosis (als) is a progressive, fatal, neurodegenerative disease caused by the degeneration of motor neurons. we report a case of a 45-years-old patient with als to underline difficulties and challenges in als management. even though als remains fatal, several advances have been made in improving the consequences of this disease: symptomatic treatments have an important role in controlling sialorrhea, bronchial secretions, pseudobulbar emotional lability, cramps, spasticity, depression and anxiety, insomnia and pain. an adequate management of als should be multidisciplinar, involving not only the neurologist, but also family physicians and many other specialists, such as pulmonologist, rehabilitation medicine physician, speech therapist, dietitian and psychologist. the multidisciplinary approach should be aimed at relieving specific problems associated with the disability of single patients and improving their quality of life. keywords: amyotrophic lateral sclerosis (als), management, multidisciplinary approach management of patients with amyotrophic lateral sclerosis cmi 2008; 2(3): 103-111 1 centro sla, dipartimento di neuroscienze, università degli studi di torino e aso san giovanni battista di torino abitanti [1]. la sla è lievemente più comune nel sesso maschile (rapporto maschifemmine = 1,2:1) e ha un picco di età di insorgenza nella settima decade. per tali caratteristiche cliniche questa patologia ha un impatto sulla vita del paziencaso clinico corresponding author dott. andrea calvo andreacalvo@hotmail.com perché descriviamo questo caso? a causa dell ’esito fatale, della degenerazione progressiva e dell ’assenza di cure, la sla causa grandi difficoltà nella gestione sia da parte dei caregivers che del personale sanitario. è quindi importante evidenziare la necessità di un approccio multidisciplinare e di un’assistenza mirata a implementare, per quanto possibile, la qualità di vita del paziente, adottando tutte le terapie sintomatiche per curare il malato nella sua globalità clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 104 management del paziente affetto da sclerosi laterale amiotrofica te e della famiglia quasi sempre devastante, causando grandi difficoltà nella gestione sia da parte dei caregivers che del personale sanitario: per questo motivo è importante una stretta collaborazione tra le varie figure professionali, in particolare il neurologo e il medico di famiglia. caso clinico paziente maschio di 45 anni, con anamnesi patologica remota non significativa, forte fumatore, affetto da lieve ipertensione arteriosa, venne sottoposto a ricovero in reparto di neurologia ospedaliera per alcuni accertamenti a causa della comparsa, avvenuta 4 mesi prima, di impaccio motorio nella dorsiflessione del piede destro, accompagnata da saltuari crampi e frequenti fascicolazioni; inoltre da circa 1 mese era comparsa ipostenia prossimale all’arto superiore destro con fascicolazioni. durante la degenza venne sottoposto a numerosi accertamenti, tra cui un accurato esame obiettivo neurologico che evidenziava fascicolazioni spontanee diffuse ai 4 arti, ipotrofia del muscolo trapezio destro, ipotrofia dei muscoli della gamba destra, ipostenia del muscolo tibiale anteriore e dell’estensore breve e lungo delle dita a destra, tale da causare una deambulazione steppante a destra, riflessi osteotendinei presenti e simmetrici anche in sede di ipotrofia. gli esami ematochimici rilevarono livelli di creatinfosfokinasi (cpk) elevati (560 u/l), mentre tutti gli altri valori risultarono nei limiti di norma, compresi gli ormoni tiroidei, i markers epatite b e c, i markers neoplastici, il dosaggio delle immunoglobuline sieriche e il dosaggio della vitamina e; la risonanza magnetica della colonna cervicale evidenziava un’ernia discale sottolegamentosa a livello di c6-c7 senza segni di mielopatia compressiva; all’elettromiografia (emg) risultò un quadro di sofferenza neurogenica con denervazione in atto ai muscoli dei 4 arti; le prove di funzionalità respiratoria mostrarono un lieve quadro ostruttivo. gli altri accertamenti strumentali eseguiti (tc torace ed ecografia addome e tiroide) risultarono negativi. sulla base del quadro clinico, dei segni all’emg e dei livelli di cpk venne posta diagnosi di probabile sla, e fu consigliato al paziente di recarsi per un’ulteriore valutazione presso il nostro centro. alla prima valutazione si evidenziò, in più rispetto al ricovero precedente, presenza di riflesso masseterino e iniziali fascicolazioni linguali, senza chiara disartria né disfagia. il paziente fu poi sottoposto ad ulteriori accertamenti, in particolare risonanza magnetica dell’encefalo e della colonna lombosacrale, risultate negative, e ulteriori accertamenti ematochimci quali il dosaggio degli anticorpi anti borrelia, un quadro immuno-reumatologico completo, il dosaggio della piombemia, tutti risultati nei limiti di norma; inoltre la ricerca genetica per le mutazioni della superossido dismutasi 1 (sod1) e della malattia di kennedy risultarono negative. sulla base dell’età del paziente e della rapidità di progressione dei sintomi è stata eseguita una biopsia muscolare che evidenziava un quadro istologico di atrofia muscolare neurogena. sulla base del quadro clinico caratterizzato da sintomi e segni clinici ed elettromiografici di sofferenza diffusa del i e ii motoneurone, anche nel distretto bulbare (riflesso masseterino e fascicolazioni linguali), livelli di cpk, e l’esclusione tramite gli esami laboratoristici e strumentali di patologie che potessero spiegare la degenerazione del i e ii motoneurone, fu posta diagnosi di sla definita, forma classica sporadica. il paziente venne quindi preso in carico dal nostro centro e sottoposto a ulteriori valutazioni, tra cui visita fisiatrica per la prescrizione di ausilii e di fisioterapia passiva e di mantenimento, visita dietologica e visita pneumologica. inoltre iniziò ad assumere riluzolo. il quadro clinico ebbe poi un’inesorabile progressione, con comparsa di dispnea da sforzo e in clinostatismo, che rese necessario l’utilizzo della ventilazione non invasiva (niv ), con iniziale beneficio clinico, specie durante la notte; inoltre l’ipostenia ai 4 arti mostrò andamento rapidamente ingravescente, casusando nell’arco di pochi mesi tetraplegia completa. insieme alla perdita delle funzioni motorie spinali comparvero, seppur meno rapide per progressione, disfagia, disartria e disfonia. durante questo periodo il paziente venne seguito domiciliarmente, attivando l’assistenza domiciliare intergrata (adi), e grazie alla collaborazione tra il neurologo del centro sla e il medico di base. il paziente è poi stato sottoposto, a causa di un peggioramento ulteriore dei sintomi bulbari, a gastrostomia percutanea, utilizzanclinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 105 a. calvo, p. ghiglione, a. chiò do la metodica per via radiologica (prg) e posto in nutrizione enterale. le condizioni cliniche del paziente si sono mantenute stazionarie per circa due mesi, durante i quali però è comparsa una grave sindrome ansioso-depressiva reattiva, che ha reso necessario l’utilizzo di farmaci antidepressivi e benzodiazepine. tale sintomatologia è peggiorata quando sono comparsi deficit dei muscoli della motilità oculare estriseca, che hanno reso ulteriormente difficile la comunicazione del paziente con l’esterno, comunicazione che era possibile in un primo tempo con ausilii comunicativi a bassa tecnologia (tabelle trasparenti e campanello utilizzabile con il movimento del capo) e poi con un sistema di eye tracking. l’insufficienza respiratoria mostrò un graduale peggioramento rendendo necessario l’aumento delle ore di ventilazione fino al momento in cui il paziente decise, dopo lunga e accurata comunicazione, di non essere sottoposto a tracheostomia e quindi a ventilazione invasiva assisitita. venne quindi instaurata domiciliarmente (con il supporto del personale dell’adi e del medico di famiglia), secondo le linee guida europee sul management del paziente affetto da sla [2], una blanda sedazione con l’utilizzo di benzodiazepine e oppioidi a basse dosi, che alleviarono l’ansia e ridussero la dispnea, fino al momento del decesso per carbonarcosi. processo diagnostico la diagnosi della sla in presenza di una storia di malattia e di una sintomatologia tipica è normalmente considerata relativamente agevole. come per le altre patologie neurodegerative, non esistono marcatori diagnostici specifici, pertanto il processo di diagnosi differenziale può risultare difficoltoso. quindi, ancora oggi, il ritardo diagnostico medio dall’esordio dei sintomi è elevato e può arrivare a 18 mesi [3], così come il rischio di errori diagnostici, che possono causare conseguenze dannose come terapie inadeguate o scorrette (ad es., interventi sulla colonna per diagnosi di canale stretto cervicale) [4]. giungere a una diagnosi corretta di sla è importante non solo per poter iniziare prima possibile il trattamento neuroprotettivo, ma soprattutto per l’approccio psicologico del paziente alla malattia. secondo i criteri diagnostici internazionali (criteri di el escorial rivisti) [5] la diagnosi di sla si basa sulla presenza di segni e sintomi clinici di degenerazione del primo e secondo motoneurone, sulla progressione temporale dei segni e dei sintomi e sull’esclusione di altre cause di malattia, mediante indagini elettrodiagnostiche, di neuroimmagine e di laboratorio (tabella i). occorre pertanto porre estrema attenzione nell’escludere tutte le forme che possono simulare la sla, anche perché molte di esse sono trattabili. in generale, la comparsa di sintomi atipici o un decorso inatteso sono i più importanti segnali che suggeriscono un errore diagnostico o una diagnosi diversa [6]. il processo diagnostico della sla deve includere, oltre a un’accurata anamnesi e un approfondito esame obiettivo, un esame elettromiografico, con valutazione di presenza di segni di degenerazione del ii motoneurone (clinici, neurofisiologici o neuropatologici), di evidenza clinica di degenerazione del i motoneurone, di progressione anamnestica od obiettiva di sintomi o segni con diffusione nello stesso o in altri distretti esclusione di altre patologie in grado di spiegare la degenerazione del i e ii motoneurone (sulla base di dati neurofisiologici o neuropatologici) e di altri processi patologici evidenziabili agli esami neuroradiologici, in particolare l’eventuale presenza di sintomi e segni sensitivi, disturbi sfinterici, disturbi visivi, segni e sintomi disautonomici, disfunzioni dei gangli della base, demenza tipo alzheimer e sindromi simil-sla sla clinicamente definita segni di mns e mni in tre regioni sla clinicamente definita, con conferma di laboratorio segni di mns e mni in una regione e il paziente è portatore di una mutazione genetica patogena per la sla sla clinicamente probabile segni di mns e mni in due regioni con alcuni segni di mni rostrali ai segni del mni sla clinicamente probabile, con conferma di laboratorio segni di mns in uno e più regioni e segni di mni definiti dall’emg in almeno due regioni sla clinicamente possibile segni di mns e mni in una regione, o segni di mns in almeno due regioni, o segni di mns e mni in due regioni senza segni di mns rostrali ai segni del mni tabella i diagnosi di sla secondo i criteri di el escorial rivisti [5] tabella ii classificazione di el escorial rivista: livelli di certezza diagnostica [5] mni = motoneurone inferiore; mns = motoneurone superiore clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 106 management del paziente affetto da sclerosi laterale amiotrofica muscoli degli arti superiori e inferiori, del distretto cranico e del tronco, e un esame elettroneurografico, con valutazione dei principali nervi motori e sensitivi degli arti. inoltre, è necessario eseguire una serie di esami ematochimici necessari per la diagnosi differenziale [2]. i criteri diagnostici di el escorial rivisti includono anche la definizione di livelli di certezza diagnostica (tabella ii), che sono stati ideati per essere utilizzati nell’ambito di trial clinici, benché spesso vengano usati anche nella pratica clinica di routine. tuttavia i livelli diagnostici di el escorial sono stati aspramente criticati perché troppo restrittivi e perché portano all’esclusione di circa il 20-30% dei pazienti con sla dall’accesso ai trial controllati [7]. management terapeutico pur in assenza di una terapia eziologica risolutiva, la sla è una malattia assolutamente curabile, e gli obiettivi della presa in carico terapeutica sono il miglioramento o il mantenimento della qualità di vita del paziente. comunicazione della diagnosi la comunicazione delle “cattive notizie” è il primo momento terapeutico, in cui tra l’altro inizia l’alleanza terapeutica tra medico e paziente [8]. quando si sottovaluta questa fase le conseguenze possono avere effetti devastanti sul paziente e sulla famiglia, causando un senso di abbandono e impedendo il rapporto neurologo-paziente. sono stati identificati alcuni paradigmi, linee di comportamento e consigli per la comunicazione delle cattive notizie, che considerano sia la modalità della comunicazione sia il suo contenuto [9] (tabella iii). multidisciplinarietà sia la diagnosi sia la gestione dei pazienti affetti da sla possono essere eseguiti sul territorio o in centri specializzati multidisciplinari, in cui vari specialisti esperti della malattia lavorano insieme, talora raggiungendo l’obiettivo dell’interdisciplinarietà. secondo alcuni studi la sopravvivenza dei pazienti seguiti nei centri specializzati è maggiore di quella dei pazienti seguiti da neurologi generali, indipendentemente da altri fattori prognostici, quali la durata di malattia, l’esordio bulbare e la rapidità di progressione clinica, forse perché nei centri specializzati vi è una migliore utilizzazione della ventilazione non invasiva, delle tecniche nutrizionali e delle cure palliative [10,11]. inoltre il numero di ricoveri e la loro durata sono significativamente ridotti fra i pazienti afferenti ai centri multidisciplinari, con una conseguente riduzione dei costi [11]. come il processo della comunicazione luogo tranquillo, confortevole, in condizioni di privacy struttura parlare di persona disporre di una quantità di tempo sufficiente per non dover procedere troppo in fretta evitare le interruzioni mantenere il contatto visivo e sedere vicino al paziente     partecipanti far partecipare le persone significative per il paziente, se questi è d’accordo come parlare in modo empatico: con calore, partecipazione e rispetto mantenere il ritmo del paziente; permettergli di condurre la comunicazione   linguaggio semplice, con accurata scelta dei vocaboli, ma diretto; evitare eufemismi e gergo medico che cosa il contenuto della comunicazione che cosa dire cercare di capire ciò che il paziente sa già della malattia. cercare di capire fino a che punto il paziente vuole sapere avvertire che si stanno per comunicare notizie poco piacevoli parlare delle possibili terapie, anche palliative, del fatto che non è possibile far regredire completamente i disturbi, e chiarire la prognosi, in termini meno negativi possibile riconoscere ed esplorare la reazione del paziente e permettergli di esprimere le proprie emozioni riassumere la discussione, verbalmente e per iscritto permettere al paziente e ai suoi cari di fare domande       rassicurazione spiegare con chiarezza quali interventi terapeutici sono possibili dire al paziente che si farà qualsiasi intervento per mantenere le sue condizioni funzionali e che si rispetteranno tutte le scelte terapeutiche che egli vorrà fare rassicurare il paziente che continuerà ad essere seguito e che non sarà abbandonato discutere le opportunità di partecipare a protocolli sperimentali proporre al paziente la possibilità di ottenere una seconda opinione se lo desidera      tabella iii modalità e contenuto della comunicazione delle notizie nelle malattie neurologiche croniche. modificato da [9] clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 107 a. calvo, p. ghiglione, a. chiò genetica circa il 5-10% dei casi di sla ha una base genetica. sono stati identificati alcuni geni le cui mutazioni possono causare la malattia, la prima delle quali è stata identificata nel gene che codifica per la superossido dismutasi 1 (sod1) (20-25% dei casi familiari); altri geni implicati con certezza sono il gene che codifica per la vamp/synaptobrevin-associated membrane protein b (vapb), quello per la senatassina (setx) e il gene als 2 (alsina). purtroppo ad oggi in oltre il 75% delle forme familiari di sla non è ancora nota la mutazione causale. il conselling genetico dovrebbe essere eseguito nei casi a esordio giovanile, in quelli con caratteritiche cliniche atipiche e in tutti quelli con familiarità nota. terapia eziologica, neuroprotettiva e neurotrofica non esiste ancora una terapia eziologica della sla. il riluzolo, che agisce riducendo l’accumulo extracellulare di glutammato attraverso una diminuzione del rilascio di questo neurotrasmettitore, è l’unico farmaco approvato per il trattamento della malattia, poiché avrebbe un effetto neuroprotettivo [12]. altri farmaci avrebbero un effetto neuroprotettivo aspecifico, in particolare gli antiossidanti, quali la vitamina e. negli ultimi anni sono stati sperimentati numerosi farmaci per il trattamento della sla, con risultati purtroppo negativi. sono attualmente in corso numerosi trial terapeutici farmacologici con diverse molecole e sperimentazioni con terapie innovative, quali vari tipi di cellule staminali (cellule mesenchimali, embrionali, ematopoietiche, del cordone ombelicale) e fattori di crescita con potenziale effetto neurotrofico; questi ultimi studi, tuttavia, sono per ora quasi esclusivamente limitati alla fase preclinica. terapia sintomatica le cure palliative non sono più intese solo come le cure di fine vita, ma più in generale sono il complesso di terapie sintomatiche per curare il malato nella sua globalità. ogni sintomo associato alla sla prevede delle possibilità di gestione terapeutica più o meno efficaci. la scialorrea è trattabile e, sebbene le evidenze scientifiche vengano da studi condotti su altre patologie, amitriptilina è considerato il farmaco di prima scelta. altri farmaci proposti sono atropina, glicopirrolato (non in commercio in italia), scopolamina e benztropina. la tossina botulinica di tipo a, iniettata nelle ghiandole salivari, è in grado di ridurre la scialorrea nei pazienti con sla, ma ha un effetto temporaneo e può indurre gravi effetti collaterali, come ipostenia dei muscoli del collo e del massetere. è stata anche proposta la radioterapia sulle ghiandole parotidi, sottolinguali e sottomandibolari con risultati promettenti in studi preliminari. le secrezioni bronchiali mucose sono difficilmente eliminabili ed estremamente fastidiose, in particolare nei pazienti con insufficienza respiratoria. per liberare le alte vie respiratorie può essere sufficiente utilizzare aspiratori meccanici, ma per le basse vie respiratorie tali ausilii non sono sfruttabili. possono essere utili, oltre ai farmaci sopra elencati per la scialorrea, i mucolitici e i broncodilatatori anticolinergici. senza dubbio, l’ausilio più utile attualmente disponibile per liberare le vie aeree dalle secrezioni in caso di tosse inefficace è l’insufflator-exsufflator, un’apparecchiatura che consente la tosse assistita [13]. la labilità emozionale di tipo pseudobulbare, o incontinenza emotiva, può essere un sintomo socialmente invalidante ed è presente in circa un quarto dei pazienti. nella pratica clinica i farmaci più utili sono gli antidepressivi serotoninergici, che spesso sono efficaci sin dalla prima somministrazione. di recente uno studio ha dimostrato l’efficacia del destrometorfano. talora sono utilizzabili con successo basse dosi di neurolettici atipici. i crampi possono essere un sintomo precoce e fastidioso. il chinino solfato, alla dose di 125-250 mg una o due volte al giorno, può risultare molto efficace ed è ben tollerato. sono anche utilizzati, con risultati incostanti, magnesio, carbamazepina, fenitoina, verapamil e gabapentin. le fascicolazioni sono un sintomo molto comune nella sla, e nella maggior parte dei casi non sono disturbanti per il paziente. raramente, se molto frequenti e persistenti, possono richiedere un trattamento. farmaci utili possono essere il chinino solfato, la carbamazepina, la fenitoina e il magnesio cloruro o solfato. la spasticità in alcuni pazienti è il sintomo più invalidante. la terapia fisica è di prima scelta nel tentare di ridurre l’ipertono piramidale nella sla. fra i farmaci, nella pratica clinica si sono mostrati efficaci baclofen (25-75 mg/die), tizanidina (6-24 clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 108 management del paziente affetto da sclerosi laterale amiotrofica mg/die), memantina (10-60 mg/die), dantrolene sodico (25-100 mg/die) e diazepam (10-30 mg/die). baclofen intratecale potrebbe essere utile in pazienti allettati con gravissima spasticità farmacoresistente. per trattare la spasticità degli arti e dei muscoli assiali è stata anche usata la tossina botulinica di tipo a. i disturbi dell’umore e d’ansia specie di tipo reattivo sono molto frequenti e vanno riconosciuti e trattati. l’ansia è generalmente più grave nella fase di diagnosi e successivamente nelle fasi avanzate di malattia, in particolare quando insorge l’insufficienza respiratoria. non è controindicato trattare l’ansia dei pazienti affetti da sla con benzodiazepine. i farmaci antidepressivi più utilizzati sono amitriptilina e gli ssri. il sostegno psicologico è spesso estremamente utile per i pazienti con sla e i loro caregivers, in varie forme (sostegno individuale, gruppi di autoaiuto, corsi di formazione per i pazienti e le famiglie). l’insonnia è un sintomo comune nella sla ed è dovuto a diverse cause, come il dolore muscoloscheletrico, l’insufficienza respiratoria, l’incapacità di cambiare posizione durante il sonno, le fascicolazioni e i crampi muscolari e i disturbi emozionali e psicologici. in primo luogo è necessario curare la causa scatenante. ovviamente si può intervenire sul sonno direttamente utilizzando farmaci come zolpidem, amitriptilina, difenidramina e anche benzodiazepine. il dolore è un sintomo non direttamente causato dalla patologia, ma indirettamente dovuto all’ipomotilità. il più comune dolore è quello da periartrite della spalla, che è legato all’immobilità articolare e dovrebbe essere prevenuto con la mobilizzazione articolare e ripetuti cambi di posizione del paziente; frequenti sono anche i dolori ai glutei e agli arti inferiori. il trattamento si basa su farmaci antinfiammatori non steroidei e soprattutto sulla fisioterapia passiva. è possibile usare gli oppiodi se i farmaci non narcotici risultano inefficaci. meno frequentemente è necessario gestire sintomi quali reflusso gastroesofageo, dovuto a indebolimento del diaframma e dello sfintere esofageo inferiore, che può rispondere ad agenti properistaltici (ad es. metoclopramide e domperidone) e antiacidi; l’edema delle estremità, dovuto a ridotta vis a tergo per l’ipotonia e la ridotta attività muscolare con conseguente riduzione del ritorno venoso e ristagno ematico periferico, che si può trattare sollevando gli arti in posizione di scarico, con la fisioterapia e con le calze elastiche; lo spasmo laringeo (improvvisa chiusura in adduzione delle corde vocali, indotto da diversi stimoli, come emozioni, aspirazione di liquidi, reflusso gastroesofageo), che di solito recede spontaneamente in pochi secondi, ma che può essere trattato con antistaminici o antiacidi, e la stipsi, che è consigliabile trattare con clisteri di diversa entità, rispetto all’uso di lassativi di vario genere. respirazione il parametro vitale a rischio nella sla è la respirazione, a causa dell’interessamento della muscolatura respiratoria (diaframma e muscoli della cassa toracica) con conseguente sviluppo di insufficienza respiratoria, spesso complicata da fenomeni di aspirazione acuti o polmoniti da cibo, per la concomitante presenza di deficit delle funzioni bulbari [14]. è estremamente importante individuare precocemente la comparsa di disturbi respiratori, grazie alla conoscenza di segni clinici indiretti, quali la sonnolenza diurna e la cefalea al risveglio (entrambi segni di deficit respiratorio nelle ore notturne), la sensazione di confusione o rallentamento mentale, od ovviamente dei segni clinici diretti quali la dispnea sotto sforzo o nel corso della fonazione. le prove di funzionalità respiratoria includono la spirometria, che dovrebbe essere eseguita già all’inizio della malattia, meglio con maschera, con followup ogni 6 mesi; tra i parametri spirometrici è importante valutare la capacità vitale (vc) e la sniff nasal pressure (snp) [14]. la saturimetria notturna può rilevare disturbi ventilatori notturni e può essere eseguita domiciliarmente. fondamentale è l’emogasanalisi arteriosa, in particolare la pco2, sia per la diagnosi che per monitorare la progressione del danno respiratorio e instaurare le opportune terapie. nelle fasi iniziali, in presenza di un’insufficienza respiratoria restrittiva di grado lieve, è utile la fisioterapia respiratoria per mantenere la ventilazione del parenchima polomonare e favorire l’eliminazione delle secrezioni. con il procedere dell’insufficienza respiratoria, il supporto con metodiche di ventilazione non invasiva a pressione positiva (nippv ) si è dimostrato utile nel miglioramento della qualità di vita e anche nel prolungare la sopravvivenza dei pazienti [15,16]. non vi sono tuttavia evidenze scienclinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 109 a. calvo, p. ghiglione, a. chiò tifiche relative al tempo di inizio e ai criteri clinici di somministrazione della nippv, seppure sono proposti dei criteri indicativi (tabella iv ). la nippv può essere precritta a seconda della gravità del quadro clinico a intermittenza diurna, solo notturna, o diurna e notturna. tale metodica è però destinata in fase avanzata a essere utilizzata in maniera continuativa e pone la necessità di proporre al paziente la ventilazione invasiva via trachestomia; ciò avviene soprattutto quando i pazienti non hanno più riserva respiratoria, non tollerano più l’uso del ventilatore non invasivo, non riescono a cooperare con il ventilatore a causa dei sintomi bulbari o presentano un aumento eccessivo e non controllabile delle secrezioni. per evitare procedure d’urgenza, la pianificazione, la comunicazione e le direttive del paziente in relazione alla tracheostomia dovrebbero essere svolte prima della comparsa di grave insufficienza respiratoria [15,17]; la scelta del paziente e della sua famiglia dipendono da molti fattori, in particolare i valori personali, la situazione della famiglia, aspetti emozionali. il paziente che scelga di essere sottoposto a tracheostomia deve essere seguito domiciliarmente da medici specializzati in cure palliative [6]. la ventilazione invasiva può aumentare la sopravvivenza per molti anni, può essere ben tollerata e accettata dai pazienti e dai loro caregivers e talora può migliorare la qualità della vita; tuttavia in altri casi può avere un impatto emozionale e sociale devastante sui pazienti e i loro caregivers [17]. nutrizione la disfagia, spesso, è sintomo conclamato, con di solito prevalente compromissione per i liquidi, ma talora è subdola, ed è sospettabile quando siano riferiti episodi di soffocamento durante il pasto, calo poderale, scialorrea, o siano evidenti segni di ipofunzione del velo palatino e della lingua; oltre alla valutazione clinica sono importanti metodiche strumentali quali la laringoscopia con prove al blu di metilene e la videofluorografia. la gestione della disfagia inizialmente si basa su una coordinazione tra dietologi e foniatri, che forniscono norme dietetiche e tecniche di deglutizione facilitata, anche attraverso una presa in carico logopedica [18,19]. a seconda della gravità del quadro clinico verranno consigliati integratori e addensanti dei liquidi o bevande gelificate, fino alla necessità di una nutrizione enterale, che può essere eseguita mediante tre metodiche: la gastrostomia endoscopica percutanea (peg), la gastrostomia radiologica percutanea (prg/rig) e il sondino nasogastrico (sng). sono stati proposti alcuni criteri di indicazione alla nutrizione enterale, elencati nella tabella v. la peg è la metodica più utilizzata, migliora lo stato nutrizionale, la qualità della vita e la sopravvivenza e riduce il rischio di polmonite da aspirazione tabella iv criteri per l ’indicazione alla ventilazione non invasiva. modificata da [14] ess = epworth sleepiness score sintomi correlati a debolezza dei muscoli respiratori almeno uno dei seguenti: dispnea ortopnea sonno disturbato, non a seguito di dolore cefalea al risveglio riduzione della concentrazione perdita di appetito eccessiva sonnolenza diurna (punteggio ess > 9)        segni di debolezza dei muscoli respiratori fvc < 80% o snp < 40 cmh 2 o presenza di almeno uno dei seguenti fattori: significativa desaturazione notturna misurata mediante ossimetria pco 2 > 6,5 kpa all’emogasanalisi arteriosa eseguita al risveglio     disfagia sintomatica con frequenti episodi di soffocamento perdita di peso superiore al 10% rispetto al peso in buona salute indice di massa corporea inferiore a 18,5 disidratazione aumento della durata dei pasti o interruzione prematura del pasto a causa di episodi di soffocamento o eccessiva fatica del paziente      tabella v criteri per l ’indicazione alla nutrizione enterale. modificata da [28] [19,20]. la peg ha dei rischi nei pazienti con iniziale insufficienza respiratoria poiché richiede una blanda sedazione; le linee guida consigliano di eseguire la peg prima che la vc scenda al di sotto del 50% del predetto e il peso scenda al di sotto del 10% del peso in buona salute [18,20,21]; tuttavia l’uso della ventilazione non invasiva consente l’esecuzione della peg anche in soggetti con insufficienza respiratoria relativamente grave [22]. le ultime linee guida consigliano il posizionamento della prg/rig, poiché non è necessaria la sedazione ed è eseguibile in pazienti con insufficienza respiratoria e che presentano condizioni generali scadenti [23,24]; tuttavia la prg/rig non è disponibile in tutti i centri. il sng è meno invasivo, ma presenta numerosi svantaggi che ne limitano l’uso, in particolare problematiche di decubito [23]. clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 110 management del paziente affetto da sclerosi laterale amiotrofica comunicazione eccetto i rari casi con demenza frontotemporale, i pazienti con sla non sviluppano disturbi del linguaggio, ma possono perdere la possibilità di comunicare, in particolare per la comparsa di disartria. questo evento nella sua progressione ha un impatto devastante sulla qualità della vita dei pazienti e dei loro caregivers, peggiorando significativamente anche la cura e l’assistenza [25]. per la gestione della disartria deve essere garantita la presa in carico logopedica che ha il compito di pianificare gli interventi di comunicazione aumentativa alternativa, ai vari livelli di compromissione, fino alla comparsa dell’anartria: il livelli di intervento passano dai gradi di ausilii a bassa tecnologia (tabelle alfabetiche, campanelli), media tecnologia (tastiere alfabetiche), alta tecnologia (computer a comando tattile) e altissima tecnologia (interfacce cervello-computer [bci], sistemi di eye tracking). cure di fine vita già durante il processo diagnostico deve essere pianificato un approccio palliativo [26], in modo tale che i pazienti e i caregivers possano avere a disposizione gli eventuali strumenti di assistenza multidisciplinare anche a livello domiciliare. qualora il paziente abbia scelto di non essere sottoposto a manovre rianimatorie, l’obiettivo della palliazione è quello di ottimizzare la qualità della vita del paziente e dei suoi parenti, alleviando le sofferenze fisiche e psicologiche, fornendo supporto psicologico, emozionale e spirituale, consentendo e accompagnando il paziente verso la morte, libero da sofferenze, e supportando la famiglia [27]. le scelte del paziente in fase terminale sulle possibili alternative di supporto respiratorio per ovviare alla dispnea e al deficit ventilatorio, dovrebbero essere discusse almeno ogni 6 mesi, tenendo conto delle sue inclinazioni spirituali e religiose [6]. i sintomi della dispnea e del dolore possono essere attenuati con l’utilizzo di oppioidi da soli o in combinazione con benzodiazepine per l’ansia da dispnea; lo stato confusionale e l’agitazione psicomotoria dovuta all’ipercapnia necessitano talora neurolettici, in particolare la clorpromazina. solo in presenza di ipossia sintomatica (ostruzione da focolaio, o pregressa bpco) è consentito l’uso di ossigenoterapia, per l’effetto inibente sulla frequenza respiratoria, ponendo cautela qualora siano stati somministrati oppioidi. bibliografia 1. piemonte and valle d’aosta register for als (parals). incidence of als in italy. evidence for a uniform frequency in western 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referee che, con il loro supporto e con la loro fattiva collaborazione, hanno contribuito a migliorare il rigore scientifico, la precisione e l’accuratezza dei contenuti della rivista. paolo bellantonio maurizio benucci silvano bertelloni domenico borzomati eduardo bossone francesco brigo giuseppe caramia giovanni carlesimo andrea eugenio cavanna giovanni luca ceresoli elena chiappini claudia cicala alfonso ciccone alessandra dell’era maurizio delvecchio monica galli bruno gori marek hartleb luca iaccarino jussuf kaifi raffaele manni maura massimino carmela olivieri lucia palmisano valerio ramazzotti keith roberts giuseppe rombolà guido rubboli andrea salmaggi maurizio salvati roberto salvia maria teresa sartori paolo spagnolo giulia stella norman sussman rocco totaro maurizio zanobetti clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 43 oscar alabiso 1 l’etica dell’appropriatezza, in oncologia e in medicina l’avvento dei cosiddetti “farmaci biologici” ha ingenerato in molti oncologi l’idea che stia per cominciare una nuova era. questi farmaci, pochi per ora, ma destinati ad aumentare in breve, hanno mutato positivamente in alcune neoplasie solide la sopravvivenza dei pazienti, con tossicità minore rispetto a quella dei comuni antineoplastici. sta avvenendo adesso, nel campo delle neoplasie solide, ciò che era già avvenuto in campo ematologico. questi farmaci però costano e noi tutti siamo ormai consapevoli di vivere in un mondo di risorse “non infinite”. l’avvento dei farmaci biologici ha acuito questa consapevolezza, ponendo gli oncologi nel mezzo di un dilemma etico alimentato dall’impatto psicologico della malattia oncologica, amplificato dai media e da internet. la tutela della salute è un diritto fondamentale della persona ed è interesse della collettività, garantita dalla costituzione. oggi però non si può pensare di tradurre tale diritto nella pratica clinica e organizzativa consentendo l’accessibilità totale e incondizionata di tutti i cittadini a tutte le possibili cure e a qualsiasi livello di cura. la conseguenza sarebbe di fatto l’impossibilità di fornire cure efficaci a tutti; forse persino l’impossibilità di fornire cure. da qui la necessità dell’appropriatezza, prescrittiva e organizzativa. l’appropriatezza consiste nell’erogazione di un intervento (terapeutico, diagnostico, riabilitativo, preventivo) solo se esso se è realmente efficace e fornito a persona che davvero ne possa trarre vantaggio, secondo la modalità assistenziale più congrua. erogare un intervento sanitario (prescrivere un farmaco) in modo appropriato significa interpretare correttamente il quadro clinico, applicando correttamente le indicazioni per le quali detto intervento (o detto farmaco) si siano dimostrati efficaci, nel momento giusto e secondo un regime organizzativo idoneo. l’appropriatezza è sia clinica sia organizzativa. nel primo caso si tratta di utilizzare un intervento efficace in pazienti che, in rapporto al quadro clinico, realmente ne possano trarre beneficio. l’appropriatezza organizzativa attiene al contesto organizzativo, che deve essere adeguato e congruente con le caratteristiche di complessità dell’intervento erogato e con il quadro clinico del paziente. si tratta di un processo che vede (deve vedere) il medico protagonista. non può il medico delegare questa responsabilità ad altri, in misura più o meno rilevante, sia per l’aspetto più prettamente organizzativo sia per l’aspetto eminentemente clinico. è un richiamo non improprio. infatti, pur non sottovalutando l’importanza dell’esperienza, il medico è eticamente chiamato a compiere le proprie scelte, condivise con il paziente, sulla base dell’evidenza scientifica: è accaduto talvolta che questo principio basilare sia stato ignorato, ma gli operatori devono comprendere che oggi ciò è non più lecito. la responsabilità etica e morale di una equa possibilità di accesso dei cittadini alle cure più adatte nel momento più adatto e al livello più adatto poggia soprattutto sui medici. in campo oncologico, quanto sopra riportato, in rapporto all’impatto psicologico editoriale 1 direttore della cattedra di oncologia medica dell’università degli studi del piemonte orientale “amedeo avogadro”. direttore del dipartimento oncologico dell’azienda ospedaliera “maggiore della carità”, novara corresponding author prof. oscar alabiso oscar.alabiso@libero.it clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 44 editoriale e sociale della malattia, rende la questione cogente. vale la pena ricordare che nella pratica clinica dell’oncologo non è purtroppo infrequente che la scelta terapeutica possa esitare nella decisione di non procedere a cure specifiche. diventa essenziale allora non cedere (per tacitare la coscienza o le richieste di quanti siano erroneamente condotti alla falsa concezione che una soluzione esista sempre) all’idea di effettuare terapie da cui razionalmente non ci si aspetta nulla, se non disagi e forse sofferenze. ma la persona non deve essere abbandonata. si deve trovare il modo di comunicare con lui, consapevoli che curare non significa “dispensare medicine”. questi sono forse i momenti più alti della professione medica, quelli in cui la tensione etica si fa più forte e acuta. ancora: la questione dei farmaci off-label. questo problema non riguarda solo l’oncologia, certo, ma in quest’ambito è facile che i farmaci trovino rapidamente un ampliamento delle proprie indicazioni, non corroborato dai dati “ufficiali”, ma sostenuto dalle evidenze scientifiche. anche in questo caso si deve scegliere secondo etica e non esitare, se il quadro clinico lo consente, a procedere secondo scienza e coscienza, che è poi da sempre l’imperativo del medico. clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 147 paolo ghiringhelli 1, mariagrazia aspesi 1 una diagnosi esclusa caso clinico un paziente diabetico di 50 anni viene ricoverato per febbre persistente due giorni dopo la dimissione dal reparto di chirurgia. dieci giorni prima era stato sottoposto ad asportazione in elezione di neoplasia del retto sigma. due mesi prima era stato ricoverato in cardiologia per il medesimo motivo ed era stato dimesso con la diagnosi di “sepsi da staphylococcus epidermidis”. dopo l’esecuzione di un eco-cuore trans-toracico e trans-esofageo (figura 1) era stato fugato il dubbio di un’endocardite. per il persistere di anemia microcitica (volume globulare = 78 fl) era stato sottoposto a colonscopia, mediante la quale era stata riscontrata una lesione produttiva del retto sigma. dopo la dimissione dalla unità operativa di cardiologia, il paziente aveva continuato a lamentare una febbricola che era stata ascritta alla neoplasia; per questo motivo era stato ricoverato in elezione in un reparto chirurgico dopo 50 giorni dalla dimissione dalla cardiologia. nei giorni immediatamente successivi all’asportazione di tale neoplasia abstract we describe a 50-years-old patient with septic fever of unidentifiable source, following resection for rectal adenocarcinoma. he has been in treatment for sepsi two months before. blood coltures, an accurate amanestic analysis and a transesophageal echocardiography were the major tools for the diagnosis of this disease. after the diagnosis of infective endocarditis had been excluded, antibiotic treatment (with teicoplanin and rifampicine) was given for the presence of staphylococcus epidermidis. the previous pacemaker system was removed and a ddd pacemaker was implanted. keywords: sepsis, teicoplanin, pacemaker an excluded diagnosis . cmi 2007; 1(4): 147-151 1 unità operativa complessa di medicina interna, azienda ospedaliera “ospedale di circolo di busto arsizio”, presidio di tradate (va) caso clinico corresponding author ghiringhellipaolo@virgilio.it perché descriviamo questo caso? per stimolare la corretta valutazione delle febbri ricorrenti in pazienti che sono stati sottoposti a indagini o procedure mirate a singoli organi. in questi pazienti in caso di persistenza di sintomi sistemici il medico internista e quello di famiglia devono eseguire un’accurata ricostruzione dell ’anamnesi ed eseguire un’approfondita diagnostica differenziale gli episodi febbrili erano ripresi, per cui il paziente era stato ricoverato per accertamenti nell’u.o. di medicina interna. la radiografia del torace mostrava un addensamento nel campo medio polmonare destro. dall’anamnesi emerge che il paziente era diabetico di tipo ii dall’età di 24 anni; da 10 anni era iperteso ed era in trattamento con lisinopril e idroclorotiazide. in passato assumeva giornalmente almeno 1 litro di vino al giorno, da alcuni mesi ne consuma circa mezzo litro. da due anni, in seguito alla comclinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 148 una diagnosi esclusa parsa di episodi di bradicardia e ipotensione sotto sforzo, gli era stato impiantato un pacemaker (pm) a permanenza bicamerale dddr (tabella i). domande da porre al paziente per quanti giorni e con quale antibiotico è stato trattato in cardiologia? prima e dopo l ’intervento chirurgico, che tipo antibiotici sono stati somministrati e per quanto tempo? la febbre si accompagna ad altri sintomi o segni?    in cardiologia il malato è stato trattato per 8 giorni con 500 mg di levofloxacina 2 volte al giorno; al termine del trattamento è stato dimesso. in chirurgia, dove è stato operato, è stato trattato con sulbactam+ampicillina, con cui si è sfebbrato, e dopo 8 giorni è stato dimesso in discrete condizioni generali. la stadiazione patologica (p) della neoplasia del retto risultò essere pt3, n 0/25 m0, g2. quattro giorni dopo la dimissione dalla chirurgia il paziente giunge alla nostra osservazione per la ricomparsa di brividi scuotenti, febbre e rapido deterioramento delle condizioni generali. all’esame obiettivo era presente un soffio cardiaco sistolico di 1/6 figura 1 eco trans-esofageo effettuato durante l ’ultimo ricovero in medicina interna clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 149 p. ghiringhelli, m. aspesi di intensità, in corrispondenza del focolaio di ascoltazione della polmonare. il murmure vescicolare era molto aspro ed erano presenti alcuni gemiti alle basi. si rilevava epatomegalia. l’ispezione e la palpazione della sede del pm nell’area sottoclaveare sinistra non rileva segni patologici. vennero eseguite 6 emocolture a distanza di almeno un’ora l’una dall’altra seguendo l’andamento febbrile e si iniziò il trattamento con nadroparina calcica (8.000 ui ogni 12 ore), ceftriaxone (2 g x 2 die ev) associato, dopo 3 giorni, ad amikacina (500 mg ogni 12 ore). gli esami ematici dimostravano la presenza di una leucocitosi neutrofila (21.000 n. 91 %), una ves di 83, hb di 10 g%, pcr 12,78 mg%, (vn < 0,5), got = 85, gpt = 81, pseudocolinesterasi 2.841 u/l, ferritinemia 2.603 ng/ml. due emocolture risultarono positive per staphylococcus epidermidis meticillino-resistente. il trattamento con l’associazione teicoplamina e rifampicina risultò adeguato. la radiografia del torace e successivamente la tc rilevarono un addensamento parenchimale parailare destro con presenza nel suo contesto di broncogrammi gassosi. la tc rilevò anche multiple nodularità di incerta interpretazione a margini sfumati del diametro massimo di 2 cm, due in sede mantellare a destra e uno in sede parailare superiore sinistra. la saturazione dell’hb in aria ambiente era dell’88% e la gasanalisi arteriosa mostrava un’ipossiemia (po2 = 55 mmhg) con normocapnia, ph = 7,31, basi = -9, bicarbonato = 19 meq, lattato = 18 mg% e gap anionico = 27 meq/l. domande da porsi posso azzardare delle ipotesi diagnostiche sulla base della storia clinica e degli esami ematici e strumentali eseguiti? che terapia devo prescrivere?   quali ulteriori esami sono necessari per sviscerare il caso clinico? è innegabile la presenza di una sepsi grave, poiché sono presenti alterazioni dell’equilibrio acido base e iniziali segni di insufficienza d’organo (polmone e probabilmente segni di sofferenza epatica, transaminasi mosse con cpk normali). è utile prescrivere una terapia antibiotica tenendo presente gli antibiotici precedentemente somministrati e rimettendo in discussione la ricerca dei foci batteriemici. inoltre l’ecg mostrava un flutter atriale con blocco 3:1 non presente in precedenza e, al controllo del pm, si rilevò un innalzamento della soglia di stimolo. vennero subito ripetuti un eco-cuore trans-toracico e uno transesofageo: entrambi rilevarono la presenza di due neoformazioni ecorifrangenti mobili in stretto rapporto con il catetere endoatriale e il probabile basculamento di una delle due formazioni attraverso la tricuspide. la tabella ii mostra gli esiti dello studio ecocardiografico eseguito durante il ricovero in medicina interna. è stato discusso il caso con gli infettivologi e concordato di iniziare il trattamento con teicoplanina alla dose di carico di 800 mg/die ogni 12 ore per 3 volte e successivamente 800 mg/die per 30 giorni. venne associata anche rifampicina 600 mg/die. nel corso della 15a giornata, dopo miglioramento del focolaio infettivo polmonare, il paziente fu trasferito in cardiochirurgia dove vennero estratti chirurgicamente, con l’ausilio della circolazione extracorporea, i cavi dei pm infetti. successivamente vennero impiantati degli elettrodi epicardici con un pm definitivo di tipo dddr. l’esame colturale dei fili di pm risultò positivo per localizzazioni di staphylococcus epidermidis. venne successivamente eseguita una tc polmonare di controllo che mostrò la completa risoluzione dell’addensamento polmonare destro e di 2 noduli polmonari. ne rimase evidente solo uno in sede mantellare  camera stimolata 1 camera in cui si analizza l’attività elettrica cardiaca 2 modalità di risposta del pm 3 funzioni programmabili 4 funzioni antitachicardia 5 v = ventricle v = ventricle t = triggered r = rate modulated o = none a = atrium a = atrium i = inhibited c = communicating p = paced d = dual (a & v) d = dual (a & v) d = dual triggered/inhibited m = multiprogrammable s = shocks o = none o = none o = none p = simple programmable d = dual (p & s) o = none tabella i classificazione dei vari tipi di stimolazione del pacemaker (pm) in base alle sigle [1] clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 150 una diagnosi esclusa che risultò negativo alla pet e quindi da riferire ad esiti fibrotici. discussione la sepsi è apparsa subito non essere secondaria al focolaio broncopneumonico; infatti nei sintomi di esordio il paziente non lamentava tosse o espettorazione. in secondo luogo la maggior parte dei patogeni polmonari determina solitamente lesioni locali negli immunocompetenti, mentre il paziente presenta lesioni multifocali comparse contemporaneamente. ciò induce a pensare a localizzazioni settiche secondarie. è per contro da rilevare che una sepsi da staphylococcus epidermidis si rileva solitamente negli immunocompromessi e nei portatori di dispositivi protesici o trattati con procedure invasive. in effetti il paziente ha tre motivi per avere delle ridotte difese immunitarie: il diabete mellito, che però era ben controllato da modeste dosi di metformina; l’insufficienza epatica, dovuta probabilmente alla steatoepatite alcolica poiché i markers b e c sono risultati negativi; il recente intervento di asportazione del carcinoma del retto sigma con una stadiazione patologica, che però non poteva far pensare alla presenza di metastasi a distanza. come poteva essere dimostrata prima una localizzazione batterica a carico degli elettrodi del pm? in letteratura sono segnalati casi analoghi anche se sono rari [2-5]. è innegabile la particolarità del caso clinico poiché la complicanza infettiva con localizzazione su elettrodo di pm è comparsa a distanza di 3    anni dall’impianto ed è quindi stata secondaria a un’esposizione setticemica. inoltre la sacca che accoglieva il pm risultava intatta, senza segni di infezione, e non era quindi ipotizzabile un’infezione migrante da tale sede. interessante è il rapido incremento della soglia del pm che ha indotto i cardiologi a sospettare subito una localizzazione a carico della punta di almeno uno degli elettrodi e contemporaneamente un decremento del test di durata della batteria che dagli iniziali 8 anni era sceso a 2,5 anni. tutti questi sono indici di dispersione elettrica e quindi di danneggiamento degli elettrodi del pm. il focolaio broncopneumonico e gli addensamenti polmonari imponevano l’inizio di una terapia antibiotica in modo da limitare la disseminazione della sepsi dalle localizzazioni sugli elettrodi. era altrettanto importante asportare gli elettrodi intervenendo in un paziente nelle migliori condizioni possibili, cioè con livelli di antibiotici adeguati in tutti i tessuti, in modo che il delicato intervento fosse sopportato e fosse scongiurata la disseminazione settica durante la sua esecuzione. gli elettrodi del pm con il tempo aderiscono alla parete vascolare e sono difficilmente retraibili senza provocare danni al paziente. per questo si sono sviluppate delle tecniche endovascolari di sbrigliamento con l’ausilio di laser e di cateteri che, sospinti come delle guaine all’esterno dell’elettrodo, tentano di scollarlo dalle pareti vascolari, non sempre con successo. stante il grave stato settico si è preferito optare per la chirurgia a cuore aperto in circolazione extracorporea, che tra l’altro ha permesso il posizionamento di cateteri epicardici e di un nuovo pacemaker. è necessario porre un’autocritica sul troppo breve ciclo di antibioticoterapia somminimisure 2d misure m-mode misure doppler lvld a4c lvedv mod a4c lvls a4c lvesv mod a4c lvef mod a4c sv mod a4c 10,33 cm 154,20 ml 9,35 cm 72,52 ml 52,97% 81,68 ml diam. radice ao la diam av cusp 3,86 cm 3,32 cm 2,47 cm conclusioni eseguita una prima valutazione transtoracica che ha documentato un normale ventricolo sinistro e normali apparati valvolari sinistri. presenza in atrio destro di almeno due formazioni ecorifrangenti mobili (una del diametro di circa 12 mm, l’altra frastagliata) che sembrano in rapporto con uno dei cateteri endocavitari destri. tale reperto è confermato dallo studio transesofageo che sembra documentare anche un basculamento di una delle formazioni attraverso il tricuspide. tabella ii esame ecocardiografico e color doppler transesofageo clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 151 p. ghiringhelli, m. aspesi strato dopo il primo episodio febbrile. otto giorni sono troppo pochi. sono necessarie almeno quattro settimane di terapia se si ha il forte sospetto clinico di un’endocardite anche se non si riescono a dimostrare i criteri minimi per poter porre la diagnosi [6]. diagnosi alla dimissione recente asportazione di neoplasia del retto sigma senza attuali segni di sicure localizzazioni secondarie. diabete mellito tipo ii, ipertensione essenziale e probabile steatoepatite alcolica. sepsi grave in paziente con localizzazioni batteriche da staphylococcus epidermidis su elettrodi di pacemaker con polmonite secondaria. conclusioni questo caso suggerisce la necessità di una terapia antibiotica tutte le volte che si sospetti un’infezione batterica nei pazienti portatori di dispositivi impiantati di qualsiasi origine essi siano (protesi articolari, endovascolari, cateteri venosi, ecc.). l’eco transesofageo è un prezioso mezzo diagnostico. criteri per la diagnosi di sepsi grave [7] bibliografia 1. bernstein ad, camm aj, fisher jd, fletcher rd, mead rh, nathan aw et al. north american society of pacing and electrophysiology policy statement. the nasp/bpeg defibrillator code. pacing clin electrophysiol 1993; 16: 1776-80 2. klug d, lacroix d, savoye c, goullard l, grandmougin d, hennequin jl et al. systemic infection related to endocarditis on pacemaker leads: clinical presentation and management. circulation 1997; 95: 2098-107 3. meier-ewert hk, gray me, john rm. endocardial pacemaker or defibrillator leads with infected vegetations: a single-center experience and consequences of transvenous extraction. am heart j 2003; 146: 339-44 4. cacoub p, leprince p, nataf p, hausfater p, dorent r, wechsler b et al. pacemaker infective endocarditis. am j cardiol 1998; 82: 480-4 5. meune c, arnal c, hermand c, cocheton jj. infective endocarditis related to pacemaker leads. ann med interne (paris) 2000; 151: 456-64 6. ghiringhelli p, aspesi m. una febbre complicata. cmi 2007; 1: 31-36 7. kasper dl, braunwald e, fauci a, hauser s, longo d, jameson jl. harrison’s principles of internal medicine. new york: mcgraw-hill, 2004 sirs: risposta infiammatoria sistemica ad una moltitudine di insulti clinici severi manifestata da due o più delle seguenti condizioni: temperatura > 38°c o < 36°c frequenza cardiaca > 90 battiti/min frequenza respiratoria > 24/min conta dei leucociti > 12.000/mm3 o < 4.000/mm3 o neutrofili immaturi (cellule “a bande”) > 10% associata alla presenza di uno o più segni o insufficienze d’organo: ipotensione ≤ 90 mmhg, o media ≤ 70 mmhg che risponde a infusione ev di liquidi renale: diuresi < 0,5 ml/kg per 1 h nonostante l’adeguata idratazione respiratoria: pao 2 /fi o 2 ≤ 250 o se il polmone è l’unico organo interessato ≤ 200 piastrinopenia < 80.000 o riduzione del 50 % dei valori dell’ingresso nei successivi 3 giorni acidosi metabolica ph ≤ 7,30 o deficit di base ≥ 5 meq/l o plasma lattato > 1,5 volte rispetto al limite normale ripristino adeguato di liquidi: pressione di incuneamento polmonare ≥ 12 mmhg o pressione venosa centrale ≥ 8 mmhg cmi 2013;7(2)39-40.html farmaci biosimilari in oncologia: peculiarità e spunti di riflessione stefano cascinu 1 1 presidente associazione italiana di oncologia medica (aiom) editoriale corresponding author prof. stefano cascinu cascinu@yahoo.com disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo.   i farmaci biotecnologici hanno rappresentato una vera e propria rivoluzione in oncologia, in particolare gli anticorpi monoclonali sono stati impiegati con successo nel trattamento di diverse patologie neoplastiche, con solide evidenze di beneficio dimostrate nel lungo periodo. l’arrivo nei prossimi anni dei biosimilari di anticorpi monoclonali (mab) utilizzati in oncologia può porre interrogativi sulla loro efficacia e sicurezza per i pazienti. per verificare il livello di consapevolezza degli oncologi sui biosimilari l’associazione italiana di oncologia medica (aiom) ha condotto recentemente un sondaggio, raccogliendo la partecipazione di oltre 500 medici, e ha avviato un vero e proprio tour di sensibilizzazione, con nove seminari dedicati ai “biosimilari da anticorpi monoclonali” in altrettante regioni. dai risultati di questa indagine emerge il largo uso da parte degli oncologi italiani di farmaci biotecnologici (il 92% li prescrive ai propri pazienti), anche se solo il 24% dà una definizione corretta dei biosimilari, farmaci simili ma non uguali agli originali biotech. positivo il parere degli oncologi sui biosimilari anche dal punto di vista economico: il 52% degli intervistati ritiene che i biosimilari possano favorire il contenimento dei costi, anche se per il 39% è più utile cercare margini di risparmio in altre voci di spesa. i risparmi generati dall’uso dei biosimilari potrebbero favorire l’accesso ai farmaci biotech innovativi per tutti i pazienti e contribuire alla sostenibilità finanziaria dei sistemi sanitari. bisogna però stare in guardia affinché non passi una logica del risparmio a tutti i costi: le esigenze di contenimento della spesa non possono danneggiare i pazienti e l’obiettivo è ottimizzare l’uso delle risorse sempre più limitate, senza perdere in efficienza e, soprattutto, in efficacia. l’attenzione al problema della sicurezza è molto alta: infatti il 65% ritiene che i biosimilari di anticorpi monoclonali siano più complessi di quelli attualmente disponibili, richiedano processi di vigilanza più accurati e appositi registri e studi clinici con endpoint validati. per il 62% degli oncologi le maggiori criticità legate all’uso dei biosimilari derivano dal fatto che possono funzionare in maniera differente rispetto al farmaco originatore. la difficoltà nel riprodurre i biotech cresce in maniera proporzionale alla complessità dell’originator. per capire la differenza tra le due generazioni dei biotech basta considerare il diverso peso molecolare. ad esempio, una eritropoietina di circa 30.000 dalton è molto più semplice per dimensioni, caratteristiche di produzione e meccanismo d’azione rispetto ad un anticorpo monoclonale che pesa oltre 145.000 dalton. è quindi necessaria una stretta farmacovigilanza per garantire la sicurezza dei pazienti. il punto fondamentale è l’immunogenicità, cioè la capacità di indurre una reazione immunitaria nell’organismo, che ogni preparato biologico può scatenare. questa caratteristica deve essere attentamente valutata mediante appositi studi e continuamente monitorata. un altro aspetto fondamentale è la non sostituibilità automatica dei biosimilari, che possono essere notevolmente diversi dai biologici originatori. nel nostro paese l’intercambiabilità fra due medicinali è ammessa se attuata tra prodotti compresi nelle cosiddette “liste di trasparenza”, predisposte dall’aifa (agenzia italiana del farmaco), relative ai generici e ai loro originatori, considerati a tutti gli effetti equivalenti terapeutici. per quanto riguarda i biosimilari attualmente disponibili, nessuna norma sancisce il divieto esplicito di sostituzione, previsto invece in altri paesi europei. però l’aifa non ha inserito alcun biosimilare nelle liste di trasparenza, bloccando, di fatto, la possibilità di sostituzione da parte del farmacista. quindi questi prodotti non possono ritenersi automaticamente intercambiabili con gli originatori e la possibilità di utilizzarli al posto dei medicinali di riferimento è da ricondurre alla scelta terapeutica del medico. qual è la situazione a livello europeo? l’ema ha sviluppato un approccio specifico per autorizzare l’immissione in commercio di questi prodotti. è richiesto un dossier di registrazione che, pur basandosi su quello del medicinale di riferimento, deve riportare studi comparativi preclinici e clinici, indicati con il termine di “esercizio di comparabilità”, per dimostrare che il farmaco che si intende registrare possiede un profilo sovrapponibile a quello dell’originatore, per quanto riguarda qualità, sicurezza ed efficacia. il processo di registrazione di un biosimilare è dunque decisamente oneroso perché alcune parti del dossier non possono essere omesse e sostituite con uno studio di bioequivalenza, a differenza di quanto avviene per un generico. in considerazione delle specificità legate ai biosimilari degli anticorpi monoclonali, l’ema ha stabilito linee guida apposite dal 1° dicembre 2012. l’ente regolatorio statunitense, la food and drug administration (fda), ha emesso nel febbraio 2012 le direttive per l’industria farmaceutica (draft guidance) per lo sviluppo e l’approvazione all’uso e al commercio dei biosimilari negli usa. l’fda non esclude l’intercambiabilità, anche se afferma che per consentirla è necessario presentare studi clinici addizionali. in tal caso il medicinale potrà essere sostituito anche senza il parere del medico che ha prescritto il farmaco di riferimento. la posizione dell’aiom sui biosimilari già a disposizione è molto chiara ed è stata ribadita in un documento depositato presso la commissione igiene e sanità del senato nel novembre 2010. il medico è legalmente responsabile di ciò che prescrive: pertanto può indicare il biosimilare oppure l’originatore. i nuovi pazienti possono essere trattati con un biosimilare, mentre per quelli già in cura con l’originatore andrebbe garantita la continuità terapeutica. resta però il problema della mancanza di una norma che regoli nel nostro paese la materia. nel 2010 è stato presentato un disegno di legge per non consentire la sostituzione automatica in farmacia del medicinale biologico di riferimento col corrispondente biosimilare. attualmente il ddl è ancora fermo in parlamento. nel nostro paese, a livello locale, si registrano realtà virtuose rappresentate da regioni del centro-nord, dalla toscana e dalla campania dove negli anni passati sono stati definiti provvedimenti che promuovono l’utilizzo del biosimilare per favorire un impiego più razionale delle risorse economiche del sistema sanitario. l’obiettivo per il futuro è la convergenza verso un quadro coeso sul territorio nazionale che definisca chiaramente l’ambito di utilizzo più appropriato di questi farmaci. clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 127 cipali cause di morte, dopo la cardiopatia ischemica, con una prevalenza del 9,5% mentre le malattie cerebrovascolari si collocano al settimo posto tra le principali cause di invalidità secondo il world health report 1999 dell’oms (organizzazione mondiale della sanità). negli stati uniti ogni anno si verificano 700.000 nuovi casi di ictus [3]. eugenio roberto cosentino 1, elisa rebecca rinaldi 1, claudio borghi 1 introduzione l’ipertensione arteriosa rappresenta uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di ictus, infarto miocardico e insufficienza renale [1]. viceversa, la riduzione dei valori pressori risulta in grado di prevenire lo sviluppo di una considerevole percentuale di tali complicanze, soprattutto di quelle di natura cerebrovascolare, nei cui confronti l’ipertensione arteriosa rappresenta il fattore di rischio preponderante. i dati disponibili negli usa individuano nell’ictus la terza causa di morte in assoluto, responsabile di 150.000 decessi ogni anno; essi suggeriscono inoltre che un adeguato trattamento preventivo può tradursi in una significativa riduzione degli eventi. tale riduzione è stata stimata nell’ordine del 2% all’anno prima del 1972 e di circa il 6% all’anno nel periodo compreso tra il 1972 e il 1991, con una accelerazione del decremento che ha riguardato in eguale misura tutte le categorie di età ed entrambi i sessi [2]. sulla base di stime generali, l’ictus cerebrale si colloca al secondo posto tra le prinla gestione integrata del rischio cardiovascolare abstract cardiovascular disease (cvd) is a leading cause of mortality and is responsible for one-third of all global deaths. regrettably, surveys of physician’s clinical practice patterns indicate that the recommendations made in the guidelines are sometimes not implemented and the predefined goals of therapy for patients with cardiovascular diseases are not achieved. cvd prevention and management can only be improved through an integrated approach that addresses overall cardiovascular risk and that involve general practitioners as well as specialists. keywords: cardiovascular disease, cardiovascular risk, integrated management integrated management of cardiovascular risk cmi 2008; 2(3): 127-134 1 u.o. di medicina interna (direttore prof. c. borghi). dipartimento di medicina clinica e biotecnologie applicate “d. campanacci”. policlinico s. orsola malpighi, bologna corresponding author dott. eugenio roberto cosentino u.o. di medicina interna (direttore prof. c. borghi). dipartimento di medicina clinica e biotecnologie applicate “d. campanacci”. policlinico s. orsola malpighi via massarenti, 9 40138 bologna ambscomp@med.unibo.it gestione clinica incidenza dell’ictus [3] ogni anno negli usa si verificano circa 700.000 ictus circa 500.000 sono primi eventi e 200.000 sono recidive di tutti gli ictus, l ’88% è di origine ischemica, il 9% è secondario a emorragie intracerebrali e il 3% è secondario a emorragie subaracnoidee l’aumento della vita media della popolazione dei paesi industrializzati determina un aumento dell ’incidenza di ictus     clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 128 la gestione integrata del rischio cardiovascolare la mortalità per malattie cerebrovascolari si è ridotta progressivamente dal 1965 fino al 1998, con un decremento del 62% nei maschi e del 58,8% nelle femmine, al quale ha fatto tuttavia seguito un arresto seguito da un lieve incremento dell’incidenza di eventi negli anni più recenti. i dati del world health report indicano che, nel 2004, sono morte per malattia cerebrovascolare 5,5 milioni di persone: questa patologia rappresenta quindi la seconda causa di morte nel mondo. inoltre il 40% dei pazienti colpiti da ictus richiede una riabilitazione attiva e il costo per paziente è stimato in 100.000 dollari [4]. secondo stime pubblicate dal ministero della salute, complessivamente, nel nostro paese, l’ictus è responsabile di 191.000 ricoveri per acuti/anno (2% del totale, a cui corrispondono 2.000.000 giorni di degenza/anno, ossia il 82,9% del totale) con una spesa totale di 645.000.000 euro/anno, che i ricercatori hanno descritto come un enorme impegno in termini clinici ed economici. l’ipertensione arteriosa rappresenta inoltre un importante fattore di rischio coronarico nei cui confronti, tuttavia, gli elevati valori pressori esplicano un ruolo meno esclusivo rispetto a quello espresso nei confronti della vasculopatia cerebrale [2]. tutto ciò dipende strettamente dalla multifattorialità della malattia coronarica, che riserva un ruolo di co-fattore, peraltro primario, all’ipertensione arteriosa [5]. in aggiunta a quanto riportato, l’ipertensione arteriosa determina un incremento significativo dell’incidenza di scompenso cardiaco e di arteriopatia periferica. un ulteriore e rilevante aspetto, emerso più recentemente, è quello rappresentato dalla relazione tra elevati valori pressori e compromissione della funzionalità renale. infatti, in accordo con i dati proposti dall’united states renal data system (usrds), la proporzione di pazienti ipertesi che va incontro a insufficienza renale terminale risulta progressivamente crescente, in netta controtendenza rispetto al trend delle complicanze cardiovascolari maggiori [7,8]. l’aumento dell’incidenza e della prevalenza di insufficienza renale (ir) emerge anche dai dati relativi agli stati uniti dove i pazienti in dialisi e trapianto erano più di 320.000 nel 1998 e si prevede possano raggiungere i 650.000 nel 2010. dato il costo del trattamento dialitico, ciò comporterà un preoccupante aumento della spesa sanitaria (figura 1) [8]. la situazione in europa è allarmante. infatti l’insufficienza renale lieve ha una prevalenza anche più elevata che negli usa, attestandosi al 42%, mentre i gradi moderati, severi e avanzati sono altrettanto frequenti in europa e nella popolazione americana (figura 2). i dati dell’edta (european dialysis and trasplant association) riportano una cifra di oltre 13.000 nuovi pazienti in dialisi nel 2002, di cui 4.000 nella fascia di età 61-74 anni e una prevalenza di oltre 5.000 pazienti tra i 65 e i 75 anni. se stimiamo la situazione in italia (ove mancano rilevazioni dirette), nel nostro paese dovrebbero esserci circa 25 milioni di individui con insufficienza renale lieve o moderata e la prevalenza degli stadi precoci dell’ir è ancora più elevata. l’insufficienza renale cronica (irc) si associa a un rischio elevato di danno cardiovascolare, l’ipertensione arteriosa gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo di complicanze renali. il rapporto tra la presenza di ipertensione e il danno renale è ben noto: i dati del mrfit (the multiple risk factor intervention trial) dimostrano che i pazienti con pressione arteriosa più elevafigura 1 stima del costo della dialisi nei prossimi dieci anni: circa 1,1 trilioni di dollari [8] 0 200 400 600 800 1.200 2001-20101991-20001981-1990 1.000 co st o de lla di al is ip er de ce nn io (m ili ar di di do lla ri) anno conseguenze dell’ictus [5,6] seconda causa di morte nel mondo (oltre 5 milioni di morti/anno) il 40% dei pazienti colpiti da ictus richiede una riabilitazione attiva il costo per paziente è stimato in 100.000 dollari i problemi cor relati comprendono: l ’handicap fisico, la depressione, la disfunzione cognitiva     clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 129 e. r. cosentino, e. r. rinaldi, c. borghi ta hanno maggiori probabilità di finire in dialisi (figura 3) [10]. a sua volta questo è gravato da una elevata mortalità, 10-30 volte superiore nei pazienti in dialisi che nella popolazione generale. la sindrome metabolica (sm) è, per definizione, una situazione clinica in cui sono presenti vari fattori di rischio. in effetti quando tali fattori sono associati, come appunto in questo caso, il rischio aumenta con il crescere dei fattori presenti. si crea quindi un circolo vizioso in cui la sindrome metabolica può causare insufficienza renale che può a sua volta aggravare la sm. l’aumento del numero di pazienti che necessitano di dialisi è dovuto a due patologie: la nefropatia vascolare e la nefropatia diabetica. è stabile il numero delle restanti nefropatie. tra la popolazione di pazienti a rischio cardiovascolare, una posizione di assoluto rilievo spetta certamente ai pazienti diabetici che presentano, in media, un’incidenza di complicanze renali largamente superiori a quelle che si osservano nella popolazione non diabetica. il profilo di rischio risulta poi particolarmente complicato quando il diabete si associa alla presenza di ipertensione arteriosa la quale, peraltro, rende più complesso il quadro clinico in una percentuale di pazienti diabetici superiore al 60% (80% in presenza di proteinuria). 0 10 20 30 40 50 lieve 90-60 ml/min moderata severa avanzata dati europei dati usa pr ev al en za (% ) 31% 42% 4,3% 4,9% 0,2% (400.000) 0,1% 0,2% (400.000) 0,1% figura 2 prevalenza dell ’insufficienza renale nella popolazione generale [9] 0 1,0 2,0 3,0 4,0 in ci de nz a m al at tia re na le te rm in al e (% ) 1,5 2,5 3,5 ipertensione stadio ii ipertensione stadio iii ipertensione stadio iv ipertensione stadio i pab normale ma non ottimale pab normale elevata pab ottimale 0,5 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 1817 anni dallo screening figura 3 incidenza di insufficienza renale terminale nel follow-up in rapporto ai valori pressori: studio mrfit [10] pab = pressione arteriosa basale clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 130 la gestione integrata del rischio cardiovascolare la malattia diabetica rappresenta una delle cause principali di insufficienza renale. la nefropatia diabetica non è l’unica forma di nefropatia che si riscontra in un paziente diabetico: in tali soggetti, infatti, sono frequenti le nefropatie vascolari e non infrequenti altre glomerulopatie che richiedono spesso una valutazione bioptica. la malattia cardiovascolare è infatti la principale causa di morte nei soggetti affetti da irc. la grande prevalenza e incidenza delle malattie cardiovascolari in corso di irc è la conseguenza della presenza concentrata, in questi soggetti, di un elevato numero di fattori di rischio cardiovascolare sia tradizionali (età avanzata, ipertensione arteriosa, dislipidemia, iperglicemia, fumo di tabacco, sedentarietà e menopausa), che non tradizionali o propri della condizione di nefropatico come l’anemia cronica, l’iperomocistinemia, la trombofilia e le anomalie del metabolismo fosfo-calcico. inoltre, anche la semplice elevazione della creatinina sierica come tale contribuisce ad aumentare sia il rischio globale di morte che quello di sviluppo di malattie cardiovascolari, suggerendo come l’identificazione precoce dei soggetti che presentano alterazioni della funzionalità renale rappresenti un aspetto essenziale della prevenzione cardiovascolare ad ampio spettro. tutto ciò determina il fatto che i pazienti che presentano tali alterazioni si collochino in un ambito di rischio cardiovascolare compreso tra il livello elevato e molto elevato, il che corrisponde strettamente alle evidenze epidemiologiche. percezione del rischio cardiovascolare il concetto di globalità del rischio cardiovascolare (cv ) ha ricevuto nel corso di questi ultimi anni una grande attenzione derivante soprattutto da una maggiore percezione del fatto che una sua valutazione mediante strumenti relativamente semplici possa tradursi in un enorme vantaggio preventivo attraverso l’identificazione probabilistica di quei pazienti che, nell’ambito della popolazione generale, presentano una maggiore probabilità di sviluppare complicanze cardiovascolari [11]. secondo una definizione operativa, il rischio cardiovascolare globale che caratterizza ciascuno soggetto è «la probabilità complessiva che quel soggetto sviluppi un determinato evento cv in un dato intervallo di tempo». ad esempio, affermare che un soggetto ha un rischio del 20% a 10 anni significa che quell’individuo, nei 10 anni successivi alla data della valutazione del suo profilo di rischio, ha 20 probabilità su 100 di sviluppare una complicanza cardiovascolare. in altre parole significa che, se noi consideriamo tutta la popolazione che è caratterizzata dal profilo di rischio analogo a quello identificato come sopra, possiamo essere ragionevolmente certi che 1/5 di tali soggetti svilupperà un evento cardiovascolare nell’intervallo di tempo previsto. tale aspetto riveste, come ovvio, una rilevanza sostanziale e attribuisce al concetto di rischio cv la potenzialità di stratificare i soggetti nell’ambito della popolazione generale, identificando ragionevolmente quelli che necessitano di strategie di prevenzione più aggressive e nei cui confronti è doveroso proporre un maggiore impegno delle risorse disponibili. fra i fattori che condizionano la stima del rischio cv vanno annoverate le caratteristiche intrinseche del soggetto rappresentate soprattutto da età, sesso e familiarità per malattie cv (e probabilmente profilo genetico), che condizionano significativamente il profilo di rischio globale, ma nei cui confronti le possibilità di intervento sono, attualmente, pressoché nulle. ciononostante per il medico di medicina generale la valutazione di tali determinanti del rischio riveste un ruolo essenziale, in quanto esse agiscono come moltiplicatori del potenziale di rischio correlato ad altri fattori modificabili nei cui confronti l’aggressività del trattamento può risultare, quindi, significativamente diversa in concomitanza con il diverso livello cui si collocano i fattori intrinseci. in altre parole lo stesso livello di pressione o di colesterolemia plasmatica può tradursi in un diverso profilo di rischio globale a seconda che il paziente sia più o meno anziano, sia maschio o femmina o presenti o meno una familiarità per le malattie cardiovascolari. un secondo fattore di grande rilevanza nella stima del rischio è rappresentato dall’intervallo di osservazione che si decide di adottare, il quale può variare significativamente condizionando il significato della previsione clinica. nonostante nella grande maggioranza dei casi il rischio cv venga stimato su un intervallo di 10 anni è tuttavia indispensabile che tale aspetto venga opportunamente specificato quando si definisce l’ambito di rischio, in quanto, a parità di condizioni clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 131 e. r. cosentino, e. r. rinaldi, c. borghi di rischio intrinseco, qualsiasi modifica in senso riduttivo o estensivo dell’intervallo di osservazione è ovviamente destinata a tradursi in un incremento o in una riduzione della probabilità di un evento cv. in particolare, se immaginiamo una relazione lineare tra tempo e rischio di eventi quale quella che spesso caratterizza le complicanze cv, possiamo osservare come la probabilità di un evento, e quindi il rischio cv del soggetto sia direttamente proporzionale alla durata del periodo di osservazione (ad esempio un rischio di infarto miocardico acuto, ima, del 5% a 5 anni e un rischio di ictus del 10% a 10 anni sono esattamente identici e anche se una lettura indipendente dal tempo rischierebbe di attribuire all’ictus un potenziale patologico più rilevante). conseguentemente, l’intervallo di osservazione per il medico di medicina generale deve sempre essere specificato nella traduzione pratica dell’algoritmo di rischio, per ottenere una stima efficace dell’intervallo di tempo in cui è possibile applicare con successo le strategie di prevenzione. il terzo elemento essenziale per la definizione più accurata possibile del rischio cv è rappresentato dall’identificazione dei determinanti del rischio impiegati per fornire una stima globale dello stesso, che possono essere significativamente diversi tra le diverse metodologie impiegate e conseguentemente condurre a interpretazioni non univoche del profilo di rischio anche nello stesso soggetto. un esempio rilevante è certamente rappresentato dalla carta del rischio score [12] adottata dalla società europea di cardiologia che non annovera tra i determinanti del rischio cv la presenza di diabete e propone pertanto una stima del rischio cv del soggetto che manca di un importante elemento il cui ruolo viene valutato, in sede di definizione del rischio globale, incrementando la stima conservativa che emerge dal calcolo attraverso la moltiplicazione della stessa per un coefficiente fisso che rappresenta empiricamente l’eccesso di rischio conseguente alla presenza di malattia diabetica. tutto ciò permette di comprendere chiaramente come la scelta dei determinanti del rischio da considerare rappresenti un momento essenziale in grado di collocare lo stesso paziente in una condizione di rischio teorico significativamente diversa. per tutti questi motivi, la gestione del rischio cardiovascolare e dei provvedimenti ad essa correlati da parte del medico di medicina generale non può essere lasciata ad un’interpretazione arbitraria e soggettiva, ma deve necessariamente trarre spunto da una visione globale del paziente e delle sue caratteristiche e da una conoscenza e applicazione obiettiva delle strategie di intervento applicabili quali emergono dai risultati degli studi clinici controllati e della disciplina delle evidenze. la soluzione più efficace e immediata del problema è pertanto rappresentata dalla stesura di opportune linee guida che, a partire da una base di evidenze obiettive, siano in grado di sviluppare strategie di intervento terapeutico e preventivo nelle quali riconoscere quei criteri di ampia applicazione che contraddistinguono l’intervento clinico efficace nei confronti di una fenomenologia come quella del rischio cardiovascolare caratterizzata da dimensioni epidemiche. complessivamente, pertanto, l’identificazione del profilo di rischio di un soggetto ha grande rilevanza clinica per il medico di medicina generale, ma anche estrema importanza in termini economici e di gestione razionale delle risorse disponibili per la prevenzione, in quanto permette di indirizzare una quota maggiore delle stesse per attuare una prevenzione efficace in quei soggetti che ne possono trarre un maggiore beneficio. le dimensioni del problema per un’integrazione sinergica tra professionisti coinvolti nella gestione del rischio cv, al medico di medicina generale spetta il compito della prima diagnosi e della prima impostazione della terapia, oltre che la verifica dell’efficacia, tollerabilità e aderenza al trattamento (tabella i). il ruolo dello specialista invece prevede il supporto diagnostico alla prima diagnosi, il controllo dei fattori di rischio di difficile sorveglianza e la gestione delle eventuali complicanze. nella gestione dei fattori di rischio cardiovascolare, il passaggio dalla semplice prescrizione al coinvolgimento del paziente nel problema costituisce una delle maggiori peculiarità e novità del ruolo del medico generalista. john murtagh, saggio medico australiano, fornisce alcune possibili risposte in merito a cosa possa essere utile, nella pratica, a stimolare e mantenere l’attenzione del paziente sul problema dell’ipertensione [13]: clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 132 la gestione integrata del rischio cardiovascolare ruolo del medico di medicina generale prima diagnosi e prima impostazione della terapia verifica dell’efficacia, tollerabilità e aderenza al trattamento specificità del ruolo: dalla semplice prescrizione al coinvolgimento    ruolo dello specialista supporto diagnostico alla prima diagnosi ipertensione secondaria/in gravidanza ipertensione di difficile controllo crisi ipertensiva     fare uso di tessere, diari o tabelle in cui riportare i valori misurati a domicilio e/o in ambulatorio; distribuire opuscoli, dépliant, handout con materiale educativo; elaborare schemi posologici chiari, semplici e comprensibili, tenendo conto del “sovraffollamento terapeutico” dei soggetti anziani; effettuare una programmazione adeguata dei controlli sia domiciliari sia ambulatoriali.     tabella i ambiti di competenza della medicina territoriale e di quella ospedaliera/specialistica. si tratta di una ipotesi di lavoro che, se rispettata, consentirebbe una gestione integrata senza confusione di ruoli da parte del medico di medicina generale cenni sulla storia clinica motivo della richiesta quesiti o dubbi diagnostici e/o terapeutici    da parte dello specialista risposte ai quesiti motivazioni alla base delle risposte prescrizione di ulteriori indagini proposta di successivi controlli     tabella ii scheda di flusso informativo tra medico di medicina generale e specialista la letteratura conferma l’importanza dell’intervento del medico nel rendere concreti e utili le indicazioni relative a un adeguato stile di vita. lo studio dew-it (diet, exercise, and weight loss intervention) ha evidenziato come soggetti sottoposti a stile di vita corretto (alimentazione, perdita di peso e attività fisica), dopo un anno di addestramento, mostravano una significativa riduzione della pressione arteriosa, rispetto al basale (figura 4 a e b), mentre il gruppo di controllo (figura 4 c e d) non presentava alcuna modificazione. questa riduzione, misurata con il monitoraggio ambulatorio della pressione delle 24 ore, era significativa sia per la sistolica (figura 4 a e c) che per la diastolica (figura 4 b e d) [14]. trasformare le indicazioni in merito al corretto stile di vita in un reale cambiamento di abitudini da parte del paziente non è semplice. ad esempio è facile dire ai soggetti ipertesi ad alto rischio cv di eseguire maggiore attività fisica: è però compito del medico di medicina generale contestualizzare questo messaggio traducendolo in un tragitto reale che consenta agli ipertesi ad alto rischio di camminare per 30-60 minuti al giorno. un altro aspetto dell’attività del mmg riguarda la durata della visita. alcune visite si possono risolvere in pochi minuti nel caso della compilazione di una ricetta o per una prescrizione routinaria di esami clinici. a fronte di queste, altre possono richiedere invece 20-30 minuti. altre variabili che condizionano la durata della visita sono l’eventuale presenza di nuove problematiche cliniche, che richiedono un tempo maggiore per essere esaminate, e la presenza di pazienti anziani, che presentano maggiori problemi aperti. nel tempo di una visita il mmg deve ascoltare, prevenire, diagnosticare, prescrivere, decidere e consigliare. frequente è inoltre la necessità da parte del mmg di richiedere un consulto a uno specialista. vanno distinte due situazioni: quella del paziente inviato allo specialista per il problema ipertensione e quella del paziente inviato per una patologia concomitante, nella quale l’ipertensione arteriosa si presenta come un problema trasversale. in ogni caso, il medico di medicina generale dovrebbe inviare una specie di check-list allo specialista; il documento dovrebbe riportare il dosaggio dei farmaci, le misurazioni della pressione arteriosa, l’aderenza alla terapia, le indagini diagnostiche e le eventuali notizie sullo stile di vita. dall’altra parte lo specialista dovrebbe indicare se vi sono state discrepanze fra le misurazioni cliniche ambulatoriali ed extra ambulatoriali, se vi sono stati messaggi contraddittori sul significato dell’ipertensione arteriosa, provenienti da ambienti non professionali, se l’accesso all’ambulatorio specialistico è stato agevole e il tempo disponibile per il paziente adeguato. un buona comunicazione è alla base di una corretta e serena integrazione professionale (tabella ii). una possibile, ma determinante, risoluzione verso una corretta integrazione tra ospedale e territorio nella gestione del soggetto ad elevato rischio cv è quella di migliorare l’organizzazione dell’assistenza. la moderna organizzazione di lavoro deve prevedere una medicina di gruppo, di rete o in associazione, un ambulatorio adatto per le patologie più complicate, servizi di telemedicina e servizi di telecomunicazione avanzati. clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 133 e. r. cosentino, e. r. rinaldi, c. borghi accertamenti diagnostici di ii livello procedure concordate di gestione: flussi informativi adeguati messaggi sempre univoci definizione degli ambiti    paziente condiviso scelta adeguata (motivo della condivisione) espletamento procedure burocratiche (esenzioni) coordinamento fra più specialisti punti chiave dell’integrazione ospedale-territorio: il paziente condiviso figura 4 risultati dello studio dew-it [14] 110 120 130 140 150 pr es si on e ar te rio sa si st ol ic a (m m hg ) ore 46 8 10 12 14 16 18 20 22 0 2 gruppo stile di vita 60 70 80 90 100 pr es si on e ar te rio sa di as to lic a (m m hg ) ore 46 8 10 12 14 16 18 20 22 0 2 gruppo stile di vita basale follow-up 110 120 130 140 150 pr es si on e ar te rio sa si st ol ic a (m m hg ) ore 46 8 10 12 14 16 18 20 22 0 2 controlli 60 70 80 90 100 pr es si on e ar te rio sa di as to lic a (m m hg ) ore 46 8 10 12 14 16 18 20 22 0 2 controlli a b c d clinical management issues 2008; 2(3) ©seed tutti i diritti riservati 134 la gestione integrata del rischio cardiovascolare bibliografia 1. neton jd, wentworth d. serum cholesterol, blood pressure, cigarette smoking, and death from coronary heart disease. overall findings and differences by age for 316,099 white men. multiple risk factor intervention trial research group. arch intern med 1992; 152: 56-4 2. mac mahon s, rodgers a. blood pressure, antihypertensive treatment and stroke risk. j hypertens 1994; 12: s5-s14 3. american heart association. heart disease and stroke statistics – 2004 update. dallas: american heart association, 2003 4. taylor tn, davis ph, torner jc, holmes j, meyer jw, jacobson mf. lifetime cost of stroke in the united states. stroke 1996; 27: 1459-66 5. world health report 2004 european stroke initiative executive committee. cerebrovasc dis 2003; 16: 311-37 6. international society of hypertension writing group. international society of hypertension (ish): statement on 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la classificazione gold; il paziente assumeva inoltre una terapia inalatoria a base di beclometasone dipropionato e salbutamolo. non riferiva allergie riconosciute a farmaci o altro. da 4 anni era comparsa fibrillazione atriale ed era stata riscontrata un’insufficienza mitralica moderata. da allora era in terapia con flecainide e warfarin, mantenendo l’inr (international normalized ratio) fra 2 e 3. da circa 6 mesi era stato sottoposto ad artroprotesi dell’anca destra per grave coxartrosi e successivamente era stato trasferito in un reparto di riabilitazione. gli esami condotti durante la degenza in questo reparto avevano abstract a 70-year-old man was admitted in our hospital with mild fever, pain, myalgia. his eosinophil count was high, leading to a diagnosis of hypereosinophilic syndrome. this case report gives rise to many questions regarding diagnosis and correct management of eosinophilic myopathies. keywords: eosinophilic myopathies, hypereosinophilic syndrome a strange myalgia. cmi 2008; 2(2): 75-81 1 unità operativa complessa di medicina interna, azienda ospedaliera “ospedale di circolo di busto arsizio”, presidio di tradate (va) permesso di evidenziare un incremento degli eosinofili, che raggiungevano il 25% degli 8.600 globuli bianchi totali, con una componente monoclonale di igg pari a 0,25% mg/l. da un confronto con gli esami precedenti emerse che da circa 2 anni gli eosinofili erano in progressivo aumento (figura 1). furono inoltre eseguiti la radiografia del torace e l’ecocardiogramma, che non evidenziarono elementi significativi. la gastroscopia mostrò la presenza di un’ulcera duodenale attiva che non fu possibile biopsiare a causa della terapia anticoagulante orale in corso. furono così eseguiti gli esami parassitologici delle feci, del sangue, la beta-2 microglobulina, la ricerca della proteinuria di bence jones: tutte queste analisi risultarono negative. caso clinico corresponding author dott. paolo ghiringhelli pghiringhelli@aobusto.it perché descriviamo questo caso? per valutare i metodi diagnostici più appropriati e idonei alla identificazione delle cause primitive e secondarie dell ’ipereosinofilia e fornire le indicazioni per un’adeguata terapia clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 76 una strana forma di mialgia i valori riscontrati nei principali esami ematochimici sono riportati in tabella i. tutti i test per la ricerca di autoanticorpi risultarono negativi, compresi gli anca (anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili). era negativa anche la ricerca delle sierologie per le larve migrans e i test di biologia molecolare eseguiti sull’aspirato midollare atti a svelare alterazioni cromosomiche (figura 2) o la presenza di fusione del gene fip1l1pdgfr (platelet-derived growth factor receptor) alfa, che rende sensibile la malattia alla terapia con imatinib. negativi risultarono anche i riarrangiamenti bcr-abl e bcr-fgfr1, caratteristici rispettivamente della leucemia mieloide cronica e della più rara leucemia mielomonocitica cronica. la traslocazione t(1;4)(q44;q12) (figura 2a) è diagnostica di oncogene legato alla malattia. questa traslocazione non viene riscontrata in tutti i casi di sindrome ipereosinofila, ma è caratteristica di quelle che vengono definite, in base a questo riscontro, leucemie eosinofile croniche. la lesione principale è quella, evidenziata in figura 2b, che provoca la fusione di due geni del braccio lungo del cromosoma 4: il pdgfra e il fip1l1. questo provoca la sintesi di una tirosinchinasi attiva. la biopsia ossea (figura 3) mostrava una ricca cellularità che raggiungeva il 70% degli spazi midollari con un 90% di elementi appartenenti alla linea eosinofila. non vi era significativo incremento della quota blastica. la linea eritroide era lievemente ridotta, mentre quella megacariocitica era normale. il reticolo argentofilo non appariva addensato, era evidente un’iperplasia della serie eosinofila e la presenza di molti mielociti e metamielociti. gli eosinofili apparivano degranulati con alcuni corpi lipidici intracitoplasmatici. l’eng (elettroneurografia) agli arti inferiori mostrava la presenza di una lieve sofferenza neurogena a carico dei muscoli esaminati, sia agli arti superiori, sia a quelli inferiori. non era presente un pattern miopatico primitivo. l’ecg mostrava una riduzione del voltaggio della t in sede laterale, invariato rispetto al passato. l’ecocardiogramma evidenziava un’ipertrofia ventricolare sinistra e un pattern come da alterato rilasciamento diastolico. domande da porsi il paziente soffre di allergie? la sintomatologia clinica è correlabile all ’ipereosinofilia? che differenza c’è fra eosinofilia e ipereosinofilia? come escludere un’ipotesi infettiva? come studiare il paziente? come decidere che tipo di terapia iniziare? il paziente non aveva una storia di allergia stagionale o perenne e non riferiva intolleranza a farmaci. anche la visita allergologica e i test cutanei non mostravano la presenza di allergie significative.       figura 1 un eosinofilo al microscopio elettronico. il nucleo a forma di “pince-nez” (occhiali a molla) circondato da granuli, molti dei quali hanno all ’interno una formazione centrale elettrondensa. questa formazione è una proteina basica tossica. la matrice che circonda la formazione centrale del granulo contiene proteine tossiche cationiche e perossidasi [1] pcr 5,28 mg/l < 0,5 mg/l ck 772 u/l (con ck-mb < 6%) < 50 u/l ves 18 mm/h 2-10 mm/h ige 1.395 ui 20-450 mg/dl gb 27.730 mm3 eosinofili 64% 4.000-10.000 mm3 eosinofili 1-4% d-dimero 409 ng/ml < 250 ng/ml tabella i risultati degli esami ematochimici pcr = proteina c reattiva ck = creatinchinasi ck-mb = isoenzima mb della creatinchinasi ves = velocità di eritrosedimentazione ige = immunoglobuline e gb = globuli bianchi clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 77 p. ghiringhelli figura 2 alterazioni cromosomiche nella sindrome ipereosinofila. modificata da [1] a b q12 p q q12 delezione q44 t(1;4) (q44;q12) gene di fusione oncogenica pdgfra fip1l1 figura 3 biopsia ossea da cui risulta evidente l ’iperplasia della quota eosinofila con normalità nella serie megacariocitica ed eritroide la sintomatologia artromialgica era riferita come simile a una persistente sindrome influenzale e, durante la degenza, il paziente era risultato non più autosufficiente, in quanto non era in grado di vestirsi in modo autonomo ed era malfermo, non in grado di deambulare se non sorretto per pochi passi, a causa dei gravi dolori. la sintomatologia dolorosa non si attenuava con il riposo notturno. durante la degenza, inoltre, comparve un’eruzione cutanea pruriginosa eritemato-maculare diffusa. per questi sintomi il paziente, dopo essere stato informato che non era stata rilevata alcuna precisa causa dell’ipereosinofilia e che probabilmente si trattava di una sindrome ipereosinofila idiopatica, chiese di essere sottoposto ad adeguato trattamento farmacologico. dopo avere eseguito gli ultimi accertamenti, atti a escludere una parassistosi, la presenza di connettiviti o di sindromi paraneoplastiche, veniva proposto e iniziato un trattamento steroideo con prednisone alla dose di 0,75 mg/kg, incrementando la protezione gastrica con omeprazolo 20 mg ogni 12 ore e la protezione ossea con vitamina d3 10.000 ui alla settimana, associata a calcio 1 g/die. si iniziò contemporaneamente anche una terapia con un bifosfonato settimanale. dopo una settimana il paziente aveva riconquistato la sua autosufficienza e venne dimesso. ad un anno di distanza la dose minima di steroide in grado di mantenere l’eosinofilia sotto controllo è di 10 mg a giorni alterni. la gastroscopia, eseguita dopo due mesi dalla dimissione, e le biopsie risultarono negative. discussione i disordini mieloproliferativi comprendono: la leucemia mieloide cronica, caratterizzata dalla presenza della fusione di due geni bcr-abl, che più comunemente è il risultato della traslocazione 9:22 detta di filadelfia; la policitemia vera; la trombocitemia essenziale; la mielofibrosi idiopatica. condizioni meno comuni, che vengono però incluse dall’organizzazione mondiale della sanità in questo ambito, sono la mastocitosi, la leucemia mielomonocitica cronica, la leucemia neutrofila cronica e la leucemia eosinofila cronica [2]. la sindrome ipereosinofila, invece, si definisce come ipereosinofilia (eosinofili ≥ 1.500/mm3) persistente da almeno 6 mesi nel sangue periferico, in assenza di cause secondarie (tabella ii) [3]. è caratteristica del sesso maschile e, nella maggioranza dei casi, insorge fra i 20 e i 50 anni. infrequentemente è dimostrata un’alterazione cariotipica clonale e in questo caso si parla di leucemia eosinofila cronica [4], inserita, come detto sopra, fra i disordini mieloproliferativi.     clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 78 una strana forma di mialgia in letteratura l’eosinofilia è distinta dall’ipereosinofilia poiché, mentre nel primo caso gli eosinofili sono maggiori di 500, ma inferiori a 1.500, nella seconda sono superiori a 1.500; altri autori distinguono [5]: eosinofilia lieve: eosinofili = 351-1.500/ mm3; eosinofilia moderata: eosinofili = 1.5005.000/mm3; eosinofilia severa: eosinofili > 5.000/ mm3. se la diagnostica differenziale verso le ipereosinofilie secondarie risulta negativa, si procederà all’esecuzione della biopsia ossea (tabella ii). le cause più comuni di eosinofilia sono quelle infettive, soprattutto da infestazione elmintica, e per escluderle è basilare l’esame parassitologico delle feci e la ricerca dei parassiti e delle loro uova. se il paziente non è stato in luoghi a rischio ed è a contatto con cani, è probabile che sia in causa la toxocara canis, verme rotondo trasmesso per via orofecale: per la diagnosi va eseguita la sierologia. se è stata consumata carne di maiale mal cotta è possibile sia in causa la trichinella spiralis, un altro verme rotondo: per porre la diagnosi è necessaria la biopsia muscolare. importante è escludere anche l’infestazione da strongiloides stercoralis, verme rotondo della grandezza di pochi mm che può infestare i soggetti sottoposti a chemioterapia e/o blocco dell’acidità gastrica per lungo tempo con inibitori della pompa protonica che evitano così l’abbattimento della flora batterica del bolo alimentare. va eseguita anche la sierologia per la toxoplasmosi e, se vi è il dubbio di esposizione, anche per lo schistosoma. in quest’ultimo caso è necessario eseguire una ricerca anche nelle urine e una biopsia della vescica.    la seconda causa di ipereosinofilia è la presenza di allergia o atopìa. possono provocare eosinofilia anche il lupus eritematoso sistemico, l’artrite reumatoide, la sindrome di churg-strauss (vasculite sistemica con asma), la panarterite nodosa e alcune rare malattie, quali: la malattia di kimura, che è una reazione flogistica cronica dall’eziologia sconosciuta che si manifesta con tumefazioni sottocutanee non dolorose nella regione del capo, del collo e/o delle ghiandole salivari; la malattia di wells, una dermatite granulomatosa ricorrente; la malattia di castelman, chiamata anche iperplasia angiofollicolare dei linfonodi; le malattie infiammatorie intestinali. vanno escluse anche la sindrome di job, il deficit di iga, e la sindrome di wiskottaldrich, un disordine congenito descritto per la prima volta nel 1937 da wiskott (attualmente ne sono stati descritti circa 300 casi) che si presenta con emorragia da piastrinopenia con micropiastrine, eczema e frequenti infezioni; nella maggior parte dei pazienti che ne sono affetti sono presenti difetti a carico sia dei linfociti t sia di quelli b. possono provocare ipereosinofilia e sintomi sistemici farmaci come fenitoina, carbamazepina, fenobarbital, fra gli anticonvulsivanti, ranitidina, antibiotici sulfamidici, allopurinolo e gli stimolatori delle colonie dei granulociti e dei macrofagi. la sindrome eosinofila con mialgia è correlata all’assunzione di l-triptofano presente in quantità diversa negli integratori assunti in particolare dalle persone dedite al culturismo o all’ingestione di cibo cucinato con oli contenenti anilina [4,5]. dal lato polmonare si devono escludere la fibrosi cistica, l’aspergillosi broncopolmonare allergica, che può complicare il decorso di un’asma, e l’infiltrato polmonare di loeffler. quest’ultimo provoca degli infiltrati eosinofili fluttuanti [6]. vanno esclusi anche problemi gastroenterologici come la celiachia e la gastroenterite eosinofila. fra le cause endocrine di ipereosinofilia va presa in considerazione l’insufficienza surrenale. fra le cause ereditarie, l’eosinofilia familiare è ereditata con una modalità autosomica dominante (nel caso del paziente esaminato non era presente una storia familiare di eosinofilia). le neoplasie che provocano eosinofilia sono molteplici e vanno dal linfoma di hodgkin ai carcinomi del rene, del polmone, della mammella, del piccolo intestino, malattie infettive disordini immunologici allergia disordini autoimmuni malattie infiammatorie intestinali    tossine ambientali farmaci   cause endocrine e metaboliche cause genetiche e congenite sindromi ipereosinofile idiopatiche altre   cause neoplastiche non ematopoietiche: carcinoma del piccolo intestino, ovaio, polmone, pancreas e altri organi solidi ematopoietiche: linfoma, leucemia   tabella ii cause di eosinofilia. modificata da [5] clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 79 p. ghiringhelli dell’ovaio, della tiroide, del pancreas e di altri organi solidi [7]. molte malattie ematologiche provocano eosinofilia per produzione di il-3 e il-5 per esempio nel linfoma a cellule t, nel linfoma di hodgkin, nella leucemia linfoblastica acuta. anche alcune forme di mielodisplasia si possono accompagnare a eosinofilia [8]. alcune neoplasie ematologiche associate ad eosinofilia colpiscono soprattutto in età pediatrica. la leucemia linfoblastica acuta, nella maggior parte dei casi, è un clone di cellule precursori della linea b. la leucemia mieloide acuta con un’inversione pericentrica del cromosoma 16 presenta un’eosinofilia midollare ma solitamente non periferica. recentemente è stata descritta un’eosinofilia midollare e periferica associate a un linfoma linfoblastico costituito da precursori di cellule t associato ad una traslocazione tra il cromosoma 8 e il 13 [9]. gli eosinofili contengono granulazioni che sono molto tossiche se vengono rilasciate in quantità eccessiva nei tessuti, come accade nell’ipereosinofilia. ciò porta possibili danni a carico di vari tessuti dell’organismo: la cute, il sistema nervoso centrale, i visceri cavi e parenchimatosi, le sierose e anche il cuore. il riscontro nell’aspirato midollare osseo di eosinofili ipogranulati con corpi lipidici è indice di attivazione di queste cellule. la produzione di eosinofili richiede 3 citochine: il-5, il-3 e il fattore di crescita delle colonie di granulociti-macrofagi (figura 4). in rari casi alcune cellule linfomatose o leucemiche sovrapproducono il-5 simulando un’ipereosinofilia primitiva. nella maggior parte delle sindromi ipereosinofile idiopatiche la produzione degli eosinofili è indipendente dai fattori di crescita e le caratteristiche cliniche sono quelle di una malattia mieloproliferativa con epatosplenomegalia e trombocitemia. in altri casi di sindrome ipereosinofila una popolazione clonale di cellule t si mescola agli eosinofili. queste cellule t clonali sono attivate, mostrano dei riarrangiamenti anormali dei marker di superficie e producono abbondanti quantità di il-5 che presumibilmente causa l’ipereosinofilia. le ige in circolo possono essere molto elevate in conseguenza di altre citochine rilasciate sempre dall’anzidetta popolazione t cellulare. molti pazienti con questa variante presentano una dermatite intrattabile e alla biopsia cutanea presentano un infiltrato t, suggestivo di un linfoma cutaneo t [10]. la sindrome ipereosinofila idiopatica provoca [11-14]: figura 4 processi coinvolti nell ’ipereosinofilia. modificata da [11] gli eosinofili si sviluppano nel midollo osseo in risposta alla stimolazione delle cellule progenitrici da parte dell’interleukina-5. gli eosinofili maturi aderiscono alle cellule endoteliali attraverso l’interreazione delle selettine e delle integrine con i loro rispettivi recettori endoteliali. dopo l’esposizione a mediatori chemoattraenti, gli eosinofili attraversano l’endotelio per diapedesi e migrano nei tessuti. l’accumulo di eosinofili è regolato dalla produzione di fattori da parte di cellule t e probabilmente di mastcellule che aumentano la loro sopravvivenza e li attivano (il-3, il5, fattore stimolante le colonie granulocitarie e macrofagiche). gli esosinofili stessi sono capaci di generare le citochine che prolungano la loro sopravvivenza in risposta a componenti della matrice extracellulare midollo osseo cellula progenitrice sangue tessuto osseo interleukina-5 eosinofilo crescita e differenziazione rotolamento cellulare adesione selettine integrine migrazione cellule endoteliali matrice extracellulare interleukina-3 interleukina-5 gm-csf eosinofilo gm-csf cellule tissutali cellule t mastcellule leucotrieni chemochine chemoattrazione interleukina-3 interleukina-5 gm-csf sopravvivenza e attrazione clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 80 una strana forma di mialgia sintomi costituzionali, nel 50% dei casi, come: astenia, affaticabilità, anoressia, febbre, calo ponderale, mialgie (come nel paziente del caso clinico sopra descritto) sintomi cardiopolmonari, in più del 70% dei casi, come: tosse, dispnea, insufficienza cardiaca, aritmie, malattia dell’endo-miocardio, infiltrati polmonari, versamento pleurico, embolia; problemi ematologici, in più del 50% dei casi: tromboembolie, anemie, trombocitopenie, adenopatie, splenomegalia. tra le alterazioni ematologiche vi è l’incremento delle immunoglobuline specialmente ige e degli immunocomplessi circolanti, alterazioni che compaiono in circa il 40% dei pazienti; alterazioni neurologiche, in più del 50% dei casi: alterazioni del comportamento e delle funzioni intellettuali, spasticità, neuropatie periferiche, lesioni cerebrali focali; lesioni dermatologiche, in oltre il 50% dei casi: dermografismo, angioedema, eruzioni, prurito;      sintomi gastrointestinali, in più del 40% dei casi: diarrea, nausea, crampi addominali. il trattamento d’elezione nei pazienti che sono negativi per questa mutazione genica rimane la terapia con prednisone, seguito da idrossiurea e da interferone-alfa. nei casi refrattari si usano clorambucile, etoposide e vincristina. recentemente, nei casi refrattari, soprattutto in quelli in cui sono stati riconosciuti disordini linfoproliferativi clonali delle cellule t, associati spesso a lesioni cutanee, l’interleukina-5 ha un ruolo critico [15]. per questo viene utilizzato un farmaco che agisce come anticorpo monoclonale contro il-5: mepolizumab [16]. utile, sempre nei casi refrattari, anche alemtuzumab, anticorpo monoclonale contro l’antigene cd52 [17]. l’antigene cd52 viene espresso con elevata densità da linfociti, monociti, eosinofili, timociti e macrofagi. questo antigene viene espresso dalla maggior parte dei tumori maligni di origine linfoide, sebbene l’espressione sulle cellule di mieloma sia variabile. nei casi refrattari in cui ciò risulta possibile, un’alternativa è rappresentata dal trapianto allogenico di midollo osseo.  percorso diagnostico anamnesi (farmaci, malattie infettive/autoimmuni, viaggi) esame obiettivo (splenomegalia, cute) striscio di sangue (morfologia, linfocitosi) test per parassiti test di secondo livello (autoanticorpi, ricerca di cause meno frequenti, ecc.) aspirato-biopsia con analisi molecolare follow-up per monitorare danni d ’organo        bibliografia 1. schwartz rs. the hypereosinophilic syndrome and the biology of cancer. n eng j med 2003; 348: 1199-200 2. campbell pj, 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sempre più evidente. il fratellino, più giovane di due anni, è già quasi più alto del fratello maggiore. in famiglia non vi sono altre persone piccole e i genitori sono di statura media (padre �75 cm, madre �65 cm). su consiglio del pediatra di famiglia, i genitori, qualche settimana prima, hanno portato il bambino � in questo lavoro, l ’età è sempre espressa in anni decimali: 6,5 anni corrispondono a sei anni e sei mesi abstract recombinant growth hormone (rgh) administration is a cornerstone in the treatment of short stature secondary to gh deficit. since its introduction in the 80s, the population of short patients with an indication to rgh therapy has clearly broadened, probably because of increased awareness by patients and physicians. since rgh therapy is demanding for patients and expensive, the italian national health service, like other third payers and regulatory authorities, regulates its prescription according to criteria listed in the nota aifa 39. this paper illustrates pitfalls and difficulties paediatricians may encounter when assessing short stature patients in order to decide upon the opportunity and possibility to initiate rgh therapy through the exposition of four emblematic, though hypothetical, clinical histories. in the discussion, the authors highlight some of the most critical points in the formulation of the nota 39, among which are the lack of clear reference values, neglecting of parental height targets and therapeutic responses, as well as some omissions in methodology specifications. keywords: auxology ,gh-dependent short stature, nota aifa 39 auxological criteria for the diagnosis of gh-dependent short stature and prescription of rgh: problems and pitfalls. cmi 2007; 1(4): 165-170 � international association for human auxology, torino 2 scdu di auxologia, ospedale infantile regina margherita, torino 3 advanced research, torino gestione clinica corresponding author prof. giulio gilli giulio.gilli@unito.it a una visita specialistica in un ambulatorio di endocrinologia pediatrica. alla visita non era stato riscontrato alcunché di patologico, all’infuori del notevole deficit staturale (secondo le carte di riferimento di tanner [�], circa �5 cm al di sotto della media delle stature dei bambini maschi della stessa età). a parte una valutazione dell’età scheletrica, che ha dimostrato un modesto ritardo (un anno rispetto all’età anagrafica), il medico ha preferito rinviare eventuali approfondimenti diagnostici a un controllo successivo (dopo 6-�2 mesi). infatti, come ha spiegato ai genitori, il deficit staturale del bambino non è tale da giustificare, al momento, l’impiego di test farmacologici per accertare un eventuale deficit di ormone della crescita. la statura è sì molto al di sotto del terzo centile, ossia del centile che, per convenzione, fissa il limite clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 166 problematiche relative ai criteri auxologici nella diagnosi di bassa statura da deficit di gh inferiore della norma; ma, secondo le carte di riferimento, la statura si colloca a 2,8 ds (deviazioni standard) sotto la media. e per iniziare un trattamento con ormone della crescita – come prescrive la nota ministeriale aifa 39 [2] – il deficit staturale deve essere di almeno 3 ds. i genitori, insoddisfatti, portano il bambino a un controllo in un centro di auxologia. qui l’esame obiettivo non dimostra elementi patologici; in particolare non si rilevano sproporzioni del corpo o note dismorfiche. anche gli esami di laboratorio intesi ad individuare una patologia d’organo danno esito normale. la statura rilevata è di �05,2 cm. secondo le tabelle di tanner [�], la statura media dei bambini di pari età e sesso è pari a �20,5 cm con una ds di 5,45 cm: l’altezza del bambino corrisponde dunque ad uno scarto dalla media di 2,8 ds, ossia a un sds (standard deviation score) pari a 2,8 ([�05,2 �20,5]/5,45 = 2,8�). tuttavia, secondo le recenti tabelle della siedp (società italiana di endocrinologia nota aifa 39. criteri per la prescrivibilità a carico del ssn del rgh per soggetti in età evolutiva con bassa statura da deficit di gh [2] i: statura < 3 ds oppure statura < 2 ds e velocità di crescita/anno < � ds rispetto alla norma per età e sesso, misurata a distanza di almeno 6 mesi con le stesse modalità oppure velocità di crescita/anno < 2 ds o < �,5 ds dopo 2 anni consecutivi, anche in assenza di bassa statura; nei primi 2 anni di vita, sarà sufficiente fare riferimento alla progressiva decelerazione della velocità di crescita (la letteratura non fornisce a riguardo dati definitivi in termini di ds) oppure malformazioni/lesioni ipotalamoipofisario dimostrate a livello neuroradiologico o difetti ipofisari multipli che comportino deficit di gh accertato in base ad una delle modalità del punto b e ii: risposta di gh < �0 μg/l ad almeno 2 test farmacologici eseguiti in giorni differenti oppure risposta di gh < 20 μg/l nel caso uno dei 2 test impiegati sia ghrh + arginina o ghrh + piridostigmina oppure secrezione spontanea media di gh nelle 24 ore, o quantomeno nelle �2 ore notturne < 3 μg/l in presenza di normale risposta ai test farmacologici e valori di igf-� < 2 ds       relazione tra sd (standard deviation) e centili nella distribuzione normale molti pediatri sono abituati a consultare le distribuzioni delle stature riferendosi ai centili, piuttosto che alle sd. per facilitare la conversione, riportiamo in tabella i valori cumulativi corrispondenti a scarti espressi in termini di sd validi per la distribuzione normale. è così possibile calcolare il cosiddetto standard deviation score (sds*) che rispetto ai centili consente una valutazione più precisa del deficit staturale e delle sue variazioni durante la terapia. ad esempio, un sds di �,88 corrisponde al 3° centile. *sds = statura rilevata statura media per età e sesso sd per età e sesso sd valore cumulativo 3,5 0,02% 3 0,13% 2,5 0,62% 2,3 1% 2 2,3% 1,88 3% 1,64 5% clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 167 g. gilli, l. benso, l. pradelli e diabetologia pediatrica) [3], la statura media dei bambini maschi all’età di 7,0 anni nel centro-nord italia è di �24,� cm e la ds è pari a 5,4 cm. l’ altezza del bambino sarebbe dunque 3,5 ds sotto la media (sds = 3,5) e quindi con un deficit staturale sufficiente a prescrivere un trattamento con ormone della crescita, nel caso in cui i test farmacologici risultassero patologici. allora quali sono i valori di riferimento da utilizzare? la nota aifa 39, purtroppo, non ne fa cenno. caso clinico 2 bambino maschio di 9,0 anni, di statura pari a �23,0 cm. secondo le curve di riferimento di tanner, tale statura corrisponde pressappoco all’8° centile (sds = �,4). tuttavia, il padre è alto �80 cm (circa 80° centile, sds = + 0,8) e la madre è alta �70 cm (circa 90° centile, sds = + �,3). il bersaglio parentale, calcolato secondo la formula suggerita da tanner [4], è di circa �8� cm, con un limite inferiore della zona bersaglio pari a circa �72 cm. tuttavia, se il bambino dovesse, crescendo, mantenere la stessa distanza (�,4 ds) dalla media, la sua statura adulta non supererebbe �65 cm. tale statura è ancora nei limiti della norma, ma certamente molto inferiore (3,5 ds) al bersaglio parentale. purtroppo la nota ministeriale non contempla casi del genere, in cui la statura del bambino è ancora “nella norma”, ma certamente lontana da quanto ci si attenderebbe dal punto di vista genetico. caso clinico 3 p.s. è un bambino di 6,0 anni. un anno fa, all’età di 5,0 anni, la sua statura era di 96,4 cm, che risultava in un sds di 2,5 secondo i dati di riferimento di tanner. secondo i criteri della nota 39, un tale deficit staturale, anche nel caso in cui i test farmacologici avessero dimostrato un’insufficiente produzione endogena di gh, non avrebbe consentito di prescrivere l’ormone della crescita. secondo la nota, tuttavia, ciò sarebbe consentito nel caso in cui la velocità di crescita staturale annua, misurata dopo almeno 6 mesi, risultasse � ds o più al di sotto della media. il bambino è stato quindi misurato all’età di 5,5 e di 6,0 anni. la sua statura misurata è stata rispettivamente di 99,0 cm e di �0�,6 cm. la velocità di crescita/anno è stata di 5,2 cm, e identica anche calcolando la velocità di entrambi i semestri. calcolata sull’intero anno, la velocità di crescita è �,� ds sotto la media. infatti, secondo i dati di riferimento di tanner, da noi adottati per questo esempio, un bambino maschio cresce in media – tra i 5,0 e i 6,0 anni – 6,3 cm, e la ds per tale periodo è 0,98 cm [(5,2 – 6,3)/0,98 = �,�]. la velocità di crescita soddisfa quindi i criteri della nota 39 e consente pertanto la prescrivibilità dell’ormone della crescita. purtroppo la nota non indica che, se la velocità di crescita viene calcolata annualizzando (ossia raddoppiando) la crescita durante 6 mesi (nel nostro caso, quella da 5,0 a 5,5 anni), la ds cambia, ed è molto maggiore (nel nostro caso �,3 cm), e la prescrivibilità non sarebbe data. nel primo semestre, infatti, lo sds era di 0,84 e il nostro paziente non poteva essere candidato alla terapia, mentre dopo altri sei mesi con la medesima velocità di crescita lo sds è ora di �,�2 e i requisiti sono soddisfatti. sfortunatamente, né i software auxologici in circolazione, né la nota ministeriale tengono conto di queste nozioni. caso clinico 4 g.p. è un bambino che giunge alla nostra osservazione all’età di 9,5 anni. si è recentemente trasferito da un’altra città, in cui era stato seguito dall’età di 3 anni in un reetà (aa) statura (cm) sds statura (secondo tanner) velocità di crescita (cm/aa) sds velocità di crescita (secondo tanner) 3 93,8 0,1 4 99,0 0,6 5,2 1,8 5 104,2 0,9 5,2 1,4 6 109,1 1,1 4,9 1,4 7 114,0 1,2 4,9 1,1 8 118,5 1,3 4,5 1,4 9 123,1 1,4 4,6 1,1 tabella i diario staturale parto di pediatria per un sospetto difetto di crescita staturale. il diario consegnatoci dai genitori, riportante le diverse misurazioni, è riprodotto in tabella i. come si può vedere, il deficit staturale del paziente aumenta progressivamente, a causa di una velocità di crescita costantemente ridotta. tuttavia, poiché non ottemperava ai clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 168 problematiche relative ai criteri auxologici nella diagnosi di bassa statura da deficit di gh ci e delle famiglie e con la messa a punto di nuove tecniche diagnostiche, il numero di diagnosi tende ad aumentare col tempo. per evitare abusi o usi inappropriati, il ser vizio sanitario nazionale, che si fa carico dei costi di codesta terapia, ne regolamenta la prescrivibilità secondo criteri descritti nella nota aifa 39. gli ipotetici casi clinici presentati offrono lo spunto per discutere delle difficoltà che può incontrare nella pratica clinica il pediatra di fronte a un paziente con bassa statura, anche a causa di alcune improprietà e inesattezze della nota stessa. il deficit di ormone della crescita può essere causato da disfunzioni a livello ipotalamico, ipofisario o degli organi bersaglio, come il fegato, con conseguente difetto della produzione di somatomedine (igf-�). si distinguono forme organiche, causate da alterazioni anatomiche dell’ipotalamo o dell’ipofisi (su base malformativa o tumorale) o da cause fisiche (radiazioni) dimostrabili e forme idiopatiche, in cui non si rilevano alterazioni. il deficit di gh può inoltre presentarsi come isolato o associato a deficit di produzione di altri ormoni ipofisari. la diagnosi di deficit di gh viene posta sulla base di criteri clinico-auxologici, laboratoristici e in base ai risultati della diagnostica per immagini. per escludere la presenza di calcificazioni o di una neoplasia in un deficit di sospettata origine organica, è indicata la valutazione dell’ipofisi e della sella turcica mediante tac o rmn, ma i risultati di queste indagini non sono determinanti ai fini della decisione sulla prescrizione di rgh, benché la nota aifa li contempli: «malformazioni/lesioni ipotalamo-ipofisarie dimostrate a livello neuroradiologico o difetti ipofisari multipli che comportino deficit di gh (ormone della crescita)». i dati dell’accrescimento in altezza del singolo paziente vengono quindi riferiti a carte di crescita che riportano la distribuzione percentuale della statura (figura �) e/o della velocità di crescita staturale (figura 2) in popolazioni di riferimento. nella scelta di tali carte o tabelle, occorre valutare le possibili fonti di errore nella costruzione delle carte stesse, soprattutto riguardo al campionamento, alle tecniche di misurazione impiegate, alla elaborazione dei dati, alla possibile confusione tra reference e standard. per un’ampia trattazione dell’argomento, rinviamo a un recente contributo di cole [6]. figura 1 curve di crescita. modificato da [�] al te zz a (c m ) età (anni) 1817161514131211109876 54321 75° centile 97° centile 90° centile 50° centile 10° centile 25° centile 3° centile 170 150 130 110 90 70 50 190 180 160 140 120 100 80 60 criteri auxologici di trattamento (vedi box �), il paziente è stato semplicemente seguito, senza peraltro eseguire i test, che invece, dato il costante allontanamento dalla media della sua statura, vengono prescritti per scrupolo prima della pubertà. guarda caso, il picco di gh risulta di 6,2 ng/ml con arginina e di 7 ng/ml con clonidina, entrambi patologici. si può trattare oppure no? discussione l’ormone della crescita ricombinante (rgh) rappresenta un presidio fondamentale nella cura delle basse stature dovute a carenza dell’ormone stesso. come è noto, questo trattamento è impegnativo per i pazienti e comporta costi molto elevati. dalla sua introduzione a metà degli anni ’80, le caratteristiche cliniche dei pazienti in trattamento sono cambiate: rispetto ai primi pazienti, quelli attuali hanno livelli relativamente maggiori di ormone circolante, un’età maggiore alla prima visita e genitori mediamente più alti. harris suggerisce che alcuni dei pazienti trattati con rgh abbiano quindi un deficit di gh di minor gravità o addirittura dubbio [5]. in effetti, come rilevabile per molte altre malattie, nel caso della bassa statura patologica vale il paragone con l’iceberg: con la sensibilizzazione dei mediclinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 169 g. gilli, l. benso, l. pradelli figura 2 curve di velocità di crescita. modificato da [�] al te zz a (c m ) età (anni) 1817161514131211109876 54321 75° centile 97° centile 90° centile 50° centile 10° centile 25° centile 3° centile 21 17 13 9 5 1 23 19 15 11 7 3 22 18 14 10 6 20 16 12 8 4 2 occorre inoltre evitare confusione tra carte trasversali e carte longitudinali. le carte costruite su dati trasversali (ad es. quelle della siedp) sono utili strumenti di screening, ma, diversamente da quelle costruite su dati longitudinali (ad es. quelle di tanner) non consentono di valutare la cinetica della crescita, per cui è possibile dover ricorrere a differenti “set” di carte, per esempio quelle della siedp come screening e quelle di tanner per la velocità. è poco coerente precisare dei criteri di definizione senza fornire parametri di riferimento, anche alla luce della ben nota differenza sia nei valori mediani, sia nelle distribuzioni dei dati che presentano le differenti curve di crescita. la nota 39 dovrebbe suggerire o prescrivere in base a quali carte debbano essere calcolati i cut-off, che sono la premessa per le successive indagini, poiché la mancanza di queste precisazioni implica che il valore del cut-off dipende dalla libera decisione di ogni operatore, come esemplificato dal primo caso clinico presentato. è evidente che un tale modo di procedere è in chiaro contrasto con le finalità limitative della nota. la valutazione auxologica di un singolo soggetto rispetto alla popolazione è utile per individuare la maggior parte dei soggetti con possibile, o probabile, bassa statura patologica, ma non è sufficiente per identificarli tutti. infatti, come esemplificato nel caso clinico 2, a livello clinico di singolo individuo, la statura deve sempre essere valutata anche in relazione al bersaglio parentale (“individualizzazione auxologica”), statura da calcolare secondo la formula di tanner [4] o quella di prader [7], ma ciò non viene preso in considerazione nella nota. altro criterio auxologico necessario ai fini della diagnosi di deficit di gh è la velocità di crescita staturale. le curve di velocità a disposizione si basano su misurazioni effettuate con intervalli annuali (figura 2). se si vuole, per ragioni pratiche, calcolare su base annua la velocità di crescita osservata in un intervallo più breve (ad esempio 6 mesi), bisogna tener conto del fatto che la dispersione dei valori, e quindi delle deviazioni standard, varia inversamente alla durata dell’intervallo tra le due misurazioni. e se, nelle fasi della crescita in cui la velocità è praticamente costante, si può ragionevolmente pensare che il valore medio di velocità calcolate sulla base di misurazioni ad intervalli semestrali sia praticamente sovrapponibile a quello calcolato sulla base di misurazioni annuali, tale assunto non è più accettabile nelle fasi di rapida accelerazione o decelerazione della velocità di crescita (prima infanzia, pubertà). ne deriva che velocità di crescita calcolate su base semestrale differiscono sempre da quelle su base annuale per quanto riguarda le deviazioni standard e che, in particolari fasi della crescita, differiscono anche nel valore medio. la nota prescrive che la velocità di crescita venga «misurata a distanza di almeno 6 mesi con le stesse modalità». è importante che nella applicazione della nota si tenga conto di queste considerazioni. durante lo scatto puberale qualsiasi discronia, anche fisiologica, sia come anticipo sia come ritardo, può condizionare la posizione delle misure sulle carte di distanza e soprattutto su quelle di velocità, in modo tale da simulare false condizioni patologiche o false condizioni fisiologiche e i criteri proposti diventano dunque particolarmente difficili da applicare. dal punto di vista laboratoristico, il deficit di gh viene valutato mediante la determinazione della risposta del gh a stimoli farmacologici, come l’arginina, la levodopa o la clonidina. la definizione di normale secrezione di gh, tuttavia, pone ancora oggi notevoli problemi. il test di provocazione è necessario, perché i livelli basali normali di gh, a eccezione del periodo che segue l’addormentamento, sono generalmente bassi o non dosabili e quindi non utili per indicare clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 170 problematiche relative ai criteri auxologici nella diagnosi di bassa statura da deficit di gh un deficit ormonale; tuttavia il test non è fisiologico, è soggetto all’errore di laboratorio, è scarsamente riproducibile e non vi è generale accordo sui limiti di normalità. inoltre la risposta ai test da stimolo mostra una grande variabilità sia intrasia interindividuale, e risposte falsamente positive vengono frequentemente osservate anche in soggetti normali, e viceversa. i livelli dell’igf-� sono influenzati dallo stato nutrizionale e nemmeno il loro dosaggio è sufficientemente sensibile e specifico. l’igf-bp3 dipende dall’età e dal gh. nessun test da solo ha sufficiente accuratezza per consentire una diagnosi certa, in particolare in quelle forme al limite tra normale e patologico, tanto che le autorità regolatorie australiane, ad esempio, non comprendono criteri laboratoristici ai fini della prescrivibilità di rgh. conclusioni nonostante le numerose improprietà, la nota aifa 39 resta un importante riferimento per evitare il possibile abuso nella prescrizione di rgh. tuttavia, per renderla più conforme alla realtà clinica e alle conoscenze scientifiche attuali sull’argomento, dovrebbe andare incontro a un’ampia revisione, che tenga conto anche della risposta al trattamento, compito peraltro difficile soprattutto quando esistono sovrapposizioni con lo scatto puberale. i criteri auxologici appaiono comunque determinanti nella scelta e nella prescrizione della terapia, benché occorra non farsi condizionare dai modelli di “altismo” prevalenti nella nostra società, per non andare incontro a richieste inappropriate. bibliografia �. tanner jm, whitehouse rh, takaishi m. standards from birth to maturity for height, weight, height velocity, weight velocity: british children, �965. arch dis childh �966; 4�: 6�3-35 2. determinazione aifa del 4/�/2007: nota aifa 2006-2007 per l’uso appropriato dei farmaci. s.o. g.u. n. 7 del �0/�/2007 3. cacciari e, milani s, balsamo a, spada e, bona g, cavallo l, cerutti f, gargantini l, greggio n, tonini g, cicognani a. italian cross-sectional growth charts for height, weight, and bmi (2 to 20 yrs). j endocrinol invest 2006; 29: 58�-93 4. tanner jm. use and abuse of growth standards. in: falkner f, tanner jm (a cura di). human growth. new york and london: plenum press, �986; 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influen­ zae, streptococcus pneumoniae, moraxella ca­ tarrhalis, staphylococcus aureus e pseudomonas aeruginosa [2]. differenti studi hanno dimostrato la presenza di biofilm batterico all’interno dell’orecchio medio e a livello del tessuto adenoideo in pazienti pediatrici soggetti a otite media acuta, otite media acuta ricorrente e otite media cronica [3]. inoltre è stato supposto il ruolo eziopatogenico del biofilm nell’otite media effusiva (tradizionalmente considerata perché descriviamo questo caso le infezioni ricorrenti delle alte vie ae­ ree, tra cui le otiti medie acute, ricorrenti e croniche, sono un frequente riscontro nella pratica clinica in ambito pediatrico e otorinolaringoiatrico. spesso, alla base della cronicizzazione della flogosi a cari­ co dell ’orecchio medio, vi è la colonizza­ zione rinofaringea da parte di un biofilm batterico, notoriamente resistente ai trat­ tamenti medici tradizionali. il presente articolo tratta del ruolo del biofilm nella patologia infiammatoria otologica ricor­ rente e cronica e delle alternative tera­ peutiche attualmente disponibili corresponding author dott.ssa sara torretta dipartimento di scienze chirurgiche specialistiche università degli studi di milano fondazione irccs ca’ granda ospedale maggiore policlinico via f. sforza 35 20122 milano tel.: +39 0250320245; fax: +39 0250320248; sara.torretta@policlinico.mi.it caso clinico abstract bacterial biofilms play a role in upper respiratory tract diseases, including acute and chronic middle ear diseases, and are involved in chronic infections and resistance to antibiotic treatment. in particular, the nasopharynx and the surrounding tissues act as important reservoirs of resistant bacterial biofilms, which have been detected in biopsies taken from adenoid and/or middle ear mucosa of children with chronic middle ear effusion. here we describe the management of a child with congenital immunodeficiency and a chronic middle ear effusion, resistant to traditional medical treatment and presumably due to nasopharyngeal colonization by bacterial biofilms, which has been successfully treated by means of medicated nasal douches delivering antibiotic and a biofilm-destroying compound. keywords: biofilm; middle ear effusion; children; nasopharynx; infections; common variable immunodeficiency persistent middle ear effusion presumably biofilm-related in a paediatric patient with common variable immunodeficiency cmi 2012; 6(1): 21-26 1 dipartimento di scienze chirurgiche specialistiche, università degli studi di milano, fondazione irccs ospedale maggiore policlinico, milano sara torretta 1, lorenzo pignataro 1 effusione endotimpanica persistente verosimilmente sostenuta da biofilm in un paziente pediatrico affetto da immunodeficienza comune variabile 22 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) effusione endotimpanica in un paziente pediatrico affetto da immunodeficienza comune variabile dna batterico spesso associato a mrna e a proteine batteriche, indicatori di uno stato replicativo attivo [4]. in presenza di un’infezione batterica sostenuta da biofilm, l’approccio terapeutico deve tenere in considerazione l’elevata resistenza del biofilm batterico ai comuni trattamenti antibiotici, conseguente alle peculiari caratteristiche chimico-fisiche della matrice extra-cellulare all’interno della quale sono collocati i patogeni, allo stato di relativa quiescenza metabolica e replicativa delle specie batteriche all’interno del biofilm e all’acquisizione di meccanismi di resistenza trasmessi per via plasmidica [5]. la resistenza batterica si estende, oltre che ai presidi farmacologici, anche agli insulti biologici e non (radiazioni, temperature estreme) e all’azione difensiva del sistema immunitario, con la conseguente cronicizzazione del processo infettivo [5]. alcuni studi hanno recentemente vagliato l’efficacia di trattamenti farmacologici e non farmacologici nelle infezioni croniche sostenute da biofilm, quali antibiotici, acetilcisteina, olio dell’albero del tè, miele di manuka e surfattanti [6-8]. di seguito si riporta un caso clinico relativo a un giovane paziente affetto da immunodeficienza congenita primitiva con effusione endotimpanica cronica, che è stato trattato con successo attraverso l’impiego per via topica di un composto a base di tiamfenicolo e acetilcisteina. caso clinico un paziente di 9 anni affetto da immunodeficienza comune variabile giungeva a valutazione specialistica otorinolaringoiatrica (orl) per saltuaria ostruzione nasale e rinorrea. la diagnosi del deficit immunitario congenito era stata posta all’età di 8 mesi, in seguito ad accertamenti eseguiti a causa di infezioni respiratorie ricorrenti e, da allora, il paziente è stato sottoposto a terapia infusionale di immunoglobuline ogni 21 giorni, con un buon controllo delle manifestazioni infettive. in particolare, dal punto di vista orl, non venivano riportate tonsilliti o otiti pregresse, ma la madre riferiva saltuari episodi di rinosinusite acuta per cui il paziente assumeva antibioticoterapia, come prescritto dal pediatra curante. al momento della valutazione otorinolaringoiatrica il paziente era in trattamento da 7 giorni con amoxicillina e acido clavulanico per os e lavaggi nasali per una rinosinusite acuta. l’esame obiettivo orl documentava la presenza di secrezione muco-purulenta a livello della parete posteriore dell’orofaringe; la membrana timpanica destra appariva normale, mentre a sinistra la membrana timpanica appariva di aspetto opacato e retratto con evidenza di un livello idro-aereo, suggestivo della presenza di un’effusione endotimpanica. tale riscontro è stato confermato dall’esame timpanometrico (amplaid 770, amplifon, milano, italia) che mostrava a sinistra una curva piatta (tipo b) e a destra un picco (curva tipo a) (figura 1). all’indagine fibroendoscopica (fibroendoscopio flessibile da 2,7 mm, pentax, tokyo, giappone) si riscontrava la presenza di uno scolo muco-purulento a provenienza dal meato medio e dall’area delle fontanelle posteriori di sinistra, fino al rinofaringe (che appariva libero da vegetazioni adenoidee) e andava a lambire l’orletto tubarico omolaterale. il quadro clinico deponeva, pertanto, per una rinosinusite acuta associata a salpingite e a otite media effusiva. il paziente veniva invitato a proseguire il trattamento in atto per una durata complessiva di 14 giorni e a eseguire un controllo al termine della terapia. dopo una settimana il paziente riferiva un netto miglioramento soggettivo, ma la persistenza dell’ovattamento auricolare sinistro. figura 1. timpano­ gramma di tipo a a destra (1) a di tipo b a sinistra (2) 23 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) s. torretta, l. pignataro to tubo-timpanico sono stati, negli ultimi anni, oggetto di numerosi studi, in particolar modo relativi all’organizzazione delle specie batteriche in una struttura tridimensionale, complessa e dinamica, detta biofilm [10-13]. il ruolo del biofilm rinofaringeo nella genesi dell’otite media è stato comprovato in un modello animale che ha attestato lo sviluppo di un processo flogistico cronico a carico dell’orecchio medio pochi giorni dopo l’inoculazione intra-nasale di streptococcus pneumoniae [10]. inoltre, in questo studio, il biofilm mucosale è stato riscontrato a livello rinofaringeo e nell’orecchio medio, rispettivamente nell’83% e nel 67% delle cavie [10]. il biofilm sembrerebbe essere coinvolto, pertanto, nella genesi degli episodi acuti, con la valutazione clinica documentava la risoluzione della sinusopatia, mentre il quadro otoscopico e timpanometrico risultavano invariati rispetto alla valutazione precedente. veniva pertanto raccomandata un’accurata igiene nasale mediante lavaggi nasali con soluzione fisiologica e ginnastica tubarica (chewing-gum e autoinsufflazioni domiciliari con dispositivi dedicati) e un successivo controllo a tre mesi di distanza. al controllo seguente, data la persistenza dell’effusione endotimpanica sinistra e il riscontro all’esame audiometrico di un lieve deficit trasmissivo sui toni gravi omolateralmente (figura 2), si prescriveva un ciclo di cure termali (insufflazioni endotimpaniche) e la rieducazione logopedica per una ginnastica tubarica mirata. a tre mesi di distanza, data la persistenza del versamento endotimpanico sinistro e la sua resistenza ai trattamenti medici convenzionali, veniva ipotizzato che, alla base dell’automantenimento del processo flogistico a carico dell’orecchio medio, vi fosse una possibile colonizzazione cronica dell’unità rinofaringotubarica da parte di batteri produttori di biofilm. veniva pertanto consigliato un trattamento medico topico con docce nasali medicate con tiamfenicolo e acetilcisteina con la seguente formulazione: soluzione fisiologica 5 ml + tiamfenicolo glicinato acetilcisteinato 405 mg per narice, una volta al giorno per 15 giorni al mese per tre mesi consecutivi che ha portato alla risoluzione del versamento endotimpanico, come documentato dal quadro otoscopico e timpanometrico (figura 3) e dall’assenza di sintomatologia otologica a sei mesi di distanza. discussione l’immunodeficienza comune variabile si caratterizza per la presenza di un’alterazione idiopatica del sistema immunitario, con una disfunzione sia dei linfociti b sia dei linfociti t, a cui conseguono una sintesi e una risposta anticorpale deficitari [9]. i pazienti affetti sono predisposti a infezioni batteriche ricorrenti e a differenti patologie sistemiche, con quadri clinici anche molto eterogenei [9]. in particolare, nei pazienti pediatrici con immunodeficienza comune variabile, la patologia flogistica otologica è di frequente riscontro [9]. i meccanismi eziopatogenici della patologia flogistica ricorrente e cronica del distretfigura 2. esame audiometrico tonale. in blu orecchio sinistro, in rosso orecchio destro figura 3. timpano­ gramma di tipo a a sinistra dopo il trattamento 24 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) effusione endotimpanica in un paziente pediatrico affetto da immunodeficienza comune variabile una buona corrispondenza tra la colonizzazione rinofaringea e quella endotimpanica [11]. il ruolo del biofilm nell’otite media acuta ricorrente e nell’otite media cronica (otite media effusiva persistente, otite media cronica suppurativa semplice e colesteatomatosa) è, peraltro, ben noto [10,12-14]. a tal proposito uno studio del 2009 [10] ha riportato come, in pazienti pediatrici otitis­ prone, più dell’85% della mucosa adenoidea fosse ricoperta da biofilm prodotto dagli otopatogeni. differenti studi clinici hanno infatti identificato il biofilm batterico a livello del tessuto adenoideo [10,12] suggerendo, pertanto, che le adenoidi potessero agire da reservoir per gli otopatogeni produttori di biofilm. in presenza di condizioni favorenti la colonizzazione rinofaringea da parte degli otopatogeni, quali ad esempio una diminuzione dei meccanismi immunologici di difesa come nel caso presente, si può supporre come la mancata clearance dei patogeni a livello rinofaringeo predisponga allo sviluppo di biofilm batterico dal quale, periodicamente, verrebbero liberati germi in forma planctonica che, colonizzando l’orecchio medio, ne determinerebbero una flogosi persistente e saltuarie riacutizzazioni. a nostra conoscenza non esistono studi relativi al biofilm batterico nella cronicizzazione delle flogosi delle alte vie aeree e dell’orecchio medio in pazienti con immunodeficienza comune variabile o altre immunodeficienze congenite primitive. tuttavia possiamo supporre come l’alterazione dei meccanismi immunologici di difesa, caratteristica di questi pazienti, possa facilitare l’ingresso e la persistenza nel distretto rinofaringotubarico di specie batteriche che, non venendo efficacemente rimosse mediante i meccanismi difensivi deficitari, causerebbero lo sviluppo di alterazioni epiteliali promuoventi l’adesione mucosale degli otopatogeni e la conseguente produzione di biofilm batterico. va comunque sottolineato come, nel caso descritto, l’effettiva presenza di un biofilm batterico rinofaringeo non sia stata documentata mediante indagini microbiologiche che, attualmente, prevedono come gold standard la ricerca del biofilm mediante microscopia elettronica su campioni bioptici, con la necessità di sottoporre i piccoli pazienti a un’indagine invasiva e mal tollerata [15]. ad ogni modo, l’associazione causale tra la colonizzazione rinofaringea da parte di biofilm batterici e lo sviluppo di un’effusione endotimpanica persistente è plausibile sulla base delle nuove acquisizioni in merito all’associazione tra biofilm batterico a localizzazione rinofaringea e lo sviluppo di flogosi persistenti del distretto tubo-timpanico [10,11] e comprovato dalla risposta al trattamento ottenuta in questo paziente. sulla base di queste premesse, i clinici che si trovano a dover gestire un paziente con infezioni ricorrenti delle alte vie aeree verosimilmente sostenute da biofilm batterico, devono mettere in atto delle strategie terapeutiche alternative comprendenti trattamenti che, da un lato, non siano tossici a livello delle mucose delle alte vie aeree e, dall’altro, risultino efficaci. in particolare il trattamento deve essere in grado di raggiungere i batteri all’interno del biofilm o di ostacolarne il meccanismo di quorum­ sensing, impedendone, pertanto, la proliferazione o interferendo chimicamente/meccanicamente con la struttura del biofilm. differenti trattamenti farmacologici e non farmacologici sono, attualmente, oggetto di studio, tra cui antimicrobici topici, surfattanti, diuretici dell’ansa, macrolidi, olio dell’albero del tè, terapia fotodinamica e ultrasuonoterapia pulsata [16]. il débridement chirurgico dei tessuti colonizzati da biofilm è, infine, l’ultima chance terapeutica in caso di cronicizzazione del processo infettivo non responsivo alla terapia convenzionale. alla base di una possibile efficacia del trattamento antimicrobico contro il biofilm vi è la necessità di ottenere adeguate concentrazioni di farmaco a livello mucosale; inoltre gli antibiotici attivi contro i batteri in fase quiescente sembrerebbero essere più efficaci rispetto ai farmaci che agiscono esclusivamente contro i batteri in fase replicativa [17]. relativamente alle vie di somministrazione, il trattamento topico sembrerebbe offrire maggior garanzia di successo, data la possibilità di ottenere concentrazioni locali anche elevate in assenza di effetti sistemici. tra gli altri farmaci, acetilcisteina, un agente mucolitico, antiossidante e precursore del glutatione, dotato di una lieve attività antimicrobica e antinfiammatoria, ha una buona efficacia contro il biofilm, in particolar modo quando associato all’antibatterico tiamfenicolo o ai chinolonici [8]. tale effetto sembrerebbe ascrivibile alla capacità da parte di acetilcisteina di inibire l’adesione batterica, ridurre la produzione di matrice extra-cellulare, distruggere il biofilm maturo e impedire la circolazione di batteri in forma planctoni25 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) s. torretta, l. pignataro ca. la somministrazione del composto può avvenire per via sistemica (orale o endovenosa), oppure topica, mediante nebulizzazione o instillazione diretta [8]. nel caso specifico, l’utilizzo di un preparato per via topica costituito da tiamfenicolo glicinato acetilcisteinato ha portato alla risoluzione del versamento endotimpanico e alla stabilità clinica a sei mesi dalla sospensione del trattamento. conclusioni il caso clinico descritto, unito ai dati forniti dalla letteratura, suggerisce la possibilità di testare l’applicazione di nuove strategie terapeutiche per il trattamento delle infezioni ricorrenti delle alte vie aeree sostenute da biofilm batterico, specialmente in pazienti con fattori di rischio locali o generali. tuttavia, nonostante gli incoraggianti riscontri preliminari, i clinici devono tenere in considerazione il fatto che, allo stato attuale, non esistono evidenze adeguate a comprovare la sicurezza e l’efficacia delle terapie antimicrobiche topiche nell’eradicazione del biofilm e come i risultati degli studi finora condotti su modelli animali o in vitro non possano essere, ad oggi, trasferiti direttamente alla pratica clinica. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. punti chiave y il biofilm batterico ha un ruolo nell ’eziopatogenesi dell ’otite media effusiva y la colonizzazione rinofaringea da parte di biofilm batterici determina il perpetuarsi delle flogosi mediante la liberazioni periodica di batteri in forma planctonica che, attraverso l ’unità rinofaringotubarica, raggiungono l ’orecchio medio y la presenza di fattori predisponenti la colonizzazione rinofaringea da parte degli otopa­ togeni (ipertrofia adenoidea, rinosinusite cronica, immunodeficienze) deve essere tenuta in considerazione y la resistenza del biofilm batterico ai comuni trattamenti antibiotici e all ’azione del si­ stema immunitario è alla base della cronicizzazione dell ’infezione y è necessario testare nuove possibilità terapeutiche inibenti il biofilm e, allo stesso tempo, non lesive a livello mucosale bibliografia 1. stewart ps, costerton jw. antibiotic resistance of bacteria in biofilms. lancet 2001; 358: 135-8 2. post jc, hiller nl, nistico l, stoodley p, ehrlich gd. the role of biofilms in otolaryngologic infections: update 2007. curr opin otolaryngol head neck surg 2007; 15: 347-51 3. jero j, virolainen a, salo p, leinonen m, eskola j, karma p. pcr assay for detecting streptococcus pneumoniae in the middle ear of children with otitis media with effusion. acta otolaryngol 1996; 116: 288-92 4. potera c. forging a link between biofilms and disease. science 1999; 283: 1837-9 5. davies d. understanding biofilm resistance to antibacterial agents. 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hall-stoodley l, stoodley p, sachdeva l, et al. identification of adenoid biofilms with middle ear pathogens in otitis-prone children utilizing sem and fish. int j pediatr otorhinolaryngol 2009; 73: 1242-8 11. moriyama s, hotomi m, shimada j, billal ds, fujihara k, yamanaka n. formation of biofilm by haemophilus influenzae isolated from pediatric intractable otitis media. auris nasus larynx 2009; 36: 525-31 12. hall-stoodley l, hu fz, gieseke a, nistico l, nguyen d, hayes j, et al. direct detection of bacterial biofilms on the middle-ear mucosa of children with chronic otitis media. jama 2006; 296: 202-11 13. homøe p, bjarnsholt t, wessman m, sørensen hc, johansen hk. morphological evidence of biofilm formation in greenlanders with chronic suppurative otitis media. eur arch otorhinolaryngol 2009; 266: 1533-8 14. pagella f, colombo a, gatti o, giourgos g, matti e. rhinosinusitis and otitis media: the link with adenoids. int j immunopathol pharmacol 2010; 23: 38-40 15. torretta s, drago 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1, mario tombini 1 effusione endotimpanica persistente verosimilmente sostenuta da biofilm in un paziente pediatrico affetto da immunodeficienza comune variabile sara torretta 1, lorenzo pignataro 1 aspetti psicologici nella gestione dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa essenziale maria luisa genesia 1, franco rabbia 1, elisa testa 1, silvia totaro 1, elena berra 1, michele covella 1, chiara fulcheri 1, giulia bruno 1, franco veglio 1 ringraziamento dei referee (marzo 2011 – marzo 2012) clinical management issues 13 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) andrea ungar 1, elena lotti 1, lorella lambertucci 1 ipertensione e gravidanza caso clinico la paziente è una donna di 35 anni con i seguenti fattori di rischio cardiovascolare: familiarità per ipertensione e per malattia cardiovascolare, tabagismo in atto (10 sigarette/die da 10 anni). nessuna patologia degna di nota fino all’età di 26 anni, quando, per un aborto spontaneo alla xx settimana, fu ricoverata per eseguire intervento di revisione uterina; l’esame istologico mostrò placenta senescente. nel gennaio 2005 viene a prima visita presso il nostro centro ipertensione per riscontro, da circa un anno, di elevati valori abstract hypertension is the most common medical problem encountered during pregnancy, complicating 2-3% of pregnancies. hypertensive disorders during pregnancy are classified into 4 categories: chronic hypertension, pre-eclampsia/eclampsia, pre-eclampsia superimposed on chronic hypertension, and gestational hypertension. a relative paucity of investigative data, as well as the frequent difficulty in making an etiological diagnosis, may lead to problems in its management. this case report analyses current concepts regarding the hypertensive disorders of gestation, focusing on chronic hypertension. chronic hypertension is defined as blood pressure exceeding 140/90 mmhg before pregnancy or before 20 weeks gestation. hypertensive disorders in pregnancy may cause maternal and fetal morbidity and remain a leading source of maternal mortality. a prompt diagnosis is needed also because hypertension may be an indicator of pre-eclampsia, a condition which can evolve into serious complications. maintaining blood pressure below 140/90 mmhg is recommended, although treatment should be determined on an individual basis. many anti-hypertensive agents appear to be safe for use during pregnancy: methildopa has been the most studied of the anti-hypertensive drugs and has the best safety record. labetalol, idralazine and nifedipine also have been found to be safe; ace-inhibitors are absolutely contraindicated, because they are associated with intrauterine growth retardation. keywords: pre-eclampsia, chronic hypertension in pregnancy, pregnancy-induced hypertension hypertension in pregnancy. cmi 2007; 1(1): 13-20 1 centro di riferimento regionale per l’ipertensione arteriosa dell’anziano della toscana, sod cardiologia geriatrica, dipartimento di area critica medico chirurgica, università degli studi di firenze e azienda ospedaliero universitaria careggi, firenze pressori sisto-diastolici (pa media = 140/90 mmhg). l’esame obiettivo risulta nella norma eccetto lieve sovrappeso (bmi = 26,5 kg/m2). la paziente porta in visione esami ematici risultati nella norma eccetto valori di perché descriviamo questo caso? per aumentare la familiarità dei medici con le tipologie di ipertensione che si possono presentare durante la gravidanza, i relativi criteri diagnostici e i possibili trattamenti caso clinico 14 clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati ipertensione e gravidanza kaliemia ai limiti inferiori (3,6 meq/l). alla misurazione ambulatoriale si rilevano valori pressori compatibili con ipertensione arteriosa sisto-diastolica lieve (pa in clinostatismo = 150/90 mmhg, pa seduta = 145/85 mmhg bilateralmente). in tale occasione è stato consigliato di eseguire monitoraggio pressorio nelle 24 ore ed esami ematici e strumentali per valutare la presenza di danno d’organo. il monitoraggio pressorio ha confermato la diagnosi di ipertensione sisto-diastolica lieve e gli esami richiesti (ecocardiogramma, esame del fondo oculare, microalbuminuria nelle 24 ore) non hanno evidenziato presenza di danno d’organo. in considerazione della giovane età della paziente e del basso profilo di rischio cardiovascolare, le viene indicato di intraprendere una terapia non farmacologica durante i sei mesi successivi. le è stata pertanto raccomandata una serie di cambiamenti riguardanti lo stile di vita, quali la totale astensione dal fumo, una dieta ipocalorica ipolipidica e la pratica di attività fisica regolare al fine di ridurre il peso corporeo. dopo circa tre mesi, la paziente riferisce la comparsa di episodi ricorrenti di vertigine oggettiva, con durata media di 30 minuti, associati all’incremento dei valori pressori (pa = 180/100 mmhg). su consiglio del medico curante, viene eseguito un esame audio-vestibolare che risulta nella norma. il mese successivo, in seguito a un nuovo episodio di vertigine oggettiva associato a sensazione di cardiopalmo ritmico e al rilievo di elevati valori pressori (pa = 160/100 mmhg), la paziente si reca presso il pronto soccorso dove vengono eseguiti esami ematici, risultati tutti nella norma eccetto rilievo di ipokaliemia (3,5 meq/l), e si riscontra tachicardia sinusale all’elettrocardiogramma. in tale occasione viene consigliato di intraprendere terapia ansiolitica che la paziente però non assume. in seguito a tale episodio la paziente riferisce graduale scomparsa della sintomatologia; da allora riferisce di non aver più eseguito nessuna misurazione domiciliare della pressione arteriosa. l’anno successivo, la donna rimane in stato interessante e per il riscontro di valori pressori superiori alla norma (145/90 mmhg) durante una visita ginecologica alla xii settimana di gestazione, le viene consigliata una visita di controllo presso il nostro ambulatorio. in questa occasione è eseguito un monitoraggio pressorio nelle 24 ore che mostra ipertensione arteriosa sisto-diastolica lieve (pa 24 ore = 140/85 mmhg, pa diurna = 145/90 mmhg, ritmo circadiano conservato). in considerazione della presenza di ipertensione arteriosa preesistente alla gravidanza, si ritiene opportuno intraprendere terapia farmacologica al fine di prevenire la comparsa di pre-eclampsia. si inizia quindi una terapia con alfa-metildopa con discreto controllo dei valori pressori confermato da un monitoraggio pressorio eseguito dopo circa un mese di terapia (pa 24 ore = 130/80 mmhg, pa diurna = 135/82 mmhg, ritmo circadiano conservato). la paziente ha poi eseguito periodici controlli mediante monitoraggio pressorio nelle 24 ore e la gravidanza è stata portata a termine in assenza di complicanze. dopo il parto si è verificata una riduzione dei valori pressori e, in considerazione dell’allattamento, è stata sospesa la terapia farmacologica ed è stato eseguito uno stretto controllo dei valori pressori che si sono mantenuti normali-alti. dopo circa un anno, agli esami ematici di controllo si riscontra la persistenza di ipokaliemia (k+ = 3,3 meq/l) con urine iperosmolari (per esempio 1.030 mmol/l). la pressione arteriosa alla misurazione clinica era pari a 140/95 mmhg. in considerazione del profilo pressorio e del persistente riscontro di ipokaliemia è stata intrapresa terapia con canreonato di potassio 50 mg/die e richiesta tc addome superiore con mdc che ha messo in evidenza formazione nodulare di circa 1 cm di diametro a livello del polo superiore del surrene di destra. in accordo con la paziente non è stato eseguito cateterismo delle vene surrenali. attualmente la paziente è asintomatica sul piano cardiovascolare con misurazioni pressorie domiciliari in media di 130/80 mmhg; ad un controllo ematico degli elettroliti sierici la kaliemia è risultata nella norma (k+ = 3,8 meq/l). la paziente rimane in stretto follow-up e sarà sottoposta a nuova tc addome di controllo a 6 mesi per capire l’evolutività della lesione adenomatosa e l’eventuale indicazione ad intervento di adenomectomia surrenalica. domande da porsi di quale forma di ipertensione in gravidanza si tratta (cronica, transitoria, pre-eclampsia)? quali sono le tecniche di laboratorio che possono essere utili nella diagnosi?   15 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) a. ungar, e. lotti, l. lambertucci nel caso di ipertensione lieve o moderata, è corretto l ’utilizzo degli anti-ipertensivi in gravidanza? ci sono tipologie di donne, con malattie croniche come diabete o patologie renali, per le quali è consigliato il trattamento farmacologico? è meglio scegliere un trattamento farmacologico o non farmacologico? il trattamento farmacologico è sicuro per la madre e il feto? tra gli anti-ipertensivi, quale bisogna scegliere? qual è il valore di pressione limite raggiunto il quale diventa necessario trattare farmacologicamente l ’ipertensione in gravidanza? conclusione diagnostica: ipertensione arteriosa cronica da verosimile iperaldosteronismo da adenoma surrenalico misconosciuto, in paziente giovane a rischio di pre-eclampsia. discussione la gestazione è caratterizzata da numerosi meccanismi di compensazione, che permettono all’organismo femminile di creare un ambiente favorevole alla crescita del feto. questi cambiamenti compensativi, che si verificano a carico dell’apparato cardiovascolare, renale e ormonale, provocano una diminuzione iniziale della pressione arteriosa e tale fenomeno viene attribuito ad alcune variazioni fisiologiche chiave quali: una marcata vasodilatazione, a cui consegue una riduzione delle resistenze periferiche; un aumento del volume extracellulare, con conseguente incremento della gittata sistolica; l’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone; l’incremento del flusso ematico renale, con aumento della capacità di filtrazione glomerulare. la vasodilatazione è il risultato di diversi fattori quali lo shunt arterovenoso nella circolazione materna rappresentato dalla placenta, la produzione di prostaglandine e ossido nitrico da parte del sistema endoteliale, oltre all’aumento dei livelli di progesterone ed estrogeni. alla vasodilatazione segue una riduzione del postcarico che, associata a un aumento della frequenza cardiaca e della gittata sistolica, provoca un incremen         to della gittata cardiaca del 30-40%. nella gravidanza quest’ultima modificazione si verifica anche per l’espansione del volume extracellulare determinato dall’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone. i cambiamenti fisiologici che innescano questa complessa cascata di eventi includono anche la secrezione di renina da parte delle cellule juxtaglomerulari del rene e la stimolazione estrogeno-dipendente della prorenina da parte di ovaie, utero e placenta. queste sostanze a loro volta determinano una stimolazione a livello della ghiandola surrenalica con incremento della produzione di aldosterone. l’ormone steroideo promuove la ritenzione idrosalina da parte dei reni e ciò spiega l’incremento del volume ematico che si osserva nelle gestanti. ipertensione in gravidanza l’ipertensione arteriosa in gravidanza è ancora oggi causa di mortalità materna (negli usa è responsabile di circa il 15% delle morti materne, ed è la seconda causa di mortalità materna in gravidanza dopo l’embolia), mortalità fetale intrauterina, morbilità e mortalità neonatale [1]. le gestanti ipertese sono maggiormente predisposte a sviluppare complicanze potenzialmente letali quali il distacco intempestivo di placenta, la coagulazione intravascolare disseminata, l’emorragia cerebrale, l’insufficienza epatica e renale. gli esiti sono condizionati dalla tempestività dell’intervento medico, motivo per cui il riconoscimento precoce della malattia o meglio ancora l’identificazione delle donne a rischio è di grande importanza nella storia della malattia. un corretto inquadramento clinico della paziente che presenta sintomatologia ipertensiva in gravidanza rimane un cardine fondamentale per una terapia razionale, in quanto gli elementi eziopatogenetici cui sono rivolti i presidii terapeutici differiscono notevolmente a seconda delle forme considerate. l’inquadramento classificativo dell’ipertensione in gravidanza è stato anche recentemente oggetto di revisione critica. si parla di ipertensione in gravidanza quando: la pressione sistolica è ≥ 140 mmhg e/o la pressione diastolica (misurata al v tono di korotkoff ) è ≥ 90 mmhg tali riscontri pressori devono essere “stabili”, cioè confermati in almeno due misurazioni consecutive ripetute a distanza di almeno quattro ore l’una dall’altra. sia la pressione diastolica che quella sistolica han  16 clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati ipertensione e gravidanza no dimostrato avere una stretta associazione con l’outcome fetale ed entrambe risultano essere importanti. al di sopra di questi valori, in particolare di quelli diastolici, è stato dimostrato un brusco aumento della mortalità perinatale. l’ipertensione nel corso della gravidanza può svilupparsi come risultato della gravidanza stessa o a seguito di un’ipertensione preesistente, sia essa essenziale o secondaria. l’ipertensione diagnosticata per la prima volta dopo la xx settimana di gestazione in donne precedentemente normotese può essere un riscontro isolato, ipertensione gestazionale, o far parte di un disordine più complesso, la pre-eclampsia [2]. si distinguono pertanto: ipertensione gestazionale; pre-eclampsia; ipertensione cronica (essenziale o secondaria); pre-eclampsia sovrapposta a ipertensione cronica. l’ipertensione gestazionale è l’ipertensione riscontrata per la prima volta in gravidanza dopo la xx settimana di gestazione in donne precedentemente normotese, senza alcun altro segno di coinvolgimento sistemico e che si risolve entro 3 mesi dal parto. è attualmente riconosciuto che la preeclampsia è un disordine nel quale sono coinvolti altri organi e sistemi inclusa l’unità feto-placentare. la pre-eclampsia si definisce anzitutto per il riscontro di ipertensione arteriosa gestazionale, ma altre caratteristiche devono essere associate per poter fare diagnosi. la proteinuria “significativa” (≥ 300 mg/24h) è l’elemento che più frequentemente si associa nella pre-eclampsia ma il quadro risulta essere caratterizzato dai seguenti criteri: ipertensione arteriosa comparsa dopo la xx settimana di gestazione e insorgenza dopo la xx settimana di uno o più dei segni elencati di seguito; proteinuria: definita come ≥ 300 mg/24h o come rapporto proteine/creatinina ≥ 30 mg/mmol in un campione di urine; insufficienza renale: definita dal rapporto tra creatinina sierica e plasmatica ≥ 0,09 mmol/l o dal riscontro di oliguria; patologia epatica: caratterizzata dal rapido aumento delle transaminasi o dall’insorgenza di severo dolore epigastrico; problemi neurologici: convulsioni (eclampsia), iperreflessia con cloni, severa cefalea          con iperreflessia, persistenti disturbi visivi (scotomi); alterazioni ematologiche: trombocitopenia, coagulazione intravascolare disseminata, emolisi; difetto di crescita intrauterina del feto. l’approccio terapeutico della pre-eclampsia dipende dalla gravità della forma; nelle forme lievi è possibile ritardare il parto, mentre nelle forme gravi è fondamentale il monitoraggio intensivo della madre e del feto per controllare l’insorgenza di danno d’organo, eclampsia e sofferenza fetale. l’intervento terapeutico, per quanto non modifichi il meccanismo fisiopatologico sottostante, può rallentare la progressione della sindrome, permettendo così di ritardare il parto e di garantire lo sviluppo del feto. sebbene l’uso degli anti-ipertensivi sia controverso, in quanto potrebbe determinare un ulteriore diminuzione del flusso ematico placentare, la terapia è certamente indicata nei casi in cui si verifica un eccessivo incremento dei valori pressori e i farmaci di scelta sono l’idralazina, un vasodilatatore diretto, e il labetalolo, alfa e beta-bloccante. si parla di ipertensione cronica (pa ≥ 140/90 mmhg in almeno due misurazioni successive a distanza di tempo) quando il quadro clinico viene riscontrato nel periodo precedente la gravidanza o prima della xx settimana di gravidanza in assenza di patologia del trofoblasto; oppure ipertensione diagnosticata per la prima volta dopo la xx settimana di gravidanza e che persiste oltre 12 settimane dopo il parto. la pressione arteriosa diminuisce durante il primo trimestre e la prima parte del secondo trimestre sia nelle donne normotese che in quelle ipertese, così una donna con ipertensione preesistente che viene valutata per la prima volta tra xvi e xx settimana spesso ha dei valori pressori nella norma. durante il terzo trimestre invece la pressione arteriosa ritorna ai valori precedenti rendendo difficile la diagnosi differenziale tra ipertensione cronica e ipertensione indotta dalla gravidanza (tabella i). tale condizione interessa fino al 5% delle gravidanze, è più frequente nella razza nera e la sua prevalenza aumenta all’aumentare dell’ età materna (0,6%-2% tra 18 e 29 anni e 4,6%-22,6% tra 30 e 39 anni). lo scopo dell’inquadramento diagnostico è quello di identificare l’eziologia dell’ipertensione e valutare la prognosi ai fini della gravidanza (figura 1).   17 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) a. ungar, e. lotti, l. lambertucci al contrario, la pre-eclampsia complicata dall’eclampsia è una delle maggiori responsabili di morbilità e mortalità materna. terapia la gestione dell’ipertensione cronica in gravidanza prevede il ricorso sia a terapie farmacologiche che ad interventi non farmacologici sebbene alcune modificazioni comportamentali, come la riduzione del peso corporeo e l’esercizio fisico regolare, siano da sconsigliare. è invece da raccomandare il monitoraggio domiciliare dei valori pressori. per quanto riguarda l’approccio farmacologico, è tuttora controverso in quanto una riduzione eccessiva dei valori pressori, riducendo il flusso placentare, potrebbe determinare dei rischi per il feto [4]. nel momento della scelta della terapia farmacologica quindi è importante valutare sia l’efficacia anti-ipertensiva che i suoi effetti sul feto. la metildopa è farmaco di prima scelta per il controllo dell’ipertensione lieve-moderata in gravidanza ed è l’anti-ipertensivo maggiormente prescritto per questa indiin pazienti con ipertensione cronica è necessaria una valutazione nel i trimestre di gravidanza in quelle condizioni considerate ad alto rischio di sviluppare danno d’organo oppure aggravamento di patologie preesistenti; infatti donne con anamnesi positiva per ipertensione da molti anni hanno maggiori probabilità di avere cardiomegalia, cardiopatia ischemica, retinopatia e danno renale. in donne con ipertensione cronica, si diagnostica una pre-eclampsia sovrapposta quando uno o più dei segni sistemici di preeclampsia compaiono dopo la xx settimana di gestazione. in tali donne, improvvisi incrementi della proteinuria e dei valori pressori devono richiedere un’attenta sorveglianza, ma la diagnosi non è sicura in assenza dello sviluppo di altri segni quali alterazione degli indici epatici, trombocitopenia o anomalie neurologiche. le donne la cui gravidanza è complicata da ipertensione gestazionale isolata hanno una prognosi migliore di quelle con pre-eclampsia; l’ipertensione gestazionale, infatti, non è associata ad aumento della morbilità e mortalità materna e perinatale. tabella i criteri di diagnosi differenziale nelle forme di ipertensione in gravidanza. modificata da [3] caratteristiche ipertensione transitoria ipertensione cronica pre-eclampsia pa di base più alta della media più alta della media varia grado di ipertensione lieve lieve/severa lieve/severa tempo di comparsa terzo trimestre < 20 settimane > 20 settimane rapidità rialzo pa graduale graduale spesso repentino proteinuria > 0,3 g/24 ore assente assente usualmente presente uricemia > 5,5 mg/dl assente rara quasi sempre presente emoconcentrazione assente assente presente se severa trombocitopenia assente assente presente se severa disfunzione epatica assente assente presente se severa edema assente può essere presente generalmente presente analisi di laboratorio normali normali/anormali anormali parità nullipara o multipara nullipara o multipara generalmente nullipara anamnesi familiare per ipertensione spesso positiva spesso positiva negativa rischio di ipertensione futura alto alto normale cause renali vasculiti/malattie del collagene patologie endocrine coartazione aortica ipertensione secondaria (10%) ipertensione cronica ipertensione essenziale (90%) figura 1 inquadramento diagnostico [5] 18 clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati ipertensione e gravidanza continuare il trattamento, possibilmente diminuendolo o utilizzandolo in associazione alla metildopa. in altre situazioni è consigliato fare uso attento dei diuretico in quanto in gravidanza il rischio di sviluppare iponatriemia, ipopotassiemia, ipovolemia e trombocitopenia è maggiore. per quanto riguarda i calcio-antagonisti, sugli effetti in gravidanza di questa classe non è stato eseguito un numero sufficiente di studi, e le poche sperimentazioni effettuate hanno preso in considerazione la nifedipina. per quanto abbiano dimostrato di avere un profilo di efficacia e sicurezza accettabile, non sono ancora chiari gli effetti che tali molecole potrebbero avere sul feto per cui è raccomandabile cautela nella somministrazione. gli ace-inibitori e gli antagonisti del sistema renina-angiotensina ii sono assolutamente controindicati in gravidanza, non tanto per l’ effetto teratogeno, ma per la possibile insorgenza di insufficienza renale neonatale. la maggior parte dei danni di questi farmaci si verifica se assunti negli ultimi mesi di gestazione; di conseguenza il rischio per il feto è trascurabile se il concepimento avviene mentre la donna è in terapia, a patto di sospenderli appena la gravidanza viene accertata. i farmaci anti-ipertensivi consigliati in gravidanza, e le relative dosi, sono riassunti in tabella ii. un’altra problematica controversa riguarda la gestione dell’ipertensione durante il periodo dell’allattamento, in quanto mancano in letteratura studi sull’uso degli antiipertensivi in questa fase, per cui la tendenza generale è quella di sconsigliare l’allattamento al seno qualora non si possa fare a meno della terapia. cazione in parecchi paesi, inclusi gli stati uniti e il regno unito. tale ampio utilizzo dipende dall’ottimo e documentato profilo di sicurezza per la madre e il feto, considerando anche i favorevoli dati di follow-up pediatrico a lungo termine (da 4 a 5 anni). in gravidanza, la metildopa non altera l’attività cardiaca materna o il flusso sanguigno uterino e renale. per le suddette ragioni, è generalmente considerato il farmaco di scelta per il controllo cronico della pressione sanguigna in gravidanza [7,8]. in caso di mancata risposta o scarsa compliance alla metildopa, i beta-bloccanti hanno dimostrato una discreta efficacia e un buon profilo di sicurezza. la maggioranza degli studi su questa categoria di farmaci, valutando il loro impiego nel terzo trimestre di gravidanza, ha riscontrato un discreto controllo pressorio in assenza di reazioni avverse. nonostante ciò, la somministrazione di atenololo fra la xii e la xxiv settimana di gestazione ha provocato alcuni effetti negativi sul feto, quali il ritardo di crescita e la riduzione del peso placentare. per questo motivo l’uso dei beta-bloccanti deve essere considerato secondario rispetto all’uso della metildopa e deve essere riservato agli ultimi stadi della gravidanza. unica eccezione è per il labetololo, un alfa e beta-bloccante, che risulta essere tra i principi attivi più utilizzati di questa classe come trattamento parenterale nell’ipertensione grave. i diuretici come i tiazidici sono sconsigliati in caso di pre-eclampsia ma sono indicati nell’ipertensione cronica. infatti se la gestante ha riscontrato un buon controllo dei valori pressori prima del concepimento con questa classe di farmaci, è possibile tabella ii farmaci antiipertensivi e dosi consigliate. modificata da [6] farmaco dose iniziale per os dose massima ipertensione lieve-moderata metildopa 750 mg come dose d’attacco, poi 250-500 mg x 2/die 2000 mg/die in massimo 4 dosi labetalolo 100-200 mg x 2/die 1200 mg/die in massimo 4 dosi idralazina 10 mg x 4/die 200 mg/die in massimo 4 dosi nifedipina ad azione protratta 20-30 mg (monosomministrazione/die) 120 mg/die (monosomministrazione/die) ipertensione grave idralazina 5-10 mg iv/im ogni 30 minuti o infusione di 0,5-1 mg/h 10 mg iv/im ogni 30 minuti labetalolo 5-20 mg iv ogni 30 minuti o infusione di 1-2 mg/minuto 80 mg iv ogni 30 minuti nifedipina a breve durata d’azione 5-10 mg per os ogni 30 minuti 10 mg per os ogni 30 minuti 19 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) a. ungar, e. lotti, l. lambertucci punti chiave una pressione > 140/90 mmhg durante la gravidanza deve essere diagnosticata come ipertensione valori elevati di pa durante le prime 20 settimane di gestazione possono essere attribuiti a ipertensione essenziale. per assicurare la salute della madre e del feto, si raccomanda il trattamento farmacologico se pa > 100 mmhg donne che ricevevano un trattamento anti-ipertensivo già prima della gravidanza dovrebbero continuarlo, a meno che il farmaco usato non possa essere dannoso per il feto: in questo caso è necessario modificare il trattamento misurazione della pressione: in gravidanza la postura della madre influenza significativamente la pressione arteriosa e i risultati potrebbero non essere corretti, come nel caso per esempio in cui la pressione viene misurata in clinostatismo. è necessario misurare la pressione con la paziente seduta e il braccio della donna mantenuto a livello del cuore per almeno 5 minuti [9] gli ace-inibitori sono controindicati durante la gravidanza e sono associati a induzione di insufficienza renale nel feto e nel bambino la terapia anti-ipertensiva dovrebbe essere utilizzata per le donne in gravidanza con un’ipertensione grave metildopa e labetalolo sono le terapie anti-ipertensive più appropriate per l ’ipertensione in gravidanza il trattamento della donna con ipertensione cronica lieve non complicata non è consigliato perché non aumenta i risultati sul bambino l’atenololo può essere associato a restrizioni della crescita e non è pertanto raccomandato per l ’uso in gravidanza          algoritmo per la gestione dell’ipertensione cronica in gravidanza 20 clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati ipertensione e gravidanza bibliografia 1. lenfant c. working group report on high blood pressure in pregnancy. j clin hypertens 2001; 3: 75-88 2. zamorski ma, green la. nhbpep report on hight blood pressure in pregnancy. am fam physician 2001; 64: 263-70 3. pilotto l. condizioni particolari. ipertensione arteriosa in gravidanza e nel climaterio ital heart j 2000; 1: 90-93 4. magee la. treating hypertension in women of child-bearing age during pregnancy. drug safety 2001; 24: 457-74 5. lovotti m, bottino s, frusca t, lojacono a. raccomandazioni di assistenza ipertensione e gravidanza, società lombarda di ostetricia e ginecologia, 2003 6. galatti l, caputi ap. anti-ipertensivi in gravidanza, disponibile su www.farmacovigilanza.org 7. brown ma et al. the detection, investigation and management of hypertension in pregnancy: executive summary. consensus statement from the australasian society for the study of hypertension in pregnancy. aust n z j obstet gynaecol 2000; 40: 133-8 8. khedun sm et al. effects of antihypertensive drugs on the unborn child. what is known, and how should this influence prescribing? paediatr drugs 2000; 2: 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mesi. all’età di 2 anni gli è stato diagnosticato presso la clinica pediatrica di pavia un deficit di iga e carenza di linfociti t; in tale occasione il cariogramma ha evidenziato la presenza dell’anomalia cromosomica 47 xyy [2]. all’età di 8 anni il paziente ha cominciato a sviluppare crisi epilettiche motorie focali, prevalentemente notturne, senza generalizzazione secondaria; le crisi hanno continuato a manifestarsi nel disturbo psicotico e caratteristiche del suo sviluppo nelle aneuploidie dei cromosomi del sesso abstract sex chromosome anomalies have been associated with psychoses. we report a patient with xyy chromosome anomaly who developed a paranoid psychosis. the second case deal with a 51-yearold woman affected by turner syndrome and psychotic disorder, with a prevalent somatic and sexual focus. keywords: chromosome anomalies, psychoses, turner syndrome psychotic disorder and its characteristics in sex chromosome aneuploidies cmi 2009; 3(3): 123-132 1 laboratorio di psicologia cognitivo comportamentale irccs fondazione istituto neurologico c mondinopavia corresponding author annapia.verri@mondino.it perché descriviamo questo caso? i casi clinici descritti evidenziano la possibilità di associazione tra disturbi psicotici e anomalie cromosomiche. i due casi clinici sottolineano inoltre la necessità di un adeguato approccio ai pazienti con psicosi, soprattutto se associata ad aneuploidia dei cromosomi del sesso in vista di una loro precoce diagnosi, al fine di salvaguardare lo stato di salute e la condizione psicosociale di tali soggetti caso clinico corso degli anni, variando in frequenza da settimanali ad annuali, nonostante la terapia con fenobarbital, carbamazepina e, attualmente, con oxcarbamazepina. le crisi risultavano caratterizzate da parestesie (formicolii e sensazione di addormentamento), coinvolgenti la lingua, la parte sinistra delle labbra e il mento; sintomi somatosensoriali erano rapidamente seguiti da deviazione clonica sinistra della lingua e da ipersalivazione; erano presenti scosse cloniche a livello della spalla. la durata degli episodi era di circa 20-40 secondi. durante clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 124 disturbo psicotico e caratteristiche del suo sviluppo nelle aneuploidie dei cromosomi del sesso gli attacchi il bambino presentava difficoltà nell’articolazione della parola, ma la coscienza era preservata. le crisi occorrevano più di frequente al momento dell’addormentamento, durante il sonno (talora inducendo il paziente al risveglio) o in coincidenza con il momento del risveglio. valutazione clinica, rilievi neurofisiologici e neuroradiologici al termine dello sviluppo, l’esame neurologico ha evidenziato un’altezza al di sopra della norma (1,85 m), costituzione corporea longilinea (peso: 75 kg), normale circonferenza cranica, riflessi nella norma, adeguato livello di coscienza, un globale e persistente impaccio associato a iperlassità legamentosa e presenza di scapole alate bilateralmente. la lateralità dominante risultava essere sinistra per mani e piedi, destra per gli occhi. nel corso degli anni le registrazioni eeg hanno evidenziato attività di fondo a 8 hz, 20-30 µv di voltaggio, simmetrica, reagente all’apertura degli occhi, la presenza di ritmi rapidi di bassa ampiezza sulle derivazioni anteriori e ricorrenza di frequenze theta polimorfe, in gruppi o sequenze, limitate o prevalenti a destra sulle derivazioni frontocentro-temporali, con componenti di punta o sharp-waves seguite da oscillazione lenta. non emergevano reazioni abnormi all’iperventilazione e alla stimolazione luminosa intermittente. la risonanza magnetica funzionale documentava un’attivazione frontale destra durante l’esecuzione di un compito verbale anziché un’attivazione sinistra come nella popolazione generale. valutazione cognitiva e comportamentale durante l’età infantile, il paziente è stato descritto come un bambino iperattivo, e ha cominciato a presentare alcuni segni di disturbi della condotta già in epoca prescolare. pg era stato per un certo periodo isolato dai coetanei per il deficit immunologico, affinché fosse preservato dal contagio di infezioni, e sembra che questa fase di isolamento forzato abbia potuto influenzare il cristallizzarsi di uno stile relazionale improntato alla chiusura, al ritiro e alla povertà di competenze di natura sociale. durante i primi anni scolastici sono state segnalate difficoltà di apprendimento, con componenti di dislessia e disortografia e con difficoltà nel linguaggio espressivo, soprattutto per quel che concerne il richiamo delle parole e la formulazione narrativa. tali aspetti si sono precocemente tradotti nella presenza di difficoltà in ambito scolastico, caratterizzate dal mancato raggiungimento di un adeguato e soddisfacente profitto. il quoziente intellettivo, valutato all’età di 10 anni mediante applicazione della batteria di prove wechsler intelligence scales for children (wisc), era risultato nella norma (qi totale 101). in relazione alle difficoltà presentate nell’apprendimento e nello studio, il paziente è stato inviato precocemente a un centro di salute mentale presso il quale è stato seguito durante tutta l’infanzia. durante l’età adolescenziale persisteva la presenza delle difficoltà nella socializzazione. dopo il diploma, il paziente è stato impiegato in una fabbrica come operaio. lo sviluppo sessuale è risultato influenzato marcatamente dalla tendenza a isolarsi che cosa si intende per “fenotipo comportamentale”? per fenotipo comportamentale si intende un pattern caratteristico di anomalie motoriecognitive, linguistiche e sociali che è associato in modo stabile con un disturbo biologico. in alcuni casi, il fenotipo comportamentale può costituire un disturbo psichiatrico; in altri possono manifestarsi comportamenti che non sono generalmente considerati sintomi di disturbi psichiatrici [3]. la sindrome xyy ha un prevalenza di 1:1.000 e può essere associata a disturbi della coordinazione motoria e del linguaggio, problemi comportamentali e statura superiore alla norma. la sindrome di turner – associata a monosomia completa o parziale – costituisce una delle più comuni anomalie dei cromosomi del sesso, con una prevalenza di circa 1:2.500 f. il fenotipo clinico è associato ad anomalie somatiche (bassa statura, paramorfismi toracici, gomito valgo, pterigio del collo, nevi pigmentati); anomalie viscerali prevalentemente a carico dell ’apparato cardiocircolatorio e urinario; disgenesia gonadica, responsabile della mancata comparsa dei caratteri sessuali secondari e della sterilità. clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 125 a. verri, a. cremante e da tratti di rifiuto. all’età di 17 anni il paziente ha cominciato a manifestare pensieri intrusivi e ripetitivi di natura ossessiva, i cui temi prevalenti erano costituiti da fantasie e impulsi sessuali aggressivi, di abuso o di crimini sessuali. già da allora il paziente aveva cominciato a presentare sintomi psicotici, quali allucinazioni uditive e deliri di omicidio. tali contenuti del pensiero innescavano una notevole angoscia e sensi di colpa. la somministrazione dell’intervista semistrutturata basata sui criteri diagnostici del dsm-iv tr (scid), effettuata nello stesso periodo, ha permesso di evidenziare la presenza di un disturbo d’ansia generalizzato e di un disturbo ossessivo-compulsivo associati a distimia. da allora il paziente è stato seguito in maniera costante e continuativa presso il laboratorio di psicologia cognitivo-comportamentale dell’irccs “casimiro mondino” di pavia, per sottoporsi alle valutazioni mediche, alle cure (risperidone, 1 mg/ die) e per ricevere supporto psicologico. la somministrazione del questionario minnesota multiphasic personality inventory (mmpi) ha evidenziato elevazione dell’area psicotica. lo stesso questionario, ripetuto all’età di 30 anni, ha documentato un peggioramento del profilo, con presenza di ansia marcata e tratti depressivi associati a segni psicotici, ostilità sociale, tendenza all’isolamento, presenza di pensieri ossessivi con spunti persecutori e ideazione bizzarra. all’età di 32 anni, l’assessment psicologico ha evidenziato la presenza di un profilo cognitivo caratterizzato da un quoziente intellettivo totale di 115 (qi verbale = 112, qi performance = 116), da buone abilità di ragionamento (36/36 alle matrici progressive di raven, cpm), da adeguate abilità di seriazione e di discriminazione (token test 36/36). anche le abilità di organizzazione visuo-spaziale e di recupero mnestico sono risultate normali. la valutazione delle funzioni esecutive, mediante applicazione del wisconsin card sorting test (wcts), ha documentato la presenza di adeguate capacità di pianificazione. la valutazione mediante l’intervista semistrutturata bprs (brief psichiatric rating scale, versione 4.0 ampliata) ha permesso di rilevare la presenza di stato ansioso-depressivo, caratterizzato da persistenti sensi di apprensione e preoccupazione, da sensi di tristezza e anedonia con polarizzazioni pessimistiche del pensiero. si rilevava, inoltre, marcata oppositività. l’uomo mostrava un atteggiamento oppositivo e segni di ostilità, motivati da una tendenza pronunciata alla sospettosità e alla diffidenza. tra i contenuti che cosa misurano i test psicodiagnostici? le wechsler adult intelligence scales ( wais) costituiscono una batteria di prove finalizzata alla valutazione del profilo cognitivo. constano di 11 subtest, di cui 6 compongono la scala verbale (informazione, comprensione, ragionamento aritmetico, analogie, memoria di cifre e vocabolario) e 5 la scala di performance (associazione simboli a numeri, completamento di figure, disegno con i cubi, riordinamento di storie figurate e ricostruzione di oggetti); insieme, gli 11 subtest costituiscono la scala totale. le matrici progressive di raven sono state elaborate per poter esaminare la massima ampiezza delle abilità mentali e per poter essere somministrate a persone di qualsiasi età, indipendentemente dal livello culturale. la loro somministrazione fornisce una misura delle abilità di ragionamento analogico-deduttivo e di astrazione. il token test fornisce una misurazione delle abilità di seriazione e di discriminazione. il wisconsin sorting card test ( wcst) è uno strumento pensato per valutare le abilità di ragionamento astratto e di cambiare strategie cognitive al mutare delle circostanze ambientali. la brief psychiatric rating scale (versione 4.0 ampliata) è un’intervista semistrutturata; si tratta di una scala eterovalutativa per la valutazione psicopatologica globale (copre aree sintomatologiche relative ai disturbi affettivi, ansiosi e psicotici). la scala prevede la valutazione sia di sintomi soggettivi che di segni che l ’esaminatore osserva. il minnesota multiphasic personality inventory (mmpi-2) è un questionario composto da 557 item che richiedono una risposta di tipo vero/falso e che serve per valutare le principali caratteristiche strutturali di personalità e i disordini di tipo emotivo. il personality diagnostic questionnaire-revised (pdq-r) costituisce un questionario autocompilativo per la rilevazione di tratti della personalità eventualmente patologici, secondo i criteri del dsm iv tr [4]. clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 126 disturbo psicotico e caratteristiche del suo sviluppo nelle aneuploidie dei cromosomi del sesso ideativi dominanti era rilevabile il convincimento che altre persone, specie sul luogo di lavoro, agissero con intenti discriminatori e malevoli nei suoi confronti. il paziente riportava ancora esperienze percettive insolite in assenza di stimoli esterni corrispondenti; si trattava, prevalentemente, di pseudoallucinazioni uditive con caratteristiche di voce (voci interne) e di allucinazioni di natura visiva. erano presenti contenuti insoliti del pensiero, pur in assenza di un vero e proprio delirio strutturato, che si esprimevano attraverso la formulazione di discorsi confusi, disorganizzati, vaghi, sconnessi, densi di neologismi. la capacità di esprimere le proprie emozioni attraverso la mimica e la gestualità appariva oltremodo ridotta. a tratti emergevano segni di isolamento emotivo e il contatto oculare appariva sfuggente. il paziente si mostrava inquieto e poco collaborativo. la somministrazione del questionario auto compilativo personality disorder questionnaire (pdq-r) ha evidenziato la presenza di un disturbo di personalità di cluster 3. allo stesso periodo risale la formulazione diagnostica di psicosi paranoidea. in una intervista clinica più recente, effettuata all’età di 33 anni, pg ha riferito la presenza di fantasie e pensieri intrusivi di omicidio e ha descritto la presenza di comportamenti aggressivi, soprattutto nei confronti delle donne dalle quali era attratto. appariva costantemente ossessionato dal pensiero di poter commettere un omicidio. lo scardinamento delle capacità di mantenere un adeguato esame critico della realtà si è reso evidente anche in un episodio, nel corso del quale l’angoscioso timore prodotto dalle proprie fantasie e dai propri impulsi etero-aggressivi ha indotto il paziente a recarsi al servizio di polizia confessando di aver ucciso una donna. il paziente, in stato confusionale, appariva incapace di fornire i dettagli di questo atto, che in realtà non era mai stato perpetrato. pg, nel corso della medesima intervista, esprimeva il timore di poter causare danno alla propria persona, così come idee di contaminazione (ad esempio di poter ammalarsi di aids pur non avendo mai avuto rapporti sessuali o sentimentali). continuavano a prevalere sensi di inadeguatezza nei confronti delle altre persone e sentimenti di paura del giudizio altrui: pg esprimeva il dubbio di poter essere considerato dalle donne omosessuale, soprattutto a seguito di un episodio in cui una prostituta lo aveva rifiutato dopo essere stata fisicamente aggredita da lui. nel corso degli ultimi anni lo stato ansioso e depressivo è andato progressivamente peggiorando e i genitori, che vivevano con lui, riferivano l’occorrere sempre più frequente di comportamenti ripetitivi finalizzati alla pulizia e al controllo. il paziente è di recente giunto all’attenzione in relazione a un importante e rapido peggioramento degli aspetti comportamentali. i genitori esprimevano ormai l’impossibilità di gestire i suoi accessi di rabbia e di contenere l’aggressività. in occasione di un recente ricovero il paziente si è mostrato assai poco collaborante e oppositivo, riluttante a sottoporsi alle indagini mediche. il linguaggio, difficilmente comprensibile; il comportapsicosi questo termine ha ricevuto nella storia un gran numero di definizioni diverse, nessuna delle quali gode di accettazione universale. la definizione più restrittiva di “psicotico” si riferisce ai deliri o alle allucinazioni rilevanti, che si manifestano in assenza di consapevolezza della loro natura patologica. una definizione lievemente meno restrittiva comprenderebbe anche le allucinazioni conclamate in cui il soggetto si rende conto della loro natura allucinatoria. più ampia ancora è la definizione che include anche gli altri sintomi positivi della schizofrenia (cioè la disorganizzazione dell ’eloquio, e il comportamento catatonico o grossolanamente disorganizzato). a differenza di queste definizioni, basate sui sintomi, la definizione utilizzata nel dsm-ii e nell ’icd-9 era probabilmente troppo inclusiva, e troppo basata sulla gravità della menomazione funzionale, cosicché un disturbo mentale veniva denominato psicotico se causava “una menomazione che interferisse grossolanamente con le capacità di affrontare le ordinarie necessità della vita”. infine il termine è stato anche definito concettualmente come perdita dei confini dell ’io, o ancora come compromissione grossolana del test di realtà. a seconda delle loro manifestazioni più caratteristiche, i diversi disturbi del dsm-iv mettono in rilievo i differenti aspetti delle varie definizioni di psicotico [4]. clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 127 a. verri, a. cremante mento disorganizzato. durante il periodo della degenza pg ha manifestato condotte aggressive anche nei confronti dello staff medico e paramedico. tale espressioni comportamentali hanno motivato il trasferimento presso una comunità psichiatrica. caso clinico 2 questo secondo caso riguarda una donna di 51 anni, mt, affetta da sindrome di turner e disturbo psicotico. è giunta all’attenzione in seguito a un progressivo grave peggioramento delle proprie condizioni di salute psichica. da circa un anno la paziente lamentava la presenza di difficoltà motorie, con conseguenti forti limitazioni nello svolgimento delle attività della vita quotidiana. la paziente, sposata e con una figlia adottiva, era tornata a vivere con la famiglia d’origine, e i genitori si prendevano cura di lei, fornendole un’assistenza continuativa anche nello svolgimento delle più semplici attività della vita quotidiana. mt presentava algie in diversi distretti corporei, pur in assenza di una condizione medica generale accertata che potesse giustificare tali sensazioni dolorifiche. aveva inoltre sviluppato numerose fobie, e un marcato restringimento del campo di interessi e di attività condotte, limitando le relazioni sociali ai familiari più stretti. mt presentava allucinazioni di natura uditiva e visiva. nelle settimane che avevano preceduto il ricovero, la paziente aveva cominciato a presentare comportamenti bizzarri e inappropriati, legati a scarso controllo degli impulsi (onanismo compulsivo) e disinibizione. tali condotte causavano notevoli sensi di colpa e stato ansioso marcato. la paziente presentava anche delle importanti alterazioni del ritmo sonno-veglia, con problemi a mantenere il sonno per un tempo soddisfacente e difficoltà ad addormentarsi da sola, senza la madre accanto. mt è l’ultimogenita di sei fratelli. è nata a termine da gravidanza fisiologica e parto eutocico. il suo sviluppo linguistico e motorio è stato normale. la paziente ha frequentato regolarmente la scuola dell’obbligo e le sue relazioni interpersonali con i pari sono state descritte come adeguate e soddisfacenti. mt ha conseguito il diploma magistrale a pieni voti e dopo aver conseguito il diploma di scuola superiore si è iscritta alla facoltà di psicologia, che ha abbandonato due anni più tardi per lavorare. la paziente ha lavorato per 20 anni come insegnante di scuola elementare. all’età di 14 anni, in relazione all’amenorrea primaria, è stata diagnosticata la sindrome di turner (cariotipo 45, x). la paziente ha iniziato così una terapia ormonale sostitutiva che ha seguito con regolarità per anni. un primo scompenso psicotico si era verificato quando la paziente aveva 18 anni. mt riportava comparsa di allucinazioni di natura visiva e uditiva, caratterizzate da voci angosciose e dal suono delle campane. in relazione a questi sintomi la paziente era stata ricoverata per oltre un mese presso il reparto di psichiatria. mt ha trascorso gli anni successivi riportando gravi difficoltà nello svolgimento delle attività quotidiane e una significativa perdita delle proprie abilità di autonomia. la paziente non appariva infatti più in grado di prendersi cura della propria persona e delle cose, né di spostarsi autonomamente da un luogo all’altro. progressivamente, grazie alle terapie farmacologiche, la qualità della vita di mt è migliorata, sino alla remissione dei sintomi. all’età di 31 anni mt si è sposata e ha deciso con il marito di adottare una figlia da un paese estero attraverso un programma di adozioni internazionali; la bambina aveva solo quaranta giorni al momento dell’adozione. la relazione coniugale, prima pacifica e serena, è poi divenuta particolarmente difficoltosa e tesa in seguito all’adozione, soprattutto a causa delle divergenze di opinione in merito all’educazione della figlia. lo sviluppo della bambina si era precocemente rivelato problematico e quando la bambina ha iniziato a manifestare difficoltà di apprendimento e atteggiamenti di rifiuto per la scuola, mt si è dedicata completamente alla famiglia, rinunciando al lavoro di insegnante. all’età di 49 anni, mt ha cominciato a presentare inizialmente sintomatologia depressiva, anche in relazione alle difficoltà nella gestione della figlia adolescente e della conflittualità domestica. la paziente è andata poi rapidamente incontro a un marcato peggioramento comportamentale, caratterizzato da aggressività verbale etero-diretta, uso del turpiloquio, difficoltà nello svolgimento dei compiti quotidiani e ricorso al supporto costante della madre, nei confronti della quale aveva ricominciato a sviluppare una profonda dipendenza affettiva. gradualmente la paziente ha perso la capacità di badare a se stessa e alla propria famiglia e ha così deciso di trasferirsi a casa della madre. clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 128 disturbo psicotico e caratteristiche del suo sviluppo nelle aneuploidie dei cromosomi del sesso in seguito a un ulteriore peggioramento le è stata prescritta una terapia antidepressiva; ma presto la paziente ha manifestato iperattività, agitazione e disorientamento nel tempo e nello spazio. in un secondo momento ha assunto aloperidolo, con beneficio: con il continuo supporto delle sorelle, sia per quanto riguarda la cura personale sia quella della casa, la paziente è tornata a vivere con la figlia e il marito. nello stesso periodo mt ha intrapreso un percorso di psicoterapia, poi interrotto da lei spontaneamente. valutazione clinica, rilievi neurofisiologici e neuroradiologici la paziente presentava ipostaturalità (147 cm), peso di 40 kg. l’esame obiettivo al momento del ricovero è risultato nella norma. alla valutazione neurologica si rilevavano bradicinesia, atassia e globale impaccio motorio. durante il periodo della degenza è stata sottoposta a diversi accertamenti strumentali. l’esito dell’esame pev (potenziali evocati visivi) documentava una anomala morfologia bilaterale. i potenziali evocati uditivi risultavano inoltre bilateralmente alterati; alla valutazione audiometrica si rilevava una grave ipoacusia neuro-sensoriale. la tc cerebrale è risultata nella norma mentre la rmi mostrava un minimo ampliamento del sistema ventricolare della scissura di silvio e dei solchi del verme cerebellare comunque compatibili con l’età della paziente. valutazione cognitiva e comportamentale durante il periodo del ricovero necessitava di costante supervisione; emergevano, infatti, tratti di forte dipendenza dalle figure familiari di riferimento e dagli operatori, ai quali si rivolgeva costantemente, chiedendo loro supporto per lo svolgimento di attività anche semplici e ordinarie. appariva in stato di trascuratezza personale. frequenti erano gli episodi critici caratterizzati da profondo senso di confusione, appiattimento emotivo, pianto spontaneo e ricerca di figure familiari. la valutazione psicodiagnostica effettuata durante la degenza è stata resa inizialmente difficoltosa a causa dei limitati livelli di collaboratività mostrati dalla paziente. mt ha partecipato ai colloqui limitandosi a rispondere alle domande in maniera sintetica e circoscritta, evitando di portare spontaneamente contributi personali all’interazione. i movimenti e l’eloquio apparivano notevolmente ridotti e rallentati ed emergeva povertà ideativa. ridotta era anche la capacità di manifestare le proprie emozioni con l’espressione del volto, il tono della voce e la gestualità. emergeva, a tratti, tendenza alla distraibilità. la paziente appariva comunque in grado di riferire i propri contenuti emotivi, riferendo la comparsa di sintomatologia ansioso-depressiva in relazione a problematiche in ambito familiare, a preoccupazioni per il rapporto con la figlia e per la propria salute. emergevano alcune difficoltà di ordine mnestico. mt mostrava, infatti, difficoltà nella corretta identificazione del luogo fisico in cui si trovava e nella collocazione temporale di eventi importanti della propria vita. la somministrazione dell’intervista semistrutturata brief psychiatric rating scale (versione 4.0 ampliata) ha evidenziato un’ideazione caratterizzata dalla presenza di preoccupazioni somatiche, dalle quali appariva incapace di distrarsi e che causavano notevole compromissione del normale funzionamento. esprimeva costantemente il timore che il proprio corpo potesse andare incontro a frammentazione/disgregazione e di perdere i genitali; si associavano allucinazioni di natura tattile e uditiva. emergevano, inoltre, idee di riferimento: la paziente descriveva infatti il convincimento che persone non conosciute potessero nuocere alla sua salute fisica e punirla a causa dei comportamenti sessuali da lei giudicati inappropriati e vissuti con estremo senso di colpa. la somministrazione della batteria di prove wechsler adult intelligence scale (wais) ha evidenziato un livello cognitivo normale (qitot = 96; qiv = 110; qip = 78), pur caratterizzato da una marcata discrepanza tra i punteggi ottenuti alle prove di natura verbale e a quelle di performance. la paziente ha collaborato alla somministrazione del test, mantenendo livelli di attenzione e concentrazione adeguati per tutta la durata delle prove. la valutazione mediante token test ha documentato la presenza di abilità di seriazione e di discriminazione nella norma. la somministrazione delle coloured progressive matrices (cpm) ha invece posto in luce difficoltà nel ragionamento analogico-deduttivo e di astrazione. clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 129 a. verri, a. cremante la valutazione per mezzo della figura di rey ha documentato la presenza di deficit a carico della memoria visuo-spaziale. le alterazioni comportamentali osservate nella paziente sono state ben evidenziate anche mediante la somministrazione del questionario eterocompilativo rating scale del comportamento (aman-singh), compilato per mezzo delle informazioni dei familiari e delle osservazioni rilevate durante l’arco della degenza. la paziente presentava forti oscillazioni del tono dell’umore, apparendo a tratti iperattiva e a tratti invece apatica, indolente e inattiva, insofferente alle attività del reparto. necessitava dunque di continui solleciti per muoversi e svolgere le normali attività quotidiane. emergeva inoltre scarso interesse per i contatti interpersonali. erano infine presenti stereotipie motorie e verbali. discussione la letteratura appare concorde nell’evidenziare una più alta incidenza di disturbi psichiatrici dello spettro psicotico nei pazienti portatori di anomalie cromosomiche coinvolgenti i cromosomi del sesso [5]. a titolo esemplificativo abbiamo riportato due casi clinici: il primo riguardava un paziente affetto da sindrome xyy con psicosi paranoidea; il secondo invece è quello di una donna affetta da sindrome di turner e psicosi a prevalente tematica corporea. la ricerca offre diverse prove della relazione tra l’anomalia cromosomica e l’adozione di condotte criminali. schroeder e colleghi, ormai trent’anni fa, hanno descritto il rischio crescente di comportamenti impulsivi e antisociali nei pazienti con cariotipo xyy. un recente lavoro retrospettivo sulla popolazione psichiatrica ha evidenziato una elevata frequenza rispetto a quella attesa di xyy nei pazienti che hanno commesso crimini a sfondo sessuale. un limitato numero di lavori ha esplorato la relazione tra ormoni e comportamento criminale nei pazienti portatori di aneuploidia dei cromosomi sessuali, come la sindrome xyy [6]. nonostante l’individuazione di elevati livelli di testosterone, ormone luteinizzante e ormone follicolo-stimolante nel sangue dei soggetti affetti da sindrome xyy, i risultati di questo studio non sembrano supportare l’ipotesi secondo cui gli ormoni sessuali avrebbero un ruolo significativo nello sviluppo di comportamenti anti-sociali e criminali da parte di questi individui. sembra che i fenomeni allucinatori caratteristici dei pazienti affetti da sindrome xyy possano determinare l’insorgere di disturbi comportamentali, incluse le condotte antisociali, le aggressioni a sfondo sessuale e i crimini violenti [7]. questo tipo di ipotesi potrebbe rendere conto dei casi clinici precedentemente descritti in letteratura, i cui fenomeni allucinatori sono probabilmente stati sottovalutati a favore di teorie esplicative focalizzate sui fattori ormonali o sulla disabilità intellettiva. inoltre, nel nostro paziente abbiamo osservato la co-occorrenza fisiopatologica dell’epilessia focale e del genotipo xyy. infatti, in accordo con studi precedenti, l’epilessia è una delle patologie più frequentemente associate all’aberrazione cromosomica [8,9]. la sindrome da immunodeficienza t, diagnosticata al paziente durante infanzia, supporta l’ipotesi di un’associazione tra i disturbi a carico del sistema immunitario e l’epilessia, già stata descritta in numerosi studi [10,11]. in particolare, il nostro caso sembra supportare l’ipotesi secondo cui i fattori immunitari avrebbero un ruolo significativo nei processi epilettogeni [12,13]. i risultati degli esami neuro-radiologici, avendo evidenziato un’anomala lateralizzafigura 1 asimmetria degli emisferi cerebrali. le aree frontali destre nel soggetto sano sono più ampie delle regioni sinistre, e le regioni occipitali sinistre sono più ampie delle regioni destre [16] posteriore anteriore frontale l < r occipitale l > r area di broca area di wernicke zione cerebrale, sembrano particolarmente coerenti con quelli apparsi precedentemente in letteratura. sebbene non sia stato ancora chiarito se le alterazioni a carico del sistema nervoso centrale dei pazienti affetti da sindrome xyy dipendano direttamente dalla loro aberrazione cromosomica, recenti studi hanno suggerito che l’iper-espressione dei geni localizzati sui cromosomi del sesclinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 130 disturbo psicotico e caratteristiche del suo sviluppo nelle aneuploidie dei cromosomi del sesso so influenzerebbe lo sviluppo cerebrale e la differenziazione funzionale degli emisferi. risulterebbe pertanto alterata la asimmetria cerebrale fisiologica che risulta critica per lo sviluppo di alcune funzioni mentali e per la lateralizzazione del linguaggio [5]. infatti gli emisferi cerebrali sono asimmetrici: le regioni frontali destre sono più ampie delle regioni sinistre, e le regioni occipitali sinistre sono più ampie delle regioni destre [14,15] (figura 1). le alterazioni di queste asimmetrie sono considerate una delle possibili cause della schizofrenia. nelle pagine precedenti è stato descritto, inoltre, il caso clinico di una donna affetta da sindrome di turner e disturbi psicotici con un livello intellettivo nella norma caratterizzato, tuttavia, da una significativa discrepanza tra il punteggio verbale e quello di performance. il fenotipo cognitivo dei soggetti affetti da sindrome di turner è tendenzialmente contraddistinto da normali abilità verbali, mentre risultano relativamente compromesse le abilità visuo-spaziali, le prestazioni attentive, la memoria di lavoro e le funzioni esecutive spazio-dipendenti. la costellazione dei deficit neurocognitivi caratteristica della sindrome di turner è tipicamente multifattoriale e legata alla complessa interazione tra le anomalie genetiche e le disfunzioni ormonali [17]. le associazioni cliniche tra la sindrome di turner e i disturbi psicotici sono state ampiamente descritte in letteratura. è stato ipotizzato che le perturbazioni dell’equilibrio genetico prodotte dall’anomalia dei cromosomi sessuali determinino una significativa vulnerabilità agli agenti esterni, favorendo così lo sviluppo di disturbi psicotici [18]. numerosi lavori dedicati al profilo psicologico dei soggetti affetti da sindrome di turner sono focalizzati sull’impatto delle caratteristiche fisiche (come l’ipostaturalità) sullo sviluppo psicologico di queste pazienti durante l’adolescenza. la personalità tipica delle pazienti affette da sindrome di turner è caratterizzata da un’eccessiva dipendenza, immaturità, passività, distraibilità e docilità, come già suggerito da nielsen e thomsen [19]. è possibile rilevare alcuni di questi tratti anche nella struttura personologica della paziente precedentemente descritta. per esempio, il personale di reparto ha rilevato che nel corso del ricovero mt era più tranquilla e collaborante quando erano presenti la compagna di stanza o i parenti, ed era inoltre costantemente ansiosa e preoccupata di essere abbandonata dalle sorelle. in effetti molto spesso i genitori delle bambine affette da sindrome di turner tendono a essere iperprotettivi, favorendo in questo modo la loro dipendenza e immaturità [20,21]. rispetto alla popolazione generale le donne con sindrome di turner hanno le prime esperienze sessuali più tardi, sono meno sessualmente attive e tendono a non sposarsi [22-24]. la difficoltà nel raggiungere adeguati livelli di maturità è particolarmente evidente nella nostra paziente, che si è dimostrata incapace di gestire le problematiche della figlia e di prendersi cura della propria casa senza l’aiuto della sua famiglia di origine. melbin ha descritto quattro pazienti affette da st [25]; due di loro soffrivano di disturbi psicotici: una aveva repentini e improvvisi attacchi di ilarità e crisi di pianto, mentre l’altra, che soffriva anche di epilessia, si era lentamente chiusa in se stessa e all’età di 23 anni aveva avuto la prima crisi psicotica, «sentiva che la sua morte era vicina e si rifiutava di mangiare», tuttavia la sua sintomatologia psicotica si era risolta durante un ricovero di poche settimane e il disturbo psichiatrico non si era più ripresentato. in un altro studio nielsen [26] ha descritto due casi clinici di pazienti che mostravano reazioni psicotiche agli eventi emotivamente pregnanti, mentre un’altra paziente presentava una sindrome psichiatrica che era stata definita di natura organica, probabilmente erroneamente. una delle due donne psicotiche era stata ricoverata per la prima volta all’età di 53 anni, dopo che alla madre era stata diagnosticata una demenza senile. l’altra paziente affetta da disturbi psicotici aveva mostrato i primi sintomi all’età di 42 anni dopo un ricovero per diabete mellito. anche prior e colleghi hanno descritto due casi clinici. una loro paziente aveva avuto la sua prima crisi psicotica all’età di 28 anni [27]. trapet e collaboratori hanno descritto il caso di una paziente che era stata ricoverata intorno ai 20 anni e che presentava sintomi depressivi, di euforia, erotomania e saltuariamente stati di dissociazione [28]. la sua sindrome era inoltre caratterizzata da stati di agitazione, comportamenti bizzarri e deliri somatici. la psicosi era regredita con una terapia antipsicotica e a essa era subentrato uno stato di apatia. clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 131 a. verri, a. cremante recentemente, numerose sostanze sono state identificate come “distruttori endocrini”, poiché l’esposizione a esse determinerebbe la distruzione del normale funzionamento endocrino. alcuni lavori relativi a condizioni genetiche che determinano un anomalo funzionamento del metabolismo degli estrogeni hanno suggerito che proprio questi ormoni potrebbero essere coinvolti nello sviluppo della schizofrenia. la sindrome di turner (xo) e la sindrome di klinefelter (xxy ) sono probabilmente modelli genetici di un anomalo funzionamento del sistema endocrino sebbene non siano direttamente comparabili all’esposizione chimica diretta, poiché interi cromosomi sono coinvolti nell’eziologia di queste stesse sindromi. la sindrome di turner, caratterizzata da carenza di estrogeni durante il periodo prenatale e perinatale, è associata a disturbi cognitivi e psicotici [29,30]. nello studio di prior [27] è stato dimostrato che le pazienti con sindrome di turner hanno un rischio tre volte maggiore rispetto alla popolazione normale di soffrire di schizofrenia. la sindrome di klinefelter, associata a ipogonadismo, è stata proposta come un modello genetico dei disturbi psicotici [5]. bibliografia verri ap, galimberti ca, perucca p, cremante a, vernice m, uggetti a. psychotic disorder 1. and focal epilepsy in a left-handed patient with chromosome xyy abnormality. gen couns 2008; 19: 373-9 verri ap, monafo, a, galimberti a, mauri m, ronchi g, ruiz l. sindrome xyy: associazione 2. con epilessia parziale transitoria immunodeficienza cellulare e deficit di iga. in farabosco a, andria g, neri g, sereni f (a cura di). genetica e ritardo mentale. milano: monduzzi editore, 1989 o’brien g, yule w (a cura di). behavioural phenotypes. clinics in developmental medicine no. 3. 138. london: mac keith press, 1995 american psychiatric association. diagnostic and statistical manual of mental disorders, 4th. 4. 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l’unica patologia presente, è importante identificarla immediatamente, allo scopo di evitare alle pazienti che ne sono affette diagnosi di patologie più gravi, per definire la sua frequenza ed epidemiologia, per comprenderne le basi biologiche e, cosa più importante, per definire una terapia adeguata. è inoltre particolarmente importante che alle pazienti affette da sindrome di turner e ai loro familiari sia garantito un adeguato supporto psicologico per tutta la vita, sia attraverso figure professionali di riferimento sia con la terapia di gruppo. nonostante la prevalenza di questa condizione cromosomica, le sfide che queste donne affrontano nel corso della loro vita non sono ancora del tutto comprese. un adeguato approccio multidisciplinare sembra necessario allo scopo di salvaguardare lo stato di salute e la condizione psico-sociale di queste pazienti, anche oltre l’età evolutiva. disclosure gli autori dichiarano di non avere alcun confitto di interessi di natura finanziaria. clinical management issues 2009; 3(3) ©seed tutti i diritti riservati 132 disturbo psicotico e caratteristiche del suo sviluppo nelle aneuploidie dei cromosomi del sesso vezzani a, granata t. brain inflammation in epilepsy: experimental and clinical evidence. 11. epilepsia 2005; 46: 1724-43 steinman l. elaborate interactions between the immune and nervous systems. 12. nat immunol 2004; 5: 575-81 mueller fj, mckercher sr, imitola j, loring jf, yip s., khoury sj et al. at the interface of the 13. immune system and the nervous system: how neuroinflammation modulates the fate of neural progenitors in vivo. ernst schering res found workshop 2005; 53: 83-114 chance sa, esiri mm, crow tj. macroscopic brain asymmetry is changed along the antero-14. posterior axis in schizophrenia. schizophr res 2005; 74: 163-70 crow tj. cerebral asymmetry and the lateralization of language: core deficits in schizophrenia 15. as pointers to the gene. curr opin psychiatry 2004; 17: 97-106 mitchell rlc, crow tj. 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industrializzati e annoverando tra le cause più comuni la fibrillazione ventricolare e la tachicardia ventricolare senza polso. per quanto riguarda gli arresti cardiaci che avvengono all’interno del contesto ospedaliero, cioè 1-5 casi su 1.000 pazienti ricoverati, la sopravvivenza è inferiore al 20%, con grosse disparità a seconda del territorio e dell’ospedale in cui si verificano. tali disuguaglianze indicano che la qualità delle cure risulta talora di scarso livello. nasce pertanto la necessità di ottimizzare il primo intervento di soccorso, con l’obiettivo di portare la sopravvivenza a percentuali vicine al 50% [1]. ma come può essere raggiunto questo traguardo? negli ultimi 50 anni diverse organizzazioni hanno cercato di dare una risposta a questa domanda. nel 1963 l’american heart association (aha) costituiva la prima commissione sulla rianimazione cardiopolmonare [2] e nel 1966 pubblicava le prime linee guida sull’argomento [3]. altre organizzazioni nazionali stilavano proprie linee guida, finché nel 1992 si costituiva la international liaison committee on resuscitation (ilcor) [4]. questa riuniva organizzazioni provenienti dai cinque continenti e si poneva lo scopo di discutere, coordinare e uniformare le nozioni e le procedure sull’argomento. nel 2000 l’ilcor, in collaborazione con l’aha, promulgava le prime linee guida proprie [5], facendo poi seguire revisioni nel 2005 [6] e nel 2010 [7]. un concetto basilare contenuto nelle linee guida ilcor è che per migliorare l’efficienza del primo intervento di rianimazione cardiopolmonare è indispensabile standardizzare le conoscenze: bisogna, cioè, che tutti gli operatori sanitari abbiano in mente una strategia comune per intervenire, basata sul corretto ordine delle priorità, consentendo un rapido riconoscimento dell’emergenza clinica e una risposta pronta e adeguata. le fasi del supporto vitale di base sono riassunte nella figura 1. figura 1. schema riassuntivo delle fasi del supporto vitale di base e defibrillazione [1,7] a livello operativo, i soccorritori devono, perciò, essere in grado di: eseguire il massaggio cardiaco “di alta qualità”; riconoscere i ritmi di arresto e defibrillare appena possibile se indicato; gestire le vie aeree; somministrare i farmaci necessari. l’uso di algoritmi, come ad esempio quello illustrato in figura 1, fa parte delle strategie individuate per facilitare la memorizzazione delle operazioni da svolgere e l’ordine con cui metterle in atto. un’altra tecnica che si è dimostrata proficua consiste nell’uso di regole mnemoniche e di acronimi: ad esempio “motore” consente di ricordare che i segni vitali da ricercare nella vittima di un arresto cardiaco sono il movimento, la tosse e la respirazione, mentre la regola delle 5 “i” permette di tenere a mente che le possibili eziologie di un arresto cardiaco sono ipovolemia, ipossia, ipo/iperpotassiemia, ipotermia e intossicazioni [1]. inoltre, poiché bisogna agire in modo tempestivo e organizzato con azioni che devono avvenire contemporaneamente, è importante definire i ruoli all’istante e sapere che cosa ci si attende che ciascuno faccia. il soccorritore leader del team di soccorso eseguirà la rianimazione cardiopolmonare di base e coordinerà il team, mentre il secondo soccorritore farà il massaggio cardiaco, si occuperà della somministrazione di farmaci, della preparazione dei materiali necessari, aiuterà nella ventilazione e registrerà i tempi. al suo arrivo, il terzo soccorritore eseguirà la defibrillazione, alternandosi con il secondo membro del team nel massaggio cardiaco. ciascun membro del team deve così conoscere e saper svolgere il proprio compito in modo “sincronizzato” o “coreografico” con gli altri. in questa interazione di squadra ricoprono un ruolo importante anche le capacità di cooperazione di ogni membro, le cosiddette soft skills: modi di porsi inadeguati da parte del leader o degli altri soccorritori possono dar luogo ad attriti che rischiano di interferire con l’esito dell’operazione di soccorso. un’attenzione particolare deve essere posta anche nei confronti della sicurezza del malato, così come dei soccorritori e degli eventuali astanti: spazi precisi devono essere individuati per consentire di effettuare le manovre senza rischi. per migliorare i singoli interventi d’urgenza, è necessario ricorrere alla valutazione sistematica, effettuata al termine di ogni episodio di rianimazione cardiopolmonare, nella quale vengano analizzati la situazione clinica, l’operato del team di soccorso e l’outcome. un aiuto per procedere arriva da protocolli validati e dai form che sono stati appositamente studiati per raccogliere i dati del paziente, quali ad esempio quelli secondo il modello utstein [8]. in occasione della compilazione di queste schede da parte dei membri del team, appena terminato l’intervento di soccorso, si può anche effettuare il defusing, cioè una breve discussione su quanto accaduto con lo scopo di neutralizzare gli effetti psicologici potenzialmente traumatici che possono essere stati causati dall’evento, generalmente grave e improvviso. un ulteriore incontro con obiettivi simili ma questa volta più approfondito deve essere condotto 24-72 ore più tardi: si tratta del debriefing. i risultati della performance devono essere confrontati con quelli ottenuti in eventi simili nello stesso ospedale e in ottica nazionale e internazionale. occorre, inoltre, individuare gli anelli deboli della catena e i singoli errori commessi per poterli correggere. gli errori possono essere di tre tipi: di esecuzione; di progettazione; di percezione. è impossibile eliminare completamente gli errori. tuttavia un approccio sistematico e strutturato consente di ridurne drasticamente l’incidenza. in particolare per limitare gli errori di esecuzione occorre effettuare frequentemente simulazioni di intervento, servirsi di aiuti mnemonici e check-list, evitando distrazioni e interruzioni e disponendo l’attrezzatura in modo logico e ordinato. gli errori di progettazione si possono ridurre mediante l’ausilio di una formazione costante del personale, la supervisione dei membri meno esperti e l’uso di flow-chart per l’esecuzione delle procedure. gli errori di percezione possono essere limitati se il personale affronta gli episodi con umiltà, cercando sempre una seconda opinione, anche contrastante, e provando a cambiare prospettiva. quando un operatore è consapevole di agire in modo difforme da quanto suggerito dalle raccomandazioni o dalle regole commette una violazione: per cercare di evitarle, è fondamentale che il personale sanitario riceva spiegazioni esaustive sulle motivazioni alla base delle procedure. occorre inoltre aumentare il monitoraggio, controllare l’attrezzatura e migliorare l’ambiente di lavoro, anche incoraggiando la discussione dei problemi riscontrati. attuando in modo sistematico questi cicli di valutazione, interpretazione, feedback e miglioramento continuo si può aumentare notevolmente l’efficienza operativa della rianimazione cardiopolmonare. bibliografia 1. mennuni m. manuale dell’arresto cardiaco intraospedaliero. torino: seed medical publishers, 2013 2. american heart association. visitabile all’indirizzo: http://www.heart.org/heartorg (ultimo accesso novembre 2013) 3. american heart association. cardiopulmonary resuscitation: statement by the ad hoc committee on cardiopulmonary resuscitation, of the division of medical sciences, national academy of sciences, national research council. jama 1966; 198: 372-9 4. international liaison committee on resuscitation. visitabile all’indirizzo: http://www.ilcor.org/home (ultimo accesso novembre 2013) 5. american heart association in collaboration with the international liaison committee on resuscitation (ilcor). guidelines 2000 for cardiopulmonary resuscitation and emergency cardiovascular care. an international consensus on science. circulation 2000; 102(suppl. i): i-1–i-384 6. ecc committee, subcommittees and task forces of the american heart association. american heart association guidelines for cardiopulmonary resuscitation and emergency cardiovascular care. circulation 2005; 112(suppl): iv1-203 7. 2010 american heart association guidelines for cardiopulmonary resuscitation and emergency cardiovascular care. 2010 american heart association guidelines for cardiopulmonary resuscitation and emergency cardiovascular care. circulation 2010; 122: s640-s933 8. cummins ro, chamberlain d, hazinski mf, et al. recommended guidelines for reviewing, reporting, and conducting research on in-hospital resuscitation: the in-hospital ‘utstein style.’ american heart association. circulation 1997; 95: 2213-39. disponibile all’indirizzo http://circ.ahajournals.org/content/95/8/2213.full?ijkey=e4eb3fd6b95d346c30a64f720f156cb5a7421ff0&keytype2=tf_ipsecsha (ultimo accesso novembre 2013) per chi desidera approfondire manuale dell’arresto cardiaco intraospedaliero a cura di mauro mennuni prezzo: 22,00 € (cartaceo) | 16,99 € (ebook) isbn: 978-88-9741-943-3 (cartaceo) | 978-88-9741-944-0 (ebook) acquistabile su www.edizioniseed.it prima edizione maggio 2013 prima ristampa ottobre 2013 con l’endorsement di anmco “associazione nazionale medici cardiologi ospedalieri”   su 1.000 degenti in ospedale 1-5 va incontro ad arresto cardiaco, con prognosi troppo spesso infausta. aumentare la sopravvivenza è possibile, e questo volume, basato sulle linee guida ilcor del 2010, illustra le strategie più condivise per migliorare l’efficienza del primo team di soccorso, in attesa prima e in aiuto dopo, del team di soccorso avanzato. il massaggio cardiaco, la ventilazione, la defibrillazione e la somministrazione di farmaci vengono affrontate da un punto di vista operativo e grande importanza è data all’organizzazione del lavoro di squadra, alla valutazione sistematica e alle strategie per affrontare le fasi della rianimazione cardiopolmonare secondo le giuste priorità senza dimenticare alcun passaggio. si tratta di una guida dal taglio pratico e schematico, dotata di numerose istruzioni operative, algoritmi, box e schemi volti al training del personale sanitario ospedaliero. clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 169 italo paolini 1 caso clinico il paziente è un uomo di 65 anni, con precedente di sindrome coronarica acuta senza sopraelevazione del tratto st (nstemi). tra i problemi del paziente, al momento del ricovero, avvenuto a causa dell’insorgenza di dolore toracico, si evidenziano: bmi 32,5 con circonferenza vita 103; y diabete tipo 2 con emoglobina glicata pari y a 6,7 mg/dl; ipertensione arteriosa con media dei valori y pressori dell’ultimo anno pari a 136-83; ipercolesterolemia con ldl colesterolo y pari a 123 mg/dl. la terapia cronica in corso al momento del ricovero vedeva il soggetto assumere 4 moleil follow-up nel paziente con cardiopatia ischemica, momento essenziale nella comunicazione ospedale territorio: problemi e opportunità abstract it is known that the transition from the inpatient to the outpatient setting is a critical time. evidence suggests that contact between patients and providers (i.e., physicians, nurse practitioners, and physician assistants) during this interval may be crucial for appropriate treatment modifications and recognition of errors in treatment. ambulatory follow-up provides opportunities for clinical assessment, patient education, and medication review, which may in turn improve outcomes. however, little is known about the appropriate timing and type of follow-up that is necessary following hospitalization for ami. in italian system of heath contact between general pratictioner and specialists, after dicharge, is critical moment for management of chronic pharmacological and non pharmacological therapy. if professional approaches are not integrated can reduce patients compliance and effectiveness of therapies themselves. good management of chronic cardiovascular disease requires attention to stenghtening the continuity of information and management of patients. keywords: ambulatory follow-up, coronary hearth disease, chronic therapy, disease management, continuity of information, effectiveness follow-up of ischemic cardiopathy, an essential moment in the communication between inpatient and out-patient setting: problems and opportunities cmi 2008; 2(4): 169-179 1 medico di medicina generale. area cardiovascolare società italiana di medicina generale corresponding author dott. italo paolini via salaria, 15 – 63043 arquata del tronto (ap) italopaolini@gmail.com perché descriviamo questo caso? il caso descritto, nella sua assoluta semplicità, evidenzia un aspetto pratico di una problematica di frequente riscontro nell ’attività ambulatoriale quotidiana del mmg e degli specialisti cardiologi. il paziente affetto da cardiopatia ischemica (ma le problematiche sono analoghe in altre patologie cardiovascolari croniche) necessita, dopo l ’evento acuto e il relativo ricovero, di un integrazione tra diverse figure professionali (nel caso più semplice tra mmg e cardiologo, ma non è infrequente l ’interazione con altri specialisti come ad esempio diabetologo e nefrologo) e l ’attuale normativa e organizzaziocaso clinico clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 170 il follow-up nel paziente con cardiopatia ischemica, momento essenziale nella comunicazione ospedale territorio ne del rapporto curante-consulente non sempre è adeguata per garantire quello che dovrebbe essere invece l ’obiettivo del follow-up programmato ovvero l ’ottimizzazione e il miglioramento dell ’adesione da parte del paziente a un regime terapeutico farmacologico e non. su quali basi costruire questa collaborazione? come regolare il flusso informativo perché apporti i giusti contenuti in entrambe le direzioni e consenta la reale collaborazione e lo scambio di informazioni utili a paziente e professionisti coinvolti? quali le componenti della continuità assistenziale che è una delle necessità fondamentali dell ’attuale sistema di cure? cole di farmaci anti-ipertensivi (calcio-antagonista, diuretico tiazidico a basso dosaggio (12,5 mg/die) associato ad ace-inibitore, beta-bloccante), statina e acido acetilsalicilico. la compliance del paziente all’assunzione dei farmaci non era ottimale e vi era una tendenza a ridurre l’assunzione di farmaci, in particolare anti-ipertensivi. alla dimissione dal ricovero la terapia cronica veniva modificata (in grassetto le variazioni di molecola o nuovi farmaci) e risultava così composta: antiaggregante: acido acetilsalicilico 100 y mg/die; clopidogrel 75 mg/die y ; calcio-antagonista; y ace-inibitore y ; beta-bloccante; y statina y . il reparto di cardiologia proponeva un programma di follow-up a 1 mese, 3 mesi e 6 mesi. il paziente, prima delle visite di follow-up effettuava esami di laboratorio in parte previsti dal reparto che proponeva il controllo e in parte prescritti dal medico curante. in particolare la situazione del paziente con la persistenza di un livello di ldl colesterolo superiore a 100 (106 mg/dl) a 3 mesi induceva il medico di medicina generale (mmg) a sostituire la statina con una di maggiore potenza ad adeguato dosaggio. nel corso del terzo follow-up, al 6° mese, la situazione degli esami di laboratorio vedeva una emoglobina glicata < 7 mg/dl, glicemia a digiuno 129 mg/dl, ldl colesterolo pari a 78 mg/dl. ast uguale a 39 e alt pari a 50, cpk 48. la pressione arteriosa considerata come media dei valori pressori rilevati ambulatorialmente (n. 6 misurazioni) era pari a 127-82 con frequenza cardiaca = 56/min. il cardiologo di turno (inevitabilmente la turnazione di lavoro porta a interazione con diversi professionisti) pur rilevando la stazionarietà del quadro clinico e le discrete condizioni del paziente e avendo a disposizione le suddette informazioni da parte del mmg, riteneva di proporre cambiamenti allo schema terapeutico in corso e in particolare: sostituzione dell’ace-inibitore; y sostituzione della statina; y variazione del dosaggio del calcio-antay gonista. il mmg, convinto di avere inviato un paziente in discrete condizioni di stabilità clinica e con target terapeutici soddisfacenti si trova nella situazione di: accettare le modifiche proposte; y continuare la terapia in corso, non tenendo y conto dei suggerimenti del collega; accettare parzialmente le modifiche proy poste, con adeguato monitoraggio dei valori di pa; cercare di contattare il collega cardiologo y per concordare una sintesi tra le diverse vedute terapeutiche (il successo di questa opzione è legata alla probabilità, di solito scarsa, di riuscire a comunicare con il collega nel momento in cui si pone il problema). in ogni caso, ci si trova nella sgradevole situazione di evidenziare al paziente disparità di vedute tra professionisti parte dello stesso sistema sanitario e il rischio di riduzione della compliance (già precaria) da parte dello stesso paziente. discussione cardiopatia ischemica e controlli attivi la necessità di un adeguato sistema di controlli attivi delle patologie cardiovascolari croniche e in particolare per i pazienti affetti da cardiopatia ischemica è una raccomandazione presente in molte linee guida e documenti di consenso, statunitensi ed europei [1-7]. in questi documenti viene esplicitamente evidenziato il ruolo fondamentale del medico generalista nelle fasi successive all’evento ischemico acuto per l’organizzazione e il mantenimento di un follow-up adeguato clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 171 i. paolini volto al mantenimento di una completa terapia, farmacologica e non farmacologica, oltre che all’ottimizzazione della stessa in base alle esigenze del paziente. i controlli extraospedalieri, hanno, tra gli altri, alcuni obiettivi fondamentali: la valutazione dei sintomi del paziente; y la verifica di un uso corretto e regolare y dei farmaci; l’eventuale integrazione terapeutica in base y a modificazioni nella situazione clinica; il rinforzo educazionale e il y counseling relativo agli stili di vita e alle conseguenti modificazioni comportamentali richieste. in particolare il follow-up collaborativo, gestito insieme dal medico generalista e dallo specialista cardiologo, sembra essere migliore, sempre relativamente alla compliance rispetto alle terapie farmacologiche croniche, rispetto a quello condotto da una sola figura professionale [6]. le indicazioni provenienti dalle linee guida, riguardo l’uso di beta-bloccanti, acido acetilsalicilico, farmaci che agiscono sull’asse renina-angiotensina e statine nei pazienti con presenza di coronaropatia, in prevenzione secondaria, derivano dalla dimostrazione di una significativa riduzione di mortalità e nuove ospedalizzazioni [8]. ma il divario tra quanto raccomandato e quanto si riscontra nella pratica clinica è ancora ampio [7,9]. quanto di questo gap sia determinato dalla mancanza di uniformità nella inevitabile “gestione integrata” del paziente tra i diversi livelli assistenziali è difficile da quantificare, ma è indubbio che un approccio derivante da una reale condivisione di modalità e contenuti rappresenterebbe una condizione assolutamente favorevole per il miglioramento della compliance assistenziale dei pazienti. complessità assistenziale e compliance terapeutica gran parte della complessità assistenziale del paziente con cardiopatia ischemica deriva da problemi e bisogni che sono sempre meno pertinenza esclusiva di singole figure professionali e sempre più derivanti da risposte integrate, multispecialistiche e multiprofessionali. una patologia con elevata prevalenza nel soggetto anziano, caratterizzata da frequenti comorbidità (diabete tipo 2, ipertensione, insufficienza renale cronica, ictus, ecc.) con necessità di assistenza prolungata nel tempo e con assunzione di politerapie farmacologiche non può essere considerata come la semplice somma di interventi e decisioni autonome che non tengano conto di percorsi assistenziali e complessità che ne derivano. come ben sintetizzato in una efficace pubblicazione sul governo clinico: «l’elemento critico, ai fini di una buona qualità dell’assistenza, è il coordinamento e l’integrazione tra servizi e professionalità distinte chiamati ad intervenire nei diversi momenti di uno stesso percorso evolutivo della patologia» [10]. cambiamenti frequenti e non adeguatamente motivati o concordati tra le diverse figure professionali chiamate a intervenire sullo stesso paziente conducono a un aumento della non aderenza e al cadere di uno degli obiettivi principali del percorso di follow-up. un recente studio evidenzia chiaramente come la non-aderenza ai farmaci cardiovascolari rappresenti un problema serio nella gestione dei pazienti con patologie cardiovascolari [11]. aumentare la aderenza/persistenza significa aumentare la spesa per farmaci, ma contemporaneamente ridurre le spese non farmacologiche, portando complessivamente a un risparmio. le conseguenze economiche di una nonaderenza o di cambi frequenti tra molecole, anche se della stessa classe di farmaci, non sono state studiate in modo definitivo e necessitano di appositi indagini. sempre dal punto di vista economico, un altro studio [12] ha cercato, mediante proiezioni attuate con un modello costo/efficacia di markov, di valutare lo scenario derivante da una applicazione di una terapia completa nel post-infarto. i risultati evidenziano come la copertura totale della terapia di prevenzione secondaria post-infarto a beneficiari medicare (lo studio riguardava la realtà usa), potrebbe avere un impatto favorevole sia sulla vita dei pazienti che sui costi sanitari che ne derivano. il paziente con patologia cardiovascolare cronica dovrebbe, una volta ottimizzata la terapia, mantenere l’assunzione dei farmaci nel tempo e assumere regolarmente il farmaco senza interruzioni o riduzioni posologiche. il fatto che l’interruzione della terapia cronica sia un problema reale è dimostrato dalla rilevante incidenza di sospensione della terapia osservata ad esempio in due grandi studi come hope e on-target [13,14]. in queste popolazioni, adeguatamente monitorate, la sospensione del trattamento clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 172 il follow-up nel paziente con cardiopatia ischemica, momento essenziale nella comunicazione ospedale territorio da parte del mmg da parte del cardiologo da parte del paziente non adeguata conoscenza della malattia situazione geografica e sociale età avanzata-deficit cognitivi stadi avanzati di malattia variabilità interprofessionale mancanza di rifornimento costante diverse situazioni organizzative situazione ambientale non favorevole variabilità delle competenze cliniche variabilità di approccio alle patologie croniche situazione ambientale non favorevole gli ostacoli a un approccio uniforme del follow-up oggetto di studio ha riguardato percentuali variabili tra il 20 e il 30% dei soggetti. qual è la reale persistenza e aderenza al trattamento nella popolazione reale? alcune analisi, non specificamente rivolte al paziente con pregresso infarto, possono aiutare a comprendere la dimensione del fenomeno. in uno studio pubblicato dall’istituto di farmacologia dell’università di bologna [15] si è valutata l’aderenza a terapia antiipertensiva dopo la prima prescrizione su un’area urbana ed extraurbana di 350.000 abitanti, selezionando una coorte di 6.043 pazienti con prima prescrizione di farmaco anti-ipertensivo. in questa popolazione, seguita negli anni, il 18% ha avuto una sola prescrizione nei 3 anni di osservazione, il 13% più di una prescrizione, ma ha sospeso il farmaco antiipertensivo nel corso del primo anno, il 69% ha proseguito durante il 2° anno e il 60% nel 3° anno (almeno una prescrizione durante l’anno). in termini di copertura (almeno 300 dosi minime di farmaco durante l’anno) solo il 34% è risultato “coperto” durante il 1° anno e il 24% durante il 2° anno. il 20% dei pazienti nel corso dei 3 anni. dall’analisi sui pazienti con persistenza di trattamento, il 42% manteneva lo stesso regime nei 3 anni, il 25% aggiungeva altri farmaci al trattamento iniziale, il 34% cambiava completamente regime terapeutico. un’altra analisi [16], sempre sulla stessa popolazione, che allargava la valutazione all’uso, oltre che dei farmaci anti-ipertensivi, ai farmaci ipolipemizzanti, ipoglicemizzanti orali, e nitrati concludeva letteralmente: «la mancanza di aderenza ai trattamento cardiovascolari cronici rappresenta un problema preoccupante: sebbene la maggioranza della popolazione continui il trattamento negli anni, meno del 50% di questi riceve un quantitativo di farmaco compatibile con un trattamento farmacologico regolare e questo compromette gli effetti favorevoli dei farmaci disponibili». un altro studio [17], condotto in umbria, ha valutato la compliance al trattamento con statine per un periodo di 4,5 anni di follow-up, in una popolazione con malattia cardiovascolare. nei 39.222 soggetti identificati la persistenza media del trattamento è stata di 5,3 mesi e solo 12,8% dei soggetti ha mostrato una persistenza del trattamento. una compliance migliore, ma comunque non adeguata, si è evidenziata nei pazienti con contemporaneo uso di asa e ricoveri per eventi cardiovascolari maggiori. evidenza del sottotrattamento e della scarsa aderenza nell’uso di statine emerge anche da un’altra analisi sulla popolazione di ravenna [18]. la diffusione della problematica a tutto il territorio nazionale è testimoniata anche figura 1 mmg-cardiologo nel follow-up del paziente clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 173 i. paolini da un altro studio, svolto sulla popolazione del veneto, che ha esaminato la prescrizione di statine nel corso del 2005, basandosi su due indici: dose della terapia e intervallo di esposizione. si rinnova l’osservazione che il 50% circa dei pazienti assume i farmaci in modo discontinuo o occasionale, ma emerge il dato rilevante rappresentato dal fatto che il ricovero ospedaliero si associa con un trattamento massimale con 3 o più farmaci a una frequenza quasi doppia della continuità dei trattamenti. le conclusioni del lavoro sono: «l’adesione alle cure (almeno di quelle che si basano sull’impiego di statine) si modifica sì in presenza di un evento, ma lascia supporre che sia fortemente vincolata dalla percezione e presa in carico “condivisa” del rischio globale». tenendo conto di questi dati e di quanto avviene quotidianamente nella realtà assistenziale è necessario stabilire modalità di condivisione assistenziale che, basate su evidenze scientifiche accettate da medicina generale e medicina specialistica, consentano di ridurre queste problematiche e di migliorare i benefici derivanti da una terapia farmacologica cronica ben condotta da parte del paziente. mmg-cardiologo: ostacoli nel rapporto di follow-up quali sono o possono essere, nella realtà del ssn italiano, i principali ostacoli che si frappongono a un approccio uniforme e concordato al follow-up del paziente coronaropatico? la figura 1 riporta schematicamente alcune situazioni da cui possono derivare impedimenti a un corretto percorso di integrazione professionale: la variabilità nell’approccio professionale da parte del mmg può derivare: da differenze nell’iter formativo sviluppato y nella fase post-universitaria (la formazione da parte dell’università riguardo la figura del mmg è stata, sinora, assolutamente carente e insufficiente per la specificità professionale derivante dal ruolo) e legata a una frequente estrazione specialistica estremamente variabile; da differenze nell’organizzazione dell’aty tività professionale che si riflettono, inevitabilmente, nell’approccio alle diverse situazioni ed in particolare alla gestione organizzata delle patologie croniche e soprattutto di quelle cardiovascolari. lo schema tradizionale divide l’approccio da parte del mmg come basato su tre scenari: medicina di attesa; y medicina di opportunità; y medicina di iniziativa. y la medicina di attesa rappresenta tuttora il modello prevalente e vede il mmg intervenire in base al bisogno o alla richiesta espressa da paziente in occasione del contatto. probabilmente questo tipo di approccio risulta poco adatto a soddisfare adeguatamente le esigenze derivanti dalla misurazione e stratificazione dei fattori di rischio della popolazione di assistiti sia in prevenzione primaria e in situazioni di alto rischio (ad es. diabete) che in prevenzione secondaria su soggetti, come i coronaropatici, in cui un evento si è già verificato. la grande frequenza di accesso riscontrata nello studio del mmg (in due anni oltre l’80% della popolazione di assistiti ha contatto con il proprio medico curante) è legata in gran parte a situazioni acute non gravi o a esigenze di tipo burocratico che rendono difficile, in un’attività non specificamente organizzata e quantitativamente molto impegnativa, il recepimento delle opportunità (per medico e paziente) potenzialmente sfruttabili nel contatto [19]. il modello più adatto nella gestione dei pazienti ad alto rischio cardiovascolare è quello che, allargando il campo, concerne la assistenza, da parte delle cure primarie, del paziente con patologia cronica ed è un modello che dovrebbe virare decisamente verso medicina di opportunità e di iniziativa con un netto potenziamento della componente organizzativa da parte del mmg e del personale di studio. virare verso la medicina di iniziativa significa, per il mmg, in primo luogo, identificare la popolazione affetta da una determinata patologia cronica costruendo un vero e proprio registro di patologia e caratterizzare il profilo di rischio in base a parametri clinico-laboratoristici-strumentali. in pratica e sinteticamente i parametri da adottare per dividere in alto e basso rischio questi pazienti, derivano da: ecg da sforzo negativo (o test di imay ging negativo); funzione ventricolare non compromessa; y funzione renale normale; y microalbuminuria assente; y controllo pressorio e metabolico. y la tabella i esemplifica gli elementi utili nella valutazione del rischio nel coronaropaclinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 174 il follow-up nel paziente con cardiopatia ischemica, momento essenziale nella comunicazione ospedale territorio tico e che dovrebbero consentire a mmg e specialista cardiologo di definire e personalizzare i percorsi di follow-up. in particolare il mmg dovrebbe, in questi pazienti, predisporre una check-list di valutazione e verifica ponendosi una serie di quesiti: sono noti e registrati i fattori di rischio y cardiovascolare? la pressione arteriosa e i livelli di colestey rolo ldl sono adeguatamente controllati e registrati? sono stati prescritti asa, beta-bloccanti, y ace-inibitori? è necessario prescrivere statine? y l’assunzione dei farmaci da parte del pay ziente è regolare? è presente sintomatologia anginosa che y richiede prescrizione di farmaci o consulenza specialistica? è presente sintomatologia suggestiva di y scompenso cardiaco che richiede prescrizione di farmaci o consulenza specialistica? si è valutata la presenza di patologia atey rosclerotica in altri distretti, in particolare le carotidi? altrettanto importanti e difficili da rimuovere sono gli ostacoli identificabili dalla parte dello specialista cardiologo. anche per questo professionista, pur se in misura indubbiamente minore, è presente una notevole variabilità interprofessionale. inoltre le realtà organizzative in cui si cala l’attività ambulatoriale possono presentare grandi differenze e standard organizzativi diversi e in base a queste si possono determinare situazioni più o meno favorevoli e che si ripercuotono sulla qualità stessa dell’approccio professionale. fattore notevolmente penalizzante per un’omogeneità di approccio è l’inevitabile variabilità della figura che effettua la consulenza cardiologica con la frequente evenienza di un cambio di specialista ad ogni controllo specialistico. inoltre la differenza può riguardare il modo stesso di intendere il rapporto con il ssn e il paziente da parte ad esempio di uno specialista ambulatoriale convenzionato o di un cardiologo ospedaliero che effettua attività ambulatoriale. ultimi, ma spesso decisivi, gli ostacoli derivanti dal paziente per le frequenti comorbidità, il possibile deficit cognitivo e la scarsa conoscenza dei fondamenti della propria patologia e delle necessità assistenziali. se, in presenza di complessità di questo tipo, i messaggi educativi e le decisioni diagnostico-terapeutiche evidenziano “disallineamenti” e “contraddittorietà” diventa molto più difficile perseguire gli obiettivi di aderenza e persistenza al trattamento da parte del paziente. l’attuale rapporto curante-consulente specialista, regolato dall’art. 51 dell’accordo collettivo nazionale (acn) per la medicina generale recita testualmente: «1. il medico di famiglia, ove lo ritenga necessario, formula richiesta di visita, indagine specialistica, prestazione specialistica o proposta di ricovero o di cure termali. 2. la richiesta di indagine, prestazione o visita specialista deve essere corredata dalla diagnosi o dal sospetto diagnostico [...]. 3. il medico può dar luogo al rilascio della richiesta o prescrizione di indagine specialistica anche in assenza del paziente, quando, a suo giudizio, ritenga non necessaria la visita del paziente stesso. 4. lo specialista formula esauriente risposta al quesito diagnostico, con l’indicazione “al medico curante. 5. qualora lo specialista ritenga opportuno richiedere ulteriori consulenze specialistiche, o ritenga necessarie ulteriori indagini per la risposta al quesito del medico curante, formula direttamente le relative richieste sul modulario previsto dalla legge 326/2003». nella realtà vi sono con una certa frequenza: una scarsa definizione del quesito diay gnostico o dello scopo della interazione mmg-specialista; mancata informazione sulla patologia ogy getto del consulto; lavoro autonomo su propri database y (mmg e cardiologo) senza “scambio sussidiario” di informazioni; applicazione di follow-up “standard” con y svalutazione della richiesta di consulenza a semplice atto formale (impegnativa necessaria, indipendentemente da ciò che condistanza dall’evento acuto: rischio massimo nei primi 3-6 mesi età e sesso funzione ventricolare sinistra ischemia residua aritmie ventricolari maggiori (> 10 cpv/ora o run tachicardia ventricolare. sostenute o ripetitive) funzione renale (clearance creatinina stimata o misurata) fattori di rischio (diabete, frequenza cardiaca, fumo, hdl, ldl, microalbuminuria, arteriopatia obliterante, ecc.) tabella i la valutazione del rischio nel paziente con pregresso infarto miocardico acuto (ima) clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 175 i. paolini tiene) e richiesta passiva di riprescrizione di esami che dovrebbero essere richiesti direttamente dallo specialista stesso. tutto ciò riduce l’interazione, che dovrebbe essere componente essenziale di scambio informativo all’interno di un follow-up strutturato e personalizzato, e svuota di significato la collaborazione e il rinforzo educazionale che ne dovrebbe derivare al paziente. la carenza di continuità informativa può a sua volta causare la proliferazione di accertamenti diagnostici con moltiplicazioni dei percorsi del paziente; una scarsa chiarezza sulla stadiazione e progressione di malattia; la sopradescritta riduzione della compliance relativa all’ottimizzazione e necessaria cronicità dei regimi terapeutici; in definitiva la riduzione di efficacia del follow-up stesso. complessità assistenziali e risposte possibili la risposta a ostacoli e complessità non è semplice da trovare. anche la costruzione, pur necessaria, a partire da identificazione di linee guida condivise, di modelli organizzativi, percorsi diagnostico-terapeutici e progetti di gestione integrata della patologia cardiovascolare cronica, potrebbe non essere sufficiente a realizzare l’obiettivo che in definitiva possiamo chiamare “continuità assistenziale”. la chiarezza e sinteticità negli scambi informativi, la responsabilità diretta nei rispettivi ambiti (senza prescrizioni indotte), norme comuni di riferimento (note aifa, piani terapeutici, ecc.), percorsi preordinati per situazioni urgenti o complicanze, supporto infermieristico ospedaliero e territoriale (case e care management) ben definiti e inseriti nel percorso insieme a valutazioni di qualità di percorsi e livelli assistenziali possono costituire un notevole passo avanti nella giusta direzione, ma, purtroppo, non essere sufficienti. questo perché la realtà assistenziale è più complessa: non solo mmg, non solo uno specialista, ma spesso: ricoveri in reparti vari; y ricorso a continuità assistenziale; y ricorso a più mmg nell’ambito di forme y associative; accessi di pronto soccorso per la patologia y cronica o per patologie associate; figura 2 nodi della rete e interrelazioni assistenziali nel cardiopatico cronico mmg (di solito più di uno) specialista cardiologo (di solito più di uno) altri specialisti volontariato infermiere ospedaliero infermiere territoriale pronto soccorso adi/adp/ cure intermedie continuità assistenziale familiari nurse professionali e non clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 176 il follow-up nel paziente con cardiopatia ischemica, momento essenziale nella comunicazione ospedale territorio assistenza domiciliare e residenziale con fiy gure infermieristiche e mediche diverse; visite specialistiche per diverse branche; y visite libero-professionali; y lo specialista cardiologo, anche dello stesy so centro, è spesso diverso e con diversa impostazione; cambio medico curante; y ecc. y la figura 2 schematizza la possibile complessità dei percorsi assistenziali. in uno scenario di questo tipo l’elemento da potenziare è la continuità assistenziale nelle sue diverse componenti. possiamo, infatti, identificare tre tipi di continuità [20] che dovrebbero coesistere per offrire un’assistenza qualificata: continuità di informazione y : riguarda l’uso di informazione degli eventi passati e delle circostanze personali per effettuare un piano di cura appropriato a ogni individuo; continuità di gestione y : consiste in un approccio unitario e coerente nella gestione della condizione di salute in risposta ai bisogni del paziente; continuità di relazione y : è una relazione terapeutica continua tra il paziente e uno o più fornitori di cura. la continuità informativa e gestionale richiede l’uso di strumenti informativi che consentano di avere le informazioni relative al paziente e alla sua storia sanitaria, a disposizione, al momento giusto, nei molti percorsi e nelle tante interazioni possibili. questo è possibile con la realizzazione di un sistema informativo, realizzato prioritariamente per gli usi clinici, oltre che amministrativo-contabile e gestionale, centrato sul cittadino e basato sull’applicazione dell’information and comunication technology (ict) (figura 3). i punti di forza dell’ict sono quelli dell’integrazione/interazione con il collegamento di tre mondi attualmente separati: la comunità (il luogo di vita); y le cure primarie; y l’ospedale. y la continuità della presa in carico e la notifica dei contatti con gli altri professionisti sono elementi essenziali per ridurre l’effetto della frammentazione dell’azione assistenziale e sincronizzare le attività dei diversi operatori che agiscono sul singolo paziente. il fascicolo sanitario elettronico può essere lo strumento in grado di favorire la collaborazione tra figure professionali che devono prendere atto reciprocamente delle attività in corso in ambiti diversi per giungere a una visione che guarda agli aspetti di sincronizzazione delle attività per un insieme di prese in carico, anche parziali e contemporanee. è chiaro che un cambiamento volto alla rimozione degli ostacoli sopradescritti non può riguardare solo la libera iniziativa e organizzazione da parte del mmg o dello specialista, ma deve far parte di una riorganizzazione complessiva del modello assistenziale e del ruolo richiesto al mmg nella assistenza a pazienti affetti da patologie croniche. il cittadino e ict 118 mmg continuità assistenzialepronto soccorso reparto ospedalieroservizi diagnostici distretto ambulatorio specialistico figura 3 il cittadino al centro del sistema ict (information and comunication technology) clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 177 i. paolini modello che maggiormente si avvicina a queste esigenze è il chronic care model [21] di wagner in cui, in estrema sintesi, il percorso di trattamento integrato di specifiche patologie croniche è basato su: lo y sviluppo delle policy e delle risorse di comunità, ricercando contatto con il sociale e il no profit al fine di attuare programmi di sostegno e self management; l’ y organizzazione sanitaria, creando un sistema di trattamento integrato delle patologie croniche; il y supporto all’autogestione, dove il paziente diventa il vero protagonista dei processi assistenziali; il y disegno del sistema d’offerta in cui gli operatori di assistenza, medici e non dovrebbero rifocalizzare le proprie modalità di intervento e di interazione interprofessionale in un team adeguatamente organizzato; il y supporto alle decisioni, con l’adozione di linee guida basate sull’evidenza; i y sistemi informativi clinici, incrementando l’utilizzo di sistemi computerizzati e favorendo la creazione di registri di patologia. euroaction [22] è un trial controllato, che ha coinvolto otto paesi europei; sei paia di ospedali e sei paia di medicine generali assegnate a un programma di intervento o alla cura standard per seguire i pazienti con chd o quelli ad alto rischio di sviluppare malattie cardiovascolari. l’endpoint primario, misurato a un anno, era il cambiamento dello stile di vita familiare, la gestione della pressione arteriosa, dei lipidi e del glucosio alle concentrazioni target, e la prescrizione di farmaci cardioprotettivi. nel gruppo sottoposto a intervento int sono stati osservati: ridotto consumo di acidi grassi saturi; y aumentato consumo di frutta, verdura e y oli di pesce (i soggetti ad alto rischio e i loro congiunti hanno modificato solo il consumo di frutta e verdura); riduzione della pressione arteriosa al tary get (140/90 mm hg) sia nei pazienti con chd che nei soggetti ar; differenza % a un anno rispetto al basale y nei livelli di colesterolo totale maggiore che nel gruppo uc (i pazienti con chd e quelli ar hanno entrambi raggiunto il target di 5 mmol/l) maggiori prescrizioni di ace-inibitori e y statine nel setting ambulatoriale. i risultati dello studio hanno dimostrato come un intervento multidisciplinare mirato alla riduzione dei fattori di rischio modificabili e aderenza e persistenza ai i trattamenti farmacologici, possa migliorare lo stile di vita e i fattori di rischio metabolici per le malattie cardiovascolari. conclusioni il problema del follow-up del paziente affetto da cardiopatia ischemica è complesso ed evidenzia la sostanziale inadeguatezza dell’attuale organizzazione nel far fronte alle esigenze insite nella gestione delle patologie croniche, cardiovascolari e non. da qui l’importanza di sviluppare modelli assistenziali diversi basati su registri di patologia, continuità informativa e gestionale, sviluppo di percorsi diagnostico-terapeutici con la condivisione di linee guida di riferimento, e valutazione di qualità dei percorsi stessi. la valutazione di qualità e l’audit sono strumenti fondamentali che richiedono, per essere efficaci, la realizzazione della continuità informativa. il panorama attuale vede i singoli livelli (ospedale, cure primarie, assistenza domiciliare) impegnati nella valutazione autonoma dei propri livelli di intervento (con applicazione di indicatori specifici), ma la qualità complessiva e il risultato in termini di salute per il cittadino necessitano di una valutazione globale. il lavoro di un unità coronarica ai massimi livelli qualitativi può essere inficiato, in termini di risultato complessivo sulla salute del paziente, da un invio tardivo da parte del medico di medicina generale; da ritardi legati a disorganizzazione del sistema dell’emergenza (118-pronto soccorso); dalla mancata educazione del paziente ad alto rischio sui sintomi in base ai quali chiamare tempestivamente i soccorsi. un intervento ottimale con ricovero tempestivo, angioplastica ben riuscita e politerapia farmacologica completa, possono essere vanificati da una miriade di fattori legati al paziente e ai successivi percorsi di assistenza. il punto di arrivo deve quindi essere la misurazione di indicatori centrati sul paziente e sul risultato complessivo in termini di salute, mediante la costruzione di registri di patologia e la realizzazione di sistemi informativi correttamente modellati. clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 178 il follow-up nel paziente con cardiopatia ischemica, momento essenziale nella comunicazione ospedale territorio bibliografia 1. scottish intercollegiate guidelines network. acute coronary syndromes. a national clinical guideline. nsh, february 2007 2. scottish intercollegiate guidelines network. management of stable angina. a national clinical guideline. nsh, february 2007 3. smith sc jr, allen j, blair sn, bonow ro, brass lm, fonarow gc et al. aha/acc guidelines for secondary prevention for patients with coronary and other atherosclerotic vascular disease: 2006 update: endorsed by the national heart, lung, and blood institute. circulation 2006; 113: 2363-72 4. anderson jl, adams cd, antman em, bridges cr, califf rm, casey de jr et al. acc/aha 2007 guidelines for the management of patients with unstable angina/non st-elevation myocardial infarction: a report of the american college of cardiology/american heart association task force on practice guidelines (writing committee to revise the 2002 guidelines for the management of patients with unstable angina/non st-elevation myocardial infarction): developed in collaboration with the american college of emergency physicians, the society for cardiovascular angiography and interventions, and the society of thoracic surgeons: endorsed by the american association of cardiovascular and pulmonary rehabilitation and the society for academic emergency medicine. circulation 2007; 116: e148-304 5. antman em, anbe dt, armstrong pw, bates er, green la, hand m et al. acc/aha guidelines for the management of patients with st-elevation myocardial infarction--executive summary. a report of the american college of cardiology/american heart association task force on practice guidelines (writing committee to revise the 1999 guidelines for the management of patients with acute myocardial infarction). j am coll cardiol 2004; 44: 671719 6. daugherty sl, ho pm, spertus ja, jones pg, bach 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represent a negative prognostic factor for patients suffering from acute and chronic diseases, including cancer. in oncological patients, early diagnosis of cachexia and timely nutritional intervention have been demonstrated not only to prevent further deterioration of nutritional status, but also to increase quality of life and survival when integrated in a multiprofessional and multidisciplinary approach. however, nutritional therapy is associated to the possible development of complications, which may be fatal. therefore, nutritional therapy in severely malnourished patients should be cautiously prescribed by experts in the field, who should develop a monitoring program to early detect complications and to maximise the clinical efficacy. here we describe a cancer patient affected by refeeding syndrome, who was fortunately early diagnosed and properly treated. keywords: malnutrition; cachexia; enteral nutrition; refeeding syndrome malnutrition, cachexia and nutritional intervention: when much becomes too much cmi 2013; 7(2): 63-69 caso clinico corresponding author prof. alessandro laviano alessandro.laviano@uniroma1.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. perché descriviamo questo caso la malnutrizione è una condizione clinica molto frequente anche se spesso non rilevata, nonostante rappresenti un fattore prognostico negativo, sia in termini di aumentata morbilità e mortalità, sia di aumentati costi per la collettività. la malnutrizione è una malattia nella malattia che, come tutte le patologie, è non solo diagnosticabile, ma anche prevenibile/trattabile. tuttavia, la gestione del paziente gravemente malnutrito può facilmente esporre alla comparsa di complicanze, potenzialmente anche letali, legate a un inappropriato intervento nutrizionale introduzione la nutrizione artificiale è un atto medico con il quale è possibile soddisfare i fabbisogni nutrizionali di pazienti non in grado di alimentarsi per la via naturale, e quindi a rischio di malnutrizione soprattutto in presenza di ipercatabolismo [1]. molti sono gli stati morbosi associati a un deficit nutrizionale. tra questi, la malattia neoplastica è forse la condizione clinica dove il deterioramento dello stato nutrizionale ha un’influenza estremamente negativa sulla prognosi del paziente in termini di risposta al trattamento (come ad esempio chirurgia, radio-chemioterapia), qualità di vita e sopravvivenza [2]. la riduzione dell’intake calorico e la perdita di peso corporeo sono una costante nel paziente neoplastico, con un’incidenza variabile in relazione al tipo e alla sede del tumore. in particolare, i soggetti con neoplasia testa-collo e del tratto gastroenterico presentano generalmente un calo ponderale più accentuato [3]. un’accurata valutazione dello stato nutrizionale, alla diagnosi e durante ogni fase della malattia, permette di individuare precocemente il soggetto malnutrito o a rischio di sviluppare malnutrizione e di definire per esso la più adeguata terapia nutrizionale, con effetto positivo sulla prognosi clinica. descriviamo il caso di una paziente sottoposta a gastrectomia totale per adenocarcinoma gastrico, nella quale la corretta gestione dei protocolli nutrizionali ha permesso di recuperare un adeguato peso corporeo e un buon assetto metabolico. caso clinico una paziente di 56 anni è giunta alla nostra osservazione per la presenza di anoressia e calo ponderale (circa 6 kg), comparsi successivamente a intervento di gastrectomia totale per adenocarcinoma gastrico eseguito 2 mesi prima. domande da porsi quali parametri ci consentono di porre diagnosi di malnutrizione? come scegliere il protocollo più adeguato di intervento nutrizionale? come valutare il rischio correlato all’intervento nutrizionale? come predisporre un piano di monitoraggio per la precoce diagnosi di complicanze legate alla terapia nutrizionale? alla prima visita specialistica eseguita presso il nostro centro in data 13 luglio 2012, le misure antropometriche mostravano peso di 39 kg, altezza di 148 cm (indice di massa corporea = 17,8). gli esami ematochimici mostravano linfopenia (1.100/mm3), anemia macrocitica (hb = 9,8 g%, mcv = 109), ipoalbuminemia (29 g/l) e un aumento degli indici infiammatori (ves, pcr). veniva anche valutata la forza muscolare, con metodica dinamometrica (handgrip test) che evidenziava forza di contrazione del pugno equivalente a circa 13 kg. i dati così raccolti (calo ponderale involontario, disprotidemia, riduzione dell’appetito, aumento degli indici infiammatori) permettevano la diagnosi di cachessia neoplastica. veniva pertanto stimato il fabbisogno calorico (25 kcal/kgbw/die) e proteico (1,5 gaa/kgbw/die) a regime, da raggiungere progressivamente in un periodo di circa 10 giorni, allo scopo di minimizzare il rischio di comparsa di sindrome da rialimentazione. in considerazione della anoressia riferita dalla paziente, che limitava la sua assunzione calorica spontanea a circa il 50% dei fabbisogni stimati (come accertato attraverso analisi del diario alimentare), si propendeva per l’instaurazione di nutrizione enterale. l’obiettivo era quello di compensare durante la notte la quantità di calorie e proteine che la paziente non era in grado di assumere autonomamente. per tale motivo veniva posizionato sondino naso-intestinale del diametro di 8 french (circa 2,5 mm) e iniziata, in data 18 luglio 2012, nutrizione enterale notturna con dieta polimerica standard. in conseguenza dell’alto rischio di sindrome da rialimentazione presentato della paziente, si richiedeva un controllo degli elettroliti plasmatici (es. potassio, magnesio e fosforo) ogni 72 ore. la paziente iniziava la nutrizione enterale notturna con incrementi progressivi dell’apporto calorico e proteico, senza manifestare una sintomatologia gastroenterologica (diarrea, nausea, vomito). tuttavia, si osservava sin dal primo controllo ematochimico una riduzione dei livelli circolanti di potassio e fosforo, confermato al successivo controllo dopo ulteriori 72 ore, seppur limitato al raggiungimento dei limiti inferiori di normalità per tali elettroliti. nel fondato sospetto di incipiente sindrome da rialimentazione, veniva eseguito elettrocardiogramma d’urgenza che non evidenziava alterazioni del ritmo, della morfologia dei complessi qrs e della fase di ripolarizzazione. veniva comunque dimezzata la velocità di infusione della nutrizione enterale e in data 27 luglio 2012 si avviava la paziente al più vicino pronto soccorso. all’ingresso in pronto soccorso, si evidenziava potassiemia 3,4 meq/l (valori normali: 3,5-5,0), magnesemia 1,9 meq/l (valori normali: 1,8-3,0), fosforemia 2,3 mg/dl (valori normali: 2,5-4,5). veniva pertanto iniziata una correzione per via endovenosa degli elettroliti con ripristino dei normali valori nelle successive 24 ore. persistendo l’assenza di manifestazioni elettrocardiografiche, essendosi stabilizzato il profilo degli elettroliti circolanti ed essendo la nutrizione entrale tollerata bene (mantenuta a metà della velocità di infusione prevista a regime), la paziente veniva dimessa dopo 48 ore di ricovero. rientrata a domicilio, la paziente veniva sottoposta a una nuova rivalutazione nutrizionale in data 11 agosto 2012, dopo circa 10 giorni di nutrizione enterale. i dati raccolti evidenziavano un peso corporeo di 41 kg, linfocitemia 1.100/mm3 e forza muscolare di 18 kg. non veniva dato troppo rilievo all’aumento ponderale, in quanto probabilmente frutto di un aumento della presenza di liquidi dei tessuti. tuttavia, il miglioramento della funzione muscolare e il riferito miglioramento dello stato generale permetteva di considerare efficace il periodo di nutrizione enterale, ed essendosi ridotta la anoressia e sensazione di sazietà precoce, si decideva di sospendere la nutrizione enterale e sostituirla con integrazione della dieta con supplementi orali nutrizionali. in particolare, per il riscontro anamnestico di elevati indici infiammatori, si inserivano nella dieta (che veniva elaborata sulla base delle preferenze e abitudini della paziente) supplementi orali nutrizionali arricchiti in acidi grassi omega-3 [4]. dopo 30 giorni dall’inizio del trattamento dietetico integrato dalla presenza di supplementi orali nutrizionali arricchiti in acidi grassi omega-3, la paziente veniva rivalutata e veniva messo in evidenza il progressivo recupero del peso corporeo fino al raggiungimento di 42 kg (imc = 19,1) e un miglioramento del quadro metabolico e funzionale, con riduzione, ma non normalizzazione, degli indici infiammatori. è stata quindi modificata la dieta, erogando un piano dietetico da 1.200 kcal con pasti frazionati e senza l’integrazione con supplementi, che la paziente sta attualmente seguendo, con giovamento clinico. discussione la cachessia rappresenta quella forma di malnutrizione a insorgenza in genere lenta e progressiva che risulta non solo da una riduzione dell’apporto calorico e proteico (da riduzione dell’appetito, da ostruzione meccanica, da riduzione delle capacità di digestione e assorbimento del tratto gastroenterico), ma anche dal sovvertimento del metabolismo dell’ospite indotto dalla malattia sottostante. in tal modo, il depauperamento nutrizionale non solo è più rapido perché l’organismo non è più in grado di porre in atto meccanismi di compenso per la riduzione dell’assunzione di cibo (quali riduzione del metabolismo basale, perdita preferenziale di massa grassa per preservare la massa muscolare, ecc.), ma anche l’intervento nutrizionale deve essere in grado di contrastare le alterazioni metaboliche che rendono non completamente efficace la terapia nutrizionale standard (utilizzo di nutrienti ad azione farmacologica per minimizzare la risposta infiammatoria indotta dalla malattia sottostante). la comparsa di malnutrizione nel paziente neoplastico, o più precisamente di cachessia, è un evento in grado di influenzare negativamente la prognosi clinica, determinando un aumento della morbilità e mortalità e un peggioramento della qualità di vita, già compromessa dalla stessa diagnosi di malattia e dalle terapie necessarie a curarla [2]. le cause del deterioramento dello stato nutrizionale sono molteplici e meritano di essere comprese al fine di sensibilizzare gli operatori sanitari sull’importanza dell’aspetto nutrizionale nel percorso di cura. il caso clinico in esame descrive una paziente con tumore del tratto gastroenterico già candidata a sviluppare malnutrizione soltanto per le caratteristiche della sua patologia e dell’intervento subito. nonostante questo, la paziente si è rivolta al nostro ambulatorio solo 2 mesi dopo la dimissione dal reparto di chirurgia, a dimostrazione di una mancata valutazione, da parte dei medici di reparto e del medico medicina generale che ha preso in carico la paziente dopo la dimissione, del rischio nutrizionale posto dalla malattia di base e dal trattamento seguito. i pazienti neoplastici sono ad elevato rischio di malnutrizione, spesso aggravato dal tipo di terapia antineoplastica ricevuta (es., chirurgia, chemioterapia, radioterapia) e dovrebbero essere sottoposti a regolari controlli nutrizionali, in grado di accertare la presenza di precoci segni di malnutrizione. nel caso descritto, la continuità di cura è stata negata alla paziente esponendola a rilevanti rischi clinici. in effetti, la malattia neoplastica determina una risposta infiammatoria nell’ospite in grado di modificare il metabolismo intermedio [5]. è noto, infatti, che il paziente oncologico sviluppa spesso intolleranza ai carboidrati, aumento della lipolisi nonché della proteolisi muscolare, quest’ultima non compensata da un corrispondente aumento della protidosintesi muscolare. la conseguenza è un progressivo deterioramento della massa grassa e della massa muscolare, indipendentemente dall’assunzione di cibo, anch’essa spesso limitata dalla comparsa di appetito ridotto (anoressia). è questa la principale caratteristica che differenzia la malnutrizione da semplice ed esclusivo digiuno, durante la quale meccanismi di difesa del peso corporeo e soprattutto della massa muscolare vengono attivati, e la cachessia da malattia oncologica (ma anche da insufficienza renale cronica, epatopatia cronica, broncopneumopatia cronico-ostruttiva, ecc.), che rappresenta l’espressione fenotipica della mortale combinazione di ridotto apporto calorico e modificazioni del metabolismo. nel paziente oncologico, inoltre, la perdita di peso può derivare anche dagli effetti indotti dalla terapia antitumorale ricevuta [6]. è noto, infatti, che la chirurgia oncologica, soprattutto se a carico del tratto gastrointestinale, può determinare maldigestione e/o malassorbimento. nel nostro caso, la paziente aveva subìto una gastrectomia totale: considerando il ruolo dello stomaco nella generazione dei segnali di sazietà e di fame, e nel processo di digestione, è facile immaginare gli effetti della resezione chirurgica sul comportamento alimentare e sullo stato di nutrizione. in effetti, il paziente gastroresecato difficilmente recupera il peso originario, che si stabilizza in genere su un 5-10% in meno. nel caso descritto, la raccolta dei dati anamnestici e antropometrici già permetteva di evidenziare lo stato morboso. la perdita di peso corporeo, infatti, è un valido indicatore di malnutrizione, in quanto si accetta come significativo un calo ponderale involontario > 10% del peso abituale negli ultimi 6 mesi o > 5% nell’ultimo mese, come anche importante è il rilevamento dell’anoressia, spesso già significativa alla diagnosi [7]. l’indice di massa corporea (se < 18,5, malnutrizione) è nel nostro caso utile poiché unito ad altre informazioni: il singolo dato, infatti, non è valido in condizioni come la magrezza costituzionale o nei pazienti obesi che, pur dimagriti, rimangono in sovrappeso (indice di massa corporea > 25) [1]. gli esami di laboratorio risultano utili per valutare l’entità dello stato di malnutrizione e per svelare stati morbosi ancora clinicamente silenti. l’ipoalbuminemia si associa a una prognosi negativa [8] e la sua lunga emivita (20 giorni) riflette stati carenziali prolungati, mentre è poco utile come marker di stato nutrizionale nelle patologie acute, essendo i suoi livelli molto influenzati dallo stato infiammatorio. un semplice emocromo assume importanza sia per l’interazione tra malnutrizione e anemia sia per l’alterazione della risposta immunitaria, soprattutto cellulare, che espone i soggetti malnutriti anche a un rischio infettivo maggiore. anche i parametri sierici devono tuttavia essere considerati non specifici dello stato di nutrizione, poiché influenzabili da altri stati morbosi concomitanti (es. tossicità midollare, epatopatie, ecc.). l’intervento nutrizionale ha avuto inizialmente l’obiettivo di mantenere la fisiologica alimentazione e integrarla per raggiungere i fabbisogni quotidiani. perciò è stato scelto di integrare la dieta con la nutrizione enterale, che veniva infusa durante le ore notturne per ridurre il disagio alla paziente. tuttavia, lo stato nutrizionale della paziente gravemente defedato, nonché il riscontro di limitata assunzione calorica per molte settimane facevano stimare in molto alto il rischio di sviluppare una grave complicanza della nutrizione artificiale, la sindrome da rialimentazione [9]. la sindrome da rialimentazione è una grave complicanza della nutrizione artificiale, potenzialmente letale. si instaura preferibilmente in pazienti in cui la malnutrizione è data da molto tempo o in cui il calo ponderale è particolarmente grave. per tale motivo, il metabolismo di questi pazienti si è adattato all’utilizzo degli acidi grassi e dei corpi chetonici. una rialimentazione troppo “aggressiva” (per esempio troppe calorie, soprattutto da carboidrati, infuse in breve tempo) determina un deficit di potassio, magnesio e fosforo, nonché di alcune vitamine idrosolubili con conseguenze cardiopolmonari e neurologiche. nel paziente a rischio, la rialimentazione deve avvenire gradatamente e deve essere predisposto un piano di monitoraggio per evidenziare segni precoci di sindrome di rialimentazione. in tal senso, la gestione del paziente gravemente malnutrito dovrebbe essere appannaggio di specialisti con specifiche competenze in nutrizione clinica. nel caso descritto, le condizioni cliniche della paziente evidenziavano ampiamente un elevato rischio di sindrome di rialimentazione. tale rischio è stato da noi considerato, e infatti la paziente è stata sottoposta a controlli ematochimici ravvicinati, che hanno consentito di evidenziare precoci segnali di allarme che sono stati subito trattati efficacemente. si ritiene pertanto opportuno ribadire che pur in presenza di ottimale conduzione della nutrizione enterale, è necessario sempre predisporre un accurato piano di monitoraggio clinico e ematochimico, soprattutto nei pazienti a rischio. anche se comunemente si ritiene che la nutrizione parenterale esponga a maggiori rischi di sindrome da rialimentazione, in realtà molti più casi si registrano durante nutrizione enterale, forse per un eccesso di confidenza verso quest’ultima tecnica. per tale motivo, nel caso descritto, si programmava un progressivo e lento raggiungimento dei fabbisogni giornalieri. in considerazione del ruolo che gli squilibri elettrolitici hanno nella patogenesi della sindrome da rialimentazione, si predisponeva inoltre un programma di monitoraggio attento e ravvicinato degli stessi che, in effetti, permetteva di identificare precocemente i segni di incipiente sindrome. per tale motivo, la paziente è stata precocemente trattata e non ha mai raggiunto un grado di criticità clinica tale da far temere per la sua sopravvivenza. tuttavia, questo caso dimostra ancora una volta come la malnutrizione si debba trattare lentamente. inoltre, dimostra come l’erogazione della nutrizione artificiale, sia essa enterale o parenterale, necessiti di specifiche competenze, che risultano assolutamente obbligatorie durante il trattamento nutrizionale di pazienti gravemente malnutriti. superata la fase della nutrizione enterale, la paziente si è notevolmente giovata di una dieta integrata con supplementi orali nutrizionali arricchiti con acidi grassi omega-3, elaborata tenendo in considerazione le preferenze e le abitudini della paziente stessa (counselling nutrizionale). gli acidi grassi omega-3 sono acidi grassi polinsaturi con il primo doppio legame situato sul terzo atomo di carbonio a partire dal c-terminale. come gli acidi grassi polinsaturi della classe omega-6, sono il substrato degli enzimi ciclo-ossigenasi e lipo-ossigenasi, che li trasformano in leucotrieni e trombossani, mediatori della risposta infiammatoria. tuttavia, i leucotrieni e i trombossani che derivano dagli acidi grassi omega-3 hanno attività pro-algogena ridotta rispetto a quelli che derivano dagli acidi grassi omega-6. di conseguenza, una dieta ricca in fonti naturali di acidi grassi omega-3 quali il pesce, o integrata con supplementi arricchiti in acidi grassi omega-3, determina un riduzione della risposta infiammatoria, e dunque contribuisce a migliorare il milieu metabolico. il ruolo degli acidi grassi omega-3 in campo oncologico è oggi rafforzato da molti studi clinici. a partire dallo studio di fearon et al. [10], che dimostrava un miglioramento della massa muscolare direttamente dipendente dalla dose di supplemento assunta, si sono succedute numerose pubblicazioni che hanno testato l’efficacia clinica in diverse condizioni. in particolare, si è passati da studi condotti in pazienti con neoplasia avanzata e in fase palliativa, a studi in pazienti durante trattamento attivo della neoplasia tramite chemioterapia [11]. i risultati ottenuti sono stati positivi e dimostrano un miglioramento della funzione muscolare [11] e della risposta alla chemioterapia [12]. tuttavia, nonostante questi risultati positivi [13], la limitata numerosità campionaria degli studi pubblicati sul ruolo degli acidi grassi omega-3 in oncologia non consente ancora di trarre delle forti raccomandazioni cliniche [14]. i supplementi orali nutrizionali sono alimenti destinati a fini medici speciali in grado di rispondere alle richieste nutrizionali dei pazienti in modo semplice e non invasivo. sono noti diversi studi che dimostrano l’efficacia di questi supplementi sul controllo della perdita di peso corporeo, tuttavia la ridotta compliance da parte dei pazienti può risultare un limite (per una ampia revisione della letteratura, si rimanda al dossier espen [15]). nel nostro caso, invece la comprensione da parte della paziente del ruolo del supplemento e soprattutto della composizione arricchita in acidi grassi omega-3 ha permesso di ottenere una buona aderenza al trattamento, che si è tradotto in un buon successo clinico, testimoniato dal miglioramento dello stato nutrizionale e della funzione muscolare. la terapia nutrizionale sta progressivamente divenendo un importante presidio per migliorare l’efficacia clinica della terapia farmacologica e chirurgica, in diversi setting clinici. è pertanto opportuno che tutti i medici sappiano riconoscere precocemente la comparsa di malnutrizione, e che dunque implementino strategie di monitoraggio del peso corporeo nei pazienti ospedalizzati, in quelli ricoverati in comunità e in quelli residenti sul territorio. il trattamento/prevenzione della malnutrizione inizia sempre con una modificazione della dieta per soddisfare le esigenze e le abitudini, talvolta mutate, del paziente. a tal fine l’utilizzo di supplementi orali nutrizionali, se resi necessari dalle condizioni del paziente, contribuisce a raggiungere i fabbisogni giornalieri. ove necessario, la terapia nutrizionale si basa sull’utilizzo di tecniche più invasive come la nutrizione enterale e quella parenterale, che però rispondono a specifiche necessità del paziente. come tutte le terapie, anche la nutrizione artificiale può esporre a rischi, potenzialmente letali. questi vanno dalle complicanze gastroenterologiche (es. nausea, vomito, diarrea, ecc.), di solito appannaggio della nutrizione enterale, alle complicanze metaboliche e settiche, alcune delle quali anche letali. ne deriva che la nutrizione artificiale deve essere prescritta, erogata e monitorata da team multidisciplinari esperti, che includano medici, dietisti, infermieri e farmacisti, allo scopo di minimizzare i rischi e massimizzare i risultati clinici. algoritmo diagnostico terapeutico della malnutrizione linee guida della european society for clinical nutrition and metabolism (espen) [disponibili su www.espen.org] ons = supplemento orale nutrizionale bibliografia linee guida sinpe per la nutrizione artificiale ospedaliera 2002. rivista italiana di nutrizione parenterale ed enterale 2002; 20: s5-s8 laviano a, meguid mm, inui a, et al. therapy insight: cancer anorexia-cachexia syndrome – when all you can eat is yourself. nat clin pract oncol 2005; 2: 158-65. http://dx.doi.org/10.1038/ncponc0112 dewys wd, begg c, lavin pt, et al. prognostic effect of weight loss prior to chemotherapy in cancer patients. eastern cooperative oncology group. am j med 1980; 69: 491-7. http://dx.doi.org/10.1016/s0149-2918(05)80001-3 laviano a, rianda s, molfino a, et al. omega-3 fatty acids in cancer. curr opin clin nutr metab care 2013; 16: 156-61. http://dx.doi.org/10.1097/mco.0b013e32835d2d99 laviano a, inui a, marks dl, et al. am j physiol endocrinol metab 2008; 295: e1000-8. http://dx.doi.org/10.1152/ajpendo.90252.2008 cleeland cs, allen jd, roberts sa, et al. reducing the toxicity of cancer therapy: recognizing needs, taking action. nat rev clin oncol 2012; 9: 471-8. http://dx.doi.org/10.1038/nrclinonc.2012.99 fearon k, strasser f, anker sd, et al. definition and classification of cancer cachexia: an international consensus. lancet oncol 2011; 12: 489-95. http://dx.doi.org/10.1016/s1470-2045(10)70218-7 goldwasser p, feldman j. association of serum albumin and mortality risk. j clin epidemiol 1997; 50: 693-703. http://dx.doi.org/10.1016/s0895-4356(97)00015-2 stanga z, sobotka l. refeeding syndrome. in: sobotka l, allison s, forbes a, et al (eds.). basics in clinical nutrition. 4th edition. prague: publishing house galen, 2011; pp. 427-432 fearon kc, von meyenfeldt mf, moses ag, et al. effect of a 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challenge for physicians. the diagnostic workup of patients with cup includes a large amount of histopathological examination, as well as the use of imaging techniques that often fail to identify the primary tumour. therefore, the optimal workup and treatment for these patients remains to be determined. molecular diagnostic tools, such as dna microarray analysis, could help in the search for “lost” cup origin and guide the further treatment approach. we report the case of a 66-year-old man, with mediastinal lymph nodes metastasis of carcinoma and neurological syndrome with diplopia and balance disorders, in which many exams have been performed without finding the primary tumour. keywords: cancer of unknown primary; immunohistochemistry; therapeutic management cancer of unknown primary origin: a case report cmi 2013; 7(1): 27-34 caso clinico corresponding author gianpiero fasola fasola.gianpiero@aoud.sanita.fvg.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo perché descriviamo questo caso si tratta di una delle situazioni più difficili dell’oncologia medica in cui spesso si scontrano la necessità/desiderio del clinico di iniziare un trattamento antitumorale, di fronte a una malattia aggressiva e al rapido decadimento delle condizioni generali del paziente, e l’assenza di una diagnosi di primitività che consenta di scegliere la terapia più adatta. la ricerca della sede primitiva induce spesso il clinico a prescrivere una lunga serie di indagini che nella maggior parte dei casi si riveleranno futili caso clinico un uomo di 66 anni, nel marzo 2012, iniziava a manifestare diplopia e disturbi dell’equilibrio, accompagnati da astenia e lieve calo ponderale nei tre mesi precedenti. una risonanza magnetica dell’encefalo evidenziava una lesione parenchimale a livello dell’ippocampo sinistro, suggestiva per lesione espansiva gliale di basso grado. l’iniziale indicazione a un intervento neurochirurgico veniva poi sospesa a seguito della comparsa di una sintomatologia cerebellare, caratterizzata da marcia precauzionale con base d’appoggio nettamente allargata, instabilità posturale e freinage a destra, delineando un quadro clinico che contrastava con l’ipotesi diagnostica iniziale. il paziente veniva quindi ricoverato presso il dipartimento di neurologia per ulteriori approfondimenti. dai primi accertamenti eseguiti, si evidenziava una positività per anticorpi anti-ma2/ta dopo dosaggio degli anticorpi anti-antigeni neuronali; risultavano invece negativi le ricerche degli anticorpi anti-epatite b, anti-borrelia, anti-tbe virus e antigangliosidi. il liquor prelevato in corso di rachicentesi si presentava limpido, incolore, con elevato contenuto proteico e rari linfociti; risultava inoltre negativa la ricerca dei principali marker virali e per borrelia. anche gli esami microbiologici davano esito negativo. la tipizzazione linfocitaria del centrifugato del liquor non evidenziava alcuna monoclonalità, ma solo alcuni linfociti sia b sia t policlonali. la tomografia computerizzata (tc) del torace e dell’addome mostrava la presenza di tumefazioni linfonodali a livello del mediastino, del tripode celiaco e minute formazioni pleuriche poco significative. venivano quindi eseguiti il dosaggio dei principali marcatori tumorali (cea – carcino-embryonic antigen, ca19.9, cga – chromogranin a, nse – neuron specific enolase, ldh – lattato deidrogenasi, βhcg – β-gonadotropina corionica umana, αfp – αfetoproteina, psa – prostate-specific antigen) e l’ecografia testicolare, che risultavano negativi. una tomografia a emissione di positroni (pet/tc) documentava la presenza di un linfonodo mediastinico, a livello sottocarenale, possibile sede di patologia metabolicamente attiva non ulteriormente classificabile, e una captazione a livello intestinale e un’ulteriore captazione a livello tiroideo, entrambe meritevoli di correlazioni clinico-strumentali. sulla base delle risultanze pet, il paziente veniva sottoposto a broncoscopia con biopsia trans-bronchiale su conglomerato linfonodale in sede sottocarenale: l’esame istologico risultava suggestivo per la presenza di una “neoplasia maligna preferenzialmente di origine epiteliale, possibile carcinoma scarsamente differenziato con focali aspetti pleomorfi”. il successivo approfondimento immunoistochimico (positività a pancheratina e vimentina, negatività a s-100 e cd45) confermava l’orientamento diagnostico. è domande che il medico dovrebbe porsi di fronte a casi come questo quali accertamenti clinico-strumentali dovrebbero essere fatti in questi casi? qualora tali indagini dovessero risultare inconcludenti, che cosa bisognerebbe fare o evitare? su quali presupposti dovrebbe essere impostato un eventuale programma terapeutico? stato eseguito anche un agoaspirato a livello tiroideo che risultava compatibile con struma nodulare a cellule ossifile. sulla base dei risultati degli esami clinici e delle indagini immunoistochimiche, veniva quindi posta diagnosi di carcinoma a origine primitiva non determinata ed encefalite limbica paraneoplastica. tenuto conto del miglioramento delle condizioni cliniche, dopo l’avvio di terapia steroidea, il paziente veniva trasferito presso il dipartimento di oncologia per iniziare un trattamento antiblastico di prima linea con carboplatino e paclitaxel nel luglio 2012. la rivalutazione tc dopo il secondo ciclo mostrava un quadro di stabilità radiologica, con conseguente prosieguo del programma terapeutico per altri due cicli. la rivalutazione dopo il quarto ciclo confermava una stabilità radiologica, ma nel frattempo erano comparsi un lieve peggioramento dell’equilibrio e del visus. a seguito di una discussione multidisciplinare, il trattamento chemioterapico veniva sospeso. inoltre si decideva di sottoporre il paziente a una colonscopia (in considerazione anche dell’ipercaptazione intestinale, evidenziata dalla precedente tc-pet) e a una nuova biopsia transbronchiale, per acquisire materiale per ulteriori indagini istologiche e immunoistochimiche. la colonscopia risultava negativa, evidenziando solo un quadro di marcato edema e congestione vascolare. il profilo immunofenotipico del secondo campionamento bioptico, eseguito con trans-bronchial needle aspiration (tbna) sottocarenale, mostrava una positività per citocheratina 7 e p63; risultavano invece negativi il fattore di trascrizione tiroideo 1 (tt-f1), cd56, cromogranina a e sinaptofisina. l’insieme dei reperti, con i limiti imposti dall’esiguità del materiale diagnostico, deponeva per la presenza di un carcinoma scarsamente differenziato, in accordo con le conclusioni tratte sulla base della prima biopsia. alla successiva visita di novembre il quadro clinico appariva in evoluzione, e la risonanza magnetica nucleare (rmn) dell’encefalo documentava un quadro di progressione di malattia. in considerazione del fatto che gli ulteriori approfondimenti eseguiti non avevano consentito di arrivare a una definizione del sito primario e che le condizioni del paziente stavano rapidamente peggiorando, si è scelto di non iniziare ulteriori trattamenti antiblastici e di avviare il paziente a terapia di supporto e sintomatica. discussione malgrado i numerosi progressi compiuti nel corso degli ultimi decenni, la ricerca della sede primitiva di una neoplasia non sempre risulta efficace, e spesso anche l’esame autoptico non è in grado di individuare il sito primario da cui ha avuto origine la malattia. la definizione di cancer of unknown primary (cup) può essere usata ogni qual volta ci si trovi dinnanzi a un paziente che presenta un quadro istopatologico certo di neoplasia, non compatibile con diagnosi di primitività nella sede della biopsia, e senza che l’anamnesi, l’esame obiettivo, le indagini radiologiche convenzionali e gli esami ematochimici routinari abbiano consentito di individuare la sede di origine del tumore. i cup possono essere suddivisi in due gruppi principali. fanno parte del primo gruppo quelle neoplasie in cui sulla base degli esami clinici e anatomopatologici eseguiti, è possibile ipotizzare un sito di partenza presuntivo. nel secondo caso invece, malgrado tutti gli accertamenti eseguiti, l’origine della neoplasia rimane indeterminata. contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, non si tratta di casi così rari: infatti i cup rappresentano complessivamente circa dal 3% al 5% delle neoplasie dell’adulto, secondo le diverse casistiche pubblicate [1]. l’età media di insorgenza è di circa 58 anni mentre maschi e femmine sembrano essere colpiti in egual misura [2]. da un punto di vista anatomopatologico, i cup possono assumere l’aspetto di neoplasie con differenziazione di tipo squamoso, adenocarcinomatoso, o indifferenziato (tabella i). tipi istologici % adenocarcinomi ben differenziati/moderatamente differenziati 60 carcinomi squamosi 5 carcinomi e adenocarcinomi scarsamente differenziati 30 neoplasie indifferenziate 5 tabella i. classificazione anatomopatologica dei cup [3] nella maggior parte dei casi si tratta di situazioni di malattia diffusa con interessamento metastatico di più organi. i sintomi d’esordio sono di solito piuttosto aspecifici e risentono soprattutto del tipo di organo o apparato che è stato maggiormente colpito. tra questi ritroviamo con maggior frequenza dolore (60%), sintomi respiratori (15%), perdita di peso (5%) e disturbi neurologici (5%) [2]. il quadro di presentazione iniziale è frequentemente quello di una malattia in fase avanzata, scarsamente responsiva ai trattamenti sistemici con finalità palliativa. si tratta di pazienti che spesso presentano una storia clinica costellata da una lunga serie di procedure ed esami diagnostici, che nella maggior parte dei casi si rivelano futili. infatti l’individuazione del sito primario avviene in meno del 15% dei casi e perfino il riscontro autoptico risulta non dirimente in una percentuale compresa tra il 20% e il 50% a seconda delle casistiche [4]. dal punto di vista del comportamento biologico, i cup sembrano differenziarsi in alcuni aspetti cruciali rispetto a neoplasie dall’aspetto simile, ma dall’origine clinicamente ben determinata. le neoplasie più frequenti nella popolazione generale quando la sede di partenza sia nota non sono quelle più rappresentate nelle casistiche dei riscontri autoptici eseguiti quando la sede di partenza risulta essere ignota in vita. in uno studio retrospettivo in cui sono stati riportati i risultati di circa 900 autopsie, si è visto come tumori a elevata prevalenza nella popolazione generale, come il carcinoma della mammella e del colon, rappresentino rispettivamente solo lo 0,8% e il 7% del totale, mentre neoplasie solitamente più “rare”, come quelle a carico del pancreas e delle vie biliari, arrivino ad esempio al 24% e all’8% rispettivamente [4]. anche le sedi di metastatizzazione nel caso dei cup appaiono diverse rispetto a quelle comunemente attese. esemplare a tale proposito è il caso delle lesioni epatiche da carcinoma prostatico che passano dal 15% a oltre il 50% nei casi in cui la sede primitiva non sia stata identificata in vita [2]. tuttavia a oggi non sono state ancora individuate differenze genotipiche tra i cup e le corrispettive neoplasie a origine nota [5-7]. la maggior parte dei pazienti affetti da cup ha una prognosi sfavorevole con una mediana di sopravvivenza che oscilla tra 8 e 12 mesi. tuttavia circa il 20% dei casi sembra avere una prognosi nettamente più favorevole soprattutto quando, ipotizzando una sede primitiva presunta, sono trattati in analogia alle corrispettive neoplasie a origine nota. è il caso, ad esempio, degli adenocarcinomi della regione ascellare nelle donne, trattati al pari dei tumori mammari, oppure dei carcinomi poco differenziati del mediastino o del retroperitoneo in giovani maschi, trattati come i tumori a cellule germinali extragonadici. quando ciò sia possibile, la terapia nei pazienti con cup andrebbe quindi scelta tenendo conto di una “origine presunta”, ipotizzabile sulla base dell’esito degli accertamenti eseguiti. non è chiaro però se tale approccio abbia sempre una ricaduta positiva sulla prognosi [8,9]. secondo le linee guida internazionali (nccn [10], esmo [1]), in presenza di un sospetto cup, i pazienti dovrebbero essere sottoposti a un’accurata anamnesi con particolare attenzione a eventuali pregresse asportazioni di altre neoplasie, ma anche di presunte “formazioni benigne”, oppure regressione spontanea di lesioni non altrimenti specificate. andrebbero inoltre eseguiti esami ematochimici di funzionalità midollare, epatica, renale, una tc del torace, addome e pelvi. le donne dovrebbero essere sottoposte inoltre a uno screening eco-mammografico, mentre negli uomini dovrebbe essere eseguito il dosaggio del psa [11]. sul possibile ruolo della tomografia a emissione di positroni (tc-pet) i pareri sono ancora discordanti e un impiego routinario nella stadiazione dei cup non è considerato obbligatorio, tenendo conto che i dati a disposizione si basano soprattutto su analisi retrospettive. l’impiego della pet sembra essere utile soprattutto nel caso di localizzazioni laterocervicali da carcinomi squamosi, per la ricerca di una possibile primitività a livello dell’oroo ipofaringe [12]. l’esecuzione di altre procedure diagnostiche, quali ad esempio le indagini di tipo endoscopico (colonscopia, gastroscopia, laringoscopia), dovrebbe essere valutata solo in presenza di una sintomatologia che possa suggerire l’utilità di tali indagini. un adeguato prelievo bioptico e la conseguente analisi anatomopatologica, immuno­istochimica e, se possibile, molecolare, rappresentano uno dei momenti fondamentali nel percorso diagnostico-terapeutico di un paziente con cup. il ruolo svolto dall’anatomopatologo è quindi cruciale ed è compito dell’oncologo medico renderlo più agevole fornendo informazioni cliniche più dettagliate possibili. è infatti essenziale non perdere l’opportunità di identificare la neoplasia primitiva in tutti quei casi per i quali può essere disponibile un trattamento efficace. secondo greco e colleghi un primo pannello di screening per le indagini immunoistochimiche dovrebbe comprendere citocheratine (ck7, ck20), recettori estro-progestinici, hep par-1, placental alkaline phosphatase/oct-4, wt-1/pax8, sinaptofisina e cromogranina [8]. in questo modo dennis e collaboratori hanno dimostrato che è possibile identificare correttamente il sito di partenza di una metastasi nell’88% dei casi di adenocarcinoma applicando un algoritmo diagnostico che prevede l’impiego di 10 marcatori testati mediante immunoistochimica (ihc) [13]. occorre sottolineare, però, che questi studi sono nella maggior parte dei casi di tipo retrospettivo e sono stati eseguiti in pazienti con neoplasie metastatiche in cui era nota la sede di partenza, e quindi non si trattava di veri cup. per questo motivo l’opportunità di trattare dei cup sulla base della “presunta origine”, dedotta sulla sola base dei risultati dei test di ihc, è controversa. inoltre esistono diverse neoplasie per le quali non sono ancora disponibili dei marcatori sufficientemente specifici, come ad esempio i carcinomi del tratto digerente superiore e delle vie biliari. se si considera poi che la quantità di materiale bioptico a disposizione rappresenta spesso un fattore limitante il numero di marker che possono essere testati, si comprende meglio perché, nella maggior parte dei casi, gli esami di ihc siano orientativi piuttosto che dirimenti. una maggiore specificità potrebbe essere ottenuta mediante tecniche di biologia molecolare volte a individuare precisi profili di espressione genica tipici di alcuni tipi tumorali come nel caso del dna microarray. si tratta nello specifico di test in grado di rilevare l’espressione di centinaia o migliaia di geni contemporaneamente all’interno di un campione tissutale e di risalire poi a un determinato tessuto/neoplasia mediante il riconoscimento di pattern di espressione precedentemente codificati, utilizzando appositi algoritmi. i microarray sono dei supporti particolari sui quali sono stati precedentemente inseriti centinaia o migliaia di campioni di dna corrispondenti ad altrettanti geni. l’rna messaggero (mrna) relativo a una proteina espressa da un certo tessuto, viene estratto e riconvertito in dna (cdna) e messo a contatto con questi chip dopo essere stato marcato con una molecola fluorescente. nelle opportune condizioni il cdna tende poi a legarsi ai microarray in un punto preciso in cui vi sia una sequenza complementare: la presenza e l’intensità del segnale di fluorescenza indica la presenza e l’abbondanza del trascritto nel campione testato. la maggior parte degli studi condotti impiegando tali tecniche potevano contare sul fatto che esisteva sempre la possibilità di verificare la bontà dei risultati ottenuti. infatti venivano impiegati campioni di lesioni metastatiche di cui era comunque noto il tessuto o l’organo di origine e in tali condizioni l’accuratezza di questi test ha raggiunto percentuali tra l’80% e il 90%. nel caso dei veri cup questo tipo di verifica non è di fatto possibile. l’mrna è piuttosto delicato e tende a degradarsi quando vengono impiegati i comuni processi di fissazione dei campioni bioptici, per cui è stata ipotizzata la possibilità di impiegare anche i microrna (mirna). si tratta di sequenze di 21-25 nucleotidi non codificanti proteine, ma in grado di regolare l’espressione di altri geni influenzando la traduzione dell’mrna in proteine. sono molecole estremamente importanti in quanto coinvolte nel processo di differenziazione cellulare e dotate di un’elevata specificità tissutale. inoltre possono essere estratti anche da preparati conservati in paraffina. varadhachary e collaboratori hanno valutato prospetticamente 104 casi di cup di cui 41 sono stati trattati sulla base di risultati ottenuti mediante l’analisi di mirna e ihc, riportando una concordanza nell’84% dei casi tra i risultati ottenuti con l’analisi molecolare e il quadro di presentazione clinica e morfologica. i risultati dell’ihc sono stati inconcludenti in 9 casi (12%), mentre il profilo molecolare è riuscito a individuare un possibile sito primario in 7 di questi 9 casi. in altri 10 casi invece è stata proprio la tipizzazione genetica a non essere in grado di stabilire un’origine plausibile della neoplasia, a differenza di quanto era invece emerso con ihc, documentando come anche le più sofisticate metodiche di tipizzazione molecolare vadano viste come un complemento piuttosto che un’alternativa alle più “tradizionali” indagini anatomopatologiche [14]. alcuni studi hanno comunque dimostrato che le conclusioni tratte sulla base dei test di biologia molecolare correlano con quelle a cui si è giunti a seguito di ihc nel 94% dei casi, ma con il vantaggio di restringere il numero di ipotetici siti primari spesso a un’unica potenziale sede [15]. al momento esistono in commercio almeno quattro tipi di test per l’identificazione dei cup mediante valutazione di profili genetici con un’accuratezza tra l’80% e il 90%. va da sé che per quanto possano essere utili, questi test di biologia molecolare mantengono alcuni limiti. prima di tutto non è sempre possibile avere a disposizione materiale idoneo per eseguire tali test spesso perché il tessuto inizialmente a disposizione è già stato completamente utilizzato per indagini ihc. in tali situazioni occorrerebbe procedere con nuovi prelievi bioptici, ma non sempre questo è possibile per motivi tecnici o a causa del rapido peggioramento delle condizioni cliniche. i test attualmente disponibili sono in grado di individuare solo un numero limitato di neoplasie (da 15 a 54 tipi) e solo nell’ambito di quei profili per cui sono stati concepiti, ragion per cui la loro attendibilità non è assoluta [8,14,16]. inoltre l’utilità di risalire al tumore primitivo mediante l’analisi delle caratteristiche anatomopatologiche e i profili di espressione genetica andrebbe valutata mediante studi clinici randomizzati. bisognerebbe confrontare la sopravvivenza in pazienti che ricevono un trattamento selezionato sulla base del profilo molecolare, rispetto a gruppi di controllo in cui i pazienti sono trattati empiricamente. purtroppo studi di questo tipo appaiono di difficile attuazione: per avere un’adeguata potenza statistica dovrebbero coinvolgere centinaia di pazienti e, tenuto conto dell’eterogeneità dei cup, i risultati potrebbero essere inconcludenti [14]. recentemente hainsworth e colleghi hanno pubblicato i risultati di uno studio prospettico in cui più di 194 pazienti affetti da cup sono stati trattati con protocolli terapeutici scelti sulla base dei risultati dei test di gene-profiling, che nel 98% dei casi sono stati in grado di individuare il possibile tessuto d’origine. la sopravvivenza mediana dei pazienti trattati è stata di circa 12,5 mesi. però, nei casi in cui l’istotipo tumorale era tra quelli più chemioresponsivi, la sopravvivenza mediana è stata significativamente superiore se paragonata a quella di neoplasie solitamente meno chemiosensibili (13,4 vs 7,6 mesi) [17]. oltre che dal tipo istologico, la prognosi dei pazienti affetti da cup sembra essere condizionata anche dal performance status, dal numero di siti metastatici e dall’eventuale presenza di elevati livelli di ldh o bassi livelli di albumina [18-21]. anche nel caso clinico da noi descritto, dal momento in cui sono stati eseguiti i primi accertamenti a quando è stata avviata la terapia antiblastica, sono trascorsi più di sei mesi. se confrontiamo questo dato con l’aspettativa di vita mediana, possiamo affermare che il potenziale vantaggio legato a un eventuale trattamento antiblastico più specifico rischia di essere vanificato dal tempo impiegato nello svolgere accertamenti di vario tipo, tempo che può anche influenzare un decadimento del performance status del paziente stesso. quindi è opportuno ricordare che nei pazienti con neoplasia a sede di partenza non determinata è necessario rendere più efficace ed efficiente la fase diagnostica. il primo step è rappresentato senz’altro da una visita accurata che includa la storia clinica e il programma dei principali esami strumentali. successivamente andrà individuata la sede più idonea per effettuare un adeguato prelievo bioptico, nella maniera meno invasiva per il paziente. il trattamento antitumorale di questi pazienti, che al momento si basa su pochi schemi consolidati, sarà verosimilmente guidato in futuro dalle indagini molecolari. gli schemi di chemioterapia “empirica” utilizzati oggi nei cup determinano tassi di risposta inferiori al 50% e una sopravvivenza mediana inferiore a 12 mesi. nel corso degli anni sono stati studiati vari regimi di chemioterapia, al fine di prolungare la sopravvivenza e alleviare i sintomi nei pazienti con diagnosi di cup. in generale la chemioterapia ha dimostrato limitata efficacia. ad oggi non stati pubblicati studi clinici con randomizzazione a terapia antiblastica versus placebo. amela e collaboratori [22] hanno condotto un’analisi sistematica di 38 trial di fase ii, pubblicati tra il 1997 e il 2011; tale analisi però non ha permesso di definire un regime terapeutico standard nella cura dei cup. molte combinazioni a base di cisplatino sono state indagate in prima linea. regimi più recenti che utilizzavano gemcitabina o i taxani hanno dimostrato una discreta efficacia in studi di fase ii. per esempio culine e colleghi [23] hanno valutato la combinazione cisplatino + gemcitabina versus cisplatino + irinotecan, mostrando tassi di risposta lievemente migliori a favore della prima. molti trial hanno valutato combinazioni con carboplatino, sia doppiette sia triplette, tuttavia non ci sono studi che confrontino regimi con cisplatino versus carboplatino. una delle combinazioni più studiate è l’associazione carboplatino e paclitaxel [24,25], che ha dimostrato un tasso di risposta obiettiva tra il 16% e il 38% e una sopravvivenza mediana tra 6,5 e 13 mesi. è da sottolineare che i regimi con tripletta sia con cisplatino sia con carboplatino non hanno determinato alcun vantaggio rispetto a quelli con doppietta. a oggi vi è solo uno studio di fase iii [26] che ha confrontato paclitaxel/carboplatino/etoposide con gemcitabina/irinotecan, senza differenze significative tra i due regimi terapeutici. la combinazione gemcitabina e docetaxel ha dimostrato outcome simili a quelli riportati con derivati del platino. tuttavia l’esperienza clinica si basa solo su uno studio randomizzato di fase ii con 35 pazienti [27]. la combinazione oxaliplatino-capecitabina è stata studiata in due studi di fase ii; il tasso di risposta è stato basso in entrambi (11-13%), la sopravvivenza mediana (7,5-9,5 mesi) più bassa di quella riportata in trial con altri regimi [28,29]. rimane ancora dibattuto e necessita di ulteriori studi l’utilizzo degli agenti a target molecolare. a oggi non vi è quindi evidenza significativa per trattare tutti i pazienti con diagnosi di cup con una terapia antiblastica, piuttosto che con la sola terapia sintomatica e di supporto soprattutto in caso di pazienti con basso performance status o con varianti istologiche tradizionalmente poco chemiosensibili. inoltre non vi sono evidenze circa la superiorità di un regime terapeutico rispetto a un altro, benché sia ormai abbastanza condiviso che i derivati del platino rappresentino la classe di farmaci singolarmente più attiva e maggiormente utilizzata nel trattamento dei cup. algoritmo diagnostico [8] bibliografia fizazi k, greco fa, pavlidis n, et al. cancers of unknown primary site: esmo clinical practice guidelines for diagnosis, treatment and follow-up. ann oncol 2011; 22 suppl 6: vi64-vi8 casciato da. metastases of unknown origin. manual of clinical oncology, 7th edition. philadelphia: lippincott williams and wilkins, 2012 hainsworth jd, greco fa. treatment of patients with cancer of 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tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) lorenzo pradelli 1 trattamento delle infezioni vaginali in gravidanza con metronidazolo e clotrimazolo topici introduzione: definizione del problema la presenza di infezioni vulvo-vaginali in corso di gravidanza si associa a complicazioni perinatali e ostetriche, in particolare a infezione delle membrane amniotiche e rottura precoce delle stesse, con possibile parto prematuro e basso peso alla nascita. l’opportunità di prevenire tali complicazioni deve, ovviamente, essere attentamente ponderata in relazione al rischio potenziale di indurre tossicità fetale, per cui la scelta della strategia terapeutica non è immediata. scopo di questo lavoro è delineare un profilo farmacologico clinico di clotrimazolo e metronidazolo, due molecole da anni utilizzate in terapia, anche durante la gravidanza. abstract vulvo-vaginal infections are the most common gynaecological pathologies seen in clinical practice. while being predominantly benign, although disturbing, in non pregnant women, their presence during pregnancy has been associated with peri-natal and obstetric complications. the opportunity to prevent these adverse outcomes, especially prematurity and low birth weight, has to be cautiously balanced against the potential to induce fetal toxicity, inherently related to the continuous exchanges among maternal and fetal blood that occurs in the placenta. in this paper, a brief overview of the evidence regarding efficacy, safety and utility during pregnancy of topical clotrimazole and metronidazole, whose combined spectrum covers the great majority of the involved pathogens, is provided. these antimicrobials, especially when applied topically, are highly effective and have been used in pregnant women for many years without evidence of adverse outcomes; in conclusion it appears that they hold an adequate risk-to-benefit ratio and represent valid therapeutic options in the treatment of vulvo-vaginal infections during pregnancy. keywords: vulvo-vaginal infections, pregnancy, metronidazole, clotrimazole topical metronidazole and clotrimazole in the treatment of vulvo-vaginal infections during pregnancy. cmi 2007; 1(1): 21-29 1 advanced research srl, torino il contesto: aspetti clinici la vaginite è normalmente caratterizzata da leucorrea e/o da prurito e irritazione vulvare, e può accompagnarsi a cattivo odore. le tre patologie più frequentemente associate a leucorrea sono la vaginosi batterica (bv ), la tricomoniasi e la candidiasi. la causa della vaginite è normalmente identificabile mediante l’esame del ph e dell’aspetto microscopico a fresco della secrezione patologica. un ph elevato (> 4,5), determinabile con una semplice cartina tornasole, è normalmente indicativo di bv o di tricomoniasi, per quanto non sia molto specifico. il materiale può essere ulteriormente esaminato dopo diluizione con soluzione fisiologica e, in un campione separato, con una soluzione gestione clinica 22 clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati trattamento delle infezioni vaginali in gravidanza con metronidazolo e clotrimazolo topici di idrossido di potassio (koh) al 10%. l’effusione di un odore amminico dopo diluizione con koh è indicativa di bv. all’esame microscopico a fresco, i tricomonidi flagellati e le clue cells (cellule epiteliali adese a batteri, tipiche della bv ) sono generalmente identificabili nel campione diluito con soluzione salina, mentre le spore e le pseudoife della candida sono più facilmente visualizzabili nel campione diluito con koh. la mancata identificazione di un agente patogeno all’esame microscopico non esclude comunque in maniera assoluta la diagnosi di infezione vaginale, come dimostrato da diversi studi che hanno ottenuto risultati positivi mediante coltura o amplificazione genica (pcr) dopo esami microscopici negativi. la vaginosi batterica è una sindrome clinica polimicrobica dovuta alla sostituzione della normale flora batterica vaginale, prevalentemente costituita da lactobacillus spp. produttori di h2o2, con alte concentrazioni di batteri anaerobi (prevotella spp., mobiluncus spp.), di gardnerella vaginalis e di mycoplasma homini. altre popolazioni batteriche caratteristicamente rinvenute in corso di bv comprendono porphyromonas e i peptostreptococchi. la causa dell’alterazione dell’equilibrio dinamico che normalmente caratterizza la flora microbica non è completamente chiarita, per quanto siano identificati numerosi fattori predisponenti, tra cui molteplicità di partner sessuali, relazioni sessuali con un nuovo partner e la carenza idiopatica di lattobacilli. nel 50% circa dei casi decorre in maniera totalmente asintomatica. nei casi sintomatici e in caso di gravidanza, in particolare se a elevato rischio di prematurità (ossia se la madre presenta pregressi parti pre-termine) è indicata una terapia antimicrobica, generalmente a base di metronidazolo o clindamicina, entrambi disponibili sia in forma topica che con formulazioni sistemiche. nelle donne non gestanti i benefici accertati del trattamento sono il sollievo dalla sintomatologia vaginale e la riduzione del rischio di complicanze infettive dopo interventi chirurgici ginecologici, mentre in gravidanza la terapia antinfettiva potrebbe ridurre il rischio di rottura precoce delle membrane, travaglio e parto pre-termine, nonché di infezione intra-amniotica ed endometrite post-partum [1]. la tricomoniasi è un’infestazione sostenuta dal protozoo trichomonas vaginalis. nell’uomo, l’infezione può decorrere asintomatica o presentarsi sotto forma di uretrite non gonococcica. nella donna la tricomoniasi è solitamente sintomatica, con irritazione vulvare accompagnata da una caratteristica secrezione vaginale di colore giallo-verdognolo, diffusa e maleodorante; alcune pazienti, tuttavia, presentano forme paucio asintomatiche. così come la vaginosi batterica, anche la tricomoniasi, oltre alla fastidiosa sintomatologia, è risultata associata a complicanze della gravidanza, in particolare a rottura precoce delle membrane, parto pretermine e basso peso alla nascita. la terapia antimicrobica, da effettuarsi sulla paziente e contemporaneamente sul partner sessuale con i nitroimidazolici (metronidazolo o tinidazolo), non ha dimostrato una riduzione della morbilità perinatale, ma è ritenuta efficace per la risoluzione dei sintomi, la riduzione del rischio di trasmissione per via sessuale e del rischio di infezioni a carico degli apparati respiratorio e gastrointestinale del nascituro [1]. la candidiasi vulvo-vaginale è generalmente causata da candida albicans, ma occasionalmente può essere sostenuta da altre candide (candida glabrata), o più in generale da lieviti. i sintomi tipici includono il prurito e la dolenzia vaginali, la dispareunia (dolore durante l’atto sessuale), la disuria e la presenza di leucorrea. si stima che circa il 75% delle donne soffrirà di almeno un episodio di candidiasi vaginale nel corso della vita, e che il 40-45% presenterà due o più episodi. le candidiasi vengono abitualmente classificate in non complicate e complicate, sulla base della presentazione clinica, della microbiologia, dei fattori dell’ospite e della risposta alla terapia. la terapia d’elezione delle forme non complicate prevede la somministrazione topica di antifungini azolici (clotrimazolo, fluconazolo, butoconazolo, tioconazolo, ecc.) o di nistatina (meno efficace) per un ciclo breve di terapia (1-3 giorni). vista la generale sovrapponibilità tra l’efficacia di questi composti somministrati per via sistemica e topica e dato l’elevato potenziale di indurre interazioni farmacologiche quando somministrati per via orale (gli azoici sono potenti induttori del sistema enzimatico dei citocromi epatici), la terapia di prima scelta è normalmente quella topica. la candidiasi vaginale è frequente in corso di gravidanza e va trattata unicamente con terapia azolica topica [1]. le tre patologie brevemente delineate si possono ritrovare associate in forme miste. 23 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) l. pradelli aspetti farmacologici struttura molecolare il clotrimazolo è un derivato imidazolico ad ampio spettro antimicotico, dalla formula chimica c22h17cln2 e di peso molecolare 344,85 g/mol, la cui struttura è schematizzata in figura 1. il metronidazolo è un derivato nitroimidazolico antimicrobico di peso molecolare 171,154 g/mol, la cui formula chimica è c6h9n3o3. la struttura chimica è rappresentata in figura 2. farmacocinetica il clotrimazolo viene assorbito con difficoltà dalla pelle e dalle mucose umane. l’assorbimento cutaneo è stimato essere inferiore allo 0,5%, quello orale è basso e non adeguato alla terapia sistemica. dopo applicazione topica in sede vaginale, il clotrimazolo viene assorbito in parte, per una quota stimata tra il 3 e il 10%, raggiungendo concentrazioni ematiche inferiori al limite di rilevazione. non è noto se il clotrimazolo sia in grado di attraversare la placenta, ma, come discusso più avanti, non esistono evidenze o indizi di tossicità fetale con il suo uso in gravidanza. la quota assorbita si ritrova legata alle proteine plasmatiche per una quota pari a circa il 90% e a livello epatico viene attivamente metabolizzata a composti inattivi da parte del citocromo p450 11a1. il tempo di emivita plasmatica è compreso tra 2 e 5 ore, i metaboliti inattivi sono escreti prevalentemente nelle urine, ma anche nelle feci dopo escrezione biliare. l’escrezione renale del clotrimazolo non metabolizzato è di scarsa importanza, infatti la quota immodificata varia tra 0,05% e 0,5% della dose somministrata [2-5]. la cinetica del metronidazolo è stata valutata dopo somministrazione endovenosa, orale, rettale, vaginale e cutanea. l’assorbimento orale del metronidazolo è ottimo, con una biodisponibilità generalmente superiore al 90% e cmax di 8-13 mg/l raggiunto dopo 0,25-4 ore dalla somministrazione di 500 mg [6]. buono anche l’assorbimento dopo applicazione di supposte rettali, con valori riportati di biodisponibilità oscillanti tra il 65 e l’80%, con cmax corrispondenti di 4-5,5 mg/l misurati dopo 0,5-1 e 4-12 ore dall’applicazione di 500 mg per clisma o supposta, rispettivamente [7,8]. la biodisponibilità relativa del metronidazolo dopo applicazione vaginale è molto variabile a seconda della formulazione: è risultata compresa tra il 10%-25% con compresse e creme vaginali (cmax di 1,2-1,9 mg/l dopo 11-20 ore dall’applicazione di 500 mg) e il 56% osservato con il gel allo 0,75% [9-11]. data la bassa dose complessiva di principio attivo contenuto nel gel (37,5 mg in 5 g di gel), le concentrazioni plasmatiche registrate dopo questo tipo di applicazione vaginale figura 1 struttura chimica del clotrimazolo cl n n figura 2 struttura chimica del metronidazolo o o nn o n+ raggiungono comunque valori molto inferiori a quelle ottenute con la somministrazione per via orale (cmax di 0,2-0,3 mg/l, circa il 2% della concentrazione plasmatica misurata con 500 mg po, raggiunta dopo una media di 8,37 ore). l’ipotesi degli autori dello studio [10] per spiegare la discordanza tra il dato di biodisponibilità ottenuto con il gel e quelli relativi ad altre forme ad applicazione topica si basa sulle caratteristiche dell’assorbimento vaginale dei farmaci. quest’ultimo non è infatti condizionato solamente dalla permeabilità dell’epitelio vaginale alla specifica molecola, ma dipende anche dalla capacità del farmaco di dissolversi nella esigua 24 clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati trattamento delle infezioni vaginali in gravidanza con metronidazolo e clotrimazolo topici quantità di liquido presente in cavità vaginale, condizione necessaria all’assorbimento. a differenza delle formulazioni in compresse o creme, nel gel acquoso utilizzato in questa esperienza la molecola è già disciolta, il che potrebbe spiegare le maggiori rapidità e completezza dell’assorbimento sistemico. a supporto di questa ipotesi, richiamano l’attenzione su un precedente esperimento di alper e coll. [9], che avevano riportato tmax minori con l’utilizzo della crema piuttosto che con la compressa, entrambe somministrate intravagina (11 vs 20 ore), dato che potrebbe essere spiegato dalla maggior rapidità con cui il metronidazolo si dissolve dalla crema nel liquido intravaginale. la quota assorbita si distribuisce in un volume apparente di 0,25-0,85 l/kg e circola legata alle proteine plasmatiche per una quota inferiore al 20%; viene intensamente metabolizzata a livello epatico attraverso una serie di reazioni di glucuronazione e ossidazione delle catene laterali, con produzione di numerosi metaboliti, di cui alcuni mantengono una certa attività antimicrobica. il metronidazolo è in grado di attraversare la placenta; nei tessuti placentari si ritrova tuttavia in concentrazioni basse: 4-5 ore dopo somministrazione di una singola dose orale di 500 mg sono stati riportati livelli compresi tra 0 e 1,4 mg/l, a fronte di concentrazioni plasmatiche di 3-7 mg/l [11]. l’escrezione è prevalentemente renale, con circa il 60-80% della dose assorbita espulsa con le urine, di cui il 6-18% in forma immodificata; la clearance renale è di 10-11 ml/min/1,73m2. l’escrezione fecale interessa una quota pari al 6-15% della dose. l’emivita plasmatica del composto non modificato è di 6-14 ore [13,14], ma risulta prolungata a 7-21 ore in caso di insufficienza renale [13]. la tabella i riassume i principali parametri farmacocinetici delle due molecole. meccanismo d’azione clotrimazolo, così come gli altri antifungini imidazolici, esercita la sua attività fungicida e/o fungostatica attraverso l’inibizione della sintesi dell’ergosterolo, componente fondamentale delle membrane cellulari micotiche. in particolare l’azione del clotrimazolo è sull’enzima 14-alfa-demetilasi, responsabile della conversione enzimatica del 2,4-metilendiidrolanosterolo a ergosterolo. tale ridotta o bloccata sintesi causa alterazioni della permeabilità della membrana citoplasmatica, che risultano in fuoriuscita di componenti cellulari, con concomitante catabolismo degli acidi nucleici. risulta inoltre compromessa la biosintesi di macromolecole, come le proteine, i lipidi, il dna e i polisaccaridi. l’inibizione della 14-alfa-demetilasi potrebbe non essere l’unico meccanismo d’azione del clotrimazolo, in quanto la molecola è risultata capace di inibire colture di lieviti saccharomyces cerevisiae mutanti incapaci di sintetizzare steroli [15]. il metronidazolo esercita il suo effetto citotossico nei confronti dei batteri anaerobi attraverso l’alterazione dello stato redox, probabilmente in seguito all’azione di uno o più prodotti di una catena di reazioni di riduzione del metronidazolo stesso, benché i dettagli di questo processo non siano stati completamente chiariti. questo meccanismo appare funzionare solamente nei batteri anaerobi, in quanto la molecola, pur captata dagli organismi aerobi, non subisce modificazioni e non esercita effetto tossico. negli organismi anaerobi, al contrario, la progressiva riduzione del metronidazolo crea un gradiente di diffusione che ne aumenta la captazione. il risultato finale dell’alterazione dello stato di ossido-riduzione è la produzione di radicali liberi dell’ossigeno, con perdita della struttura elicoidale del dna, che risulta così incapace di fungere da stampo [16,17]. spettro antimicrobico il clotrimazolo è un antimicotico ad ampio spettro, ma è attivo anche contro alcuni batteri gram-positivi. l’azione fungicida o fungistatica interessa la maggior parte dei molecola biodisponibilità legame proteico escrezione renale (immodificato) emivita clotrimazolo orale: bassa cutanea: < 0,5% vaginale: 3-10% 90% 0,05%-0,5% 2-5 ore metronidazolo orale: > 90% rettale: 65-80% vaginale (crema, compresse): 10-25% vaginale (gel acquoso): 56% < 20% 6-18% 6-14 ore tabella i parametri farmacocinetici di metronidazolo e clotrimazolo 25 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) l. pradelli miceti patogeni per l’uomo; riportiamo in tabella ii le mic (concentrazione minima inibente) nei confronti alcuni dei principali miceti e altri organismi studiati [18]. lo spettro antimicrobico del metronidazolo comprende molti protozoi e la maggior parte degli anaerobi gram-positivi e gramnegativi. tra i protozoi contro cui è attivo, di particolare rilevanza sono le entamebe, i tricomonidi e la giardia (tabella iii). i batteri anaerobi sensibili al metronidazolo di importanza clinica primaria sono i gram-negativi appartenenti alle specie bacteroides e fusobacterium spp. anche molti anaerobi gram-positivi come i peptostreptococci e i clostridi sono generalmente sensibili, per quanto si possano più facilmente ritrovare ceppi resistenti al metronidazolo che non tra i gram-negativi. la gardnerella vaginalis, coinvolta nella quasi totalità delle bv, è un batterio pleomorfo gram-variabile di elevata sensibilità al metronidazolo. da segnalare infine la sensibilità al metronidazolo di helicobacter pylori e della flora anaerobica enterica, di clostridium difficile e dei patogeni causali di ascessi cerebrali, per cui metronidazolo viene impiegato con notevole successo [19]. efficacia, sicurezza e utilità in gravidanza metronidazolo e clotrimazolo sono due molecole di non recente introduzione, a cui molte donne sono state esposte durante la gravidanza, senza segnalazioni di effetti teratogeni o di danni al nascituro. metronidazolo e clotrimazolo per via vaginale sono infatti entrambi inclusi nella categoria b della sicurezza in gravidanza, nella scala utilizzata dalla fda statunitense (scala a 5 categorie, da a, la più sicura, a x, sicuramente nociva) [20,21]. la categoria b viene assegnata alle molecole studiate su animali senza evidenza di danno al feto, ma per cui mancano studi adeguati e ben condotti su donne in gravidanza (è il caso di metronidazolo e clotrimazolo), oppure a quelle molecole rivelatesi potenzialmente pericolose nell’animale da esperimento, ma la cui pericolosità per il feto umano è stata smentita da studi adeguati e ben condotti su donne gestanti. anche l’agenzia regolatoria australiana adec classifica metronidazolo e clotrimazolo in categorie a basso rischio per le donne gestanti: metronidazolo è collocato in categoria b2, corrispondente a quelle molecole assunte da un numero limitato di donne durante la gestazione, senza evidenza di aumento nella frequenza di malformazioni o di altri danni diretti o indiretti al feto e per cui gli studi su animali sono inadeguati tabella ii sensibilità al clotrimazolo di alcuni microrganismi patogeni organismo mic (µg/ml) aspergillus spp. 1-10 cryptococcus neoformans 1-4 candida albicans < 2 coccidioides immitis 1 epidermophyton spp. < 1-2 histoplasma capsulatum 1 madurella spp. > 20 microsporum spp. < 2 nocardia spp. 4-10 paracoccidioides brasiliensis 1 sporotrichum schenckii 1 trichophyton spp. < 2 torulopsis (candida) glabrata 2-10 blastomyces dermatitidis < 4 trichomonas vaginalis 100 naegleria fowleri < 1 tabella iii sensibilità al metronidazolo di alcuni microrganismi patogeni organismo mic (µg/ml) anaerobi gram-negativi gardnerella vaginalis 1>128 actinobacillus 10-40 (mic 90 =36) campylobacter fetus < 128 fusobacterium 0,0625-32 (mic 90 < 4) prevotella mic 90 = 4 bacteroides fragilis < 25 (mic 90 < 4) altri bacteroides spp 0,25> 256 (mic 90 < 8) anaerobi gram-positivi clostridium difficile 0,125-4 clostridium perfringens 0,1-128 (mic 90 < 4) peptostreptococcus < 16 protozoi entamoeba histolytica < 1 trichomonas vaginalis < 8 giardia lamblia < 50 o mancanti, ma i dati disponibili non indicano pericolo di danno fetale. il clotrimazolo è invece collocato in categoria a, quella dei farmaci assunti da un gran numero di donne nel corso della gravidanza, senza che siano stati osservati aumenti nella frequenza di malformazioni o di altri danni diretti o indiretti al feto [22]. 26 clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati trattamento delle infezioni vaginali in gravidanza con metronidazolo e clotrimazolo topici l’agenzia italiana del farmaco (aifa) pubblica e aggiorna regolarmente una guida all’uso dei farmaci in gravidanza basata sui principi della evidence based medicine (consultabile on line su www.farmaciegravidanza.org) [23], partendo dalle valutazioni dei due organismi summenzionati, integrati dal giudizio di altre due organizzazioni (fass e wgr, attive in svezia e olanda, rispettivamente) e dalla valutazione, basata sull’analisi della letteratura scientifica disponibile, degli esperti nazionali che compongono il comitato scientifico dell’agenzia. la valutazione relativa al metronidazolo ha preso in considerazione due meta-analisi e una serie di studi non compresi in queste ultime e ha fornito risultati tranquillizzanti. gli unici dati contrastanti sono i risultati degli studi epidemiologici del hccssa (registro nascite ungherese) [24-26], che riportano un eccesso di rischio di labioe palatoschisi negli esposti a metronidazolo e un odds ratio di 1,2 per difetti congeniti negli esposti all’associazione metronidazolo e miconazolo per via vaginale nel secondo/ terzo trimestre. la valutazione conclude che “ampi studi disponibili sull’esposizione nel 1° trimestre a metronidazolo […] per via vaginale […] non indicano un aumento del rischio riproduttivo di base. anche l’uso negli altri periodi della gravidanza non ha evidenziato effetti dannosi per il neonato […] l’osservazione di czeizel non trova […] conferma [ma] […] non dovrebbe essere trascurata in futuri studi sull’argomento” [23]. il profilo di sicurezza dell’utilizzo di clotrimazolo in gravidanza, in particolare in formulazione topica per uso vaginale, è per giudizio unanime molto buono, tanto che dall’aifa viene incluso nella lista dei “farmaci di scelta” in gravidanza. il rischio di danneggiamento del feto con l’utilizzo topico di clotrimazolo e metronidazolo è dunque trascurabile o nullo, mentre vi sono dati che indicano l’utilità del trattamento delle infezioni vaginali in gravidanza con clotrimazolo e/o metronidazolo, sebbene si trovino anche studi dai risultati discordanti. czeizel e collaboratori hanno pubblicato una serie di studi [24-26] sulla relazione tra utilizzo di clotrimazolo in gravidanza ed esiti fetali, basandosi sull’analisi dell’ampio database del registro ungherese delle nascite. in tutti gli studi emerge un’associazione tra l’utilizzo di clotrimazolo in gravidanza e la riduzione delle nascite pre-termine: nel più ampio e recente di questi studi, che include i dati di 38.151 neonati, la durata gestazionale è risultata mediamente maggiore nelle donne esposte al trattamento, con una riduzione significativa (34-64%) dell’incidenza di parti pre-termine [24]. i dati sull’utilizzo del metronidazolo sono meno concordi. in uno studio di klebanoff e coll. è stato osservato un aumento dei parti pre-termine nelle donne trattate con metronidazolo per tricomoniasi vaginale asintomatica, ma confermata con coltura, rispetto alle pazienti trattate con placebo, pur senza differenze in termini di rottura precoce delle membrane, infezioni intra-amniotiche o endometriosi post-partum [27]. i risultati di questo studio sono in contrasto con quelli di due studi precedenti: hauth e coll. [28] avevano documentato una riduzione delle nascite pre-termine in gestanti ad elevato rischio di parto pre-termine con vaginosi batterica trattate con metronidazolo ed eritromicina durante il secondo trimestre, rispetto ai controlli non trattati (49% vs 31% prima della 37a settimana); morales e coll. avevano ottenuto risultati analoghi in uno studio condotto su 80 gestanti con precedente parto pre-termine e vaginosi batterica documentata, di cui la metà trattata con metronidazolo e metà con placebo. nel gruppo assegnato al trattamento attivo, si sono verificati meno parti prima della 37a settimana e meno nascite di neonati di peso inferiore ai 2.500 g [29]. conclusioni le infezioni vulvo-vaginali rappresentano la patologia ginecologica più frequentemente osservata nella pratica clinica. nella donna non gestante, si tratta di una patologia generalmente benigna, per quanto possa risultare in un marcato peggioramento della qualità di vita, per l’interferenza con le attività sessuali e la sintomatologia assai fastidiosa. nella donna in stato di gravidanza, a questi problemi si aggiunge il rischio di complicazioni ostetriche e perinatali, segnatamente l’infezione corio-amniotica, con possibile rottura precoce delle membrane, travaglio precoce, parto pre-termine e basso peso alla nascita. d’altro canto, la scelta di effettuare un trattamento farmacologico in gravidanza è un momento decisionale particolarmente complicato e richiede la rigorosa 27 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) l. pradelli valutazione del rapporto di rischio/beneficio. l’uso dei farmaci in gravidanza, come noto, è infatti complicato dal continuo scambio tra sangue materno e fetale a livello placentare, analogo a quello che si verifica attraverso altre membrane biologiche e dalla particolare suscettibilità dell’embrione/feto alla tossicità. la consueta ponderazione del rapporto tra rischi e benefici, cardine della pratica clinica, nel caso di gravidanza deve tenere in maggiore considerazione gli aspetti qualitativi del rischio, per quanto rarissimo. è evidente che nessun farmaco è completamente sicuro, ma esistono comunque regole pratiche di buon senso a cui attenersi nella scelta del farmaco in gravidanza: evitare la prescrizione di farmaci inutili; utilizzare, a parità di presunti effetti teratogeni, la terapia più efficace: ogni farmaco di non dimostrata efficacia ha un bilancio   di rischio/beneficio sfavorevole, per quanto remoto sia il rischio; prescrivere, nell’ambito della medesima classe terapeutica, i farmaci presenti sul mercato da più tempo e dunque con maggior numero di esposizioni precedenti. nella terapia delle vaginosi in gravidanza, la disponibilità di molecole efficaci, consolidate e somministrabili per via topica rappresenta quindi una valida e sicura opzione terapeutica. dall’esame della letteratura scientifica disponibile, si può concludere affermando che il rapporto rischio/beneficio dell’utilizzo vaginale di clotrimazolo e metronidazolo è adeguato anche nelle donne in stato di gravidanza affette da patologia infettiva vulvo-vaginale, nelle quali è in grado di dare sollievo dalla sintomatologia senza esporre a rischi il nascituro, se non addirittura riducendo il rischio di complicazioni perinatali e ostetriche.  punti chiave il metronidazolo è incluso nella categoria b della scala utilizzata dalla fda statunitense della sicurezza in gravidanza: si tratta quindi di una molecola che, nonostante manchino studi adeguati e ben condotti su donne in gravidanza, non mostra evidenza di danni al feto. studi multipli e meta-analisi non hanno dimostrato associazione tra metronidazolo usato durante la gravidanza e effetti teratogenici o mutagenici sul bambino. il profilo di sicurezza di clotrimazolo in gravidanza è per giudizio unanime molto buono, tanto che l ’aifa, anche sulla base dei dati adec, fass, wgz e dei cdc americani, lo ha incluso nei farmaci di scelta in gravidanza. in conclusione, nelle donne in gravidanza affette da patologia infettiva vulvo-vaginale, l’uso vaginale di clotrimazolo e metronidazolo è adeguato per dare sollievo alla sintomatologia senza esporre a rischi il nascituro.   28 clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati trattamento delle infezioni vaginali in gravidanza con metronidazolo e clotrimazolo topici bibliografia 1 cdc. sexually transmitted diseases treatment guidelines 2006. morbid mortal wkly rep 2006; 55: 1-93 2 duhm b, maul w, medenwald h et al. pharmacokinetics of bis-phenyl-(2-chloro-pheyl)10imidazolyl-methane-14 c after topical application. arzneimittelforschung 1972; 22: 1276 3 burgess ma, bodey gp. clotrimazole: in vitro and clinical pharmacological studies. antimicrob agents chemother 1972; 2: 423 4 sawyer pr, brogden rn, pinder rm et al. clotrimazole: a review of its antifungal activity and therapeutic efficacy. drugs 1975; 9: 424-47 5 menz hp, teltscher u, bayer c et al. pharmacokinetics of clotrimazole, an oral 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econazole and clotrimazole. curr ther res 1979; 25: 590 13 bennett wm, aronoff gr, golper ta et al. drug prescribing in renal failure: dosing guidelines for adults. philadelphia: american college of physicians, 1994 14 jensen jc, gugler r. interaction between metronidazole and drugs eliminated by oxidative metabolism. clin pharmacol ther 1985; 37: 407-10 15 taylor fr, rodriguez rj, parks lw. relationship between antifungal activity and inhibition of sterol biosynthesis in miconazole, clotrimazole, and 15-azasterol. antimicrob agents chemother 1983; 23: 515-21 16 knight rc, skolimowski im, edwards di. the interaction of reduced metronidazole with dna. biochem pharmacol 1978; 27: 2089-93 17 kagan bm. antimicrobial therapy. philadelphia: wb saunders co, 1980 18 kucers a, bennett nm. the use of antibiotics: a comprehensive review with clinical emphasis, 4th edition. philadelphia: lippincott, 1988, p. 585-1436 19 freeman cd, klutman ne, lamp kc. metronidazole. a therapeutic review and 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perinat epidemiol 1999; 13: 58-64 27 klebanoff ma, carey jc, hauth jc et al. failure of metronidazole to prevent preterm delivery among pregnant women with asymptomatic trichomonas vaginalis infection. n engl j med 2001; 345: 487-93 29 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) l. pradelli 28 hauth jc, goldenberg rl, andrews ww et al. reduced incidence of preterm delivery with metronidazole and erythromycin in women with bacterial vaginosis. n engl j med 1995; 333: 1732-6 29 morales wj, schorr s, albritton j. effect of metronidazole in patients with preterm birth in preceding pregnancy and bacterial vaginosis: a placebo-controlled, double-blind study. am j obstet gynecol 1994; 171: 345-9 clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 123 gabriella gallone 1 un “inspiegabile” problema di aborto ricorrente caso clinico la signora nc, di 35 anni, giunge alla nostra osservazione inviata del ginecologo curante per problemi di abortività. la paziente ha iniziato la ricerca di prole da circa cinque anni. ha concepito tre volte ma tutte le gravidanze si sono interrotte spontaneamente tra la decima e la dodicesima settimana. all’anamnesi personale non emergono elementi di rilievo: la paziente ha sempre goduto di buona salute, non ha mai subito interventi chirurgici e non assume farmaci in modo abituale. svolge una moderata attività fisica. non fuma, non assume sostanze stupefacenti e consuma occasionalmente modiche quantità di bevande alcoliche. il peso corporeo è nella norma (bmi = 21) e stazionario nel tempo. il menarca è comparso all’età di 12 anni e i cicli mestruali sono sempre stati regolari come ritmo, intensità e durata. su indicazione del ginecologo, la paziente è già stata sottoposta ai test di screening per abortività ricorrente: cariotipo su sangue abstract thyroid autoimmunity (tai) appears to be a determining factor in pregnancy loss. many studies have confirmed this association, not only in hypoand hyperthyroid women but also in euthyroid ones. the main risk associated with tai is the occurrence of maternal hypothyroidism, with its potential deleterious effects for both the mother and fetus. we report a case of a 35-years-old woman with a history of habitual abortion. after diagnosis of tai with normal thyroid function and treatment with levothyroxine, the patient became pregnant. after a normal pregnancy without problems, she gave birth of normal fetus at 39’ weeks gestation. keywords: thyroid autoimmunity, fertility, miscarriage, levothyroxine an “inexplicable” problem of habitual abortion. cmi 2007; 1(3): 123-128 1 s.c. endocrinologia, a.o. ordine mauriziano, ospedale umberto i, torino perché descriviamo questo caso? la tireopatia autoimmune è una patologia ad alta prevalenza, soprattutto nel sesso femminile. può essere una causa, spesso misconosciuta, di difficoltà di concepimento e poliabortività. abbiamo descritto questo caso per sensibilizzare il medico di medicina generale, l ’internista e il ginecologo a ricercare la presenza della malattia in tutte le donne con problemi di fertilità e garantirne l ’adeguato trattamento in caso di evidenza diagnostica. una sottostima del problema può determinare, oltre al rischio di complicanze gestazionali, aborto, parto prematuro e alterazioni dello sviluppo neurologico del feto periferico, dosaggio di fsh, lh e prl in 5a giornata del ciclo, progesterone in 5ª, 7ª, 9ª giornata dal nadir termico, tsh, ft4, c3, c4, fibrinogeno, aptt, proteina c, proteina s, apcr, omocisteina, anticorpi caso clinico corresponding author dott.ssa gabriella gallone gabriella.gallone@fastwebnet.it clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 124 un “inspiegabile” problema di aborto ricorrente anti-fosfolipidi (aca), ricerca lac e antibeta 2 glicoproteina ii, anticorpi anti-dna e anti-nucleo (ena, ana), anticorpi antitiroide (abtg e abtpo), batteriologico vaginale completo con ricerca di chlamydia e mycoplasma e anticorpi anti-chlamydia, ecografia transvaginale, isterosalpingografia con biopsia endometriale. tutti gli esami sono risultati nella norma. anche gli accertamenti eseguiti sul partner non hanno evidenziato dati patologici. fra gli esami eseguiti emerge soltanto una modesta positività (90 mu/ml) degli anticorpi anti perossidasi tiroidea (abtpo) con test di funzionalità tiroidea nella norma: tsh = 4,1 mu/l (v.n. = 0,3-4,5) e ft4 = 8,9 pg/ml (v.n. = 6,6-15,5). per questo motivo il ginecologo indirizza la paziente al nostro dipartimento chiedendo di valutare una possibile causa tiroidea dell’abortività. all’esame obiettivo la signora si presenta in ottime condizioni generali (pa = 120/70 mmhg, fc = 72 battiti/min, ritmico). la tiroide è, alla palpazione, di dimensioni regolari, ma di consistenza modicamente aumentata. non sono apprezzabili all’esame clinico nodulazioni o adenopatie satelliti. domande da porre alla paziente ha eseguito in passato altri esami alla tiroide? sono noti casi di malattie tiroidee in famiglia? sono noti casi di malattie autoimmuni in famiglia? la paziente non ricorda di avere mai eseguito in passato test di funzionalità tiroidea. non sono noti casi di tireopatia in famiglia. il padre è affetto da diabete di tipo 2. alla sorella, affetta da vitiligine, è stata recentemente formulata diagnosi di celiachia. domande da porsi i dati in mio possesso consentono di porre diagnosi di tireopatia? può sussistere una correlazione tra la presenza di abtpo e l ’infertilità? devo richiedere ulteriori accertamenti? devo impostare una terapia? 1. 2. 3. 1. 2. 3. 1. 2. 3. 4. la presenza di abtpo, il valore di tsh e di ft4 ai limiti della norma, insieme alla consistenza modicamente aumentata della ghiandola, sono suggestivi per la diagnosi di tireopatia autoimmune (tai) eucrina. l’ipotesi di una correlazione tra tai e sindrome dell’aborto ricorrente (asr) è stata ampiamente ipotizzata e alcuni recenti lavori sembrano suffragarne la fondatezza. è opportuno verificare la positività degli abtpo con un secondo dosaggio e rivalutare i livelli di tsh e ft4. è inoltre indicato eseguire un esame ecografico della tiroide. se il risultato degli esami confermerà la diagnosi, si potrà valutare l’indicazione alla terapia con levo-tiroxina (l-t4) a basso dosaggio. gli esami di laboratorio eseguiti confermano la diagnosi di tireopatia autoimmune: tsh = 3,9 mu/l, ft4 = 8,9 pg/ml abtpo = 112 u/ml. l’ecografia tiroidea dimostra una ghiandola disomogenea, ipoecogena, con aspetti pseudonodulari e margini bozzuti (figura 1). dopo avere illustrato alla paziente le attuali conoscenze sui rapporti tra tai e ars e il rapporto rischio/beneficio della possibile terapia, si concorda il trattamento con l-t4 al dosaggio di 25 µg/die, programmando un controllo di tsh e ft4 dopo tre mesi dall’inizio del trattamento. dopo 40 giorni la paziente ci comunica la positivizzazione del test di gravidanza. il valore del tsh, immediatamente controllato, è di 3,7 mu/l. viene prescritto un aumento del dosaggio della l-t4 a 50 µg/die. i valori di tsh e ft4 vengono controllati ogni due mesi e il dosaggio del farmaco regolato in modo da mantenere il tsh tra 1 e 2 mu/l. la gravidanza evolve fisiologicamente e la paziente partorisce alla 39a settimana una figlia sana. il fabbisogno di l-t4 al momento del parto è di 75 µg/die. discussione l’aborto spontaneo precoce è un evento frequente e rappresenta la conclusione (spesso non riconosciuta dalla madre) di oltre il 30% delle gravidanze. l’incidenza di due 1. 2. 3. 4. clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 125 g. gallone aborti consecutivi è del 2-4%, mentre quella di tre aborti è inferiore all’1%. quando la donna presenta in anamnesi tre o più interruzioni spontanee di gravidanza consecutive con lo stesso partner entro la 20a settimana di gestazione, si configura la sindrome da aborto spontaneo ricorrente (asr o aborto abituale). nel corso degli anni l’aborto ricorrente è stato attribuito a diverse cause, che spesso concorrono in modo multifattoriale nel determinare l’evento abortivo. i fattori eziologici più importanti includono le anomalie anatomiche (15%), gli squilibri ormonali (20%), i fattori immunologici (20%), i disordini genetici (2-5%), le trombofilie (2%) e gli agenti infettivi (12%) [1]. nel 40-50% dei casi al termine dell’iter diagnostico non è possibile identificare una relazione tra uno dei fattori causali attualmente noti e l’asr e tale condizione è nota come abortività ricorrente sine causa o inspiegabile [2]. la metanalisi di studi caso-controllo e studi longitudinali pubblicata nel 2004 da prummel ha evidenziato che il rischio relativo di aborto è aumentato di circa 3 volte nelle donne con tai. l’evidenza di un’associazione non implica necessariamente una relazione causale e l’eziologia dell’aumentata incidenza di aborto in donne con tai rimane allo stato attuale non perfettamente chiarita. rimangono al momento aperte tre ipotesi. secondo la prima ipotesi la presenza di anticorpi antitiroidei rappresenterebbe un epifenomeno, che rifletterebbe un sottostante squilibrio autoimmune più generalizzato risultante in un rigetto fetale [3 ]. in base alla seconda ipotesi la presenza di tai potrebbe essere associata, nonostante l’apparente eutiroidismo, a un deficit relativo della concentrazione degli ormoni tiroidei o una minor capacità della funzione tiroidea ad adattarsi adeguatamente ai cambiamenti associati con la gravidanza, a causa di una riduzione delle riserve funzionali proprie delle tiroiditi autoimmuni [4]. la terza ipotesi sostiene che la maggiore frequenza di aborti nelle donne affette da tai potrebbe essere associata all’età di concepimento più avanzata [5]. queste tre ipotesi non sono in contraddizione tra loro e dimostrano come l’aumentato rischio di aborto associato a tai abbia un’origine multifattoriale e sia la risultante della combinazione di più fattori indipendenti. nelle donne in età riproduttiva la tireopatia autoimmune è la causa più frequente di ipotiroidismo primario (escluso cioè, quello iatrogeno, conseguente a trattamento chirurgico o radiometabolico). più raramente l’ipotiroidismo materno è associato alla presenza di anticorpi contro il recettore del tsh o consegue a una tiroidite post partum in donne con aborto recente, anche dopo interruzione molto precoce [6]. l’ipotiroidismo ha una prevalenza in gravidanza pari allo 0,3% se franco, cioè con valori aumentati di tsh e ridotti di ft4 e al 2,2% se subclinico, cioè con tsh modicamente aumentato e ft4 normale. gli anticorpi antitiroidei sono presenti in un numero maggiore di donne gravide con tsh elevato (58%) rispetto a quelle eucrine (11%). l’1-2% di donne che rimangono gravide assume già tiroxina per un pre-esistente ipotiroidismo [7]. numerosi studi confermano l’aumentato fabbisogno di tiroxina durante la gravidanza, dovuto a un aumento della concentrazione di globulina legante la tiroxina (tbg), a un incremento del volume tissutale, a una maggiore degradazione e trasporto placentare di t4 e a un’aumentata clearance renale dello iodio. la condizione di ipotiroidismo non trattato è legata a un rischio maggiore di complicanze ostetriche e fetali, quali ipertensione gravidica con o senza pre-eclampsia, distacco placentare, basso peso alla nascita, nascita di feto morto, malformazioni congenite ed emorragie post partum [8]. adeguati livelli di tiroxina sono indispensabili per l’adeguato sviluppo psicomotorio del nascituro. alcuni autori hanno, infatti, figura 1 l’ecografia dimostra tiroide ipoecogena, disomogenea, con margini bozzuti clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 126 un “inspiegabile” problema di aborto ricorrente dimostrato che, nei bambini nati da madre con livelli di ft4 al di sotto del 10° percentile alla 12a settimana di gestazione, i risultati dei test di sviluppo psicomotorio sono significativamente inferiori a quelli del gruppo di controllo [9,10]. in donne con ipotiroidismo noto l’incremento della posologia di l-tiroxina deve avvenire il prima possibile e comunque entro il primo trimestre di gestazione [11]. è stato sottolineato come tsh maggiore di 2,0 mu/l e/o titoli anticorpali abtpo maggiori di 1.250 u/ml prima delle 20 settimane siano indicativi della tendenza allo sviluppo di ipotiroidismo prima della fine gravidanza [4]. la presenza di abtpo rappresenta di per se stessa un rischio elevato di transizione dall’ipotiroidismo subclinico all’ipotiroidismo conclamato dopo l’inizio della gravidanza. le donne affette da tai hanno pertanto una elevata probabilità di divenire francamente ipotiroidee durante la gestazione, necessitando pertanto di un’adeguata supplementazione esogena di l-tiroxina. le indicazioni a somministrare l-t4 alle pazienti con problemi di infertilità affette da tireopatia autoimmune eucrina sono peraltro state oggetto, in passato, di numerose obiezioni, soprattutto per la mancanza di studi controllati. importanti informazioni sono state rese disponibili dai lavori recentemente pubblicati da roberto negro e dal suo gruppo [12,13]. gli autori hanno confrontato l’evoluzione della gravidanza (spontanea o dopo fecondazione assistita) in pazienti affette da tai trattate o non trattate con l-t4. le pazienti che avevano assunto il farmaco dimostrarono una diminuita incidenza di aborti e parti prematuri rispetto al gruppo di controllo. pur in assenza di un’indicazione unanimemente condivisa a trattare le pazienti affette da tai con rischio di ipotiroidismo subclinico durante la gestazione, si può affermare che la somministrazione di l-t4 non può essere considerata dannosa, mentre esistono evidenze del fatto che ne possono trarre beneficio sia la madre sia il bambino [4]. conclusioni la tai è una patologia ad alta prevalenza, soprattutto nella popolazione femminile. nella maggior parte dei soggetti è, almeno nei primi anni di malattia, completamente asintomatica. anche in situazione di eutiroidismo e in assenza di sintomatologia, la tai può inoltre essere causa di abortività. il dosaggio del tsh e degli abtpo può pertanto essere indicato in tutte le pazienti che ricercano una gravidanza e che, per storia personale o familiare, siano da considerarsi a rischio di malattia. le linee guida nazionali e internazionali non sono al momento concordi sull’indicazione di eseguire questi esami in tutte le donne con desiderio di prole. è stato proposto il dosaggio di tsh e ft4 in tutte la gravide tra la 12a e la 20a settimana di gestazione al fine di evidenziare la presenza di tai e/o ipotiroidismo misconosciuti (vedi algoritmo finale) [8]. tale approccio però non consente di evidenziare deficit di t4 proprio nella fase più precoce della gravidanza, quando adeguati livelli dell’ormone sono indispensabili per il normale sviluppo neurologico del nascituro. sulla base delle attuali conoscenze è doveroso indagare la presenza di tai in tutte le donne in età fertile che presentano una positività anamnestica personale o familiare o una storia di abortività. in considerazione dell’elevato rischio di inadeguata funzione tiroidea in corso di gestazione, molti autori concordano sulla indicazione di intraprendere una terapia con l-t4 a basso dosaggio in tutte le donne con tsh > 2mu/l e/o abtpo significativamente positivi, con problemi di asr. dopo il concepimento, i valori di tsh e ft4 dovranno essere controllati, salvo modificazioni del quadro clinico, ogni due mesi, regolando il dosaggio di l-t4 in modo da mantenere il tsh nei limiti di norma (analogamente a quanto raccomandato per le donne con ipotiroidismo già noto all’inizio della gravidanza). la terapia con l-t4 non controindica l’allattamento se i livelli ematici materni sono mantenuti nell’ambito della normalità. i valori di tsh e ft4 della madre dovranno comunque essere monitorati uno, tre e sei mesi dopo il parto. in questo periodo, infatti, il fabbisogno di l-t4 può modificarsi in modo significativo sia per il venir meno delle modificazioni fisiologiche legate allo stato gravidico, sia per la possibilità di variazioni spontanee della funzionalità tiroidea, talora con rapide fluttuazioni tra ipotiroidismo e ipertiroidismo. è stata segnalata una possibile correlazione tra tai (anche con funzione tiroidea normale) e depressione post partum, che si clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 127 g. gallone manifesterebbe con “sintomi depressivi” piuttosto che con depressione maggiore o psicosi [16]. sono predittivi di questo problema la positività degli abtpo alla 12a settimana di gestazione e livelli di ft4 ai limiti inferiori alla norma alla 38a settimana. le donne affette da tai, soprattutto se con anamnesi personale o familiare positiva per disturbi dell’umore, andranno sorvegliate, nelle prime settimane dopo il parto, per rilevare l’insorgenza di depressione e, se necessario, impostare l’adeguata terapia psicofarmacologica. i messaggi “da portare a casa” la tireopatia autoimmune eucrina è spesso misconosciuta e può essere causa di abortività le donne con tsh > 2 mu/l e/o abtpo positivi prima del concepimento hanno un elevato rischio di sviluppare ipotiroidismo durante la gravidanza un’adeguata concentrazione di t4 è indispensabile per la normale evoluzione della gravidanza e per lo sviluppo neurologico del feto la terapia con l-t4 deve essere regolata in modo da mantenere il tsh nella norma e la ft4 in range per l ’età gestazionale le donne affette da tai devono essere sorvegliate nei primi mesi dopo la gravidanza per un aumentato rischio di depressione post partum      per chi vuol saperne di più... glinoer d. thyroid regulation and dysfunction in the pregnant patient. in: thyroid disease manger. south dartmouth: endocrine education inc, 2006. disponibile su www.thyroidmanager.org aa.vv. tiroide e gravidanza. linee guida nazionali di riferimento. roma: piano nazionale linee guida, 2005   algoritmo proposto da glinoer per lo screening di tai e ipotiroidismo in corso di gravidanza [8] dosaggio di abtpo, tsh e ft4 tra la 12a e la 20a settimana se abtpo negativi se abtpo positivi e/o tsh > 2 mu/l se abtpo positivi e tsh 2-4 mu/l se tsh > 4 mu/l o ft4 < ai livelli normali non fare nulla non fare nulla, ma controllare tsh e ft4 al 6° mese e seguire nel post partum se ft4 bassa per l’età gestazionale se abtpo positivi e/o tsh > 2 mu/l trattare con l-t4 e seguire nel post partum clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 128 un “inspiegabile” problema di aborto ricorrente bibliografia 1. american college of obstetricians and gynecologists (acog). management of recurrent early pregnancy loss. washington: american college of obstetricians and gynecologists, 2001 2. patriarca a, piccioni v, gigante v, parise g, benedetto c. recurrent spontaneous abortion: etiologic factors. panminerva med 2000; 42: 105-8 3. stewart-akers am, krasnow js, brekosky j, deloia ja. endometrial leukocytes are 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hashimoto’s thyroiditis. in: thyroid disease manger. south dartmouth: endocrine education inc, 2003. disponibile su www.thyroidmanager.org 16. lucas a, pizzarro e, granada ml. postpartum thyroid dysfunction and postpartum depression: are they two linked disorders? clin endocrinol 2001; 55: 809-14 ringraziamenti l’autrice ringrazia i colleghi della u.o.a di endocrinologia dell ’ospedale mauriziano “umberto i” di torino e del dipartimento di discipline ginecologiche e ostetriche dell ’università degli studi di torino che hanno collaborato e collaborano con competenza e passione allo studio dei rapporti tra patologia tiroidea e riproduzione. cmi 2014;8(1)5-10.html remissione della psoriasi dopo bypass gastrico: un caso clinico ornella de pità 1, francesca lupi 1, giuseppe cianchini 1 1 istituto dermopatico dell’immacolata-irccs, roma abstract case reports suggest that gastric bypass surgery in patients with psoriasis may result in complete remission of the disease. a substantial weight loss is achieved in the months following surgery, which is likely to reduce psoriasis symptoms and risk of comorbidities. a 50-year-old man was followed in our department for several years. he had severe plaque psoriasis requiring superpotent topical steroids and methotrexate. his medical history included morbid obesity (138 kg), dyslipidemia , hypertension, and positive family history for psoriasis. he underwent gastric bypass surgery on november 2011. eight months later, his weight decreased to 86 kg, and he noted a marked improvement in his psoriasis, with reduction of body surface area involvement. in our opinion weight loss may be a useful adjunctive therapy for obese patients with psoriasis. keywords: psoriasis; gastric bypass surgery; obesity psoriasis remission after gastric bypass surgery: a case report cmi 2014; 8(1): 5-10 caso clinico corresponding author dott. ssa francesca lupi adoi – associazione dermatologi ospedalieri italiani istituto dermopatico dell’immacolata-irccs via monti di crea 104, roma tel. 0666464760 cell. + 39 3490858313 francesca.lupi@virgilio.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo perché descriviamo questo caso la psoriasi viene oramai considerata una malattia multi-organo, pertanto per un migliore approccio alla terapia è necessario valutare tutte le comorbilità associate. l’obesità rappresenta senza dubbio un fattore aggravante la malattia, pertanto una riduzione del peso, nelle sue forme più gravi anche con intervento chirurgico, può essere un valido ausilio alla terapia introduzione la psoriasi è una malattia immuno-mediata, caratterizzata da una iperproliferazione di cheratinociti nell’epidermide con un aumento del turnover cellulare [1]. colpisce circa il 2-3% della popolazione generale, con una predilezione per il sesso femminile. clinicamente è caratterizzata dalla presenza di placche eritemato-squamose che possono essere accompagnate da prurito. le manifestazioni cutanee possono essere associate a coinvolgimento ungueale e articolare. la maggior parte dei pazienti è affetta da forme lievi di psoriasi che possono essere trattate con terapia topica (steroidi e derivati della vitamina d) e fototerapia [2]. tuttavia circa il 20% dei pazienti manifesta delle forme più gravi, pertanto è necessario ricorrere a una terapia sistemica (ciclosporina, acitretina, metotrexato, farmaci biologici). numerosi lavori presenti in letteratura suggeriscono che nella gestione della malattia debbano essere considerati non solo la cute, le unghie e le articolazioni, ma anche tutte le comorbilità che possono essere associate. in particolare è oramai ben noto come l’obesità rappresenti un fattore di rischio per la psoriasi e come la gravità della malattia sia associata al grado di obesità [3]. diversi studi hanno riscontrato un’associazione tra l’obesità e l’infiammazione cronica. tale infiammazione cronica potrebbe contribuire allo sviluppo o al peggioramento della psoriasi [3,4]. inoltre i pazienti obesi affetti da psoriasi sono più difficili da trattare e hanno un rischio maggiore di sviluppare dislipidemia, diabete, ipertensione e malattie cardiovascolari. alcuni casi clinici presenti in letteratura suggeriscono come una sostanziale perdita di peso successiva a bypass gastrico determini un miglioramento della psoriasi [5,6]. caso clinico descriviamo il caso di un uomo di 50 anni giunto alla nostra osservazione nel mese di ottobre del 2010 poiché affetto da una forma grave di psoriasi associata da circa un anno a dolori articolari soprattutto a livello delle ginocchia. in passato aveva effettuato solo terapie topiche con corticosteroidi e derivati della vitamina d con discreto beneficio, ma negli ultimi mesi riferiva un notevole peggioramento, pertanto la terapia locale era del tutto inefficace. all’anamnesi risultava una familiarità per psoriasi (padre). inoltre il paziente era affetto da ipertensione arteriosa da circa 10 anni trattata con ace-inibitori, dislipidemia e obesità grave (138 kg). all’esame obiettivo si osservavano numerose chiazze eritemato-squamose agli arti superiori e inferiori, alcune confluenti in placche che coprivano pressoché tutto il tronco (figura 1), con un punteggio pasi (psoriasis area severity index) di 40,3. figura 1. immagini relative al paziente al momento della presentazione: si possono notare chiazze eritemato-squamose diffuse, alcune confluenti in placche il pasi è un indice dermatologico introdotto alla fine degli anni settanta per monitorare l’efficacia dei trattamenti utilizzati per la cura della psoriasi. la valutazione di alcuni parametri inerenti estensione, desquamazione, eritema, ispessimento e gravità delle manifestazioni psoriasiche fornisce un punteggio, variabile da 0 (assenza di psoriasi) a 72 (valore massimo, psoriasi grave). sulla base della sintomatologia clinica e articolare abbiamo deciso di eseguire una serie di indagini ematochimiche-strumentali per intraprendere una terapia sistemica mirata. gli esami ematici mettevano in evidenza un aumento del colesterolo e dei trigliceridi; anche la ves e la pcr (tabella i) risultavano lievemente aumentate, mentre l’assetto epatico era nella norma. valori riscontrati range di normalità colesterolo totale (mg/dl) 270 0-230 trigliceridi (mg/dl) 220 0-200 ves (mm/ora) 27 0-20 pcr (mg/l) 13,4 0-5 tabella i. risultati degli esami ematici del paziente alla sua presentazione pcr = proteina c reattiva; ves = velocità di eritrosedimentazione l’ecografia articolare delle ginocchia mostrava un lieve versamento, mentre l’ecografia epatica metteva in luce una steatosi. in considerazione dei risultati delle indagini svolte decidemmo di iniziare una terapia sistemica con metotrexato 10 mg/settimana associato a folina 5 mg/settimana. dopo 4 mesi il paziente tornava presso i nostri ambulatori per sottoporsi a un controllo clinico e agli esami ematochimici e lamentando una stazionarietà delle manifestazioni cutanee associate a prurito e disagio psichico notevoli. il pasi era pressoché invariato, con un valore di 37,8. dopo aver effettuato ulteriori indagini (quantiferon: negativo; rx torace: nella norma; ana: negativi), ritenemmo opportuno associare un farmaco biologico (infliximab 100 mg 5 fiale secondo lo schema terapeutico). dopo 6 mesi le manifestazioni cliniche erano migliorate con persistenza di alcune chiazze a livello del dorso, dei gomiti e delle ginocchia e una significativa riduzione del pasi a 12,7. nel mese di novembre del 2011, in seguito a una visita gastroenterologica il paziente decideva di sottoporsi a un intervento di bypass gastrico per ridurre il peso. a 8 mesi dall’intervento il paziente è andato incontro a una riduzione in peso di 52 kg e ha sospeso la terapia con infliximab, mantenendo solo quella con metotrexato 10 mg/settimana (trattamento che assume tuttora), con risoluzione del quadro clinico e assenza di dolore articolare (figura 2). figura 2. immagini relative al paziente 8 mesi dopo l’intervento di bypass gastrico domande da porsi di fronte a questo caso quali sono le comorbilità del paziente con psoriasi grave? è presente obesità? se sì, può avere un ruolo nello scatenamento/aggravamento della psoriasi? la riduzione del peso può essere d’ausilio alla terapia farmacologica? discussione l’obesità è più comune nei pazienti affetti da psoriasi e i pazienti obesi affetti da psoriasi generalmente hanno forme più gravi [7]. nel caso da noi descritto il paziente affetto da psoriasi e da obesità ha ottenuto un notevole miglioramento del quadro clinico dopo essersi sottoposto a intervento di bypass gastrico. il bypass gastrico (bpg) roux-en-y laparoscopico è ad oggi considerato l’intervento gold standard per il trattamento dell’obesità patologica [2]. non è ancora molto chiara la ragione della sua efficacia, trattandosi di una procedura in parte con azione malassorbitiva e in parte restrittiva. il malassorbimento consente all’organismo di assorbire solo una parte delle calorie ingerite. l’azione malassorbitiva generata dal bpg è blanda e pertanto consente di ridurre il deficit di assorbimento vitaminico e le scariche diarroiche caratteristiche degli interventi malassorbitivi puri quali la derivazione bilio-pancreatica e il duodenal-switch. l’azione restrittiva è garantita dalla creazione di una tasca gastrica di piccolo volume in grado di contenere solo limitate quantità di cibo. verosimilmente molti altri meccanismi non ancora conosciuti sono chiamati in causa nel bpg: probabilmente un ruolo importante è giocato da sostanze biomolecolari che regolano i centri della sazietà. questo tipo di intervento si è dimostrato efficace non solo nel perdere peso, ma anche nel mantenerlo, nonostante a distanza di diversi anni alcuni pazienti che non si attengono alle regole nutrizionali e comportamentali recuperino parte del peso perso. inoltre si è visto come il bpg risulti un intervento estremamente efficace non solo per la perdita del peso ma anche per la riduzione delle comorbilità legate al problema dell’obesità. alcuni casi clinici sono stati riportati recentemente in letteratura riguardo al miglioramento della psoriasi in pazienti obesi dopo intervento di bpg [2,6]. l’obesità e la sindrome metabolica sono associati ad alti livelli di tumor necrosis factor (tnf)-α, che gioca un ruolo importante nell’infiammazione cronica riscontrata nelle chiazze di psoriasi [8,9]. il tessuto adiposo può secernere tnf-α e il tessuto adiposo di un paziente obeso produce 2,5 volte più rna messaggero del tnf-α rispetto a quello prodotto dal tessuto adiposo di un paziente sano [10]. la perdita di peso dopo bpg determina una riduzione del tnf-α prodotto dal tessuto adiposo. il miglioramento della psoriasi potrebbe coinvolgere anche la leptina, una proteina secreta dagli adipociti [11,12] che gioca un ruolo nella soppressione dell’appetito [13]. i livelli di leptina sono più alti nei pazienti obesi e sono direttamente correlati con la percentuale di grasso nel corpo, suggerendo che gli obesi sono “insensibili” alla leptina endogena [14]. alcuni studi hanno dimostrato che i livelli di leptina sono più alti nei pazienti con psoriasi rispetto ai soggetti sani [15,16] e in particolare sono più alti nei pazienti con psoriasi grave rispetto a quelli con psoriasi lieve [17]. i livelli di leptina diminuiscono con la perdita di peso, inclusa quella successiva a bpg [18]. inoltre la leptina ha un ruolo importante sul sistema immunitario e sull’attività dei linfociti t, favorendo lo shift a t-helper 1 (riscontrati nei pazienti con psoriasi) mentre sopprime i th2 [19]. in particolare, essendo la leptina una citochina, promuove la secrezione di interleuchina1 e del tnf-α, e ha quindi un’azione simile ad altre citochine infiammatorie [20]. conclusioni in conclusione, d’accordo con altri lavori presenti in letteratura [2,6] riteniamo che la perdita di peso possa avere un ruolo importante nel trattamento dei pazienti obesi affetti da psoriasi, mediante la riduzione dei livelli di tnf-α e/o di leptina. studi clinici specifici sono tuttavia necessari per dimostrare l’effettiva utilità della perdita di peso come intervento terapeutico aggiuntivo ai farmaci tradizionali per il trattamento della psoriasi. punti chiave l’obesità può essere un fattore aggravante la psoriasi la cura dell’obesità grave mediante intervento di bypass gastrico può essere d’ausilio nel miglioramento del quadro clinico di psoriasi, probabilmente grazie a: riduzione del tnf-α e di conseguenza riduzione dell’infiammazione cronica riscontrata nelle chiazze di psoriasi; riduzione dei livelli di leptina a cui consegue un’ulteriore diminuzione dei livelli di tnf-α algoritmo terapeutico della psoriasi [21] anti-tnf = anti-tumour necrosis factor; mtx: metotrexato; puva: psoralene + uva bibliografia 1. nestle fo, kaplan dh, barker j. psoriasis. n engl j med 2009; 361: 496-509; 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guidelines of care for the management of psoriasis and psoriatic arthritis: section 6. guidelines of care for the treatment of psoriasis and psoriatic arthritis: case-based presentations and evidence-based conclusions. j am acad dermatol 2011; 65: 137-74; http://dx.doi.org/10.1016/j.jaad.2010.11.055 clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 17 umberto volta 1,2, claudia parisi 1, maria piscaglia 1, angela fabbri 1, erica fiorini 1 malattia celiaca, sintomi intestinali atipici e patologie autoimmuni caso clinico la signora g.a. di anni 42, di professione insegnante, viene inviata, nel maggio 2005, al nostro ambulatorio di epatogastroenterologia per il riscontro di lievi alterazioni degli indici di citonecrosi e colestasi epatica e per una sintomatologia caratterizzata da stipsi e lieve anemia sideropenica. dall’anamnesi non emergono patologie degne di nota, se si eccettua una diagnosi di psoriasi all’età di 25 anni, attualmente in fase di remissione. la paziente non è fumatrice e non consuma, se non occasionalmente, bevande alcoliche. non vi è familiarità per malattie epatiche, ha avuto il menarca a 15 anni, una gravidanza a termine e non riferisce aborti; i cicli mestruali sono tuttora regolari per ritmo, intensità e durata. l’alvo si caratterizza per una stipsi ostinata con una evacuazione in media ogni 3 giorni. la paziente non assume nessuna terapia domiciliare. l’esame obiettivo è sostanzialmente negativo. la donna presenta un indice di massa abstract we report a case of a 42-years-old woman with constipation, anemia and recurrent itch. after several investigations, celiac disease was diagnosed and a treatment with a gluten-free diet was applied with beneficial effects. recognizing celiac disease can be difficult because some of its symptoms are similar to those of other diseases. in fact, sometimes it is confused with irritable bowel syndrome or iron-deficiency anemia or intestinal infections: as a result, celiac disease is commonly underdiagnosed or misdiagnosed. this case report is described to address the physician to a correct diagnosis of celiac disease. keywords: celiac disease, gluten celiac disease, rare symptoms, autoimmune patology. cmi 2008; 2(1): 17-24 1 dipartimento di malattie dell’apparato digerente e medicina interna, azienda ospedaliero-universitaria di bologna, policlinico s. orsola-malpighi, bologna 2 responsabile ambulatorio per la diagnosi, follow-up e studio delle complicanze della malattia celiaca, centro di riferimento regionale, policlinico s.orsola-malpighi, bologna. professore di diagnostica immunopatologica, scuola di specializzazione in medicina interna, università di bologna. presidente dei consulenti scientifici nazionali dell’associazione italiana celiachia (a.i.c.) consulente scientifico regionale a.i.c emiliaromagna corporea nella norma (peso = 50 kg, altezza = 1,60 m, bmi = 19,5). il margine inferiore epatico è palpabile a 2 cm dall’arcata costale a livello del lobo sinistro, di consistenza parenchimatosa, regolare; non è presente spenomegalia. assenti anche spider naevi, flapping tremor, eritema palmare e subittero sclerale. caso clinico corresponding author dott. umberto volta uvolta@orsola-malpighi. med.unibo.it perché descriviamo questo caso? per sensibilizzare i medici verso la diagnosi di malattia celiaca, una condizione che non va ricercata solo in presenza di sindrome da malassorbimento, ma anche in presenza di sintomi intestinali atipici (stipsi), di manifestazioni extraintestinali (anemia sideropenica) e di patologia autoimmune, che può essere presente ad uno o più livelli (con particolare riguardo alle malattie autoimmuni epatiche e tiroidee nelle quali la prevalenza di celiachia è intorno al 5%) clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 18 malattia celiaca, sintomi intestinali atipici e patologie autoimmuni la paziente viene sottoposta a indagini bioumorali che mostrano valori di hb ai limiti inferiori della norma (12,5 g/dl), con bassi valori di sideremia (40 µg/dl) e ferritina (14 ng/ml), e confermano la presenza di rialzo delle transaminasi glutammico-piruvica (2 x) e glutammico-ossalacetica (2 x), della fosfatasi alcalina (1,5 x) e della gamma-gt (2 x). nella norma risultano i valori della bilirubinemia totale e frazionata, gli indici di sintesi epatica (albuminemia, colinesterasi e attività protrombinica) e l’assetto metabolico; in particolare sono nella norma i valori di colesterolemia e trigliceridemia. è presente modesta ipergammaglobulinemia (γ-globuline = 1,6 g/dl; vn = 1,2 g/dl) con aumento delle igm (650 mg/dl; vn = 40-230). tutte le ricerche per virus epatici (igm anti-hav, hbsag, anti-hcv ) risultano negative, escludendo una eziologia virale alla base del rialzo degli enzimi epatici. l’ecografia mostra una ecostruttura epatica lievemente addensata, compatibile con una condizione di steatosi di grado lieve, e una linfoadenomegalia all’ilo epatico di verosimile natura reattiva. da una raccolta più accurata dell’anamnesi emerge il sintomo di prurito, che si presenta saltuariamente da un anno circa, diffuso a tutto il corpo. per escludere una patologia colestatica su base autoimmune viene eseguita la ricerca degli autoanticorpi non organo-specifici. tale esame rivela una positività per anticorpi antimitocondriali, marker di cirrosi biliare primitiva. alla luce anche di questo dato la paziente viene sottoposta a una biopsia epatica che evidenzia un’architettura conservata con moderata fibrosi a livello degli spazi portali e moderato infiltrato flogistico con discreta componente istiocitaria-macrofagica peri-duttale e granulomi epitelioidei. il preparato istologico mostra anche la presenza di neoduttuli con aspetti che nel complesso appaiono riferibili a cirrosi biliare primitiva in stadio 2 di scheuer. nell’ambito dello screening anticorpale per autoimmunità, la paziente risulta negativa agli anticorpi anti-insula pancreatica, anticellule parietali gastriche e anti-surrene, ma mostra positività per anticorpi antitiroide (antiperossidasi e antiteroglobulina) con significativo rialzo del tsh (10,5 µui/ml; vn = 0,27-4,20) e valori di ft3 e ft4 nella norma. l’ecografia della tiroide conferma la presenza di un processo tiroiditico, inquadrabile alla luce degli esami bioumorali in una condizione di tiroidite di hashimoto. la donna viene pertanto posta in terapia con acidi biliari al dosaggio consigliato per la cirrosi biliare primitiva (25 mg/kg) (acido ursodesossicolico 300 mg 2 + 2 cpr/die) e con levotiroxina 50 µg/die. la paziente ritorna nel nostro ambulatorio dopo 3 mesi per il peggioramento del prurito con esami bioumorali invariati per quanto riguarda il rialzo degli enzimi di citonecrosi e colestasi epatica, mentre risulta in calo evidente il valore dell’hb = 11 g/dl, sempre associata ad alterazioni dell’assetto marziale (ferritina = 10 ng/ml). in miglioramento risultano i valori del tsh, che permangono comunque elevati (tsh = 6,5 µui/ml). inoltre la donna riferisce anche peggioramento della stipsi. alla luce delle alterazioni bioumorali e del quadro clinico vengono pertanto eseguite le indagini sierologiche per malattia celiaca che evidenziano positività per anticorpi anti-endomisio di classe iga (positivi 1:320) e anti-transglutaminasi tissutale umana di classe iga (30,5 ua; vn < 7). la biopsia duodenale, eseguita in corso di esofagogastroduodenoscopia (egds), conferma la diagnosi di malattia celiaca mostrando un quadro di atrofia subtotale dei villi con rapporto villi/cripte 1:1 e un aumento dei linfociti intraepiteliali (lie) (60 lie/100 cellule epteliali; vn < 25/100), associato a marcata iperplasia delle cripte (lesione tipo 3c secondo la classificazione di marsh, modificata da oberhuber). viene anche eseguita una densitometria ossea a livello del rachide lombare e dei femori che mette in evidenza un quadro di osteopenia (t score = 1,68 a livello del femore, 2,1 a livello del rachide). viene instaurata dieta aglutinata e si consiglia alla paziente di iniziare trattamento con calcio e vitamina d dopo almeno 4 mesi di dieta aglutinata stretta. si conferma anche la terapia già in corso a base di acido ursodesossicolico e levotiroxina. al successivo controllo, effettuato 6 mesi dopo, la paziente presenta risoluzione della sintomatologia con scomparsa sia del prurito che della stipsi e con normalizzazione di tutti gli enzimi epatici (transaminasi, fosfatasi alcalina e gamma-gt). i valori dell’hb rientrano nella norma (13,2 g/dl) con sideremia normale (55 µg/dl), mentre bassi permangono i valori di ferritina (20 ng/ml). normalizzati risultano anche i valori del tsh, mentre permane la positività per anticorpi antitiroidei. dal punto di vista immunologico persiste positività per anticorpi antimitocondriali, mentre, a conferma della buona compliance alla dieta aglutinata, si ha la negativizzazione sia degli anticorpi clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 19 u. volta, c. parisi, m. piscaglia, a. fabbri, e. fiorini anti-endomisio che anti-transglutaminasi di classe iga. alla luce della normalizzazione degli enzimi epatici viene sospesa la terapia con acidi biliari per verificare se la dieta aglutinata da sola è in grado di controllare le alterazioni bioumorali epatiche della già documentata cirrosi biliare primitiva. il controllo degli enzimi epatici, programmato a distanza di 30 giorni, mostra rialzo di tutti gli indici sia di colestasi che di citonecrosi, inducendo a riprendere immediatamente il trattamento con acidi biliari in associazione alla dieta aglutinata. domande da porsi il danno epatico della cirrosi biliare primitiva (cbp) associata a celiachia è glutine-dipendente? la dieta aglutinata in caso di associazione fra celiachia e cbp, migliorando l ’assorbimento degli acidi biliari, somministrati per os, è in grado di favorire la normalizzazione degli indici di colestasi? la dieta aglutinata, oltre alla negativizzazione degli anticorpi antitransglutaminasi determina nei pazienti con cirrosi biliare primitiva associata a celiachia anche la negativizzazione degli anticorpi antimitocondriali, marker diagnostici di cbp? qual è la prevalenza di positività degli anticorpi antitiroidei nella malattia celiaca? la dieta aglutinata è in grado di proteggere il celiaco dall ’insorgenza della tiroidite autoimmune? qual è la forma di anemia più frequentemente associata alla celiachia?       discussione la celiachia è un’intolleranza alimentare cronica nei confronti del glutine, contenuto in alcuni cereali (in particolare frumento, segale, orzo, farro, kamut e, in minor quantità, avena) in grado di determinare, in soggetti geneticamente predisposti, un danno della mucosa dell’intestino tenue sotto forma di scomparsa dei villi intestinali [1]. negli ultimi anni la celiachia è andata incontro a una vera e propria metamorfosi, balzando al centro dell’attenzione del mondo scientifico e dei media per il continuo incremento delle diagnosi, che non sono più limitate alla prima infanzia, ma vengono effettuate sempre più spesso anche in età adulta e perfino geriatrica. grazie a studi di screening, compiuti su campioni di popolazione generale, oggi sappiamo che la celiachia è una patologia molto f requente con una prevalenza di un caso ogni 100 individui e con una distribuzione praticamente ubiquitaria nel mondo, dall’europa all’america, dall’oceania all’asia e all’africa. nel deserto del sahara, complici l’elevato consumo di couscous, ricco di glutine, e una genetica favorevole, è stata documentata una prevalenza di celiachia pari al 5%. le uniche parti del mondo in cui la celiachia sembra ancora una realtà sconosciuta sono la cina, la malesia, le filippine e l’indonesia, aree ove notoriamente il consumo di cereali con glutine è molto scarso. peraltro anche in queste aree, a seguito del cambiamento delle abitudini alimentari legate alla globalizzazione, la celiachia ha incominciato a fare la sua comparsa con le prime diagnosi ed è probabile che nel giro di pochi anni anche questi territori scopriranno il fenomeno celiachia. nonostante il notevole incremento diagnostico registrato negli ultimi diarrea, dolore e gonfiore addominale stipsi*, alvo irregolare (colon irritabile) perdita di peso astenia cronica afte ricorrenti forme di anemia (soprattutto anemia da carenza di ferro*, ma anche di acido folico) facilità al sanguinamento osteoporosi anomalie dello smalto dentario tendenza ad aborti spontanei (in particolare nel 1° trimestre) irregolarità mestruali (amenorrea, menarca tardivo*, menopausa precoce) patologia della gravidanza (aborti ricorrenti, parti prematuri, nati sottopeso) rialzo delle transaminasi da causa sconosciuta* carenza di elettroliti (calcio, magnesio, potassio, ecc) assenza congenita della milza o atrofia splenica fragilità di unghie e capelli                 tabella i sintomi da considerarsi possibili spie di celiachia * sintomi presenti nel caso clinico descritto clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 20 malattia celiaca, sintomi intestinali atipici e patologie autoimmuni tempi, la celiachia è ancora ampiamente sotto-diagnosticata: per fare un esempio in italia vi sono al momento circa 70.000 diagnosi a fronte delle 550.000 attese [2]. nel determinismo della celiachia un ruolo di primo piano ha la predisposizione genetica con presenza nella totalità dei celiaci di antigeni di istocompatibilità (hla) di tipo dq2 e dq8 (la loro assenza di fatto esclude la diagnosi, ma la loro presenza non è diagnostica in quanto presenti anche nel 30% della popolazione non celiaca), ma a scatenare la sindrome alimentare possono essere infezioni virali (fra cui quella da rotavirus, di recentissima identificazione) e batteriche, stress e gravidanza. l’importanza del fattore ereditario è confermata dal fatto che dal 4% al 10% dei familiari di i e ii grado di celiaci sono affetti dalla stessa intolleranza alimentare [3]. in chi è predisposto geneticamente il glutine stimola una risposta abnorme del sistema immunitario con l’attivazione dei linfociti t e con il coinvolgimento di un autoantigene, la transglutaminasi tissutale, presente non solo nell’intestino, ma in molti altri tessuti dell’organismo umano [4]. ciò fa sì che il processo autoimmunitario, una volta innescato, possa propagarsi coinvolgendo non solo l’intestino tenue, ma anche numerosi altri organi e apparati, quali cute, tiroide, pancreas, fegato, articolazioni, sistema nervoso e sistema riproduttivo. è difficile riconoscere la celiachia sulla base dei sintomi perché questi variano da soggetto a soggetto (tabella i). la malattia predilige il sesso femminile con un rapporto f/m di 2:1 e con possibile insorgenza in qualsiasi epoca della vita, anche se i due picchi più frequenti sono nella prima infanzia e nella terza-quarta decade. sempre più raramente i pazienti lamentano sintomi di severo malassorbimento con numerose scariche di diarrea e perdita di peso. spesso i sintomi gastrointestinali sono la stipsi, il vomito, i dolori e il gonfiore addominale. dal punto di vista metabolico possono essere osservati edemi, crampi, anemia sideropenica, tetania ipocalcemica, ipoplasia dello smalto dentario, emorragie per malassorbimento di vitamina k e dolori ossei legati a osteoporosi. altre possibili spie di celiachia sono depressione, tabella ii patologie autoimmuni e idiopatiche associate a celiachia * patologie autoimmuni presenti nel caso di celiachia descritto dermatite erpetiforme tiroidite autoimmune*, morbo di basedow diabete mellito tipo i deficit di iga patologia epatica autoimmune (cirrosi biliare primitiva*, epatite autoimmune, colangite sclerosante primitiva) patologia neurologica idiopatica (atassia cerebellare, epilessia con o senza calcificazioni cerebrali, neuropatia periferica) sindrome di down, sindrome di turner alopecia, vitiligine, psoriasi* malattie del connettivo (artrite reumatoide, les, sindrome di sjogren, sclerodermia, dermatomiosite) cardiomiopatia dilatativa idiopatica, miocarditi autoimmuni morbo di addison            anticorpo sensibilità (%) specificità (%) val. pred. pos. (%) val. pred. neg. (%) iga anti-ttg 98 90 91 98 iga ema 95 100 100 95 iga aga 82 78 79 81 impiego consigliato dei marker anticorpali: anti-ttg (anticorpi antitransglutaminasi) come test di i livello (test più sensibile e con più elevata riproducibilità) ema (anticorpi antiendomisio) come test di conferma (test più specifico) aga (anticorpi antigliadina) utili nei bambini di età < 2 anni (primo anticorpo a comparire) anticorpi di classe igg utili solo per identificare la celiachia in pazienti con deficit selettivo di iga     tabella iii valore diagnostico dei marker anticorpali correlati alla celiachia tabella iv classificazione istologica delle lesioni intestinali nella celiachia (modificata da marsh-oberhuber). l’incremento dei lie è presente dalla lesione tipo 1 a quella tipo 3c; esiste anche una lesione tipo 4, caratterizzata da atrofia totale dei villi con lie < 25/100 ce, quadro a rischio di complicanze lie = linfociti intra-epiteliali ce = cellule epiteliali tipo 1 aumento lie (> 25/100 ce) tipo 2 iperplasia delle cripte tipo 3a atrofia lieve dei villi tipo 3b atrofia parziale dei villi tipo 3c atrofia subtotale dei villi clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 21 u. volta, c. parisi, m. piscaglia, a. fabbri, e. fiorini ansia, afte del cavo orale e alterazioni a carico della sfera riproduttiva sia femminile che maschile. in particolare, nella donna vi sono spesso menarca tardivo, amenorrea, aborti ripetuti nel primo trimestre di gravidanza e frequenti parti prematuri, e nell’uomo sono presenti alterazioni della spermatogenesi [5]. la celiachia va sempre ricercata nell’ambito della patologia autoimmune, con cui è frequentemente associata (tabella ii). al di là dell’ormai ben nota correlazione con la dermatite erpetiforme, definita come la celiachia della cute, un’aumentata prevalenza di malattia celiaca è stata riscontrata in pazienti con diabete mellito autoimmune (tipo 1), deficit di iga, alopecia, tireopatie autoimmuni, malattie del connettivo, cardiomiopatia dilatativa idiopatica, patologia neurologica (atassia cerebellare, neuropatia periferica, epilessia), epatite autoimmune e cirrosi biliare primitiva [6-13]. l’importanza di diagnosticare queste forme di celiachia associate a patologia autoimmune o idiopatica è duplice, dal momento che la dieta aglutinata non solo è in grado di prevenire le manifestazioni cliniche dell’enteropatia da glutine, ma anche talvolta di determinare un miglioramento del quadro clinico limitatamente ad alcune di queste patologie. la diagnosi di celiachia si basa sulla sierologia e sulla biopsia intestinale. a partire dagli anni ’90, test di laboratorio sempre più sensibili e specifici, quali la ricerca degli autoanticorpi antiendomisio e antitransglutaminasi [14] (tabella iii), hanno consentito di identificare con certezza quasi assoluta, mediante un semplice prelievo di sangue, i pazienti con sospetta celiachia, da confermare con l’esecuzione della biopsia duodenale in corso di esofagogastroduodenoscopia. la biopsia duodenale, che documenta le tipiche alterazioni istologiche caratterizzate da atrofia più o meno severa dei villi con aumento dei linfociti intraepiteliali e iperplasia delle cripte, resta comunque l’esame gold standard per la diagnosi [15] (tabella iv ). esistono rari casi con sierologia negativa, ma con lesioni intestinali tipiche per malattia celiaca, confermando un ruolo preminente della biopsia sulla sierologia. la dieta senza glutine, che, una volta posta diagnosi, deve essere seguita rigorosamente per tutta la vita, porta alla normalizzazione della mucosa intestinale nel giro di 12-15 mesi, consentendo un regolare assorbimento dei nutrienti. pertanto i celiaci, a patto di osservare strettamente tale dieta, possono condurre una vita regolare senza alcun tipo di complicanze. peraltro, la mancata diagnosi o la diagnosi tardiva espongono i pazienti al rischio di sviluppare malattie di vario tipo fra cui patologia autoimmune a carico del sistema nervoso centrale e periferico, dell’apparato cardiocircolatorio, del sistema endocrino, del fegato e della cute, nonché severe complicanze quali digiuno-ileite ulcerativa e sprue collagenosica o quadri di scarsa o assente risposta alla dieta (celiachia refrattaria) e insorgenza di neoplasie, in particolare linfoma non hodgkin a livello intestinale e varie forme di neoplasia epiteliale dell’apparato gastroenterico [16, 17]. la sfida del terzo millenio nel campo della celiachia è tutta incentrata sull’identificazione di nuove prospettive terapeutiche in grado di sostituirsi alla dieta aglutinata [18]. i tentativi sono rivolti alla desensibilizzazione del soggetto celiaco verso i peptidi tossici del glutine mediante la messa a punto di vaccini. altro approccio è quello che prevede la preparazione di cereali senza le f razioni tossiche, o, come recentemente riportato anche dalla letteratura non medica, la messa a punto di una “pillola”, che con vari meccanismi (blocco della permeabilità intestinale, impiego di enzimi batterici in grado di digerire il glutine a livello gastrico, uso di citochine protettive) sia in grado di neutralizzare la tossicità del glutine per l’intestino del celiaco, consentendo in tal modo il consumo di una dieta libera. per non alimentare facili illusioni, anche se la ricerca scientifica è estremamente attiva in tal senso, non vi sono al momento prospettive concrete per un’alterativa alla tanto odiata ma così sicura dieta aglutinata. esame del caso clinico alcuni elementi presenti nella storia clinica della paziente avrebbero dovuto allertare immediatamente il medico verso una possibile diagnosi di celiachia prima ancora del riscontro della patologia autoimmune epatica e tiroidea, che di per sé implica di fatto uno screening sierologico per ricercare l’intolleranza al glutine (tabella v ). innanzitutto, il riscontro di stipsi è già un sintomo di possibile presentazione clinica di celiachia, dal momento che una stipsi ostinata viene riscontrata nel 30% circa dei pazienti con celiachia alla diagnosi. talvolta, la stipsi clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 22 malattia celiaca, sintomi intestinali atipici e patologie autoimmuni è così severa da portare a veri e propri quadri clinici di subocclusione intestinale. le cause della stipsi come sintomo di celiachia non sono ancora state completamente chiarite: fra i possibili fattori eziologici si pensa a una alterata motilità intestinale o alla presenza di un fattore immunologico, rappresentato dalla produzione di autoanticorpi anti-neurone diretti verso i plessi mioenterici di auerbach, presenti nella parete intestinale. altro elemento che poteva indirizzare immediatamente alla diagnosi di celiachia era la presenza di anemia sideropenica. nel caso della nostra paziente, pur non essendo i valori di emoglobina molto bassi, era presente una chiara sideropenia con bassi valori di sideremia e ferritina. va ricordato che oltre il 40% dei pazienti con celiachia non trattata presenta un’anemia sideropenica più o meno severa, mentre una percentuale minore di soggetti celiaci è affetta da anemia macrocitica da ridotto assorbimento di acido folico o da carenza di vitamina b12. un terzo elemento che in qualche modo poteva essere ricondotto a una celiachia misconosciuta era il riscontro anamnestico di un menarca tardivo. la paziente infatti riferiva il menarca all’età di 15 anni ed è noto che nelle donne celiache il menarca avviene più tardivamente che nelle donne non celiache, ove l’età media della prima mestruazione avviene poco prima dei 13 anni. il rialzo delle transaminasi poteva di per sé essere già un altro dato suggestivo per celiachia, soprattutto dopo aver escluso cause virali o tossiche (danno da alcol) di danno epatico. è noto infatti che il 40-50% dei pazienti celiaci non trattati, sia adulti sia in età pediatrica, presenta valori elevati di transaminasi che rientrano nella norma dopo un periodo di dieta aglutinata della durata di almeno 6 mesi. nella nostra paziente il concomitante rialzo degli enzimi epatici di colestasi (fosfatasi alcalina e gamma-gt) e soprattutto il riscontro di anticorpi antimitocondriali ci ha indirizzato immediatamente verso una patologia colestatica su base autoimmune: la cirrosi biliare primitiva. e proprio dal riconoscimento della cirrosi biliare primitiva viene un ulteriore elemento che ci induce a ricercare la celiachia. è infatti noto che la cirrosi biliare primitiva è una delle patologie epatiche autoimmuni (insieme all’epatite autoimmune e alla colangite sclerosante) in cui la prevalenza di celiachia è elevata (intorno al 5%). un insegnamento interessante che si può trarre dal caso clinico presentato viene dal fatto che la paziente, dopo la diagnosi di cirrosi biliare primitiva e prima del riconoscimento della celiachia, non ha avuto alcun miglioramento del prurito e degli enzimi di colestasi a seguito della terapia con acidi biliari somministrati per os. è possibile speculare che la presenza di una mucosa intestinale piatta (successivamente documentata dalla biopsia duodenale) abbia impedito l’assorbimento degli acidi biliari a livello intestinale. una conferma indiretta di tale ipotesi viene dal fatto che, dopo 6 mesi di dieta senza glutine, la paziente ha normalizzato gli enzimi di colestasi con scomparsa del prurito a seguito del verosimile avvenuto assorbimento del farmaco grazie alla ricrescita dei villi intestinali. è interessante altresì segnalare, come peraltro già noto in letteratura, che la dieta senza glutine da sola non riesce a controllare il quadro clinico e bioumorale della cirrosi biliare primitiva, come dimostrato dalla temporanea sospensione della terapia con acidi biliari, cui faceva seguito il nuovo rialzo degli enzimi di colestasi e la ripresa del prurito. la tiroidite autoimmune, riscontrata nella nostra paziente, è un altro elemento importante del puzzle celiachia. davanti a un malato con tiroidite autoimmune di hashimoto va sempre eseguita la ricerca dei marker sierologici di celiachia, dal momento che il 4% dei soggetti con tiroidite su base autoimmune è affetto da celiachia. gli stretti rapporti fra tiroide e celiachia sono confermati dal fatto che circa 1/4 dei celiaci presenta alla diagnosi o negli anni successivi la comparsa di anticorpi antitiroidei, indipendentemente da una buona compliance alla dieta aglutinata. il fatto che la dieta aglutinata non protegga tabella v spie di malattia celiaca nel caso clinico presentato stipsi presente nel 30% delle celiachie all’esordio anemia sideropenica presente nel 40% dei celiaci non trattati menarca tardivo età media nella celiachia non trattata: 13,7 anni vs 12,6 anni nei controlli ipertransaminasemia presente in oltre il 40% dei celiaci non trattati cirrosi biliare primitiva (cbp) prevalenza della celiachia nella cbp pari al 5% tiroidite autoimmune prevalenza di celiachia nella tiroidite autoimmune pari al 4% psoriasi patologia correlata alla celiachia, anche se ancora oggetto di verifica clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 23 u. volta, c. parisi, m. piscaglia, a. fabbri, e. fiorini più di tanto il celiaco dall’insorgenza di manifestazioni autoimmuni tiroidee ha indotto ad inserire la ricerca del tsh e degli anticorpi antitiroidei fra gli esami di follow-up della celiachia. da ultimo anche la presenza di una psoriasi anamnestica può essere considerata una possibile spia di celiachia, anche se l’associazione fra psoriasi e celiachia è stata messa talvolta in discussione in letteratura. le risposte alle domande emerse nel corso del caso clinico la dieta aglutinata senza la terapia specifica con acidi biliari non è in grado di controllare i sintomi né di normalizzare gli enzimi di colestasi grazie al miglioramento dell ’assorbimento dei farmaci (acidi biliari), la dieta aglutinata è in grado di favorire la normalizzazione degli enzimi di colestasi gli anticorpi antimitocondriali, marcatori di cirrosi biliare primitiva (cbp), non si negativizzano dopo dieta aglutinata nei casi di cbp associati a celiachia la prevalenza di positività degli anticorpi antitiroidei nella malattia celiaca è del 25% la tiroidite autoimmune può presentarsi anche a distanza di 30 anni dall ’inizio di una dieta aglutinata stretta la forma di anemia più frequentemente associata celiachia è l ’anemia sideropenica, presente nel 40% dei celiaci non trattati       flow chart per la diagnosi di malattia celiaca basso sospetto di malattia celiaca elevato sospetto di malattia celiaca follow-up attento del paziente malattia celiaca confermata in assenza di altre cause di enterite, trattare come malattia celiaca test sierologici negativi e istologia negativa test sierologici positivi e istologia negativa test sierologici positivi e istologia positiva test sierologici negativi e istologia positiva malattia celiaca esclusa biopsia dell’intestino tenue sierologia negativa sierologia positiva anticorpi antitransglutaminasi-iga e antiendomisioiga (come test di conferma) iga totali sieriche se deficit di iga, ricerca anticorpi transglutaminasi igg    anticorpi antitransglutaminasi-iga e antiendomisioiga (come test di conferma) iga totali sieriche se deficit di iga, ricerca anticorpi transglutaminasi igg biopsia dell’intestino tenue     test sierologici e istologia clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 24 malattia celiaca, sintomi intestinali atipici e patologie autoimmuni bibliografia 1. alaedini a, green phr. narrative review. coeliac disease: understanding a complex autoimmune disorder. ann int med 2005; 142: 289-98 2. volta u, bellentani s, bianchi fb, brandi g, de franceschi l, miglioli l et al. high prevalence of celiac disease in italian general population. dig dis sci 2001; 46: 1500-5 3. karell k, louka as, moodie sj, ascher h, clot f, greco l et al. hla types in celiac disease patients not carrying the dqa1*05-dqb1*02 (dq2) heterodimer: 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assisteva alla progressiva slatentizzazione di uno stato anasarcatico non responsivo alla terapia diuretica. per tale motivo, venivamo contattati dai colleghi infettivologi, con i quali concordavamo l’opportunità di un tempestivo trasferimento presso la divisione di medicina interna, onde completare l’iter diagnostico-terapeutico in ambiente più idoneo alle mutate condizioni cliniche della paziente. all’ingresso in reparto, l’ammalata si presentava apiretica e tendenzialmente tachiabstract anasarca is a medical symptom characterized by widespread swelling of the organism due to effusion of fluid into the extracellular space. it is usually caused by either cardiac failure, liver failure or renal failure and requires hospitalization and in-depth investigations. we report a case of a 51-years-old woman, with recent recidivation of cutaneous tumour, hospitalized for basal left pneumonia treated with antibiotic therapy, with regression of the radiological signs but progressive appearance of generalized oedema, whose complex differential diagnostic procedure made evident the presence of crioglobulinemic glomerulopathy and vasculitis in patient with chronic hcv correlated liver disease. the case imposed the careful evaluation of the therapeutic strategy, for the coexistence of autoimmune pathology and of hcv positiveness in patient with recent neoplastic recidivation keywords: anasarca, crioglobulinemic vasculitis, hcv positiveness, immunosuppressive therapy clinical management of anasarca. cmi 2007; 1(3): 95-110 1 unità operativa di malattie cardiovascolari, s. anna hospital, catanzaro 2 medicina interna, azienda ospedaliera pugliese ciaccio, catanzaro cardica, dispnoica e tachipnoica, con rilievo di 23 atti respiratori al minuto. il decubito preferito era semiortopnoico. l’esame obiettivo generale consentiva di apprezzare l’abcaso clinico corresponding author dott.ssa francesca talarico s. anna hospital viale pio x, 111 88100 catanzaro talarico.francesca@tiscali.it perché descriviamo questo caso? per sensibilizzare i medici di famiglia sull’importanza di un’attenta, tempestiva e multidisciplinare valutazione di alcuni segni e sintomi molto diffusi, spesso sottovalutati e ignorati dagli stessi pazienti, quali un fenomeno di raynaud, modeste artralgie, piccole e transitorie petecchie cutanee, che potrebbero essere premonitori di quadri patologici potenzialmente molto gravi e che potrebbero dunque giovarsi di una precoce diagnosi e di un attento monitoraggio clinico, con conseguente adeguato trattamento farmacologico clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 96 gestione clinica di uno stato anasarcatico norme distensione del tessuto sottocutaneo a livello degli arti inferiori, con assottigliamento della cute, che appariva lucente. il segno della fovea era improntabile fino al terzo distale della coscia, bilateralmente. sulla superficie estensoria degli arti inferiori erano evidenti lesioni cutanee multiple palpabili di colore rosso vivo, delle dimensioni di circa 5 mm, che non scomparivano alla digitopressione. erano presenti altresì edema sacrale, palpebrale e distale degli arti superiori, con modica altralgia localizzata alle dita delle mani. le estremità presentavano un colorito sfumatamente violaceo, mentre le mucose mantenevano un colore rosato, come da subcianosi periferica. i valori emogasanalitici, immediatamente rilevati, non presentavano variazioni di rilievo. il polso radiale era ritmico, uguale, simmetrico, con frequenza di 98 bpm. il fremito vocale tattile e il murmure vescicolare si presentavano ridotti in sede basale bilateralmente; le basi polmonari erano ipoespansibili. si apprezzava una diminuita intensità dei toni cardiaci che interessava in uguale misura il i e il ii tono su tutti i focolai di auscultazione. la raccolta anamnestica non evidenziava elementi che orientassero nell’immediato le nostre indagini verso una specifica patologia edemigena. la signora aveva fumato in passato due o tre sigarette al dì e aveva smesso di fumare da circa un anno. non beveva alcolici se non occasionalmente e in modica quantità. a domicilio non assumeva regolarmente alcuna terapia farmacologica. aveva portato a termine due gravidanze, concluse con parti eutocici. un aborto spontaneo, all’età di 38 anni, era stato seguito da revisione della cavità uterina. il ciclo mestruale persisteva tuttora regolarmente. la paziente svolgeva un’attività fisica non regolare ma presente e seguiva un’alimentazione varia, presentando un rapporto peso/ altezza normale e assenza di significative variazioni del peso corporeo nella fase precedente il ricovero. l’alvo era regolare; la minzione fisiologica; la diuresi normale a domicilio. attualmente in oligo-anuria, con incremento del peso corporeo di circa 10 kg in 2 settimane. il padre risultò affetto da ipertensione sistolica isolata, insorta all’età di 70 anni. la paziente era stata sottoposta all’età di 14 anni a un intervento di tonsillectomia per severa tonsillite recidivante, scarsamente responsiva all’antibiotico-terapia. all’età di 50 anni, escissione di epitelioma basocellulare non metastatico della regione sovraorbitaria sinistra; a distanza di sei mesi, recidiva della neoformazione nella stessa sede e nuova exeresi chirurgica. anche in questa occasione non si evidenziavano metastasi ai linfonodi distrettuali né a distanza. i controlli oncologici post-procedura risultavano completamente negativi. domande da porre alla paziente ricorda quando è comparsa per la prima volta la porpora o ha mai rilevato sanguinamenti anomali? a quando risale la comparsa degli edemi? da quanto tempo lamenta artralgie? vi è un legame temporale tra le suddette manifestazioni cliniche? ha riscontrato, durante esposizione al freddo, pallore a uno o più dita delle mani, con parestesie seguite da dolore e comparsa di colorazione bluastra? dai colleghi infettivologi e dalla stessa paziente apprendevamo che la condizione di edema generalizzato si era instaurata gradualmente, nell’arco di circa quindici giorni. la manifestazione purpurea, verosimilmente, era appena comparsa, non essendo stata rilevata né dai colleghi che l’avevano precedentemente visitata né dalla paziente stessa. la dispnea, insorta da circa venti giorni, non si era attenuata in seguito alla risoluzione radiologica dell’addensamento polmonare basale sinistro, presentando al contrario un andamento ingravescente. in risposta alle nostre specifiche domande, la signora negava precedenti manifestazioni cliniche di tipo emorragico e ogni forma di sanguinamento anomalo. negava inoltre di aver mai rilevato turgore o succulenta anomala in qualsiasi regione corporea, né ricordava alcuna pregressa contrazione della diuresi. la signora riferiva modiche artralgie delle mani riscontrabili da alcuni anni, in assenza di segni clinici rilevabili; riferiva inoltre la frequente comparsa di variazioni cromatiche delle dita delle mani, presenti da oltre dieci anni durante esposizione al freddo. pertanto la invitavamo a immergere le mani in una bacinella di acqua fredda: assistevamo così a un tipico fenomeno di raynaud. gli esami ematochimici evidenziavano una lieve anemia ipocromica microcitica,      clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 97 f. talarico, d. galasso modesta trombocitemia, iperazotemia, iperuricemia, ipercloremia, modesto incremento di ast, alt e gamma-gt, ipoproteinemia e ipoalbuminemia, con incremento dell’osmolarità plasmatica. l’elettroforesi delle proteine plasmatiche evidenziava incremento di alfa 1 e alfa 2, con decremento relativo della quota beta e gamma. l’iter diagnostico differenziale comprendeva alcuni oncomarkers, anche in considerazione dei dati anamnestici della paziente: ca-125 = 54 u/ml, tpa = 1,29 ng/ml, con negatività degli altri markers. si rilevavano inoltre: mycobacterium tubercolosis dna negativo; non significatività dei test emocoagulativi; negatività degli autoanticorpi (anti-nucleo, anti-muscolo liscio, anti-mitocondrio, anca, ena, anti-dna, anti-transglutaminasi, anti-lkm); funzionalità tiroidea nella norma; anti-hcv positivo. crioglobuline positive con criocrito pari a 0,5%. ipocomplementemia. ipofibrinogenemia. immunocomplessi circolanti 0,58 ng/ml. fr = 8,8 ui/ml. hcv rna qualitativo positivo, quantitativo 403.000 ui/ml. genotipo hcv: tipo 1 sottotipo b; la tipizzazione tissutale evidenziava l’ag hla b35, che presenta prevalenza significativa nei soggetti con crioglobulinemia mista; all’esame urine, proteinuria e microematuria. proteinuria delle 24h > 1.600 mg. clearance della creatinina = 53 ml/min. proteinuria di bence-jones: ig kappa = 13,54 mg/l, ig lambda = 10,04 mg/l, rapporto k/l = 1,35; β2-microglobulina negativa; l’esame morfologico delle emazie urinarie era indicativo di microematuria glomerulare; la ricerca del sangue occulto nelle feci risultava negativa. domande da porsi il focolaio broncopneumonico di recente trattato e la terapia assunta hanno un nesso causale con la successiva evoluzione del quadro clinico? quali sono le condizioni che causano edemi generalizzati? quali sono le condizioni che giustificano la presenza di porpora?            quali sono le cause di proteinuria? come considerare le artralgie, sia pur modeste, ravvisate alle dita delle mani? la coesistenza di sindrome emorragica, edemi generalizzati e artralgie è dovuta a un’unica causa o alla coesistenza di diverse patologie? si tratta di patologia infettiva, infiammatoria, neoplastica, autoimmune e/o iatrogena? è presente un fenomeno di raynaud? può trattarsi di una vasculite ovvero di una forma di connettivite indifferenziata? la terapia immunosoppressiva è opportuna in paziente con storia di recidiva neoplastica e con positività di hcv?        figura 1 ecg della paziente: nei limiti di norma figura 2 rx torace: versamento pleurico bilaterale il tracciato elettrocardiografico era nei limiti (figura 1). l’rx torace evidenziava ombra cardiaca ai limiti alti di norma, con versamento pleurico bilaterale (figura 2). all’ecocardiogramma si evidenziava un piccolo spazio ecoprivo anteriore e posterioclinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 98 gestione clinica di uno stato anasarcatico re, di scarso rilievo emodinamico. le dimensioni endocavitarie, gli spessori parietali, la cinesi segmentaria e globale biventricolare, la morfologia e la dinamica degli apparati valvolari erano nella norma (figura 3). i segni laboratoristici di coinvolgimento epatico e renale imponevano l’esecuzione di un’ecografia addominale, che metteva in rilievo un fegato lievemente ingrandito, a ecopattern finemente disomogeneo, con formazione angiomatosa di 12 mm in corrispondenza del vii segmento (figura 4a). in sede parailare epatica, venivano evidenziate due formazioni linfonodali omogenee rispettivamente di 18 e 15 mm (figura 4b e c). i reni apparivano nei limiti. non vi era alcun segno di ascite. la tac total-body, con e senza mezzo di contrasto, non evidenziava ulteriori reperti (figura 5). veniva eseguita pertanto toracentesi, con drenaggio di 1.500 ml di liquido sieroso, con le caratteristiche del trasudato. l’esame citologico sul liquido pleurico metteva in luce uno scarso materiale cellulare costituito da rare emazie e qualche aggregato di elementi mesoteliali di normale morfologia. per il riscontro obiettivo di porpora cutanea a livello della superficie estensoria degli arti inferiori, veniva effettuata una biopsia incisionale cutanea. l’esame istologico evidenziava f rammento dermo-epidermico con ipercheratosi lamellare; in sede dermica modesto infiltrato flogistico prevalentemente di tipo plasmacellulare perivascolare (figura 6). nel sospetto di patologia reumatologica, veniva eseguita un’ecografia delle falangi delle mani, che evidenziava un quadro compatibile con osteopenia. la diagnostica differenziale in un fenomeno di raynaud prevede l’esecuzione di una videocapillaroscopia che, nel raynaud primitivo, evidenzia quadri di normalità nelle fasi intercritiche, mentre nel raynaud secondario, spesso associato a connettivopatia, vengono documentate molteplici anomalie. nel caso specifico, il quadro videocapillaroscopico era caratterizzato da modeste alterazioni (microemorragie, tortuosità, ectasie laterali, edema perivasale), compatibili con vasculite crioglobulinemica (figura 7). le nostre indagini concludevano per glomerulopatia e vasculite crioglobulinemiche in paziente con epatopatia cronica hcv correlata. veniva istituita terapia con metilprednisolone a boli (1 g/die ev) per tre giorni consecutivi, e successivamente 0,5 mg/kg/die per os, riducendo gradualmente in base alla risposta terapeutica. veniva associata ciclofosfamide (750 mg ev ogni 7 giorni), nonché la plasmaferesi (una volta ogni tre giorni), con netto miglioramento del quadro clinico (figura 8). venivano programmate biopsia renale ed epatica e terapia specifica con interferone alfa pegilato e ribavirina. discussione l’infezione da virus dell’epatite c (hcv ) costituisce in tutto il mondo un problema sanitario e sociale di grande rilievo. l’infezione figura 3 a e b ecocardiogramma: piccolo spazio ecoprivo anteriore e posteriore, non tamponante. assenza di alterazioni dei volumi endocavitari, degli spessori parietali, degli apparati valvolari, della cinesi segmentaria e globale a b clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 99 f. talarico, d. galasso figura 4 a-c ecografia addominale della paziente, che evidenzia un fegato lievemente ingrandito, ad ecopattern finemente disomogeneo, con formazione angiomatosa di 12 mm in corrispondenza del vii segmento (figura a a destra); in sede parailare epatica, venivano evidenziate due formazioni linfonodali omogenee rispettivamente di 18 e 15 mm (figure b e c). nella figura b si evidenzia ancora il versamento pleurico destro a b c clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 100 gestione clinica di uno stato anasarcatico figura 5 a-g tomografia assiale computerizzata totalbody negativa per lesioni macroscopiche, ad eccezione di versamento plerurico bilaterale (e) a b c d e f g ha spiccata tendenza alla cronicizzazione e in molti paesi l’epatite c rappresenta attualmente la principale causa di insufficienza epatica con indicazione al trapianto. il quadro epidemiologico dell’infezione da hcv nella popolazione generale è ampiamente sconosciuto, anche nei paesi sviluppati. secondo una stima della world figura 6 esame istologico su biopsia cutanea: in sede dermica, modesto infiltrato flogistico, prevalentemente plasmacellulare perivascolare clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 101 f. talarico, d. galasso health organization, il 3% della popolazione mondiale è stato infettato da hcv. altri dati, statunitensi, parlano di 200 milioni di pazienti in tutto il mondo: 4,5 milioni negli stati uniti e circa 5 milioni nell’europa occidentale. numeri più piccoli, dunque, ma effetti ben più preoccupanti, se si considera che il 40% delle cirrosi terminali e il 60% dei carcinomi epatici che si registrano nei paesi industrializzati è proprio dovuto all’epatite c cronica. a causa dell’epatite c cronica muore un numero di persone quattro volte superiore a quelle uccise dall’aids. va poi tenuto presente che c’è una forte variazione della prevalenza di epatite c all’interno dei sottogruppi di popolazione. per esempio, tra chi doveva sottoporsi a continue trasfusioni negli anni precedenti l’identificazione del virus o tra i tossicodipendenti che fanno uso di droghe iniettabili, la prevalenza arriva fino al 70% [1]. in italia, si stima un numero di tossicodipendenti pari a 500.000, dei quali circa 400.000 sarebbero affetti dalla malattia. per l’hcv, comunque, nel nostro paese si stima una riduzione dell’incidenza, anche se resta da fronteggiare l’impatto delle malattie cui va e andrà incontro la popolazione già infettata [2]. un gruppo di ricercatori dell’università di genova ha stimato la prevalenza e la distribuzione genotipica del virus hcv in un ampio campione della popolazione italiana. uno screening per gli anticorpi anti-hcv con i test elisa e riba è stato compiuto su 3.577 campioni plasmatici. tra i campioni analizzati, il 2,7% (n = 95) è risultato positivo agli anticorpi anti-hcv. il genoma è stato sequenziato in 50 campioni plasmatici. la prevalenza aggiustata per età è stata del 4,4%. il sottotipo 1b (che causa le epatiti più severe, i più alti livelli di viremia ed è il più resistente alla terapia) ha mostrato la più alta prevalenza in tutte le aree geografiche e gruppi di età, seguito dai sottotipi 2c (riscontrato principalmente tra la popolazione più anziana nel sud d’italia), 4a/d, 3a (riscontrati esclusivamente tra i soggetti adulti) e 1a. quanto emerso indica che l’italia centrale e quella meridionale sono aree iperendemiche. l’alta prevalenza osservata tra gli adulti di figura 7 videocapillaroscopia del letto ungueale: si evidenziano microemorragie e marcato edema perivasale (effetto “flou”), compatibili con vasculite crioglobulinemica figura 8 rx torace post-terapia immunosoppressiva: marcata regressione del versamento pleurico bilaterale clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 102 gestione clinica di uno stato anasarcatico età superiore ai 30 anni è attribuibile, probabilmente, a un incremento della prevalenza di 1b, ma anche alle infezioni da sottotipi 2c, 3 e 4. i dati di prevalenza età-specifica e la caratterizzazione molecolare del virus hanno indicato che in italia coesistono due pattern di trasmissione: uno caratterizzato dalle infezioni dei sottotipi 1b e 2c, principalmente nei soggetti adulti con più di 60 anni di età, e l’altro dalle infezioni da sottotipi 3 e 4, principalmente nel gruppo di età compresa tra i 30 e i 60 anni, associate all’impiego di droghe iniettabili e all’immigrazione [3]. di notevole interesse la capacità di hcv di causare varie manifestazioni extraepatiche, la cui frequenza è tutt’altro che irrilevante, se si considera che almeno una di esse è stata riscontrata nel 74% dei pazienti hcv positivi. per alcune di queste l’associazione con l’infezione da hcv è forte, per altre è signiforme associate significativa associazione supposta associazione sindrome crioglobulinemica mista sindrome crioglobulinemica mista incompleta crioglobuline miste senza sindrome crioglobulinemica mista gromerulonefrite membrano-proliferativa alveolite-fibrosi polmonare poliartrite non erosiva produzione di autoanticorpi porfiria cutanea tarda         epatite autoimmune linfoma non-hodgkin di origine b cellulare gammopatie monoclonali    sindrome sicca artrite reumatoide poliarterite nodosa dermato-polimiosite fibromialgia tiroidite autoimmune carcinoma tiroideo fibrosi polmonare diabete mellito osteosclerosi lichen planus ulcere corneali di mooren             tabella i patologie hcvassociate. modificata da [9] figura 9 percorso di diagnosi differenziale degli edemi edema rigonfiamento palpabile prodotto dalla espansione del liquido interstiziale cirrosi malnutrizione sindrome nefrosica gastroenteropatia protido-disperdente deficit di produzione perdita cirrosi generalizzato anasarcadistrettuale ipoalbuminemia (2,5 g/dl) scompenso cardiaco ritenzione renale primitiva gravidanza o edema premestruale albuminemia normale ittero circoli venosi collaterali spider nevi segni di insuff. epatica colinesterasi, enzimi, ecc) (coagulazione, proteinuria > 3,5 g/die gittata cardiaca no ortopnea anamnesi esame obiettivo esame urine diagnostica endoscopica e/o radiologia gastrointestinale cardiomegalia ritmo di galoppo dispnea rantoli basilari turgore venoso epatomegalia sindrome nefrosica malnutrizione o enteropatia insufficienza cardiaca clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 103 f. talarico, d. galasso ficativa e per altre ancora è suggerita (tabella i). è soprattutto da considerare che alcune delle manifestazioni extraepatiche, come la crioglobulinemia mista e la glomerulonefrite, che appaiono correlate con una vasculite dei piccoli vasi e che possono essere spiegate con la persistenza della viremia e lo sviluppo di una patologia da immunocomplessi, sono in grado di aggravare il decorso e la prognosi della malattia. il caso clinico presentato, non infrequente per la presenza contemporanea di edemi generalizzati, lesioni purpuree cutanee e fenomeno di raynaud in paziente hcv-positiva, imponeva una diagnosi differenziale tra patologia infettiva, neoplastica, flogistica, autoimmune e iatrogena, a prevalente coinvolgimento epatico o renale, in assenza di dati anamnestici riferiti dalla paziente che orientassero nell’immediato le nostre indagini. dovevamo innanzitutto considerare un percorso di diagnosi differenziale degli edemi generalizzati (figura 9). l’evidenza di dispnea a riposo, che si incrementava per minimi sforzi, ci suggeriva di valutare la possibile presenza di una condizione iniziale di insufficienza cardiaca. l’esame clinico tuttavia, completato dallo studio del profilo cardiaco mediante esame radiologico del torace, nonché da elettrocardiogramma ed ecocardiogramma, non confermava il sospetto diagnostico, ma documentava solo un piccolo versamento pericardico non tamponante. il riscontro di proteinuria cospicua, con ipoproteinemia e ipoalbuminemia secondarie, orientavano le nostre ipotesi verso un edema discrasico in corso di malattia renale. nella figura 10 e nella tabella ii è riportato un semplice percorso clinico-diagnostico utile in caso di edemi generalizzati. andava anche considerato un percorso di diagnosi differenziale che consentisse di definire l’eziologia della diatesi emorragica, attribuendola a un difetto della funzione emocoagulativa, a un’alterazione qualitativa o quantitativa delle piastrine o a un difetto vascolare [4]. in genere l’utilizzo dei dati clinici emersi dall’anamnesi e dall’esame obiettivo è sufficiente per un iniziale orientamento diagnostico. la paziente presentava anamnesi negativa per diatesi emorragica e ciò consentiva di escludere le molte eziologie congenite. la presenza di sole petecchie agli arti inferiori e la non significatività dei test emocoagulativi indirizzavano la diagnosi verso un difetto dell’emostasi primaria, comprendente fase piastrinica e fase vascolare. non essendo presente piastrinopenia e non essendo allungato il tempo di stillicidio, tipicamente alterato nelle piastrinopatie, il procedimento diagnostico orientava le nostre indagini verso un difetto del fattore vascolare (figura 11). per l’inquadramento della diatesi emorragica da difetto vascolare, potendosi escludere le forme ereditarie, era necessario ricercare i segni e sintomi significativi delle malattie acquisite capaci, con diversi meccanismi, di indurre un danno della parete vascolare. tra le malattie sistemiche potenzialmente responsabili, si potevano subito escludere, per la localizzazione delle petecchie, l’amiloidosi e lo scorbuto. la porpora di schönlein-henoch veniva esclusa, oltre che per il tabella ii approccio clinico all ’edema generalizzato edema epatico edema da digiuno (da fame) o da cachessia enteropatia protido-disperdente meteorismo ascite eritema palmare spider nevi circoli collaterali      periodi di digiuno dieta a base di carboidrati anoressia mentale stati catabolici gravi tumori maligni infezioni croniche ipertiroidismo        disturbi dell’alvo ipoalbuminemia gammaglobuline ↓ ceruloplasmina ↓ transferrina ↓ test clearance α1 antitripsina       ipoalbuminemia transaminasi γ gt fosfatasi alcalina leucin-aminopeptidasi ecografia epatica biopsia epatica paracentesi diagnostica         proteinemia elettroforesi ricerca marcatori neoplastici o infettivi ipoproteinemia < 6 g albuminemia < 2,5 g/dl      endoscopia biopsia radiografia addome clisma dc     clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 104 gestione clinica di uno stato anasarcatico fattore età, anche per la mancanza di dolori addominali e di sanguinamento del tratto gastro-intestinale. veniva inoltre considerato che l’edema nella porpora di schönlein-henoch è sottocutaneo, con rigonfiamento spesso dolente in qualsiasi parte del corpo, ma in assenza di versamento pleuro-pericardico. molte vasculiti venivano escluse per la negatività degli auto-anticorpi, mentre la vasculite neoplastica appariva poco probabile per la negatività degli esami strumentali e per la non significatività dei markers oncologici, anche se confrontati con gli analoghi esami recentemente eseguiti dalla paziente. pertanto le vasculiti da ipersensibilità apparivano essere le principali indiziate, e in particolare la vasculite crioglobulinemica. per quanto concerne il procedimento diagnostico da seguire in caso di proteinuria [4], il primo elemento orientativo è rappresentato dall’entità della proteinuria stessa. una proteinuria molto abbondante indica una malattia glomerulare o da iperproduzione. nella paziente non era presente una componente monoclonale nel siero, né vi erano i sintomi di una gammopatia monoclonale. l’elettroforesi delle proteine urinarie confermava la provenienza glomerulare. tuttavia una proteinuria quantitativa delle 24 ore < 3 g, quale a noi risultava, con associata microematuria, prevede l’opportunità di un esame morfologico delle emazie, onde distinguere tra una patologia glomerulare e post-renale. nel nostro caso l’ematuria risultò di provenienza glomerulare; dunque le nostre deduzioni ci portavano a considerare l’ipotesi di malattia glomerulare primitiva o secondaria, che richiede normalmente l’esecuzione di una biopsia renale. ma la paziente persisteva nel rifiutare questo tipo di indagine. analizzando tuttavia le cause di proteinuria glomerulare e il loro tipo di insorgenza (taapproccio clinico all’edema generalizzato anamnesi ed esame obiettivo edema da farmaci insufficienzacardiaca dx o sx edema renale mineralcorticoidi glucocorticoidi estrogeni progestinici simpaticolitici vasodilatatori fenotiazine altri anamnesi farmacologica edema idiopatico edema in mal. endocrina (sindrome di cushing) edema della gravidanza dispnea a riposo e da sforzo nicturia decubito ortopnoico artralgie rantoli basali ripienezza addominale inappetenza edema viso e palpebre proteinemia azotemia creatininemia colesterolemia elettroforesi prot urine (proteinuria, ematuria, cilindruria) ecg ecocardiogramma (fe) esame radiografico cateterismo cuore dx e/o sx ecografia renale biopsia renale figura 10 percorso per l ’approccio clinico all ’edema generalizzato figura 11 iter diagnostico iniziale in presenza di diatesi emorragica. l’indirizzo verso un difetto dell ’emostasi primaria (fase piastrinica e fase vascolare) o verso un difetto emocoagulativo deriva solitamente dal quadro clinico diatesi emorragica la diatesi emorragica è attribuibile a difetto dell’emostasi primaria? il numero delle piastrine è ridotto? il tempo di stillicidio è allungato? difetto del fattore vascolare no no si no si si difetto della funzione emocoagulativa piastrinopenia piastrinopatia clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 105 f. talarico, d. galasso bella iii) alla luce dei dati clinici in nostro possesso, la diagnosi di glomerulonefrite secondaria a crioglobulinemia appariva la più probabile. nella paziente avevamo documentato un fenomeno di raynaud. esso è dovuto, com’è noto, a uno spasmo delle arteriole digitali che si manifesta con pallore e freddo a uno o più dita delle mani, con parestesie seguite da dolore. queste acroasfissie sono di tipo parossistico e il freddo in genere è l’elemento scatenante. facendo immergere le mani nell’acqua fredda si osserva la rapida comparsa dell’ischemia alle dita interessate. il fenomeno di raynaud, oltre che primitivo, può essere premonitore di sclerodermia, di dermatomiosite, di panarterite nodosa, di arteriopatia obliterante, di crioglobulinemia, di microtrombosi nella grande agglutinazione da freddo, nell’avvelenamento da segale cornuta o da metalli pesanti. il quadro videocapillaroscopico della paziente, già descritto e caratterizzato da microemorragie, tortuosità, ectasie laterali e abbondante edema perivasale, pur non essendo patognomonico, era compatibile con la diagnosi di vasculite crioglobulinemica (figura 7). il focolaio broncopneumonico di recente trattato e la terapia assunta avrebbero potuto avere un nesso con la successiva evoluzione del quadro clinico, in quanto avrebbero potuto slatentizzare una condizione patologica subclinica, ma non apparivano sufficienti a giustificare da soli tutto il contesto clinico. in conclusione i nostri percorsi logicodeduttivi, unitamente all’analisi dei dati clinici, strumentali e laboratoristici in nostro possesso, conducevano tutti verso la diagnosi di crioglobulinemia mista “essenziale” in soggetto hcv-positivo. da considerare inoltre che la sintomatologia di più frequente riscontro nella crioglobulinemia mista essenziale (figura 12) comprende tutte le manifestazioni cliniche presentate della nostra paziente, ivi compreso il fenomeno di raynaud. come è ben noto, per “crioglobulinemia” si intende la presenza di immunoglobuline tabella iii cause di proteinuria glomerulare e loro tipo di insorgenza a = acquisita; c = congenita/ereditaria malattia insorgenza glomerulonefriti primitive acuta streptococcica a sindrome di goodpasture a nefropatia da iga a membranosa a mesangioproliferativa a membranoproliferativa a glomerulonefrite a lesioni minime a glomerulosclerosi focale a glomerulonefriti secondarie les, crioglobulinemia, sclerodermia, artrite reumatoide a vasculiti a glomerulonefrite paucimmune a sindrome emolitico-uremica a malattie congenite/ereditarie malattia di alport c malattia da membrana sottile c sindrome nefrosica congenita c malattia di fabry c nail-patella syndrome c alterazioni emodinamiche ipertensione arteriosa a proteinuria da sforzo a/c proteinuria ortostatica a/c febbre a diabete a amiloidosi a/c pre-eclampsia a rigetto acuto di trapianto a clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 106 gestione clinica di uno stato anasarcatico sieriche caratterizzate dalla capacità di precipitare, reversibilmente, a temperatura inferiore a 37°c, dando luogo ad aggregati di molecole ad alto peso molecolare. sulla base degli esami immunochimici, essa viene tradizionalmente classificata in tre tipi: tipo i, quando il crioprecipitato è composto da una singola classe immunoglobulinica con caratteristiche di monoclonalità, come si può documentare soprattutto in corso di mieloma multiplo (igg o, più raramente, iga) oppure di macroglobulinemia di waldestrom (igm); tipo ii, quando il crioprecipitato contiene una componente immunoglobulinica monoclonale più altre policlonali; tipo iii, quando il crioprecipitato è formato da immunoglobuline di più classi, tutte policlonali. nelle forme cosiddette “miste” (tipi ii e iii), la componente igm crioprecipitante presenta quasi costantemente attività di fattore reumatoide, vale a dire è un anticorpo diretto contro siti antigenici di altre immunoglobuline. in queste forme, la maggior parte delle manifestazioni cliniche della crioglobulinemia trae origine da una vasculite da immunocomplessi. a questo riguardo, esiste una sindrome specifica, già definita crioglobulinemia mista “essenziale”, caratterizzata dalla classica triade di meltzer e franklin (astenia, artralgie/artrite, porpora ortostatica) e spesso accompagnata da impegno multisistemico (renale, neurologico ed epatico), con crioglobuline prevalentemente di tipo ii, che oggi sappiamo essere indotta, nella quasi totalità dei casi, da un’infezione cronica da hcv. nell’ambito delle manifestazioni extraepatiche della infezione cronica da hcv, le più importanti per frequenza, complessità del quadro clinico, potenziale grave evoluzione e peggioramento della prognosi sono la crioglobulinemia mista e la glomerulonefrite [5]. circa la metà dei pazienti con infezione cronica da hcv presenta crioglobuline sieriche positive, ma tale condizione è assolutamente asintomatica nella stragrande maggioranza dei casi. la crioglobulinemia mista viene diagnosticata prevalentemente in pazienti tra i 40 e i 60 anni, pur essendo mediamente presente da 10 a 20 anni prima. la crioglobulinemia mista deve essere quindi indagata in tutti i pazienti con hcvpositività ed è quasi certamente presente nei soggetti con insufficienza renale, porpora, vasculite, ulcere cutanee o positività per il ra-test o consumo delle frazioni c3 e c4 del complemento. l’interessamento renale è particolarmente frequente, incidendo dall’8 al 58%, con prevalenza nelle donne. la frequenza della nefropatia da crioglobulinemia varia nelle differenti aree geografiche suggerendo un importante ruolo dei fattori genetici e ambientali. la malattia sembra più frequente in alcune regioni mediterranee come la francia, la spagna e particolarmente l’italia. l’interessamento renale si manifesta in genere diversi anni dopo la presentazione dei primi sintomi e la componente monoclonale è quasi sempre igm-k. è estremamente raro che la malattia renale si manifesti come fenomeno primario della crioglobulinemia mista. il coinvolgimento renale ha un andamento variabile: il 30% dei pazienti può 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 po rpo ra epa tom ega lia art ral gie ast eni a ra yna ud ipe rte nsi one art . ulc ere ort ica ria ede mi (% ) sp len om ega lia po line uro pat ia fen om eno di vas cul ite int est ina lefigura 12 sintomatologia di più frequente riscontro nella crioglobulinemia mista essenziale clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 107 f. talarico, d. galasso avere una remissione parziale o totale dei sintomi anche dopo una sindrome nefritica acuta; un altro 30% continua a manifestare anomalie urinarie o un modesto grado di insufficienza renale senza progredire verso un deficit conclamato. in circa il 20% dei soggetti si osservano episodi di sindrome nefritica acuta che si esprimono in occasione della riacutizzazione dei segni sistemici. è abbastanza frequente riscontrare tardivamente un quadro moderato di insufficienza renale. è comunque relativamente raro lo sviluppo di un’insufficienza renale terminale [6]. nel trattamento della crioglobulinemia mista e della glomerulonefrite associate all’infezione da hcv, la terapia immunosoppressiva non è ben valutabile perché utilizzata in studi non controllati e aneddotici. i corticosteroidi e gli agenti citotossici, come ciclofosfamide o clorambucil, comportano il rischio di aumentare la replicazione virale e il danno epatico: essi pertanto non sarebbero da considerare farmaci di prima scelta nel trattamento della crioglobulinemia mista e delle alterazioni renali hcv-correlate [7]. il trattamento con ifn-α, impiegato da solo o in combinazione con ribavirina, capace di sopprimere la viremia e di ridurre la crioglobulinemia e quindi di combattere i meccanismi responsabili del danno renale, dovrebbe essere considerato il trattamento eziologico della glomerulonefrite crioglobulinemica hcv-associata [8-10]. tuttavia il trattamento è scarsamente efficace in presenza di glomerulonefrite con sindrome nefritica o nefrosica e segni di vasculite sistemica. nelle esacerbazioni acute della nefropatia con rapido deterioramento della funzione renale trova specifica indicazione il trattamento immunosoppressivo con steroidi (boli ev di 0,5-1,0 g/die di metilprednisolone per tre giorni consecutivi, seguiti da 0,5 g/kg/die di prednisone per os, in associazione con un agente alchilante, solitamente ciclofosfamide 1,5-2 mg/kg/die per os). nelle esacerbazioni acute della glomerulonefrite crioglobulinemica e nei pazienti resistenti al trattamento antivirale con alti livelli sierici di crioglobuline e fenomeni vasculitici la terapia immunosoppressiva, eventualmente combinata con la plasmaferesi, potrebbe dunque rivestire un ruolo importante [11-18]. nelle crioglobulinemie miste, il trattamento aferetico è in grado di sottrarre immunocomplessi circolanti e di ridurre quindi il sovraccarico funzionale del sistema reticolo-endoteliale. inoltre, è stato dimostrato che il plasma-exchange, modificando il rapporto quantitativo fra igg e igm nelle crioglobulinemie miste, è in grado di variare le caratteristiche termiche dei complessi immuni circolanti, diminuendo la loro crioprecipitabilità. infine, la terapia aferetica si è dimostrata capace di migliorare le condizioni emoreologiche nel loro complesso (viscosità plasmatica ed ematica, aggregazione degli eritrociti) nei pazienti crioglobulinemici, con importanti ripercussioni sul microcircolo. le indicazioni al trattamento aferetico nelle crioglobulinemie miste sono rappresentate da severa vasculite cutanea, polineuropatia periferica o mononeurite multipla di recente insorgenza o con danno neurologico non reputato irreversibile, nonché da glomerulonefrite con insufficienza renale rapidamente evolutiva. nelle forme miste con severa vasculite cutanea o interessamento renale rapidamente evolutivo si raccomandano 9-12 sedute nelle prime 3 settimane, poi 2 sedute alla settimana (terza e quarta settimana), quindi una seduta alla settimana (per un mese). la valutazione dell’outcome della terapia aferetica è prevalentemente di tipo clinico, fondandosi sul miglioramento dello stato generale del paziente o della patologia d’organo (cute, rene, sistema nervoso periferico), anche sulla base di indicazioni di laboratorio (ad esempio, parametri di funzione renale) e strumentali (parametri elettromiografici) [19]. si raccomanda di non utilizzare i valori di criocrito, né come criterio di ammissione alla terapia immunosoppressiva o al plasmaexchange, né come indice di efficacia del trattamento, in quanto scarsamente correlato all’attività clinica di malattia. nel nostro caso potrebbe apparire particolarmente discutibile la terapia immunosoppressiva in paziente con recente recidiva di epitelioma basocellulare, in quanto l’immunosoppressione può slatentizzare un clone anaplastico eventualmente occulto, oltre a favorire la replicazione virale e il danno epatico. nel caso presentato, tuttavia, non sussistevano opzioni alternative, in considerazione della gravità della presentazione clinica e dell’immunopatogenesi. la terapia immunosoppressiva con steroidi è stata impiegata per controllare la vasculite connessa con la crioglobulinemia, ma gli effetti dell’immunosoppressione sull’infezione da hcv non sono stati ben valutati. va dunque sottolineato che dovrebbero essere evitati trattamenti prolungati. appena ottenuta la remissione clinica, declinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 108 gestione clinica di uno stato anasarcatico finita dalla stabilizzazione o dalla diminuzione della creatinina sierica, dall’assenza di cilindri urinari e dalla riduzione della proteinuria, il trattamento immunosoppressivo dovrebbe essere interrotto e sostituito da quello antivirale, trattamento eziologico della glomerulonefrite crioglobulinemica hcv-associata. la biopsia renale rappresenta, nel contesto della patologia, un criterio fondamentale di diagnosi e di valutazione prognostica [20]. da considerare inoltre che i reperti istologici possono guidare le scelte terapeutiche, ponendo indicazione al trattamento antivirale per i pazienti con quadro istologico di glomerulonef rite lieve-moderata, e al trattamento immunosoppressivo seguito dalla terapia antivirale per i pazienti con glomerulonefrite istologicamente attiva. nel nostro caso, tuttavia, visto il rifiuto da parte della paziente di sottoporsi a prelievo bioptico ma anche in considerazione del contesto clinico di nefropatia acuta con rapido scadimento della funzione renale, l’opzione terapeutica più appropriata al momento era necessariamente quella immunosoppressiva, con programma di terapia antivirale con interferon-alfa eventualmente in associazione con ribavirina, da effettuarsi a tempo opportuno. è importante sottolineare che le indicazioni alla nefrobiopsia dovrebbero riguardare non solamente i soggetti hcv-positivi con sindrome nefritica o nefrosica, ma anche quelli con segni minori di nefropatia, che potrebbero comunque presentare lesioni glomerulari attive. va altresì ricordato che la decisione di intraprendere un trattamento è comunque non semplice, dovendosi tenere conto non solamente del reperto istologico, ma anche dell’età del paziente, della durata e della gravità della malattia, delle condizioni cliniche generali, anche in relazione all’aspettativa di vita e alle controindicazioni al trattamento. si raccomanda nei pazienti affetti da glomerulonefrite crioglobulinemica la terapia necessaria per il controllo delle manifestazioni extra-renali. in particolare va praticata una terapia anti-ipertensiva precoce e intensiva. conclusioni la grande diffusione e la frequente asintomaticità dell’infezione da hcv, la molteplicità delle patologie ad essa associate e la non rara gravità della prognosi correlata suggeriscono l’opportunità di una precoce diagnosi dell’hcv-positività e delle sue più gravi manifestazioni. la crioglobulinemia mista e la glomerulonefrite sono le più importanti manifestazioni extraepatiche dell’infezione cronica da virus dell’epatite c e peggiorano nettamente la prognosi dei pazienti affetti; andrebbero dunque sospettate in tutti i pazienti hcvpositivi. circa il 50% di tutti i soggetti con infezione cronica hcv presenta crioglobulinemia. nella stragrande maggioranza dei casi la crioglobulinemia è asintomatica. i dati statistici documentano che la crioglobulinemia mista viene generalmente diagnosticata in soggetti di 40-60 anni, ma sintomi della malattia possono fare la loro prima comparsa da 10 a 20 anni prima di una corretta diagnosi. sarebbe dunque di enorme utilità pratica un’attenta e tempestiva valutazione di tali sintomi al loro primo manifestarsi, onde poter prevenire o procrastinare la comparsa delle gravi complicanze che rientrano nella storia naturale della patologia. la crioglobulinemia mista deve essere indagata in tutti i pazienti con positività per anti-hcv sierico; da considerare poi che essa è quasi certamente presente nei pazienti con segni e sintomi di insufficienza renale, o affetti da porpora, vasculite, ulcere cutanee o con ra-test positivo o con consumo delle frazioni c3 e c4 del complemento. l’accertamento diagnostico è semplice, tuttavia l’accurata esecuzione richiede la raccolta del campione di sangue con siringa calda e l’immediata processazione. va ricordato che i valori di criocrito non correlano con l’attività clinica della malattia. con altrettanto scrupolo va esclusa la concomitanza di un interessamento renale in questi pazienti. si è visto infatti che l’interessamento renale, anch’esso in grado di peggiorare nettamente la prognosi dei pazienti, è particolarmente frequente, incidendo dall’8 al 58% nelle varie casistiche, con prevalenza nelle donne. esso si manifesta in genere diversi anni dopo la presentazione dei primi sintomi. la gravità e la complessità del coinvolgimento renale impone un’attenta valutazione, in tutti i soggetti hcv-positivi, non solo dei segni di sindrome nefritica o nefrosica, ma anche dei segni minori di nefropatia, che potrebbero comunque essere una spia di lesioni glomerulari attive e richiedere pertanto clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 109 f. talarico, d. galasso una valutazione nefrobioptica. nei pazienti hcv-postivi si raccomanda la frequente valutazione del sedimento urinario, della clearance della creatinina e della proteinuria/microalbuminuria. il caso presentato è paradigmatico dell’importanza di non sottovalutare alcuni segni molto semplici e diffusi, quali modeste artralgie, piccole isolate petecchie, modesti edemi, modeste alterazioni urinarie e fenomeno di raynaud. quest’ultimo è spesso primitivo e quindi presente in soggetti sani, ma può essere secondario e quindi premonitore di gravi patologie, quali la sclerodermia, la dermatomiosite, la panarterite nodosa e la crioglobulinemia, comparendo in genere 10-20 anni prima della completa espressione clinica della patologia primitiva. la videocapillaroscopia, nel raynaud primitivo, evidenzia quadri di normalità nelle fasi intercritiche, mentre nel raynaud secondario permette di documentare, molti anni prima dell’espressione clinica della patologia di base, anomalie quali anse ectasiche e/o deformate, megacapillari, aree avascolari, tipiche delle connettivopatie, oppure può evidenziare alterazioni come microemorragie, tortuosità, ectasie laterali, edema perivasale, che comunque, se riscontrate nella fase intercritica, sono sempre indicative di un raynaud secondario, che richiede necessariamente un approfondimento diagnostico. pertanto la videocapillaroscopia riveste un ruolo di indiscutibile valore diagnostico nello slatentizzare in fase precoce patologie gravi ancora clinicamente silenti. concludiamo suggerendo l’opportunità di eseguire, in presenza dei suddetti segni clinici, alcuni esami molto semplici, diffusi, non invasivi e poco costosi, quali una videocapillaroscopia e il dosaggio degli anticorpi anti-hcv e delle crioglobuline sieriche. uno screening per gli anticorpi anti-hcv è fortemente auspicabile nei sottogruppi di popolazione a più elevato rischio, nei soggetti con segni anche minimi di sofferenza epatica o renale ma anche nei soggetti affetti da patologie hcv-associate in maniera certa o significativa, nonché nelle patologie in supposta associazione con l’hcv o nei casi in cui siano presenti i sintomi di più frequente riscontro nella crioglobulinemia mista essenziale. iter clinico-diagnostico in caso di edemi generalizzati [4] clinical management issues 2007; 1(3) ©seed tutti i diritti riservati 110 gestione clinica di uno stato anasarcatico bibliografia 1. world 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sovrapubic pain and swelling. physical examination reveals swollen glans with purulent secretions and oedema. the final diagnosis of squamous cell carcinoma is established by means of rmn and biopsy. partial penectomy surgery follows. histopathological examination shows poorly differentiated endophytic infiltrative growth. the tumour infiltrates corpus spongiosum, corpora cavernosa, and urethra. the proximal uretheral stump is free from infiltration (pt3). keywords: penis cancer; squamous-cell carcinoma; partial penectomy surgery penis cancer: a case report cmi 2014; 8(2): 45-49 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i2.906 caso clinico corresponding author dott. gregorio sampalmieri sampalmieri2000@yahoo.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito agli argomenti trattati nel presente articolo perché descriviamo questo caso alcune lesioni del pene sono completamente benigne, altre invece possono evolvere verso la malignità. è importante inquadrarne le relazioni anatomiche, eziologiche e istologiche con il carcinoma squamoso e con gli altri tumori maligni per facilitarne la diagnosi differenziale, in quanto la precocità dell’intervento è fondamentale introduzione fra le varie lesioni maligne del pene, quella di gran lunga più frequente è il carcinoma squamoso; tale neoplasia origina preferibilmente, in ordine decrescente di frequenza, in corrispondenza del glande, della superficie interna del prepuzio, del solco balano-prepuziale e, più raramente, del corpo del pene. figura 1. voluminosa neoformazione cutanea glando-peniena dorso-anteriore con aree di necrosi e ulcerazione, di consistenza duro-lignea anche se i fattori cancerogeni precisi non sono stati individuati, è stato appurato che le persone circoncise precocemente risultano protette dall’insorgenza del carcinoma; è stato altresì riscontrato che l’incidenza aumenta nel caso di condizioni socio-economiche molto disagiate e, di conseguenza, anche di cattive condizioni igieniche. a conferma di ciò si noti il ruolo che viene riconosciuto alla fimosi e all’accumulo di smegma che ne consegue tra i fattori di rischio. si ritiene che varie altre condizioni possano favorire l’insorgenza di tale patologia, come il fumo di sigaretta, le terapie radianti, la balanite xerotica obliterante e la predisposizione genetica [1]. inoltre c’è una forte evidenza che hpv16 e 18 siano associati all’insorgenza di tumore in oltre il 50% dei casi [2,3]. in europa e in america la fascia d’età più colpita è quella compresa fra 40 e 70 anni, con un massimo intorno a 55 anni. si tratta di un cancro che metastatizza per via linfatica, e le stazioni inizialmente interessate possono essere le inguinali superficiali, le profonde, le prepubiche, le retrocrurali, il linfonodo di cloquet, le iliache esterne e le otturatorie. caso clinico un paziente di 74 anni, recatosi al pronto soccorso per tumefazione e dolore a livello sovrapubico bilateralmente, riferisce puntura di insetto sull’asta. trasferito nel nostro reparto di urologia, presenta all’esame obiettivo glande di consistenza duro-lignea con secrezione puruloide, edema e arrossamento della regione pelvica sovrapubica e dello scroto con presenza di tumefazioni bilaterali inguinali adese ai piani sovrastanti (figura 1). viene eseguita risonanza magnetica dello scavo pelvico che evidenzia corpi cavernosi normali; l’uretra è ben delineata fino al tratto pre-distale. il tessuto spongioso del glande risulta molto disomogeneo e ispessito con impregnazione contrastografica discretamente marcata compatibile con un importante impegno flogistico. in questo contesto l’uretra non è visualizzabile per inglobamento da parte della componente flogistica. bilateralmente in sede inguinale e femorale sono presenti linfoadenopatie con diametro massimo di circa 40 mm. si esegue biopsia del glande e del prepuzio, che conferma la presenza di carcinoma a cellule squamose da moderatamente a scarsamente differenziato, con aspetti cheratinizzanti e pseudoghiandolari. si procede dunque con l’intervento chirurgico di penectomia parziale. figura 2. reperto istologico di carcinoma squamoso con pattern di crescita endofitica infiltrativa, cheratinizzante, da moderatamente a scarsamente differenziato l’esame istopatologico del pene distale evidenzia un carcinoma squamoso con pattern di crescita endofitica infiltrativa, cheratinizzante, da moderatamente a scarsamente differenziato. la neoplasia infiltra il corpo spongioso, i corpi cavernosi e l’uretra; si associa, inoltre, l’invasione neoplastica perineurale. il moncone uretrale prossimale risulta invece esente da infiltrazione neoplastica (pt3) (figura 2). un’ecografia inguinale post-operatoria mostra, a destra, una voluminosa formazione ipoecogena a contorni estremamente policiclici di circa 10 cm di diametro riferibile a pacchetti linfonodali conglobati; a sinistra sono presenti altre numerose aree meno voluminose, a contorni policiclici, ma in gran parte con contenuto fluido riferibile a linfonodi colliquati. discussione per il controllo del cancro del pene è da considerarsi valida solo la terapia chirurgica, risultando inadeguate come terapie risolutive, se non associate a chirurgia, sia la terapia radiante [4] sia la chemioterapia [5]. generalmente il tumore è infetto, pertanto i linfonodi regionali risultano cronicamente flogosati. il paziente deve perciò essere sottoposto a un’intensa terapia antibiotica dalla prima visita, per almeno 2-3 settimane prima dell’intervento chirurgico; tale terapia va poi continuata fino alla cicatrizzazione delle brecce operatorie. le varie tecniche chirurgiche di cancro del pene tengono conto principalmente dell’estensione del tumore, sia localmente sia alle stazioni linfonodali di drenaggio loco-regionali, più che ai principi di radicalità oncologica. esse sono: penectomia parziale; circoncisione; penectomia totale; penectomia totale con panniculectomia. ognuna di queste tecniche può essere associata a una delle seguenti linfadenectomie: inguinali superficiali; inguinale superficiale e profonda; inguinale superficiale, profonda, del linfonodo di cloquet, dei linfonodi retrocrurali e iliaci esterni, associata o meno a quella dei linfonodi iliaci interni. la penectomia parziale è da preferire alla circoncisione perché permette di rimuovere tutto il tessuto canceroso e precanceroso [6]. tale tipologia di intervento chirurgico è anche considerata migliore della penectomia totale, a condizione ovviamente che il tumore primitivo possa essere rimosso con sufficiente margine, perché non sembra essere meno vantaggiosa per quanto concerne la radicalità e inoltre comporta un minor trauma psicologico per il paziente, soprattutto se giovane. comunque, pochi pazienti riescono ad avere un soddisfacente rapporto dopo la penectomia parziale: il principale vantaggio, di fatto, è che il paziente può, generalmente, mingere in piedi. le lesioni della parte prossimale, della base del pene o che interessino massivamente l’asta necessitano di un’amputazione totale. la stessa metodica va praticata se la lesione è istologicamente più aggressiva di quanto l’esame clinico lasciasse supporre. la penectomia totale deve includere anche la panniculectomia pubica se il tumore coinvolge la base del pene o la parete addominale [7]. la linfadenectomia delle stazioni di drenaggio può essere eseguita sia a scopo palliativo sia terapeutico; nel primo caso la dissezione inguinale viene eseguita per prevenire una morte precoce da erosione dentro le arterie femorali e per diminuire la massa totale del tumore, conferendo così maggior efficacia a eventuali terapie complementari. a scopo terapeutico si pratica la linfadenectomia al tempo della penectomia, oppure entro tre mesi solo in caso di positività all’esame clinico dei linfonodi inguinali [8]. in caso di negatività dei linfonodi, non potendosi escludere la presenza di micrometastasi, si ricorre all’uso della biopsia dinamica del linfonodo, o dei linfonodi, sentinella (dsnb). tale linfonodo viene identificato intraoperatoriamente, dopo aver iniettato il giorno precedente all’intervento 99mtc nella zona circostante il tumore, con gamma camera e raggi x. la linfadenectomia inguinale viene eseguita solo nei pazienti con linfonodi sentinella positivi, pratica che consente di evitare linfadenectomie inutili, dal momento che sono gravate da notevole morbilità [9]. secondo alcuni autori [10] ci si può limitare a effettuare una linfadenectomia superficiale, riservandosi di praticare quella profonda nei casi di metastasi a livello di linfonodi inguinali superficiali. comunque la sopravvivenza risulta essere migliore quando si effettua anche la dissezione inguinale profonda in pazienti con metastasi inguinali anche occulte. certamente aspettare che le metastasi inguinali si sviluppino fino alla misura in cui sono clinicamente apprezzabili non fornisce una terapia risolutiva per il cancro, in quanto la forma neoplastica assume spesso la caratteristica di incurabilità. il principio di radicalità porta molti autori [11] a effettuare una dissezione ileo-inguinale; questa tecnica ha dato medie di sopravvivenza più alte rispetto alla sola asportazione sub-inguinale, comportando un miglior margine chirurgico, dal momento che le metastasi possono saltare i linfonodi inguinali e andare direttamente ai linfonodi iliaci. la ricerca di metastasi a distanza, effettuata mediante pet-tc, deve essere eseguita solo in presenza di metastasi inguinali e la loro rilevazione indica l’uso di terapia aggiuntiva alla chirurgia. il nostro indirizzo terapeutico consiste essenzialmente nella precocità e nella radicalità dell’intervento chirurgico, anche se il caso presentato è giunto alla nostra osservazione a uno stadio molto avanzato, situazione che lo ha reso molto particolare, essendo raro ormai riscontrare neoplasie peniene di tali dimensioni. per precocità si intende eseguire l’operazione al più presto, non prima, però, di aver somministrato antibiotici per almeno tre settimane, al fine di ridurre la flogosi che si ha sempre sia a livello del tumore primitivo sia a livello delle sue stazioni di drenaggio linfatico, siano esse interessate o meno da metastasi. ciò comporta una miglior valutazione dello stadio del tumore e diminuisce le complicanze chirurgiche delle ferite che possono verificarsi quale che sia la tecnica chirurgica adottata [12]. è evidente, pertanto, che tale terapia va continuata anche nel post-operatorio fino alla completa cicatrizzazione delle ferite. per radicalità si intende l’ectomia di tutte le stazioni linfatiche interessate come possibili sedi di metastasi fino alla biforcazione iliaca, oltre che l’asportazione completa dell’organo, qualora risulti necessario. nell’eventualità di cattive condizioni generali del paziente, l’asportazione sarà limitata alle stazioni linfatiche più probabilmente interessate e che determinano minor trauma chirurgico come i linfonodi inguinali superficiali, in particolare quelli del gruppo supero-mediale, oltre a ogni altro linfonodo che la citoaspirazione ha dimostrato essere neoplastico. in ogni caso, comunque, l’asportazione delle stazioni linfonodali, sia essa limitata o estesa, sarà sempre bilaterale dato l’incrocio delle reti linfatica destra e sinistra del pene. l’asportazione delle stazioni linfatiche sarà sempre centripeta rispetto alla lesione, iniziando dalle più lontane. riteniamo sempre utile eseguire una flebografia degli arti inferiori per accertare la pervietà del circolo profondo in vista di una safenectomia parziale in corso di svuotamento inguinale completo. solo occasionalmente, invece, eseguiamo una linfografia, prima dell’intervento chirurgico e dopo terapia antibiotica in quei pazienti nei quali non è possibile eseguire una linfadenectomia estesa per le cattive condizioni generali; tale metodica può dare infatti un’idea dell’interessamento linfonodale di alcune stazioni e guidare una eventuale radioterapia complementare a quella chirurgica. per ciò che riguarda il nostro caso, dai dati anamnestici in nostro possesso non risulta l’uso da parte del paziente di sostanze chimiche, né di traumi, né tantomeno di sicuri episodi di balanopostite (dato l’enorme tempo di latenza nel manifestarsi della lesione), non è stata riscontrata infezione da hpv anche se non è da escluderne una possibile presenza. la puntura di insetto, motivo per cui il paziente si è recato al pronto soccorso, non ha avuto alcun ruolo nella formazione della neoplasia, sempre che vi sia stata; il dolore potrebbe infatti essere stato causato dal tumore stesso. la causa più probabile si può far risalire alla scarsa igiene che ha provocato un accumulo di smegma il quale, come detto in precedenza, ha un ruolo significativo nello sviluppo di tali lesioni. la terapia antibiotica pre-operatoria, fondamentale per la riduzione della zona interessata da reazione infiammatoria, è stata eseguita, permettendoci di delineare meglio, in sede di intervento, i limiti della neoplasia. la linfoadenectomia non è stata eseguita in quanto i linfonodi apparivano diffusamente conglobati e colliquati: si è avviato quindi il paziente verso una chemioterapia. punti chiave precocità della diagnosi studio accurato della lesione intervento precoce e radicale stadiazione accurata follow-up bibliografia 1. ornellas p, ornellas aa, chinello c, et al. downregulation of c3 and c4a/b complement factor fragments in plasma from patients with squamous cell carcinoma of the penis. int braz j urol 2012; 38: 739-49; http://dx.doi.org/10.1590/1677-553820133806739 2. dillner j, meijer cjlm, von krogh g, et al. epidemiology of human papillomavirus infection. scand j urol nephrol sup 2000; 34: 194-200; http://dx.doi.org/10.1080/00365590050509922 3. jemal a, simard ep, dorell c, et al. annual report to the nation on the status of cancer, 1975-2009, featuring the burden and trends in human papillomavirus(hpv)-associated cancers and hpv vaccination coverage levels. j natl cancer inst 2013; 105: 175-201; doi: 10.1093/jnci/djs491; http://dx.doi.org/10.1093/jnci/djs491 4. crook jm, haie-meder c, demanes dj, et al. american brachytherapy society-groupe européen de curiethérapie-european society of therapeutic radiation oncology (abs-gec-estro) consensus statement for penile brachytherapy. brachytherapy 2013; 12: 191-8; doi: 10.1016/j.brachy.2013.01.167; http://dx.doi.org/10.1016/j.brachy.2013.01.167 5. noronha v, patil v, ostwal v, et al. role of paclitaxel and platinum-based adjuvant chemotherapy in high-risk penile cancer. urol ann 2012; 4: 150-3; doi: 10.4103/0974-7796.102659; http://dx.doi.org/10.4103/0974-7796.102659 6. mcdouglas ws. advances in the treatment of carcinoma of the penis. urology 2005; 66(5 suppl): 114-7; http://dx.doi.org/10.1016/j.urology.2005.06.007 7. syeds s, eng ty, thomas cr, et al. current issues in the management of advanced squamous cell carcinoma of the penis. urol oncol 2003; 21: 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stessi trattamenti, chirurgico, radioterapico, chemioterapico, possono avere effetti collaterali sul versante cognitivo [14,16,17]. nonostante il notevole impatto che tali disturbi determinano sull’autonomia dei pazienti e sulla loro qualità di vita [18,19], pochi studi hanno indagato le strategie per prevenire o trattare le alterazioni neuropsicologiche in questa popolazione. introduzione nel corso degli ultimi 50 anni si è assistito a un rilevante sviluppo delle terapie mediche e chirurgiche rivolte ai pazienti affetti da tumore del sistema nervoso centrale. tuttavia, a fronte di una maggiore aspettativa di vita, spesso questi pazienti presentano, oltre a disturbi motori, anche deficit cognitivi e comportamentali. dal punto di vista epidemiologico, la percentuale di pazienti neuro-oncologici che presenta deficit cognitivi, rilevati con valutazioni neuropsicologiche formali, risulta estremamente importante [1-4], variando dal 29% in pazienti con glioma di basso grado non sottoposti a radioterapia [5] fino al 90% riportato per pazienti affetti da altri tumori cerebrali e sottoposti a trattamento radioo chemioterapico [3,6-10]. ad oggi l’esatta fisiopatologia dei disturbi cognitivi non è stata del tutto chiarita e tra le diverse cause è possibile individuare il tumore stesso (da considerare in termini di sede, dimensione, progressione e tasso di crescita) e le complicanze neurologiche correlate al perché descriviamo questi casi la presenza di disturbi cognitivi in corso di patologia oncologica è frequente, incide significativamente sulla qualità di vita e sull ’autonomia del paziente, ma è spesso sottovalutata. la valutazione neuropsicologica permette l ’inquadramento delle funzioni cognitive e la definizione di un programma riabilitativo individuale volto al recupero o alla compensazione dei deficit corresponding author dott.ssa chiara zucchella uoc neuroriabilitazione irccs istituto neurologico mediterraneo neuromed via atinense 18 86077 pozzilli, isernia cell.: 349.2116493 chiara.zucchella@gmail. com caso clinico abstract cognitive impairment is one of the most common neurological disorders in neuro-oncological patients, linked with morbidity, disability, and poor quality of life. as pharmacologic interventions have not yet proven effective in the treatment of cognitive deficits, cognitive rehabilitation could represent an alternative approach. this paper presents three case studies, describing the cognitive intervention and discussing its effectiveness in the light of current evidence. keywords: neuro-oncology; neuropsychology; rehabilitation; cognitive deficits cognitive rehabilitation in neuro-oncological patients: three case reports cmi 2012; 6(2): 67-73 1 uoc neuroriabilitazione, irccs istituto neurologico mediterraneo neuromed, pozzilli (isernia) 2 ssd neurologia, irccs istituto nazionale tumori “regina elena”, roma 3 dipartimento di scienze medico-chirurgiche e biotecnologie, “sapienza” università di roma chiara zucchella 1, andrea pace 2, francesco pierelli 1,3, michelangelo bartolo 1 riabilitazione cognitiva in pazienti neuro-oncologici: tre casi clinici 68 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) riabilitazione cognitiva in pazienti neuro-oncologici: tre casi clinici ad oggi non esistono terapie farmacologiche efficaci nel trattamento dei deficit cognitivi in generale, e in particolare nei pazienti affetti da tumore cerebrale [20]. la riabilitazione neuropsicologica potrebbe pertanto rappresentare un approccio alternativo. sebbene in letteratura vi siano numerosi studi a sostegno dell’efficacia della riabilitazione cognitiva in pazienti affetti da diverse patologie neurologiche (ictus cerebrale, trauma cranico, sclerosi multipla, malattie neurodegenerative quali malattia di alzheimer e malattia di parkinson) [21-28], per quanto riguarda l’utilizzo della riabilitazione cognitiva nei pazienti neuro-oncologici le evidenze sono ancora limitate [29]. di seguito saranno presentati e discussi tre casi di pazienti affetti da patologia oncologica del sistema nervoso centrale, con differente diagnosi istologica, il cui trattamento ha previsto un primo approccio di tipo chirurgico e successivamente un intervento di natura riabilitativa. tali pazienti sono rappresentativi della popolazione che tipicamente afferisce ai reparti di neuroriabilitazione. casi clinici i casi qui riportati fanno parte di una più ampia casistica di soggetti affetti da neoplasia primitiva del sistema nervoso centrale, trattati chirurgicamente e ricoverati presso l’uoc neuroriabilitazione dell’irccs istituto neurologico mediterraneo neuromed [30]. tutti i pazienti sono stati valutati dal punto di vista neuropsicologico con una batteria di strumenti standardizzati che comprendeva: mini mental state examination [31], digit span [32], test di corsi [32], 15 parole di rey [33], test di memoria logica [34], frontal assessment battery [35], matrici colorate di raven [36], matrici attentive [36], trail making test part a e b [37], figura complessa di rey (copia) [38], fluenza fonologica [39], fluenza semantica [36]. l’intervento di riabilitazione cognitiva consisteva in 16 sedute individuali della durata di un’ora, condotto in quattro sessioni alla settimana, per un periodo complessivo di trattamento di 4 settimane. le sessioni prevedevano l’esecuzione di esercizi al computer volti ad allenare: orientamento spazio-temporale, funzioni mnesiche, attenzione, abilità di critica, ragionamento logico e astrazione, funzioni visuo-spaziali. in ciascuna seduta era anche proposto l’apprendimento di strategie metacognitive e di problem-solving, utilizzabili dai pazienti nelle situazioni di vita quotidiana. la selezione dei singoli esercizi, la cui difficoltà poteva essere gradualmente aumentata, veniva effettuata dal neuropsicologo sulla base delle specifiche esigenze riabilitative di ciascun paziente. la valutazione basale e quella di follow-up dopo l’intervento cognitivo venivano eseguite da due differenti psicologi, entrambi con competenze specifiche in ambito neuropsicologico. per tutti i pazienti si trattava di una prima diagnosi; tutti hanno effettuato l’intervento cognitivo prima di iniziare i trattamenti antitumorali (radioterapia, chemioterapia). in tutti i casi il trattamento cognitivo era inserito nell’ambito di un progetto riabilitativo che comprendeva anche fisioterapia e terapia occupazionale. caso 1. riguarda un maschio di 74 anni, destrimane, con 7 anni di scolarità. il paziente aveva eseguito una rm encefalo con mezzo di contrasto a causa del persistere, da circa tre mesi, di disturbi del linguaggio, di tipo afasia nominum, associati a riduzione del visus e ipostenia all’emisoma destro. l’indagine neuroradiologica aveva evidenziato la presenza di lesione espansiva in sede frontale sinistra con edema perilesionale, che al successivo esame istologico era risultata compatibile con glioblastoma (iv grado who). il paziente era stato sottoposto a valutazione neurochirurgica e quindi a intervento per asportazione della lesione. all’ingresso nel reparto di neuroriabilitazione, dopo 9 giorni dall’intervento chirurgico, il paziente risultava vigile, collaborante, parzialmente orientato nello spazio e nel tempo, orientato rispetto alle cose e alle persone, disfagico. la deambulazione era possibile solo per circa 1-2 metri con doppio appoggio e andatura di tipo atassico. l’autonomia nelle attività della vita quotidiana (adl) risultava ridotta. il quadro cognitivo era caratterizzato da disturbi mnesici, attentivi e a carico delle abilità logico-esecutive (tabella i). caso 2. riguarda una donna di 59 anni, destrimane, con 11 anni di scolarità, la cui malattia era esordita con sintomatologia caratterizzata da nausea e vomito. gli esami neuroradiologici (tc e rm con mdc) evidenziavano nella fossa cranica posteriore la presenza di tre lesioni solide extraparenchimali; la paziente era quindi sottoposta a intervento neurochirurgico per asportazione della lesione che, all’esame istopatologico risultava essere un menigioma psammoma69 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) c. zucchella, a. pace, f. pierelli, m. bartolo toso (i grado who). il trasferimento in neuroriabilitazione avveniva dopo 13 giorni dall’intervento chirurgico. all’ingresso la paziente appariva vigile, collaborante, in grado di eseguire ordini semplici. dal punto di vista motorio presentava grave emiparesi sinistra, con possibili movimenti di apertura-chiusura della mano e di flessione del ginocchio. la paziente richiedeva assistenza per tutte le adl di base. alla valutazione neuropsicologica vi era il riscontro di deficit cognitivi multisettoriali (tabella i). caso 3. riguarda un maschio di 56 anni, destrimane, con 13 anni di scolarità. la malattia era esordita con episodio critico a secondaria generalizzazione di tipo tonicoclonica. sottoposto a esame tc e rm encefalo con mdc, si rilevava la presenza di lesione eteroformata intra-assiale con componente solida a sede f ronto-temporo-insulare destra. il paziente veniva quindi sottoposto a intervento neurochirurgico per asportazione della neoformazione, che all’esame istopatologico risultava compatibile con oligoastrocitoma ii grado who. all’ingresso in neuroriabilitazione, dopo 9 giorni dall’intervento neurochirurgico, il paziente risultava vigile, orientato e collaborante, sebbene fosse evidente un lieve rallentamento ideomotorio, caratterizzato da un aumento della latenza nelle risposte anche a domande semplici. all’esame obiettivo vi era evidenza di moderata ipostenia all’emisoma sinistro. la stazione eretta era possibile con base allargata e supervisione. era possibile la deambulazione solo con assistenza diretta e per pochi passi. non vi erano evidenti deficit delle sensibilità. il profilo cognitivo risultava caratterizzato da deficit a carico delle funzioni mnesiche e delle abilità logiche e attentive (tabella i). risultati nella tabella i sono raccolti i punteggi ottenuti dai tre pazienti nei singoli test neuropsicologici prima e dopo il training cognitivo; i punteggi riportati corrispondono ai punteggi corretti per età e scolarità secondo i dati normativi sulla popolazione italiana. in considerazione del ridotto numero di soggetti, non è stata effettuata un’analisi statistica sul gruppo; di seguito vengono comunque indicati i risultati del trattamento per ogni singolo paziente. nel caso 1, alla valutazione post-training emerge un miglioramento delle funzioni mnesiche a maggiore componente strategica e una riduzione dei tempi di esecuzione nelle prove attentive. dopo il trattamento, il caso 2 migliora le performance attentive in termini di tempo e di accuratezza, oltre alla funzionalità frontale. il caso 3 evidenzia, alla valutazione finale, un miglioramento generalizzato dell’efficienza cognitiva, che interessa sia le funzioni mnesiche sia le abilità logico-esecutive. test caso 1 caso 2 caso 3 pre post pre post pre post mini mental state examination 25,2 26,2 18,4* 24,9 26,9 30 digit span 4,5 4,5 3* 5 3,75 4,75 test di corsi 4,5 4,5 3* 5,25 2,75* 4,75 15 parole di rey (rievocazione immediata) 13,9* 17,9* 22,3* 29,3 25 41 15 parole di rey (rievocazione differita) 2,9* 3,9 4,7 10,7 1,5* 7,5 test di memoria logica (rievocazione immediata) 3,2 3,7 6 6,6 1,4* 5,8 test di memoria logica (rievocazione differita) 2,5 3 5,6 6,8 0,6* 5,6 frontal assessment battery 14,3 14,3 11,5* 14,5 13,3 15,3 matrici colorate di raven 47 19 21 15,5* 17* 16* 33 matrici attentive 30* 32 17,5* 26,2* 13,5* 50,5 trial making test part a 108* 98* 124* 96* 175* 126* trial making test part b 294* 283* 311* 245 326* 264 figura complessa di rey – copia 5,9* 9,8* 17,5* 22,5* 15,5* 27,5* fluenza fonologica 17 22 15 16 3* 25 fluenza semantica 26 28 17 31 8 30 tabella i. punteggi ai test neuropsicologici pree posttraining cognitivo * punteggi al di sotto dei valori normativi di riferimento 70 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) riabilitazione cognitiva in pazienti neuro-oncologici: tre casi clinici discussione i dati ottenuti dai casi proposti indicano che l’esecuzione di un intervento cognitivo in fase precoce, dopo l’intervento chirurgico, sembra avere effetti positivi in termini di efficienza cognitiva in relazione alle funzioni trattate in pazienti affetti da tumore cerebrale indipendentemente dalla diagnosi istologica. in particolare, l’effetto della riabilitazione appare più rilevante per le funzioni logico-esecutive, verosimilmente grazie all’acquisizione di strategie compensatorie. tale effetto positivo, sebbene non sempre consenta di riportare la prestazione entro i valori normali di riferimento, è da intendersi in un’ottica riabilitativa di riduzione della disabilità e facilitazione alla partecipazione. questi risultati sono coerenti con precedenti studi che, seppur impiegando approcci riabilitativi differenti, hanno dimostrato l’efficacia di interventi di riabilitazione cognitiva in questa popolazione, condotti in fase post-acuta [29,40,41]. sherer e colleghi [40] hanno dimostrato che un intervento di terapia cognitiva e vocazionale risulta efficace nel migliorare indipendenza e produttività dei pazienti. locke e collaboratori [41], combinando un intervento di riabilitazione cognitiva con tecniche di problem-solving, hanno riportato un effetto positivo del training in termini di apprendimento di strategie per la gestione di problematiche quotidiane, mentre gehring e colleghi [29] hanno descritto un training di riabilitazione computerizzata associato all’insegnamento di strategie compensatorie con effetti positivi nel breve termine sui disturbi soggettivamente riferiti dai pazienti, e nel lungo termine sulle performance cognitive. da questi studi emerge che la riabilitazione cognitiva, intesa come l’insieme delle procedure e degli strumenti volti al recupero e/o alla compensazione dei deficit, appare un metodo efficace di intervento [42]. la peculiarità dell’approccio proposto nei casi descritti risiede nella precocità dell’intervento cognitivo, che viene avviato già in domande che il medico dovrebbe porsi trovandosi davanti a casi di questo tipo y sono presenti disturbi cognitivi? il paziente o i familiari li riferiscono? y tali disturbi interferiscono con l ’autonomia del paziente nella vita quotidiana, nell ’attività lavorativa o limitano la sua partecipazione sociale? y ci sono i presupposti per una presa in carico riabilitativa, anche sul versante cognitivo? quali obiettivi ci si può realisticamente porre? fase acuta, mediamente entro due settimane dall’intervento chirurgico; la necessità di intervenire rapidamente è infatti ancora più pressante in questa tipologia di pazienti in cui la progressione di malattia può risultare spesso veloce. nonostante questi risultati incoraggianti, allo stato attuale la scarsità di indagini che coinvolgono la riabilitazione neuropsicologica dei pazienti con tumori cerebrali ha lasciato ancora irrisolte molte domande circa la fattibilità degli interventi in questa popolazione. fattori come ad esempio la tempistica ottimale e l’intensità dei trattamenti sono sconosciuti. analogamente, non esistono criteri definiti che indichino quali siano i pazienti che possono beneficiare in misura maggiore del trattamento o che impatto possano avere fattori quali il grado e il tipo del tumore, la prognosi, l’epoca della diagnosi o la gravità della compromissione cognitiva. la questione dell’efficacia della riabilitazione cognitiva è pertanto ancora molto dibattuta e lo sarà ancor di più se, come previsto, la prevalenza di pazienti che necessitano di interventi di questo tipo è destinata a crescere nel prossimo futuro [42]. il recente contributo delle neuroscienze ha costituito da un lato un’importante legittimazione dell’intervento anche nel settore cognitivo, dall’altro ha aperto nuove prospettive di ricerca mirate, in un’ottica più ecologica, a migliorare le competenze funzionali nella vita quotidiana e a promuovere una qualità di vita orientata alla “partecipazione”. la presa in carico del paziente neuro-oncologico, pertanto, non può che configurarsi come multicomponenziale, nell’ambito del modello biopsicosociale, cui si ispira per definizione l’approccio riabilitativo e che trova oggi espressione concettuale nell’international classification of functioning (icf) [43]. proprio per questo la riabilitazione cognitiva si sta orientando verso un modello comprensivo che, oltre a identificare il deficit (che ci dice che cosa trattare, ma non ancora come trattare), ne conside71 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) c. zucchella, a. pace, f. pierelli, m. bartolo ra anche le possibili conseguenze emotive, comportamentali e sociali [44], ponendo quindi come obiettivo dell’intervento cognitivo quello di promuovere una maggiore autonomia e indipendenza del soggetto nel vivere quotidiano [45]. la questione della generalizzazione, cioè del trasferimento dei risultati ottenuti in seduta alle situazioni ecologiche, diventa quindi un punto cruciale per valutare l’effettiva utilità degli interventi [46]. è infatti ovvio che i neuropsicologi non possono addestrare i pazienti a gestire tutte le difficoltà che si troveranno ad affrontare nelle attività di tutti i giorni: il trasferimento delle competenze dai compiti “allenati” a quelli “non allenati”, così come l’applicazione di strategie o l’addestramento all’utilizzo di ausili esterni rappresentano quindi elementi di grande importanza per il successo clinico dell’intervento. cicerone e colleghi [28,47] hanno tuttavia precisato che, ad oggi, relativamente pochi studi hanno cercato di valutare il verificarsi del trasferimento degli effetti del trattamento a situazioni e comportamenti di vita quotidiana, sebbene molti forniscano prove a sostegno dell’utilità pratica della riabilitazione cognitiva. nella pratica corrente è pertanto auspicabile che i neuropsicologi, oltre all’applicazione delle misure neuropsicologiche formali (test), effettuino anche valutazioni funzionali, attraverso questionari, osservazioni comportamentali e interviste cliniche [48]. inoltre, poiché i tumori cerebrali, in particolare quelli maligni, hanno la tendenza a recidivare, il mantenimento nel tempo dei risultati ottenuti alla conclusione del trattamento rappresenta un’ulteriore questione che merita di essere indagata. nei casi descritti non è stato possibile effettuare un follow-up, in quanto i pazienti dopo la dimissione sono stati seguiti da centri oncologici per i successivi controlli. in conclusione, nonostante l’alta incidenza di deficit neuropsicologici nei pazienti neuro-oncologici, i trattamenti di riabilitazione cognitiva in questa popolazione non sono ben definiti. i nostri dati suggeriscono che la riabilitazione effettuata precocemente dopo l’intervento chirurgico determini un miglioramento delle performance cognitive, indipendentemente dal tipo di tumore. nel prossimo futuro la ricerca in questo settore dovrà produrre evidenze basate su un più solido rigore metodologico, che considerino gruppi di controllo, randomizzazione, prove di generalizzazione alla vita reale e follow-up a lungo termine, al fine di trarre conclusioni valide e definitive circa l’efficacia di questo tipo di interventi. lo sviluppo delle tecniche di imaging funzionale potrebbe inoltre colmare il divario tra la pratica clinica e la comprensione dei meccanismi neurali sottostanti il recupero, permettendo di misurare in vivo il riemergere di abilità precedentemente perse, almeno a livello macroscopico. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. punti chiave y durante l ’anamnesi è importante indagare le funzioni cognitive y indirizzare il paziente a eseguire una valutazione neuropsicologica presso centri e personale competente y indirizzare il paziente a eseguire la valutazione cognitiva in fase precoce, già prima dell ’intervento terapeutico (chirurgia, radio-/chemioterapia) y la sfera cognitiva si compone di funzioni complesse (logico-esecutive, memoria procedurale, memoria di lavoro, memoria a breve e lungo termine, attenzione, abilità visuo-spaziali, linguaggio, ecc.) che devono essere indagate dal neuropsicologo con strumenti specifici, validati e standardizzati y la valutazione cognitiva deve essere svolta da psicologi con competenza specifica in neuropsicologia y un intervento cognitivo individualizzato, iniziato già in fase precoce, è in grado di migliorare le performance cognitive 72 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) riabilitazione cognitiva in pazienti neuro-oncologici: tre casi clinici bibliografia 1. archibald ym, lunn d, ruttan la, et al. cognitive functioning in long-term survivors of high grade glioma. j neurosurg 1994; 80: 247-53 2. weitzner ma, meyers ca. cognitive functioning and quality of life in 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bergamaschi 2 una lombalgia... alcol-acido resistente caso clinico il signor bsh è un uomo di 33 anni, originario del pakistan, presente irregolarmente in italia da circa 6 mesi. giunge alla nostra osservazione per la prima volta, accompagnato da un parente che lo aiuta nella comunicazione, in quanto il paziente parla molto poco l’italiano e non conosce altre lingue oltre al suo idioma natio (urdu). durante la raccolta dei dati anagrafici per la compilazione della cartella clinica, il paziente riferisce di non avere il permesso di soggiorno, di essere disoccupato e di vivere ospite da amici. è di religione islamica ed è celibe. da tempo non meglio precisato lamenta dolore in regione lombare ma, visto lo stato di clandestinità, non possiede la tessera sanitaria che gli permetta l’accesso alle cure del medico di medicina generale (mmg) e non si è recato al pronto soccorso per paura di essere denunciato. su consiglio di un amico, ha assunto un farmaco imprecisato, senza beneficio. la raccolta dell’anamnesi abstract we reported the case of a pakistani young man, illegally residing in italy, complaining for chronic backache. x-ray was negative, while the blood test revealed neutrophilic leukocytosis and an increase in inflammation markers. tuberculin skin test was negative. he worsened despite of repeated cycles of analgesic therapy and fluoroquinolones. after 4 months a nuclear magnetic resonance suggested tubercular (tb) spondylitis whose etiology was confirmed by exjuvantibus criteria. it is important to take tb in account when facing an immigrant suffering from backache, coming from a highly endemic area. keywords: migrant, tuberculosis, backache, sciatic neuritis, pott’s disease an alcohol-acid resistant backache. cmi 2008; 2(1): 37-45 1 azienda sanitaria locale di brescia 2 dipartimento malattie infettive, spedali civili di brescia non ha evidenziato nulla di significativo: il paziente non fuma e non assume alcol, non fa uso di droghe, segue una dieta islamica, non è mai stato ricoverato in passato e non ricorda di essere stato affetto da patologie degne di nota. corresponding author dott. issa el-hamad issa1957@libero.it perché descriviamo questo caso? per sensibilizzare il medico di medicina generale verso una patologia relativamente frequente in particolari gruppi a rischio, tra cui figurano i soggetti immigrati che provengono da aree ad alta endemia tubercolare. in un soggetto immigrato, la presenza di una sintomatologia spesso subdola e aspecifica, ma che perdura per un certo periodo di tempo, deve spingere il medico a considerare la tubercolosi fra le ipotesi diagnostiche, in modo da attivare tempestivamente tutte le indagini necessarie per escludere o meno questa patologia caso clinico clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 38 una lombalgia... alcol-acido resistente domande da porre al paziente proviene da un paese ad alta endemia tubercolare? ha altri segni/sintomi, in particolare febbre, calo ponderale, sudorazioni notturne, tosse? è stato a contatto, anche nel suo paese, con soggetti affetti da tubercolosi? è mai stato trattato per tubercolosi? da alcuni giorni l’uomo lamenta una accentuazione delle artromialgie diffuse, ma presenti in particolare a livello lombare, che si irradiano fino in regione glutea destra, senza febbre né recenti traumi. l’esame obiettivo al momento della visita è sostanzialmente negativo. viene quindi prescritta una terapia sintomatica con diclofenac sodico 75 mg 1 fl + tiocolchicoside 4 mg 1 fl im/die per 5 giorni, che il paziente esegue con qualche beneficio. dopo circa un mese si ripresenta a visita riferendo la ripresa della sintomatologia dolorosa, questa volta localizzata prevalentemente in regione glutea. l’esame obiettivo è essenzialmente invariato. dopo aver eseguito una radiografia del rachide lombo-sacrale, che era risultata negativa, viene prescritta una terapia con fans per os (ibuprofene cpr 400 mg) e una terapia topica (escina/eparina sodica/dietilamina salicilato gel 40 g 1%). a distanza di circa 10 giorni la sintomatologia permane invariata, il paziente riferisce una variabilità nella localizzazione del dolore, talvolta prevalente a livello lombare, talvolta in regione glutea, soprattutto a destra. non presenta deficit neurologici né limitazione funzionale nei movimenti o nella deambulazione, obiettivamente non si evidenzia nulla di significativo. il paziente riferisce di non essere stato a riposo in questo mese, nonostante le raccomandazioni mediche, in quanto ha la necessità di trovare lavoro. viene nuovamente prescritta una terapia antidolorifica con ketorolac sale di trometamolo 10 mg 1 cpr x 2/die associata a un trattamento cortisonico (deflazacort 6 mg 1 cpr/die) per 5 giorni, con protezione gastrica. gli viene consigliato il riposo domiciliare e nel frattempo gli vengono prescritti degli esami ematochimici di routine. dopo circa 15 giorni il paziente ritorna nuovamente a visita e riferisce un beneficio solo momentaneo del dolore, che si è riesacerbato dopo pochi giorni dal termine della terapia. riferisce inoltre lieve calo ponderale e forse febbricola (descritta come sensazione     di freddo). gli esami ematochimici, eseguiti dopo 3 giorni dall’inizio della terapia cortisonica, mostrano una leucocitosi neutrofila (gb 17.000 cell/mm3, neutrofili 83,4% = 14.100 cell/mm3) e negatività degli esami per hiv, sifilide, epatite da hbv e hcv. viene quindi eseguita la intradermoreazione secondo mantoux, che a distanza di 72 ore risulta negativa (infiltrato di 7 mm. negli immigrati da paesi endemici per tb, la mantoux è considerata positiva solo se l’infiltrato è uguale o superiore a 10 mm). visto il peggioramento del dolore lombaregluteo, il paziente, dopo circa 5 giorni, si reca in pronto soccorso, dove esegue: rx rachide lombo-sacrale: normale; visita internistica: nulla di significativo; visita urologica: nulla di significativo. viene dimesso con diagnosi di lombosciatalgia bilaterale e febbre, con l’indicazione di eseguire un trattamento con ketorolac sale di trometamolo 10 mg 1 cpr x 2/die e levofloxacina 500 mg 1 cpr/die per 5 giorni. dopo altri 15 giorni il paziente si ripresenta alla nostra attenzione: il quadro appare molto peggiorato, il paziente lamenta lombo-sciatalgia bilaterale, ha iniziale difficoltà nella deambulazione, l’esame obiettivo evidenzia una positività del segno di lasegue a 45° bilateralmente e una dolorabilità alla digitopressione delle apofisi spinose di tutto il rachide lombare e della regione glutea bilaterale. domande da porsi devo procedere con esami più specifici quali la tac o la rmn? devo eseguire una radiograf ia del torace? devo richiedere una consulenza infettivologica? come e dove può essere assistito un immigrato clandestino? viene inviato a visita ortopedica, che esegue dopo 4 giorni: lo specialista consiglia una radiografia del bacino, nuovi esami ematochimici e una terapia con aceclofenac 100 mg 1 cpr x 2/die per 7 giorni, che il paziente assume senza beneficio. dopo altri 12 giorni il paziente porta in visione i risultati degli accertamenti prescritti: la radiografia del bacino è normale e gli esami confermano la leucocitosi neutrofila (gb = 12.200 cell/mm3, neutrofili 76,5% =        clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 39 i. el-hamad, c. scarcella, m. c. pezzoli, v. bergamaschi 9.400 cell/mm3) con aumento degli indici infiammatori (ves = 58, pcr = 27,5). alla visita il paziente appare molto sofferente, localizzando il dolore soprattutto in regione glutea, la deambulazione è molto difficoltosa e appare visibilmente dimagrito. viene quindi prescritta una risonanza magnetica nucleare (rmn) del rachide lombo-sacrale, che il paziente esegue dopo una settimana circa, con riscontro di un quadro compatibile con spondilite piogenica versus tubercolare. il paziente viene subito ricoverato e, a distanza di circa 4 mesi dall’esordio della sintomatologia, viene posta diagnosi di spondilodiscite tubercolare (criterio clinicoradiologico) e iniziata una terapia specifica a 4 farmaci: rifampicina, isoniazide, pirazinamide, etambutolo. la radiografia del torace eseguita durante la degenza ha evidenziato un quadro polmonare di esiti specifici. a distanza di due mesi il controllo della rmn del rachide ha mostrato un miglioramento del quadro radiologico, accompagnato da un marcato miglioramento clinico. discussione secondo i dati ufficiali più recenti gli immigrati regolari presenti attualmente in italia sono circa 3.700.000 unità, a cui devono essere sommati gli immigrati irregolari che, secondo le diverse stime, ammontano almeno a circa 500.000 persone [1]. nel complesso, quasi il 7% della popolazione italiana è attualmente costituita da immigrati provenienti da circa 190 paesi diversi. il fenomeno migratorio rappresenta una sfida difficile per i paesi di approdo degli immigrati e la questione della salute degli immigrati costituisce, senza dubbio, uno dei nodi centrali della complessa tematica dell’immigrazione. la rapida affermazione della realtà multietnica nel nostro paese ha comportato, inoltre, momenti di riflessione e interrogativi fondati sul rapporto che esiste tra salute e migrazione e sulle difficoltà, ma anche sulle potenzialità, della relazione tra operatori sanitari autoctoni e utenti stranieri [2]. il fenomeno della migrazione è inoltre complesso e dinamico. se nel corso dei primi anni ’90 il flusso migratorio era essenzialmente proveniente dall’africa sub-sahariana (senegal, ghana, nigeria, ecc.), verso la fine degli stessi anni ’90 ha interessato anche il lontano oriente (pakistan, sri lanka, ecc.) per concentrarsi negli ultimi anni verso i paesi dell’est europeo (ucraina, moldova, romania, ecc.) che attualmente rappresenta il flusso certamente più cospicuo. i dati disponibili a livello nazionale mostrano inoltre che anche il profilo demografico della migrazione sta rapidamente cambiando. se un tempo il migrante era essenzialmente giovane e di sesso maschile, ora la proporzione di donne raggiunge quasi il 50% e anche la fascia di età adulta-anziana è rappresentata. i ricongiungimenti familiari inoltre favoriscono naturalmente una natalità locale delle coppie migranti, con tassi di fertilità certamente superiori a quello della popolazione italiana autoctona [1]. per quanto concerne lo stato di salute degli immigrati, diversi reports e studi epidemiologici mostrano come le patologie che prevalentemente interessano gli stranieri siano strettamente connesse alle condizioni di vita, ai sistemi di accoglienza e ai processi di inclusione sociale messi in atto nel paese ospite. i dati sanitari evidenziano una fragilità sociale e una situazione di sofferenza sanitaria con malattie del disagio, infortuni sul lavoro e alcune patologie infettive prevenibili a larga diffusione anche nel paese ospitante. in sintesi, la patologia del migrante può essere classificata in tre categorie principali: patologie di acquisizione nel paese ospite (80-90%): forme di tipo artritico-reumatico e simil-influenzali in senso lato, patologie cutanee associate alle condizioni di sovraffollamento e promiscuità abitativa, malattie del sistema genitourinario come le cistiti e le uretriti aspecifiche e lesioni traumatiche, essenzialmente ascrivibili a infortuni sul lavoro, incidenti stradali e, talvolta, a episodi di violenza; patologia di adattamento-sradicamento (3-6%): fortemente condizionate dal p ro c e s s o m i g r a t o r i o c o m e e v e n t o stressogeno e dai successivi percorsi di transculturazione. si tratta di patologie di tipo neuropsichiatrico e di alcune forme di malattie gastroenteriche (colon irritabile, gastriti, ulcere peptiche), inquadrabili in un contesto di disagio non solo fisico e alimentare ma anche psicologico; patologie infettive di rilievo o di importazione (4-8%): malattie infettive generalmente a larga diffusione nei paesi di origine e ormai scomparse nel nostro paese, come ad esempio la malaria, la schistosomiasi e le filariosi. limitate, ma ovviamente meritevoli di una particolare attenzione, sono alcune patologie infettive    clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 40 una lombalgia... alcol-acido resistente come le infezioni sessualmente trasmesse (ist) e la tubercolosi, per la loro importanza epidemiologica e la potenziale trasmissibilità [3-6]. il profilo sanitario della popolazione immigrata non permette, dunque, considerazioni a favore di un allarme sanitario e l’attuale quadro epidemiologico, che emerge dalle diverse esperienze maturate su scala nazionale, non consente di ipotizzare reali rischi infettivologici per la popolazione locale. tuttavia, particolare attenzione, sia dal punto di vista diagnostico-terapeutico che preventivo, merita la tubercolosi, per le ovvie implicazioni che tale malattia può comportare sia in termini di sanità pubblica che di potenziale diffusibilità [7]. gli immigrati da paesi ad alta endemia tubercolare rappresentano, nei paesi occidentali, un ben definito gruppo di popolazione a rischio di tubercolosi (tbc) [8]. l’incidenza della tubercolosi in tali soggetti risulta maggiore rispetto alla popolazione autoctona e si attesta generalmente sui livelli propri del paese di origine [9-11]. in italia, secondo i dati del ministero della salute, il 32% del totale dei casi di tubercolosi notificati nel periodo 1999-2005 era rappresentato da soggetti stranieri, che hanno raggiunto il 43,7% dei casi nel 2005. questo dato è sicuramente rilevante se si considera che gli immigrati presenti attualmente in italia rappresentano circa il 7% della popolazione generale. inoltre, mentre il numero di casi di tbc notificati in cittadini italiani ha mostrato un trend decrescente dal 1999 al 2005, i casi notificati negli immigrati sono in continuo e costante aumento [12]. nei soggetti immigrati la tbc presenta delle caratteristiche peculiari rispetto alla popolazione autoctona. innanzitutto si concentra in età giovanile, contrariamente a quanto si verifica nella popolazione autoctona [13]: in italia il picco dei casi di tbc notificati in immigrati e italiani ha interessato soggetti di età compresa rispettivamente tra 25-34 e 55-66 anni [12]. questo dato rispecchia le caratteristiche epidemiologiche della popolazione immigrata nei nostri paesi, rappresentata in gran parte da soggetti in età giovane-adulta. generalmente l’incidenza di tubercolosi negli immigrati è massima nei primi 5 anni successivi all’arrivo nel paese ospite. in uno studio longitudinale effettuato negli stati uniti, l’incidenza di nuovi casi è scesa da 306/100.000 al momento dell’immigrazione a meno di 50/100.000 cinque anni dopo l’arrivo. in effetti nel quarto e quinto anno si verifica solo il 10% di tutti i casi [14]. in uno studio retrospettivo dei casi di tubercolosi ospedalizzati presso la divisione di pneumologia di sondalo nel periodo 1988-1993, il tempo medio trascorso tra l’arrivo e la diagnosi di tubercolosi è stato di 30 mesi [10]. similmente, la mediana della durata del soggiorno in italia dei casi di tubercolosi in immigrati presso il consorzio antitubercolare di milano è risultata pari a 14 mesi e nel 75% dei casi inferiore a 24 mesi [9]. tuttavia, studi recenti hanno evidenziato come le caratteristiche epidemiologiche della tubercolosi nel migrante siano in continua evoluzione, in particolare per quanto concerne la durata del periodo di tempo post-migrazione in cui il soggetto rimane a rischio di sviluppare una malattia tubercolare attiva. in uno studio condotto in canada, solo il 40% dei casi di tubercolosi in immigrati è stato diagnosticato nei primi 5 anni dall’arrivo, mentre circa il 50% dei casi si è verificato a distanza di oltre 7 anni di permanenza nel paese [15]; analogamente, uno studio condotto in norvegia ha dimostrato come l’incidenza di tubercolosi in immigrati provenienti dall’africa e dall’asia fosse rispettivamente di 190 e 80 per 100.000 soggetti all’anno a distanza di 7 anni dall’arrivo nel paese, tassi da 7 a 90 volte maggiori rispetto all’incidenza di tubercolosi nei soggetti autoctoni [16]. probabilmente a determinare tali differenze intervengono altri fattori, tra cui la diffusione intracomunitaria della malattia e i rientri degli immigrati nei paesi di origine. un altro aspetto importante riguarda i dati di prevalenza di cutipositività alla prova tubercolinica, indice di possibile infezione latente, che sono generalmente elevati negli immigrati al momento dell’arrivo nel paese ospite, rispecchiando l’elevata circolazione del micobatterio nei paesi d’origine [13]. sulla base di questi dati si ipotizza che lo sviluppo della malattia sia la conseguenza, nella maggior parte dei casi, di riattivazione di pregresse infezioni latenti. le ipotesi concernenti i meccanismi di riattivazione dell’infezione tubercolare negli immigrati sono molteplici: si ipotizza il ruolo primario delle precarie condizioni socio-economiche di vita, l’emarginazione, le condizioni abitative poco igieniche, i cambiamenti dietetici e una continua situazione di stress emotivo. non può tuttavia essere trascurata l’ipotesi che una parte dei casi sia dovuta a trasmissione intracomunitaria a partire da casi bacilliferi, clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 41 i. el-hamad, c. scarcella, m. c. pezzoli, v. bergamaschi soprattutto in condizioni di sovraffollamento. in uno studio, condotto in una comunità circoscritta di immigrati senegalesi a brescia, i tassi di incidenza tubercolare in soggetti inizialmente tubercolino-positivi sono risultati simili a quelli di soggetti tubercolinonegativi [17]. questa osservazione suggerisce una pari importanza, almeno nelle condizioni abitative della comunità studiata, delle forme di riattivazione di una pregressa infezione latente importata dal paese d’origine e delle forme primarie di malattia acquisite ex novo contratte nel paese ospite. inoltre, diversi studi di biologia molecolare hanno dimostrato come la circolazione del micobatterio generalmente rimanga circoscritta all’interno delle stesse comunità di immigrati, con un rischio estremamente basso di diffusione alla popolazione autoctona [18-20]. dal punto di vista sintomatologico, la tubercolosi non presenta nel soggetto immigrato differenze significative rispetto agli autoctoni. tuttavia la presentazione radiologica dei casi di tubercolosi polmonare è caratterizzata, fra gli immigrati, da una maggior frequenza di forme cavitarie che si associa, quindi, a una maggior proporzione di forme bacillifere. fra gli immigrati, però, vi è anche una maggiore frequenza di forme extrapolmonari (ep) della tubercolosi. poiché queste ultime non determinano alcun rischio di trasmissione, la contagiosità della tubercolosi nel soggetto immigrato non appare nel complesso aumentata rispetto alla popolazione autoctona. fra le localizzazioni extrapolmonari sono particolarmente frequenti quelle linfonodali superficiali e profonde, sebbene possano essere coinvolte praticamente tutte le sedi, in particolare il sistema muscolo-scheletrico, epato-splenico e cerebrale [21]. la tbc muscolo-scheletrica (ms) rappresenta in genere il 10% di tutti i casi di tbc ep, ma negli immigrati può arrivare anche fino al 35% dei casi [22]. è causata dalla disseminazione ematogena del germe conseguente all’infezione primaria, più raramente da diffusione linfatica. accanto a un’alterazione del sistema immunitario tale da permettere la riattivazione di focolai quiescienti, sono stati chiamati in causa, come meccanismi patogenetici, anche fattori meccanici. i siti particolarmente colpiti sono: la colonna vertebrale (41% dei casi di tbc ms); le articolazioni sottoposte a carico, quali l’anca (13%) e il ginocchio (13%) (artriti tbc);   altre sedi quali piede, gomito, costole, clavicola (36% dei casi, osteomieliti tbc extra-vertebrali). la tbc della colonna vertebrale (morbo di pott) colpisce in genere soggetti di giovane età (< 30 anni) [23]. le sedi prevalentemente interessate sono le ultime vertebre lombari, quindi le vertebre lombo-sacrali, medio-toraciche e cervicali [24], coinvolgendo generalmente 2 o più vertebre contigue. l’infezione comincia a livello della parte antero-inferiore del corpo vertebrale a cui segue il riassorbimento del margine spesso del piatto vertebrale e successivamente il coinvolgimento con distruzione del disco intervertebrale e della vertebra contigua [22]. la distruzione del corpo vertebrale nel tratto anteriore provoca la deformazione a cuneo del corpo vertebrale con angolazione rispetto al corpo vertebrale adiacente e obliterazione dello spazio discale, responsabili dell’insorgenza di cifosi con prominenza spinale palpabile (gibbo) e il classico aspetto radiologico. l’essudato può penetrare attraverso i legamenti anteriori e, facendosi strada lungo loci di minore resistenza (ad es. muscolo psoas), può raggiungere siti distanti dalla vertebra iniziale (ascesso freddo), con formazione di ascessi paraspinali e dello psoas, con estensione alla superficie cutanea o ai tessuti adiacenti [22]. dal punto di vista clinico, i sintomi legati alla localizzazione vertebrale (dolore locale e, in un 30% circa dei pazienti, paraplegia da compressione nervosa) sono frequentemente preceduti da una sintomatologia costituzionale (febbre, anoressia, calo ponderale, affaticabilità). spesso, soprattutto nei pazienti immigrati di origine indiana, la febbre può essere l’unico sintomo [23] . a meno che non siano presenti contestualmente lesioni polmonari (presenti in circa la metà dei pazienti, anche se la malattia polmonare attiva è infrequente), ai fini diagnostici è critico un alto indice di sospetto. la diagnosi di certezza è esclusivamente batteriologica (biopsia ossea per esame colturale e istologico) [22]. alla diagnosi presuntiva concorrono: anamnesi, presenza di fattori di rischio, test tubercolinico positivo (grande maggioranza dei casi), rilievi strumentali. la rmn è considerata la modalità di imaging d’elezione nella diagnosi di spondilite tb, poiché è in grado di valutare il grado di distruzione ossea e l’estensione ai tessuti molli e alle strutture adiacenti (come il midollo spinale), differenziandone le cause (protrusioni discali, granulomi, pus, fibrosi). l’indagine tac è invece superiore nell’evidenziare  clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 42 una lombalgia... alcol-acido resistente le aree di calcificazione che non raramente si rilevano nei processi cronici tubercolari. dal punto di vista terapeutico, la spondilite tb si cura con la sola terapia medica; interventi chirurgici si rendono necessari solo in caso di instabilità della colonna vertebrale o di compressione midollare con deficit neurologici periferici [22]. per quanto riguarda l’approccio farmacologico, bisogna tenere presente che la prevalenza di ceppi tubercolari resistenti ai farmaci specifici è più elevata nei soggetti immigrati: secondo i dati del database italiano smira (italian multicenter study on resistance to anti-tuberculosis drugs), che ha raccolto i casi di tubercolosi e le relative resistenze farmacologiche ottenuti da 22 laboratori e 46 cliniche nel periodo 19951999, l’essere immigrato rappresentava uno dei fattori significativamente associati alla tubercolosi multiresistente [25]. è probabile che il fattore principale di selezione di resistenze nel soggetto immigrato sia la ridotta aderenza alle terapie e la provenienza da aree ad alta circolazione di micobatteri resistenti per l’inappropriata prescrizione della terapia antitubercolare (incongrua scelta del regime farmacologico oppure del dosaggio o della durata della somministrazione) nei paesi di origine. appare quindi giustificato, nella fase iniziale di trattamento di soggetti con tbc attiva, l’impiego di quattro farmaci (rifampicina, isoniazide, pirazinamide ed etambutolo). particolarmente efficaci contro il micobattere risultano i fluorochinoloni, in particolare moxifloxacina, levofloxacina e gatifloxacina, che attualmente vengono considerati farmaci di seconda linea per il trattamento di casi di tbc resistente ai farmaci di prima linea. per questo motivo i fluorochinoloni non dovrebbero essere somministrati in monoterapia nei soggetti immigrati col sospetto di tubercolosi attiva, per il rischio di selezionare resistenze farmacologiche [26]. appare anche essenziale, per gli stessi motivi, limitare la somministrazione della chemioprofilassi (monoterapia) a soggetti in cui sia stata accuratamente esclusa la presenza di malattia attiva. assistenza al paziente immigrato. aspetti normativi un altro aspetto estremamente importante, in particolare per le ripercussioni a livello di sanità pubblica, è il ritardo diagnostico, ossia il tempo che intercorre tra l’insorgenza della sintomatologia e la diagnosi di tubercolosi, in particolare contagiosa, negli immigrati. i risultati di studi nazionali mostrano tempi estremamente variabili in relazione alla diversa permeabilità delle strutture sanitarie alla popolazione straniera, ma in generale i ritardi diagnostici sono purtroppo ancora lunghi [27]. ovviamente è essenziale, al fine di limitare la diffusione di forme tubercolari contagiose, ridurre i tempi diagnostici e favorire un largo e semplice accesso alle strutture sanitarie anche per gli immigrati irregolari, in conformità con la normativa sanitaria nazionale attualmente vigente. infatti, l’assistenza sanitaria alle persone straniere presenti sul territorio nazionale italiano è regolamentata dalla legge n. 40 del 6 marzo 1998 [28] poi confluita nel d.l. 286 del 25 luglio 1998 “testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” [29]; infine, lo stesso decreto legge del 9 settembre 2002 n. 195, (legge bossi-fini) ha mantenuto intatti gli articoli contenuti nelle precedenti leggi riguardanti l’assistenza sanitaria agli immigrati [30]. le disposizioni di legge, che garantiscono il diritto all’assistenza per tutti i soggetti stranieri iscritti al sistema sanitario nazionale (stranieri regolarmente soggiornanti con regolari attività lavorative) e per i loro familiari disciplinano, al contempo, la tipologia di prestazioni sanitarie erogabili al soggetto straniero non regolarmente iscritto al sistema sanitario nazionale. il complesso di norme della citata legge in riferimento ai soggetti immigrati irregolari può essere riassunto sinteticamente nel seguente modo: agli immigrati irregolari presenti in italia la normativa assicura, nei presidi pubblici e accreditati, le cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia e infortuni e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva. sono in particolare garantite: la tutela sociale della gravidanza e della maternità, la tutela della salute del minore, le vaccinazioni secondo la normativa e nell’ambito di interventi di campagne di prevenzione collettiva autorizzate dalle regioni, gli interventi di profilassi internazionale e la profilassi, la diagnosi e le cure delle malattie infettive ed eventuale bonifica dei relativi focolai. allo scopo di rendere più chiari i contenuti della normativa, la circolare n. 5 del 24 marzo 2000 del ministro della sanità stabilisce che per cure urgenti si intendono le cure che non possono essere differite senza peclinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 43 i. el-hamad, c. scarcella, m. c. pezzoli, v. bergamaschi ricolo per la vita o danno per la salute della persona; per cure essenziali si intendono le prestazioni sanitarie, diagnostiche e terapeutiche, relative a patologie non pericolose nell’immediato e nel breve termine, ma che nel tempo potrebbero determinare maggiore danno alla salute o rischi per la vita (complicanze, cronicizzazioni o aggravamenti) [31]. è stato, altresì, affermato dalla legge il principio della continuità delle cure urgenti ed essenziali, nel senso di assicurare all’infermo il ciclo terapeutico e riabilitativo completo riguardo alla possibile risoluzione dell’evento morboso. inoltre, pur affermando che di norma non esiste il principio della gratuità delle prestazioni erogate dal ssn ai cittadini non iscritti, la normativa prevede che le prestazioni siano erogate senza oneri a carico degli stranieri irregolarmente presenti qualora privi di risorse economiche sufficienti, fatte salve le quote di partecipazione alla spesa a parità di condizioni con il cittadino italiano. l’accesso alle strutture sanitarie è garantito mediante l’assegnazione, ad opera del servizio che eroga la prestazione, di uno specifico codice regionale stp (straniero temporaneamente presente), della durata di sei mesi, rinnovabile e valido su tutto il territorio nazionale. il codice stp deve essere utilizzato sia per la rendicontazione, ai fini del rimborso, delle prestazioni erogate dalle strutture accreditate del ssn, sia per la prescrizione, su ricettario regionale, di prestazioni diagnostiche o di farmaci, a parità di condizioni di partecipazione alla spesa con i cittadini italiani. lo stato di indigenza del soggetto viene attestato, al momento dell’assegnazione del codice regionale stp, mediante la sottoscrizione di una dichiarazione, anch’essa valevole sei mesi. lo straniero indigente, non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno, è esonerato dalla quota di partecipazione alla spesa, in analogia con il cittadino italiano, per quanto concerne: le prestazioni sanitarie di primo livello; le urgenze; lo stato di gravidanza; le patologie esenti o i soggetti esenti in ragione dell’età o in quanto affetti da gravi stati invalidanti. l’accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme del soggiorno non deve comportare alcun tipo di segnalazione alle autorità di pubblica sicurezza, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto a parità di condizioni con il cittadino italiano.     conclusioni i dati disponibili mettono in evidenza un profilo sanitario generale del migrante in cui la patologia più frequente è quella non infettiva, da ricondursi essenzialmente alle condizioni di disagio climatico, abitativo e psicologico che gli immigrati vivono nel nostro paese. tuttavia, il riscontro di alcune patologie infettive di rilievo, come in particolare la tubercolosi, sottolinea la necessità di attuare misure concrete nel settore della prevenzione e dell’assistenza sanitaria. gli immigrati rappresentano, nel nostro paesi, un ben definito gruppo a rischio per la tubercolosi, patologia endemica nei paesi di origine ma ormai eradicata in italia. sicuramente una sintomatologia subdola, progressiva, che perdura per un certo periodo di tempo, in un soggetto immigrato proveniente da zone ad alta endemia tubercolare, deve indurre il clinico a considerare, fra le ipotesi diagnostiche, anche la malattia tubercolare. soprattutto nei soggetti immigrati le forme extra-polmonari sono frequenti, in particolari le localizzazioni linfonodali, osteomuscolari e meningo-encefaliche. nel caso di localizzazioni ossee, spesso le radiografie standard sono negative e le alterazioni specifiche possono essere evidenziate solo tramite uno studio più mirato tramite tac o rmn. anche la intradermoreazione secondo mantoux non è dirimente, in quanto la negatività non esclude la presenza di una malattia in forma attiva. di particolare importanza è l’aspetto terapeutico: in attesa di una diagnosi definitiva dovrebbe essere evitata la prescrizione di farmaci attivi anche sul mycobacterium tuberculosis, come i fluorochinoloni, proprio per il rischio di selezionare resistenze e di precludersi l’utilizzo di tali terapie in soggetti con forme tubercolari multiresistenti, che non sono rare nei soggetti immigrati. ma appare ancora più importante pensare alla tubercolosi il più precocemente possibile, perché la riduzione del ritardo diagnostico risulta fondamentale per un buon controllo della malattia. infine, le considerazioni riportate indicano nelle malattie infettive una criticità della salute degli immigrati in quanto rilevano condizioni di fragilità sociale e di difficoltosa accessibilità ai servizi socio-assistenziali, a causa anche di una scarsa conoscenza e applicazione della normativa. proprio questo aspetto sembra particolarmente critico sia nell’assicurare una prevenzione adeguata, sia per garantire la cura e infine per favorire un percorso di promozione della salute. clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 44 una lombalgia... alcol-acido resistente bibliografia 1. caritas/migrantes. immigrazione. dossier statistico 2007. xvii rapporto sull’immigrazione. roma: nuova anterem, 2007 2. salvatore g. la sfida della medicina delle migrazioni. in: caritas/migrantes. immigrazione. dossier statistico 2005. xv rapporto sull’immigrazione. roma: nuova anterem, 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indicato uno studio del rachide con rmn, che è considerato l ’esame gold standard per la diagnosi di tbc ossea non è stata eseguita una radiografia del torace se non al momento del ricovero. l’esecuzione in tempi più precoci, indicata in soggetti immigrati con una non chiara sintomatologia, avrebbe potuto orientare verso una forma tubercolare inizialmente il paziente non si è recato al pronto soccorso in quanto clandestino. secondo la normativa vigente in tema di assistenza sanitaria agli immigrati irregolari/clandestini, sono ad essi assicurate tutte le cure urgenti ed essenziali tramite l ’assegnazione del codice stp     clinical management issues 2008; 2(1) ©seed tutti i diritti riservati 45 i. el-hamad, c. scarcella, m. c. pezzoli, v. bergamaschi 17. scolari c, el hamad i, matteelli a, signorini l, bombana e, moioli r et al. incidence of tuberculosis in a community of senegalese immigrants in northern italy. internat j tuberc and lung dis 1999; 3: 18-22 18. matteelli a, gori a, 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bossi-fini) 31. circolare n. 5 del 24 marzo 2000 del ministero della sanità: d. lgs. n. 286 del 25 luglio 1998 “testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero; disposizioni in materia sanitaria” cmi 2013;7(1)17-26.html lupus indotto da farmaci: simvastatina o amiodarone? caso clinico in un paziente anziano mauro turrin 1, sergio martinelli 1 1 uoc medicina interna, azienda ulss n. 17, regione del veneto, ospedale di monselice (padova) abstract reports of systemic lupus erythematosus (sle) seen during treatment with amiodarone are rare in the literature. sle or immunological abnormalities induced by treatment with statins are more frequent. in this issue we report a case of a 81-year-old male who, after a 2-year therapy with amiodarone, developed a clinical and serologic picture of drug-induced sle (dile). he was admitted for congestive heart failure in mechanical aortic valve prosthesis, permanent atrial fibrillation (anticoagulation with warfarin), hypercholesterolaemia, and hypothyroidism. amiodarone was started two years earlier for polymorphic ventricular tachycardia, statin and l-thyroxine the following year. at admission he presented pleuro-pericardical effusion detected by ct-scan (also indicative of interstitial lung involvement) and echocardiography. serological main indicative findings were: elevation of inflammatory markers, ana (anti-nuclear antibodies) titers = 1:320 (indirect immune-fluorescence – iif – assay on hep-2), homogeneous/fine speckled pattern, anti-dsdna titers = 1:80 (iif on crithidia luciliae), negative ena (extractable nuclear antigens) and antibodies anti-citrulline, rheumatoid factor = 253 ku/l, normal c3-c4, negative hbsag and anti-hcv, negative anticardiolipin antibodies igg and igm, negative anti-beta2gpi igg and igm. amiodarone was discontinued and methylprednisolone was started, since the patient was severely ill. at discharge, after a month, the patient was better and pleuro-pericardical effusion was reduced. readmitted few weeks later for bradyarithmia and worsening of dyspnoea, pericardial effusion was further reduced but he died for refractory congestive heart failure and pneumonia. clinical picture (sierositis, neither skin nor kidney involvement), other typical side effects of amiodarone (hypothyroidism and lung interstitial pathology) and serological findings are suggestive of amiodarone-induced sle. keywords: drug-induced lupus; statins; amiodarone; systemic lupus erythematosus; autoimmunity; autoantibodies drug-induced lupus: simvastatin or amiodarone? a case report in elderly cmi 2013; 7(1): 17-26 caso clinico corresponding author mauro turrin tel: 0429.78.8441 fax: 0429.78.8456 m.turrin@libero.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo perché descriviamo questo caso nella diagnosi differenziale delle sierositi infiammatorie vanno considerate le malattie autoimmuni responsabili di pleuropericarditi. in presenza di positività degli anticorpi antinucleo le indagini immunologiche vanno approfondite con autoanticorpi anti-ena (extractable nuclear antigens), anti-dna-nativo, anti-dna-denaturato, anti-istone. nel soggetto anziano, nella diagnosi differenziale di “lupus” vanno presi in considerazione i farmaci: sono infatti almeno 80 i medicinali implicati nella comparsa di lupus farmacologico e, tra quelli emergenti, risulta utile indagare l’assunzione di statine e di amiodarone introduzione sono più di 80 i medicinali implicati nella comparsa di lupus eritematoso sistemico farmacologico (dile) [1]. oltre ai classici farmaci, quali idralazina, procainamide, isoniazide, metildopa, clorpromazina, chinidina, minociclina, responsabili della comparsa di lupus e ampiamente studiati dalla letteratura, ulteriori farmaci sono ritenuti potenziali induttori, tra cui le statine. sono state descritte infatti diverse reazioni autoimmuni, dalla semplice positività degli ana (anti-nuclear antibodies) e fotosensibilità fino a manifestazioni cliniche importanti quali lupus eritematoso sistemico (les), subacute cutaneous lupus erythematosus (scle), dermatomiosite, polimiosite, dopo l’esposizione prolungata alle statine [2-15]; in particolare sono stati segnalati un caso di lupus-like syndrome con acute respiratory distress syndrome (ards) fatale da fluvastatina e due casi, rispettivamente con les acuto e con epatite autoimmune, da atorvastatina [5,6,12]. per quanto riguarda amiodarone, esistono in letteratura soltanto tre descrizioni di sierosite da lupus riscontrata durante tale terapia [16-18]. le caratteristiche del lupus farmaco-indotto sono descritte nel box. caratteristiche del lupus indotto da farmaci (dile) [1] prolungata assunzione del farmaco (intervallo variabile 1 mese-12 anni) non differenza di sesso età avanzata sintomi comuni: artralgie, mialgie, febbre, sierositi (pleurite, pericardite) sintomi non comuni: rash, fotosensibilità, ulcere orali, alopecia, insufficienza renale, danno neurologico esiti degli esami di laboratorio: leucopenia lieve, anemia, velocità di eritrosedimentazione (ves) elevata, ipocomplemento raro ana: positivi (pattern omogeneo) anticorpi anti-istone: positivi (> 95%) anti-ssdna: comuni anti-dsdna: rari anti-sm (anticorpi anti-smith) e anti-ena: negativi miglioramento dei sintomi entro giorni-settimane dalla sospensione del farmaco caso clinico un paziente di 81 anni viene ricoverato nel nostro reparto ad aprile 2012 per scompenso cardiaco congestizio. nell’anamnesi risultano: protesi valvolare aortica meccanica (terapia anticoagulante orale – tao dal 1987), blocco di branca sinistro (bbsx) completo, fibrillazione atriale permanente, coxartrosi invalidante, malattia di dupuytren bilaterale, ernia inguinale, sordità bilaterale (protesi acustiche), ipertrofia prostatica e ipercolesterolemia. nel 2008 venne sottoposto a emotrasfusioni per anemia secondaria a ematoma post-traumatico a una coscia. nel 2010 fu ricoverato per scompenso cardiaco congestizio. nell’occasione un ecg-holter dimostrava, oltre alla fibrillazione atriale, la presenza di numerose extrasistoli ventricolari polimorfe, ripetute in coppie, triplette e brevi runs polimorfi; per tali motivi venne iniziata la terapia con amiodarone 200 mg al dì, oltre alla precedente terapia con warfarin, furosemide, digossina (0,125 mg al dì), dutasteride, terazosina, allopurinolo e pantoprazolo. l’rx torace in quell’occasione risultava negativo per focolai pleuro-parenchimali (figura 1). gli esami di laboratorio sono illustrati nella tabella i. figura 1. rx torace (anno 2010): cardiomegalia, legacci metallici contro lo sterno, protesi valvolare, aortosclerosi figura 2. rx torace (anno 2011): cardiomegalia, versamento pleurico sinistro parametro valore riscontrato range di normalità ves 54 mm/h 2-28 mm/h colesterolo totale 177 mg/dl < 200 mg/dl gammagt 58 u/l < 55 u/l tsh 2,07 mu/l 0,2-4,0 mu/l creatinina 1,21 mg/dl 0,72-1,18 mg/dl uricemia 6,4 mg/dl 3,5-7,2 mg/dl gb 5,64 × 109/l 4,0-10,0 × 109/l hb 12,7 g/dl 13,5-16,0 g/dl tabella i. esami di laboratorio risalenti al 2010 gb = globuli bianchi; hb = emoglobina; tsh = thyroid-stimulating hormone; ves = velocità di eritrosedimentazione figura 3. rx torace (aprile 2012) che mostra cardiomegalia, aortosclerosi, versamento pleurico sinistro il profilo proteico era normale. l’ecocardiogramma dimostrava: frazione di eiezione (fe) = 34%, insufficienza mitralica, pressione sistolica polmonare stimata intorno a 55-60 mmhg. nell’arco di un anno si assisteva a un progressivo aumento del tsh. nel 2011 venne ricoverato in neurologia per trauma cranico contusivo da caduta a terra in casa. la tac rilevava, tra l’altro, puntiformi chiazzette iperdense in sede frontale, scomparse in successivo controllo, per le quali si intraprendeva terapia con eparina a basso peso molecolare – ebpm – in sostituzione temporanea della tao. dall’elettroencefalogramma (eeg) si rilevavano tracciati irregolari per anomalie lente sulle derivazioni emisferiche di sinistra, più evidenti su quelle centro-parietali. l’rx torace evidenziava cardiomegalia e versamento pleurico sinistro (figura 2). durante la degenza non venivano segnalati né dispnea né edemi declivi. i risultati degli esami di laboratorio sono mostrati in tabella ii. il profilo proteico risultava normale, così come gli anticorpi anti-tireoperossidasi (anti-tpo) e gli anticorpi antitireoglobulina (anti-tgb). all’elettrocardiogramma si rilevavano fa, bbsx completo e qtc = 507 ms. per il riscontro di ipotiroidismo (tabella ii) venne iniziata terapia con l-tiroxina (50 µg/die). veniva dimesso con la seguente terapia: furosemide 500:1/4 c bid, metolazone, amiodarone 200 mg/die, digossina 0,125 mg/die, simvastatina 20 mg/die (prima del ricovero 20 mg a giorni alterni), lansoprazolo e dutasteride. il ricovero attuale è stato determinato dalla comparsa di dispnea ingravescente, incremento ponderale, astenia, febbre e faringodinia. l’rx torace rilevava cardiomegalia, aortosclerosi e versamento pleurico sinistro (figura 3). parametro valore riscontrato valori normali ves 80 mm/h 2-28 mm/h d-dimero 9.893 µg/l < 200 µg/l creatinina 1,58 mg/dl 0,72-1,18 mg/dl gammagt 127 u/l < 55 u/l colesterolo totale 139 mg/dl < 200 mg/dl hb 11,5 g/dl 13,5-16,0 g/dl gb 4,39 × 109/l 4,0-10,0 × 109/l tsh 22 mu/l 0,2-4,0 mu/l t3f 3,8 pmol/l 2,77-5,84 pmol/l t4f 11,8 pmol/l 10,9-20,2 pmol/l tabella ii. esami di laboratorio nel 2011 gb = globuli bianchi; hb = emoglobina; t3f = tri-iodotironina libera; t4f = tetra-iodotironina libera; tsh = thyroid-stimulating hormone; ves = velocità di eritrosedimentazione l’ecocardiogramma trans-toracico mostrava fe = 28%, versamento pericardico prevalente a carico della parete libera del ventricolo sinistro e posteriormente, con scollamento massimo di 4 cm, senza segni di tamponamento; discreto aumento della pressione arteriosa polmonare (pap) a 45-50 mmhg. dalla tac torace erano visibili cardiomegalia, abbondante versamento pericardico, discreto versamento pleurico a sinistra con atelettasia parziale del lobo inferiore, alterazioni parenchimali bilaterali con aspetto a vetro smerigliato e qualche linfonodo mediastinico con diametro < 1 cm (figure 4 e 5). figura 4. tac torace (aprile 2012): cardiomegalia, abbondante versamento pericardico, discreto versamento pleurico a sinistra con atelettasia parziale del lobo inferiore, alterazioni parenchimali bilaterali con aspetto a vetro smerigliato, qualche linfonodo mediastinico con diametro < 1 cm figura 5. tac torace (aprile 2012): particolare per il parenchima polmonare per il rilievo di disfonia, presente da qualche mese, si è effettuata una videolaringoscopia con riscontro di paralisi ricorrenziale della corda vocale sinistra. la tac collo mostrava paralisi in abduzione del processo vocale della cartilagine aritenoidea sinistra, mentre la tac cerebrale metteva in luce una marcata atrofia cortico-sottocorticale, piccole calcificazioni a livello dei nuclei della base e calcificazioni vascolari. gli esami di laboratorio effettuati sono riportati in tabella iii. parametro valore riscontrato valori normali esami ematochimici pcr 29,2 mg/l 0,0-5,0 mg/l creatinina 2,20 → 1,12 mg/dl 0,72-1,18 mg/dl d-dimero 19.700 → 16.860 µg/l < 200 µg/l ldh 596 → 484 u/l < 480 u/l colesterolo totale 177 mg/dl < 200 mg/dl uricemia 9,7 mg/dl 3,5-7,2 mg/dl α-2globuline 9,4 g/l 5,1-8,5 g/l gammagt 62 u/l < 55 u/l ana (ifi su hep-2) pattern nucleare 1:320 omogeneo/fine speckled ≤ 1:40 anti-dsdna (ifi su crithidia luciliae) 1:80 < 1:10 fattore reumatoide 252,9 ku/l < 14 ku/l anticorpi anti-citrullina < 20 u/ml < 20 u/ml complemento c3c 1,45 g/l 0,90-1,80 g/l complemento c4 0,34 g/l 0,10-0,40 g/l cea 12 µg/l < 4 µg/l ca 125 329,5 ku/l < 31 ku/l tsh 2,88 mu/l 0,2-4,0 mu/l esame urine (catetere vescicale) gr 300 per campo < 10 per campo tabella iii. esami di laboratorio del 2012 ana = anti-nuclear antibodies; cea = antigene carcino-embrionario; gr = globuli rossi; ifi = immunofluorescenza indiretta; ldh = lattato deidrogenasi; pcr = proteina c reattiva; tsh = thyroid-stimulating hormone; valore iniziale → valore finale inoltre troponina e creatina fosfochinasi (cpk) risultavano normali, gli anti-ena negativi, hbsag e anti-hcv negativi, ca 19.9 normale, anticorpi anticardiolipina igg e igm negativi, anti-β2-gpi igg e igm negativi. all’esame delle urine si evidenziavano proteine normali e la presenza di qualche cilindro ialino. nel sospetto di “lupus” veniva iniziata terapia con metilprednisolone 40 mg ev (in seguito prednisone 25 mg per os/die) e sospensione di amiodarone (della digitale e di simvastatina). il controllo pre-dimissione degli esami di laboratorio dimostrava: proteina c reattiva (pcr) = 28,6 mg/l e creatinina 1,12 mg/dl. l’ecografia doppler venosa agli arti inferiori non rilevava segni di trombosi venosa profonda (tvp). l’ecografia dell’aorta addominale risultava negativa per dilatazione aneurismatica. il controllo dell’rx torace dimostrava invariato il versamento pleurico sinistro. al controllo dell’ecocardiogramma transtoracico (ett) risultava: discreto versamento pericardico con separazione massima in corrispondenza dell’atrio destro di 2,4 cm e lateralmente al versante sinistro di 1,8 cm. il paziente veniva dimesso dopo un mese: non è stato possibile proseguire con indagini endoscopiche (per antigene carcino-embrionario – cea – e ca 125 elevati) a causa del precario compenso cardiaco. rientrava in reparto dopo 15 giorni per scompenso cardiaco e bradiaritmia (37 battiti/min). all’ett il versamento pericardico presentava una discreta riduzione. gli esami di laboratorio dimostravano: pcr = 148 mg/l (vn < 5 mg/l); velocità di eritrosedimentazione (ves) = 76 mm (vn 2-28 mm); d-dimero > 8.000 µg/ml (vn < 200 µg/ml); probnp (pro brain natriuretic peptide) = 12.218 µg/l (vn < 450 µg/l). trasferito in cardiologia, il paziente andava all’exitus per scompenso cardiaco refrattario e polmonite destra. domanda da porsi di fronte a questo caso quando sospettare il les nel paziente anziano? nel soggetto anziano la malattia è rara e le manifestazioni cliniche non sono tipiche è necessario escludere altre cause di sierosite infiammatoria, in particolare tubercolosi, malattie infiltrative e neoplastiche risulta necessario indagare sulla polifarmacoterapia e sospendere i potenziali farmaci che inducono il lupus in presenza di sierosite non meglio specificata un primo risultato terapeutico può essere fornito dalla terapia cortisonica ex-juvantibus discussione abbiamo descritto il caso clinico di un paziente cardiopatico anziano che, trattato con amiodarone, ha presentato un versamento pleurico asintomatico dopo un anno e pleuro-pericardico sintomatico dopo due anni di terapia. il farmaco ha comportato la comparsa di ipotiroidismo e di interstiziopatia polmonare, effetti collaterali tipici di amiodarone. l’età avanzata, il sesso maschile, la presenza di pleurite e di pericardite, il riscontro di ana ad alto titolo con positività degli anticorpi anti-dsdna, la normalità del complemento, la positività del fattore reumatoide, l’assenza di interessamento renale e di manifestazioni cutanee e la mancanza di diagnosi alternative ci hanno indotto a formulare la diagnosi di lupus farmacologico da prolungata assunzione di amiodarone essendosi esclusi altri potenziali farmaci, in particolare le statine [2-15]. a tal riguardo in letteratura sono stati rilevati 11 casi di pazienti affetti da lupus indotto da simvastatina (tabella iv): viene segnalato un solo caso con versamento pleurico e pericardico, associato ad ana 1:320 e con anticorpi anti-istone positivi, riscontrati entro 3 mesi dall’inizio di tale terapia [7]. autore, anno [rif.] bannwarth, 1992 [3] hanson, 1998 [4] khosla, 1998 [7] ahmad, 2000 [11] srivastava, 2003 [12] noel, 2004 [9] suchak, 2007 [14] moulis, 2000 [15] moulis, 2003 [15] moulis, 2005 [15] moulis, 2009 [15] nazione francia australia usa usa usa ch uk francia francia francia francia sesso f m f m f m f f m f m età (anni) 70 39 79 42 53 59 82 71 75 72 74 farmaci usati eventuale altro farmaco oltre a simvastatina ibuprofene pravastatina dosaggio di simvastatina (mg/uid) 10 20 20 20 durata 20 mesi 4 anni 3 mesi 2 sett. 8 sett. 2 anni 3 mesi 4 anni sintomi sierositi no no pleuro-pericardite no no no no no no no no altri sintomi artralgie sindrome di raynaud artralgie scle scle scle artro-mialgie ed epatite rash rash titoli anticorpali ana (quantità, pattern) 1:1280, omogeneo 1:2560, speckled 1:320, speckled 1:320, omogeneo 1:160, speckled 1:640, speckled 1:100, speckled 1:2560 1:320 n.d. 1:320 anti-dsdna +, 770 iu/ml + anti-ena anti-ro/ssa + + anti-la/ssb + anti-ssdna + anti-istone + + fattore reumatoide n.d. altri esami di laboratorio ves = 49 mm; pcr = 32 mg/l (< 6 mg/l) ves = 12 mm; pcr normale c3-c4 = normali; cpk = 243 u/l terapia prednisone, 15 mg uid no prednisone, 40 mg uid no cortisone topico prednisolone, 20 mg uid, idrossiclorochina prednisone clorochina idrossiclorochina miglioramento clinicolaboratoristico 2 mesi guarigione 1 anno (ana = 1:2560) 2 sett. (ana normali) 2 sett. (ana normali 8 sett.) 9 mesi lento, spontaneo (6 mesi ana = 1:320) lento lento tabella iv. lupus indotto da simvastatina: 11 casi in letteratura - = negativo; + = positivo; ana = anti-nuclear antibodies; cpk = creatina fosfochinasi; ena = extractable nuclear antigens; n.d. = non determinato; pcr = proteina c reattiva; scle = subacute cutaneous lupus erythematosus; uid = una volta al giorno; ves = velocità di eritrosedimentazione la comparsa della lupus-like syndrome da statine è stata attribuita alla risposta proinfiammatoria di tali farmaci dovuta all’aumentata produzione nei monociti umani delle citochine il-18 e il-12 [19]. per quanto riguarda il lupus indotto da amiodarone, i tre casi descritti in letteratura (tabella v) si riferiscono a pazienti di età adulta-senile, con assunzione del farmaco per una durata simile al nostro soggetto; tutti hanno presentato un versamento pleurico, con associato versamento pericardico in uno, gli ana sono risultati a titolo elevato; gli anticorpi anti-istone, ritenuti tipici del lupus da farmaci [1], vengono segnalati positivi in un solo paziente. in precedenza nel 1997 era stato descritto [20] il caso di una paziente di 65 anni nella quale coesistevano patologia pleuro-polmonare da amiodarone e da granulomatosi di wegener (ana = 1:80, pattern speckled, anti-dsdna negativo). una positività degli ana, a titolo 1:200, era già stata segnalata nel 1983 in una casistica di interstiziopatia polmonare da amiodarone senza sierosite [21]. egualmente rare risultano le descrizioni di casi clinici in soggetti adulti e anziani con versamento pleurico (e pericardico) da effetto tossico di amiodarone e senza associata positività degli ana [22-28]. altrettanto scarse sono le segnalazioni di versamento pleurico, associato o meno a patologia polmonare e senza alterazioni immunologiche, in corso di terapia con statine [29-31]. non è possibile attualmente stabilire se le caratteristiche clinico-laboratoristiche del lupus indotto da amiodarone siano diverse da quelle classicamente descritte per il dile [1] e in particolare da quelle relative alla patologia da statine: i dati della letteratura indicano soltanto una maggiore frequenza di anti-dsdna nel lupus indotto da statine a fronte di un minor rilievo di anticorpi anti-istone [15]. è da segnalare infine che nei soggetti adulti la comparsa di les con la sola presentazione iniziale di sierosite risulta rara ed è generalmente considerata più benigna che nei giovani [32-34]. autore, anno [rif.] susano, 1999 [17] sheikhzadeh, 2002 [16] kundu, 2003 [18] turrin, 2013 nazione spagna germania india italia sesso f m m m età (anni) 71 59 58 81 esami strumentali ecg fa rs/fa fa fa rx torace versamento pleurico bilaterale, essudato a prevalenza linfocitaria versamento pleurico bilaterale versamento pleurico bilaterale, essudato a prevalenza linfocitaria versamento pleurico sinistro (protesi aortica meccanica) ett stenosi aortica lieve versamento pericardico 15 mm stenosi mitralica versamento pericardico 40 mm titoli anticorpali ana, pattern 1:640 1:320 1:640 1:320, omogeneo/ fine speckled anti-istone + n.d. anti-dsdna n.d. +, 1:80 fattore reumatoide 1:320 96 iu/ml 1:320 252 ku/l anti-ccp n.d. n.d. n.d. immunocomplessi + normali n.d. n.d. anti-ena anti-ro/ssa + anti-la/ssb altri esami di laboratorio ves (mm) 90 80 106 n.d. pcr (mg/l) n.d. 152 n.d. 29 c3, c4 normali normali n.d. normali sintomi tiroide normale normale normale ipotiroidismo farmaci usati dosaggio di amiodarone (mg) 200 bid 200 uid 200 uid 200 uid durata della terapia 1,5 anni 2 anni 1,5 anni 2 anni tao sì sì n.d. sì altri farmaci amiloride, digitale n.d. triamterene, benzotiazide, digitale simvastatina, furosemide, digitale, dutasteride, terazosina, allopurinolo, pantoprazolo, l-tiroxina stop amiodarone sì sì sì sì miglioramento clinico-laboratoristico 12 mesi, ana = 1:40 12 mesi (cortisone) 10 mesi, ana = 1:40 con cortisone riduzione del versamento pericardico; exitus dopo 2 mesi tabella v. lupus indotto da amiodarone: 3 casi in letteratura oltre al presente - = negativo; + = positivo; anti-ccp = anti-cyclic citrullinated peptide antibodies; bid = due volte al giorno; ecg = elettrocardiogramma; ett = ecocardiogramma transtoracico; fa = fibrillazione atriale; n.d. = non determinato; rs = ritmo sinusale; tao = terapia anticoagulante orale; uid = una volta al giorno; ves = velocità di eritrosedimentazione conclusioni riteniamo che il nostro caso clinico presenti analogie clinico-laboratoristiche con i tre casi descritti in letteratura: ci risulta pertanto non infondata l’ipotesi formulata per lupus senile indotto da amiodarone, anche in considerazione dell’incertezza dovuta alla scarsità dei dati attualmente presenti in letteratura. punti chiave nella valutazione del paziente anziano con sierositi da sospetto lupus anamnesi: indagine farmacologica esame obiettivo (manifestazioni cutanee) rx torace ecocardiogramma tac toracica ad alta risoluzione (hrct) tac addome esami di laboratorio: emocromo con formula, indici infiammatori, d-dimero, funzionalità epatica e renale, ormoni tiroidei, enzimi muscolari, immunocomplessi, complemento, fattore reumatoide, anti-cyclic citrullinated peptide antibodies, ana, anti-ena, anti-ss e ds-dna, anti-istone, anticorpi anti-cardiolipina, marcatori neoplastici mantoux/quantiferon toracentesi, pericardiocentesi esame chimico-fisico, colturale e citologico dei liquidi pleurico e pericardico bibliografia sarzi-puttini p, atzeni f, capsoni f, et al. drug-induced lupus erythematosus. autoimmunity 2005; 8: 507-18 amhad s. lovastatin-induced lupus erythematosus. arch intern med 1991; 151: 1667-8 bannwarth b, miremont g, papapietro pm. lupus-like syndrome associated with simvastatin (letter). arch intern med 1992; 152: 1093 hanson j, bossingham d. lupus-like syndrome associated with simvastatin. lancet 1998; 352: 1070 sridhar mk, abdulla a. fatal lupus-like syndrome and ards induced by fluvastatin. lancet 1998; 352: 114 hydzik p, 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immunol infect 2012 may 18 [epub ahead of print] clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 15 giuseppe maina 1, enrico pessina 1, andrea aguglia 1, filippo bogetto 1 introduzione l’individuazione e il progressivo utilizzo di farmaci attivi nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo (doc) risalgono agli anni ’80 [1,2]. infatti, in tale periodo, venne pubblicato il primo studio randomizzato e controllato con placebo sull’impiego di clomipramina nel trattamento del doc. studi successivi confermarono l’utilità della clomipramina nel doc e, a partire dagli anni ’90, anche quella di una nuova categoria di farmaci: gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (selective serotonin reuptake inhibitors, ssri) [3-6]. tutti i farmaci impiegati nel trattamento del doc sono stati inizialmente commercializzati per il trattamento dei disturbi depressivi e sono comunemente gli inibitori del reuptake della serotonina nel disturbo ossessivo-compulsivo: antidepressivi o antiossessivi? abstract the recommended pharmacological agents for the treatment of obsessive-compulsive disorder (ocd) are serotonin reuptake inhibitors (sri), used also as antidepressant drugs. nevertheless, the therapeutic prof ile of sris shows a lot of differences in ocd and in depression, as demonstrated in the trials here described. from a pharmacological point of view, antidepressant effect can be obtained with every monoamine reuptake inhibitor, whereas a predominant serotonin reuptake inhibition is required to result in an antiobsessive effect; moreover, adding pindolol to ssri therapy, generate opposite effects on ssri response latency. from a clinical point of view, the trials have highlighted differences in the following fields: response rate, therapeutic dose, response latency, response curve. taken together, these f indings suggest that sris have two different clinical properties, antiobsessional effect and antidepressant effect, that could be due to different mechanisms of actions: further studies have to be performed the better to understand the pathophysiology of ocd. keywords: clomipramine, ssris, antidepressant, obsessive-compulsive disorder serotonin reuptake inhibitors in obsessive-compulsive disorder: antidepressant or antiobsessional agents? cmi 2009; 3(1): 15-26 1 servizio per i disturbi depressivi e d’ansia, dipartimento di neuroscienze, università di torino corresponding author dott. enrico pessina via cherasco 11 10126 torino tel: 011-6335425 fax: 011-673473 enricopessina@hotmail.com gestione clinica indicati come antidepressivi; nelle prime osservazioni sull’impiego dei farmaci antidepressivi nella terapia del doc era stato evidenziato da alcuni autori un analogo andamento della risposta farmacologica nei confronti sia dei sintomi ossessivi, sia di quelli depressivi. era stato supposto che l’efficacia della terapia con antidepressivi nel doc fosse da attribuirsi a un’azione aspecifica sull’umore [7]. questa prima interpretazione ha trovato, tuttavia, una smentita in una serie di evidenze ormai dimostrate nella terapia antiossessiva. il profilo terapeutico degli inibitori del reuptake della serotonina (serotonin reuptake inhibitors, sri) nel doc differisce, infatti, da quello della depressione in alcuni aspetti importanti che verranno di seguito analizzati. presi nel loro insieme, questi riclinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 16 gli inibitori del reuptake della serotonina nel disturbo ossessivo-compulsivo: antidepressivi o antiossessivi? scontri suggeriscono che gli sri hanno due differenti proprietà cliniche: un effetto antiossessivo e un effetto antidepressivo che verosimilmente sono da attribuirsi a due diversi meccanismi d’azione. le maggiori evidenze, da cui emerge che l’effetto antiossessivo e l’effetto antidepressivo sono distinguibili, sono sia di tipo farmacologico che di tipo clinico. differenze tra effetto antiossessivo e antidepressivo degli sri differenze farmacologiche da un punto di vista farmacologico si rilevano i seguenti aspetti: efficacia tutti gli inibitori del reuptake delle monoamine hanno un’efficacia antidepressiva, ma solo quelli con una preminente attività serotoninergica hanno anche un’efficacia antiossessiva. ciononostante la loro potenza antiossessiva non è direttamente correlata alla loro selettività serotoninergica. i primi studi sull’impiego della clomipramina nella nevrosi ossessiva apparvero nel 1967 e furono poi confermati da studi successivi tra gli anni ’70 e gli anni ’80 [1,2,811]. dirimente per la comprensione della farmacologia dei principi antiossessivi (si può quasi parlare di “dissezione farmacologica”) fu la serie di studi condotti da thorén e collaboratori [1,2]. questo autore compì il primo studio randomizzato controllato con placebo con l’impiego di nortriptilina e clomipramina; di questi due agenti solo la clomipramina (farmaco triciclico con maggiore affinità di tipo serotoninergico) risultava più efficace del placebo nel ridurre la sintomatologia ossessiva, mentre la nortriptilina, la cui azione è prevalentemente sbilanciata a favore della noradrenalina, manifestava un’efficacia non solo inferiore alla clomipramina, ma non significativamente differente dal placebo. in seguito a questi primi studi, numerosi altri autori hanno progressivamente validato l’utilità di vari farmaci per il trattamento del doc, e tutti hanno dimostrato come la condizione imprescindibile per l’attività antiossessiva sia quella di avere un’attività prevalentemente serotoninergica. questo vale per tutti gli agenti inibitori selettivi del reuptake della serotonina, incluso l’ultimo introdotto sul mercato: l’escitalopram, che ha visto confermata la sua azione antiossessiva in alcuni recenti trial [3-6,12-14]. una serie di studi sul trattamento del doc [15-17] hanno messo in evidenza l’utilità a elevati dosaggi della venlafaxina, un inibitore del reuptake della serotonina e della noradretabella i farmaci citati nel testo e loro classe terapeutica farmaco classe terapeutica bupropione antidepressivo atipico; inibitore della ricaptazione di dopamina e noradrenalina (ndri) buspirone agonista parziale selettivo dei recettori serotoninergici 5ht 1a citalopram inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (ssri) clomipramina antidepressivo triciclico desipramina antidepressivo triciclico escitalopram inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (ssri) fluoxetina inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (ssri) fluvoxamina inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (ssri) hypericum perforatum antidepressivo fitoterapico inositolo derivato vitaminico mirtazapina antidepressivo atipico; antagonista dei recettori adrenergici a 2 presinaptici; blocco dei recettori 5ht 2 e 5ht 3 nortriptilina antidepressivo triciclico paroxetina inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (ssri) pindololo beta-bloccante di prima generazione non selettivo con attività simpaticomimetica intrinseca sertralina inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (ssri) tramadolo analgesico oppioide, agonista dei recettori µ; inibisce la ricaptazione di serotonina e noradrenalina trazodone antidepressivo eterociclico; inibitore della ricaptazione della serotonina con attività antiadrenergica (recettori a) e antistaminica (recettori h 1 ) venlafaxina inibitore della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina (snri) clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 17 g. maina, e. pessina, a. aguglia, f. bogetto nalina (snri). un’indiretta conferma della fondamentale importanza del meccanismo legato alla serotonina per il trattamento del doc deriverebbe, inoltre, dal fatto che altri agenti farmacologici (tra cui il buspirone, il tramadolo o l’inositolo), testati in monoterapia e che hanno dimostrato preliminarmente una qualche efficacia antiossessiva, sono accomunati da un’attività di tipo serotoninergico [18-20]. una controprova proviene, invece, da studi condotti con agenti farmacologici totalmente privi di azione serotoninergica. un esempio può essere fornito dal bupropione, farmaco antidepressivo recentemente approvato in italia e caratterizzato da un’azione farmacologica di blocco della ricaptazione di noradrenalina e dopamina. nel 2005 uno studio ha sperimentato tale principio attivo in aperto su 12 pazienti ossessivo-compulsivi (a dosaggio compreso tra 150 e 300 mg/die) non evidenziando una significativa diminuzione del punteggio medio alla yale-brown obsessive-compulsive scale (y-bocs) al termine delle 8 settimane di osservazione [21]. accertato il ruolo della serotonina nell’attività antiossessiva, va segnalato come tale ruolo abbia ancora dei punti oscuri da chiarire. la selettività recettoriale per la serotonina, ad esempio, non è un criterio di maggiore efficacia: alcuni studi metanalitici indicherebbero, infatti, un lieve vantaggio della clomipramina rispetto agli ssri nel trattare il doc (non considerando ovviamente le problematiche legate alla tollerabilità di tale farmaco) [22-24]; un meccanismo meno selettivo si accompagnerebbe a un maggiore (o quanto meno non inferiore) effetto terapeutico. se si rimane nell’ambito degli ssri, si può osservare un analogo fenomeno: non sono molti gli studi che operano un confronto diretto tra gli ssri, ma in uno studio di mundo e collaboratori, sono stati posti a confronto diretto paroxetina, fluvoxamina e citalopram nel trattamento dei sintomi ossessivo-compulsivi non evidenziando differenze significative tra i vari composti (laddove il profilo di selettività recettoriale del citalopram è sicuramente maggiore rispetto a quello degli altri due composti) [25]. un’ulteriore conferma proviene dai dati disponibili sull’ultimo ssri introdotto sul mercato: l’escitalopram, la cui attività recettoriale è esclusivamente indirizzata all’inibizione selettiva del reuptake della serotonina. in uno studio condotto da stein e collaboratori nel 2007 [14], tale principio attivo è stato messo a confronto con placebo e paroxetina nel trattamento di un campione di pazienti affetti da disturbo ossessivocompulsivo. alla fine dello studio, entrambi i farmaci sono risultati di efficacia comparabile nel determinare un miglioramento nella sintomatologia ossessivo-compulsiva, fatto salvo un lieve vantaggio dell’escitalopram in termini di tempi di latenza nel manifestarsi della risposta e di tollerabilità. si può poi osser vare che l’attività antiossessiva non è direttamente correlata nemmeno alla potenza dell’inibizione del reuptake della serotonina. se consideriamo le costanti di inibizione (ki) per la ricaptazione della serotonina, si vede come la costante più bassa, e quindi l’efficacia nell’inibizione più alta, tra i vari farmaci impiegati nel trattamento del doc sia quella della paroxetina. eppure proprio questo farmaco, tra i vari antiossessivi, è quello che necessita dei dosaggi più alti per esplicare la sua attività (come verrà illustrato in seguito) [26]. l’attività serotoninergica è quindi un requisito necessario per l’esplicazione dell’attività antiossessiva degli sri, ma verosimilmente non giustifica completamente la loro azione farmacologica nei confronti di questo disturbo. fisiopatologia nonostante l’indiscutibile effetto terapeutico benefico degli sri, gli studi neurobiologici non hanno condotto a un coerente modello fisiopatologico della disfunzione serotoninergica nel doc. ad esempio rimangono aperti molti dubbi sul perché alcuni farmaci ad azione serotoninergica abbiano dimostrato, almeno preliminarmente, un’azione terapeutica nei confronti del doc mentre altri agenti (i.e. il trazodone, l’hypericum perforatum, la mirtazapina) con un’attività serotoninergica abbiano fallito [27-29]. ulteriore punto che necessita una migliore comprensione è il coinvolgimento di altri sistemi neurotrasmettitoriali nel trattamento del doc e quindi, verosimilmente anche nella sua fisiopatologia; primo tra tutti quello della dopamina, come dimostra l’efficacia terapeutica dell’aggiunta di un antipsicotico atipico a basso dosaggio nei confronti di pazienti che non rispondono alla semplice terapia con serotoninergici [30,31]. potenziamento con pindololo il potenziamento con pindololo della terapia serotoninergica presenta effetti diversi sui sintomi ossessivi e su quelli depressivi. clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 18 gli inibitori del reuptake della serotonina nel disturbo ossessivo-compulsivo: antidepressivi o antiossessivi? l’attivazione degli autorecettori 5-ht1a è stata proposta come uno dei possibili meccanismi nel ritardato manifestarsi dell’effetto terapeutico degli ssri. pertanto, la somministrazione addizionale di un antagonista autorecettoriale dei medesimi dovrebbe determinare la prevenzione del feedback negativo del firing neuronale e quindi accelerare l’azione degli ssri [32]. il pindololo è un β-bloccante atipico con un’addizionale azione di antagonismo presinaptico sui recettori 5-ht1a. numerosi riscontri suggeriscono fortemente che tale principio attivo possa ridurre la latenza di risposta agli ssri nei pazienti affetti da disturbi depressivi. in effetti, in alcuni studi condotti su pazienti depressi, l’aggiunta di pindololo (al dosaggio di 2,5 mg x 3/die) ha determinato una riduzione nel tempo di latenza di risposta [33,34], anche se non tutti gli autori concordano su tali osservazioni [35-37]. invece mancano dati di efficacia certa del pindololo nell’ottenere una risposta nella terapia della depressione resistente agli antidepressivi. il pindololo è stato testato anche in pazienti ossessivi in aggiunta a fluvoxamina in uno studio di mundo e collaboratori nel 1998 per cercare di accorciare i tempi di risposta della terapia antiossessiva [38]; tuttavia, in questo studio, tale farmaco non ha dato risultati positivi. l’aggiunta di pindololo, sempre al dosaggio di 2,5 mg x 3/die, si è rilevata utile invece nel potenziamento della terapia di un campione di pazienti ossessivi che non avevano risposto a un adeguato trial farmacologico con paroxetina [39]. differenze cliniche da un punto di vista clinico il profilo terapeutico degli sri nel doc differisce da quello nella depressione per i seguenti punti: tassi di risposta l’efficacia della clomipramina e degli ssri nella terapia del doc viene misurata valutando la percentuale dei soggetti considerati responsivi al trattamento in un dato campione di pazienti. per responder si intende, in genere, un soggetto che risulti much improved o very much improved alla clinical global impression scale (cgi) rispetto alla condizione di pretrattamento e che presenti una riduzione del punteggio totale alla y-bocs pari o superiore al 35%, anche se, in alcuni studi clinici, viene accettato come valore discriminante una diminuzione del 25%. dai dati emergenti dei trial controllati, la percentuale di soggetti considerati responsivi alla terapia farmacologica si può stimare globalmente attorno al 50-60%. il grado di risposta del doc agli sri è, dunque, più basso di quello che si raggiunge nel trattamento della depressione, dove i tassi di risposta sono generalmente compresi tra il 60 e il 70% negli studi randomizzati controllati [40]. non solo la risposta all’agente farmacologico differenzia il doc dalla depressione maggiore, ma anche quella al placebo; nell’episodio depressivo maggiore, la risposta al placebo è attestata intorno al 20-30% dei casi considerati [41], mentre la risposta del disturbo ossessivo-compulsivo al placebo è caratteristicamente descritta come molto più bassa. in un primo studio condotto da mavissakalian e collaboratori nel 1990 [42], 30 pazienti affetti da doc sono stati sottoposti a un trattamento con placebo per 12 settimane e, in tal caso, la risposta al placebo era risultata praticamente assente. uno studio più recente [43] ha posto a confronto la risposta al placebo in tre popolazioni di pazienti affetti da differenti disturbi d’ansia (fobia sociale, disturbo di panico e doc): soltanto il 10% dei pazienti ossessivo-compulsivi manifestava una risposta al placebo e tale tasso di risposta era significativamente inferiore a quello degli altri due disturbi d’ansia. in aggiunta, quando dallo studio in questione sono stati esclusi i pazienti più gravi appartenenti alle tre classi diagnostiche per eliminare eventuali fattori di confondimento precedenti al trattamento, i pazienti affetti da doc continuavano a esprimere una risposta al placebo significativamente più bassa in confronto agli individui con altri disturbi. un ulteriore studio [44] condotto nel 2005, ha valutato la risposta al placebo in vari disturbi psichiatrici analizzando i dati disponibili presso il database della food and drug administration; nello studio, oltre al doc, erano considerati i seguenti disturbi: disturbo post-traumatico da stress, disturbo d’ansia generalizzato, disturbo di panico, depressione e psicosi. considerando la percentuale media di cambiamento della sintomatologia in risposta al placebo, per il doc si rilevava una percentuale di miglioramento di circa il 10% e solo il gruppo delle psicosi presentava un minor tasso di risposta al placebo. dose terapeutica le più aggiornate linee guida per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsiclinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 19 g. maina, e. pessina, a. aguglia, f. bogetto vo indicano come efficaci i dosaggi medi o elevati degli agenti serotoninergici [45,46]. tali indicazioni trovano origine dai risultati dei trial clinici effettuati a dosaggio fisso con questi farmaci, da cui si evince che, in effetti, l’efficacia antiossessiva degli ssri si manifesta a dosaggi elevati di farmaco. ad esempio la fluoxetina dimostra un’efficacia antiossessiva sia a 40 che a 60 mg/die, mentre a 20 mg/die risulta molto ridotta; non solo, ma il dosaggio di 60 mg/die si è dimostrato più efficace dei 40 mg/die nel trattare i sintomi ossessivo-compulsivi [47-49]. discorsi analoghi valgono anche per altri ssri quali il citalopram, la sertralina e pure per l’ultimo inserito sul mercato, l’escitalopram [13,14,23,50]. per i principi farmacologici privi di studi a dose fissa (fluvoxamina e clomipramina), le dosi medie risultate efficaci sono, in generale, superiori (tra 150 e 300 mg/die per la fluvoxamina e tra 150 e 250 mg/die per la clomipramina) a quelle abitualmente impiegate per il trattamento della depressione maggiore [3-5,51]. un caso particolare è rappresentato dalla paroxetina: si osserva come il dosaggio più basso (20 mg/die) non sia significativamente più efficace del placebo nel determinare la risposta antiossessiva, che si manifesta invece a partire da 40 mg/die [26]; non solo, nella depressione anche i dosaggi più bassi sono efficaci nel trattamento. ad esempio, per quanto riguarda l’uso dei triciclici, una metanalisi effettuata da furukawa e collaboratori [52] ha dimostrato che non solo l’uso dei triciclici a basso dosaggio è efficace nel trattare la depressione maggiore, ma l’uso di alti dosaggi non risulterebbe in un vantaggio terapeutico maggiore. per quanto riguarda gli ssri, analogamente i dosaggi indicati come i minimi efficaci per il trattamento della depressione sono sempre inferiori a quelli che risultano utili nel trattamento del doc; infatti, prendendo l’esempio della paroxetina, che si è visto essere inefficace nel doc a dosaggi inferiori a 40 mg/die [26], vi sono dati in letteratura che dimostrano come lo stesso principio attivo, nella depressione maggiore, possa dimostrarsi efficace già al dosaggio di soli 12,5 mg/die, quindi al di sotto della soglia normalmente indicata di 20 mg/die [53]. gli sri, dunque, necessitano di un dosaggio più elevato rispetto al trattamento della depressione per agire come antiossessivi in fase acuta. sempre per quanto riguarda i dosaggi, un’ulteriore differenza segna la divisione tra trattamento antiossessivo e trattamento antidepressivo: è dato ormai recepito e confermato dalle linee guida che, sia nel caso del disturbo depressivo che del doc, sia opportuna la prosecuzione di un trattamento nella cosiddetta fase di mantenimento dopo aver ottenuto una risposta nel corso del trattamento di fase acuta (apa, nice) [45,46]. riguardo al doc, le linee guida della scuola americana consigliano di mantenere lo stesso dosaggio utilizzato per ottenere la risposta durante la fase acuta, mentre altri autori ritengono possibile una riduzione delle dosi fino alla metà della fase di attacco; la validità di quest’ultima ipotesi trova fondamento scientifico nei risultati di diversi studi che hanno valutato la possibilità di ridurre il dosaggio nel lungo termine. in un primo studio [54], condotto in aperto da pato e collaboratori, sono stati studiati 10 pazienti in trattamento con clomipramina al dosaggio di 270 ± 20 mg/die per determinare la dose minima necessaria per mantenere il beneficio terapeutico; una riduzione graduale del dosaggio fino a raggiungere il 40% della fase di attacco non si accompagnava a un cambiamento significativo nelle condizioni cliniche. in uno studio in aperto condotto presso il nostro centro [55], per un periodo di due anni è stato confrontato il mantenimento effettuato con i dosaggi della terapia di attacco (clomipramina 150 mg/die; fluoxetina 40 mg/die, fluvoxamina 300 mg/die) rispetto al dimezzamento di tali dosaggi e non sono state riscontrate differenze significative tra i due gruppi, in termini di ricadute, per nessuno dei farmaci considerati. un altro studio ha messo a confronto differenti strategie di mantenimento in pazienti che avevano risposto a una terapia in acuto a 160 mg/die di clomipramina o a 260 mg/ die di fluvoxamina: i pazienti responder erano stati randomizzati per entrare in tre possibili bracci di continuazione (valutati in doppio cieco). in uno non si effettuava la riduzione dei dosaggi, in uno la riduzione del dosaggio variava dal 33 al 40% e in uno dal 60 al 66% della fase di attacco; la durata complessiva era di 102 giorni. lo studio ha dimostrato la mancanza di significative differenze nella proporzione cumulativa dei soggetti i cui sintomi peggioravano nel corso del periodo di osservazione [56]. nonostante alcuni dati contrastanti provenienti da altri autori [49,57], si può però concludere che la maggior parte dei dati disponibili confermano che la terapia di continuazione del doc possa essere fatta anche impiegando dosaggi ridotti del farmaco antiossessivo fino clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 20 gli inibitori del reuptake della serotonina nel disturbo ossessivo-compulsivo: antidepressivi o antiossessivi? alla metà della dose di attacco. studi analoghi effettuati nei confronti della terapia di mantenimento della depressione maggiore hanno dato indicazioni differenti. sia per i triciclici [58] che per gli ssri [59] il dimezzamento della dose di attacco comporterebbe un aumento delle ricadute significativo rispetto a chi, al contrario, prosegue con il pieno dosaggio della terapia. latenza di risposta i tempi di latenza terapeutica dei farmaci antiossessivi, clomipramina e ssri, sono relativamente elevati. se nel trattamento dei sintomi depressivi il tempo medio di latenza con gli stessi farmaci è di 2-3 settimane [60], nel doc sono necessari da uno a 3 mesi per ottenere una risposta. infatti, benché si possa verificare un miglioramento apprezzabile già entro 3-4 settimane, in molti casi esso non risulta significativo fino a 6-10 settimane [61]. i primi segni di miglioramento non corrispondono alla scomparsa di determinate ossessioni o compulsioni, ma consistono in una progressiva riduzione di intensità della spinta a metterle in atto o in un aumento della capacità di resistere ai sintomi. in alcuni casi è possibile che i pazienti manifestino un miglioramento significativo solo a partire dalla dodicesima settimana di terapia [62,63]. la possibilità di trovare strategie che permettano una riduzione della latenza di risposta, è un campo attivo della ricerca farmacologica del doc; in tal senso, è stato sperimentato il già citato pindololo. altri tentativi sono stati operati con l’uso di dosaggi più elevati di farmaco [47,50], con una rapida titolazione [30], con l’impiego di formulazioni alternative (la fluvoxamina a rilascio prolungato) [26] e con l’aggiunta di altri farmaci (la mirtazapina) [64]. curva di risposta la risposta dei sintomi depressivi alla terapia farmacologica è piuttosto rapida una volta superato il tempo di latenza [65]; infatti, nell’arco di circa un mese si raggiunge lo steady state, che si mantiene costante nei mesi, inclusa la fase di mantenimento. viceversa il miglioramento nel doc si verifica secondo una cinetica lineare, lenta e progressiva; proprio la natura di tale miglioramento rende spesso necessari interventi di tipo psico-educazionale nei confronti del paziente allo scopo di evidenziare i progressi che egli stesso non riesce a cogliere e pur tuttavia presenti, così come per garantire l’adesione del paziente stesso al trattamento. a differenza di quanto avviene nel trattamento a lungo termine della depressione, inoltre, il miglioramento dei sintomi ossessivi prosegue anche nella fase della terapia di mantenimento: in genere il trattamento di fase acuta comporta una riduzione nelle ossessioni e nelle compulsioni, ma non una completa scomparsa dei sintomi. pertanto, numerosi studi hanno preso in considerazione se un trattamento prolungato possa determinare un ulteriore miglioramento di tali sintomi. in uno studio condotto nel 2001 [66], sono stati confrontati i punteggi alla y-bocs ottenuti dopo la fase acuta di trattamento a 12 settimane e quelli dopo un periodo di trattamento a lungo termine con sri (durata media del periodo di osservazione 2,5 ± 1,2 anni). nel primo caso solo il 40% dei pazienti ha ottenuto un punteggio y-bocs < 16 (quindi al di sotto della rilevanza clinica), e l’8% è sceso al di sotto dei 7 punti. nel secondo caso, invece, il 58% dei pazienti ha avuto un punteggio inferiore a 16 punti, e il 30% < 7 punti. katz e collaboratori [67], in uno studio su pazienti doc che avevano risposto in acuto alla clomipramina, hanno osservato che l’efficacia della clomipramina proseguiva nel tempo (lo studio di continuazione durava un anno). tollefson e collaboratori [49] hanno riportato un continuo e costante miglioramento nel tempo di 76 pazienti ossessivi responder a 13 settimane di trattamento con diverse dosi di fluoxetina e che erano stati trattati per altre 24 settimane alla stessa dose: i pazienti hanno avuto un ulteriore miglioramento nel tempo. in termini di riduzione dei sintomi, l’efficacia della paroxetina è stata valutata da hollander e collaboratori [26]: i responder, con trattamento in acuto di 12 settimane, hanno beneficiato di un’ulteriore riduzione dei punteggi della y-bocs nei 6 mesi di terapia di mantenimento (diminuendo i punteggi medi della scala da 19,8 alla fine della fase di trattamento acuto a 14,6 dopo i sei mesi di continuazione). nel corso della fase di mantenimento in doppio cieco di paroxetina versus placebo, i pazienti trattati con paroxetina ottenevano un ulteriore lieve miglioramento dei punteggi medi della y-bocs. altri dati sul continuo miglioramento nel trattamento a lungo termine con sertralina, provengono dallo studio di koran e collaboratori [68] in cui, nel prosieguo della terapia nel periodo di continuazione (di oltre un anno), si è assistito a un progressivo miglioramento anche della qualità di clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 21 g. maina, e. pessina, a. aguglia, f. bogetto vita dei pazienti (misurata con un apposito strumento: il quality of life enjoyment and satisfaction questionnaire). il citalopram è stato valutato nel lungo termine in un trial in aperto a dose variabile condotto in una popolazione di doc adolescenti [69]; i pazienti sono migliorati in termini di punteggi della y-bocs durante l’intero periodo di follow-up (due anni), benché una riduzione statisticamente significativa fosse evidente dalla decima settimana fino a un anno di trattamento, mentre il miglioramento durante il secondo anno, seppur presente, non raggiungeva la significatività statistica. le proprietà antiossessive e antidepressive sono clinicamente separate ecco alcune osservazioni riguardanti la compresenza di sintomi depressivi e sintomi ossessivo-compulsivi: gli sri sono utili anche per i pazienti doc y che non sono clinicamente depressi; nelle prime osservazioni sull’utilizzo dei farmaci antidepressivi nella terapia del doc, alcuni autori avevano evidenziato un analogo andamento della risposta farmacologica nei confronti dei sintomi ossessivi e depressivi. dunque, si era supposto che l’efficacia della terapia con antidepressivi del doc fosse da attribuirsi a un’aspecifica azione su sintomi quali l’umore disforico, l’ansia o i sintomi depressivi [7]. in seguito, tali preliminari osservazioni sono state smentite da una serie di studi dove si è evidenziato che la presenza di sintomi depressivi non è la conditio sine qua non per la risposta dei sintomi antiossessivi; la presenza di sintomi depressivi o di comorbidità con depressione maggiore non rappresenta, secondo i più recenti dati di letteratura, l’essere predittore di risposta alla terapia antiossessiva né in senso positivo né in senso negativo [70,71]; gli antidepressivi senza prominente aty tività serotoninergica possono ridurre i sintomi depressivi nel doc, ma non agiscono specificatamente sulla sintomatologia ossessivo-compulsiva. sono presenti in letteratura almeno due studi che lo dimostrano: goodman e collaboratori hanno condotto uno studio di comparazione dell’efficacia della fluvoxamina nei confronti della desipramina (triciclico ad azione prevalentemente noradrenergica), includendo nello studio pazienti effetto antidepressivo effetto antiossessivo ottenuto con tutti gli inibitori del reuptake delle monoamine ottenuto solo con gli inibitori del reuptake delle monoamine con prevalente attività serotoninergica ↑ selettività per serotonina non corrisponde a ↑ efficacia ↑ potenza non corrisponde a ↑efficacia non tutti farmaci con azione serotoninergica funzionano contro doc ssri + pindololo: ↓ tempo di latenza di risposta a ssri ssri + pindololo: non varia tempo di latenza di risposta a ssri ssri + pindololo in pazienti resistenti a antidepressivi: mancano dati di efficacia certa ssri + pindololo in pazienti resistenti a ssri: efficace 60-70% di responder a antidepressivi % molto inferiori di responder a sri 20-30% di responder a placebo 10% di responder a placebo fase acuta: efficacia già a bassi dosaggi di sri fase acuta: dosaggi medi o elevati di sri fase di mantenimento: stesso dosaggio fase acuta fase di mantenimento: 50% dosaggio fase acuta tempi di latenza dei farmaci: 2-3 settimane tempi di latenza dei farmaci: 1-3 mesi risposte rapide: dopo un mese steady state costante per tutta la fase di mantenimento risposte lineari, lente e progressive, che continuano nella fase di mantenimento (opportuno proseguire le cure per un anno) avviene se bassi livelli metabolici nell'amigdala e alti nella corteccia prefrontale e nel giro del cingolo anteriore avviene se alto metabolismo nel nucleo caudato di destra presenza di entrambi i sintomi non condiziona la risposta alla terapia presenza di entrambi i sintomi: sri li migliora tutti e due, ma ≠ tempi di onset nella terapia farmacologica e ≠ profili di curva tabella ii tabella riassuntiva delle differenze tra effetto antidepresseivo ed effetto antiossessivo doc = disturbo ossessivocompulsivo; sri = serotonin reuptake inhibitors clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 22 gli inibitori del reuptake della serotonina nel disturbo ossessivo-compulsivo: antidepressivi o antiossessivi? ossessivo-compulsivi che potevano avere una comorbidità per depressione maggiore, purché questa fosse considerata “secondaria” al doc. ambedue i farmaci determinavano una riduzione dei sintomi depressivi, ma solo la fluvoxamina si dimostrava efficace nel trattare la sintomatologia ossessivo-compulsiva (da notare comunque che la fluvoxamina determinava un abbassamento maggiore anche della sintomatologia depressiva) [72]. più recentemente, hoehn-saric e collaboratori [73] hanno condotto uno studio affine comparando l’efficacia della sertralina e della desipramina nel trattamento di pazienti affetti da doc e depressione maggiore in comorbidità attuale; i risultati di questo studio sono in accordo con il precedente per cui la desipramina riduce la sintomatologia depressiva, ma non quella ossessiva (e inoltre meno efficacemente della terapia con sertralina); in pazienti con doc in comorbidità y con depressione, il trattamento con sri produce un significativo miglioramento di entrambi i cluster sintomatologici ma con tempi differenti nell’onset della terapia farmacologia e con profili di curva differenti (figura 1). studi di neuroimaging i dati di osservazione clinica, che fanno presupporre un differente meccanismo d’azione dello stesso farmaco per disturbi differenti, trovano una conferma ulteriore in studi di brain imaging condotti su pazienti con depressione maggiore e con doc. in due recenti lavori [74,75] i ricercatori hanno sottoposto campioni di pazienti affetti da depressione maggiore o doc a una tomografia a emissione di positroni (pet) prima di sottoporli a trattamento con paroxetina, allo scopo di identificare eventuali predittori di risposta nel metabolismo cerebrale; lo studio ha evidenziato che un alto metabolismo di glucosio nel nucleo caudato di destra è predittore di risposta dei sintomi ossessivo-compulsivi nei pazienti con doc, mentre più bassi livelli metabolici nell’amigdala e più alti nella corteccia prefrontale e nel giro del cingolo anteriore portano a un miglioramento della sintomatologia per i pazienti depressi. conclusioni gli sri sono efficaci agenti antiossessivi e rappresentano la medicazione di prima linea nel doc. il profilo terapeutico degli inibitori del reuptake della serotonina nel doc differisce da quello della depressione in alcuni importanti aspetti: nella dimensione dell’effetto farmacologico, ma soprattutto nella specificità del profilo di risposta. presi nel loro insieme questi riscontri suggeriscono che gli inibitori del reuptake della serotonina hanno due differenti proprietà cliniche: effetto antiossessivo ed effetto antidepressivo, che verosimilmente sono da attribuirsi a due meccanismi d’azione differenti. ulteriori studi sono necessari per comprendere più a fondo la fisiopatologia del disturbo ossessivo-compulsivo. figura 1 tempi e curva di risposta di 15 pazienti ossessivo-compulsivi con depressione in comorbidità. differenze tra sintomi ossessivi e sintomi depressivi hdrs = hamilton depression rating scale; y-bocs = yale-brown obsessive-compulsive scale 0 5 10 20 25 35 865421 hdrs y-bocs 30 3 settimane 7 15 bibliografia thorén p, asberg m, cronholm b, jörnestedt l, träskman l. clomipramine treatment of obsessive-1. compulsive disorder. i. a controlled clinical trial. arch gen psychiatry 1980; 37: 1281-5 thorén p, asberg m, bertilsson l, mellström b, sjöqvist f, träskman l. clomipramine 2. treatment of obsessive-compulsive disorder. ii. biochemical aspects. arch gen psychiatry 1980; 37: 1289-94 clinical management issues 2009; 3(1) ©seed tutti i diritti riservati 23 g. maina, e. pessina, a. aguglia, f. bogetto pato mt, zohar j. clomipramine in the treatment of obsessive-compulsive disorder. in: pato 3. mt, zohar j (a cura di). current treatments of obsessive-compulsive disorder. washington: american psychiatric press, 1991 saiz ruiz j, lopez-ibor jj jr, cottreaux j. double blind comparison of fluoxetine and 4. clomipramine in obsessive-compulsive disorder. eur neuropsychopharmacol 1992; 2: 4-5 goodman wk, price lh, rasmussen sa, 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©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 63 gianlorenzo imperiale 1, claudio marengo 2 lovastatina: una nuova “vecchia” molecola per il trattamento dell’ipercolesterolemia/dislipidemia premessa le malattie cardiocerebrovascolari sono, in italia e nel mondo occidentale, una delle principali cause di morte e la loro gestione rappresenta una sfida anche per i paesi emergenti [1-4]. numerosi studi hanno dimostrato che l’insieme di elementi anamnestici (familiarità per eventi cardiovascolari), clinici (età, pressione arteriosa, circonferenza addominale) e di laboratorio (glicemia, colesterolemia totale, colesterolemia ldl e hdl, trigliceridemia, ecc.) nonché strumentali (l’ispessimento intima-media all’ecodoppler dei tronchi sovra-aortici; la presenza di ipertrofia ventricolare sinistra all’ecocardiogramma) consente di stratificare il rischio cardiovascolare assoluto nel singolo individuo e permette una migliore gestione clinica [5-15]. su questo principio sono staabstract lovastatin is the first hmgcoa-reductase inhibitor used for the control of hypercholesterolaemia (usa, 1987). in italy, it’s been authorized for the therapy of hypercholesterolaemia/dyslipidaemia since end 2005. several studies, conducted both in primary and in secondary cardiovascular prevention, underline the favourable profile in reducing the risk for ischaemic events and their complications. this molecule has the capability to reduce plasmatic atherogenic lipids levels enough to induce clinical benefits. the safety and tolerability of lovastatin are proved even for high dosages, as well as for long term use. pharmacoeconomic evaluations have shown the value of its choice, in particular for patients who need lipid-lowering treatment but don’t satisfy eligibility criteria for reimbursement by the italian national health service, as outlined by aifa in 2005. keywords: hmgcoa-reductase inhibitors, lovastatin, hypercholesterolaemia, dyslipidaemia, cardiovascular disease, prevention, economic cost lovastatin: a new “ancient” molecule for hypercholesterolaemia/dyslipidaemia treatment. cmi 2008; 2(2): 63-74 1 dirigente, s.c. medicina interna, asl to1, ospedale “martini”. responsabile ambulatorio di medicina interna e ambulatorio delle dislipidemie e dell’aterosclerosi 2 direttore, s.c. medicina interna ospedale santa croce, moncalieri (to) e dipartimento area medica, asl to5 te sviluppate le “carte del rischio” e tra queste quelle elaborate dall’istituto superiore di sanità nell’ambito del progetto cuore [16-18] a cui la comunità medica italiana fa riferimento. nell’ambito dei vari parametri, innumerevoli studi hanno sottolineato come la colesterolemia svolga un ruolo fondamentale nella patogenesi delle lesioni aterosclerotiche che sono alla base degli eventi cardio-cerebrovascolari. tutti questi studi pongono in evidenza come esista una correlazione positiva, sia in termini di prevenzione primaria che di prevenzione secondaria, fra riduzione della colesterolemia e riduzione degli eventi vascolari. inoltre, si sottolinea come questa associazione fra riduzione della colesterolemia ed eventi si realizzi indipendentemente dal fatto che l’effetto sia ottenuto con la dieta, l’uso di farmaci o anche attraverso un intervento chirurgico (tabella i) [6, 19-26]. corresponding authors dott. claudio marengo clamaren@tin.it dott. gianlorenzo imperiale gianlorenzo.imperiale@ unito.it gestione clinica clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 64 lovastatina: una nuova “vecchia” molecola per il trattamento dell’ipercolesterolemia/dislipidemia la maggiore riduzione di colesterolemia è tuttavia ottenuta in modo stabile, con maggiore aderenza al trattamento e senza significativi effetti collaterali con l’impiego terapeutico della classe degli inibitori dell’idrossi-metil-glutaril coa-reduttasi o statine. questa classe di farmaci comprende numerose molecole il cui impiego è stato alla base di studi clinici che hanno rivoluzionato il nostro approccio clinico-terapeutico ai pazienti con eventi cardio-cerebrovascolari [27-38]. in questo lavoro focalizzeremo la nostra attenzione sulla prima molecola di questa classe che ha contribuito, in maniera determinante, alla definizione e allo sviluppo delle successive linee di intervento: la lovastatina. storia le statine furono isolate da una muffa, il penicillium citrinium, e nel 1976 furono riconosciute come inibitori della idrossi-metil-glutaril coenzima a-reduttasi (hydroxy methyl glutaryl coenzyme a, hmgcoa). la prima statina studiata fu la compattina o mevastatina. agli inizi degli anni ’80 comparvero alcuni articoli che sottolinearono come una sostanza, la mevinolina o lovastatina, fosse un potente inibitore dell’idrossi-metil-glutaril coa-reduttasi. studi precedenti avevano individuato in questo enzima la tappa fondamentale per la sintesi endogena del colesterolo e studi successivi hanno identificato nella inibizione di questa tappa una serie di conseguenze che hanno chiarito alcuni meccanismi cellulari (sintesi di proteine prenilate, ruolo dei dolicoli) e permesso di comprendere le basi molecolari di taluni eventi avversi da impiego di statine (ruolo della sintesi dell’ubichinone e mialgia/miopatia) (figura 1) [39-52]. dal 1987 lovastatina è commercializzata negli usa e dal 2005 anche in italia. lovastatina: profilo farmacologico lovastatina è un derivato lattonico dei prodotti di fermentazione di alcuni miceti quali aspergillus terreus, monoscus ruber, penicillium citrinum (figura 2). lovastatina è un profarmaco: ciò significa che necessita di essere attivato nell’organismo a metabolita attivo. dopo l’ingestione, la molecola viene idrolizzata nel fegato nella corrispondente forma β-idrossiacida (β-idrossi-lovastatina) che è un potente inibitore della hmgcoareduttasi, enzima chiave per la sintesi del mevalonato da cui si dipana la sintesi del colesterolo. la lovastatina, come altre statine, va incontro a un esteso metabolismo di primo passaggio epatico e meno del 5% del dosaggio orale raggiunge la circolazione. la metabolizzazione epatica avviene da parte dell’isoenzima cyp3a4 del citocromo p450. il picco plasmatico si ha dopo 2-4 ore dall’assunzione con raggiungimento della tabella i tavola riassuntiva di alcuni studi di prevenzione primaria e secondaria (cfr le relative voci bibliografiche) * accertati + sospetti ** accertati ntt = number needed to treat studio farmaco valori medi di colesterolo (mg/dl) follow-up (anni) n. pz eventi coronarici mortalità totale mortalità coronarica ictus nnt posch, 1990 [26] bypass ileale parziale 237 9,7 838 21,7% 28% 10 4s, 1994 [29] simvastatina (20-40 mg) 270 (212-308) 5,4 4.444 34% 30% 42% 28% 13 woscops, 1995 [28] pravastatina (40 mg) 272 4,9 6.595 31% 22% 33%* 28%** 10% 40 care, 1996 [30] pravastatina 209 5 4.159 9% 20% 31% 32 lipid, 1998 [31] pravastatina 213 (155-271) 5 9.014 29% 23% 24% 20% 19 afcaps/ texcaps, 1998 [27] lovastatina (20-40 mg) 221 (180-264) 5,2 6.605 37% (primo evento coronarico acuto maggiore: ima fatale e non, angina instabile, morte cardiaca improvvisa) clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 65 g. imperiale, c. marengo statine acetato acetil-coa acetoacetil-coa hmg-coa mevalonato hmg coa-reduttasi (hmgcr) mevalonato-5-p mevalonato cinasi (mvk) mevalonato-5-pp isopentenil-pp geranil-pp selenocisteina-trna dolicoli n-glicosilazione protein-prenilazione (rho, rac, cdc42, rab, rap, ras, prelamina a, ecc.) farnesil-ppsqualenelanosterolo geranil geranil-ppdesmosterolo7-deidrocolesterolo sterol-c5 desaturasi (sc5dl) sterol-delta-7-reduttasi (dhcr7) coenzima q ubichinone eme a colesterolo idrossisterolo-delta 24-reduttasi (dhcr24) ossisterolo figura 1 sintesi del colesterolo e ruolo dell ’inibizione della hmgcoareduttasi [49] figura 2 formula di struttura della lovastatina. modificato da [55] h oho o o o concentrazione steady state, per assunzione quotidiana, dopo 2-3 giorni. è molto importante ricordare che lovastatina e i suoi metaboliti attivi sono legati per oltre il 95% alle proteine plasmatiche; l’85% circa della dose si ritrova nelle feci e il 10% circa nelle urine. il metabolita attivo ha un’emivita di circa 1-2 ore, come accade anche per altre statine liposolubili che per il proprio metabolismo epatico coinvolgono l’isoenzima cyp3a4; particolare attenzione dovrà essere posta all’interazione con quei farmaci che sfruttano la medesima via metabolica quali antimicotici azolici, macrolidi, ciclosporina e alcuni inibitori retrovirali. viene segnalata, oltre che con il pompelmo al pari di altre statine, un’interazione con la camomilla. gli effetti collaterali della lovastatina, in genere lievi e transitori, sono simili a quelli riportati per altre statine: nausea (2%), dispepsia (2%), algie addominali (2%), diarrea (3%), stipsi (3%), flatulenza (4%), cefalea (2%), rash cutanei (2%), vertigine (1%), visione alternata (1%) disturbi del sonno [53-56]. il profilo di sicurezza della lovastatina è simile a quello delle altre statine. nello clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 66 lovastatina: una nuova “vecchia” molecola per il trattamento dell’ipercolesterolemia/dislipidemia studio excel [58-59] l’incremento delle transaminasi, oltre 3 volte i valori normali, ha interessato lo 0,1% di soggetti trattati con 20 mg di lovastatina, lo 0,9% di quelli in terapia con 40 mg e l’1,5% di coloro che assumevano 80 mg/die. sono stati segnalati rarissimi casi di epatite acuta. circa la mialgia e l’eventuale rabdomiolisi, i dati di venti anni di commercializzazione con sorveglianza post-marketing e i dati emersi negli studi sono pressoché identici a quelli di altre molecole [51-52]. una attenzione particolare meritano i soggetti con insufficienza renale cronica con clearance creatininica < 30 ml/min. per questi pazienti, i dosaggi superiori ai 20 mg/die devono essere attentamente valutati [53-57,60]. infine, come con le altre statine, va usata una particolare cautela quando si dovessero associare fibrati, gemfibrozil e niacina. l’eventuale associazione con questi farmaci deve esser demandata esclusivamente allo specialista con la necessaria adozione di tutti gli schemi di sorveglianza clinico-laboratoristica [51-57]. meccanismo d’azione il principale effetto delle statine è la riduzione dei livelli plasmatici di ldl colesterolo. questo avviene attraverso quella porzione di molecola (figura 3) simile all’acido mevalonico, attraverso cui si compie l’inibizione competitiva della hmgcoa reduttasi. la lovastatina, inibendo la produzione epatica di colesterolo, induce la iper espressione del gene per la sintesi del recettore per le ldl. la riduzione del colesterolo intracellulare comporta che le molecole delle “proteine leganti” gli elementi di risposta agli steroli (sterol regulatory element binding proteins, srebp) vengano scisse e trasportate all’interno del nucleo dove, legandosi ai fattori di trascrizione, inducono l’incrementata attività di trascrizione dei geni per il recettore ldl. il risultato sarà un aumentato numero di recettori per le ldl con conseguente loro maggior rimozione dal circolo. inoltre, alcuni studi sottolineano come anche i precursori delle ldl (vldl e idl) siano rimossi con la conseguenza che anche la produzione di vldl si riduce e ciò si ripercuote anche sui livelli di trigliceridemia (evento dosedipendente). ulteriori dati emergerebbero circa una riduzione della sintesi di apo b con ulteriore contributo alla riduzione sia della sintesi di ldl che di vldl. dati non univoci si hanno a proposito del ruolo delle statine sulla sintesi delle hdl (per es. la simvastatina 80 mg/die incrementa apo a1 in maniera superiore a una dose equivalente di atorvastatina, ma non è chiaro se ciò abbia un risvolto clinico). la lovastatina ha mostrato la sua capacità ad incrementare i valori di colesterolemia hdl di circa il 610%, come ampiamente evidenziato nello studio afcaps/texcaps e nello studio excel [27,39-52,58,59,61-62]. da quanto sopra riportato, risulta chiaro che la lovastatina trova impiego in quei soggetti che presentino un fenotipo lipidico da iperlipoproteinemia tipo iia e iib secondo frederickson, sia in prevenzione primaria che in prevenzione secondaria, come peraltro previsto dall’ aifa per l’autorizzazione all’immissione in commercio per il nostro paese. gli studi clinici con lovastatina la lovastatina non è stata solo la molecola capostipite per la terapia, ma ha anche rappresentato una svolta fondamentale negli studi di prevenzione primaria e secondaria della malattia cardiovascolare. lo studio afcaps/texcaps [27] è stato il primo studio di prevenzione primaria che ha coinvolto sia donne che uomini (a differenza del woscops [28] in cui la popolazione era solo maschile) con la valutazione di endpoint “pesanti” (ima fatale e non fatale, angina instabile, morte cardiaca improvvisa). i 6.605 soggetti studiati non mostravano segni di malattia e avevano un livello medio di colesterolo ldl = 150 mg/dl. con il trattamento si otteneva, al dosaggio di 20-40 mg/die di farmaco, una riduzione di ldl colesterolo pari al 25% e un incremento del colesterolo hdl pari al 6%. il dato più importante, però, era, dopo un followup medio di 5,2 anni, la riduzione del 37% figura 3 formula di struttura del hmgcoa. modificato da [55] o cooh oh c s-coa clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 67 g. imperiale, c. marengo del primo evento cardiovascolare acuto nel gruppo trattato rispetto al non trattato. in questo studio, l’analisi portò a risultati di notevole interesse: riduzione del 33% delle procedure di rivascolarizzazione, del 32% di angina instabile, del 40% di ima fatali e non fatali. inoltre, l’ elaborazione dei dati evidenziò una riduzione del 25% degli eventi cardiovascolari (tia, ictus, vasculopatie periferiche, ecc). gli studi di peter libby [61,62] sulla placca hanno indotto più di un gruppo di ricercatori a valutare se gli effetti metabolici (riduzione della colesterolemia) comportassero delle modificazioni strutturali/anatomiche delle lesioni. la lovastatina, in epoca pre ivus (ultrasonografia intravascolare) ha portato dati di particolare importanza nello studio circa la progressione/regressione della placca [63,64]. nello studio fats (familial aterosclerosis treatment study) [65,66] 120 soggetti maschi con coronaropatia documentata angiograficamente e apob > 125 mg/dl furono divisi in 3 gruppi e sottoposti a trattamento con dieta + colestipolo 30 g/die (46 soggetti), colestipolo 30 g/die + acido nicotinico 1 g/die (36 soggetti) e colestipolo 30 g/die + lovastatina 40 mg/die (38 soggetti). dopo un follow-up di 2,5 anni si osservò che, nel gruppo trattato con la statina, vi era una riduzione delle stenosi prossimali di 0,7 mm contro un incremento di 2,1 mm nei gruppi non trattati. il limite dello studio è rappresentato dalle dimensioni del campione, ma i risultati sono molto incoraggianti. sempre sulla stessa linea, lo studio mars (monitored atherosclerosis regression study) [67-69] ha valutato 270 pazienti con coronaropatia documentata angiograficamente e ipercolesterolemia totale con valori fra 190 e 295 mg/dl. questi pazienti furono randomizzati in due gruppi: lovastatina 40 mg x 2 contro la sola dieta. lo studio fu condotto per due anni e, alla conclusione del periodo di osservazione, tutti i soggetti furono sottoposti a una nuova coronarografia ai fini di rivalutare l’evoluzione delle lesioni identificate all’inizio dello studio. il risultato mostrò una regressione delle lesioni severe (stenosi ≥ 50%) nel 4,1% nel gruppo trattato con lovastatina, con un incremento dello 0,9% del diametro della stenosi nel gruppo di controllo (in questo studio si dimostrò anche una riduzione delle lipoproteine ricche in apob: riduzione delle apob del 26% e del colesterolo ldl del 38%, inoltre si documentava un incremento del colesterolo hdl dell’8,5%). nello studio ccait (canadian coronary atherosclerosis intervention trial) [70] furono sottoposti a documentazione coronarografica 331 pazienti con colesterolemia totale fra 220 e 300 mg/dl. questi pazienti furono seguiti per due anni e randomizzati in due gruppi: uno di trattamento con dieta + lovastatina da 20 a 80 mg e l’altro con sola dieta. entrambi i gruppi erano sottoposti a terapia anti-aggregante con aspirina 325 mg/ die. in questo studio i dati coronarografici mostrarono una progressione delle stenosi del 33% vs il 50% rispettivamente nel gruppo trattato e nel gruppo non trattato, con p = 0,003, mentre non si raggiungeva la significatività statistica circa la regressione delle stenosi (10% vs 7%). le nuove lesioni, però, erano significativamente inferiori nel gruppo trattato con lovastatina (16%) rispetto a quello trattato con placebo (32%), con p < 0,001. in tutti questi tre studi di intervento, la valutazione morfologica fu eseguita con una angiografia coronarica quantitativa computerizzata (computerized quantitative coronary angiography, qca) [71]. chiunque si occupi di patologia cardiocerebrovascolare non può far a meno di considerare che anche il distretto carotideo è sottoposto alle lesioni che coinvolgono il circolo coronarico, sicuramente con peculiarità diverse e particolari [13, 32, 35-38]. anche in questo ambito abbiamo a disposizione uno studio condotto con la lovastatina. lo studio acaps (asymptomatic carotid artery progression study) [36] ha esaminato 919 soggetti di ambo i sessi con una colesterolemia ldl compresa fra 130 e 190 mg/dl, ma portatori di un interessamento carotideo asintomatico valutato con indagine ultrasonografica ad alta definizione b-mode. i soggetti furono randomizzati alla terapia con lovastatina 20-40 mg/die verso placebo a cui fece seguito una seconda randomizzazione per l’uso di warfarin sodico 1 mg. lo studio durò tre anni e le valutazioni angiografiche effettuate a 6/12 mesi, 18/24 mesi e 30/36 mesi mostrarono che il gruppo trattato con lovastatina aveva una riduzione statisticamente significativa dello spessore intima-media e che tale evidenza era presente già al 18° mese di trattamento. in questo studio, però, si assisteva anche alla riduzione significativa degli eventi cardiovascolari fatali e non fatali e della mortalità totale nel gruppo trattato con lovastatina. clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 68 lovastatina: una nuova “vecchia” molecola per il trattamento dell’ipercolesterolemia/dislipidemia gli studi presi in considerazione hanno dimostrato che la lovastatina è efficace non solo in un programma di prevenzione primaria ma è in grado di “modificare” anatomicamente le lesioni, ponendosi, seppure con i limiti dei numeri e delle metodiche, nel solco dei risultati di trial più vicini a noi negli anni [63,64]. rimane tuttavia da aff rontare l’ultimo problema che clinicamente si presenta: la gestione di soggetti con ipercolesterolemia primaria moderata e che presentano o meno cardiopatia ischemica e/o altri fattori di rischio cardiovascolare. in questo ambito, lo studio excel (expanded clinical evolution of lovastatin) [58,59] ha dato delle interessanti indicazioni e ha permesso di condurre un’analisi anche della diversa efficacia della molecola a seconda del dosaggio impiegato. in questo lavoro, durato 48 settimane, 8.245 soggetti di ambo i sessi furono avviati alla randomizzazione in cinque gruppi: dieta; lovastatina 20 mg/sera; lovastatina 40 mg/sera; lovastatina 20 mg per 2/die; lovastatina 40 mg per 2/die. un elemento peculiare era dato dai valori dei parametri lipidici richiesti per l’ammissione allo studio: colesterolemia totale fra 240 e 300 mg/dl, colesterolemia ldl > 160 mg/dl, trigliceridemia < 350 mg/dl, valori assai simili a quelli medi che riscontriamo nei nostri pazienti ambulatoriali. inoltre il 29% aveva una coronaropatia pre-esistente e il 62% aveva una diagnosi di cardiopatia ischemica o due fattori di rischio coronarico secondo il ncep. in tal modo questo lavoro ha permesso di porre sul tappeto la curva dose/risposta in rapporto all’efficacia del farmaco sia sul profilo lipidico sia sull’incidenza di eventi avversi. alla fine dello studio si è potuto mettere in luce che i valori di colesterolemia ldl si riducevano rispettivamente del 24% (20 mg) e del 40% (40 mg x 2), la colesterolemia hdl si innalzava del 7-10% e la trigliceridemia si riduceva del 10-19%. in un tempo in cui la razionalizzazione delle risorse è un elemento fondamentale per la gestione clinica, parlare di target raggiunti diventa un elemento di qualità. nello studio excel si affronta la valutazione dei dati con la stratificazione in rapporto al target di colesterolemia da rag     giungere secondo il ncep. i risultati furono i seguenti: ldl colesterolemia 160 mg (per assenza di cad o fattori di rischio) nel 22% dei casi del gruppo placebo, nell’81% per il gruppo 20 mg di lovastatina e nel 96% per il gruppo 40 mg x 2 di lovastatina; per il target 130 mg/dl di colesterolo ldl i dati sono stati rispettivamente pari a 4%, 38% e 83%. anche in questo studio gli eventi avversi si mantennero percentualmente in linea con quelli evidenziati in analoghi studi con altre statine. efficacia della lovastatina sui parametri lipidici sicuramente i vari trial hanno sottolineato che il trattamento con statine riduce i rischi di un evento cardio-cerebrovascolare. però, nella gestione pratica dei pazienti sia in prevenzione primaria sia, soprattutto, in prevenzione secondaria vi è la necessità di verificare oggettivamente con i test di laboratorio in che misura i livelli dei parametri lipidici si riducano. questo passaggio non ha un puro intendimento “cosmetico” della gestione del paziente ma risponde alla profonda necessità di avvicinare il paziente iperlipidemico/dislipidemico al target più appropriato per il proprio personale livello di rischio [5-12, 14-16]. quindi, nel parlare di efficacia, non si può non far riferimento alle variazioni che i parametri lipidici subiscono con la lovastatina. tutti gli studi hanno evidenziato come la lovastatina riduca i livelli di colesterolemia totale, colesterolemia ldl e trigliceridemia e incrementi i livelli di hdl colesterolo, come più sopra abbiamo già visto. nello studio afcaps/texcaps [27], al dosaggio di 20-40 mg/die di farmaco si assisteva a riduzioni di quei parametri rispettivamente del 18%, del 25% e del 15%, mentre la hdl colesterolemia subiva un incremento del 6%. si segnala inoltre che, in quello stesso studio, si otteneva per pari dosaggi, a un anno di terapia, una riduzione media del 14,8% dei livelli di proteina c reattiva, mentre nel gruppo non trattato ciò non avveniva e la p era altamente significativa (p < 0,001). questi parametri, analizzati nel gruppo femminile, hanno portato a dati decisamente suggestivi. infatti, si è assistito a una riduzione della colesterolemia totale del 16,8%, clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 69 g. imperiale, c. marengo della colesterolemia ldl del 24,8% della trigliceridemia del 11,1% e un incremento hdl colesterolemia pari al 8,7%. tali dati risultano particolarmente importanti, soprattutto in un periodo in cui sono aumentate le nostre conoscenze circa la cardiopatia ischemica nel sesso femminile ed è aumentata la consapevolezza della prevenzione nelle donne. dati ottenuti nei vari studi riassumono che lovastatina riduce per i vari dosaggi mediamente la colesterolemia ldl secondo i seguenti rapporti: 10 mg, 20-25%; 20 mg, 26-30%; 40 mg, 31-35%; 80 mg, 36-40% [53-59]. …ma quanto mi costi in un mondo a risorse sanitarie limitate, particolare interesse suscitano i lavori che sottolineano l’impatto economico dell’insorgenza della patologia e delle sue conseguenze non solo in termini di mortalità ma anche di disabilità residua. a questo scopo sono stati sviluppati modelli di analisi economica che valutano sia la prevalenza che l’incidenza degli eventi, nonché la qualità della vita (qol, quality of life) e la qualità della vita per anno di vita guadagnato (qaly ). alcuni di questi studi hanno evidenziato che, se il parametro è posto sul costo qaly e questo viene livellato a meno di 50.000 dollari come tetto che la società è disposta a pagare per il beneficio sanitario, il trattamento con statine risulta essere conveniente in rapporto all’aumento del livello di rischio. in questi studi è emerso che il costo terapia/anno era di 1.955 dollari per simvastatina, 1.778 dollari per pravastatina, 1.401 dollari per atorvastatina, 1.326 dollari per rosuvastatina, 1.242 dollari per fluvastatina e 1.208 dollari per lovastatina [72-75]. in una pubblicazione ufficiale dell’autorità regolatoria farmaceutica del nostro paese, l’agenzia italiana del farmaco (aifa) [76], veniva sottolineato che facendo riferimento solo alle tre statine di cui si ha il maggior numero di dati disponibili sia in prevenzione primaria che secondaria (lovastatina, pravastatina e simvastatina; molecole peraltro esplicitamente citate per la prevenzione anche nella revisione delle note aifa del 2005 [77,78]), risultava che un mese di trattamento con lovastatina 2040 mg/die costava 25,5-51 euro, a fronte di un costo di simvastatina 20-40 mg/die di 39-55 euro e con pravastatina 40 mg/die di 73,5 euro. con l’uscita, nel 2007, dei generici di simvastatina e della confezione da 30 compresse di lovastatina 20 e 40 mg, questi benefici in termini farmacoeconomici sono ancora migliori. questi elementi possono concorrere, ovviamente modulando il giudizio sulla base della clinica e del singolo caso in esame, alla scelta del farmaco, soprattutto per quei soggetti che presentano una soglia di rischio per cui la statina è prescrivibile ma non rimborsabile dal sistema sanitario nazionale (soggetti con rischio < 20% e principio attivo dose/die riduzione % c-ldl costo giornaliero al ssn (euro) simvastatina* 20 mg 38,3% pre-generico: 1,16 post-generico: 0,65 40 mg 43,3% pre-generico: 1,64 post-generico: 0,92 lovastatina* 20 mg 29% confezione da 20 cpr: 0,80 confezione da 30 cpr: 0,57 40 mg 37% confezione da 20 cpr: 0,78 confezione da 30 cpr: 0,57 fluvastatina 40 mg 27% 0,86 80 mg 33% 1,06 pravastatina* 20 mg 26,1% pre-generico: 1,19 post-generico: 0,66 40 mg 32,3% pre-generico: 2,32 post-generico: 1,28 atorvastatina* 10 mg 39,8% 0,98 20 mg 42,5% 1,54 40 mg 48,5% 1,54 rosuvastatina# 5 mg 38% 0,88 10 mg 44,8% 1,01 tabella ii range di riduzione del livello di c-ldl e relativo costo/ giornaliero di terapia con le diverse statine disponibili in italia (gennaio 2008). modificata da [79] * molecole utilizzabili fino a un dosaggio di 80 mg/die; per ogni raddoppio della dose è stimata una ulteriore diminuzione del livello c-ldl del 6% # molecola utilizzabile fino al dosaggio di 40 mg/die; per ogni raddoppio della dose è stimata una ulteriore diminuzione del livello c-ldl del 6% clinical management issues 2008; 2(2) ©seed tutti i diritti riservati 70 lovastatina: una nuova “vecchia” molecola per il trattamento dell’ipercolesterolemia/dislipidemia non dislipidemici familiari), come prescritto dall’attuale normativa vigente (tabella ii) [77,78]. ovviamente le considerazioni finanziare devono tener conto delle scelte di politica sanitaria attuate per il contenimento dei costi quali, ad esempio, quelle conseguenti alla ridefinizione dei prezzi in rapporto all’ingresso sul mercato dei prodotti generici. conclusioni la lovastatina, una “vecchia” nuova molecola nel panorama degli inibitori della hmgcoa-reduttasi, ha una storia farmacologica che la pone a pieno diritto fra quelle sostanze che hanno rappresentato una svolta nel trattamento dell’ipercolesterolemia e delle dislipidemie. i suoi effetti, ai fini della riduzione del rischio cardiovascolare, sono stati esplorati sia nella prevenzione primaria sia nella prevenzione secondaria e anche nell’ambito della patologia cerebrovascolare. all’insieme dei dati clinici bisogna aggiungere anche quelle considerazioni farmacoeconomiche che rendono la lovastatina una molecola di grande interesse per il trattamento dei pazienti dislipidemici a rischio di eventi cardio-cerebrovascolari. punti chiave la lovastatina, un inibitore della hmgcoa-reduttasi, è entrata nell ’armamentario terapeutico italiano nel 2005, ma rappresenta la molecola capostipite della classe delle statine. il suo uso clinico risale al 1987 quando ne fu autorizzato l’impiego negli stati uniti d’america. come tutte le statine, trova il suo razionale di impiego nelle condizioni di iperlipoproteinemia tipo iia e iib secondo frederickson. lovastatina presenta inoltre indicazione nella riduzione del rischio cardiovascolare sia in prevenzione primaria che secondaria i dati di studi clinici sia in prevenzione primaria che in prevenzione secondaria hanno evidenziato come la lovastatina riduca mediamente il rischio cardiovascolare relativo del 37% circa; inoltre, i dati risultano di particolare suggestione anche nel campo della patologia cerebrovascolare al pari delle altre statine, anche di più recente disponibilità gli effetti sui parametri lipidici, in rapporto ai dosaggi, risultano di particolare e apprezzabile interesse mostrando riduzioni significative della colesterolemia totale, della colesterolemia ldl, della trigliceridemia e dei livelli di apolipoproteinemia b, nonché un moderato incremento della colesterolemia hdl i dati di efficacia si associano a dati importanti di sicurezza e tollerabilità sia in rapporto ai dosaggi, compresi gli alti dosaggi, sia in rapporto al lungo periodo elementi farmacoeconomici sottolineano i vantaggi economici di lovastatina per il medico, per l ’asl e per il paziente      bibliografia 1. yusuf s, reddy s, ounpuu s, anand s. global burden of cardiovascular diseases: part i: general considerations, the epidemiologic transition, risk factors, and impact of urbanization. circulation 2001; 104: 2746-53 2. who 2002. the world health report. geneva: who, 2003. disponibile su: http://www. who.int/whr/2002 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the dna damage response, and constitutive activation of key antiapoptotic pathways including phosphatidylinositol 3-kinase (pi3k)/akt and nuclear factor-kb. this has promoted the identification of new targeted treatments and new agents that have shown promising efficacy for future mcl therapies. the phosphatidylinositol 3-kinase (pi3k) mammalian target of rapamicin (mtor) pathway mediates proliferation, survival, and drug resistance in lymphoma cells. nvp-bez235 (bez235) is a new, orally bioavailable inhibitor of pi3k and mtor and a representative of a new class of anti-tumour agents. in this study, we analysed the in vitro inhibitory effects of nvp-bez235 on mantle lymphoma cell lines (granta-519 and jeko-1) and its effects in combination with enzastaurin, everolimus, and perifosine. our data suggest that in mantle lymphoma cell lines, bez235 in combination with enzastaurin elicits its antitumour effect better than combined with perifosine and everolimus. our data reveal that the drug combination targets phosphorylation of pi3k/akt/mtor pathways and induces both intrinsic and extrinsic apoptosis pathways. furthermore, inhibition of bcl-2 anti-apoptosis family members may, in part, explain the efficacy of signalling blockade in lymphoma cells and suggests an additional therapeutic targeting strategy. therefore, these preclinical data support the potential use of bez235 in patients with mantle lymphoma, and in particular provide rationale for combination with enzastaurin. keywords: lymphoma; pi3k signalling pathway; innovative therapy sinergia di nvp-bez235 ed enzastaurin nel linfoma mantellare cmi 2014; 8(1): 11-18 clinical management corresponding author dott.ssa monica civallero monica.civallero@unimore.it disclosure the authors declare that there are no conflicts of interest of any kind and that they have not received any payment for the preparation of the manuscript key points unmet need. mantle cell lymphomas generally have a poor prognosis, and pi3k inhibitors appear poorly cytotoxic drugs studied. nvp-bez235 (a pi3k/akt pathway inhibitor) combined with enzastaurin, everolimus, and perifosine and tested in vitro in two mantle cell lines innovative aspects. research has focused on a drug to be combined with nvp-bez235 in order to strengthen its cytotoxic activity introduction in recent years, advances in cancer have produced information critical to our understanding of cell growth, proliferation, and cell death in malignant cells. the intracellular machinery and signalling cascades that are active in lymphomas have been dissected and reveal multiple potential targets for new agents [1]. mantle cell lymphoma (mcl) is a distinct subtype of b-cell lymphoma which is believed to originate from follicle mantle b cells [2-4]. mcl is genetically characterised by the t(11;14)(q13;q32) translocation which results in deregulated aberrant expression of cyclin d1 [5-7]. mcl is generally incurable and patients have a poor prognosis with a median survival of 3 to 5 years [8-10]. recent gene profiling studies suggest that in mcl many individual genes involved in signalling pathways may be either overexpressed or underexpressed [11]. monoclonal antibodies (mabs) targeting surface proteins and tumour cell survival pathways have become widely adopted in the treatment of patients with lymphoma. these include improvement of patients’ outcomes when combined with chemotherapy and limited toxicity profiles, making mabs ideal alternative options for heavily pretreated patients with relapsed/refractory disease [12,13]. monotherapy with the proteasome inhibitor, bortezomib, has shown efficacy in mcl, and combination therapy with conventional chemotherapy regimens appears promising. bortezomib triggers oxidative stress that converges on the upregulation of the pro-apoptotic protein noxa to induce cell death. inhibition of the proteasoma impacts many other pathways and this may be particularly important when considering combination therapies [14,15]. the family of lipid kinases termed “phosphoinositide 3-kinases” (pi3ks) has been found to have key regulatory roles in many cellular processes, including cell survival, proliferation and differentiation [16-18]. the pi3ks are grouped into three classes, i, ii, and iii, on the basis of their structural characteristics and substrate specificity [19,20]. of these, the most commonly studied are the class i enzymes, which are activated directly by cell surface receptors. class i pi3ks are further divided into class ia enzymes that are activated by receptor tyrosine kinases (rtks), g-protein-coupled receptors (gpcrs) and oncoproteins, and class ib enzymes that are regulated exclusively by gpcrs. to date, only class ia enzymes have been clearly implicated in human cancers [20]. figure 1. metabolic pathway affected by bez235 action mtor = mammalian target of rapamicin; pi3k = phosphoinositide 3-kinase; rtk = receptor tyrosine kinase the molecular events associated with activation of pi3k/akt pathways in mcl present an important challenge for the development of a targeted therapy based on signalling pathway alterations [21]. the pi3kdelta selective inhibitor idelalisib, formerly called “cal-101”, has been shown to exert potent antitumour effects across a range of b-cell malignancies [22]. demonstration of durable complete and partial responses to monotherapy with the mtor inhibitors (everolimus, temsirolimus, and ridaforolimus) in phase i/ii monotherapy trials supports further study of this class of compounds in phase iii trials [23,24]. despite all efforts to the contrary, current therapies are not curative and progressive disease remains the leading cause of cancer-related mortality [25]. nvp-bez235 is a synthetic small molecular mass compound belonging to the class of imidazoquinolines, that potently and reversibly inhibits pi3k catalytic activity by competing at its atp-binding site [26-30] (figure 1). ex vivo pharmacokinetic/pharmacodynamic analysis of tumour tissue showed a time-dependent correlation between compound concentration and pi3k/akt pathway inhibition [31]. the efficacy of the dual nvp-bez235 in targeting akt and mtor pathways has been recently proven in waldenström macroglobulinaemia cells and in low grade lymphoma cell lines [32,33]. all available pi3k inhibitors represent an optimal tool to block cancer cell proliferation, but they appear poorly cytotoxic. on these bases, recent studies have shown that the combination of pi3k inhibitors with other cytotoxic agents can increase to a great extent the cytotoxic response of different tumours [34]. four different classes of pi3k pathway inhibitors are interesting: dual pi3k-mtor inhibitors, pi3k inhibitors (that do not inhibit mtor), akt inhibitors, and mtor catalytic site inhibitors (table i). for several years my research group studies the effects of some innovative drugs inhibitors of signalling pathways on lymphoma cell lines. in particular, we analysed the inhibitory effects of nvp-bez235 on mantle cell lines and its effects in combination with enzastaurin, everolimus, and perifosine. enzastaurin, an oral serine/treonine kinase inhibitor which suppressed signalling through the pi3k/akt pathway, in relapsed and refractory mcl resulted in modest clinical activity [43]. perifosine targets the pleckstrin homology domain of akt, thereby preventing its translocation to the plasma membrane. it thus inhibits akt without affecting the activity of pi3k [44]. target drug pharmaceutical company clinical trial, phase reference pi3k/mtor sf-1126 semafore pharm. i 35 nvp-bez235 novartis i/ii clinicaltrial.gov nvp-bgt226 novartis i/ii clinicaltrial.gov xl765 exelixis i 36 pi3k px-866 oncothyreon i 37 xl147 exelixis i 38 nvp-bkm120 novartis i/ii 39 gdc-0941 genentech/piramed i 40 idelalisib calistoga pharm. ii 41 akt mk-2206 merck i 42 enzastaurin lilly i/ii/iii clinicaltrial.gov perifosine æterna zentaris i/ii clinicaltrial.gov mtor rapamycin and analogues pfizer i/ii/iii clinicaltrial.gov table i. selection of pi3k pathway inhibitors in vitro study we hypothesised that, on the basis of mechanisms of action of the nvp-bez235 and of enzastaurin, everolimus, and perifosine, the agents would be more effective in combination compared with every single agent alone. we demonstrated a synergistic activity of nvp-bez235 with enzastaurin, everolimus, and perifosine. in particular, the synergism of nvp-bez235 with enzastaurin appeared more effective than other combinations in targeting some signalling pathways. results using mtt assay were expressed as fraction of cells killed by the individual drug or the combination in the drug-treated versus untreated cells. the interaction between drugs was analysed by isobologram analysis using the stacorp8.2 software program based upon the chou-talalay method to determine if the combination were additive or synergistic [45]. we found that enzastaurin, everolimus, and perifosine enhanced the cytotoxicity triggered by bez235; a clear synergistic interaction (ci<1) appeared after 48 hours using low concentrations of the all compounds (table ii). granta-519 jeko-1 nvp-bez235 (nm) e (µm) ci nvp-bez235 (nm) e (µm) ci 5 2.5 0.402 5 2.5 0.53 30 10 0.292 30 10 0.278 55 25 0.101 55 25 0.084 nvp-bez235 (nm) ev (nm) ci nvp-bez235 (nm) ev (nm) ci 5 1 0.76 5 1 0.389 30 4 0.691 30 4 0.587 55 10 0.262 55 10 0.096 nvp-bez235 (nm) p (µm) ci nvp-bez235 (nm) p (µm) ci 5 2.5 0.548 5 2.5 0.542 30 10 0.269 30 10 0.258 55 25 0.041 55 25 0.056 table ii. analysis of drug combination effects. granta-519 and jeko-1 were treated with nvp-bez235 combined with enzastaurin (e), everolimus (ev), and perifosine (p). ci indicates the combination index; ci < 0.9 indicated synergism. we found that enzastaurin, everolimus, and perifosine enhanced the cytotoxicity triggered by nvp-bez235; a clear synergistic interaction (ci < 1) appeared after 48 hours using low concentrations of all compounds we examined the functional effects of bez235 alone and in combination on apoptosis in lymphoma cells. we demonstrated that bez235 (20 nm) alone after 24 hours induces an increase of 8-10% of apoptotic cells versus untreated, instead bez235 (20 nm) in combination with enzastaurin (5 mm) after 24 hours induces a 25% increase. we next defined mechanisms whereby bez235 alone and in combination induces apoptosis in lymphoid cells. in particular, bez235 combined with enzastaurin induces both intrinsic and extrinsic apoptosis pathways with caspase 3, caspase 9, caspase 8 cleavage. we also showed that the combination of bez235 and enzastaurin decreases viability and induces apoptosis in lymphoma cell lines and peripheral blood mononuclear cells (pbmcs) from lymphoma patients. the combination has no effect on normal pbmcs and suppresses cell proliferation of lymphoma cell lines when co-cultured with bone marrow stromal cells in a system that mimics the bone marrow microenvironment. bez235, enzastaurin, everolimus, and perifosine are inhibitors of intracellular pathways, though we investigated effects of bez235 alone and in combinations with the other compounds in targeting p-akt, p-mtor, p-gsk3beta, p-p70, p-p90, p-mapk, p-4ebp1 and cyclin d1 pathways by western blot. in vitro tests: an overview isobologram analysis analysis on a plot containing isoboles, i.e. lines joining points of equal activity of drugs. it is generally used to predict the effect of a combination of drugs, thus establishing if it is going to be additive, synergistic, or antagonistic. western blot test aimed at the identification of a specific protein: firstly, it is separated through electrophoresis, then transferred on a membrane, and finally identified by the use of antibodies directed against its epitopes. figure 2. western blot of cellular extracts from granta-519 cells, treated with nvp-bez235 (b; 5 nm) alone and in combination with enzastaurin (e; 2.5 µm), everolimus (ev; 1 nm) and perifosine (p; 2.5 µm) for 48 hours. nvp-bez235 combined with enzastaurin reduces expression of bcl-2 protein in addition, we demonstrated that bez235 plus enzastaurin resulted in increased expression of pro-apoptotic bim, and in decreased expression of anti-apoptotic bcl-2, which could not be abrogated by bez235 alone (figure 2). in conclusion, our data suggest that in b cell lymphoma cell lines, bez235 in combination with enzastaurin elicits its antitumour effect better that combined with perifosine and everolimus. our data reveal that the drug combination targets phosphorylation of pi3k/akt/mtor pathways and induces both intrinsic and extrinsic apoptosis pathways. furthermore, inhibition of bcl-2 anti-apoptosis family members may, in part, explain the efficacy of signalling blockade in lymphoma cells and suggests an additional therapeutic targeting strategy. discussion improvement of our ability to control malignant lymphoma depends not only on the identification of crucial signalling pathways activated in tumour cells, but also on the definition of how the different kinases work and interact with each other to convey signals promoting cell growth and survival. abnormal activation of the pi3k/akt/mtor pathway has been validated as an important step towards the initiation and maintenance of human tumours by preclinical studies [46-48]. the newly developed series of atp-competitive pi3k/mtor inhibitors fit these criteria and in particular nvp-bez235 has recently entered clinical trials. nvp-bez235 induced significant p-akt inhibition resulting from the dual targeting of mtorc1 and mtorc2 [49]. because nvp-bez235 inhibits the pi3k/akt pathway at multiple levels, it may overcome the compensatory drug resistance mechanism that have developed with other selective inhibitors against individual targets of this pathways. nvp-bez235 is a first-generation pi3k inhibitor with sufficient drug-like properties to promote it as a candidate for clinical use in the treatment of cancer. indeed, nvp-bez235 is being investigated in 22 phase i/ii clinical trials in advanced solid tumour patients as a single agent as well as in combination with other agents [50]. however in the last clinical reports it is becoming evident that pi3k inhibitors as single agent entities might not hold up to their initial promise [51]. thus, it will be important to focus on robust translational research programs the best to identify key combination partners for pi3k inhibitors. in the first part of our study we analysed the effect of nvp-bez235 alone on mantle cell lymphoma. nvp-bez235 induced significant increase of apoptosis, both via intrinsic and extrinsic pathways. we found that nvp-bez235 inhibited mantle cells growth by induction of g1 arrest. nvp-bez235 exerted its antitumour activity even when mantle cells were in contact with bone marrow microenvironment. inhibition of oncogenic signalling with targeted small molecule inhibitors is powerful therapeutic approach to treat molecularly-driven tumours. such inhibitors can be efficacious as single agents, but improved anti-tumour activity can often be achieved by combining with other cancer therapeutics. in the second part of our study, we analysed the inhibitory effects of nvp-bez235 on mantle cell lines, and then we evaluated its effects after combination with enzastaurin, everolimus, and perifosine. enzastaurin (ly317615) is a drug used to inhibit pkcβ in clinical and preclinical studies. enzastaurin was found to be fairly specific for pkcβ by competing with atp at the enzyme’s nucleotide triphosphate binding site, thereby blocking its activation [52]. preclinical studies have shown that enzastaurin induces apoptosis and suppresses proliferation in many cancer cell lines in the micromolar range, comparable to the concentration range that can be achieved in the plasma of clinical trial subjects [53]. everolimus, a derivate of rapamycin, functions along with its intracellular receptor fkbp12 as highly selective allosteric inhibitor of mtorc1. everolimus inhibits proliferation in a wide variety of tumour cell lines both in vitro and in vivo and has received fda-approval for the treatment of a subset of cancer types [54,55]. perifosine is a synthetic alkylphospholipid that binds plasma membranes and inhibits akt activation without any direct effect on related kinases such as pi3k or pdk1. hideshima et al. have recently reported that perifosine is able to completely inhibit the constitutive phosphorylation of akt in multiple myeloma (mm) cells in vitro [56]. at concentrations in which peripheral blood mononuclear cells from normal volunteers are unaffected, perifosine kills plasma cells from myeloma patients. further studies have demonstrated that perifosine induces typical apoptotic biochemical changes in myeloma cell lines in vitro. perifosine is also able to block the proliferative response typically observed in myeloma cells after adherence to stroma in vitro and reduce tumour growth [57]. on the basis of this data, we hypothesised that the three compounds would be more effective in combination compared with every agent alone. using the calcusyn® software, we have shown a synergistic activity when nvp-bez235 was combined with all these drugs. we would underline that the combination of nvp-bez235 plus enzastaurin decreases bcl-2 expression, while these compounds utilised as single agents did not have any effect. the above results encourage clinical development of nvp-bez235 in combination and the possible inclusion of patients with mantle lymphoma in phase i/ii studies. it will be interesting to see if this synergy can be translated into clinical practice and if the interaction of allosteric and atp-competitive inhibitors is a phenomenon which can be applied more broadly to other targeted therapies. we cannot say that concentrations used in the experiments are clinically relevant or achievable, because a cell culture does not reproduce the complex metabolic system of a living organism. we hope to be able to continue our study in mice, so to assess the doses of the drugs are effective against lymphomas. based on the identification of several new therapeutic agents affecting different regulatory pathways in lymphomas, we think that the new challenge is to identify rational pharmacological combinations to enhance the potency of single agents and improve patients outcome. with the plethora of signal pathways and the host of pharmaceutical agents becoming available in the near future, it is important to demonstrate the preclinical rationale to conduct the phase i studies. in addition, the observation of single-agent anti-tumour activity in humans with relapsed disease and an understanding of the toxicity profile are critical to designing studies in combination with standard agents or where the agent is used as consolidation or maintenance. it is truly an exciting time for both investigators and patients. the ability to offer hope to a relapsed b-cell lymphoma patient makes the current practice of haematology/oncology stimulating and rewarding. references 1. katso r, okkerhaug k, ahmadi k, et al. cellular function of pi3k: implications for development, homeostasis and cancer. annu rev cell dev biol 2001; 17: 615-75; http://dx.doi.org/10.1146/annurev.cellbio.17.1.615 2. pileri sa, falini b. mantle cell lymphoma. haematologica 2009; 94: 1488-92; http://dx.doi.org/10.3324/haematol.2009.013359 3. lenz g, staudt lm. aggressive lymphoma. new engl j med 2010; 362: 1417-29; http://dx.doi.org/10.1056/nejmra0807082 4. nogai h, dörken b, lenz g. pathogenesis of non-hodgkin’s lymphoma. j clin oncol 2011; 29: 1803-11; http://dx.doi.org/10.1200/jco.2010.33.3252 5. tchakarska g, le lan-leguen a, roth l, et al. the targeting of the sole cyclin d1 is not adequate for mantle cell lymphoma and myeloma therapies. haematologica 2009; 94: 1781-2; http://dx.doi.org/10.3324/haematol.2009.011460 6. kimura y, sato k, arakawa f, et al. mantle cell lymphoma shows three morphological evolutions of 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composizione biochimica del polisaccaride capsulare, i sierogruppi a, b, c, w-135 e y sono clinicamente rilevanti e responsabili del 90% dei casi di meningite e setticemia. in europa, l’incidenza di imd si attesta tra 0,2 e 14 casi/100.000 e, specialmente nei paesi che hanno introdotto il vaccino coniugato contro il meningococco c, il principale agente eziologico risulta attualmente il sierogruppo b [1]. introduzione la malattia meningococcica invasiva (imd) continua a essere un importante problema di salute nel mondo, essendo associata a elevata mortalità e morbilità. neisseria meningitidis è un diplococco gram negativo, aerobio, patogeno umano obbligato. è il principale agente eziologico di meningite e sepsi nei paesi industrializzati, in cui la malattia meningococcica invasiva risulta per lo più endemica, con tassi di incidenza di 0,2-5/100.000 abitanti [1,2]. sebbene relativamente rara, i tassi di mortalità di imd si attestano intorno al 10%, e sono più elevati in età adolescenziale [3,4]; le sequele permanenti (complicanze neurologiche, sordità, paralisi, convulsioni e ritardo mentale) si verificano nel 10-20% dei casi [5,6]. colpisce individui di ogni età, ma l’incidenza è più elevata in bambini di età inferiore a 5 anni, in particolar modo nel primo anno di vita (tra 3 e 6 mesi di età, in seguito alla graduale riduzione dei titoli anticorpacorresponding author prof. gianni bona corso mazzini 18 28100 novara tel.: 0321/3733350 gianni.bona@maggioreosp. novara.it gestione clinica abstract neisseria meningitidis is a leading cause of bacterial sepsis and meningitis worldwide. although polysaccharide and glycoconjugate vaccines have been developed for serogroups a, c, y and w-135, currently there are no broadly effective vaccines available for the prevention of meningococcal b disease. a general overview of the burden of the disease and the strains prevalence in the world with the focus in particular on the italian situation is provided in this article, together with the vaccinations developed and under evaluation. keywords: meningococcal disease; neisseria meningitidis; meningococcal vaccines; meningococcal conjugate vaccines meningococcal vaccine evolution cmi 2012; 6(2): 59-66 1 clinica pediatrica, dipartimento di scienze mediche, università degli studi del piemonte orientale “a. avogadro”, novara gianni bona 1, carla guidi 1 evoluzione della vaccinazione antimeningococco 60 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) evoluzione della vaccinazione antimeningococco il sierogruppo b è la causa più importante di meningite endemica nei paesi industrializzati, rappresentando il 23% dei casi in nord america e fino all’80% in alcuni paesi europei; il sierogruppo c causa la maggior parte dei restanti casi in europa. il sierogruppo b causa anche epidemie gravi e persistenti, come quelle verificatesi nei paesi dell’america latina (cuba, colombia, brasile e cile) o in norvegia. il sierogruppo b predomina anche in australia (in seguito alla vaccinazione contro il sierogruppo c) e in nuova zelanda. sebbene i sierogruppi b e c siano i principali responsabili di malattia meningococcica nei paesi industrializzati, negli stati uniti, dove l’incidenza è di 0,3-4 casi/100.000, si è assistito, a partire dai primi anni ’90, a un aumento dei casi sostenuti dal sierogruppo y, che attualmente risulta il sierogruppo più frequente, rappresentando circa il 35% dei casi (23% sierogruppo b, 31% c e 11% w-135) [1]. l’incidenza di imd nei paesi in via di sviluppo risulta più elevata di quella dei paesi industrializzati, con tassi di incidenza di 10-25 casi/100.000 abitanti; tassi più elevati si osservano nella “cintura della meningite” dell’af rica sub-sahariana (dal senegal all’etiopia), dove la malattia meningococcica si verifica in cicli annuali stagionali (durante la stagione secca) e periodicamente in epidemie. durante le epidemie, il tasso di incidenza di imd raggiunge 1.000 casi/100.000 abitanti. il sierogruppo a rappresenta la causa principale di malattia meningococcica endemica ed epidemica in africa. recentemente si è assistito all’emergenza del sierogruppo w-135, che si è reso responsabile di un’epidemia in arabia saudita nel 2000-2001 durante un pellegrinaggio a la mecca, con successiva diffusione ad altri paesi (europa, asia e nord america) durante il ritorno dei pellegrini ai paesi di origine [8]. il sierogruppo x determina principalmente malattia invasiva nell’africa sub-sahariana, raramente in altre parti del mondo [7]. epidemiologia dell’infezione meningococcica in italia per quanto riguarda la distribuzione dei sierogruppi di n. meningitidis, in base ai dati raccolti dall’istituto superiore di sanità dal 1994 al 2010, in italia, dove l’incidenza di malattia meningococcica è pari a 0,37/100.000 abitanti, i principali sierogruppi sono b e c (figura 1). attualmente il ceppo b è responsabile di circa il 60% delle meningiti meningococciche [9]. in italia, dopo l’introduzione del vaccino anti-meningococco c coniugato (2005) e il suo utilizzo via via più diffuso, i casi di meningite da sierogruppo c si sono ridotti drasticamente. figura 1. casi di malattia meningococcica in italia nel periodo 2001-2010. modificata da [9] 61 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) g. bona, c. guidi i vaccini di tipo polisaccaridico sono prodotti utilizzando, come antigeni, polisaccaridi capsulari purificati da specifici sierogruppi di n. meningitidis capaci di stimolare la produzione di anticorpi sierici che svolgono un ruolo importante nella batteriolisi complemento-mediata e nella fagocitosi [12]. i primi vaccini polisaccaridici utilizzati con successo contro la malattia meningococcica furono sviluppati per i sierogruppi a e c circa 30 anni fa negli stati uniti e, in seguito, ampiamente sperimentati in europa, america latina e africa. il vaccino si è dimostrato sicuro ed efficace nel prevenire le epidemie da sierogruppo c nei militari degli stati uniti e nelle campagne di massa per il controllo delle epidemie da sierogruppo a in africa [13]. in aggiunta a tale vaccino successivamente è stato sviluppato un vaccino tetravalente che comprende anche gli antigeni da sierogruppi w-135 e y [14]. questi vaccini sono sicuri ed efficaci ma hanno una serie di limitazioni significative legate alla ridotta o assente immunogenicità nei bambini, alla mancata induzione di memoria immunologica, all’attività di durata limitata e alla iporesponsività a dosi ripetute. i vaccini polisaccaridici sono scarsamente immunogenici nei bambini e soprattutto nei lattanti [15], fascia di età nella quale l’incidenza di malattia meningococcica è notoriamente più elevata. inoltre, anche se capaci di generare una risposta immunitaria di tipo anticorpale, tale risposta è t-indipendente, ovvero non induce una memoria immunologica [13]. l’iporesponsività con l’esposizione ripetuta si osserva soprattutto nei bambini di età < 2 anni. dal 2007, nel nostro paese, la tipizzazione permette di verificare anche la presenza dei sierogruppi “non b-non c”, i quali, analogamente ad altri paesi europei, mostrano una tendenza all’aumento. nel 2009, di tutti i casi tipizzati (159), il 58% era causato dal sierogruppo b, il 29% dal sierogruppo c e il 13% da altri sierogruppi (a, w e y ). nel 2011 il numero di casi da meningite c è risultato inferiore rispetto a tutte le altre categorie (b, “altro” e non tipizzati), con molta probabilità grazie al successo dell’implementazione delle campagne di immunizzazione contro il sierogruppo c. nel 2011 i casi sostenuti dai sierogruppi a, w e y (“altro”) hanno per la prima volta superato i casi da sierogruppo c (dati parziali simi aggiornati al 24/02/2012 [9]): la stragrande maggioranza di questi erano sierogruppi w-135 e y. la figura 2 mostra i casi di malattia meningococcica per età in italia. in effetti, come riportato anche dal centro europeo di prevenzione delle malattie (ecdc), l’incidenza di malattia meningococcica varia a seconda dell’età [10]. a livello europeo, i bambini al di sotto dell’anno di vita rappresentano la popolazione a più alto rischio di malattia meningococcica, con un’incidenza pari a 16,98/100.000, seguita dai bambini di 1-4 anni (7,07/100.000). il secondo picco si verifica negli adolescenti e giovani adulti, in particolare tra 15 e 19 anni (2,29/100.000). vaccini antimeningococco attualmente sono in commercio vaccini coniugati monovalenti per il meningococco a e c e il vaccino tetravalente coniugato a, c, y e w-135. questi vaccini hanno determinato una riduzione dell’incidenza di malattia invasiva meningococcica nei paesi in cui il vaccino anti-meningococco c è stato introdotto nei programmi di vaccinazione universale. nonostante i significativi progressi ottenuti nello sviluppo di vaccini contro n. meningitidis, non è ancora in commercio un vaccino che copra i sierotipi a, c, w-135 e y in tutti i gruppi di età (lattanti e bambini < 2 anni di età), e non vi è nessun vaccino efficace contro una vasta gamma di ceppi appartenenti al sierogruppo b [11]. allo stato attuale sono disponibili due tipologie di vaccini per i sierogruppi a, c, w-135 e y, rappresentate dai vaccini di tipo polisaccaridico e di tipo coniugato. figura 2. casi di malattia meningococcica (numero assoluto) in italia suddivisi per età (dati simi aggiornati al 24/02/2012 [9]) 62 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) evoluzione della vaccinazione antimeningococco diversi studi hanno dimostrato che i vaccini polisaccaridici hanno un impatto limitato o assente sulla trasmissione dell’agente patogeno a livello del cavo nasofaringeo, di conseguenza non sembrano contribuire allo sviluppo di una immunità di gregge (herd immunity) [16]. per ovviare a tali limiti, recentemente sono stati sviluppati vaccini costituiti da unità polisaccaridiche coniugate a una proteina carrier (tossoide tetanico, tossoide difterico, materiale cross-reattivo difterico (crm197)) [17]. il primo vaccino meningococcico coniugato, sviluppato nel 1980, conteneva oligosaccaridi capsulari meningococcici a e c coniugati a crm197 [18]. la maggior parte dei vaccini meningococcici coniugati autorizzati utilizza solo alcuni tipi di vettori proteici, principalmente tossoide tetanico (tt) e antigeni difterici (dt e crm197). la coniugazione di polisaccaridi a tali proteine è responsabile del cambiamento della risposta antipolisaccaridica verso un pattern di risposta t-dipendente. infatti, in fase di riconoscimento del polisaccaride, i linfociti b processano la proteina carrier e presentano i peptidi ottenuti alle cellule t cd4+. la presentazione del complesso antigenico induce, a differenza dei vaccini polisaccaridici, la produzione di elevati livelli anticorpali, un’elevata avidità anticorpale e aumenta l’attività battericida sierica. inoltre è responsabile della formazione di popolazioni stabili di linfociti b tipo memory, fornendo una risposta anamnestica (effetto booster), in caso di ri-esposizione [17,18]. i vaccini coniugati limitano la trasmissione dell’agente patogeno a livello del cavo nasofaringeo: di conseguenza potrebbero contribuire allo sviluppo di una immunità di gregge. infine, la somministrazione di dosi ripetute non induce iporesponsività immunitaria [16]. nel 1999 il vaccino coniugato contro il sierogruppo c fu introdotto nel regno unito in una campagna vaccinale nazionale che includeva le vaccinazioni di routine e una campagna di catch-up per i soggetti di età 1-17 anni. l’efficacia del vaccino nel primo anno dopo la vaccinazione si dimostrò compresa tra l’88% e il 98% nei vari gruppi di età [19]. inoltre l’incidenza di malattia meningococcica da sierogruppo c si ridusse del 67% in soggetti non vaccinati (1-17 anni) e del 35% in soggetti di età > 25 anni, con riduzione del 66% dei soggetti portatori di meningococco c nel nasofaringe, dimostrando effetti benefici addizionali del vaccino, quali lo sviluppo dell’immunità di gregge e la riduzione dei portatori sani e/o della colonizzazione nasofaringea da parte del meningococco c [20,21]. il primo vaccino meningococcico tetravalente (a, c, w-135 e y ) costituito da polisaccaridi coniugati a una proteina carrier (tossoide difterico) è stato autorizzato negli stati uniti nel 2005 in soggetti di 11-55 anni e in canada (soggetti 2-55 anni) [22]. più recentemente, un vaccino tetravalente coniugato con un mutante non tossico della proteina difterica (menacwy-crm197 (menveo®)) è stato autorizzato in europa, negli usa, nel medio oriente e in america latina. in europa tale vaccino è stato autorizzato nel 2010 per soggetti adolescenti (età > 11 anni) e adulti a rischio. recentemente in america la food and drug administration ha autorizzato l’impiego di tale vaccino con schedula a due dosi in soggetti di età compresa tra 9 e 23 mesi, fascia di età nella quale si verificano elevati tassi di malattia meningococcica [23]. numerosi studi sono stati condotti o sono in corso per verificare la sicurezza e l’immunogenicità di menacwy-crm197 in diverse fasce di età. in particolare, uno studio multicentrico randomizzato [24] è stato condotto nel regno unito e in canada su lattanti per valutare la tollerabilità e l’immunogenicità del vaccino meningococcico sperimentale menacwy-crm197 somministrato con diverse schedule (2, 3 e 4 mesi; 2, 4 e 6 mesi; 2 e 4 mesi) in concomitanza con le immunizzazioni di routine. un gruppo addizionale di soggetti riceveva il vaccino coniugato antimeningococco c (menc) a 2 e 4 mesi come controllo. in più, nel corso dello studio, a 12 mesi di età alcuni soggetti ricevevano una dose di richiamo del vaccino sperimentale, altri una dose ridotta di vaccino tetravalente polisaccaridico (menps; menomune® – utilizzato per valutare l’induzione della memoria immunologica), ad altri ancora non veniva somministrato nessun vaccino. più del 92% dei soggetti che avevano ricevuto menacwy-crm197 a 2, 3 e 4 mesi mostrava un titolo di attività battericida sierica ≥ 1:4 per tutti e quattro i sierogruppi. con la schedula 2, 4 e 6 mesi, si ottenevano risultati simili per i sierogruppi c, w-135 e y, mentre la proporzione di soggetti con titolo di attività battericida ≥ 1:4 per il sierogruppo a era leggermente inferiore (81%). 63 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) g. bona, c. guidi dopo immunizzazione a 2 e 4 mesi, almeno l’84% dei soggetti aveva raggiunto titoli anticorpali protettivi per i sierogruppi c, w-135 e y, e il 60-66% per il sierogruppo a. per tutte le schedule si verificava un decremento del titolo medio geometrico dell’attività battericida sierica dal 12° mese; ma in seguito a una dose di richiamo a 12 mesi, si raggiungevano livelli anticorpali protettivi in almeno il 95% di lattanti contro 3 dei 4 sierogruppi e nell’84% contro il sierogruppo a, mostrando, pertanto, la presenza di memoria immunologica. nei lattanti le reazioni locali in sede di iniezione erano risultate sovrapponibili tra i soggetti che avevano ricevuto il ciclo primario di menacwy-crm197 o menc (dolore post-immunizzazione di grado 3 nel 2% e nel 4% rispettivamente). una temperatura ≥ 38°c era stata osservata nel 2% dei soggetti che avevano ricevuto menacwycrm197 e nel 4% di quelli che avevano ricevuto menc. in un recente studio effettuato su adolescenti, la somministrazione del vaccino tetravalente menacwy-crm197, da solo o in concomitanza con il vaccino anti-difterite-tetano-pertosse acellulare, ha dimostrato una buona risposta immunologica verso tutti i sierotipi contenuti nel vaccino, senza interferenze con la risposta immunitaria verso il vaccino dtpa. il vaccino è risultato ben tollerato e immunogeno in adolescenti e giovani adulti, fornendo una protezione nei confronti dei quattro sierogruppi di n. meningitidis contenuti [25]. in uno studio di fase ii, condotto negli stati uniti, 616 bambini sani (di età compresa tra 2 e 10 anni) sono stati randomizzati 1:1 a ricevere una dose del vaccino sperimentale menacwy-crm197 o menomune®, un vaccino meningococcico polisaccaridico tetravalente. l’immunogenicità dei due vaccini è stata valutata tramite l’attività sierica battericida mediata dal complemento (hsba) 1 e 12 mesi dopo la vaccinazione. a un mese dalla vaccinazione un numero significativamente superiore di soggetti appartenenti al gruppo menacwy-crm197 raggiungeva un titolo hsba ≥ 1:4. dodici mesi dopo la vaccinazione, un numero significativo di soggetti nel gruppo di menacwy-crm197 rispetto al gruppo menomune® mostrava un titolo hsba ≥ 1:4 per i sierogruppi a (28% vs 19%), c (68% vs 53%), w (93% vs 49%) e y (86% vs 38%). questi dati dimostrano che menacwy induce una immunogenicità statisticamente superiore al vaccino polisaccaridico nei bambini di età compresa tra 2 e 10 anni. inoltre menacwy-crm197 ha determinato risposte immunitarie robuste e persistenti per almeno un anno dopo la vaccinazione [26]. uno studio condotto su adolescenti (1118 anni) ha comparato la sicurezza e l’immunogenicità di menacwy-crm197 rispetto a menacwy-d (menactra®). sono state valutate le reazioni locali e sistemiche fino a 7 giorni dopo la vaccinazione e tutti gli eventi avversi significativi. l’immunogenicità è stata valutata un mese dopo la vaccinazione, utilizzando l’attività sierica battericida mediata dal complemento (hsba). la superiorità statistica è stata valutata sulle differenze tra i gruppi nella proporzione di soggetti con un titolo hsba ≥ 1:8 e del titolo medio geometrico (gmt). un mese dopo la vaccinazione una percentuale maggiore di soggetti vaccinati con menacwy-crm raggiungeva un titolo hsba ≥ 1:8 per i sierogruppi a, w-135, e y, mentre era sovrapponibile per c, rispetto ai soggetti vaccinati con menactra®. per tutti i sierogruppi, un mese dopo la vaccinazione i valori di gmts erano più elevati dopo vaccinazione con men acwy-crm. entrambi i vaccini sono risultati ben tollerati per le reazioni sistemiche. nessun evento avverso grave è stato valutato come correlato al vaccino nel corso dello studio [27]. maggiori difficoltà sono state incontrate nello sviluppo del vaccino contro il meningococco b, del quale si sta completando la fase di sperimentazione e si è in attesa della registrazione europea. il polisaccaride del sierogruppo b risulta scarsamente immunogeno e, rispetto ai polisaccaridi degli altri sierogruppi, presenta analogie strutturali con glicoproteine dell’organismo umano (acido sialico dei tessuti fetali). a causa della suddetta cross-reattività, la presenza di tale polisaccaride nel vaccino potrebbe causare tolleranza immunologica oppure una reazione autoimmune. la ricerca si è quindi focalizzata su approcci alternativi, basati sull’uso di antigeni proteici. l’utilizzo di proteine della membrana esterna (omv ) è risultato efficace per il controllo di epidemie causate da ceppi omologhi a quello del vaccino (come l’epidemia clonale in nuova zelanda del 2000), ma, a causa della variabilità antigenica, l’attività battericida indotta dal vaccino è ceppo-specifica (diretta solo contro il ceppo omologo, da cui l’antigene stesso deriva). l’utilizzo dei vaccini omv è pertanto efficace per il 64 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) evoluzione della vaccinazione antimeningococco controllo di epidemie causate da un ceppo predominante [28,29]. un nuovo approccio, definito reverse vaccinology [30], partendo dal sequenziamento del genoma del meningococco b, ha permesso di identificare e includere nel vaccino quattro nuove proteine comuni alla maggior parte dei ceppi di meningococco b. il vaccino contiene quindi quattro componenti coinvolte nella sopravvivenza del batterio: y fhbp (factor h binding protein): legando il fattore h, protegge il batterio dall’azione del complemento; y nhba (neisserial heparin binding antigen): legando l’eparina alla superficie cellulare, protegge dall’azione del complemento; y nada (neisserial adhesin a), importante per l’adesione alle cellule e la successiva invasione del meningococco; y omv che contengono antigeni multipli tra cui pora, proteina canale della membrana esterna. il 23 dicembre 2010 la documentazione relativa all’autorizzazione all’immissione in commercio del vaccino anti-meningococcico b è stata sottoposta alla valutazione dell’ema (european medicines agency). in un recente studio di gossger e collaboratori [31] sono stati arruolati in europa (uk, italia, germania, repubblica ceca, belgio, spagna) 1885 lattanti di 2 mesi di età per valutare l’immunogenicità e la tollerabilità del vaccino multicomponente contro menb (4cmenb) somministrato con o senza le vaccinazioni di routine (esavalente + pneumococco eptavalente) con diverse schedule: concomitante (4cmenb + routine a 2, 4 e 6 mesi), accelerata (4cmenb + routine a 2, 3 e 4 mesi) o intercalata (4cmenb a 2, 4 e 6 mesi + routine a 3, 5 e 7 mesi). il gruppo di controllo riceveva le vaccinazioni di routine a 2, 3 e 4 mesi. sono stati scelti tre ceppi di meningococco b (ceppi 44/76-sl, 5/99 e nz98/254) per valutare il contributo individuale di tre componenti del vaccino (fhbp, nada, omv ). per il quarto componente, nhba, è stato valutato il titolo anticorpale elisa. in seguito a tre dosi di 4cmenb, il 99% dei soggetti raggiungeva un titolo protettivo verso i ceppi 44/76-sl e 5/99; il 79-86% dei soggetti mostrava titolo protettivo verso il ceppo nz98/254. inoltre le risposte ai vaccini di routine somministrate con 4cmenb sono risultate non inferiori ai vaccini di routine da soli per tutti gli antigeni tranne che per la pertactina e per il sierotipo pneumococcico 6b. per quanto riguarda le reazioni locali, meno dell’1% dei soggetti vaccinati ha mostrato eritema, gonfiore o indurimento in sede vaccinale di grado severo; tuttavia il 12-16% ha presentato dolore di grado severo dopo somministrazione di 4cmenb (schedula concomitante o accelerata) verso l’1-3% dei soggetti che avevano ricevuto le vaccinazioni di routine. la febbre (≥ 38°c) è stata descritta nell’80% dopo schedula concomitante, nel 76% dopo schedula accelerata, nel 71% dopo schedula intercalata rispetto al 51% nel gruppo di controllo. il vaccino 4cmenb è risultato meno reattogenico se somministrato separatamente ai vaccini di routine. non è stato dimostrato un aumentato rischio di convulsioni febbrili. nel primo anno di vita il vaccino coniugato contro il menb si è dimostrato immunogenico e ben tollerato e ha mostrato una minima interferenza con le vaccinazioni di routine. in uno studio randomizzato effettuato su 1.631 adolescenti cileni per valutare l’immunogenicità e la tollerabilità di 4cmenb, la somministrazione di due dosi di vaccino (a distanza di 6 mesi) determinava titoli protettivi nel 99-100% dei soggetti [32]. i tassi di reazioni locali e sistemiche erano simili tra dosi successive di 4cmenb, più elevati rispetto al gruppo placebo. le reazioni più frequenti risultavano il dolore in sede di iniezione (nell’86% dopo 4cmenb vs 60% dopo placebo), il malessere (51% vs 30%) e la febbre (4% vs 2%). attualmente un altro vaccino antimeningococcico b, contenente due varianti (rlp2086) di fhbp (factor h binding protein) è in fase avanzata di sperimentazione: tale vaccino bivalente si è dimostrato immunogeno e ben tollerato in un’elevata proporzione di adulti e adolescenti [33,34]. vaccinazione antimeningococcica: situazione attuale e prospettive future il vaccino meningococcico coniugato contro il meningococco c si è dimostrato sicuro, immunogenico ed efficace in tutte le età. nei paesi che hanno condotto una vaccinazione di massa contro il sierogruppo c con differenti schedule, si è assistito a una rilevante riduzione della malattia invasiva sostenuta da questo sierogruppo [35]. la dinamicità dell’epidemiologia di neisseria meningitidis dimostrata dal recente 65 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) g. bona, c. guidi aumento dei casi di malattia meningococcica sostenuti da sierogruppi non b-non c comporta la necessità di avere un vaccino multivalente in grado di proteggere individui di ogni età contro più sierogruppi possibili. la variabilità di neisseria meningitidis dipende principalmente da diversi fattori, quali i viaggi internazionali, che facilitano la circolazione di ceppi patogeni di meningococco all’interno di uno stesso paese o tra paesi diversi [36] e il fenomeno del capsular switching, meccanismo utilizzato dal batterio per modificare il proprio fenotipo, passando da un sierogruppo a un altro. esempio di capsular switching è il sierogruppo w-135, emerso in seguito al pellegrinaggio a la mecca del 2000, che risulta geneticamente correlato a un ceppo c particolarmente virulento [37]. negli anni futuri, la diffusione e l’inclusione del vaccino tetravalente coniugato acwy in nuove strategie vaccinali, quali la vaccinazione universale dei lattanti, la vaccinazione booster di vari gruppi di età e la vaccinazione dei viaggiatori, potrebbero fornire una ampia protezione anche nei confronti dei sierogruppi emergenti di meningococco con significativi benefici di sanità pubblica. per quanto riguarda il sierogruppo b, prevalente nella maggior parte dei paesi che hanno introdotto il vaccino anti-meningococcico c, il vaccino, non ancora disponibile, rappresenterà una pietra miliare nella lotta contro il meningococco. negli anni a venire si potranno valutare l’efficacia del vaccino anti-meningococcico b sulla diversa distribuzione geografica dei ceppi patogeni, sul tasso di portatori sani di n. meningitidis e l’eventuale comparsa di mutanti. l’imminente avvio della sperimentazione di fase 3 di un nuovo vaccino pentavalente che comprende i 5 ceppi responsabili di oltre il 90% delle forme invasive sostenute da n. meningitidis potrà contribuire a vincere la battaglia contro la malattia meningococcica, rendendo al tempo stesso più semplici i problemi inerenti all’organizzazione della relativa campagna vaccinale. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. bibliografia 1. harrison lh, trotter cl, ramsay me. global epidemiology of meningococcal disease. vaccine 2009; 27: b51-b63 2. martinez ai, dominguez a, oviedo m, et al. changes in the evolution of meningococcal disease, 2001-2008, catalonia (spain). vaccine 2009; 27: 3496-8 3. lala hm, mills gd, barratt k, et al. meningococcal disease deaths and the frequency of antibiotic administration delays. j infect 2007; 54: 551-7 4. cohn ac, macneil jr, harrison lh, et al. changes in neisseria meningitidis disease epidemiology in the united states, 1998-2007: implications for prevention of meningococcal disease. clin infect dis 2010; 50: 184-91 5. kirsch ea, barton rp, kitchen l, et al. pathophysiology, treatment and outcome of meningococcemia: a review and recent experience. pediatr infect dis 1996; 15: 967-79 6. rosestein ne, perkins ba, stephens ds, et al. meningococcal disease. n engl j med 2001; 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gianni bona 1, carla guidi 1 riabilitazione cognitiva in pazienti neuro-oncologici: tre casi clinici chiara zucchella 1, andrea pace 2, francesco pierelli 1,3, michelangelo bartolo 1 clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 171 giovanni garini 1, francesco iannuzzella 1 glomerulonefrite crioglobulinemica: una manifestazione extraepatica dell’infezione cronica da virus dell’epatite c (hcv) caso clinico una donna di 66 anni, casalinga, pensionata, viene ricoverata nel nostro dipartimento per artralgie, porpora ed edema agli arti inferiori. la paziente non ha mai fumato e non beve alcolici. ha avuto due gravidanze a termine, di cui la seconda, all’età di 36 anni, complicata da emorragia post partum, che ha richiesto trasfusione di emoderivati. ha sempre goduto buona salute e svolto regolare attività lavorativa. nell’ultimo mese ha notato un incremento ponderale di circa 4 kg associato alla comparsa di porpora ed edema alle gambe. abstract a 66-year-old woman was admitted to our department for evaluation of a nephrotic syndrome. physical examination revealed ankle edema, palpable purpura of the legs and hypertension. there was no hepatosplenomegaly. the main laboratory findings were haemoglobin 11.4 g/dl, serum creatinine 1.4 mg/dl, proteinuria 3.5 g/day with reduced serum albumin (3.1 g/dl), rheumatoid factor (rf) activity 125 iu/ml, and serum c4 levels 2.3 mg/dl. cryocrit was 24%, with type ii (igg-igm-κ) cryoglobulins. the patient was positive for hcv antibodies and serum hcv rna; the genotype was 1b. a percutaneous renal biopsy showed a cryoglobulinemic membranoproliferative glomerulonephritis with moderate histologic severity. the primary goal in patients with mild-tomoderate disease is viral clearance, so combination therapy with interferon-α (3 mu thrice weekly) and ribavirin (800 mg/day) was started. twelve weeks later, serum hcv rna had disappeared, a result that was confirmed at the end of antiviral therapy in week 48, and during the post-treatment follow-up. proteinuria returned to the normal range, cryoglobulins decreased to undetectable levels and serum c4 levels normalized. rf activity decreased, but remained above normal. the message provided by this illustrative case is that antiviral therapy represents the first-line treatment for hcv-related cryoglobulinemic patients with mild-to-moderate kidney involvement, because it provides the best chance of viral clearance and subsequent disease improvement. keywords: hepatitis c virus (hcv ) infection, cr yoglobulinemia, glomerulonephritis, interferon-α, ribavirin cryoglobulinemic glomerulonephritis: an extrahepatic manifestation of hepatitis c virus (hcv ) infection. cmi 2007; 1(4): 171-179 1 dipartimento di clinica medica, nefrologia e scienze della prevenzione, azienda ospedalierouniversitaria, parma caso clinico corresponding author prof. giovanni garini dipartimento di clinica medica, nefrologia e scienze della prevenzione, azienda ospedaliero-universitaria via a. gramsci, 14 43100 parma tel. 0521-702347 giovanni.garini@unipr.it perché descriviamo questo caso? perché la crioglobulinemia mista, una malattia multisistemica frequentemente associata all ’infezione cronica da hcv, pone complessi problemi di diagnosi e terapia, che possono mettere in difficoltà sia lo specialista che il medico internista e di medicina generale l’esame clinico evidenzia buone condizioni di nutrizione, normale obiettività toracica, polmonare e cardiovascolare. al controllo sfigmomanometrico, compiuto su clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 172 glomerulonefrite crioglobulinemica: una manifestazione extraepatica dell’infezione cronica da virus dell’epatite c entrambe le braccia, si rileva ipertensione arteriosa (170/100 mmhg). l’addome è trattabile, indolente alla palpazione superficiale e profonda, senza segni di versamento libero peritoneale. il margine inferiore epatico deborda dall’arcata costale di circa 2 cm. si palpa il polo inferiore della milza. sono rilevabili lesioni purpuriche, simmetriche, agli arti inferiori. in sede perimalleolare e pre-tibiale è apprezzabile bilateralmente edema con fovea. gli esami di laboratorio mostrano anemia normocromica, normocitica (hb = 11,4 g/dl; mcv = 89 fl), normale conta leucocitaria e piastrinica, alterazione della funzione renale (creatininemia = 1,4 mg/dl), ipoalbuminemia (3,1 g/dl), iperlipidemia combinata (colesterolo totale = 320 mg/dl, trigliceridi = 220 mg/dl), lieve aumento dell’alanina aminotransferasi (55 u/l, vn = 0-35 u/l). il tracciato elettroforetico sieroproteico mostra aumento delle alfa-2 globuline (14%) e un picco monoclonale in regione gamma. positivo l’ra test (125 iu/ml, vn = 0-15 iu/ml). negativa la ricerca di altre componenti sierologiche autoanticorpali. ridotte le concentrazioni delle frazioni c4 (2,3 mg/dl, vn = 20-50 mg/dl) e c3 (46,8 mg/dl, vn = 55-120) del complemento sierico. l’esame urine mostra la presenza di proteinuria (4+), ematuria (1+) e cilindruria. nel range nefrosico il dosaggio delle proteine urinarie (3,5 g/24 ore). domande da porre alla paziente ha presentato manifestazioni purpuriche in passato? ha assunto farmaci responsabili di fenomeni di ipersensibilità? ha avuto episodi di sanguinamento? la paziente riferisce di soffrire saltuariamente di dolori articolari migranti da almeno 5 anni e di non aver notato la comparsa di porpora in precedenza. negli ultimi mesi non ha assunto alcun tipo di farmaco e al di fuori dell’emorragia post partum non ha mai presentato episodi di sanguinamento. domande da porsi devo richiedere una ecografia addominale? è utile una biopsia renale percutanea? devo compiere indagini sierologiche per virus epatotropi?       viene richiesta un’ecografia addominale, che mostra fegato aumentato di volume con discreta impronta fibrotica e reni di normali dimensioni con segni di nefropatia medica (corticale iperecogena). gli esami sierologici mostrano positività degli anticorpi antihcv (determinati con metodica immunoenzimatica e immunoblotting) e di hcv rna (determinato con tecniche di amplificazione genica). il genotipo virale (determinato con tecniche di amplificazione genica, usando promotori specifici per la regione core del virus) è 1b. negativi i marcatori sierologici dell’epatite b. per le alterazioni urinarie (proteinuria nel range nefrosico, microematuria, cilindruria) la paziente viene sottoposta ad agobiopsia renale percutanea ecoassistita. al microscopio ottico si riscontra un quadro di glomerulonefrite membranoproliferativa (gnmp) di tipo i, caratterizzata da uniforme espansione del mesangio, modesta ipercellularità e lieve ispessimento delle pareti capillari (figura 1a). l’interstizio è sostanzialmente nella norma e i vasi non presentano segni di vasculite. l’indice di attività, determinato utilizzando il sistema elaborato per valutare l’attività istologica della nefrite lupica [1], risulta pari a 6/24 (24 è il più alto punteggio possibile), indicativo di attività istologica lieve-moderata. l’immunofluorescenza rivela depositi granulari di c3, igg e igm a distribuzione prevalentemente sottoendoteliale (figura 1b). viene prelevato un campione di sangue in siringa riscaldata a 37°c per la ricerca di crioglobuline, che dà esito positivo (criocrito = 24%). l’immunofissazione rivela la presenza di crioglobuline miste di tipo ii (igg, igm-κ). sulla base dei dati anamnestici, clinici, laboratoristici e strumentali viene posta diagnosi di gnmp crioglobulinemica hcvcorrelata con sindrome nefrosica e ipertensione arteriosa. si avvia terapia anti-hcv con interferone-alfa (3 mu sc tre volte alla settimana) in combinazione con ribavirina (800 mg/die). dopo tre mesi di trattamento la determinazione di hcv rna nel siero risulta negativa, l’edema e la porpora regrediscono, la creatininemia si normalizza (1,1 mg/dl), la proteinuria diminuisce (220 mg/24 ore), le crioglobuline nel siero diventano indosabili e i livelli sierici di c4 ritornano nei limiti di norma. l’ra test diminuisce, ma rimane al di sopra della norma. al termine della terapia, dopo 12 mesi, permane la risposta virologica e clinica. la terapia antivirale è stata ben tolleclinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 173 g. garini, f. iannuzzella rata, ma si è dovuta somministrare eritropoietina (10.000 ui/settimana) per mantenere nella norma i livelli di emoglobina. discussione le crioglobuline miste (cm) sono immunoglobuline che hanno la proprietà di precipitare in vitro alle basse temperature e di risospendersi a 37°c. sono costituite da una igm monoo policlonale con attività di fr (igm fr), che si lega alla porzione fc di una igg policlonale. le mc sono distinte in tipo ii se igm fr è monoclonale e in tipo iii se igm fr è policlonale [2]. epidemiologia le cm possono essere trovate in associazione con malattie infettive, autoimmuni o neoplastiche (cm secondarie) [3] oppure rappresentare un’entità distinta, non associata a fattori causali definiti. quest’ultima condizione, riscontrabile nel 35-50% delle cm, ha ricevuto in passato la denominazione di crioglobulinemia mista essenziale (cme). dopo la scoperta di hcv nel 1989 è apparso chiaro il ruolo eziologico del virus nella grande maggioranza (> 90%) dei casi di cme [4]. circa il 34-50% dei pazienti hcv-positivi presenta una cm, ma solo nel 5-15% dei soggetti crioglobulinemici compaiono manifestazioni cliniche ascrivibili a sindrome crioglobulinemica (sc) [3]. sc è una malattia multisistemica ad andamento cronico, il cui substrato patologico è rappresentato da una vasculite dei vasi di medio e piccolo calibro. eziopatogenesi la patogenesi delle cm hcv-correlate non è chiara, ma sembra coinvolgere complesse relazioni tra hcv e sistema immunitario. il peculiare tropismo del virus per i linfociti e gli organi linfoidi ha suggerito il possibile coinvolgimento di hcv nella genesi della linfoproliferazione che sottende allo sviluppo delle cm. l’interazione tra la proteina e2 del rivestimento esterno (envelope) del virus e le cellule b (la molecola cd81 espressa sulla membrana cellulare funziona come recettore o co-recettore del virus) potrebbe abbassare la soglia di attivazione di tali cellule e indurre una intensa linfoproliferazione con iniziale produzione di igm policlonali senza attività di fr [5]. questa verrebbe acquisita successivamente per effetto di mutazioni somatiche indotte dalla persistente stimolazione antigenica da parte di immunocomplessi igg-hcv. la proliferazione b cellulare, documentabile sia a livello epatico che midollare, ha carattere non neoplastico, ma in una minoranza di pazienti (< 10%) può evolvere, in presenza di particolari fattori genetici e/o ambientali, in franco linfoma [6]. clinica il quadro clinico delle cm, descritto per la prima volta da meltzer e franklin nel 1966 come sindrome caratterizzata da porpora, astenia e artralgie, non si limita a questa triade, ma assume connotati più vasti, potendo coinvolgere vari organi e apparati. figura 1 glomerulonefrite membranoproliferativa hcv-correlata. (a) lieve espansione del mesangio con proliferazione cellulare (più accentuata nel lato sinistro del glomerulo). le anse capillari sono irregolarmente ispessite (pas, 250x). (b) granuli fluorescenti di igg depositati lungo le pareti capillari (posizione sottoendoteliale) e nel mesangio (400x) a b clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 174 glomerulonefrite crioglobulinemica: una manifestazione extraepatica dell’infezione cronica da virus dell’epatite c porpora. circa il 90% dei pazienti con sc presenta all’esordio una porpora isolata. la porpora, intermittente, palpabile, non pruriginosa, ha carattere ortostatico, localizzandosi preferibilmente agli arti inferiori, dove possono comparire in un terzo dei pazienti ulcere cutanee a carattere ingravescente e di difficile guarigione. la biopsia della cute dimostra che la porpora è sostenuta da un processo di vasculite leucocitoclastica che coinvolge i capillari e le venule post-capillari del derma superficiale. l’immunofluorescenza diretta (ifd) rivela depositi vascolari di immunoglobuline (igg, igm) e/o complemento (c4). in circa il 20% dei pazienti è presente il fenomeno di raynaud, verosimilmente dovuto a disfunzione endoteliale connessa con la deposizione di crioglobuline nel microcircolo. artralgie. sono presenti in oltre il 70% dei casi. le artralgie, episodiche, fugaci, prive di ritmo notturno e rigidità mattutina, sono localizzate alle mani, ai gomiti e alle articolazioni “satelliti” della porpora, cioè alle ginocchia e alle caviglie. l’artrite non è erosiva e non porta a deformità articolari. nefropatia. il coinvolgimento renale si manifesta in un terzo dei pazienti con cm associata a infezione da hcv ed è quasi esclusivamente osservato nelle cm di tipo ii. l’interessamento renale è denunciato da alterazioni urinarie isolate (proteinuria subnefrosica, microematuria) con valori di creatininemia inizialmente normali o lievemente aumentati e in alcuni casi da sindrome nefritica (20-30%) o sindrome nefrosica (20%) con variabile progressione verso l’insufficienza renale cronica [7,9]. l’esito in uremia con necessità di trattamento dialitico è un’evenienza relativamente rara (circa 10% dei casi). l’ipertensione arteriosa, frequentemente grave e di difficile controllo, è documentata in oltre l’80% dei pazienti al momento della diagnosi di nefropatia. il coinvolgimento renale peggiora nettamente la prognosi dei pazienti con crioglobulinemia, soprattutto per l’elevata incidenza di infezioni e complicanze cardiovascolari [8]. istologicamente la nefropatia presenta gli aspetti della gnmp, caratterizzata da infiltrazione abbondante di monociti e da pareti capillari ispessite per la presenza di depositi sottoendoteliali [9]. possono inoltre comparire proliferazioni epitelio-capsulari extracapillari a semiluna e depositi endoluminali, impropriamente denominati “trombi”, che all’ifd risultano costituiti da complemento e immunoglobuline identiche a quelle delle crioglobuline circolanti. la glomerulonefrite crioglobulinemica è una patologia da immunocomplessi. il meccanismo patogenetico iniziale sarebbe costituito dalla deposizione nei capillari glomerulari e nel mesangio della componente monoclonale igm fr delle crioglobuline. non è tuttavia ancora accertato se igm fr si depositi nel glomerulo da solo, con successivo legame in situ dell’igg, o come immunocomplesso preformato igg-igm fr. manifestazioni neurologiche. quadri di polineuropatia sensitiva (disestesie urenti, dolori, sindrome delle gambe senza riposo) o di mononeuropatia multipla (deficit, spesso accompagnato da dolore, nel territorio di singoli nervi, in sequenza ravvicinata e a insorgenza acuta) sono presenti in circa il 60% dei pazienti. in alcuni casi la neuropatia può risultare particolarmente grave con marcata impotenza funzionale e possibile evoluzione in tetraparesi. nella metà dei casi l’esame obiettivo può risultare da solo sufficiente a individuare i soggetti affetti da neuropatia, mentre uno studio elettroneurofisiologico consente di individuare alterazioni della conduzione in circa l’80% dei pazienti. il danno è quasi sempre di tipo assonale. la patogenesi della neuropatia è su base ischemica, connessa con l’occlusione dei vasa nervorum da parte di precipitati crioglobulinemici oppure con la vasculite delle arteriole epinerviali e/o dei capillari endonerviali. altre manifestazioni cliniche. l’impegno polmonare è sovente asintomatico, ma in alcuni casi possono comparire dispnea da sforzo, tosse, emoftoe, sindrome interstiziale. sono anche descritti rari casi di alveolite emorragica. in oltre il 20% dei pazienti sono presenti dolori addominali riferibili a vasculite dei vasi mesenterici. sono talora riportati sindrome sicca, tumefazione bilaterale delle parotidi, disturbi neurologici da interessamento del sistema nervoso centrale (emiparesi transitorie, disartria, confusione mentale), manifestazioni cardiovascolari connesse con quadri di vasculite coronarica. diagnosi per un corretto inquadramento diagnostico della sc il gruppo italiano di studio delle crioglobulinemie (gisc) ha proposto alcuni criteri classificativi, distinti in tre classi, a loro volta suddivisi in maggiori e minori (tabella i) [10]: sierologici; patologici; clinici.    clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 175 g. garini, f. iannuzzella tabella i criteri proposti dal gruppo italiano di studio per le crioglobulinemie per la classificazione della sindrome crioglobulinemica [10] hcv+ o hbv+ = marcatori sierologici rispettivamente dell ’epatite virale c e b (anti-hcv + hcv rna; hbv-dna o hbsag) criteri maggiori minori sierologici crioglobuline miste bassi livelli di c4 fattore reumatoide + hcv+ hbv+ patologici vasculite leucocitoclastica infiltrati b clonali (epatici o midollari) clinici porpora epatite cronica glomerulonefrite membranoproliferativa neuropatia periferica ulcere cutanee in base a questi criteri si distinguono: sindrome crioglobulinemica “definita”: crioglobulinemia mista (+ basso c4) + porpora + vasculite leucocitoclastica crioglobulinemia mista (+ basso c4) + 2 criteri clinici minori + 2 criteri sierologici/patologici minori sindrome crioglobulinemica “incompleta” o “possibile”: crioglobulinemia mista o basso c4 + 1 criterio clinico minore + 1 criterio sierologico/patologico minore porpora e/o vasculite leucocitoclastica + 1 criterio clinico minore + 1 criterio sierologico/patologico minore 2 criteri clinici minori + 2 criteri sierologici/patologici minori sindrome crioglobulinemica “essenziale” o “secondaria”: assenza o presenza di affezioni definite (infettive, immunologiche, neoplastiche)       tabella ii indagini di laboratorio e diagnostica strumentale nella sindrome crioglobulinemica categoria esami indagini di laboratorio 1° livello ricerca, dosaggio, tipizzazione delle crioglobuline c3, c4, ra test, ves, pcr, fibrinogeno emocromo, protidogramma, funzione renale, funzione epatica    2° livello markers hbv/hcv, determinazione della carica virale, tipizzazione genomica ricerca autoanticorpi (ana, ena, ama, asma) tsh, ft4, anticorpi tiroidei    diagnostica strumentale 1° livello ecografia addominale rx-torace ecg    2° livello endoscopia digestiva biopsia epatica biopsia renale emg/eng biopsia nervo surale biopsia cutanea ecocardiogramma        sulla base di tale schema tassonomico è possibile porre diagnosi di sc definita o completa quando sono soddisfatti tutti i criteri maggiori oppure un criterio maggiore e 4 minori, di cui almeno due clinici. in ogni caso, un ruolo fondamentale per giungere alla diagnosi di sc compete alle indagini laboratoristiche e strumentali (tabella ii). le crioglobuline documentate nel siero e solitamente quantificate come criocrito vengono tipizzate mediante elettroforesi su acetato di cellulosa e immunofissazione (figura 2) [11]. le crioglobuline con attività di fr condizionano la positività dell’ra test e la riduzione della complementemia per attivazione della via classica con diminuzione soprattutto delle frazioni c1q, c2 e c4, mentre le concentrazioni di c3 risultano in genere poco ridotte o normali. al pari del criocrito anche la complementemia correla debolmente con le manifestazioni cliniche della malattia. l’ipocomplementemia differenzia la vasculite crioglobulinemica dalle vasculiti anca-associate, che sono normo o ipercomplementemiche. clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 176 glomerulonefrite crioglobulinemica: una manifestazione extraepatica dell’infezione cronica da virus dell’epatite c figura 2 crioglobulinemia mista di tipo ii (igg – igmκ). (a): crioprecipitato ottenuto dopo aver posto il siero in provetta a 4°c per 48 ore e dopo centrifugazione a 4°c a 1.700 rpm per 15 minuti. il criocrito, espresso come percentuale del crioprecipitato rispetto al siero, è approssimativamente 25%. (b): tipizzazione delle crioglobuline sieriche mediante elettroforesi (elp) e immunofissazione. il tracciato elp del crioprecipitato mostra in regione gamma sia una banda densa, riferibile a componente γ-globulinica monoclonale, che un’immagine strisciata, riferibile a componente γ-globulinica policlonale. tali aspetti indicano che la crioglobulina è di tipo ii. l’immunofissazione mostra che la crioglobulina è composta da una immunoglobulina monoclonale igm-κ (documentata da bande dense nelle corsie della igm e della catena leggera κ) e da una immunoglobulina policlonale igg (documentata da immagini strisciate nelle corsie della igg e delle catene leggere κ e λ) [11] elp g a m k l serum 4 terapia i pazienti con sc associata a infezione cronica da hcv possono essere trattati con terapia eziologica, patogenetica o sintomatica (tabella iii). la scelta del trattamento più appropriato è legata alla valutazione del grado di attività della malattia e all’estensione e gravità del coinvolgimento d’organo [12,13]. malattia lieve-moderata. per i pazienti con porpora, artralgie, neuropatia periferica sensitiva o glomerulonefrite con funzione renale stabile e basso indice di attività istologica all’esame nefrobioptico la terapia antivirale, proprio perché capace di sopprimere la viremia e di inibire il processo linfoproliferativo responsabile della sintesi crioglobulinemica e della patologia d’organo crio-indotta, costituisce il trattamento di scelta (in assenza di controindicazioni). lo schema terapeutico è quello attualmente raccomandato per l’epatite c [14]: interferone standard (interferone-alfa 3 mu tre volte alla settimana) o interferone pegilato (peginterferon alfa-2a 1,5 µg/kg/settimana) + ribavirina (800-1.200 mg/die) per 12 mesi (nei pazienti con genotipo 1) o per 6 mesi (nei pazienti con genotipo non-1). l’efficacia del trattamento antivirale in termini di risposta biochimica (ad es. effetto sui test di funzione epatica), immunologica (ad es. effetto sui valori di fr e criocrito) e clinica (ad es. effetto sulle manifestazioni cliniche della malattia) è strettamente correlata con la risposta virologica, cioè con la negativizzazione di hcv rna nel siero, che viene però ottenuta in non più del 50% dei pazienti trattati. nei pazienti in cui la terapia antivirale risulti controindicata, inefficace o non tollerata, può essere intrapreso un trattamento sintomatico, costituito da basse dosi di steroidi (ad es. metilprednisolone 0,1-0,3 mg/ kg/die) e/o da una dieta a ridotto contenuto antigenico [15]. questo particolare regime dietetico (che comprende l’impiego di riso, carne bianca, verdure, frutta, the, zucchero di canna e olio extravergine) sembra migliorare la clearance sierica degli immunocomplessi, ripristinando l’attività funzionale del sistema reticolo-endoteliale, sovraccaricato dalle crioglobuline circolanti. malattia grave. nei pazienti con glomerulonefrite attiva e rapido deterioramento funzionale, neuropatia periferica motoria, ulcere cutanee e grave coinvolgimento d’organo, l’evidenza clinica dimostra che la terapia antivirale, benché capace di sopprimere la viremia e la crioglobulinemia, non è in grado di controllare in modo efficace la flogosi immuno-mediata indotta dalla deposizione delle crioglobuline nel sistema vascolare. inoltre, il trattamento antivirale è spesso inefficace o non tollerato e in alcuni pazienti può anche peggiorare le manifestazioni crioglobulinemiche (quali ad es. la neuropatia periferica e le ulcere cutanee). in questi casi la terapia deve mirare in primis a controllare la flogosi vascolare con un trattamento immunosoppressivo di breve durata, in genere non superiore ai 2-4 mesi, costituito da corticosteroidi (boli endovenosi di metilprednisolone di 0,5-1,0 g/die per tre giorni, seguiti da 0,5-1,0 mg/kg/die di prednisone per os con successiva graduale riduzione del dosaggio) e agenti citotossici (solitamente la ciclofosfamide orale alla dose di 2 mg/kg/die). nei casi più gravi alla terapia immunosoppressiva può essere associata la plasmaferesi (scambi di 3 l di plasma 3-4 volte alla settimana per 2-3 settimane) per rimuovere crioglobuline, mediatori della flogosi e tossine. la terapia con steroidi e alchilanti può aumentare la replicazione virale e la viremia, ma non sono riportati casi di danno epatico acuto durante trattamenti clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 177 g. garini, f. iannuzzella immunosoppressivi di breve durata [9]. una volta controllata la fase acuta della malattia (flare), il trattamento immunosoppressivo viene rimpiazzato da quello antivirale, il trattamento eziologico della sindrome crioglobulinemica hcv-correlata. nei pazienti in cui la terapia antivirale è inefficace, controindicata o non tollerata, è stato recentemente proposto l’impiego dell’anticorpo monoclonale murino umanizzato diretto contro la molecola cd20, marcatore di superficie delle cellule b. l’anticorpo monoclonale anti-cd20 (rituximab) agisce depletando in maniera selettiva l’espansione clonale b cellulare responsabile della sintesi crioglobulinemica. nei pazienti hcv-positivi con sc il rituximab, pur determinando in qualche caso l’innalzamento della viremia e delle aminotransferasi, si è rivelato efficace sia sul piano clinico che biochimico [16,17]. studi controllati e randomizzati sono attualmente in corso per confermare gli iniziali promettenti risultati del rituximab nel trattamento della crioglobulinemia e, in particolare, della glomerulonefrite crioglobulinemica [18,19]. prognosi la prognosi dei pazienti con sc è di gran lunga migliorata in seguito all’introduzione di nuove e più appropriate strategie terapeutiche. nelle crioglobulinemie hcv-correlate la terapia antivirale può comportare in circa il 50% dei pazienti la remissione completa della sc. tuttavia, benché oltre il 70% dei pazienti con sc sia ancora in vita a 10 anni dalla comparsa dei primi sintomi, la sopravvivenza globale è significativamente più bassa che nella popolazione normale. le cause di morte in corso di crioglobulinemia sono mutate negli ultimi 20 anni. l’insufficienza renale secondaria a nefropatia crioglobulinemica rappresenta ancora una possibile causa di decesso, ma non è più la prima e neppure la più importante. le cause cardiovascolari, infettive ed epatiche sembrano assumere un ruolo quantitativamente maggiore sulla mortalità totale rispetto al passato. scarse sembrano invece le morti direttamente riferibili a processo vasculitico multisistemico. è inoltre tutto da valutare il significato in termini prognostici dello sviluppo di linfomi non-hodgkin e di epatocarcinoma, due possibili esiti di una infezione protratta da hcv. appaiono infine ancora in buona parte validi i fattori di rischio per un aumento di mortalità individuati in passato: età maggiore di 40 anni, presenza di porpora estesa, splenomegalia, ridotti livelli sierici di igg e c3, elevato criocrito, coinvolgimento renale [20]. conclusioni il caso riportato offre lo spunto per alcune considerazioni riguardanti sia le procedure diagnostiche che l’approccio terapeutico. la porpora, una delle manifestazioni cliniche della paziente, è stata associata alla cm dopo aver escluso altri meccanismi fisiopatologici, quali gli stati trombocitopenici connessi con alterzioni dell’emostasi, l’iperglobulinemia di waldenström, le reazioni di ipersensibilità a farmaci, le infezioni, le malattie autoimmuni e neoplastiche. la porpora crioglobulinemica ha molti aspetti in comune con la sindrome di henoch-schönlein, affezione che all’eruzione purpurica associa manifestazioni articolari, gastrointestinali e renali, ma che è piuttosto rara nell’adulto. l’analisi immunochimica del crioprecipitato, l’intensa positività del fattore reumatoide, l’ipocomplementemia e la positività dei marcatori sierologici dell’epatite c hanno tabella iii trattamento della sindrome crioglobulinemica hcv-correlata * non superiore a 2-4 mesi malattia lieve-moderata terapia antivirale: interferone standard (interferone-alfa 3 mu tre volte alla settimana) o interferone pegilato (peginterferon alfa-2a 1,5 µg/kg/settimana) + ribavirina (800-1.200 mg/die) per 12 mesi (genotipo 1) o 6 mesi (genotipo non-1) terapia sintomatica (metilprednisolone 0,1-0,3 mg/kg/die e/o dieta a ridotto contenuto antigenico) nei casi in cui la terapia antivirale sia risultata inefficace, non tollerata o controindicata   malattia grave terapia immunosoppressiva di breve durata* (boli endovenosi di metilprednisolone di 0,5-1,0 g/die per tre giorni, seguiti da 0,5-1,0 mg/kg/die di prednisone per os da ridurre gradualmente dopo le prime 2-4 settimane + ciclofosfamide 2 mg/kg/die per os oppure rituximab 375 mg/m2/settimana per 4 settimane) eventualmente associata a plasmaferesi (scambi di 3 l di plasma 3-4 volte alla settimana per 2-3 settimane) terapia antivirale (v. sopra), da iniziare una volta controllata la fase acuta della malattia rituximab (375 mg/m2/settimana per 4 settimane) nei pazienti in cui la terapia antivirale sia risultata inefficace, controindicata o non tollerata    clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 178 glomerulonefrite crioglobulinemica: una manifestazione extraepatica dell’infezione cronica da virus dell’epatite c indirizzato verso la porpora crioglobulinemica, così come anche gli aspetti istologici e immunoistochimici della biopsia renale, che ha documentato una gnmp con depositi sottoendoteliali di igg e igm (mentre nella sindrome di henoch-schönlein predominano i depositi mesangiali di iga). la cm di tipo ii comporta la presenza sul tracciato elettroforetico sieroproteico di una banda monoclonale in regione gamma, che pone problemi di diagnosi differenziale con le gammapatie monoclonali tipo gammapatia di significato non determinato (mgus) o mieloma multiplo (mm). ai fini diagnostici possono essere utilizzate la biopsia osteomidollare, che nella mgus e nel mm mostra un variabile grado di infiltrazione plasmacellulare, oppure, in presenza di nefropatia, la biopsia renale, che consente di differenziare la nefropatia mielomatosa (da cilindri tubulari ostruttivi, da deposizione di catene leggere o da amiloidosi) dalla glomerulonefrite crioglobulinemica. un po’ più complessa è la diagnosi differenziale con la macroglobulinemia di waldenström, essendo le cm di tipo ii assimilabili a “piccole” o “grandi” macroglobulinemie. tuttavia, la macroglobulinemia di waldenström, oltre a caratterizzarsi sul piano clinico per le linfoadenomegalie superficiali e/o l’epatosplenomegalia, è sempre hcv-negativa e generalmente associata a crioglobulinemia di tipo i. per il suo carattere proteiforme la patologia articolare dei pazienti con cm può talora porre problemi di diagnostica differenziale con reumatismi infiammatori (in particolare, con l’artrite reumatoide e la polimialgia reumatica), soprattutto in presenza di positività del fattore reumatoide e del prevalente coinvolgimento del sesso femminile nella 5a-6a decade di vita. sono comunque il riconoscimento dell’infezione da hcv e l’identificazione della crioglobulinemia con il tipico corteo di sintomi associati, quali la porpora, l’epatopatia, la nefropatia e la neuropatia periferica, a indirizzare verso la corretta diagnosi di sc. la terapia della glomerulonefrite crioglobulinemica hcv-correlata è complessa e non codificata. uno dei principali motivi di complessità è dato dal fatto che la glomerulonef rite non rappresenta in genere l’unico obiettivo della terapia, ma solo una fra le diverse manifestazioni della sc e non necessariamente la più grave. la terapia va adattata alle caratteristiche cliniche del paziente e alla gravità/attività della malattia, che debbono essere pertanto attentamente valutate prima di iniziare il trattamento. per tale valutazione è opportuno associare ai dati clinici e laboratoristici quelli istologici, che meglio correlano con la gravità della sottostante malattia. in questo modo sono generalmente individuati due gruppi di pazienti: quelli con glomerulonefrite lieve-moderata, per i quali è indicata la terapia antivirale, e quelli con glomerulonefrite “attiva”, che richiedono invece il trattamento immunosoppressivo. poiché i reperti istologici possono svolgere un ruolo importante nelle decisioni terapeutiche, le indicazioni all’accertamento nefrobioptico potrebbero essere estese non solo ai pazienti con sindrome nefritica o nefrosica, ma anche a quelli con segni minimi di nefropatia, che potrebbero rivelare lesioni glomerulari attive [9]. la decisione di trattare è tuttavia una questione complessa, che deve tener conto, oltre che dei reperti istologici, di numerose altre variabili, quali l’età dei pazienti, la durata e la gravità della malattia, lo stato clinico generale, la probabilità di risposta e le condizioni cliniche che possono diminuire l’aspettativa di vita o controindicare il trattamento. avvertenze pratiche effettuare test diagnostici per hcv in presenza di manifestazioni cliniche, la cui associazione con l ’infezione da hcv sia dimostrata o fortemente sospettata se è documentata una infezione da hcv, ricercare la presenza di manifestazioni extraepatiche con una accurata analisi dei dati anamnestici e clinici e appropriate indagini di laboratorio (ricerca di crioglobuline nel siero, ra test, complementemia totale e frazionata, creatininemia, esame urine completo) la presenza di artralgie e la positività dei test sierologici per il fattore reumatoide possono erroneamente indirizzare verso la diagnosi di artrite reumatoide. per un corretto inquadramento diagnostico dell ’artrite reumatoide e della sindrome crioglobulinemica utilizzare i criteri classificativi proposti rispettivamente dall ’american college of rheumatology [21] e dal gruppo italiano di studio delle crioglobulinemie valutare la gravità/attività della malattia crioglobulinemica prima di iniziare la terapia     clinical management issues 2007; 1(4) ©seed tutti i diritti riservati 179 g. garini, f. iannuzzella bibliografia 1. austin ha, muenz lr, joyce km, antonovych ta, kullick me, klippel jh et al. prognostic factors in lupus nephritis. contribution of renal histological data. am j med 1983; 75: 382-91 2. brouet j, clauvel jp, danon f, klein m, seligman m. biological and clinical significance of cryoglobulins. a report of 86 cases. am j med 1974; 57: 775-8 3. agnello v. mixed cryoglobulinemia and other extrahepatic manifestations of hepatitis c virus infection. in: liang tj, hoofnagle jh (a cura di). hepatitis c. san diego: academic press, 2000; pp. 295-313 4. dammacco f, sansonno d, cornacchiulo v, mennuni c, carbone r, lauletta g et al. hepatitis c virus infection and mixed cryoglobulinemia: a striking association. int j clin lab res 1993; 23: 45-9 5. curry mp, golden-mason l, doherty dg, deignan t, norris s, duffy m et al. expansion of innate cd5 pos b cells expressing high levels of cd81 in hepatitis c virus infected liver. j hepatol 2003; 38: 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center – istituto neurologico nazionale c. mondino, via mondino 2, pavia 27100, italy   trigeminal autonomic cephalalgias (tacs): still too much errors in diagnosis and therapy cmi 2014; 8(3): 63-66 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i3.939 editoriale corresponding author dott. michele viana michele.viana@ymail.com disclosure l’autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo introduzione le cefalalgie autonomico-trigeminali (trigeminal autonomic cephalalgias – tac) sono un gruppo di cefalee primarie, di cui il capostipite è la cefalea a grappolo, che includono anche l’emicrania parossistica, la sunct (short-lasting unilateral neuralgiform headache attacks with conjunctival injection and tearing) e l’emicrania continua. il gruppo delle tac rappresenta il gruppo 3 dell’ultima edizione (versione iii beta) della classificazione internazionale delle cefalee (international classification of headache disorders – ichd) [1]. rispetto ad altre cefalee primarie, le tac hanno caratteristiche molto nette e stereotipate che, poiché chiaramente descritte nei criteri diagnostici ichd, dovrebbero, almeno in linea di principio, essere facilmente riconoscibili. tutte hanno una localizzazione del dolore strettamente unilaterale, sono presenti sintomi autonomici locali (sal) associati omolateralmente e sono caratterizzate da una breve durata degli attacchi (eccetto per l’emicrania continua, che è persistente). peraltro l’emicrania parossistica e l’emicrania continua sono le uniche cefalee primarie indometacino-sensibili, cioè che rispondono in maniera radicale a indometacina (tanto che tale risposta viene inserita tra i criteri diagnostici). oltre a criteri classificativi ben definiti, per le tac sono disponibili linee guida terapeutiche nazionali e internazionali aggiornate. nonostante ciò, errori diagnostici e terapeutici relativi a queste forme di cefalee sono spesso riportati in letteratura. l’autore di questo articolo ha recentemente pubblicato una revisione sistematica della letteratura ove ha raccolto e analizzato articoli che raccoglievano questi errori, con il fine di comprendere le ragioni che li causavano, per poterli evitare e prevenire in futuro [2]. revisione sistematica della letteratura la strategia di ricerca attuata nella revisione sistematica ha individuato 22 studi che riportavano i dati relativi a errori in diagnosi, terapia e gestione di almeno una delle tac per un numero complessivo di 2.614 pazienti. i pazienti con cefalea a grappolo sono risultati essere di gran lunga il numero maggiore. questo dato è in linea con la maggior prevalenza di tale condizione rispetto alle altre tre. gli errori più frequentemente descritti nella gestione dei pazienti con tac erano: invio del paziente allo specialista sbagliato, ritardo diagnostico, diagnosi errata e uso di trattamenti senza un’adeguata indicazione. tra gli errori più importanti vi è quella che in inglese viene denominata misdiagnosis, ovvero la condizione per cui la patologia reale non solo non viene riconosciuta, ma viene scambiata per un’altra malattia. a questo errore, spesso, seguono interventi terapeutici inutili, oltre che in alcuni casi dannosi per il paziente. vediamo ora, per ogni tipo di tac le principali caratteristiche cliniche e le patologie che venivano erroneamente diagnosticate al loro posto. cefalea a grappolo (cg) la cg si caratterizza per attacchi di dolore grave, strettamente unilaterale, orbitario, sovraorbitario, temporale, o in varie combinazioni di tali sedi (con possibile irradiazione verso il volto), della durata di 15-180 minuti, che si manifestano con una frequenza variabile da una volta ogni due giorni a 8 volte al giorno. gli attacchi si associano a uno o più dei seguenti segni autonomici locali omolaterali al dolore: iniezione congiuntivale, lacrimazione, congestione nasale, rinorrea, sudorazione della fronte e del volto, miosi, ptosi, edema palpebrale. i pazienti, di solito maschi, durante gli attacchi non cercano il riposo ma sono irrequieti o agitati. gli attacchi insorgono tipicamente con una regolarità circadiana (ad orari stabiliti) e spesso in orari notturni. sebbene gli ultimi decenni abbiano visto un miglioramento del tempo impiegato per diagnosticare la cg dalla sua insorgenza [3], il ritardo diagnostico per questa condizione è ancora troppo protratto (più di 3 anni nel più recente studio [4]), così come il numero di medici consultato prima di arrivare alla diagnosi corretta (generalmente almeno 3 medici). è stato descritto un elevato numero di diagnosi sbagliate, molte delle quali hanno portato a trattamenti inutili, spesso invasivi e irreversibili. la cg è stata più spesso erroneamente diagnosticata come: emicrania, sinusite, problemi dentali o mandibolari e nevralgia del trigemino. l’errata diagnosi di emicrania è frequente in quanto gli attacchi emicranici sono spesso di intensità grave e si localizzano unilateralmente nei 2/3 dei pazienti. tra l’altro sino al 56% dei pazienti emicranici presenta almeno un sintomo autonomico locale durante l’attacco. allo stesso modo negli attacchi di cefalea a grappolo possono essere presenti sintomi tipicamente emicranici come nausea/vomito/fotoe fonofobia. a parte queste sovrapposizioni è importante ricordare che gli attacchi di cg sono assai brevi (durano circa 60 minuti e mai più di 3 ore, mentre un attacco emicranico dura da 4 ore a 3 giorni) e il paziente è estremamente agitato, con necessità di muoversi, mentre l’emicranico cerca di riposarsi ed evita qualsiasi attività fisica. nella storia dei pazienti cg è anche possibile trovare una precedente diagnosi di problemi dentali/mandibolari: infatti nel 37-50% di essi il dolore si irradia alla mandibola, alla mascella o alla guancia [4-6]. tuttavia, la presenza di attacchi unilaterali associati a rilevanti sintomi autonomici ipsilaterali che si risolvono spontaneamente entro 2-3 ore in assenza di terapia e che ricorrono con una periodicità “da orologio” sono forti indizi per cg. la diagnosi errata di sinusite è formulata tra il 21% [5] e il 23% [4] dei pazienti con cg. questi errori sono probabilmente dovuti alla localizzazione del dolore della cg (regione orbito-frontale e superiore del volto) e al fatto che il quadro comprenda tipicamente sintomi autonomici coinvolgenti il naso quali rinorrea e/o ostruzione nasale. è importante ricordare che nella sinusite la rinorrea è densa e purulenta e ad essa si accompagnano iposmia e febbre, mentre nella cg la rinorrea è acquosa e limpida. inoltre la sinusite dà sintomi continui mentre la cg si esprime in attacchi, e nell’intervallo tra essi compreso il paziente è completamente asintomatico. la diagnosi errata di nevralgia trigeminale (nt) è stata segnalata chiaramente da un solo studio (in cui il 16% dei pazienti affetti da cg aveva ricevuto precedentemente una diagnosi di nt) [4], ma si tratta di una situazione che ho riscontrato frequentemente nella pratica clinica, nonostante le due condizioni (cg e nt) siano molto diverse tra loro. un aspetto che sicuramente presentano in comune è il fatto che il dolore può interessare il volto. nella nt il dolore interessa infatti una delle 3 branche del trigemino, e nella cg, nonostante il dolore abbia una localizzazione periorbitaria/temporale, esso si può irradiare in tutte le zone del volto, ove talora viene percepito con maggior intensità. tuttavia esistono molte differenze tra la cg e la nt: la nt ha attacchi molto più brevi (pochi secondi), non ha sintomi associati e non presenta l’insorgenza notturna né la periodicità circadiana con cui occorrono gli attacchi di cg. per quanto riguarda i trattamenti, la cg è l’unica tac per la quale in letteratura vengono riportati errori terapeutici conseguenti non a una diagnosi sbagliata ma alla mancata applicazione delle linee guida (ad esempio prescrizione di oppiodi come farmaci sintomatici o farmaci preventivi antiemicranici). se si escludono questi casi, la maggior parte degli errori terapeutici deriva da diagnosi errate. già goadsby nel 2004 [3] segnalava che il 52% dei pazienti con cg che erano stati visti da dentisti o otorinolaringoiatri aveva subìto un intervento invasivo. purtroppo il dato è stato riconfermato recentemente da van alboom, che segnala che il 31% degli 85 pazienti con cg che afferivano al suo ambulatorio aveva subìto almeno un intervento invasivo prima di ricevere la diagnosi corretta (interventi dentali nel 21% dei casi e chirurgia dei seni nasali nel 21%) [4]. emicrania parossistica (ep) gli attacchi di ep hanno caratteristiche simili alla cefalea a grappolo per quel che riguarda il dolore e i sintomi associati, ma presentano una minore durata (2-30 minuti) e una maggiore frequenza delle crisi (> 5/die). questa cefalea è più frequente nel sesso femminile e presenta una risposta completa a indometacina, al punto che tale dato rientra tra i criteri necessari per porre la diagnosi. dalla nostra revisione della letteratura si è evidenziato che le ep sembrano essere più frequentemente diagnosticate in modo erroneo come patologie dentali [2]. la grave intensità del dolore e la sua possibile irradiazione/localizzazione a guancia, mandibola e mascella in alcuni attacchi di ep (che in 1/3 dei casi possono essere pulsanti in qualità) possono spiegare questa confusione con il dolore dentale. tuttavia, la breve durata degli attacchi e la presenza di sintomi autonomici dovrebbero portare il medico a porre una diagnosi corretta. la possibile localizzazione del dolore da ep nell’area temporale, mascellare e occasionalmente nelle regioni dell’orecchio, insieme a una possibile dolorabilità ipsilaterale dei muscoli masticatori, può portare alla diagnosi errata di dolore associato alla disfunzione temporo-mandibolare (dtm). l’ep può talora essere confusa con la cefalea cervicogenica (cce), un mal di testa secondario a patologie cervicali alte (superiori a c4) che è strettamente unilaterale e si associa a evidenze cliniche di coinvolgimento cervicale (provocazione del dolore dal movimento del collo o dalla pressione sul collo). gli elementi da considerare per distinguere ep da cce sono: sintomi autonomici associati (presenti nell’ep, assenti nella cce), intensità del dolore (grave nell’ep, moderato nella cce) e il suo pattern temporale (frequenti attacchi di breve durata nell’ep contro episodi di dolore di durata fluttuante-subcontinua nella cce). una risposta completa alla somministrazione di indometacina e/o una mancanza di efficacia nel blocco della radice del nervo interessato possono corroborare ulteriormente una diagnosi di ep. in questa patologia, come in quelle che seguiranno, gli errori terapeutici sono principalmente secondari a una diagnosi errata. citiamo solo alcune delle terapie prescritte ed eseguite in pazienti con diagnosi di ep: estrazioni dentarie multiple, blocchi del ganglio stellato, blocchi del simpatico cervicale, sezione di una radice sensitiva del trigemino, sezione del nervo infraorbitale, iniezione di anestetici nel ganglio sfenopalatino e gangliectomia, infiltrazione nel punto di arnold, etmoidosfenectomia [7,8]. sunct questa sindrome è caratterizzata da attacchi di dolore unilaterale, di durata nettamente inferiore a quanto osservato in qualsiasi altra tac (durata da 1 a 600 secondi). nella maggior parte dei casi si associano lacrimazione intensa e iperemia congiuntivale omolaterali. abbiamo identificato solo due casi pubblicati di sunct diagnosticate per altre condizioni; in entrambi i casi la nevralgia trigeminale (nt) era una delle condizioni erroneamente diagnosticate [2]. differenziare sunct da nt può essere impegnativo, perché le condizioni presentano una notevole sovrapposizione dei fenotipi clinici. i principali aspetti da prendere in considerazione sono: sintomi autonomici locali (prevalenti in sunct e rari nella nt), localizzazione del dolore (territorio trigeminale v1 in sunct e v2/3 nella nt) e periodi refrattari (assenti in sunct e presenti nella nt). la cefalea trafittiva primitiva (ctp) è una condizione idiopatica, comunemente vissuta anche da persone con altre cefalee primarie come emicrania (circa il 40%) e cefalea a grappolo (circa il 30%) e che può essere scambiata per una sunct. la ctp è caratterizzata da dolore “a fitte” della durata variabile da una frazione di secondo sino a tre secondi, unilaterale ma migrante, di intensità moderata-grave, non associata ad altri sintomi. la ctp può essere differenziata dalla sunct sulla base del sito di irradiazione del dolore (che spesso varia da un attacco all’altro), della mancanza di sintomi autonomici locali e della minore durata degli attacchi (normalmente meno 5 secondi contro una media di 49 secondi nella sunct). emicrania continua (ec) l’ec è una cefalea persistente strettamente unilaterale caratterizzata da un dolore di intensità medio-bassa al quale si alternano fasi di esacerbazione in cui si associano sintomi autonomici cranici locali omolaterali. come l’ep, essa trae beneficio dal trattamento con indometacina. come per le altre tac, a causa della sua localizzazione, può essere confusa con dolore dentale/temporo-mandibolare, sinusite e cefalea cervicogenica. sono inoltre riportate diverse diagnosi errate di emicrania o cefalea a grappolo [9]. infatti se l’anamnesi patologica prossima non è svolta accuratamente, si rischia di perdere la presenza di un dolore di background tra le esacerbazioni, inquadrando così l’emicrania continua come una cefalea ad attacchi quando invece presenta un pattern continuo con fasi di esacerbazioni. come per l’emicrania parossistica e la sunct, gli errori terapeutici sono tutti secondari all’errore diagnostico. conclusioni i risultati di questa revisione sottolineano la necessità di una maggiore educazione in materia di cefalee autonomico-trigeminali, al fine di migliorare la loro diagnosi e la successiva gestione. bibliografia 1. headache classification committee of the international headache society (ihs). the international classification of headache disorders, 3rd edition (beta version). cephalalgia 2013; 33; 629-808 2. viana m, tassorelli c, allena m, et al. diagnostic and therapeutic errors in trigeminal autonomic cephalalgias and hemicrania continua: a systematic review. j headache pain 2013; 14: 14; http://dx.doi.org/10.1186/1129-2377-14-14 3. bahra a, goadsby pj. diagnostic delays and mis-management in cluster headache. acta neurol scand 2004; 109: 175-9; http://dx.doi.org/10.1046/j.1600-0404.2003.00237.x 4. van alboom e, louis p, van zandijcke m, et al. diagnostic and therapeutic trajectory of cluster headache patients in flanders. acta neurol belg 2009; 109: 10-7 5. van vliet ja, eekers pj, haan j, et al. features involved in the diagnostic delay of cluster headache. j neurol neurosurg psychiatry 2003; 74: 1123-5; http://dx.doi.org/10.1136/jnnp.74.8.1123 6. bahra a, may a, goadsby pj. cluster headache: a prospective clinical study with diagnostic implications. neurology 2002; 58: 354-61; http://dx.doi.org/10.1212/wnl.58.3.354 7. moncada e, graff-radford sb. benign indomethacin-responsive headaches presenting in the orofacial region: eight case reports. j orofac pain 1995; 9: 276-84 8. antonaci f, sjaastad o. chronic paroxysmal hemicrania (cph): a review of the clinical manifestations. headache 1989; 29: 648-56; http://dx.doi.org/10.1111/j.1526-4610.1989.hed2910648.x 9. rossi p, faroni j, tassorelli c, et al. diagnostic delay and suboptimal management in a referral population with hemicrania continua. headache 2009; 49: 227-34; http://dx.doi.org/10.1111/j.1526-4610.2008.01260.x 5 clinical management issues seguentemente lo spettro delle patologie è passato a condizioni prima non note in questa popolazione quali tumori, epatopatie, introduzione l’introduzione della terapia antiretrovirale altamente efficace (highly active anti-retroviral therapy – haart) ha determinato una sostanziale modifica nell’epidemiologia e nella storia naturale dell’infezione da hiv [1]. essa ha infatti comportato una notevole riduzione della mortalità e della morbilità passando da una sopravvivenza media dalla diagnosi di 1,2 anni nel 1989 fino a oltre 16 anni nel 2003 [1]. l’aumento della sopravvivenza ha causato una cronicizzazione dell’infezione che, insieme alla diminuzione della mortalità per cause infettive, ha determinato l’insorgenza di nuove problematiche nella gestione del paziente affetto da infezione da hiv. conperché descriviamo questo caso il paziente descritto è un tipico caso di complicanze metaboliche determinate dall ’infezione da hiv e dalla terapia antiretrovirale. bisogna sempre tenere presente che i soggetti hiv-positivi presentano un rischio cardiovascolare più elevato che nella popolazione generale: è dunque necessario sottoporli a screening più frequenti per valutare l ’insorgenza di complicanze metaboliche corresponding author prof.ssa cristina giannattasio cristina.giannattasio@ ospedaleniguarda.it caso clinico abstract the introduction of antiretroviral therapy (art) has substantially modified the clinical history and epidemiology of hiv infection with an important decline in infective causes of death and an increase in non-infective comorbidities particularly in cardiovascular complications. hiv infection has been related to an increased cardiovascular risk due to the presence of three factors: classic cardiovascular risk factors (shared with the general population), hiv infection itself (indirectly due to the inflammation and directly due to viral molecule) and art-related chronic metabolic alterations. we describe a peculiar case of metabolic alteration in an hiv infected patient on art with particular attention to the diagnosis and therapeutic aspects. giving the higher cardiovascular risk of this specific population it is advisable that the clinician performs a frequent re-assessment of risk factors and cardiovascular organ damage. an early detection of metabolic alteration must lead to an aggressive specific therapy; this must be done by taking care of the hiv-infected subject fragility and the interactions with art. keywords: hiv; antiretroviral therapy; dyslipidemia; arterial hypertension; cardiovascular risk arterial hypertension and dyslipidemia in a hiv-positive patient treated with antiretroviral therapy cmi 2012; 6(1): 5-14 1 centro ipertensione arteriosa, clinica medica, ospedale san gerardo, monza 2 dipartimento di medicina clinica e prevenzione, università degli studi di milano-bicocca e cardiologia iv, ospedale niguarda, milano alessandro maloberti 1, paolo villa 1, dario dozio 1, francesca citterio 1, giorgia grosso 1, mauro betelli 1, francesca cesana 1,2, cristina giannattasio 2 ipertensione arteriosa e dislipidemia in un paziente hiv-positivo in terapia antiretrovirale 6 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) ipertensione arteriosa e dislipidemia in un paziente hiv-positivo in terapia antiretrovirale chiaro: infatti gli studi in questo ambito hanno dato risultati contrastanti; se da una parte si è evidenziato un incremento del rischio di infarti miocardici acuti del 26% [20-22], dall’altra l’inizio della terapia non è stato connesso a un incremento del rischio cardiovascolare [23]. è verosimile che i diversi criteri di inclusione, endpoint e tempi di osservazione siano alla base delle differenze osservate. le evidenze appena individuate, insieme a una relativa giovane età di insorgenza e quindi a un notevole tempo di esposizione, hanno portato le società internazionali a stendere linee guida specifiche per questa popolazione per la valutazione del rischio cardiovascolare e per l’appropriata terapia delle alterazioni metaboliche [24,25]. le ultime linee guida della european aids clinical society (eacs – ottobre 2011) [24,25] individuano una strategia di screening più aggressiva rispetto alla popolazione generale evidenziando la necessità di valutare l’anamnesi cardiovascolare, la pressione arteriosa, i lipidi plasmatici, il metabolismo glucidico e gli indici di composizione corporea (bmi, circonferenza addominale, rapporto vita/fianchi e presenza di lipodistrofia) alla diagnosi, prima di affrontare una terapia antiretrovirale, a breve distanza da ogni sua modifica e comunque almeno una volta all’anno. in questo contesto abbiamo deciso di descrivere un caso clinico paradigmatico delle alterazioni metaboliche che si possono riscontrare nel paziente hiv-positivo in terapia antiretrovirale affrontandole sia dal punto di vista clinico-diagnostico, sia dal punto di vista terapeutico. caso clinico descriviamo il caso di un paziente di sesso maschile di 65 anni (b.l.) noto per infezione da hiv dal 1994 verosimilmente per trasmissione eterosessuale. è stato inizialmente raccomandazioni y valutare alla diagnosi, all ’introduzione della terapia antiretrovirale, a ogni sua modifica e comunque annualmente il rischio cardiovascolare dei pazienti hiv-positivi y effettuare periodicamente gli accertamenti con uno studio completo dei possibili danni d ’organo cardiovascolare, parimenti a quanto previsto per il paziente iperteso non hiv-positivo y tenere presente le interazioni della terapia antiretrovirale con i farmaci antipertensivi, ipolipemizzanti e ipoglicemizzanti (www.hiv-druginteractions.org) nefropatie e patologie ossee. queste condizioni vengono complessivamente chiamate comorbilità non infettive, e tra di esse spicca sicuramente un aumento della mortalità e morbilità cardiovascolare con un incremento del numero di eventi e del rischio cardiovascolare rispetto all’era pre-haart e rispetto alla popolazione generale [2-4]. la patologia cardiovascolare nel soggetto hivpositivo è rappresentata principalmente dalla miocardiopatia dilatativa, dalle pericarditi e da un processo aterosclerotico accelerato. nei soggetti affetti da hiv l’incremento del rischio cardiovascolare e l’aterosclerosi accelerata sarebbero causate dalla concomitanza dei fattori di rischio cardiovascolare classici, tra cui segnaliamo un’alta prevalenza di tabagismo [5,6], ma anche dalla presenza di fattori specifici per questa popolazione ovvero il virus hiv di per sé e la terapia antiretrovirale. il virus hiv di per sé determinerebbe un incremento del rischio sia indirettamente a causa dell’infiammazione cronica, dell’immunoattivazione e dei disturbi della coagulazione [7], sia direttamente a causa di alcune sue molecole (quali gp120, tat e nef) che in studi in vitro hanno dimostrato di stimolare pattern pro-aterogenici [8,9]. inoltre l’infezione virale cronica è stata associata a dislipidemia con un incremento del colesterolo totale e ldl e dei trigliceridi e con una diminuzione del colesterolo hdl [10,11]. infine la terapia antiretrovirale è stata connessa a molteplici alterazioni metaboliche specialmente in chi assume inibitori delle proteasi (protease inhibitors – pi), in particolar modo se di vecchia generazione. la terapia cronica con pi e inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (nucleoside reverse trascriptase inhibitors – nrti) è stata connessa a dislipidemia [12-14], alterazioni glucidiche fino al franco diabete [15,16], ipertensione [17], lipodistrofia [18] e sindrome metabolica [19]. quanto questo determini un reale incremento del rischio di eventi non è ancora 7 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) a. maloberti, p. villa, d. dozio, f. citterio, g. grosso, m. betelli, et al. il paziente veniva quindi dimesso mantenendo un basso dosaggio di amfotericina b per via orale. nel corso di tale ricovero i lipidi plasmatici erano all’interno dei limiti di norma (colesterolo totale = 197 mg/dl, colesterolo hdl = 44 mg/dl, colesterolo ldl = 140 mg/dl e trigliceridi = 66 mg/dl). nel gennaio 2007 avveniva un ulteriore ricovero presso il reparto di malattie infettive del nostro nosocomio per insufficienza renale acuta prontamente regredita in seguito alla sostituzione di amfotericina b con fluconazolo e quindi molto probabilmente da imputare al primo dei due antimicotici. durante tale ricovero al controllo degli esami ematochimici si evidenziava completa soppressione della replicazione dell’hiv (l’hiv-rna risultava al di sotto dei livelli di sensibilità del metodo) con una iniziale risalita dei valori di cd4+ (142 cell/mm3) delineando un quadro complessivo di completa risposta alla terapia antiretrovirale (full responder). non veniva invece ripetuto il controllo della lipemia in considerazione della sua recente valutazione. i valori di pressione arteriosa durante entrambi i ricoveri sono risultati entro i limiti di norma (in media 130/70 mmhg per il primo e 135/80 mmhg per il secondo); tuttavia tali valori erano comunque alterati dalla presenza di una patologia acuta determinante l’ospedalizzazione e quindi non sono utilizzabili ai fini delle successive valutazioni in merito all’ipertensione. dal punto di vista infettivologico, ai successivi controlli l’hiv-rna si è sempre mantenuto al di sotto della sensibilità del metodo mentre i cd4+ sono risaliti a valori intorno a 280 cell/mm3. durante il successivo follow-up effettuato dagli infettivologi si assisteva, ad agosto 2008, al riscontro di dislipidemia con ipercolesterolemia e ipertrigliceridemia (colesterolo totale = 310 mg/dl, colesterolo ldl = 181 mg/dl, colesterolo hdl = 94 mg/dl e trigliceridi = 236 mg/dl). in considerazione del primo riscontro di tali alterazioni, dell’assenza di altri fattori di rischio associati, del rischio cardiovascolare complessivo (10% a 10 anni secondo il framingham risk score) e delle possibili interazioni con la già avviata terapia antiretrovirale, al paziente veniva proposta una dieta ipolipidica e veniva posto in follow-up con esami ematochimici. ai successivi controlli si assisteva a normalizzazione dei valori di trigliceridemia (174 mg/dl, mantenutosi nelseguito presso l’ospedale niguarda in buon compenso clinico-virologico senza assumere terapia antiretrovirale fino a novembre 2006. da segnalare come nel 1993 il paziente abbia subito un intervento di chirurgia otorinolaringoiatrica per neoplasia della tonsilla destra con successiva radioterapia in sede. nel 1994 subiva un ulteriore intervento per svuotamento linfonodale cervicale. il followup è quindi stato sempre negativo e non sono state affrontate ulteriori radioterapie locali né chemioterapie sistemiche. dal punto di vista dei fattori di rischio cardiovascolare, prima di tale intervento il paziente risultava affetto da ipertensione arteriosa di i grado (pressione arteriosa – pa = 145/95 mmhg, mai sottoposta a terapia antipertensiva), era obeso di i grado (peso = 106 kg, altezza = 177 cm, bmi = 33,8 kg/m2) e fumava abitualmente 1-2 sigari al giorno (dall’età di 20 anni circa) mentre i lipidi plasmatici erano sempre risultati nella norma. in anamnesi familiare non veniva segnalata alcuna patologia di rilievo e in modo particolare non cardiopatia ischemica, accidenti cerebrovascolari, ipertensione arteriosa, diabete mellito e dislipidemia. dopo l’intervento il paziente ha sospeso il consumo di sigari e ha iniziato e mantenuto una adeguata dieta ipocalorica con relativo calo ponderale fino a 85 kg (bmi = 27,1 kg/m2, corrispondente a una condizione di sovrappeso). questi provvedimenti, uniti a un programma di esercizio fisico aerobico, hanno comportato una normalizzazione dei valori di pressione arteriosa (pa = 135/85 mmhg). dal 13 novembre 2006 al 16 dicembre 2006 il paziente veniva ricoverato presso il reparto di malattie infettive dell’ospedale san gerardo di monza per comparsa di cefalea e vomito. all’esame del liquor cefalorachidiano veniva riconosciuta la presenza di cryptococcus neoformans e veniva quindi trattato con amfotericina b endovena 200 mg/die per 1 mese circa. per la comparsa dell’infezione opportunistica e il quadro di severa immunodepressione (cd4+ = 41 cell/mm3, hiv-rna = 13.000 copie/ml), il paziente rientrava nel gruppo c3 della classificazione cdc per il virus hiv [26] e, in data 28 novembre 2006, iniziava un regime di terapia antiretrovirale di combinazione altamente attiva con due nrti (abacavir + lamivudina, 600 + 300 mg, 1 compressa alle ore 8) e un pi potenziato (lopinavir/ritonavir, 200 + 50 mg, 2 compresse alle ore 8 e 2 compresse alle ore 20). 8 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) ipertensione arteriosa e dislipidemia in un paziente hiv-positivo in terapia antiretrovirale in considerazione degli elevati valori di colesterolo, è stato anche introdotto un farmaco ipolipemizzante a basso dosaggio, preferendo atorvastatina 10 mg, che questa volta non veniva rifiutato dal paziente. come verrà discusso nella successiva sezione, è stato scelto questo specifico principio attivo in quanto libero da interazioni con la terapia antiretrovirale del paziente. veniva iniziata inoltre terapia antiaggregante con acido acetilsalicilico 100 mg, in considerazione dell’elevato rischio cardiovascolare stimato a 10 anni secondo le linee guida della società europea di ipertensione arteriosa e della società europea di cardiologia (esh/esc 2007-2009) [27,28]. in aggiunta veniva raccomanda una dieta ipolipidica, iposodica e ipocalorica, attività fisica aerobica regolare (3 volte a settimana per 30-45 minuti) e completamento degli accertamenti con valutazione del danno d’organo cardiovascolare tramite esecuzione di esami ematochimici, elettrocardiogramma, ecocolordoppler dei tronchi sovraortici, ecocolordoppler cardiaco e valutazione della rigidità aortica tramite lo studio della velocità dell’onda di polso (pulse wave velocity – pwv ) come consigliato dalle già citate linee guida esh/esc [27,28]. dato il ripresentarsi dell’ipertensione arteriosa in età avanzata associata agli elevati valori (ipertensione arteriosa di ii grado) è stato inoltre effettuato uno screening delle principali cause di ipertensione secondaria (iperaldosteronismo, feocromocitoma e ipercortisolismo), come indicato dalle linee guida della endocrine society [29]. agli esami ematochimici si assisteva a un iniziale decremento dei valori della lipemia (colesterolo totale = 240 mg/dl, colesterolo ldl = 124 mg/dl, colesterolo hdl = 90 mg/dl, trigliceridi = 130 mg/dl) senza elevazione dei valori di cpk (105 u/l). l’indice di insulino-resistenza homa è risultato nella norma (homeostatic model assessment) [30] (glicemia = 95 mg/dl, insulina = 5,1 microui/ml, homa = 1,19), così come l’esame emocromocitometrico, la funzione renale ed epatica. sempre agli esami ematochimici sono state escluse le cause più comuni di ipertensione secondaria (metanefrine e cortisolo urinario, aldosterone e renina sono infatti risultati nella norma). l’elettrocardiogramma evidenziava la presenza di ritmo sinusale (frequenza cardiaca 80 bpm) e di blocco di branca destra completo. all’ecocardiogramma veniva riscontrata la norma ai successivi controlli) mentre permanevano elevati i valori di colesterolemia. nel dicembre 2009 veniva quindi proposta l’introduzione in terapia di una statina, ma il tentativo è stato limitato dall’opposizione del paziente all’assunzione di ulteriori farmaci e veniva dunque mantenuto il solo controllo semestrale degli esami ematochimici. nel febbraio 2010 veniva nuovamente riscontrata la presenza di ipertensione arteriosa (pa = 170/95 mmhg) che, unita alla permanenza di ipercolesterolemia, portava i colleghi infettivologi a iniziare la terapia con perindopril 4 mg 1 volta al giorno. si assisteva a un incompleto controllo pressorio (pa = 150/90 mmhg) per cui l’inibitore dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ace-i) veniva sostituito con la sua associazione con un diuretico risparmiatore di potassio (perindopril/indapamide), poi sospeso per comparsa di iperkaliemia. in considerazione della mancata risposta clinica il paziente veniva inviato per una valutazione presso il centro dell’ipertensione arteriosa e del rischio cardiovascolare come spesso avviene nel nostro nosocomio grazie alla presenza di una stretta e assodata collaborazione tra le due unità operative. nell’attesa della nostra visita il paziente veniva sottoposto a monitoraggio della pressione arteriosa delle 24 ore (marzo 2011), che confermava la presenza di pressione arteriosa severamente aumentata per la sistolica e moderatamente aumentata per la diastolica (pressione arteriosa media 24 h = 158/88 mmhg, media diurna = 162/90 mmhg, media notturna = 149/83 mmhg). sempre nel marzo 2011 il paziente veniva quindi valutato presso il nostro centro dell’ipertensione arteriosa per l’ottimizzazione della terapia. alla nostra valutazione abbiamo riscontrato una pressione arteriosa di 160/100 mmhg in clinostatismo e 165/90 mmhg in ortostatismo. all’esame obiettivo si riscontrava la presenza di soffio sistolico 1-2/6 irradiato alle carotidi mentre la restante obiettività risultava nella norma. non era presente alcun segno di lipoatrofia o lipoipertrofia alla valutazione clinica. il riscontro di valori pressori così elevati, unito allo scarso potere antipertensivo di perindopril, ci ha portato a effettuare modifiche alla terapia antipertensiva sostituendo l’acei con un farmaco della stessa classe ma con maggior effetto ipotensivo (ramipril 5 mg, 1 compressa alle ore 8) rimandando l’associazione di più farmaci nel caso di mancata risposta. 9 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) a. maloberti, p. villa, d. dozio, f. citterio, g. grosso, m. betelli, et al. 2011: colesterolo totale = 210 mg/dl, colesterolo hdl = 90 mg/dl, colesterolo ldl = 107 mg/dl, trigliceridi = 65 mg/dl) senza che venissero evidenziati effetti collaterali indesiderati dei farmaci utilizzati. discussione il caso clinico da noi presentato individua le tipiche complicanze metaboliche presenti nel paziente hiv-positivo a distanza di anni dall’infezione e dall’inizio della terapia antiretrovirale. al di là dell’interesse scientifico relativo al ruolo del virus hiv di per sé e della terapia antiretrovirale nella genesi di queste alterauna massa ventricolare sinistra indicizzata alla superficie corporea oltre i limiti di norma (lvmi = 165,19 g/m2) in un quadro di ipertrofia concentrica (rapporto spessore/ raggio del ventricolo sinistro, h/r = 0,48). inoltre veniva riscontrato un pattern diastolico pseudonormalizzato. veniva poi eseguita un’ecografia dei tronchi sovraortici con riscontro a destra di una piccola placca eccentrica a margini regolari a livello della carotide comune determinante stenosi del 20% circa; sempre a destra alla biforcazione veniva rilevata una placca isoecogena a margini regolari che si estendeva alla carotide interna determinante stenosi massima del 30% [31]. a sinistra vi era la presenza di bulbo di placca iperecogena eccentrica estesa alla carotide interna determinante accelerazione di flusso (psv = 1,25 m/s) come da stenosi del 50% per criteri velocimetrici [32] (figura 1). lo spessore miointimale (intima media thickness – imt) a sinistra era risultato essere aumentato (1,07 mm) mentre a destra non veniva misurato per presenza di placche nella sede di misura (2 cm dal bulbo carotideo sulla parete distale). dal punto di vista renale era presente una lieve microalbuminuria (42,8 mg/die) con funzione renale nella norma (clearance calcolata secondo formula di cockroft-gault = 183 ml/min). come consigliato dalle linee guida eshesc [27,28] nel nostro centro viene eseguita anche la pwv, che è risultata oltre i limiti di norma (13,1 m/s) sia secondo la classificazione esh/esc [27] sia secondo i nuovi valori di norma recentemente pubblicati [33]. secondo le linee guida esh-esc [27,28] il rischio cardiovascolare stimato a 10 anni è risultato essere molto elevato, portando dunque il target pressorio del paziente a 130/80 mmhg mentre, secondo i criteri ncept atp-iii del 2001 [34] il colesterolo ldl del paziente dovrebbe essere inferiore a 100 mg/dl (70 mg/dl secondo la revisione del 2004 [35] e secondo le linee guida della società europea di cardiologia e della società europea dell’aterosclerosi esc/ eas 2011 [36]). è stata quindi aumentata la posologia sia dell’ace-i (sino a raggiungere 10 mg/die) sia di atorvastatina, raggiungendo il dosaggio di 40 mg/die. nella tabella i sono riportate le terapie assunte dal paziente tra il 1994 e il 2011. a seguire si assisteva a parziale raggiungimento del target pressorio (pa = 135/85 mmhg) e del colesterolo ldl (a settembre figura 1. immagine ecocolordoppler del bulbo e dell ’arteria carotide interna sinistra periodo terapia introdotta 1994-2006 y dieta ipocalorica y esercizio fisico aerobico nov 2006 y amfotericina b ev y abacavir + lamivudina y lopinavir/ritonavir dic 2006 y amfotericina b orale (in sostituzione di amfotericina ev) gen 2007 y fluconazolo (in sostituzione di amfotericina b) ago 2008 y dieta ipolipidica y follow-up con esami ematochimici feb 2010 y perindopril → poi sospeso mar 2011 y perindopril/indapamide → poi sospeso y ramipril y atorvastatina y acido acetilsalicilico y raccomandata dieta ipolipidica, iposodica e ipocalorica y raccomandata attività fisica aerobica regolare tabella i. riassunto delle terapie assunte dal paziente tra il 1994 e il 2011 10 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) ipertensione arteriosa e dislipidemia in un paziente hiv-positivo in terapia antiretrovirale zioni, il caso descritto presenta importanti implicazioni cliniche. la presenza della patologia cronica infiammatoria sistemica, della terapia antiretrovirale e delle sue molteplici interazioni farmacologiche, la non sempre buona compliance al trattamento e le problematiche psicologiche e sociali spesso comuni in questi pazienti pongono al medico la necessità di un maggior grado di attenzione sia dal punto di vista diagnostico sia terapeutico. secondo le già citate linee guida dell’eacs [24,25], nel nostro caso, gli esami ematochimici già richiesti dagli infettivologi sarebbero stati sufficienti alla completa stadiazione delle complicanze metaboliche del paziente. se invece seguiamo le linee guida esh/esc [27,28], queste ci indicano la necessità di effettuare ulteriori valutazioni ai fini di avere un quadro completo dell’albero cardiovascolare. benché le alterazioni metaboliche descritte nel nostro paziente siano presenti solo da alcuni anni all’esecuzione degli esami ecografici, è stata evidenziata la presenza di danno d’organo specifico. infatti, a livello cardiaco è stata evidenziata la presenza di ipertrofia ventricolare sinistra concentrica mentre a livello carotideo la presenza addirittura di una placca della carotide interna sinistra determinante stenosi del 50%. non bisogna naturalmente escludere l’influenza del pregresso tabagismo e obesità ma, come già ribadito, lo scopo di questo articolo non è quello di valutare l’eziologia delle alterazioni metaboliche e dei danni d’organo prima viste. nonostante sia stata recentemente descritta un’equazione specifica per i pazienti hiv positivi (dad 5 years estimated risk calculator) [37], che tiene conto anche dell’assunzione pregressa e attuale di antiretrovirali, le linee guida eacs [24,25] consigliano, per la valutazione del rischio cardiovascolare a 10 anni, l’utilizzo dell’equazione di framingham. un metodo più semplice per predire il rischio cardiovascolare è quello a categorie riportato nelle linee guida esh/esc [27,28] (tabella ii). prima dell’esecuzione degli esami ecografici, il rischio cardiovascolare a 10 anni era stimato come moderato, mentre dopo l’esecuzione di un completo screening cardiovascolare la presenza del danno d’organo porta a collocare il paziente in una categoria superiore con un rischio cardiovascolare elevato. questa modifica non è importante solo dal punto di vista prognostico ma anche per la necessità di intraprendere un più frequente monitoraggio clinico-strumentale e per la presenza di obiettivi terapeutici più stretti. il passaggio alla categoria di rischio elevata comporta infatti un diverso target pressorio e dei lipidi plasmatici che, come già visto, dovrebbero raggiungere livelli inferiori a 130/80 mmhg e 100 mg/dl di colesterolo ldl [27,28,34,35]. il raggiungimento di questi target è spesso difficile già nel paziente hiv-negativo [38] e risulta essere ulteriormente complesso nel paziente sieropositivo. la sfida terapeutica è posta dalle problematiche di compliance e dalla contemporanea assunzione della terapia antiretrovirale che presenta importanti interazioni farmacologiche in particolare con antipertensivi e ipolipemizzanti. per quanto riguarda la terapia antipertensiva è importante segnalare come non siano mai stati affrontati studi specifici sull’argomento nei pazienti hiv-positivi e quindi come si applichino a essi le informazioni note per la popolazione generale. pressione arteriosa (mmhg) altri fattori di rischio, danno d’organo o presenza di patologia concomitante normale (pas = 120-129 o pad = 80-84) normale-alta (pas = 130-139 o pad = 85-89) grado 1 (pas = 140-159 o pad = 90-99) grado 2 (pas = 160-179 o pad = 100-109) grado 3 (pas ≥ 180 o pad ≥ 110) nessun fattore di rischio aggiunto rischio nella media rischio nella media rischio aggiunto basso rischio aggiunto moderato rischio aggiunto elevato 1-2 fattori di rischio rischio aggiunto basso rischio aggiunto basso rischio aggiunto moderato rischio aggiunto moderato rischio aggiunto molto elevato ≥ 3 fattori di rischio, sm, danno d’organo o diabete rischio aggiunto moderato rischio aggiunto elevato rischio aggiunto elevato rischio aggiunto elevato rischio aggiunto molto elevato malattia cv o renale rischio aggiunto molto elevato rischio aggiunto molto elevato rischio aggiunto molto elevato rischio aggiunto molto elevato rischio aggiunto molto elevato tabella ii. definizione del rischio cardiovascolare secondo le linee guida esh-esc 2007. modificato da [27] 11 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) a. maloberti, p. villa, d. dozio, f. citterio, g. grosso, m. betelli, et al. a tenofovir o di propendere per un regime privo di nrti; altrimenti si può decidere di sostituire la componente pi della terapia con un pi meno noto per determinare effetti metabolici, con un nnrti o con l’unica molecola della nuova classe degli inibitori delle integrasi (raltegravir) [24,25]. strategia alternativa è quella dell’introduzione della terapia ipolipemizzante con statine o fibrati. ancora oggi è dibattuto nella comunità scientifica internazionale quale delle due strategia sia la migliore dal punto di vista dell’efficacia, della compliance e degli effetti collaterali. l’eacs consiglia un tentativo di modifica della terapia antiretrovirale nel caso il rischio cardiovascolare a 10 anni sia molto elevato (maggiore del 20%); altrimenti viene consigliata l’introduzione di un farmaco ipolipemizzante, che si è dimostrata la strategia più efficace e gravata da una minore frequenza di eventi collaterali [43,44]. la decisione va comunque presa di comune accordo con il paziente tenendo presente le caratteristiche della sua infezione (principalmente soppressione virale e presenza di resistenze ai farmaci) e la compliance. nel nostro caso la stabilità della soppressione della replicazione virale da alcuni anni ha portato alla decisione di introdurre una statina. nel caso sia presa questa decisione è importante ricordare come le statine siano metabolizzate da isoenzimi del citocromo p450 implicati nella metabolizzazione dei pi. assolutamente controindicate sono simvastatina e lovastatina, mentre tutte le altre presentano interazioni variabili con i pi e nnrti, per cui si rimanda al sito prima visto per maggiori indicazioni [39]. l’induzione/inibizione del citocromo p450 da parte di pi e nnrti porta l’eacs a indicare dosi di inizio più elevate o ridotte in base alla specifica statina e alla classe di farmaci antiretrovirali utilizzata [24,25]. di particolare importanza in questi pazienti è anche un più stretto monitoraggio delle fosfocreatinchinasi (cpk) proprio per le possibili interazioni. i fibrati presentano importanti interazioni con gli nrti, che vanno tenute presenti nel caso siano scelti come terapia per la dislipidemia. nel nostro paziente nessuna alterazione è stata riscontrata per quanto riguarda il metabolismo glucidico, ma è fondamentale segnalare come la terapia ipoglicemizzante non si discosti da quella del paziente sieronegativo, necessitando primariamente di una in un campo come quello delle interazioni farmacologiche, gravato da un alto rischio di importanti reazioni avverse anche mortali, l’aggiornamento delle informazioni è cruciale e pertanto rimandiamo al sito internet hiv-drug interactions [39] mentre ci limiteremo a riportarne alcune a titolo di esempio. sono state riscontrate interazioni tra doxazosina e praticamente tutti i pi e gli inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa (non nucleoside reverse trascriptase inhibitors – nnrti) mentre nessuna interazione è stata segnalata con gli nrti. tra i diuretici è importante segnalare le interazioni di furosemide con i pi, nnrti e nrti (emtricitabina, lamivudina e tenofovir), mentre nessuna è stata riportata per amiloride. gli ace-i si sono rivelati sicuri se assunti contemporaneamente a tutte le classi di farmaci antiretrovirali mentre tra i sartani solo candesartan, olmesartan e valsartan sono assolutamente liberi da interazioni. è bene evitare la somministrazione di calcioantagonisti in associazione con pi (specialmente quando questi siano boosted dalla presenza di ritonavir, poiché sono tutti farmaci metabolizzati dal medesimo isoenzima del citocromo p450) e nnrti mentre nessuna interazione è stata notata con gli nrti. infine le interazioni tra beta-bloccanti e pi e nnrti sono complesse e rimandiamo al sito prima indicato per maggiori informazioni. nel nostro specifico caso è stata scelta una terapia con ace-i poiché di provata efficacia e sicuramente libera da interazioni con i farmaci antiretrovirali. per la terapia della dislipidemia sono stati affrontati studi specifici in questa sottopopolazione e, successivamente al fallimento della terapia dietetica e comportamentale, due strategie differenti sono state evidenziate per questa problematica. da una parte abbiamo la possibilità di modificare la terapia antiretrovirale sostituendo farmaci noti per determinare lo sviluppo di dislipidemia con farmaci più innocui dal punto di vista metabolico. in queste alterazioni sono stati sicuramente implicati gli nrti (e in particolar modo gli analoghi timidinici zidovudina e stavudina) [14] e i pi [13], mentre gli nnrti hanno dimostrato una minor influenza sul profilo lipidico associandosi anche a un incremento dei valori di colesterolo hdl [40-42]. pertanto le modifiche consigliate sarebbero quelle di passare da un nrti timidinico o abacavir 12 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) ipertensione arteriosa e dislipidemia in un paziente hiv-positivo in terapia antiretrovirale bibliografia 1. schneider mf, gange sj, williams cm, anastos k, greenblatt rm, kingsley l, et al. patterns of the hazard of death after aids through the evolution of antiretroviral therapy: 1984-2004. aids 2005; 19: 2009-18 2. barbaro g. reviewing the cardiovascular complications of hiv infection after the introduction of highly active antiretroviral therapy. curr drug targets cardiovasc haematol disord 2005; 5: 337-43 3. guaraldi g, orlando g, zona s, menozzi m, carli f, garlassi e, et al. premature age-related comorbidities among hiv-infected persons compared with the general population. clin infect dis 2011; 53: 1120-6 4. rasmussen ld, engsig fn, christensen h, gerstoft j, kronborg g, pedersen c, et al. risk of cerebrovascular events in persons with and without hiv: a danish nationwide populationbased cohort study. aids 2011; 25: 1637-46 questo pone dunque la necessità di uno screening metabolico più aggressivo rispetto alla popolazione generale, che non si limiti alla valutazione clinica e all’esecuzione di esami ematochimici (come indicato dalle linee guida eacs [24,25]), ma che sia implementato anche con uno studio cardiovascolare completo (ecocardiocolordoppler, ecocolordoppler dei tronchi sovraortici, pwv e funzione renale) [27,28]. un’identificazione precoce delle complicanze metaboliche deve portare a un’appropriata terapia, che deve tenere presente le particolarità del paziente hiv-positivo, ponendo particolare attenzione alle interazioni con la terapia antiretrovirale. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. punti chiave y il paziente hiv-positivo presenta un rischio cardiovascolare incrementato rispetto alla popolazione generale y oltre alla presenza dei classici fattori di rischio cardiovascolare sono presenti fattori specifici per questa popolazione quali l ’infezione hiv di per sé e la terapia antiretrovirale y importanza della identificazione precoce delle complicanze metaboliche-cardiovascolari attraverso uno screening metabolico più aggressivo rispetto alla popolazione generale, non limitato alla valutazione clinica e all ’esecuzione di esami ematochimici (come indicato dalle linee guida eacs) ma implementato da uno studio cardiovascolare completo (ecocardiocolordoppler, ecocolordoppler dei tronchi sovraortici, pwv (pulse wave velocity) e funzione renale) y appropriata terapia che deve tenere presente le particolarità del paziente hiv-positivo ponendo particolare attenzione alle interazioni con la terapia antiretrovirale (www. hiv-druginteractions.org) buona dieta e di modifiche comportamentali. nel caso sia necessaria l’introduzione di farmaci è essenziale tenere presente le interazioni con la terapia antiretrovirale in particolare di metformina con gli nrti (entrambe in grado di determinare acidosi lattica) [45]. i tiazolidindioni invece sono stati implicati in alterazioni del profilo lipidico, per cui andrebbero evitati (per quanto possibile) nel paziente ad alto rischio cardiovascolare [46], oltre a presentare interazioni farmacocinetiche con gli nnrti e i pi. conclusioni possiamo quindi concludere ribadendo che il paziente hiv-positivo presenta un rischio cardiovascolare incrementato determinato dalla presenza dei classici fattori di rischio, condivisi con la popolazione generale, ma anche di fattori specifici per questa popolazione, quali l’infezione hiv di per sé e la terapia antiretrovirale. 13 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) a. maloberti, p. villa, d. dozio, f. citterio, g. grosso, m. betelli, et al. 5. savès m, chêne g, ducimetière p, leport c, le moal g, amouyel p, et al; french who monica project and the aproco (anrs ep11) study group. risk factors for coronary heart disease in patients treated for human immunodeficiency virus infection compared with the general population. clin infect dis 2003; 37: 292-8 6. lichtenstein k, armon c, 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1,2, cristina giannattasio 2 uno strano caso di perdita di coscienza: quando un cervello epilettico fa rallentare il cuore giovanni assenza 1, federica assenza 1, giovanni pellegrino 1, mario tombini 1 effusione endotimpanica persistente verosimilmente sostenuta da biofilm in un paziente pediatrico affetto da immunodeficienza comune variabile sara torretta 1, lorenzo pignataro 1 aspetti psicologici nella gestione dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa essenziale maria luisa genesia 1, franco rabbia 1, elisa testa 1, silvia totaro 1, elena berra 1, michele covella 1, chiara fulcheri 1, giulia bruno 1, franco veglio 1 ringraziamento dei referee (marzo 2011 – marzo 2012) clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 25 principalmente legate alla compromissione dell’abilità motoria. l’elevata incidenza di disturbi extrapiramidali causata dall’uso cronico degli antipsicotici tipici ha dato grande impulso alla ricerca di nuove molecole che, pur mantenendo la stessa efficacia dei composti già in uso, fossero dotate di un migliore profilo di sicurezza. i risultati scaturiti dallo sforzo congiunto della ricerca industriale e accademica hanno condotto, verso la fine del secolo scorso, alla “rivalutazione” di clozapina e alla scoperta di altri antipsicotici atipici. le peculiari caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche di questi ultimi hanno fatto di questi farmaci degli strumenti terapeutici di indubbia efficacia, con un profilo di effetti avversi decisamente favorevole e una tossicità comportamentale inferiore rispetto ai composti tipici, in particolare nell’impiego a lungo termine. marco orsetti 1, fabio di brisco 1, massimo mauro 1, dario dallorto 2, piera ghi 2 introduzione la commercializzazione dei primi farmaci antidepressivi (triciclici e inibitori delle monoaminoossidasi) e antipsicotici (fenotiazine e butirrofenoni) ha senza dubbio fornito un contribuito decisivo all’intenso sviluppo della psicofarmacologia avvenuto nella seconda metà del secolo scorso. in particolare gli antipsicotici tipici, utilizzati con successo per oltre 50 anni nel trattamento di pazienti schizofrenici, bipolari psicotici o in stato di agitazione psicomotoria, sono risultati essenziali nella risoluzione dei casi più gravi, a elevato rischio di mortalità, e hanno consentito un miglioramento di quadri clinici un tempo ritenuti intrattabili. tuttavia l’impiego terapeutico di antipsicotici a intensa azione antidopaminergica d2 genera sindromi neurologiche più o meno gravi, quetiapina: recenti sviluppi della ricerca preclinica abstract quetiapine (qtp) is an atypical antipsychotic labelled for the treatment of patients with schizophrenia, bipolar mania and bipolar depression. nevertheless, qtp has been tried across multiple diagnosis categories and seems to be used, among other atypical antipsychotics, in clinical practice for an expanding range of disorders such as major depression, substance abuse disorders, anxiety disorders, and borderline personality disorders. the present review focuses on papers which investigated the molecular mechanism(s) of qtp antidepressant effect. in particular, preclinical studies performed by coupling the chronic mild stress, an animal model of human depression with affymetrix microarray technology, revealed that chronic qtp administration prevented the stress-induced upor down-regulation of 42 genes involved in the central nervous system development or having a crucial role for viability of neural cells, like regulation of signal transduction, inorganic ion transport, membrane organisation, and neurite morphogenesis. among these, ptgs2, hes5, plcb1, senp2, gad1, and marcks are presumably the effectors of the qtp clinical efficacy. keywords: quetiapine, depression, gene regulation, chronic mild stress quetiapine: recent developments in preclinical research cmi 2010; 4(1): 25-38 1 dipartimento di scienze chimiche, alimentari, farmaceutiche e farmacologiche (discaff), università degli studi del piemonte orientale “a. avogadro” 2 dipartimento di anatomia, farmacologia e medicina legale, università degli studi di torino corresponding author dott. orsetti marco marco.orsetti@pharm.unipmn.it gestione clinica clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 26 quetiapina: recenti sviluppi della ricerca preclinica clozapina, il primo antipsicotico atipico, è stata sintetizzata in svizzera nel 1959 dalla sandoz-wander. nel 1975, a causa di alcuni decessi per agranulocitosi, è stata ritirata dal commercio nella maggior parte dei mercati mondiali per poi essere reintrodotta, a partire dagli stati uniti, nel 1990, limitatamente al trattamento di pazienti schizofrenici resistenti agli antipsicotici tipici. lo sviluppo di analoghi con caratteristiche di atipicità simili a clozapina, ma dotati di un migliore profilo di sicurezza, ha portato, nel 1984, alla sintesi del composto ici 204636, successivamente denominato quetiapina (qtp). il presente articolo, pur fornendo una panoramica degli studi clinici, si focalizza principalmente sulla ricerca preclinica che ha recettori 5ht2a della serotonina rispetto ai recettori d2 dopaminergici [1]. il profilo di affinità recettoriale di qtp è illustrato nella tabella i e l’effetto del farmaco sui sistemi noradrenergico e serotoninergico è illustrato nella figura 1. nella tabella i viene utilizzato come indicatore di affinità la costante di dissociazione kd, che è la concentrazione molare alla quale si ha il 50% di legame tra farmaco e recettore. tanto più grande è il valore della kd, tanto più bassa è quindi l’affinità del farmaco per il recettore. dai valori riportati in tabella i si può rilevare come qtp abbia azione prevalente sui sistemi noradrenergico e serotoninergico e scarsa attività antidopaminergica, in quanto presenta affinità 25 volte maggiore per i recettori 5ht2a e addirittura 95 volte maggiore per i recettori α1-adrenergici rispetto ai d2 dopaminergici. ciò implica una bassa frequenza di comparsa di effetti avversi di natura extrapiramidale e di iperprolattinemia nell’intervallo di dosi terapeutiche. come si può vedere nella figura 1, i recettori α2 sono localizzati sui terminali assonici noradrenergici dove, in qualità di autorecettori presinaptici, hanno funzione inibitoria sulla sintesi e liberazione di na. si trovano anche sui neuroni serotoninergici dove, in qualità di eterorecettori presinaptici, regolano negativamente la liberazione della 5ht. qtp, essendo un α2-antagonista, rimuove l’inibizione dei recettori α2 e determina quindi un potenziamento di entrambi i sistemi. il potenziamento della trasmissione serotoninergica da parte di qtp è completato anche dall’attività agonista parziale del farmaco ai recettori somatodendritici 5ht1a, che riduce nei nuclei del rafe l’azione inibitoria di questi recettori nei confronti del firing dei neuroni serotoninergici, e dal blocco degli autorecettori presinaptici ad azione inibitoria 5ht1d. il quadro complesso di interazione di qtp con i sistemi serotoninergico e noradrenergico determina in ultima analisi un aumento delle risposte mediate da tutti i recettori post-sinaptici per la na e la 5ht, ma non di quelle dei recettori 5ht2a e α1, in quanto questi recettori sono bloccati dalla presenza del farmaco. l’antagonismo nei confronti dei recettori α1-adrenergici può determinare ipotensione ortostatica mentre l’elevata affinità e il blocco dei recettori h1 conferisce a qtp blande proprietà sedative. inoltre, la ridotta attività antimuscarinica è indicativa di un profilo non sfavorevole del farmaco nei confronti delle funzioni cognitive superiori. recettore k d (nm) α 1 -adrenergico 8,1 h 1 istaminergico 19 5ht 2a serotoninergico 31 α 2 -adrenergico 80 5ht 1a serotoninergico 300 5ht 1d serotoninergico 560 d 2 dopaminergico 770 colinergico muscarinico 1.400 tabella i affinità (inversamente proporzionale alla kd) di qtp per vari tipi di recettore. modificata da [1] figura 1 siti d ’azione della quetiapina nel sistema serotoninergico (rappresentato dal neurone giallo) e nel sistema noradrenergico (rappresentato dal neurone verde) consentito di mettere in luce il meccanismo molecolare del farmaco. meccanismo d’azione qtp è una dibenzotiazepina che, al pari di altri atipici, ha un’affinità maggiore per i clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 27 m. orsetti, f. di brisco, m. mauro, d. dallorto, p. ghi studi clinici efficacia clinica di qtp come antipsicotico qtp fumarato ha ricevuto l’approvazione dalla fda nel 1997 per il trattamento acuto della schizofrenia. l’efficacia come antipsicotico della qtp è ben documentata da numerosi studi clinici, i primi pubblicati oltre quindici anni fa [2-6]. studi più recenti dimostrano l’efficacia di qtp anche nel trattamento dei pazienti bipolari affetti da mania acuta. mcintyre e colleghi [7] hanno effettuato uno studio controllato su 302 pazienti in fase maniacale acuta confrontando l’efficacia di qtp, aloperidolo e del placebo: la remissione della sintomatologia è risultata maggiore nei gruppi trattati con antipsicotici rispetto al placebo dopo 3 settimane di trattamento. qtp ha dimostrato una buona efficacia clinica nei confronti degli episodi di mania anche in associazione con altri stabilizzanti dell’umore [8,9]. efficacia clinica di qtp come antidepressivo sintomi depressivi nel paziente schizofrenico la comparsa di una sindrome depressiva in pazienti schizofrenici può variare tra il 25% e il 60% [10-12] ed è associata a un’elevata frequenza di suicidio [13]. alcuni studi clinici suggeriscono che il trattamento con antipsicotici atipici possa essere efficace in tali pazienti e, in particolare, arvanitis e colleghi [14] hanno dimostrato che qtp (al contrario di aloperidolo) è in grado di alleviare i sintomi della depressione in pazienti schizofrenici. kasper [15], in un altro studio effettuato su 415 pazienti schizofrenici, riporta che l’efficacia di qtp nei confronti dei sintomi d’ansia e della depressione, rilevata durante la fase acuta (prime 6 settimane), è presente ancora dopo 3 anni di trattamento. depressione bipolare anche la depressione bipolare è stata oggetto di interesse per quanto riguarda il possibile impiego di qtp. due studi controllati, conosciuti come bolder i e ii, hanno valutato l’efficacia di qtp in pazienti depressi affetti da disturbo bipolare i e ii, confrontando gli effetti prodotti dalla somministrazione giornaliera di 300 e 600 mg. in bolder i [16] sono stati coinvolti 542 pazienti bipolari i e ii e qtp si è dimostrata efficace a partire dalla prima settimana di trattamento. sia la percentuale di rispondenti, sia la percentuale di pazienti che hanno raggiunto la completa remissione dei sintomi depressivi è risultata significativamente maggiore nei gruppi trattati con qtp rispetto al placebo. anche il tempo di raggiungimento della completa remissione è stato significativamente più breve nei gruppi trattati con qtp rispetto al placebo. lo studio bolder ii [17], condotto su 509 pazienti con uno schema sperimentale analogo e utilizzando le stesse dosi di qtp, ha confermato i risultati dello studio precedente. disturbo depressivo maggiore l’efficacia di qtp come terapia aggiuntiva per potenziare l’effetto dei farmaci antidepressivi è stata dimostrata da alcuni autori [18-20] in studi clinici nei quali sono stati confrontati gli effetti dell’associazione qtp + antidepressivo con gli effetti del solo antidepressivo in pazienti affetti da disturbo depressivo maggiore. la completa remissione dei sintomi nel malato di depressione maggiore è un obiettivo difficile da raggiungere: è stato stimato che circa il 50% dei pazienti non risponda alla terapia con gli antidepressivi attualmente in uso e che il 70% dei pazienti non raggiunga la guarigione definitiva con il trattamento a lungo termine [21,22]. le possibili strategie di tipo farmacologico nei pazienti non-rispondenti prevedono la sostituzione o l’associazione del farmaco in uso con un altro antidepressivo a diverso meccanismo d’azione, oppure la terapia aggiuntiva con un farmaco non appartenente alla classe degli antidepressivi. in questo caso le opzioni possibili comprendono il litio, le benzodiazepine o gli antipsicotici atipici. in uno studio della durata di 6 settimane effettuato da olver e colleghi [18], qtp (200-600 mg/die) si è dimostrata efficace in pazienti affetti da depressione maggiore parzialmente rispondenti o non-rispondenti ad antidepressivi ssri e snri (selettivi serotoninergici e ad azione mista sui sistemi di ricaptazione delle monoamine). la terapia aggiuntiva con qtp provoca un evidente miglioramento dei sintomi che compare nelle prime settimane e una guarigione completa nel 94% dei pazienti al termine del periodo. questi risultati sono stati confermati successivamente da bauer e colleghi [20] in uno studio multicentrico su 493 pazienti parzialmente rispondenti alla terapia con ssri, snri, amitriptilina o bupropione. i soggetti, suddivisi in modo casuale in tre gruppi, hanno ricevuto per 6 settimane clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 28 quetiapina: recenti sviluppi della ricerca preclinica il trattamento precedente più placebo, 150 o 300 mg/die di qtp. il miglioramento dei sintomi depressivi è risultato statisticamente significativo nei gruppi trattati con qtp 150 o 300 mg/die rispetto al placebo già dopo una settimana di trattamento e si è mantenuto tale fino al termine del periodo di sperimentazione. qtp sembra più efficace del placebo anche quando viene somministrata in associazione con una terapia cognitivocomportamentale in pazienti resistenti sia al trattamento con antidepressivo, sia alla terapia combinata antidepressivo + litio [23]. se l’associazione antidepressivo-antipsicotico atipico può essere giustificata dalla maggiore efficacia e, in parte, anche dalla più rapida comparsa dell’effetto, l’ulteriore somministrazione di un farmaco al paziente può comportare un maggiore rischio di comparsa di effetti indesiderati e la compromissione dell’esito finale della terapia. da questo punto di vista, il trattamento del paziente depresso con il solo antipsicotico atipico in sostituzione dell’antidepressivo tradizionale rappresenta una nuova e interessante strategia terapeutica. due recenti studi clinici hanno valutato l’efficacia della monoterapia con qtp fumarato a rilascio prolungato nel trattamento di pazienti affetti da depressione unipolare. weisler e colleghi [24] hanno reclutato 723 pazienti e li hanno suddivisi in 4 gruppi per il trattamento con placebo, 50,150 o 300 mg/ die di qtp. dopo 6 settimane di terapia è stata riscontrata una significativa riduzione dei sintomi nei pazienti trattati con tutte le dosi di qtp rispetto al placebo anche se dallo studio emerge che la dose di qtp più efficace è quella intermedia. in un secondo studio [25] l’efficacia di qtp fumarato a rilascio prolungato è stata confrontata con quella di duloxetina, antidepressivo ad azione mista serotoninergica/noradrenergica. sono stati inclusi nello studio 612 pazienti con diagnosi di disturbo depressivo maggiore, suddivisi in modo casuale in 4 gruppi per il trattamento con placebo, duloxetina 60 mg/die, qtp 150 mg/die o qtp 300 mg/die. dopo 6 settimane è stato riscontrato un netto miglioramento del quadro clinico nei gruppi di pazienti trattati con qtp e duloxetina rispetto al placebo. rispetto allo studio di weisler e colleghi [24], la massima efficacia di qtp è stata osservata a dosi più elevate (300 mg/die). efficacia clinica di qtp come ansiolitico alcuni studi citati in precedenza, oltre ai risultati relativi all’efficacia di qtp nei confronti dei sintomi depressivi, hanno riportato gli effetti benefici del farmaco (terapia combinata o monoterapia) sulla sintomatologia ansiosa associata ai disturbi dell’umore [16,17,20,24,25]. in uno studio pilota di katzman e colleghi [26] sono stati arruolati 40 pazienti affetti da disturbo da ansia generalizzata non rispondenti a 8 settimane di terapia tradizionale per effettuare una terapia combinata ansiolitico + qtp (dose media 386 mg/die). al termine delle 12 settimane di somministrazione di qtp i risultati indicano una significativa diminuzione del punteggio totale della hamilton anxiety rating scale (ham-a) rispetto alla condizione pre-trattamento e una remissione totale dei sintomi nel 72,1% dei pazienti. l’efficacia e la tollerabilità di qtp nel trattamento del disturbo d’ansia generalizzata sono state recentemente confermate in un vasto studio multicentrico nel quale sono stati inclusi 873 pazienti [27]. nello studio in questione della durata complessiva di 12 settimane, qtp fumarato a rilascio prolungato è stata somministrata in monoterapia (50 o 150 mg/die) e la sua efficacia è stata confrontata con quella del placebo e di paroxetina (20 mg/die), un ssri largamente utilizzato nel trattamento dei disturbi d’ansia acuta e cronica. i risultati dimostrano che qtp può essere impiegata con successo anche nel trattamento dei disturbi d’ansia cronica in pazienti non rispondenti alle cure tradizionali con il non trascurabile vantaggio (per esempio rispetto a paroxetina) di ridurre la sintomatologia già nel corso della prima settimana di somministrazione. studi preclinici le numerose segnalazioni reperibili nella letteratura del settore clinico riguardanti le proprietà antidepressive e ansiolitiche di qtp e di altri antipsicotici atipici (olanzapina per esempio), confermano l’utilità di questi psicofarmaci e indicano per alcuni di essi la concreta possibilità di estensione delle attuali indicazioni terapeutiche. tali studi, tuttavia, non consentono di trarre indicazioni importanti sui possibili bersagli subcellulari del farmaco o sui meccanismi molecolari che sottendono la sua l’efficacia clinica. le indicazioni cliniche dovrebbero perciò essere estese, confermate e approfondite in studi preclinici utilizzando (quando possibile) modelli in vivo che riproducano la patologia umana. i modelli animali costituiclinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 29 m. orsetti, f. di brisco, m. mauro, d. dallorto, p. ghi scono strumenti indispensabili per la ricerca in campo biologico in quanto consentono di riprodurre in organismi più semplici le caratteristiche essenziali di alcune patologie della specie umana. in particolare, i modelli animali dei disturbi psichiatrici possono essere definiti come “insoliti stati comportamentali” che possono essere contrastati in modo specifico dalla stessa terapia farmacologica in grado di controllare i sintomi della malattia e, almeno dal punto di vista teorico, devono presentare analogie con il disturbo umano nella sintomatologia, nell’eziopatogenesi e nella risposta al trattamento. la depressione tuttavia, come altre patologie psichiatriche, coinvolge processi cognitivi, emozionali e motivazionali difficilmente riproducibili nell’animale da laboratorio. inoltre, alcuni sintomi della depressione umana come l’ideazione suicidaria, la ridotta autostima e i ricorrenti sensi di colpa, non possono essere ricreati nell’animale e rappresentano quindi un ostacolo alla realizzazione del modello preclinico. tra i numerosi modelli animali di depressione sviluppati nel corso degli anni, lo stress cronico variato (chronic mild stress, cms) è senza dubbio quello che meglio soddisfa i tre criteri di validità proposti da willner [28]. il primo di questi criteri è la “validità predittiva” o “isomorfismo farmacologico”, cioè la corrispondenza tra l’effetto del farmaco nel modello e la sua efficacia clinica, nel caso specifico la capacità del modello animale di rispondere ai farmaci antidepressivi. il secondo è la “validità d’aspetto”, cioè la corrispondenza tra le modificazioni fisiologiche e comportamentali prodotte nel modello animale e i sintomi della patologia umana, mentre il terzo è la “validità del costrutto”, ovvero la corrispondenza tra il modello e la patologia alla luce delle attuali conoscenze sull’eziopatogenesi della depressione. il cms è un modello naturalistico ideato da katz [29] e perfezionato successivamente da willner [30], nel quale l’animale (tipicamente il ratto) viene sottoposto giornalmente per un periodo di 4-6 settimane a blandi stimoli stressogeni non evitabili, somministrati in successione casuale. il protocollo cms determina l’insorgenza di anedonia (progressiva perdita di interesse e piacere per attività normalmente gratificanti), un sintomo-cardine della patologia depressiva umana che, nel piccolo roditore, viene misurata con tecniche non invasive quali, per esempio, la diminuzione della preferenza nei confronti di una soluzione di saccarosio (1-2%), normalmente molto gradita all’animale. oltre alla diminuzione delle risposte agli stimoli appetitivi, il cms provoca altri sintomi paragonabili a quelli della depressione umana. sono stati osservati, per esempio, diminuzione del comportamento sessuale e del comportamento esplorativo, aggressività e rallentamento dell’attività motoria [31]. gli animali rispondono allo stress cronico anche con cambiamenti nei ritmi circadiani [32] e con disturbi del sonno [33]. sono state descritte anche alterazioni del sistema immunitario con aumento dei livelli di proteine del sistema del complemento e di proteine caratteristiche della fase acuta dell’infiammazione [34], diminuzioni del peso del timo e minore attività dei linfociti natural killer [35]. la somministrazione cronica di farmaci antidepressivi è in grado di contrastare i sintomi provocati dal cms e, come nell’uomo, una completa risposta al trattamento richiede 3-5 settimane. effetti del trattamento cronico con qtp nel cms, un modello animale di depressione a tutt’oggi, due soli antipsicotici atipici, qtp e olanzapina (olz), sono stati utilizzati nel modello cms per confermare le osservazioni cliniche sulla loro possibile efficacia antidepressiva. per entrambi i farmaci i dosaggi scelti per la somministrazione cronica sono quelli compresi nella fascia inferiore del range terapeutico e la durata complessiva del trattamento è stata di almeno 3 settimane. particolare attenzione è stata rivolta allo sviluppo dell’effetto in funzione del tempo, misurando ogni settimana le modificazioni individuali della preferenza al saccarosio [36,37]. l’efficacia del trattamento cronico con qtp (0,4-2 o 10 mg/ kg/die) nei confronti dell’anedonia indotta dall’applicazione del protocollo cms è stata confrontata con quella di amitriptilina (2 o 5 mg/kg/die) [37]. dopo 6 settimane di stress cronico solo la dose intermedia di qtp ha dimostrato un’efficacia pari a quella di amitriptilina nel contrastare l’anedonia indotta dal cms, mentre le altre due dosi impiegate nello studio (0,4 e 10 mg/kg/die) sono risultate inattive (tabella ii). l’effetto antidepressivo di qtp si sviluppa con un profilo temporale del tutto simile a quello di amitriptilina, in quanto compare 5 settimane dopo l’inizio del trattamento. l’analisi dei dati sperimentali suggerisce due importanti considerazioni: la prima è che l’effetto antidepressivo di qtp comclinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 30 quetiapina: recenti sviluppi della ricerca preclinica pare nel modello animale cms a dosaggi compresi nella fascia bassa del range terapeutico (indicativamente tra 100 e 250 mg/ die), in accordo con quanto indicato dagli studi clinici; la seconda considerazione è che i meccanismi molecolari che sottendono l’efficacia di qtp e di amitriptilina nel modello cms sono probabilmente simili e l’effetto antidepressivo di questi due farmaci non può essere provocato, come nel caso di olz [36], da un meccanismo “acuto” come il blocco del recettore 5ht2a della serotonina in quanto l’insorgenza dell’effetto è ritardata. gefvert e colleghi [38] hanno studiato in vivo in pazienti schizofrenici la percentuale di occupazione recettoriale d2 e 5ht2a dopo somministrazione di qtp: a una dose pari a 450 mg/die, il farmaco occupa solo il 57% dei recettori 5ht2a e una percentuale molto bassa di recettori d2 dopaminergici (< 30%). dal momento che le dosi di qtp utilizzate da gefvert e colleghi [38] sono 2-3 volte superiori rispetto a quelle capaci di contrastare i sintomi clinici della depressione o l’anedonia nel modello cms, è ragionevole escludere che l’efficacia antidepressiva di qtp possa essere determinata dal blocco del recettore 5ht2a o da un meccanismo anti-dopaminergico d2. recenti ipotesi sul meccanismo d’azione di qtp metaboliti attivi di qtp qtp viene biotrasformata nella fase i del metabolismo epatico ad opera delle monoossigenasi a funzione mista p450-dipendenti. l’isoforma del citocromo p450 coinvolta sembra essere la cyp3a4 e dalle reazioni di fase i si formano numerosi metaboliti, dei quali poco si conosce circa la possibile attività farmacologica. tra questi il più studiato è senza dubbio n-desalchil-qtp, derivato da qtp per rimozione della catena laterale dall’anello piperazinico. l’analisi del profilo di affinità recettoriale di n-desalchil-qtp rivela che il metabolita, rispetto a qtp, ha una maggiore affinità nei confronti dei recettori 5ht1a (circa 10 volte), dei recettori 5ht7 (circa 4 volte) e soprattutto dei recettori muscarinici colinergici [39]. studi funzionali su cellule isolate hanno dimostrato che n-desalchil-qtp è un agonista parziale ai recettori 5ht1a con una efficacia superiore a quella di qtp e paragonabile a quella degli ansiolitici buspirone e gepirone. un dato particolarmente interessante riguarda la capacità di n-desalchil-qtp di bloccare l’attività dei neurotrasportatori della na e della 5ht: in cellule hek 293 trasfettate con neurotrasportatori di specie umana per la na (hnet), la 5ht (hsert) e la da (hdat), il metabolita di qtp ha dimostrato di possedere un’elevata e selettiva attività bloccante nei confronti del hnet rispetto al hsert (oltre 100 volte) e nessuna attività nei confronti del hdat. al contrario, qtp possiede solo un’attività molto debole verso il hnet ed è inattiva nei confronti degli altri neurotrasportatori. è possibile che alcune proprietà farmacologiche del metabolita (blocco della ricaptazione della na, agonismo parziale ai recettori 5ht1a e antagonismo nei confronti del recettore 5ht7) giochino un ruolo importante nell’effetto antidepressivo di qtp e, secondo jensen e colleghi [39], potrebbero spiegare la comparsa ritardata di tale effetto. la capacità di bloccare la ricaptazione delle monoamine è infatti una proprietà ben nota di molti farmaci antidepressivi e gli agonisti parziali del recettore 5ht1a serotoninergico posseggono attività ansiolitica e antidepressiva. inoltre, i recettori 5ht7 sembrano coinvolti nella eziopatogenesi della depressione e dei disturbi del sonno e i composti che, al pari di n-desalchil-qtp bloccano il recettore 5ht7, si sono dimostrati attivi nel test del nuoto forzato di porsolt, che consente di valutare nel piccolo roditore l’efficacia dei farmaci antidepressivi [40]. la dimostrazione sperimentale che n-desalchil-qtp ha attività antidepressiva è stata fornita da jensen e colleghi [39] i quali, in una linea di topi mutanti (gene vmat2), hanno osservato una diminuzione del tempo di immobilità trattamento 7° gg 14° gg 21° gg 28° gg 35° gg 42° gg salina 85 ± 8 61 ± 8 57 ± 7 56 ± 8 51 ± 6 53 ± 5 amitriptilina 2 mg/kg/die 91 ± 6 62 ± 4 58 ± 6 90 ± 5* 101 ± 7* 98 ± 6* amitriptilina 5 mg/kg/die 88 ± 7 61 ± 6 65 ± 5 88 ± 3* 96 ± 3* 99 ± 5* qtp 0,4 mg/kg/die 85 ± 7 75 ± 7 56 ± 4 63 ± 5 51 ± 6 54 ± 4 qtp 2 mg/kg/die 87 ± 4 78 ± 7 59 ± 5 69 ± 7 92 ± 4* 97 ± 5* qtp 10 mg/kg/die 92 ± 6 64 ± 5 65 ± 6 68 ± 7 66 ± 10 68 ± 9 tabella ii variazione percentuale del consumo di saccarosio, indicativo dello stato anedonico del ratto sottoposto al protocollo cms dopo somministrazione cronica di salina, qtp e amitriptilina. dati espressi come media ± sem. modificata da [37] * p < 0,01 nei confronti del gruppo trattato con salina (t di student per dati non appaiati) clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 31 m. orsetti, f. di brisco, m. mauro, d. dallorto, p. ghi nel test di sospensione per la coda dopo somministrazione acuta e cronica del metabolita di qtp. la linea di topi vmat2 è stata ottenuta dal ceppo 129/c57bl6 mediante delezione dei domini transmembrana 3 e 4 della proteina vmat2, il trasportatore vescicolare delle monoamine [41]. negli animali eterozigoti (vmat2 het) tale mutazione è compatibile con la vita, gli animali mostrano una ridotta funzionalità monoaminergica centrale e sviluppano un fenotipo “depresso”, come dimostra l’aumento del tempo di immobilità nel test di sospensione per la coda [42]. n-desalchil-qtp, somministrata in acuto (0,1-0,5 o 1 mg/kg) o in trattamento cronico per 14 giorni (0,5 mg/kg/die) aumenta il tempo d’immobilità dei topi vmat2 het nel test di sospensione per la coda, ripristinando il comportamento tipico degli animali wild type. modificazioni della trascrizione genica l’interferenza con la funzione di uno o più sistemi neurochimici determinata dall’attivazione o dal blocco di proteine recettoriali, dall’inibizione di enzimi della sintesi o del catabolismo o ancora dalla modificazione dei sistemi di “spegnimento” del segnale nelle sinapsi sono tutti meccanismi che possono determinare effetti acuti, cioè effetti che compaiono in tempi rapidi. la presenza costante di uno stimolo non fisiologico (per esempio lo stress cronico o la somministrazione ripetuta di un farmaco psicoattivo) che per lungo tempo interferisce con la funzionalità di un sistema neurochimico attraverso uno dei meccanismi citati, può provocare nel cervello modificazioni permanenti delle vie di trasduzione del segnale, dei livelli di neurotrofine, dei meccanismi di apoptosi e, in ultimo, dei fenomeni di plasticità neuronale. l’orientamento oggi prevalente per ciò che concerne l’eziopatogenesi delle malattie psichiatriche è che, oltre ai possibili fattori di rischio legati alla predisposizione genetica, sia importante la “pressione” esercitata da fattori di natura ambientale (stress fisico e psichico, condizioni e stile di vita, abuso di sostanze) che potrebbero agire come concausa o fattore scatenante. per esempio, il polimorfismo di alcuni geni (quasi tutti legati alla funzione dei sistemi monoaminergici centrali) è stato indicato come responsabile della predisposizione genetica nei confronti del disturbo depressivo maggiore: l’enzima triptofano idrossilasi, responsabile della sintesi di 5ht [43], il neurotrasportatore responsabile della ricaptazione sinaptica della 5ht [44], il recettore 5ht1a [45], gli enzimi tirosina idrossilasi [46] e catecol-o-metiltransferasi [47], responsabili della sintesi e del catabolismo della na, il neurotrasportatore della na [48], i recettori d2, d3 e d4 della dopamina [49] e la neurotrofina bdnf [50]. parimenti, tra i fattori ambientali, lo stress cronico sembra giocare un ruolo prevalente nell’eziopatogenesi della depressione [51,52]. in sintesi, pur essendo considerata una malattia multifattoriale, la depressione può essere definita come una disfunzione nella quale i diversi fattori eziologici danno l’avvio a meccanismi cellulari differenti che tendono in ultimo a convergere su obiettivi comuni, modificando in alcune aree cerebrali la funzione di geni coinvolti nei fenomeni di sopravvivenza neuronale e rimodellamento dell’architettura sinaptica. i farmaci antidepressivi e la terapia elettroconvulsiva, in grado di contrastare con efficacia i sintomi della depressione, agirebbero anch’essi seguendo schemi analoghi ma in direzione opposta, ripristinando i meccanismi fisiologici di plasticità sinaptica. il tempo di latenza di 4-5 settimane necessario per la comparsa dell’effetto antidepressivo di qtp sembrerebbe indicare che anche questo farmaco agisce sugli stessi effettori intracellulari che costituiscono i bersagli degli antidepressivi e degli stabilizzanti dell’umore. per verificare questa ipotesi, abbiamo studiato nel modello cms le modificazioni della trascrizione genica provocate dalla somministrazione del protocollo di stress cronico e dal contemporaneo trattamento con salina o qtp 2 mg/ kg/die [53]. lo studio è stato effettuato utilizzando la tecnica del dna microarray, che consente di “fotografare” il livello di trascrizione dell’intero genoma al momento del prelievo del tessuto cerebrale. nel nostro studio abbiamo utilizzato il genechip© rat genome 230 2.0 dell’affymetrix contenente le sequenze di 31.099 geni e abbiamo effettuato l’ibridizzazione con rna totale proveniente dalla corteccia prefrontale di ratti naïve trattati con salina e ratti sottoposti al protocollo cms (6 settimane) trattati con salina o qtp 2 mg/kg/die. qtp è efficace nel contrastare le modificazioni stress-indotte della regolazione di 42 geni, riportando i livelli di trascrizione ai valori basali (tabella iii; tabella iv ). il trattamento cronico con qtp è in grado di modificare anche la trascrizione di altri 19 geni, nei confronti dei quali il protocollo cms non ha effetto (tabella v; tabella vi). clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 32 quetiapina: recenti sviluppi della ricerca preclinica unigene id simbolo nome del gene rn.53933 gpsm1 g-protein signaling modulator 1 rn.91884 syt7 synaptotagmin 7 rn.22981 phactr1 phosphatase and actin regulator 1 rn.203139 clic1 chloride intracellular channel 1 rn.91245 gad1 glutamate decarboxylase 1# rn.10346 gja1 gap junction membrane channel protein alpha rn.9367 senp2 sumo/sentrin specific protease 2# rn.161799 itga6 integrin, alpha 6 rn.37500 homer1 homer homolog 1 (drosophila)# rn.10040 grid1 glutamate receptor, ionotropic, delta 1 rn.107499 camk2a calcium/calmodulin-dependent protein kinase ii alpha subunit# rn.10691 nrcam neuron-glia-cam-related cell adhesion molecule rn.45523 plcb1 phospholipase c, beta 1# rn.40435 nfib nuclear factor i/b# rn.64565 ttpa tocopherol (alpha) transfer protein rn.9439 slc7a1 solute carrier family 7 (cationic amino acid transporter, y+ system), member 1 rn.33319 acadvl acyl-coenzyme a dehydrogenase, very long chain rn.207207 mertk c-mer proto-oncogene tyrosine kinase rn.207886 pex2 peroxin 2 rn.888 hsd11b1 hydroxysteroid 11-beta dehydrogenase 1 rn.15133 numbl numb-like rn.207527 cacng8 calcium channel, voltage-dependent, gamma subunit 8 rn.161851 sfxn5 sideroflexin 5 tabella iii geni la cui trascrizione è diminuita dallo stress cronico e aumentata dal trattamento cronico con qtp 2 mg/kg/die. qtp al termine della sperimentazione riporta i livelli di trascrizione ai valori basali. # il risultato del dna microarray è stato confermato in successivi esperimenti con la tecnica real time pcr. modificato da [53] unigene id simbolo nome del gene rn.27923 btg2 b-cell translocation gene 2, antiproliferative rn.15806 junb jun-b oncogene# rn.1441 gdi2 gdp dissociation inhibitor 2 rn.2178 ghr growth hormone receptor rn.34151 sybl1 synaptobrevin-like 1 rn.44369 ptgs2 prostaglandin-endoperoxide synthase 2# rn.10627 tmsbl1 thymosin beta-like protein 1 rn.103750 fos fbj murine osteosarcoma viral oncogene homolog rn.48672 ramp3 receptor (calcitonin) activity modifying protein 3 rn.91523 eif4a1 eukaryotic translation initiation factor 4a1 rn.203382 rragb ras-related gtp binding b rn.4054 acat1 acetyl-coenzyme a acetyltransferase 1 rn.13196 bzw2 basic leucine zipper and w2 domains 2 rn.3361 eif1a eukaryotic translation initiation factor 1a rn.42893 cnksr2 connector enhancer of kinase suppressor of ras 2 rn.52632 serpini1 serine (or cysteine) peptidase inhibitor, clade i, member 1 rn.16015 wfs1 wolfram syndrome 1 homolog (human) rn.98260 dusp1 dual specificity phosphatase 1 rn.9560 marcks myristoylated alanine rich protein kinase c substrate# tabella iv geni la cui trascrizione è aumentata dallo stress cronico e diminuita dal trattamento cronico con qtp 2 mg/kg/die. qtp al termine della sperimentazione riporta i livelli di trascrizione ai valori basali. # il risultato del dna microarray è stato confermato in successivi esperimenti con la tecnica real time pcr. modificato da [53] clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 33 m. orsetti, f. di brisco, m. mauro, d. dallorto, p. ghi i geni coinvolti nelle modificazioni comportamentali del modello cms, nei confronti dei quali qtp mostra la sua efficacia terapeutica, sono stati classificati dal punto di vista funzionale seguendo le indicazioni del gene ontology consortium. i risultati indicano che i possibili effettori dell’azione antidepressiva di qtp sono implicati in processi biologici cruciali per lo sviluppo e la sopravvivenza neuronale quali regolazione della trasduzione del segnale, biogenesi e organizzazione delle membrane, morfogenesi dei contatti sinaptici, trasporto dei cationi inorganici, catabolismo lipidico e sviluppo del sistema nervoso centrale. alcuni risultati del dna microarray sono stati successivamente confermati mediante pcr real time, una tecnica che consente di valutare in modo più accurato le concentrazioni tissutali di rna messaggero relativo a ogni singolo gene. ptgs2. numerose osservazioni mettono in relazione la depressione con i processi infiammatori [54]. la somministrazione di citochine pro-infiammatorie negli animali provoca la ben nota malattia da “citochine” (sickness behavior), di cui sintomi tipici sono anoressia, rallentamento psicomotorio, anergia, disturbi del sonno e anedonia [55]. pgts2 è il gene che codifica per l’isoforma inducibile della cicloossigenasi (cox-2), enzima limitante la sintesi delle prostaglandine. la sua sovraregolazione, già osservata da altri autori in modelli preclinici di depressione diversi dal cms [56], comprova l’ipotesi che lo stress possa indurre una risposta infiammatoria nel sistema nervoso centrale e che ciò costituisca una condizione predisponente l’insorgenza di patologie psichiatriche. in accordo con questi studi, i nostri risultati confermano che lo stress cronico può provocare nel sistema nervoso centrale un aumento dei marker della risposta infiammatoria correlabile con la comparsa dei sintomi della depressione e che tale processo potrebbe essere contrastato dal trattamento cronico con qtp. lee e colleghi [57], hanno dimostrato che lo stress da immobilizzazione induce morte neuronale nella corteccia cerebrale di ratto e questo processo sembra essere mediato da una sovraregolazione di ptgs2, della nadph ossidasi, dell’interleuchina 1b e da un incremento della concentrazione di specie reattive dell’ossigeno. nello studio di lee e colleghi [57] il pretrattamento con antiossidanti protegge dalla morte neuronale. l’effetto di qtp sul gene ptgs2 da noi osservato potrebbe perciò costituire una conferma del possibile ruolo di questo farmaco come agente neuroprotettivo. unigene id simbolo nome del gene rn.11231 dnm2 dynamin 2 rn.11218 col12a1 procollagen, type xii, alpha 1 rn.208889 pde8b phosphodiesterase 8b rn.22422 hes5 hairy and enhancer of split 5 (drosophila)# rn.9822 rab3d rab3d, member ras oncogene family rn.57243 gpr64 g protein-coupled receptor 64 rn.34842 tax1bp3 tax1 (human t-cell leukemia virus type i) binding protein 3 rn.1023 scd1 stearoyl-coenzyme a desaturase 1 rn.10014 fabp7 fatty acid binding protein 7, brain tabella v geni la cui trascrizione non è modificata dallo stress cronico ma è aumentata dal trattamento cronico con qtp 2 mg/kg/die # il risultato del dna microarray è stato confermato in successivi esperimenti con la tecnica real time pcr. modificato da [53] unigene id simbolo nome del gene rn.46942 elovl6 elovl family member 6, elongation of long chain fatty acids (yeast) rn.98337 chd8 chromodomain helicase dna binding protein 8 rn.98522 rbms1 rna binding motif, single stranded interacting protein 1 rn.6431 igfbp6 insulin-like growth factor binding protein 6 rn.72939 cacng2 calcium channel, voltage-dependent, gamma subunit 2 rn.6272 kpna1 karyopherin (importin) alpha 1 rn.9903 capon c-terminal pdz domain ligand of neuronal nitric oxide synthase# rn.44869 pde10a phosphodiesterase 10a rn.22361 rtn4rl1 reticulon 4 receptor-like 1 rn.91185 mobp myelin-associated oligodendrocytic basic protein tabella vi geni la cui trascrizione non è modificata dallo stress cronico ma è diminuita dal trattamento cronico con qtp 2 mg/kg/die. # il risultato del dna microarray è stato confermato in successivi esperimenti con la tecnica real time pcr. modificato da [53] clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 34 quetiapina: recenti sviluppi della ricerca preclinica gad1. diversi studi sembrano includere il sistema gabaergico tra i possibili responsabili della patogenesi della depressione. in studi condotti su animali, lo stress cronico diminuisce i livelli di gaba in diverse aree cerebrali [58] ma una riduzione di circa il 52% dei livelli di gaba è stata riscontrata anche nella corteccia occipitale di pazienti depressi da sanacora e colleghi [59]. gad1 è l’enzima responsabile della sintesi del gaba e svolge un ruolo critico nel mantenimento dei livelli di gaba nel cervello. la diminuzione della trascrizione di gad1 osservata nella corteccia frontale dei ratti sottoposti a cms è in linea con l’ipotesi secondo la quale la depressione può essere associata a una diminuzione dei livelli di gaba nel cervello. inoltre, la sovraespressione di gad1 da parte di qtp conferma i risultati di studi precedenti che riportano un aumento dell’espressione corticale di gad1 dopo trattamento cronico con clozapina [60,61] e acido valproico [62]. plcb1. plcb1 è un gene che codifica per un enzima abbondantemente espresso nell’ippocampo e nella corteccia cerebrale, responsabile della conversione del fosfatidilinositolo 4,5-bifosfato a inositolo 1,4,5-trifosfato e diacilglicerolo (due secondi messaggeri intracellulari che regolano i flussi di ca2+ intracellulare). arinami e colleghi [63] hanno descritto una possibile associazione tra la schizofrenia e il gene plcb1 mentre shirakawa e colleghi [64] hanno osservato un’anormale espressione di questo gene nei pazienti schizofrenici. inoltre, nel learned helplessness, un modello animale di depressione, l’espressione della fosfolipasi c è diminuita nell’ippocampo e nella corteccia frontale [65]. è quindi possibile il coinvolgimento di questo gene in patologie come la schizofrenia e la depressione e la sovraespressione di plcb1 ad opera di qtp potrebbe rappresentare uno dei possibili meccanismi alla base della sua efficacia terapeutica. senp2. il cms induce diminuzione e la terapia con qtp aumento dell’espressione di senp2, gene implicato nei processi di sumoilazione. nei neuroni la sumoilazione è una modifica post-traduzionale che coinvolge il legame di uno o più gruppi sumo a proteine-bersaglio. la proteasi senp2 ha la funzione specifica di rompere i legami tra sumo e le proteine-bersaglio. il processo di sumoilazione non è funzionalmente correlato con l’ubiquitinazione; infatti mentre il destino delle proteine ubiquitinate è la degradazione, la sumoilazione sembra provocare alterazioni dell’eccitabilità sinaptica e cambiamenti dinamici dei collegamenti sinaptici tra neuroni [66]. la presenza di proteine sumoilate è stata riscontrata in varie malattie neurodegenerative e, alcuni marker di queste malattie sono stati identificati come bersagli di sumo [67]. i nostri dati indicano che nella corteccia prefrontale di ratti anedonici l’espressione di senp2 è ridotta e che qtp è in grado di contrastare questa anomalia. al momento non è possibile fornire un’interpretazione plausibile del legame che intercorre tra sumoilazione e depressione, anche se quella emersa nel nostro lavoro è la prima indicazione in tale senso. marcks. marcks è un altro gene coinvolto nella via di trasduzione del fosfatidilinositolo che subisce modificazioni della trascrizione ad opera della stress cronico (aumento) e del trattamento con qtp (diminuzione). la proteina codificata da marcks è uno dei substrati della proteina chinasi c ed è implicata nello sviluppo del cervello e nel rimodellamento del citoscheletro. studi preclinici indicano una diminuzione dell’espressione di marcks da parte del litio [68] e del valproato [69], risultati recentemente confermati da mcquillin e colleghi [70] in uno studio di dna microarray. nell’insieme, i nostri risultati e i dati di letteratura sembrano confermare che qtp e stabilizzanti dell’umore condividono alcuni bersagli cellulari e agiscono con meccanismi d’azione simili. hes5. lemonde e colleghi [71] hanno dimostrato una correlazione tra il polimorfismo del gene che codifica il recettore 5ht1a e la predisposizione alla depressione. il genotipo g(-1019) è infatti due volte più frequente nei pazienti depressi e quattro volte più frequente nei depressi morti per suicidio. secondo gli autori, il polimorfismo c(1019)g potrebbe modificare la regolazione dell’espressione del gene 5ht1a alterando il legame di nudr e hes5, due repressori, alla regione del promotore del gene. una diminuzione dell’attività di nudr e hes5 comporterebbe un aumento dell’espressione di recettori 5ht1a (ad azione autoinibitoria) nei nuclei del rafe e la conseguente diminuzione della funzione serotoninergica. un intervento terapeutico in grado di aumentare l’espressione di nudr e hes5 potrebbe quindi contribuire a riattivare la neurotrasmissione serotoninergica. nel modello cms qtp è in grado di provocare una sovraespressione di hes5 nella corteccia prefrontale: se sarà possibile estendere questi clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 35 m. orsetti, f. di brisco, m. mauro, d. dallorto, p. ghi risultati anche ai nuclei del rafe, che rappresentano un’area critica per la funzione serotoninergica centrale, si potrà allora affermare che la regolazione di hes5 (e indirettamente dell’espressione del recettore 5ht1a) è un probabile meccanismo responsabile dell’efficacia antidepressiva di qtp. conclusioni il lancio sul mercato di qtp ha rappresentato solo l’inizio di un lungo percorso che ha consentito di mettere in evidenza tutto il potenziale di questa molecola nell’ambito della terapia delle malattie psichiatriche. in questo contesto, la ricerca preclinica, pur con i limiti che sono stati precedentemente ricordati, ha contribuito in modo determinante a confermare i dati clinici e a identificare i bersagli intracellulari e i meccanismi responsabili dell’efficacia del farmaco. dunque, grazie anche al supporto della ricerca preclinica, qtp fumarato a rilascio prolungato in somministrazione orale, la più recente formulazione sviluppata, ha ricevuto l’approvazione da parte della food and drug administration (fda) per il trattamento acuto della schizofrenia nell’adulto il 17 maggio 2007. oggi, a due anni dalla data di commercializzazione, il prodotto ha ottenuto l’approvazione dalla fda per la terapia di mantenimento della schizofrenia nell’adulto (novembre 2007), per il trattamento acuto degli episodi maniacali, depressivi e misti e per la terapia di mantenimento del disturbo bipolare i in aggiunta a litio e valproato, sempre nell’adulto (ottobre 2008). le stesse indicazioni sono state approvate nell’unione europea, con procedura di mutuo riconoscimento che interessa 17 paesi, nel novembre 2008. inoltre l’azienda ha recentemente richiesto l’estensione delle indicazioni del prodotto anche al trattamento del disturbo depressivo maggiore e del disturbo d’ansia generalizzata (nell’adulto) e, al momento, è in attesa di una possibile approvazione. sulla base di queste indicazioni, attualmente qtp è l’unico antipsicotico atipico approvato negli stati uniti e in europa per il trattamento in monoterapia della depressione bipolare e, tra gli atipici, è l’unico che può essere oggi utilizzato in monoterapia per trattare l’intero spettro dei disturbi dell’umore nel malato bipolare (tabella vii). disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria. farmaco episodio depressivo episodio maniacale episodio misto monoterapia terapia combinata monoterapia terapia combinata monoterapia terapia combinata quetiapina x x x x x olanzapina x x x x x risperidone x x x x aripiprazolo x x x x ziprasidone x x tabella vii indicazioni terapeutiche degli antipsicotici atipici nel disturbo bipolare bibliografia richelson e, souder t. binding of antipsychotic drugs to human brain receptors: focus on newer 1. generation compounds. life sci 2000; 68: 29-39 borison rl, arvanitis la, miller bg, the us seroquel study group. ici 204,636, an atypical 2. antipsychotic: efficacy and safety in a multicenter, placebo-controlled trial in patients with schizophrenia. j clin psychopharmacol 1996; 16: 158-69 small jg, hirsch sr, arvanitis la, miller bg, link cg, the seroquel study group. quetiapine 3. in patients with schizophrenia. arch gen psychiatry 1997; 54: 549-57 peuskens j, link cg. a comparison of quetiapine and chlorpromazine in the treatment of 4. schizophrenia. acta psychiat scand 1997; 96: 265-73 clinical management issues 2010; 4(1) ©seed tutti i diritti riservati 36 quetiapina: recenti sviluppi della ricerca preclinica arvanitis la, miller gb. multiple fixed doses of seroquel (quetiapine) in patients with acute 5. exacerbation of schizophrenia: a comparison with haloperidol and placebo. the seroquel trial study group. biol psichiatry 1997; 42: 233-46 copolov dl, link cgg, kowalcyk b. a multicentre, doubleblind, randomised comparison 6. of quetiapine (ici 204,636, “seroquel”) and haloperidol in schizophrenia. psychol med 1997; 30: 95-106 mcintyre rs, brecher m, paulsson b, huizar k, mullen j. quetiapine or haloperidol as 7. monotherapy for bipolar mania – a 12-week, double-blind, randomised, parallel group, placebocontrolled trial. eur neuropsychopharmacol 2005; 15: 573-85 bowden cl, grunze h, mullen j, brecher m, paulsson b, jones m et al. a randomized, double-8. blind, placebo-controlled efficacy and safety study of 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brisco, m. mauro, d. dallorto, p. ghi bandelow b, chouinard g, bobes j, ahokas a, eggens i, liu s et al. extended-release 27. quetiapine fumarate (quetiapine xr): a once-daily monotherapy effective in generalized anxiety disorder. data from a randomized, double-blind, placeboand active-controlled study. int j neuropsychopharmacol 2009; 20: 1-16 willner p. animal models as simulations of depression. 28. trends pharmacol sci 1991; 12: 131-6 katz r. animal model of depression: pharmacological sensivity of hedonic deficit. 29. pharmacol biochem behav 1982; 16: 965-8 willner p, towell a, sampson d, sophokleous s, muscat r. reduction of sucrose preference 30. by chronic mild stress and its restoration by a tricyclic antidepressant. psychopharmacology 1987; 93: 358-64 d’aquila p, brain pf, willner p. effect of chronic mild stress in behavioural tests revelant to 31. anxiety and depression. physiol behav 1994; 62: 421-6 gorka z, morly e, papp m. the effect of chronic mild stress on circadian 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infettive, azienda ospedaliera universitaria pisana, pisa 2 u.o. gastroenterologia, ospedale unico della versilia, lido di camaiore, lucca 3 u.o. farmacia, ospedale unico della versilia, lido di camaiore, lucca 4 u.o. medicina, ospedale unico della versilia, lido di camaiore, lucca abstract patients with inflammatory bowel diseases (ibds) have greater risk of developing c. difficile infection (cdi). in these patients, cdi have worse outcome, may be associated with increased risk of bacteremia and candidemia and may be misdiagnosed as relapse of ibd, also because of the absence of typical findings of cdi at colonoscopy. a 58-year-old man with acute ulcerative colitis treated with steroids was hospitalized for fever and recrudescence of inflammatory diarrhea. during the hospitalization, the fever was treated with broad spectrum antibiotics and systemic anti-fungal therapy. candida mannan antigen and the molecular screening for c. difficile resulted positive. a first course of vancomycin by mouth was unsuccessful, therefore we started a 10-day course of fidaxomicin. after five days of therapy, diarrhea disappeared. a few-week course of fluconazole therapy was performed to complete the treatment of invasive candidiasis. at six-month follow-up no relapse of cdi was documented. keywords: clostridium difficile colitis; inflammatory bowel disease; fidaxomicin; ulcerative colitis efficacy of fidaxomicin therapy, after failure of vancomycin therapy, for treating a c. difficile colitis in a patient with ulcerative colitis cmi 2015; 9(suppl 1): 7-10 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i1s.955 caso clinico corresponding author carlo tascini c.tascini@ao-pisa.toscana.it disclosure il presente supplemento è stato realizzato con il supporto di astellas pharma s.p.a. perché descriviamo questo caso l’infezione da c. difficile è molto grave nei pazienti con malattie croniche infiammatorie intestinali. la terapia consigliata è vancomicina orale, ma la percentuale di recidive e di forme gravi che necessitano di chirurgia rimane elevata. nei casi più gravi o nei casi di fallimento di vancomicina, fidaxomicina potrebbe essere una valida alternativa introduzione il microbioma umano contiene circa 1014 batteri e più di 1.000 specie batteriche. l’alterazione del microbioma intestinale (disbiosi) è legata a molte condizioni gastrointestinali. la disbiosi può essere molto importante nelle malattia infiammatoria cronica intestinale (inflammatory bowel disease – ibd), in quanto potrebbe essere implicata sia nella patogenesi, sia nella generazione di quadri di gravità della malattia, correlando con la formazione di ascessi e la necessità di interventi chirurgici [1,2]. d’altro canto, anche l’infezione da c. difficile viene favorita dalla perdita dell’equilibrio del microbioma causato dall’uso di antibiotici [3]. l’infezione da c. difficile (cdi) nei pazienti con ibd presenta alcune caratteristiche peculiari rispetto a quella contratta dai pazienti senza ibd: può causare malattie con maggiore gravità e che presentano un maggior rischio di andare incontro a intervento chirurgico; ciò determina anche un aumento delle endoscopie a cui il paziente viene sottoposto a causa della difficoltà nel porre la diagnosi corretta, nonché un numero maggiore di complicanze quali megacolon tossico e perforazioni intestinali [4], un aumento delle colectomie, della degenza e della mortalità [5]. inoltre, da un’analisi dei ricoveri negli stati uniti risultava che i pazienti ricoverati per cdi e ibd avevano un rischio di mortalità 4 volte maggiore rispetto a ibd o cdi solamente [5]; viene favorita se l’ibd colpisce il colon (in effetti la stragrande maggioranza di pazienti con ibd e cdi presentano ibd proprio nel colon [6]); avviene in pazienti più giovani; avviene generalmente al di fuori dell’ospedale, a differenza di quanto avviene nella maggior parte dei casi in pazienti senza ibd, che la acquisiscono come infezione nosocomiale [7]; viene favorita dall’uso dei farmaci usati per la cura della ibd, quali antibiotici sistemici o steroidi, che possono aumentare di più di tre volte il rischio di acquisire la cdi; altri immunosoppressori, come metotrexato e i farmaci biologici, non sono invece associati a un aumentato rischio [8]; si possono presentare con diarrea ematica, probabilmente perché la parete del colon è più fragile e sanguina più facilmente; nei pazienti con confezionamento di tasca perianale, come cura chirurgica della ibd, l’infezione da c. difficile si manifesta come infiammazione della tasca, aumento delle evacuazioni e perdita di peso [9]; nei pazienti con ileostomia (effettuata a seguito della ibd), la cdi si evidenzia con un aumento della portata della ileostomia associato a febbre e leucocitosi [8]; l’infiammazione, che dipende da entrambe le cause, può ridurre la barriera intestinale e favorire il passaggio di batteri e candida, commensali della flora microbica intestinale [10-12]. la difficoltà clinica nel distinguere una riacutizzazione di ibd da una cdi risiede nella somiglianza dei sintomi: infatti entrambe si presentano con diarrea, dolore addominale, febbre e leucocitosi. caso clinico descriviamo il caso clinico di un uomo di 58 anni al quale viene diagnosticata una rettocolite ulcerosa (rcu) a luglio 2013. viene trattato per due mesi con mesalazina topica e beclometasone per via sistemica. viene ricoverato alla fine di settembre 2013 per febbre. le emocolture e l’urinocoltura risultano negative, così come la ricerca del dna del citomegalovirus (cmv) su sangue periferico e sulla biopsia rettale. il paziente viene trattato con piperacillina/tazobactam e steroidi per uso sistemico (metilprednisolone 80 mg/die) con miglioramento del quadro endoscopico e viene dimesso dopo 10 giorni di ricovero con terapia con ciprofloxacina per 7 giorni. farmaco usato tempo in terapia risoluzione diarrea vancomicina 10 giorni no fidaxomicina 10 giorni sì, dopo 5 giorni tabella i. schema relativo all’andamento della diarrea in relazione ai farmaci usati dopo circa 20 giorni, il paziente presenta di nuovo febbre e peggioramento della diarrea e viene ricoverato. durante il ricovero, l’urinocoltura risulta positiva per e. coli produttore di β-lattamasi a spettro esteso (esbl). i globuli bianchi sono 20.000/ mm3 con 80% di neutrofili. viene istituita una terapia endovenosa con ertapenem 1 g al giorno per 7 giorni. per la positività dell’antigene (ag) mannano di candida (910 pg/ml) viene iniziata una terapia con caspofungina, partendo con una dose di carico di 70 mg e proseguendo con una dose giornaliera di 50 mg. l’ag candida è diventato negativo dopo 15 giorni di terapia con caspofungina. un test molecolare per la ricerca della tossina di c. difficile risulta positivo, pertanto viene instaurata una terapia con vancomicina orale alla dose di 125 mg ogni 6 ore. il paziente viene dimesso con vancomicina e fluconazolo. la diarrea a domicilio è persistita nonostante 10 giorni di tale terapia, pertanto viene decretato il fallimento di vancomicina e viene intrapresa una terapia con fidaxomicina 200 mg ogni 12 ore per 10 giorni. la diarrea si è risolta in quinta giornata (tabella i). il paziente ha poi completato 2 settimane di terapia con fluconazolo orale, la rcu è stata trattata con terapia topica con mesalazina e terapia steroidea a scalare. a 6 mesi di follow-up il paziente non ha presentato recidiva né di colite da c. difficile né dell’infezione invasiva da candida. domande da porsi di fronte a questo caso la recidiva di ibd può essere causata dal c. difficile? le forme gravi di cdi sono sempre da trattare con vancomicina? in un paziente con ibd fortemente immunodepresso, la cdi deve essere sempre trattata in prima battuta con vancomicina? discussione i pazienti con ibd, e specialmente quelli con rcu, hanno forme più gravi di colite da c. difficile. in particolare la rcu è gravata da percentuali di colectomia del 27% e di recidiva a 30 giorni del 24% [13,14]. inoltre la terapia con vancomicina è più efficace rispetto a metronidazolo, ma nei casi più gravi (leucocitosi > 15.000/mm3 e albumina < 2,5 g/dl) le colectomie nei pazienti trattati con vancomicina sono del 30% circa [13,14]. in uno studio monocentrico, vancomicina come terapia di attacco ha ridotto la percentuale di colectomia dal 45% al 25%: un quarto dei pazienti con ibd e cdi, cioè, veniva comunque sottoposto a intervento chirurgico [15]. quindi nei pazienti ibd con forme gravi o che non rispondono alla terapia con vancomicina, può essere indicato l’uso di fidaxomicina. il nostro caso ha permesso di verificare l’efficacia di fidaxomicina in un paziente con una forma grave che non aveva risposto a vancomicina. il trattamento con fidaxomicina ha inoltre permesso il trattamento domiciliare e ha evitato la ri-ospedalizzazione. per le informazioni in nostro possesso, questo sarebbe il primo caso di un paziente con ibd trattato con fidaxomicina. pertanto si potrebbe ipotizzare di usare fidaxomicina come terapia di prima linea nei casi di cdi associati a ibd: tale terapia potrebbe ridurre i casi di recidiva e i casi che vengono sottoposti a intervento chirurgico. inoltre spesso i pazienti con ibd e riacutizzazione di malattia hanno febbre e sono di conseguenza trattati con terapia antibiotica sistemica ad ampio spettro. se dovesse insorgere una cdi, il farmaco che permette una percentuale di cura maggiore quando la terapia antibiotica sistemica non si può sospendere è fidaxomicina [16]. infine si deve ricordare come negli studi registrativi di fidaxomicina uno dei criteri di esclusione fosse proprio la ibd: pertanto non vi sono dati sull’efficacia di tale molecola in questo setting. in ogni caso, questi soggetti, che sono sottoposti a una forte immunosoppressione, potrebbero giovarsi della terapia con fidaxomicina, che è in effetti particolarmente utile nell’evitare le recidive nei pazienti immunosoppressi. in ultimo, la capacità di fidaxomicina di rispettare la normale flora intestinale potrebbe ulteriormente giovare ai pazienti con ibd. nei pazienti con ibd, la colite da c. difficile dovrebbe essere affrontata in modo aggressivo. punti chiave nei pazienti affetti da ibd, la cdi può manifestarsi in modo più grave in tutti i casi di ibd con recidiva di malattia occorre effettuare il test per la ricerca del c. difficile sarebbe auspicabile, inoltre, eseguire il test per la ricerca nelle feci dell’antigene glutammico deidrogenasi in caso di negatività si può escludere la presenza di c. difficile in caso di positività occorre confermare la presenza di un ceppo tossinogenico con la ricerca del dna del gene che codifica per la tossina oppure con la ricerca della tossina direttamente nelle feci se il test per la tossina è positivo, occorre instaurare una terapia contro c. difficile l’uso di fidaxomicina è particolarmente consigliato se il paziente è fortemente immunosoppresso o ha fattori di rischio per recidiva (età > 65 anni, precedenti episodi di cdi, impossibilità di sospendere antibiotici, gravità della cdi all’esordio, uso di antiacidi) ringraziamenti gli autori ringraziano il paziente, che ha fornito il consenso informato alla pubblicazione del caso clinico. bibliografia 1. kaakoush no, day as, huinao kd, et al. microbial dysbiosis in pediatric patients with crohn's disease. j clin microbiol 2012; 50: 3258-66; http://dx.doi.org/10.1128/jcm.01396-12 2. frank dn, st amand al, feldman ra, et al. molecular-phylogenetic characterization of microbial community imbalances in human inflammatory bowel diseases. proc natl acad sci usa 2007; 104: 13780-5; http://dx.doi.org/10.1073/pnas.0706625104 3. kelly cp, lamont jt. clostridium difficile infection. annu rev med 1998; 49: 375-90; http://dx.doi.org/10.1146/annurev.med.49.1.375 4. ananthakrishnan an, mcginley el, binion dg. excess hospitalisation burden associated with clostridium difficile in patients with inflammatory bowel disease. gut 2008; 57: 205-10; http://dx.doi.org/10.1136/gut.2007.128231 5. ananthakrishnan an, mcginley el, saeian k, et al. temporal trends in disease outcomes related to clostridium difficile infection in patients with inflammatory bowel disease. inflamm bowel dis 2011; 17: 976-83; http://dx.doi.org/10.1002/ibd.21457 6. issa m, vijayapal a, graham mb, et al. impact of clostridium difficile on inflammatory bowel disease. clin gastroenterol hepatol 2007; 5: 345-51; http://dx.doi.org/10.1016/j.cgh.2006.12.028 7. issa m, ananthakrishnan an, binion dg. clostridium difficile and inflammatory bowel disease. inflamm bowel dis 2008; 14: 1432-42; http://dx.doi.org/10.1002/ibd.20500 8. kariv r, navaneethan u, venkatesh pg, et al. impact of clostridium difficile infection in patients with ulcerative colitis. j crohns colitis 2011; 5: 34-40; http://dx.doi.org/10.1016/j.crohns.2010.09.007 9. mann sd, pitt j, springall rg, et al. clostridium difficile infection--an unusual cause of refractory pouchitis: report of a case. dis colon rectum 2003; 46: 267-70; http://dx.doi.org/10.1007/s10350-004-6533-1 10. giuliano s, guastalegname m, jenco m, et al. severe community onset healthcare-associated clostridium difficile infection complicated by carbapenemase producing klebsiella pneumoniae bloodstream infection. bmc infect dis 2014; 14: 475; http://dx.doi.org/10.1186/1471-2334-14-475 11. guastalegname m, russo a, falcone m, et al. candidemia subsequent to severe infection due to clostridium difficile: is there a link? clin infect dis 2013; 57: 772-4; http://dx.doi.org/10.1093/cid/cit362 12. farina c, arosio m, mangia m, et al. lactobacillus casei subsp. rhamnosus sepsis in a patient with ulcerative colitis. j clin gastroenterol 2001; 33: 251-2; http://dx.doi.org/10.1097/00004836-200109000-00019 13. horton ha, dezfoli s, berel d, et al. antibiotics for treatment of clostridium difficile infection in hospitalized patients with inflammatory bowel diseases. antimicrob agents chemother 2014; 58: 5054-9; http://dx.doi.org/10.1128/aac.02606-13 14. nitzan o, elia m, chazan b, et al. clostridium difficile and inflammatory bowel diseases: role in pathogenesis and implications in treatment. w j gastroenterol 2013; 19: 7577-85; http://dx.doi.org/10.3748/wjg.v19.i43.7577 15. issa m, weber lr, skaros s, et al. decreasing rates of colectomy despite high rates of hospitalization in clostridium difficile infected ibd patients: a tertiary referral center experience. gastroenterology 2007; 132: a663 (abstract) 16. cornely oa. current and emerging management options for clostridium difficile infection: what is the role of fidaxomicin? clin microbiol infect 2012; 18 suppl 6: 28-35; http://dx.doi.org/10.1111/1469-0691.12012 clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 193 nuale stimato intorno a 21.000 $ per ciascun paziente [5,6]. al momento della diagnosi il 75% circa dei pazienti con tumore del polmone è sintomatico e per lo più inquadrabile in uno stadio di malattia avanzato: questi pazienti non sono quindi candidabili a un possibile approccio radicale come la chirurgia, metodica con cui la sopravvivenza a 5 anni per lo stadio i varia dal 60 al 75%, a fronte di una sopravvivenza globale a 5 anni del 10% per lo stadio iv [7,8]. in considerazione di questi dati, risulta assolutamente giustificabile l’impegno della ricerca scientifica, volto a identificare una metodica in grado di diagnosticare la malattia in stadio precoce e di abbattere la mortalità a essa correlata. la tabella i riporta i principali studi condotti sull’argomento in campo radiologico, specificando la tipologia di pazienti arruolati. la radiografia del torace e l’esame citologico dell’escreato l’esame radiografico standard del torace rappresenta tuttora la prima tappa nell’iter matteo giaj levra 1, marina longo 1, enrica capelletto 1, simonetta grazia rapetti 1, silvia novello 1 premessa il tumore del polmone, responsabile di più di 1.000.000 di vittime all’anno, è la principale causa di morte per neoplasia nel mondo: nel 2003 i casi diagnosticati in tutto il mondo sono stati più di 1.300.000, e nel 2007 solo negli stati uniti le diagnosi sono state superiori a 200.000 casi, con circa 160.000 decessi correlati, cifre più alte di quelle rilevate complessivamente per il tumore della mammella, della prostata e del colon [1,2]. la diffusione dell’abitudine tabagica è da ritenersi la causa principale di questa pandemia: fin dai primi anni ’50 studi epidemiologici caso-controllo e di coorte hanno inequivocabilmente stabilito un nesso causale tra il fumo di sigaretta e il tumore polmonare [3]. i tassi di mortalità e di incidenza di questa patologia seguono lo stesso andamento dell’esposizione al fumo di sigaretta nella popolazione e, ad oggi, il fumo è responsabile di più dell’85% delle diagnosi di tumore polmonare [4]. nel 2004 la spesa per il trattamento del tumore del polmone negli stati uniti è stata pari a 9,6 miliardi di dollari, con un costo anl’imaging e lo screening per il tumore del polmone abstract lung cancer is the main cause of death for neoplasia in the world. hence it’s growing the necessity to investigate screening tests to detect tumoral lesions at the early stages: several trials have been performed to establish the best method, target and frequence of the screening to offer. ct, x-ray, pet, sputum citology and cad software are here analyzed, together with the associated statistics and bias. keywords: lung cancer, screening, bias imaging and screening in lung cancer cmi 2008; 2(4): 193-203 1 università degli studi di torino, dipartimento di scienze cliniche e biologiche, ssd oncologia polmonare. auo san luigi, orbassano corresponding author dott.ssa silvia novello silvia.novello@unito.it gestione clinica clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 194 l’imaging e lo screening per il tumore del polmone diagnostico strumentale del paziente con sospetto di neoplasia polmonare, ed è peraltro l’accertamento che solitamente ne pone il primo sospetto in caso di esami eseguiti per altra indicazione. a partire dagli anni ’50 una delle prime applicazioni della radiografia del torace come esame di screening per il tumore polmonare, avviene nell’ambito del philadelphia pulmonary neoplasm research project, condotto in più di 6.000 volontari di sesso maschile [9]. negli anni ’60 e ’70 fanno seguito i primi studi randomizzati negli stati uniti e in europa, nei quali viene valutata l’efficacia della radiografia del torace rispetto alle sole visite di controllo. tra questi spicca lo studio condotto dal northwest london mass radiography service, in cui i soggetti venivano sottoposti o a una radiografia del torace semestrale per un periodo complessivo di 3 anni o a un unico controllo basale. i risultati finali non hanno evidenziato differenze in termini di mortalità per tumore polmonare nei due gruppi [10]. negli stati uniti, gli studi condotti presso il memorial-sloan kettering cancer center e il johns hopkins hospital valutano il potenziale beneficio dell’esame citologico dell’escreato eseguito unitamente alla radiografia del torace annuale: tutti i volontari venivano sottoposti a una radiografia del torace annuale, e nel braccio sperimentale veniva inoltre effettuato l’esame citologico dell’escreato. i follow-up a 5 e 8 anni non hanno evidenziato differenze nell’incidenza o nella mortalità per tumore del polmone in entrambi i bracci [11-13]. dallo studio del johns hopkins emerge inoltre un’elevata incidenza (circa 50%) di tumori intervallari (ossia le neoplasie diagnosticate tra un anno di screening e l’altro) rilevati durante il programma di screening [14]. nel mayo lung project i partecipanti sono stati randomizzati a effettuare la radiografia del torace ogni 4 mesi per 6 anni associata all’esame citologico dell’espettorato oppure il solo radiogramma a cadenza annuale: gli stadi più precoci sono stati identificati nel primo gruppo in assenza, tuttavia, di una riduzione dei tumori diagnosticati in stadio avanzato; a 20 anni di distanza dal termine dello studio è emerso che le morti correlate al tumore del polmone erano superiori nel primo gruppo [15,16]. studio età (anni) pazienti sottoposti a screening philadelphia pulmonary neoplasm research project [9] ≥ 45 fumatori e non northwest london mass radiography service [10] ≥ 40 fumatori e non tra i lavoratori in fabbrica memorial-sloan kettering cancer center [12] ≥ 45 fumatori (≥ 20 pacchi/anno) johns hopkins hospital [11,14] ≥ 45 fumatori (≥ 20 pacchi/anno) mayo lung project [15,16] ≥ 45 fumatori studio plco (prostate, lung, colorectal and ovarian cancer screening trial) [18,19] 55-74 fumatori e non alca (anti-lung cancer association) [21] 40-79 fumatori e non hitachi employee’s health insurance group [21] 50-69 fumatori e non matsumoto research center [21] 40-74 fumatori e non elcap (early lung cancer action project) [22,23] ≥ 60 fumatori (≥ 10 pacchi/anno) mayo clinic [24-26] ≥ 50 fumatori (≥ 20 pacchi/anno) i-elcap (international early lung cancer action program) [27] ≥ 40 persone a rischio (per fumo attivo o passivo o per esposizione ad asbesto, berillio, uranio o radon) istituto tumori di milano [28] ≥ 50 fumatori (≥ 20 pacchi/anno) progetto tic tac [29] ≥ 55 fumatori (20 pacchi/anno) studio depiscan [30] 50-75 fumatori o ex fumatori (≥ 15 sigarette/giorno per più di 20 anni) studio nelson [31] 50-75 fumatori o ex-fumatori (≥ 15 sigarette/giorno per più di 25 anni o ≥ 10 sigarette/giorno per più di 30 anni, fumatore che abbia smesso meno di 10 anni fa) studio randomizzato danese [31] 50-75 fumatori (≥ 20 pacchi/anno) nlst (national lung screening trial) 55-74 fumatori o ex fumatori progetto mild (multicentric italian lung detection) 49-75 fumatori o ex fumatori (che abbiano smesso di fumare meno di 10 anni fa) tabella i studi condotti e tipologia di pazienti arruolati clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 195 m. giaj levra, m. longo, e. capelletto, s. g. rapetti, s. novello tutti questi studi sono stati oggetto di critiche soprattutto da un punto di vista metodologico, perché la potenza statistica non viene considerata adeguata per valutare la reale efficacia della radiografia del torace e perché spesso nel gruppo di controllo c’erano soggetti che effettuavano autonomamente l’esame, al di fuori dello studio [17]. lo studio plco (prostate, lung, colorectal and ovarian cancer screening trial) è uno studio randomizzato, tuttora in corso, in cui si valuta l’impatto dello screening sulla mortalità per tumore della prostata, del polmone, del colon-retto e dell’ovaio. per quanto riguarda lo screening per il tumore del polmone, i pazienti randomizzati sono stati più di 150.000, equamente distribuiti tra il braccio sperimentale (che effettuava una radiografia del torace annuale per 3 anni) e il braccio di controllo (che prevedeva unicamente visite di controllo): i dati di prevalenza non differiscono dagli altri studi precedentemente pubblicati [18,19]. in considerazione dei molteplici studi effettuati e dell’omogeneità dei risultati ottenuti, si è concluso che la radiografia del torace in associazione o meno all’esame citologico dell’escreato non può essere consigliato come metodica di screening per il tumore del polmone. l’uso della tc spirale nella diagnosi precoce del tumore del polmone intorno alla metà degli anni ’90 gli studi per la diagnosi precoce del tumore del polmone si sono indirizzati verso l’utilizzo della tc spirale. l’introduzione della tc spirale monodetector (o single slice) e multidetector (o multislice) ha permesso di ottenere immagini di elevata qualità diagnostica e di acquisire l’intero volume polmonare con sezioni sottili (3-5 mm) in un singolo atto respiratorio, con la potenzialità di integrare il piano di valutazione assiale con ricostruzioni multiplanari. la tc spirale a basso dosaggio (ldtc) si avvale di minori livelli di radiazioni per acquisire un’immagine, rispetto alla tc spirale standard. è inoltre una tecnica più rapida e meno costosa, in grado di rilevare noduli polmonari con una sensibilità quattro volte superiore rispetto alla radiografia del torace [20]. i dati ad oggi disponibili in merito all’utilizzo della tc come test di screening si basano su studi osservazionali, che forniscono importanti informazioni in termini di sopravvivenza, mentre un eventuale impatto sulla mortalità per tale patologia sarà evincibile unicamente dagli studi randomizzati attualmente in corso nel mondo. i primi dati relativi alla tc spirale derivano da programmi di screening condotti in giappone da diversi centri, tra i quali l’antilung cancer association (alca), l’hitachi employee’s health insurance group (hitachi) e il matsumoto research center (matsumoto): negli studi alca e matsumoto veniva inoltre effettuato l’esame citologico sull’escreato. su un totale di 15.050 volontari arruolati, al basale sono state identificate 72 neoplasie (prevalenza 0,4%) di cui 57 in stadio ia (79,1%) (tabella ii). è importante ricordare che i criteri di inclusione negli studi giapponesi a volte differiscono da quelli statunitensi ed europei: spesso è infatti consentita l’adesione di persone più giovani (con età superiore a 40 anni), non per forza fumatrici o ex forti fumatrici (la percentuale di fumatori in questi trial variava dal 14 al 53%) [21]. nel 1999 negli stati uniti, presso il cornel medical center, iniziava lo studio elcap (early lung cancer action project), nel quale 1.000 volontari asintomatici sono stati sottoposti a screening con una radiografia del torace e una ldct. la tc si è dimostrata maggiormente sensibile rispetto alla radiografia nell’identificare noduli polmonari non calcifici (23% contro 7%), con un numero tabella ii tumori polmonari precoci rilevati alla tc spirale: prevalenza di più studi osservazionali soggetti arruolati noduli polmonari non calcifici rilevati neoplasie diagnosticate malattie in stadio i (%) alca/ hitachi/ matsumoto 15.050 nd 72 79,1 elcap 1.000 233 27 85 mayo clinic 1.520 1.049 25 57 i-elcap 31.567 2.832 484 85 istituto tumori milano 1.035 284 11 55 tic tac orbassano (to) 519 241 5 60 clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 196 l’imaging e lo screening per il tumore del polmone totale di neoplasie diagnosticate pari a 27, di cui 23 (85%) in stadio i [22,23]. poco tempo dopo, presso la mayo clinic sono stati arruolati 1.520 soggetti ad alto rischio per insorgenza di tumore polmonare, i quali sono stati sottoposti a una ldct annuale unitamente all’esame citologico dell’escreato. il primo anno sono stati identificati 2.244 noduli polmonari non calcifici in 1.000 soggetti: 25 sono stati i pazienti a cui è stato diagnosticato un tumore (in due casi le diagnosi sono state ottenute mediante l’esame citologico sull’escreato), e 22 di questi sono stati sottoposti a intervento chirurgico [24]. il 57% dei tumori polmonari non a piccole cellule diagnosticati erano in stadio i [25]. al termine dei 5 anni di studio il numero totale di neoplasie diagnosticate è stato pari a 68 in 66 soggetti; di queste, 34 sono state rilevate nel corso del primo anno di studio, mentre 3 sono state diagnosi intervallari: 61% erano in stadio i, mentre le patologie in stadio avanzato erano il 33% [26]. nel 2006 sono stati pubblicati i risultati dello studio i-elcap (international early lung cancer action program), coordinato dalla cornell university di new york: si trattava di uno studio multicentrico, non randomizzato, comprendente 35 istituti in tutto il mondo. sono stati sottoposti allo screening con la ldct 31.567 volontari e le neoplasie diagnosticate sono state 484, di cui 412 in stadio i [27]. in italia, a partire dal 2000, sono stati condotti parallelamente due studi di fattibilità presso l’istituto tumori di milano e presso l’ospedale san luigi di orbassano (torino). nello studio milanese è stata arruolata una coorte di 1.035 volontari, nella quale si valutava l’efficacia della tc annuale associata o meno alla pet e ad alcuni marcatori oncologici. lo studio prevedeva l’esecuzione di una tc annuale per 5 anni, e i risultati relativi ai primi due anni sono già stati pubblicati. nel corso dei primi due anni sono state diagnosticate 22 neoplasie (equamente distribuite per anno), nel 95% dei casi è stato completamente resecate, e di queste il 77% era in stadio i [28]. nello studio condotto a orbassano (progetto tic tac) sono stati arruolati 519 volontari asintomatici, i quali sono stati sottoposti a una tc spirale per 5 anni; i dati relativi ai primi tre anni sono stati pubblicati. nel corso del primo anno sono state diagnosticate 5 neoplasie (prevalenza 1%), di cui 4 sottoposte a intervento chirurgico radicale, più 2 casi di iperplasia adenomatosa atipica. nei due anni successivi il numero totale di tumori polmonari identificati è stato pari a 6. tra il terzo e il quarto anno è stato inoltre diagnosticato un tumore intervallare [29]. per entrambi questi studi è attualmente in corso l’analisi finale dei dati relativi ai 5 anni di screening. nel 2007 sono stati pubblicati i primi risultati dello studio depiscan, un trial randomizzato francese nel quale si valuta l’efficacia della tc rispetto alla radiografia del torace: sono stati arruolati 830 volontari e 765 sono stati randomizzati. al basale, i soggetti nel braccio tc (n = 336) che presentavano almeno un nodulo polmonare non calcifico erano 152 (45,2%), contro 21 (21,1%) del gruppo valutato con la radiografia del torace. il numero totale di neoplasie diagnosticate al primo anno è stato pari a 9, di cui 8 diagnosticate con la tc (2,4%) e 1 con la radiografia (0,3%); le neoplasie in stadio i erano pari al 37,5% per il braccio che prevedeva l’utilizzo della tc. questo studio ha confermato una maggiore sensibilità della ldct rispetto alla radiografia del torace nel rilevare lesioni polmonari non calcifiche, sebbene i dati riguardanti la percentuale delle neoplasie diagnosticate in stadio precoce differisca dai dati presenti in letteratura [30]. lo studio nelson è uno studio randomizzato olandese-belga nel quale sono stati arruolati circa 20.000 volontari selezionati tra 600.000 soggetti attraverso un questionario, che prevede la randomizzazione 1:1 tra la tc (eseguita al basale, al secondo e al quarto anno) e il gruppo di controllo che viene sottoposto a visite periodiche di controllo. parallelamente in danimarca veniva condotto uno studio randomizzato, i cui dati di prevalenza sono stati presentati nel 2007 a seoul durante il congresso iaslc (international association for the study of lung cancer): su 4.104 volontari arruolati, 177 soggetti presentavano almeno un nodulo polmonare non calcifico superiore a 5 mm di diametro, e tra questi 17 (0,8%) sono risultati positivi per neoplasia, di cui 7 in stadio ia [31]. attualmente è in corso presso il national cancer institute di bethesda lo studio nlst (national lung screening trial): si tratta di un trial randomizzato nel quale sono stati arruolati 50.000 volontari, i quali vengono randomizzati a eseguire una radiografia del torace oppure una tc. obiettivo primario dello studio è valutare se la tc sia in grado di abbattere del 20% la mortalità per tuclinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 197 m. giaj levra, m. longo, e. capelletto, s. g. rapetti, s. novello more del polmone rispetto alla radiografia del torace. in italia è tuttora possibile partecipare al progetto mild condotto presso l’istituto tumori di milano. in questo studio randomizzato, i volontari vengono sottoposti all’esame con tc spirale a cadenza annuale o biennale unitamente a un programma di prevenzione primaria, mentre il gruppo di controllo effettua visite pneumologiche e prevenzione primaria. controversie legate all’uso della tc gli studi non randomizzati sono limitati da diversi bias potenziali, che includono il lead time bias, il length time bias e l’overdiagnosis bias (vedi box pag. 200)[32]. il lead time bias è l’errore dovuto all’anticipazione della diagnosi senza modificazione del tempo di morte [33]. la diagnosi precoce del tumore polmonare comporta sempre, per la storia naturale della malattia, una sopravvivenza apparentemente più lunga, anche in assenza di qualunque terapia e anche se la mortalità resta poi invariata. il length-time bias è l’errore per il quale le malattie a più rapida progressione che manifestino segni e sintomi clinici, potrebbero sfuggire allo screening se insorgessero improvvisamente tra due indagini successive (in tale periodo temporale si parla di “cancro-intervallare”). considerando infatti lo spettro di aggressività di una patologia, alcune forme a lenta crescita avranno una fase preclinica più lunga e quindi maggiore probabilità di essere identificate allo screening [34]. l’overdiagnosis bias è una forma estrema di length-time bias e si verifica nelle neoplasie a bassa aggressività, destinate a non manifestarsi clinicamente nell’arco della vita del paziente. se queste vengono identificate allo screening si avrà un’overdiagnosis con conseguente aumento della prevalenza e dell’incidenza, miglior distribuzione dello stadio di malattia e sua resecabilità e miglior sopravvivenza con valori di mortalità tuttavia invariati [18]. in diversi studi pubblicati è stato riportato il tempo medio di raddoppiamento delle neoplasie diagnosticate nel corso dei programmi di screening: nella maggior parte dei casi esso variava tra 100 e 300 giorni per i tumori polmonari non a piccole cellule [35]. in un’analisi condotta sui risultati degli studi della mayo clinic e del memorial sloan kettering center, yankelevitz e colleghi hanno calcolato un tempo medio di raddoppiamento delle lesioni neoplastiche di 101 giorni nel primo centro e di 144 nel secondo; solo 4 delle 87 neoplasie diagnosticate nei due trials avevano un tempo di raddoppiamento superiore a 400 giorni. teoricamente, con un tempo di raddoppiamento di 400 giorni ci vorrebbero all’incirca 8 anni perché un nodulo di 3 mm di diametro aumenti fino a 15 mm e, sulla base di questi dati, si ritiene che una lesione con tempo di raddoppiamento superiore a 400 giorni possa essere considerata come un risultato di un’overdiagnosis [36]. va inoltre tenuta in considerazione la percentuale di falsi positivi correlata all’utilizzo della tc: la frequenza di lesioni polmonari benigne in soggetti forti fumatori e in età superiore a 50 anni è elevata con l’uso di macchinari di ultima generazione a 16 o 64 banchi [37]. nello studio condotto presso la mayo clinic, il 70% dei volontari presentava noduli polmonari non calcifici e solo una piccola parte è stata sottoposta a ulteriori indagini invasive, tra cui l’asportazione, in 8 casi, di lesioni che sono poi risultate di natura benigna [24]. sebbene la mortalità perioperatoria di questo studio fosse pari all’1,7% (percentuale inferiore rispetto al 3,8% di mortalità post-lobectomia nei centri statunitensi) [38], il problema potrebbe diventare di maggiore rilievo qualora lo screening venisse effettuato in centri non specialistici e con minor esperienza. in un lavoro pubblicato su jama nel 2007 venivano valutati e confrontati i risultati di tre programmi di screening (elcap, istituto tumori e mayo clinic): dall’analisi dei dati si è osservato che i volontari sottoposti allo screening per tumore del polmone vanno incontro a una diagnosi di tale patologia in maniera tre volte superiore alla popolazione generale, ma che gli interventi terapeutici per questi soggetti sono 10 volte superiori. a fronte di questi dati non si è osservata tuttavia una riduzione significativa delle neoplasie diagnosticate in stadio avanzato, né delle morti per tumore del polmone [39]. con la diffusione dei programmi di screening è diventato più frequente il riscontro delle cosiddette ground glass opacities (ggos). una ggo rappresenta, dal punto di vista radiologico, un’area di addensamento che oscura parzialmente il parenchima sottostante, accentuando le interlinee bronchiali e vascolari. dal punto di vista cito-istologico è rappresentata da un’area di intrappolamento clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 198 l’imaging e lo screening per il tumore del polmone aereo, associato a ispessimento e ingombro delle strutture alveolari e stromali. le patologie che sottendono questo scompaginamento strutturale possono essere diverse: tra le più frequenti vi sono aree di infiammazione, edema, fibrosi, pre-cancerosi (iperplasia adenomatosa atipica, aah) fino alla proliferazione neoplastica, per lo più come carcinoma bronchiolo-alveolare (bac) [40]. i noduli polmonari con aspetto a ggo sono un riscontro radiologico frequente in corso di screening con la tc, in quanto dal 19 al 38% delle lesioni identificate hanno tale aspetto. in un lavoro pubblicato dalla dottoressa claudia henscke e coll. nell’ambito dello studio elcap, le lesioni a vetro smerigliato sono state divise in parzialmente solide e non solide: il 63% delle prime e il 18% delle seconde sono poi risultate essere maligne [41]. nella casistica di ha young kim circa il 75% di tutte le ggos esaminate è risultato essere un bac [42], mentre hyun e colleghi hanno suddiviso le ggos in due gruppi sulla base del loro aspetto alla hrtc: tipo pure nodular ggo (pnggo) e mixed-nodular ggo (mnggo) [43]. una lesione è mnggo se opacizza completamente il parenchima polmonare sottostante, mentre nel caso contrario è una pnggo; le mnggo hanno un maggior rischio di evolvere in adenocarcinomi o bac, mentre le pnggo possono essere precursori di aah, bac o di fibrosi focale interstiziale. a riprova di come un dato iconografico (nodulo versus ggo) sottenda a una struttura isto-patologica meritevole di tipizzazione, la classificazione di noguchi (effettuata su 236 adenocarcinomi operati) descrive come tumori precoci del polmone possano essere differenziati in 6 forme a diversa prognosi, in base alle caratteristiche di crescita della lesione neoplastica (tabella iii) [44,45]. il problema interpretativo delle ggos è strettamente correlato alla gestione dei pazienti con tali lesioni, in quanto la loro storia naturale non è ancora completamente chiara: yang e colleghi suggeriscono un atteggiamento conservativo, considerando il lento tempo di raddoppiamento (813880 giorni circa), mentre le linee guida stilate dalla società giapponese di screening raccomandano l’esecuzione di una biopsia o l’asportazione chirurgica delle ggo con diametro superiore a 10 mm, in quanto considerate lesioni ad alto rischio di malignità. per le lesioni minori di 10 mm di diametro, queste linee guida consigliano un controllo a 6 mesi di distanza: in caso di aumento dimensionale o di densità, l’approccio chirurgico o bioptico sono raccomandati. in caso di nessun cambiamento, un ulteriore controllo a 6 mesi è raccomandato [46]. alcune critiche e dubbi sul possibile uso della tc come metodica di screening emergono a seguito di un’analisi del rapporto costo/beneficio: in una simulazione che si basava sui risultati dello studio della mayo clinic, il costo dello screening era stimato intorno ai 116.300 $ per qaly (quality adjusted life-year) per i soggetti fumatori e 2.322.700 $ per qaly nei pazienti exfumatori. tali costi sarebbero insostenibili per il sistema sanitario di qualunque nazione, rendendo lo screening del tumore del polmone proibitivamente costoso [47]. tuttavia, analisi economiche condotte in altri programmi di screening presentano risultati completamente differenti: wisnivesky e coll. hanno stimato una spesa di 2.500 $ per anni di vita salvata per i volontari dello studio elcap, e risultati simili sono stati ottenuti in un’analisi condotta sul programma di screening del dottor pastorino [27]. sulla base delle informazioni ad oggi disponibili sull’esposizione a radiazioni ionizzanti, brenner ha calcolato che se metà della popolazione statunitense ad alto rischio per l’insorgenza del tumore del polmone venisse sottoposta a una tc annuale per 20-25 anni, le neoplasie polmonari legate all’esposizione a radiazioni nel periodo successivo ai 20 anni di screening sarebbero 36.000. è stato inoltre valutato che il rischio aggiuntivo in tabella iii classificazione di noguchi [44] tipi di adenocarcinoma in fase precoce modalità di crescita prognosi ggo: frequenza di riscontro (%) tipo a proliferazione endo-alveolare minima favorevole 94 tipo b proliferazione endo-alveolare moderata favorevole 94 tipo c proliferazione endo-alveolare estesa favorevole 6 tipo d infiltrazione stromale lieve infausta 0 tipo e infiltrazione stromale moderata infausta 0 tipo f infiltrazione stromale estesa infausta 0 clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 199 m. giaj levra, m. longo, e. capelletto, s. g. rapetti, s. novello una donna fumatrice di 50 anni, sottoposta a tc a basse dosi è pari a 0,85% (95% ci: 0,28%, 2,2%), da sommare al suo rischio di circa 16,9% di sviluppare un tumore polmonare; per un uomo fumatore di 50 anni lo screening annuale aggiunge, invece, un rischio dello 0,23% (95% ci: 0,06%, 0,63%) da aggiungere al suo rischio pari al 25,8% [48]. la commissione internazionale di radioprotezione sostiene che, con le attuali tecnologie a disposizione, i casi stimati di neoplasia indotti da radiazioni sono all’incirca 5 su 100.000 soggetti sottoposti allo screening per il tumore del polmone [49]. tutte le argomentazioni fin qui riportate fanno capire quanto possa essere complicato valutare la reale validità della tc come esame di screening e quanti siano gli elementi di criticità. in merito all’interpretazione dei dati dello studio elcap, molto scalpore nel mondo scientifico hanno suscitato le pubblicazioni nell’aprile 2008 sulle riviste new england journal of medicine e jama: riesaminando le disclosure degli articoli pubblicati dalla dottoressa henscke e dal dottor yankelevitz emergeva che non era mai stato dichiarato dagli autori di aver ricevuto finanziamenti da parte della general electric e da alcune industrie del tabacco [50,51]. nuove tecniche per lo screening la pet (positron emission tomography) è una metodica che studia il metabolismo cellulare e che ha trovato largo impiego in oncologia polmonare nella valutazione del nodulo polmonare solitario, nel completamento stadiativo in pazienti candidati alla chirurgia e nella ristadiazione dopo terapia. il valore clinico della pet nella diagnosi differenziale di noduli polmonari non perfettamente definibili dalla tc è stato valutato in numerose meta-analisi, che riportavano una sensibilità e una specificità rispettivamente del 96-97% e del 78-82%, con un’accuratezza del 92% nel caso venga utilizzata la pet-tc [52-54]. alcuni limiti di questa metodica sono imputabili alla percentuale di falsi positivi, spesso dovuti a processi flogistici, e ai falsi negativi in presenza di alcuni istotipi (ad esempio il bac) e di lesioni infracentimetriche. nello studio condotto presso l’istituto dei tumori di milano, oltre alla tc spirale, era previsto l’utilizzo della pet con fdg (2-fluoro-2-deoxy-d-glucose) in caso di lesioni polmonari sospette con un diametro superiore a 7mm. nel corso del primo anno di studio la pet è stata eseguita in 29 soggetti ed è risultata positiva in 11 e diagnostica in 6 casi nei quali la tc non era risultata dirimente; solo 2 sono stati i falsi negativi nel corso dei cinque anni di studio (un adenocarcinoma ben differenziato e un adenocarcinoma con aspetti bac) [33]. anche nello studio condotto presso la mayo clinic è stata utilizzata la pet in casi selezionati, con un tasso di falsi positivi pari al 32% (tra i quali 4 bac, un carcinoma squamoso del diametro di 6,5 mm e 2 adenocarcinomi). la pet non può essere comunque considerata una metodica utilizzabile per lo screening del tumore del polmone. sono attualmente in corso studi che valutano l’efficacia della pet/tc e l’utilizzo della [11c]colina per migliorare l’accuratezza diagnostica di lesioni polmonari di piccole dimensioni [55]. il cad (computer-aided detection) è un software in grado di selezionare lesioni nodulari polmonari non calcifiche e di fornire informazioni morfologiche (numero di calcificazioni, presa di contrasto, densità) e sull’evoluzione nel tempo di lesioni nodulari polmonari non calcifiche [56]. in un studio pubblicato sull’american journal of roentgen, il sistema cad integrato all’attività del radiologo era in grado di rilevare un elevato numero di lesioni polmonari del diametro compreso tra 4 mm e 1 cm, dimostrandosi estremamente sensibile nell’identificazione di lesioni polmonari ilari [57]. le linee guida le linee guida dell’american cancer society del 2005 non consigliano lo screening per il tumore del polmone in soggetti asintomatici a rischio. tuttavia, essendo facilmente accessibile l’esecuzione di radiografie del torace o di ldtc, viene raccomandato al medico di discutere con il paziente dei dati ad oggi disponibili su queste metodiche e di indirizzarlo quindi in strutture adeguate e attrezzate per poter eseguire un completo iter diagnostico-terapeutico, nell’ambito di programmi di screening approvati dal sistema sanitario. clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 200 l’imaging e lo screening per il tumore del polmone conclusioni gli studi non randomizzati hanno evidenziato che lo screening con la tc è in grado di individuare tumori polmonari in stadio precoce in soggetti a rischio. non esiste tuttavia un’evidenza che questa metodica sia in grado di ridurre la mortalità per il cancro al polmone: risultati maggiormente dettagliati ed esaurienti giungeranno dagli studi randomizzati attualmente in corso. le linee guida sconsigliano l’utilizzo della radiografia e della tc al di fuori di studi controllati e indicano nella prevenzione primaria (cioè l’astensione/cessazione dall’abitudine tabagica) lo strumento ad oggi disponibile per l’abbattimento della mortalità per il tumore del polmone. possibili bias [58] lead-time bias la sopravvivenza specifica per il cancro al polmone è misurata dal momento della diagnosi di cancro al polmone al momento della morte. se il cancro al polmone viene scoperto mediante screening prima del manifestarsi dei sintomi, allora il lead time nella diagnosi equivale al periodo che intercorre tra il rilevamento mediante screening e la comparsa dei primi segni/sintomi. anche se il trattamento precoce non ha dato benefici, la sopravvivenza delle persone sottoposte a screening è più lunga solo per l ’aggiunta del lead time. per dare un reale beneficio, i test di screening devono rivelare la malattia prima che i segni o i sintomi si manifestino, e devono portare a una diminuzione della mortalità. length-time bias si riferisce alla tendenza del test di screening di rilevare i tumori che impiegano più tempo a diventare sintomatici, cioè i tumori più indolenti, che crescono più lentamente. non tutti i tipi di cancro hanno lo stesso comportamento: alcuni sono molto aggressivi, mentre altri crescono più lentamente. quelli che crescono lentamente, sono i più facili da rilevare perché hanno un lungo periodo presintomatico nel quale sono rilevabili. quindi i test di screening rilevano più tumori che crescono lentamente rispetto a quelli che crescono velocemente. la sopravvivenza nei pazienti con tumori scoperti tramite lo screening è più lunga in parte perché i tumori sottoposti a screening sono più indolenti: ma le aumentate sopravvivenze non possono essere attribuite con accuratezza al trattamento precoce. overdiagnosis bias è una forma estrema di length bias in cui il test di screening rileva un cancro al polmone che non è letale, cioè un cancro che si comporta come un processo benigno e non provoca la morte dell ’individuo. si muore con questo processo benigno (talvolta chiamato pseudodisease), non a causa di esso. si presenta come un cancro sia a occhio nudo, sia al microscopio, ma non ha la potenzialità di uccidere. quando un test di screening rileva un tumore di questo tipo, sembra che esso sia stato trattato con successo, facendo apparire efficace il test di screening, quando in effetti esso ha rilevato qualcosa di non letale. bibliografia parkin dm, pisani p, ferlay j. global cancer statistics. 1. ca cancer j clin 1999; 49: 31-64 http://www.cancer.org/docroot/stt/stt_0_2007.asp?sitearea=stt&level=1 2. samet jm. epidemiology of lung cancer. new york: marcel dekker, 19943. wingo pa, ries la, giovino ga, miller ds, rosenberg hm, shopland dr et al. annual 4. report to the nation on the status of cancer 1973-1996, with a special section on lung cancer and tobacco smoking. j natl cancer inst 1999; 91: 675-90 hillner be, mcdonald mk, desch ce, smith tj, penberthy lt, maddox p et al. costs of 5. care associated with non–small-cell lung cancer in a commercially insured cohort. j clin oncol 1998; 16: 1420-4 clinical management issues 2008; 2(4) ©seed tutti i diritti riservati 201 m. giaj levra, m. longo, e. capelletto, s. 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ss. trinità servizio di diabetologia cagliari 6 sc malattie endocrine nutrizione e ricambio. asl 3 – genova 7 uoc di diabetologia, dietologia e nutrizione clinica, az. osp. s. maria terni 8 uoc dietologia, diabetologia e malattie metaboliche osp. sandro pertini – roma   diabetes and ramadan: need for a cultural action cmi 2014; 8(2): 29-35 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i2.921 editoriale corresponding author dott.ssa laura cipolloni l.cipolloni@hotmail.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo introduzione la multietnia è una realtà in continua crescita. le culture d’origine rivestono molta importanza nel condizionare le condotte, le richieste di cura e la disponibilità a determinate terapie. in italia, il 33% dei cittadini non comunitari è di fede islamica, numero raddoppiato negli ultimi 10 anni [1]. le differenze religiose/culturali hanno un ruolo importante nella gestione del diabete; il digiuno per i musulmani durante il ramadan rappresenta un caso emblematico, vero e proprio banco di prova in termini terapeutici e alimentari per gli operatori sanitari [2-4]. ramadan: inquadramento culturale il mese di ramadan è il nono del calendario islamico, è sacro all’islàm perché è «il mese in cui fu rivelato il corano come guida per gli uomini e prova chiara di retta direzione e salvezza» (sura ii, v. 185). si tratta di un mese di purificazione, ricco di grazie, durante il quale, in una delle sue ultime notti dispari, la “notte del destino”, le porte del cielo sono più dischiuse. il corano stabilisce l’obbligo del digiuno (sura ii, v. 183) come atto basilare di culto per tutti i musulmani. nella prova del digiuno è più importante il significato spirituale di quello materiale: l’uomo obbedisce a un ordine divino, impara a tenere sotto controllo i suoi desideri fisici e supera la sua natura umana. si abitua alla moderazione: abbandonarsi senza freni anche a bisogni leciti, come il cibo e i rapporti sessuali, rende l’uomo schiavo di abitudini e voglie. nel digiuno, il ricco prova le ristrettezze che il povero ha quotidianamente e tutta la comunità vive una comunione di spirito che aumenta il senso di fratellanza, di pazienza e di disciplina fra i musulmani. tutti i musulmani che abitano l’emisfero nord e quello sud hanno la possibilità, nel corso della loro esistenza, di digiunare in stagioni diverse, perché i mesi lunari sono alternativamente di 29 e 30 giorni e l’anno lunare in tutto è di 354 giorni, undici giorni in meno rispetto a quello solare. il ramadan cade così in diverse stagioni. in certi paesi, durante l’inverno, le giornate sono corte e fredde e il digiuno di ramadan è certamente meno impegnativo da rispettare che nella stagione estiva. in tutto questo, il credente intravede la saggezza, la giustizia e la misericordia di dio. il digiuno deve essere preceduto dalla niyyah (intenzione). dopo la pronuncia dell’intenzione, si incomincia a digiunare, all’aurora. il pasto iftar, consumato al tramonto, rappresenta il momento della rottura del digiuno. è caratterizzato da 3 portate. la prima è un numero dispari di datteri, come vuole la tradizione, perché così faceva il profeta. la seconda è una zuppa (tipica in marocco, ad esempio, la zuppa di carote e arance) e la terza, consumata dopo una pausa dedicata alla preghiera, è la portata principale ed è simile a quello che solitamente viene consumato a pranzo; vengono servite anche bevande fredde, in grande quantità, come karkadè, tamarindo, datteri con latte, carruba. si consumano molte insalate, si sceglie verdura a elevata concentrazione di acqua (cetrioli). alcune ricette sono tipiche di questo periodo, come quella del katayef dolce o salato, una sorta di pancake riempito con frutta secca o formaggi e verdura. i grandi ristoranti durante il ramadan hanno menù speciali per questo periodo, altri locali prevedono delle grandi tavolate dove viene offerto cibo ai meno abbienti pagato da offerte anonime. il suhur è un pasto che viene consumato prima del sorgere del sole; si ritiene che fortifichi il digiunatore e ne faciliti il digiuno; fa riferimento alle parole del corano «mangiate e bevete finché, all’alba, possiate distinguere il filo bianco dal filo nero» (corano ii. al-baqara, 187). per legge sono esenti dal digiuno i minorenni non ancora puberi, gli anziani, i disabili, i malati cronici, i viaggiatori, le donne in stato di gravidanza o che allattano, nel caso che il digiuno possa comportare un rischio per loro. inoltre è proibito alle donne musulmane mestruate e in puerperio. oltre all’astensione da ogni cibo e bevanda, non è permesso alcun contatto sessuale o cattivo pensiero o azione durante l’intera giornata fino al tramonto. non bisogna litigare, né mentire, né calunniare. il ramadan è un mese di carità, durante il quale il credente deve dividere i suoi beni con coloro che ne hanno bisogno. la rottura involontaria del digiuno non comporta nessuna sanzione, purché si riprenda subito dopo aver preso coscienza di tale rottura. in caso di interruzione consapevole, bisogna rimediare con l’offerta di un pasto a sessanta musulmani bisognosi, oppure dare l’equivalente in denaro; diversamente bisogna digiunare per sessanta giorni. con il sorgere della luna nuova del mese di shawwal ha termine il mese di ramadan e con esso finisce l’astinenza e inizia la “festa della rottura”. per la cena si preparano tutti i piatti tipici della tradizione. la mattina successiva si fa colazione con vari tipi di tè e dolci a base di burro, latte, miele. fisiopatologia del digiuno il termine “digiuno” indica una temporanea sospensione dell’apporto alimentare che comporta una mobilitazione da parte dell’organismo delle proprie riserve. quando il digiuno si protrae oltre le 4 ore, il tasso insulinemico diminuisce notevolmente e diventano preminenti gli effetti degli ormoni antagonisti che stimolano la produzione di glucosio da parte del fegato attivando la glicogenolisi e la gluconeogenesi. nella situazione di digiuno protratto, il 60% circa del glucosio prodotto dal fegato serve al metabolismo cerebrale, mentre il rimanente viene utilizzato dagli eritrociti e dai muscoli. l’altro effetto degli ormoni antagonisti, glucocorticoidi e gh (somatotropina), è rappresentato dallo stimolo della lipolisi, con aumento in circolo degli acidi grassi liberi che vengono utilizzati a scopo energetico soprattutto dal tessuto muscolare, con risparmio di glucosio. l’ossidazione dei grassi determina inoltre la produzione di corpi chetonici, utilizzati a livello del muscolo cardiaco e del sistema nervoso centrale dove forniscono energia e contribuiscono alla comparsa del senso di sazietà. in caso di ipoglicemia entra in funzione un meccanismo di emergenza addizionale costituito dalla secrezione di adrenalina, che attiva ulteriormente la glicogenolisi e stimola la produzione di acth (ormone adrenocorticotropo), con successivo aumento degli ormoni corticosteroidei e attivazione della gluconeogenesi. si può affermare che una funzionalità corretta e bilanciata delle isole del langerhans, dell’adenoipofisi, della corteccia e della midollare del surrene consenta di mantenere l’omeostasi glicemica in modo rapido ed efficiente. rischi associati al digiuno la religione musulmana non obbliga i diabetici a rispettare il digiuno, ma molti lo scelgono esponendosi a rischi. le raccomandazioni nutrizionali 2013-2014 del gruppo di studio adi-amd-sid “nutrizione e diabete” nel capitolo dedicato al ramadan sottolineano l’importanza, per il medico diabetologo che ha in cura pazienti di religione islamica, di conoscere le regole nutrizionali relative al periodo rituale, di saper programmare le conseguenti modifiche terapeutiche e formulare un piano di gestione individualizzato, con educazione terapeutica strutturata e intensificazione dell’autocontrollo finalizzati a minimizzare i rischi del digiuno [5]. ipoglicemia la riduzione dell’introito di cibo è una causa nota di ipoglicemia [6,7]. nei pazienti con diabete di tipo 1 è causa di morte nel 2-4% dei casi [8]. non è nota la mortalità associata a ipoglicemia nei pazienti con diabete di tipo 2. lo studio epidiar [9], condotto in 13 paesi di popolazione musulmana, ha studiato gli effetti del digiuno durante il ramadan su 12.243 soggetti diabetici, di cui 8,7% affetti da diabete di tipo 1. nel periodo del digiuno meno del 50% ha modificato la terapia farmacologica in atto. il numero delle ipoglicemie riferite è stato basso. le ragioni possono essere ricercate in ipoglicemie inavvertite, riduzione dell’attività fisica, riduzione dei farmaci, riduzione del monitoraggio glicemico. al contrario si è registrato un numero di ipoglicemie gravi, con necessità di ricovero ospedaliero, significativamente aumentato rispetto agli altri mesi dell’anno, soprattutto in coloro che spontaneamente hanno modificato la terapia, senza un precedente percorso educativo. nei pazienti con diabete di tipo 1 e di tipo 2 l’incremento del numero di ipoglicemie gravi è stato di 4,7 e di 7,5 volte maggiore rispetto agli altri mesi dell’anno, rispettivamente. iperglicemia e chetoacidosi sebbene importanti studi come dcct [7] e ukpds [10] abbiano dimostrato una stretta correlazione tra iperglicemie e complicanze macroe microvascolari del diabete, nessuno studio è stato condotto sull’influenza che episodi di iperglicemia ripetuti in un periodo ristretto di 4 settimane possano avere sullo sviluppo o sulla progressione delle complicanze [11]. certamente lo studio epidiar [9] ha dimostrato il significativo incremento di iperglicemie gravi con o senza chetoacidosi, con necessità di ricovero, durante il ramadan, nella misura di 1:5 per il diabete di tipo 1 e di 1:3 per il diabete di tipo 2. le cause sono da ricercare nell’incremento della glicogenolisi e della gluconeogenesi, nella riduzione non controllata del trattamento farmacologico, giustificata da una riduzione dell’introito alimentare e nel cattivo controllo metabolico nel periodo precedente il ramadan. recentemente sono stati studiati pazienti con diabete di tipo 2 con monitoraggio continuo della glicemia durante il ramadan [12]. sebbene non ci siano stati episodi di ipoo iperglicemia grave, sono state registrate importanti escursioni glicemiche con una notevole variabilità intrae interindividuale, che confermano l’importanza di un percorso educativo nel periodo che precede il ramadan. disidratazione la limitazione dell’introito di liquidi, se prolungata, associata a un incremento della sudorazione, in persone che vivono in ambienti caldi e umidi o che fanno una importante attività fisica, può portare a disidratazione. la diuresi osmotica, tipica dell’iperglicemia, inoltre, comporta deplezione elettrolitica con possibile ipotensione ortostatica, soprattutto in soggetti con neuropatia autonomica. il rischio di sincopi e cadute è notevolmente aumentato. la disidratazione può associarsi a ipercoagulabilità e trombosi. in letteratura non è riferito un incremento di accidenti cardiovascolari durante il ramadan; tuttavia un report pubblicato nel 1993 riferisce un’incidenza aumentata di occlusione della vena retinica durante il ramadan in arabia saudita [13]. alla luce dei rischi associati al digiuno del ramadan, correlati a stato della malattia, presenza di complicanze e controllo metabolico, sono state definite diverse categorie di rischio, che sono riportate nella tabella i [6]. molto alto alto moderato basso paziente che ha avuto ipoglicemia grave 3 mesi prima del ramadan paziente con ipoglicemie ricorrenti paziente con scompenso glicemico paziente che ha avuto chetoacidosi 3 mesi prima del ramadan paziente con diabete di tipo 1 paziente che ha avuto un evento acuto paziente che è stato in coma iperglicemico iperosmolare 3 mesi prima del ramadan paziente che svolge un’intensa attività lavorativa donna in gravidanza paziente che si sottopone a dialisi paziente con iperglicemia moderata (glicemia media 150-300 mg/dl o hba1c 7,5-9%) paziente con insufficienza renale paziente con complicanze cardiovascolari avanzate paziente solo in terapia con insulina o sulfaniluree paziente con comorbilità anziano fragile paziente che assume farmaci che alterano lo stato cognitivo paziente con diabete ben controllato in trattamento con secretagoghi ad azione rapida (es. repaglinide) paziente con diabete ben controllato in trattamento con dieta specifica, acarbose, insulino-sensibilizzanti, incretine tabella i. rischio associato al digiuno del ramadan [6] raccomandazioni nutrizionali molti studi hanno dimostrato che il 50-60% dei soggetti che digiunano mantiene il proprio peso corporeo durante il mese del ramadan, mentre il 20-25% subisce un calo ponderale. la dieta durante il ramadan nei soggetti diabetici non dovrebbe differire significativamente da una dieta bilanciata e adeguata, con cibi appartenenti a tutti i gruppi [5]. è importante non eccedere con l’assunzione di cibo al termine del digiuno. inoltre si raccomanda di assumere cibi ad alto contenuto di fibre, orzo, frumento, avena, semolino, fagioli, lenticchie, farina integrale e riso non raffinato, verdura, frutta con la buccia soprattutto durante il suhur. è necessario, inoltre, compensare la mancata assunzione di acqua durante il giorno (10-12 bicchieri al giorno) bevendo anche succhi di frutta o consumando frutta ad alto contenuto d’acqua (ad esempio l’anguria). terapia farmacologica pazienti con diabete di tipo 1 o con diabete di tipo 2 insulino-trattato per i pazienti con diabete di tipo 1, specialmente se instabile o in cattivo compenso, o ancora nei soggetti che presentano difficoltà a eseguire un automonitoraggio intensivo, o nei pazienti con diabete di tipo 2 insulino-trattati è fortemente sconsigliato il digiuno nel ramadan, in quanto appartenenti a una classe di rischio particolarmente elevata. è molto esiguo il numero di studi che hanno documentato la sicurezza e l’efficacia dei diversi schemi di trattamento insulinico durante il ramadan. lo schema che prevede l’utilizzo di insulina intermedia nph (neutral protamin hagedorn) o l’insulina ultralenta in doppia somministrazione con l’aggiunta di insulina ad azione rapida prima dei 2 pasti è rischioso perché la possibilità di ipoglicemia è molto alta. attualmente si ritiene che lo schema basal-bolus sia il migliore per stabilizzare la glicemia ed evitare ipoo iperglicemie gravi. gli analoghi a lunga o intermedia durata (glargine o detemir) [14] devono essere somministrati di sera. la dose deve essere ridotta, se la glicemia è ben controllata. i boli devono utilizzare preferenzialmente analoghi dell’insulina [15], per una minore presenza di ipoglicemie postprandiali e minori escursioni glicemiche postprandiali. le unità devono essere calcolate in relazione alla quantità di cibo e al contenuto degli zuccheri. il dosaggio dei boli deve essere ridotto al suhur (mattino) se la glicemia è ben controllata. qualora si preferisca uno schema che utilizza le insuline premiscelate è necessaria una dose maggiore all’iftar (sera) e inferiore al suhur (mattino). se la glicemia è ben controllata occorre ridurre la dose al suhur. nella scelta dell’insulina miscelata si deve tenere conto della quantità di alimenti assunti al pasto. recenti studi hanno dimostrato che la combinazione mix 50/50 all’iftar e mix 30/70 al suhur è migliore rispetto a mix 30/70 a entrambi i pasti [16]. l’uso del microinfusore è una procedura molto avanzata, ma costosa e richiede un monitoraggio intensivo della glicemia. pazienti con diabete di tipo 2 trattato con ipoglicemizzanti orali occorre suddividere questi pazienti sulla base degli ipoglicemizzanti assunti: insulinosensibilizzanti (metformina e pioglitazone): non inducono ipoglicemia, pertanto il dosaggio non deve essere modificato. si suggerisce di distribuire il dosaggio di metformina per i 2/3 all’iftar (sera) e la dose rimanente, inferiore, al suhur (mattino); sulfaniluree: sono da utilizzare con cautela a causa delle possibili ipoglicemie. glimepiride e glicazide sono più sicure, ma il dosaggio deve comunque essere ridotto; repaglinide: non sono state registrate ipoglicemie gravi con l’utilizzo di questo farmaco [17]; incretine: sono tra i farmaci meglio tollerati. non necessitano di titolazione come gli analoghi del glp1, riguardo ai quali mancano studi durante il digiuno del ramadan. non inducono ipoglicemie, ma, se associati a sulfaniluree o insulina, possono potenziarne l’effetto ipoglicemizzante. vildagliptin, in particolare, ha dimostrato una significativa riduzione delle ipoglicemie rispetto alle sulfaniluree (studi vector e virtue) [18,19]. approccio educazionale in un’ottica sistemica, la gestione del diabete durante il ramadan per il paziente affetto da diabete e per la sua famiglia deve essere preparata in collaborazione con il diabetologo, il medico di medicina generale e la comunità islamica di riferimento. l’importanza di un percorso di educazione terapeutica strutturata in preparazione del periodo di digiuno è stata dimostrata dallo studio read, nel quale il gruppo sottoposto a intervento educazionale strutturato ha presentato una riduzione del 50% del numero delle ipoglicemie rispetto al gruppo di controllo, in cui è stato registrato un incremento di 4 volte degli episodi ipoglicemici nel mese del ramadan rispetto agli altri mesi [20]. il percorso educazionale è un lavoro di équipe in cui tutti gli attori svolgono un’azione importante. la formazione culturale rispetto al ramadan deve diventare parte del background degli operatori sanitari coinvolti, soprattutto nei paesi non islamici, dove si deve realizzare un giusto compromesso tra il forte desiderio del digiuno, la conoscenza del suo significato nel contesto religioso e comunitario, i rischi potenziali e le opzioni terapeutiche più adeguate per renderlo possibile e sicuro. è in altre parole, fondamentale garantire ai pazienti e ai loro familiari un approccio interculturale alla terapia per far sì che il diabete non sia un limite al ramadan, ma che, anzi, il ramadan diventi opportunità e stimolo per una gestione ottimale del diabete. come prepararsi al ramadan la preparazione al ramadan dovrebbe prevedere almeno un mese prima del suo inizio una valutazione globale del paziente, seguita da almeno tre incontri educazionali, con andamento settimanale, individuali o di gruppo, in cui si coinvolge il paziente e la sua famiglia per approfondire e ribadire le tematiche specifiche. la consegna di materiale cartaceo, durante il digiuno del ramadan, può essere utile per la gestione delle problematiche che si potrebbero presentare. gli aspetti che devono essere curati negli incontri educazionali sono legati a: alimentazione, con attenzione alla scelta, preparazione e somministrazione dei pasti (quantità e frequenza): occorre avere una dieta salutare e bilanciata, che preveda l’assunzione di alimenti con zuccheri a lento assorbimento e con fibre e di scarsi quantitativi di alimenti a elevato contenuto di grassi saturi; attività fisica raccomandata [21], che deve essere lieve o moderata. occorre fornire schemi che identifichino la tipologia di sforzi possibili e che includano nello schema giornaliero i movimenti della preghiera del tarawaih (preghiera straordinaria e volontaria recitata da un’ora e mezzo dopo il tramonto a poco prima dell’alba, accompagnata da molti movimenti); autocontrollo: il controllo della glicemia non costituisce rottura del digiuno [22]. il paziente deve conoscere l’importanza del controllo della glicemia capillare, che deve essere effettuato quando si sospetta ipoglicemia: se confermata, il digiuno deve essere interrotto. il controllo è importante in caso di malattie intercorrenti. se il paziente assume una terapia ipoglicemizzante (sulfaniluree o insulina) il controllo della glicemia capillare è utile nell’adattamento della terapia farmacologica; complicanze: il paziente deve essere in grado di gestire le emergenze, in particolare di riconoscere precocemente i sintomi di disidratazione, ipoglicemia, iperglicemia, e di identificarle come situazioni di rischio, interrompendo il digiuno. infine può essere utile un incontro con l’associazione o la comunità islamica dove verrà celebrato il ramadan [22], affinché si possano coinvolgere più persone possibili nella gestione comunitaria della persona con diabete. nel corso di tale incontro occorre spiegare la patologia diabetica, come funziona l’organismo con e senza il digiuno, cercando di puntare l’attenzione sul ruolo della comunità nel sostenere i soggetti diabetici in questo momento sacro, affinché la patologia non discrimini e non limiti. bibliografia 1. caritas-migrantes. dossier statistico immigrazione 21° rapporto. oltre la crisi, insieme. roma: edizioni idos, ottobre 2011 2. peyrot m, rubin rr, lauritzen t, et al. psychosocial problems and barriers to improved diabetes management: results of the cross-national diabetes attitudes, wishes and needs 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described in obese individuals and in some autoimmune diseases, such as systemic lupus erythematosus (sle) and primary antiphospholipid syndrome (paps). in particular, more than 50% of premenopausal women with paps have hypovitaminosis d. in this issue we report a case of an obese, premenopausal, and hypertensive woman with pseudo-cushing syndrome, affected by deep venous thrombosis associated with pulmonary embolism after rib fracture who presented hypovitaminosis d. 7 years before, diagnosis of paps had been made after the detection of thrombocytopenia (present at a young age) and arterial ischemia of a lower limb. for seven years she was treated with acetylsalicylic acid without complications. we found positive anti-dsdna antibodies, a triple antiphospholipid antibodies (apl) positivity and levels of vitamin d < 4 µg/l. the case report arises some questions: is vitamin d deficiency due to obesity or aps? is the positivity of anti-dsdna indicative of progression to sle? is preventive therapy with hydroxychloroquine indicated? does the high-risk apl profile justify a high-intensity and life-long anticoagulation regimen? keywords: antiphospholipid syndrome; venous thromboembolism; thrombocytopenia; oral anticoagulation; vitamin d; systemic lupus erythematosus; obesity; autoantibodies; autoimmunity antiphospholipid syndrome: primary or secondary to systemic lupus erythematosus? description of a clinical case of avitaminosis d in premenopausal woman with pseudo-cushing syndrome cmi 2014; 8(2): 51-59 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i2.912 caso clinico corresponding author dott. mauro turrin tel: 0429.78.8441 fax: 0429.78.8456 m.turrin@libero.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo perché descriviamo questo caso le polipatologie, condizioni sempre più diffuse nella popolazione non solo geriatrica, rappresentano una sfida per il clinico, che deve valutare attentamente molti parametri e ponderare con attenzione le terapie da prescrivere. si discute qui di una paziente con obesità, ipertensione, sindrome di pseudo-cushing e ipovitaminosi d che si presenta in ospedale per trombosi venosa profonda ed embolia polmonare introduzione bassi livelli di vitamina d sono stati descritti nei soggetti obesi e in alcune malattie autoimmuni (sclerosi multipla, artrite reumatoide, sclerodermia, lupus eritematoso sistemico – les, connettivite indifferenziata – uctd, tireopatie autoimmuni, diabete mellito di tipo 1, miopatie infiammatorie idiopatiche). in particolare nel les è stata dimostrata un’associazione tra bassi livelli di vitamina d e attività di malattia [1,2]. anche i portatori asintomatici di positività di anticorpi anti-nucleo (ana) presentano valori ridotti di vitamina d [3]. un deficit di vitamina d è altresì comune nella sindrome da anticorpi antifosfolipidi primaria (paps) [4,5]. tra le donne in premenopausa con paps più del 50% dei casi presenta ipovitaminosi d [5-7]: livelli < 15 ng/ml risultano significativamente associati agli eventi trombotici [8]. caso clinico una donna di 45 anni viene ricoverata a novembre 2012 per trombosi venosa profonda (tvp) a carico dell’asse femoro-popliteo destro complicata da embolia polmonare. l’anamnesi rivela che il padre è deceduto a 70 anni per infarto miocardico acuto (ima). la madre di 68 anni, invece, è normopeso e affetta da ipertensione arteriosa, prolasso mitralico, ipercolesterolemia, colelitiasi, ipertiroidismo e ha subìto l’exeresi di un melanoma alla gamba destra. il fratello è in buona salute. la storia clinica della paziente rivela il suo passato da fumatrice fino all’età di 29 anni, il mestiere di operaia metalmeccanica e l’assenza di allergie. ha avuto un parto pretermine per utero bicorne e, durante la gravidanza, all’età di 27 anni, era stata riscontrata piastrinopenia (valori compresi tra 48.000 e 57.000 unità/µl). a 31 anni era stata ricoverata per pancitopenia in corso di virosi: era stata confermata la piastrinopenia con anticorpi antipiastrine negativi (pesava 60 kg). a 38 anni aveva subìto un’isterectomia laparotomica per fibromatosi uterina, alla quale era seguita la comparsa di ipertensione arteriosa; era stata pertanto posta in terapia con ramipril, furosemide e lercanidipina. successivamente la paziente, che era alta 164 cm, era andata incontro a progressivo aumento ponderale, sino a 108 kg. a 38 anni aveva eseguito dei controlli immunologici per la persistenza di piastrinopenia: l’antitrombina iii era risultata al 130%, la velocità di eritrosedimentazione (ves) nella prima ora era stata di 48 mm, la proteina c reattiva (pcr) e il fattore reumatoide erano risultati normali, gli ana rilevati con immunofluorescenza indiretta erano stati 1:160 con pattern omogeneo, gli anti-dsdna (anti-double strand dna) e gli anti-ena (anti-extractable nuclear antigens) erano risultati negativi, c3 e c4 normali, tempo di tromboplastina parziale (ptt) = 44 sec (vn 28-40 sec) con ptt ratio = 1,30 (vn 0,80-1,20). nel 2005 era stata ricoverata per ischemia critica a un arto inferiore e un’angiografia aveva dimostrato l’assenza di circolo arterioso a livello delle arterie tibiali anteriori e pedidia; era stata riscontrata anemia microcitica sideropenica (hb = 9, mcv = 63, ferritina = 3 ng/ml) con assetto emoglobinico normale e confermata la piastrinopenia, oltre alla lieve alterazione degli indici di epatocitolisi e colestasi (glutammato-piruvato transaminasi – gpt = 83, fosfatasi alcalina – alp = 131), ptt = 44 sec (vn 28-40 sec), ptt ratio = 1,30 (vn 0,80-1,20). era stata dimessa con acido acetilsalicilico (asa) 100 mg uid. dopo qualche mese il doppler aveva dimostrato la normalizzazione del flusso arterioso. nel luglio 2006 si era sottoposta agli accertamenti ematologici per studio della trombofilia. i risultati sono mostrati nella tabella i. parametro valore valori normali ptt (ratio) 1,27 0,8-1,2 kaolin clotting time (ratio) 1,42 0,8-1,2 kaolin clotting time p.c. (ratio) 1,02 0,8-1,2 drvvt screening (ratio) 1,38 0,8-1,25 drvvt confirm 2,0 0,8-1,25 lac test (ratio) 1,77 0,8-1,2 lac confirm positivo ac. anticardiolipina igg (gpl) 75 0-13 plt (unità/µl) 92.000-110.000 150.000-450.000 ana (ifi)* 1:160 < 1:40 tabella i. test di laboratorio effettuati nel luglio 2006 ana = anticorpi anti-nucleo; drvvt = dilute russell’s viper venom time; ifi = immunofluorescenza indiretta; lac = lupus anticoagulant; p.c. = paziente controllo; plt = piastrine; ptt = tempo di tromboplastina parziale * il pattern degli ana è risultato omogeneo inoltre l’omocisteina era risultata normale, gli anti-dsdna (ifi) negativi, gli anti-ena negativi. erano risultati nella norma i valori del fattore reumatoide, del complemento, gli anticorpi tiroidei, l’aptoglobina e il test di coombs diretto. i test ripetuti a novembre del 2006 avevano mostrato i risultati indicati nella tabella ii. parametro valore valori normali drvvt screening (ratio) 1,47 0,8-1,25 drvvt confirm 1,04 0,8-1,25 lac test (ratio) 2,0 0,8-1,2 lac confirm positivo anticorpi anticardiolipina igg (gpl) 80 0-13 tabella ii. test di laboratorio effettuati a novembre 2006 drvvt = dilute russell’s viper venom time; lac = lupus anticoagulant i lac (lupus anticoagulant) si erano dunque riconfermati positivi. a 42 anni era stato diagnosticato ipertiroidismo subclinico per il riscontro di tsh (ormone tireostimolante) compreso tra 0,06 e 0,05 µu/ml (vn 0,35-5,5) con normalità di t4f (1,04 ng/dl – vn 0,72-1,70 ng/dl), anticorpi antitg e antitpo negativi. la colesterolemia totale era risultata essere 234 mg/dl e il colesterolo hdl 47 mg/dl. nel giugno 2012 era stata riscontrata dermatite da contatto con aspetto orticarioide ed era stata trattata con terapia cortisonica. da qualche anno presentava roncopatia con probabili apnee notturne. si è quindi proceduto all’esecuzione dell’anamnesi patologica prossima. ad agosto 2012 era stata sottoposta a terapia cortisonica ev per dermatite (non meglio precisata) al tronco e agli arti. a ottobre si presenta in pronto soccorso per una colica renale destra con vomito; all’ecografia vengono riscontrati: fegato ingrandito steatosico, lieve dilatazione uretero-pielica a destra, millimetrica formazione litiasica ureterale distale. viene trattata con ciprofloxacina, antispastici, ansiolitici e ketoprofene. due settimane prima dell’attuale ricovero aveva riportato un trauma all’emitorace con frattura di una costa. in questo periodo era rimasta immobilizzata in poltrona: era comparso un progressivo edema alla gamba destra e lamentava dolore toracico che comportava una ridotta escursione respiratoria e presentava dispnea al minimo sforzo (assumeva paracetamolo per os). un’ecografia-doppler venosa dell’arto inferiore destro rileva materiale trombotico endoluminale nell’asse femoro-popliteo (figura 1). l’angio-tc polmonare dimostra multipli difetti di riempimento endoluminale di tipo trombotico nel ramo sinistro dell’arteria polmonare e nelle diramazioni segmentarie e subsegmentarie bilateralmente, qualche area di consolidamento parenchimale alle basi a sede subpleurica, esilissimo versamento pleurico a destra (figura 2). figura 1. ecografia-doppler venosa arto inferiore destra (cross safeno-femorale destra) figura 2. angiotc polmonare a dicembre del 2012 vengono nuovamente eseguiti degli esami di laboratorio (tabella iii), che confermano la positività ad alto titolo degli anti-cardiolipina igg e igm e anti-β2-gpi igg (125,4 sgu: vn < 20 sgu – enzyme immunoassay). gli anticorpi anti-ena risultano invece negativi. il fattore reumatoide, gli anticorpi anticitrullina, il complemento (frazione c3c = 1,39 g/l; c4 = 0,24 g/l), gli anticorpi anti-microsomiali del fegato e del rene (lkm) e gli anticorpi anti-mitocondri (ama) risultano normali. parametro valore valori normali conta piastrinica (unità/µl) 85.000-52.000 150.000-400.000 anticorpi anti-cardiolipina igg (gpl)^ 123 < 15 anticorpi anti-cardiolipina igm (mpl)^ 20,96 < 12,5 anticorpi anti-β2-gpi igg (sgu)^ 125,4 < 20 anticorpi anti-β2-gpi igm (smu)^ 16,8 < 20 ana* 1:320 < 1:40 anti-dsdna 1:40 < 1:10 su crithidia luciliae d-dimero (µg/ml) 2.605 0-200 pcr (mg/l) 39,9 < 5 alp (u/l) 173 30-120 ggt (u/l) 294 < 38 ldh (u/l) 553 < 480 colesterolemia totale (mg/dl) 302 < 200 colesterolo hdl (mg/dl) 42 > 66 trigliceridi (mg/dl) 468 < 150 glicemia (mg/dl) 103 < 100 uricemia (mg/dl) 8,6 < 6,0 ferritina (µg/l) 156 10-291 ca 125 (ku/l) 52 < 31 ca 19-9 (ku/l) 42-34 < 31 tsh (mui/l) 0,014 0,200-4,00 vitamina d 25(oh)§ < 10 nmol/l (< 4 µg/l) carenza: < 20 nmol/l (v. tabella iv) calcemia (mg/dl) 9,2 8,8-10,6 fosforemia (mmol/l) 1,04 0,81-1,45 pth intatto (ng/l) 164 9,0-55,0 fsh (u/l) 7,6 in menopausa > 23 lh (u/l) 2,70 in menopausa 15,9-54,0 cortisolemia serale (nmol/l) 664,6 85-460 cortisoluria (nmol/die) 1.404 58-807 acth (ng/l) 76 10-50 tabella iii. test di laboratorio effettuati a dicembre 2012 acth = ormone adrenocorticotropo; alp = fosfatasi alcalina; ana = anticorpi anti-nucleo; anti-β2-gpi = anticorpi anti-β2-glicoproteina i; fsh = ormone follicolo-stimolante; ggt = γ-glutamil transferasi; ldh = lattato deidrogenasi; lh = ormone luteinizzante; pcr = proteina c reattiva; pth = paratormone; tsh = ormone tireostimolante ^ misurati mediante quanta lite®, inova diagnostic inc, san diego, ca, usa * il pattern degli ana risulta omogeneo, v. figura 3 § misurata mediante liaison® clia, diasorin, saluggia, italia definizione ng/ml nmol/l carenza (deficit marcato) < 20 < 50 insufficienza (deficit sfumato, meno grave) 20-30 50-75 concentrazioni ottimali 30-45 75-100 eccesso > 100 > 250 intossicazione > 150 > 375 tabella iv. interpretazione dei livelli ematici di 25(oh) vitamina d [9] figura 3. immunofluorescenza indiretta (ifi) su hep-2 per gli anticorpi ana, con riscontro di pattern omogeneo l’esame delle urine rivela la presenza di leucociti e batteri, l’urinocoltura risulta positiva per enterobacter aerogenes e la paziente viene pertanto sottoposta a terapia orale con ciprofloxacina. viene inoltre riscontrato un lieve aumento di ca125 e di ca19-9, mentre cea e ca15-3 risultano normali. il tsh risulta più basso della norma, mentre t3f e t4f risultano normali e gli anticorpi antitiroide negativi. i valori di fsh e lh rientrano nella norma. per il riscontro di aumento della cortisolemia serale, della cortisoluria e dell’acth viene eseguito il test al desametasone (1 mg di decadron®) con riscontro di riduzione della cortisolemia mattutina (test di nugent negativo). la tc addome dimostra la presenza di una lieve splenomegalia (diametro bipolare di circa 15 cm), di calcificazioni nel surrene destro, una minuta formazione cistica al rene destro ed esiti di isterectomia. rileva inoltra una formazione ipodensa di 13 mm in sede annessiale destra da verosimile follicolo, non vengono viste linfoadenomegalie e viene infine notata la presenza di trombosi della vena femorale comune di destra. l’ecg rivela ritmo sinusale, battito di 74/min e tracciato nei limiti. l’esame del fundus oculi fa rilevare la presenza di retinopatia ipertensiva di 1° grado. la scintigrafia renale sequenziale risulta poco significativa. l’ecografia tiroidea rivela la presenza di un’ecostruttura disomogenea per la presenza di piccole areole ipoecogene fra loro confluenti e minuscole formazioni cistiche. la scintigrafia tiroidea con 99mtc-pertecnetato fa osservare un’area ovalare di moderata ipocaptazione del tracciante a livello paraistimico destro (nodulo “freddo”). il restante parenchima presenta fissazione regolare. la biopsia ad ago sottile della tiroide mette in luce la presenza di materiale fibrinoematico comprendente elementi otricolari iperplastici commisti a macrofagi siderofagici; si diagnostica pertanto un gozzo colloido-cistico in regressione emorragica (livello di classificazione tir 2 secondo il consensus citologico italiano siapec-iap 2007). l’esame mammografico mostra fibroadenomi multipli bilaterali. dall’ecografia pelvica transvaginale si può osservare che l’ovaio sinistro è regolare per volume e morfologia, mentre quello destro appare non ben visualizzato a causa delle anse intestinali dilatate; è tuttavia apparentemente regolare e non c’è versamento in cavità. la visita dermatologica rileva che la cute è iperpigmentata nonostante la paziente sia sottoposta a una normale esposizione alla luce e non faccia uso di pomate o di creme solari; viene inoltre diagnosticata la presenza di tinea corporis al torace. la paziente viene trattata da subito con fondaparinux (10 mg sc: peso corporeo 108 kg) associato a warfarin, ottenendo una scoagulazione efficace in sesta giornata. si ottiene inoltre un calo ponderale di 7 kg in venti giorni. alla dimissione viene consigliata la seguente terapia: ramipril 10 mg: 1 c uid; amlodipina 10 mg: 1 c uid; furosemide 25 mg: 1 c bid; clonidina tts ‘2’ 5 mg: 1 cerotto/settimana; allopurinolo 150 mg: uid; simvastatina 20 mg: 1 c uid; omega polienoici 1.000 mg: 1 c bid; colecalciferolo 100.000 ui/ml: 1 f im/mese; fluconazolo 100 mg: 1 c uid; warfarin (inr alla dimissione = 2,47). i successivi controlli dell’inr risultano molto oscillanti. gli esami di laboratorio di controllo eseguiti nel maggio 2013 confermano la persistente positività del lupus anticoagulant e gli elevati valori di anticorpi antifosfolipidi (tabella v). un controllo ecodoppler a giugno 2013 dimostra la cross safeno-femorale destra pervia, trombosi parzialmente ricanalizzata della vena poplitea e della femorale superficiale fino al terzo superiore della coscia (figura 4). parametro valore valori normali d-dimero (µg/ml) 368 < 200 drvvt screening (ratio) 4,9 < 1,16 drvvt mixing (ratio) 2,5 < 1,16 drvvt confirm (%) 54 < 11 sct screening (ratio) 2,50 < 1,22 sct mixing (ratio) 1,6 < 1,22 sct confirm (%) 35 < 19 acl igg (gpl) 120 < 10 acl igm (mpl) 19 < 8 anti-β2-gpi igg (sgu) 54 < 13 anti-β2-gpi igm (smu) 16 < 7 tabella v. test di laboratorio effettuati nel maggio 2013 acl = anticorpi anti-cardiolipina; anti-β2-gpi = anticorpi anti-β2-glicoproteina i; drvvt = dilute russell’s viper venom time; sct = silica clotting time figura 4. ecografia-doppler venosa dell’arto inferiore destro effettuata a giugno 2013 (vena poplitea destra) il doppler carotideo risulta normale, in particolare imt (intima-media thickness) < 0,9 mm (figura 5). gli esami di laboratorio di controllo effettuati a settembre 2013, quando il peso corporeo era di 113 kg e il body mass index (bmi) di 43 kg/m2, fanno rilevare i valori riportati nella tabella vi. figura 5. ecodoppler carotideo: imt < 0,9 mm. ace = arteria carotide esterna; aci = arteria carotide interna; parametro valore valori normali calcemia (mg/dl) 9,7 8,8-10,6 vitamina d 25(oh)# 54 nmol/l (21,6 µg/l) insufficienza: 50-75(v. tabella iv) pth intatto (ng/l) 132 9,0-55 tsh (mu/l) 0,104 0,20-4,0 t4f (ng/l) 11,08 8,3-15,3 anti-tpo (ku/l) 42 < 60 trab (ui/l) 1,4 0,0-0,9 tabella vi. test di laboratorio effettuati a settembre 2013 anti-tpo = anti-tireoperossidasi; pth = paratormone; trab = anticorpi anti-recettore del tsh; tsh = ormone tireostimolante # misurata mediante liaison® clia, diasorin, saluggia, italia discussione abbiamo descritto il caso clinico complesso di una giovane donna in premenopausa, portatrice di patologia endocrino-metabolica (obesità con pseudo-cushing, ipertensione arteriosa, epatosteatosi e nefrolitiasi, dislipidemia, iperuricemia, ipertiroidismo subclinico), colpita da trombosi venosa profonda a un arto inferiore con associata embolia polmonare dopo immobilizzazione a seguito di frattura costale. sette anni prima era stata formulata la diagnosi di sindrome da anticorpi antifosfolipidi “primaria” dopo il riscontro di piastrinopenia (presente già in giovane età) e la comparsa di ischemia arteriosa a un arto inferiore. per 7 anni è stata trattata con asa senza complicanze. abbiamo riscontrato un profilo di anticorpi antifosfolipidi (apl) ad alto rischio trombotico (triplice positività: lac + igg anti-cardiolipina + anti-β2-glicoproteina i igg), la persistenza di ana positivi a titolo elevato con comparsa di anti-dsdna e livelli di vitamina d molto bassi. questo caso clinico suggerisce la discussione delle seguenti questioni aperte. il marcato deficit di vitamina d è secondario all’obesità o alla sindrome da anticorpi antifosfolipidi “secondaria” (saps)? è stata dimostrata un’associazione inversa tra livelli sierici di vitamina d e bmi superiore 30 a kg/m2: i soggetti obesi risultano pertanto ad alto rischio di carenza di vitamina d perché il grasso corporeo sequestra la vitamina liposolubile [10]. il colecalciferolo (vitamina d3) viene sintetizzato prevalentemente dalla pelle esposta alla luce solare. nella nostra paziente il primo dosaggio della vitamina d è stato effettuato in inverno. dopo la terapia con colecalciferolo im, a primavera, i livelli, dosati nel medesimo laboratorio, sono aumentati pur restando nel range dell’insufficienza. è necessario pertanto rapportare i valori di vitamina d alla stagione e alla relativa esposizione solare. nel caso in esame, data la tipologia di alimentazione seguita dalla paziente, è altamente improbabile che si tratti di deficit dietetico. l’attuale riscontro di ana ad alto titolo con positività dsdna è indice di evoluzione verso un lupus manifesto? la trombocitopenia, moderata o grave, risulta infatti più comune nei pazienti con saps e les rispetto a quelli con sindrome “primaria” [11,12]. d’altra parte l’evoluzione verso il lupus manifesto nei portatori di paps è risultata determinata dalla familiarità per il lupus eritematoso sistemico, dalla presenza del fenomeno di raynaud, dalla cefalea, dalla presenza di patologia psichiatrica, dallo sclerodermia, dall’anemia emolitica, e dalla riduzione di c3 e di c4. oltre all’ipocomplementemia il riscontro di coombs positivo è risultato il fattore statisticamente più importante [13,14]. nel caso in esame la paziente non presenta i criteri principali per poter parlare di evoluzione verso il lupus eritematoso sistemico. è indicato un trattamento preventivo con idrossiclorochina (hcq) [15-19]? dati sperimentali hanno dimostrato che l’antimalarico hcq riduce il legame degli apl igg-β2-gpi su doppi strati di fosfolipidi e protegge lo scudo anticoagulante dell’annessina 5 dall’attacco degli stessi comportando così un’aumentata attività anticoagulante [20,21]. considerati i fattori di rischio cardiovascolare (ipertensione, obesità, dislipidemia, iperuricemia, steatosi epatica, avitaminosi d) e la triplice positività (profilo di alto rischio: lac + acl + anti-β2-gpi) è indicato un regime di anticoagulazione “spinto” con inr tra 3,1 e 4,5 [22,23]? un sicuro beneficio di questo approccio in prevenzione secondaria non è stato confermato dagli unici due trial effettuati [24,25]: un trattamento anticoagulante di alta intensità può essere comunque preso in considerazione in caso di recidiva tromboembolica durante la terapia anticoagulante orale convenzionale (inr 2,0-3,0) oppure una valida opzione risulta l’associazione a basse dosi di aspirina [23,26]. per quanto tempo va protratta la terapia anticoagulante? a lungo termine, probabilmente per sempre [22,23]. nel caso in esame come può essere spiegata la lieve splenomegalia? benché non sia semplice fornire una spiegazione alla splenomegalia osservata, in letteratura è stato pubblicato uno studio clinico con bassa numerosità nel quale vengono descritti casi simili di sindrome aps primaria con riscontro di splenomegalia [27]: l’entità della splenomegalia risulta paragonabile a quella della nostra paziente, e sembra manifestarsi in particolare in soggetti che non presentano ipertensione portale né comorbilità. punti chiave nel riscontro di una piastrinopenia la diagnosi differenziale deve comprendere la sindrome da anticorpi antifosfolipidi la sindrome di hughes è caratterizzata da trombosi (arteriosa e/o venosa), aborti ricorrenti e ridotto numero di piastrine i test di laboratorio specifici (lac, anticorpi anticardiolipina, anti-β2-gpi) vanno ripetuti per confermare la diagnosi i casi non secondari a lupus eritematoso sistemico certo vengono indicati con il termine di “aps primaria” la terapia delle complicanze prevede asa e/o warfarin: nei casi di recidiva tromboembolica viene attuato spesso un livello di anticoagulazione superiore agli standard la durata della terapia è condizionata dalla clinica, dalla comparsa di recidive e dal profilo anticorpale in presenza di sindrome plurimetabolica può risultare utile il dosaggio della vitamina d nel soggetto obeso è indicato il dosaggio della vitamina d per correggere l’entità del relativo deficit il dosaggio della vitamina d va correlato all’epoca stagionale (esposizione al sole) e alle abitudini dietetiche bibliografia 1. amital h, szekanecz z, szucs g, et al. serum concentrations of 25-oh vitamin d in patients with systemic lupus erythematosus (sle) are inversely related to disease activity: is time to 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27. cikrikcioglu ma, hursitoglu m, erkal h, et al. splenomegaly in primary antiphospholipid syndrome without accompanying portal hypertension or comorbidity. pathophysiol haemost thromb 2010; 37: 104-9 cmi 2014;8(4)93-95.html ruolo del medico di medicina generale nella prevenzione dell’ictus in italia linda iurato 1 1 neurologo, palermo   stroke prevention in italy: the role of general practitioners cmi 2014; 8(4): 93-95 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i4.962 editoriale corresponding author dott.ssa linda iurato via vincenzo di marco 1/e 90143 palermo tel: 091300826 cell: 3318474301 lindaiurato@yahoo.it disclosure l’autore nega qualunque tipo di conflitto di interesse introduzione nei paesi industrializzati l’ictus cerebrale rappresenta la terza causa di morte, la seconda causa di demenza e la prima causa di grave disabilità. in italia l’incidenza è di circa 196.000 nuovi casi per anno e i dati di prevalenza indicano che 913.000 persone vivono con gravi esiti neurologici. dai dati epidemiologici sopra citati emerge con evidenza l’impatto sul piano sociale delle conseguenze ascrivibili alla patologia cerebrovascolare, così come su quello economico per la sanità pubblica [1]. uno degli interventi più efficaci per affrontare questa patologia è rappresentato dalle strategie di prevenzione. prevenzione primaria e secondaria dell’ictus la prevenzione è considerata la misura più importante per ridurre il peso bio-psico-sociale dell’ictus. tradizionalmente si distinguono una prevenzione primaria [2], riferibile a quei soggetti che non hanno ancora manifestato alcun sintomo cerebrovascolare, e una prevenzione secondaria, per coloro che hanno già presentato almeno un evento cerebrovascolare (tia o ictus) [3]. gli studi epidemiologici hanno individuato, seppur in termini puramente statistici, molteplici fattori che possono contribuire ad aumentare il rischio di ictus [4], in particolare: fattori demografici (es. età, sesso); caratteristiche fisiologiche (es. pressione arteriosa, colesterolemia, glicemia); abitudini comportamentali (es. fumo, consumo di alcol, dieta, esercizio fisico). mentre i fattori del primo gruppo non sono modificabili, quelli del secondo gruppo possono essere modificati attraverso un adeguato trattamento farmacologico, contestualmente alla correzione dello stile di vita secondo quanto riportato nel terzo gruppo [5]. è comprovata la modificabilità dei seguenti fattori di rischio: ipertensione arteriosa; alcune cardiopatie (in particolare, fibrillazione atriale); diabete mellito; iperomocisteinemia; ipertrofia ventricolare sinistra; stenosi carotidea; fumo di sigaretta; eccessivo consumo di alcol; ridotta attività fisica; dieta. benché siano stati individuati anche altri fattori correlati all’aumento del rischio di ictus, al momento gli studi condotti non si possono considerare né esaustivi né definitivi per poterli classificare come fattori indipendenti di rischio. a titolo esemplificativo si possono annoverare fra questi: dislipidemia; obesità; sindrome metabolica; alcune cardiopatie (forame ovale pervio, aneurisma settale); placche dell’arco aortico; uso di contraccettivi orali; terapia ormonale sostitutiva; emicrania; anticorpi antifosfolipidi; fattori dell’emostasi; infezioni; uso di droghe; inquinamento atmosferico. è possibile che venga ereditata una predisposizione a essere colpiti da ictus. il ruolo dei fattori genetici nella determinazione del rischio di ictus non è tuttora definito. i fattori di rischio interagiscono in modo addizionale: infatti il rischio di ictus aumenta più che proporzionalmente al numero dei fattori presenti, anche quando il rischio attribuibile a ciascuno di essi sia limitato (purché statisticamente significativo). non vi sono studi adeguati sull’interazione tra i fattori di rischio vascolare. quale ruolo per il medico di medicina generale? tutti gli operatori sanitari sono chiamati all’impegno di prevenire l’ictus e le conseguenze inabilitanti dello stesso [6,7]. il ruolo più importante in questo compito è svolto dai medici di medicina generale (mmg), che per evidenti ragioni di conoscenza e di contatto continuo con i pazienti hanno le maggiori potenzialità per svolgere un’efficace azione preventiva sulla popolazione nell’ambito del servizio sanitario nazionale. il medico di medicina generale svolge un ruolo centrale nella gestione della salute: egli è, infatti, profondamente radicato nel territorio di competenza, ha una conoscenza personale delle caratteristiche individuali dei propri pazienti e delle loro famiglie, ed è la figura sanitaria più idonea a motivare il paziente a operare un cambiamento radicale del proprio stile di vita, ponendosi come intermediario tra l’habitat naturale e sociale dei pazienti e la medicina tecnologica e sofisticata dei luoghi di cura specialistici. è pertanto fondamentale il ruolo del mmg in programmi, progetti e protocolli di prevenzione sanitaria e di promozione della salute. in italia oggi i mmg lavorano soprattutto in termini di “medicina di attesa”, cioè vengono chiamati a rispondere al bisogno percepito espresso dal paziente. è necessario, al fine di attuare un’efficace azione preventiva, che i medici di medicina generale operino attraverso una medicina declinata in termini di iniziativa e di opportunità. con un maggiore sforzo esplicativo, si intende per “medicina di iniziativa” l’attività sanitaria rivolta alle persone sane. si realizza essenzialmente nell’ambito di programmi di screening di popolazione, basandosi su manovre di prevenzione e diagnosi precoce e sulla promozione di stili di vita adeguati al mantenimento di un livello accettabile di benessere psico-fisico. la “medicina di opportunità” è finalizzata alla promozione di strategie preventive mirate nei riguardi di un singolo paziente che si rivolge al medico indipendentemente da motivi specifici o attinenti alla patologia cerebrovascolare [8]. sulla scorta delle accennate coordinate, emerge con evidenza come per la prevenzione dell’ictus, per il controllo e il trattamento dei fattori di rischio, sia fondamentale la figura del mmg ma soprattutto la collaborazione e la coordinazione tra medici di medicina generale e neurologi ospedalieri. un metodo efficace potrebbe essere la condivisione, tra queste due figure professionali, di una banca dati dei singoli pazienti, utile sia per la prevenzione primaria sia per quella secondaria, con l’obiettivo di stratificare il rischio cerebrovascolare sul singolo paziente e decidere un algoritmo clinico e strumentale condiviso e un corretto controllo farmacologico dei fattori di rischio, basato sulle attuali linee guida. a tal fine è auspicabile la creazione di un registro ospedaliero sugli eventi cerebrovascolari. lo strumento più opportuno è la cartella clinica elettronica [9], condivisa tra medico di medicina generale e neurologo ospedaliero. per il medico l’uso della cartella clinica elettronica ospedaliera è fondamentale per l’applicazione delle linee guida sulla prevenzione e il mantenimento della stato di salute, per la descrizione delle malattie e delle sue cause, per documentare le terapie in atto e i fattori di rischio preesistenti nel paziente, per stabilire i contenuti della lettera di dimissione e pianificare i controlli ambulatoriali, per raccordare la terapia ospedaliera con quella stabilita dal medico curante, per definire i sistemi di supporto alla decisione per la diagnosi e la terapia dei pazienti, per valutare e gestire il rischio per ogni paziente, per valutare le tecnologie impiegate. pertanto la cartella clinica elettronica è uno strumento indispensabile per una corretta politica sanitaria (assegnazione delle risorse, controllo della salute pubblica, pianificazione sanitaria), per un’adeguata educazione del personale sanitario (documentazione dell’esperienza degli operatori sanitari, formazione e aggiornamento professionale del personale medico e paramedico, preparazione di articoli e conferenze), per la ricerca clinica (identificazione di popolazioni a rischio, sviluppo di registri e database, valutazione del rapporto costi/benefici dei sistemi di registrazione, valutazione dell’impiego di una tecnologia o di uno strumento in sanità – health technology assessment). in conclusione, il contributo della cartella clinica elettronica risulta importante per le strategie preventive, che sono essenzialmente di due tipi: “strategia di massa nella popolazione”, volta a promuovere nell’intera popolazione stili di vita adeguati a vivere in salute al fine di diminuire il livello di incidenza dei vari fattori di rischio; “strategia individuale su rischio elevato”, finalizzata a identificare i fattori di rischio che agiscono nel singolo paziente e a correggerli sia farmacologicamente sia con modifiche dello stile di vita. in conclusione, è fondamentale per le strategie preventive la creazione di una banca dati o registro dell’ictus ospedaliero con il contributo del medico di medicina generale per una prevenzione secondaria più incisiva e una banca dati o registro del rischio di ictus a cura del medico di famiglia per una prevenzione primaria più accurata della popolazione a rischio. questa impostazione rende il medico di famiglia sempre più impegnato in prima linea nelle strategie preventive della malattia cerebrovascolare acuta. bibliografia 1. gensini gf, zaninelli a, ricci s, et al. spread, stroke prevention and educational awareness diffusion, vii edizione, ictus cerebrale: linee guida italiane di prevenzione e trattamento, stesura del 14 marzo 2012. disponibile all’indirizzo: http://www.siapav.it/pdf/spread%202012.pdf (ultimo accesso novembre 2014) 2. meschia jf, bushnell c, boden-albala b, et al. guidelines for the primary prevention of stroke: a statement for healthcare professionals from the american heart association/american stroke association. stroke 2014 oct 28. pii: str.0000000000000046. [epub ahead of print] 3. lindsay p, fuie kl, davis sm, et al. world stroke organization global stroke services guidelines and action plan. int j stroke 2014; 9 suppl a 100: 4-13 4. stroebele n, muller-riemenschneider f, nolte ch, et al. knowledge of risk factors, and warning signs of stroke: a systematic review from a gender perspective. int j stroke 2011; 6: 60-6; http://dx.doi.org/10.1111/j.1747-4949.2010.00540.x 5. wu y, zhang l, yuan x, et al. quantifying links between stroke and risk factors: a study on individual health risk appraisal of stroke in a community of chongqing. neurol sci 2011; 32: 211-9; http://dx.doi.org/10.1007/s10072-010-0333-2 6. al-salti a, viera l, cotè r. adherence to guidelines: experience of a canadian stroke prevention clinic. can j neurol sci 2014; 41: 562-7; http://dx.doi.org/10.1017/cjn.2014.20 7. gacionq z, sinski m, lewanolowski j. blood pressure control and primary prevention of stroke: summary of the recent clinical trial data and metanalyses. curr 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tumour cells remaining in the bone marrow during treatment. generally, mdd and mrd are measured by polymerase chain reaction, a highly sensitive technique. for a long time, bone marrow involvement has been considered an uncommon event in solid tumours. however, in recent years, several studies demonstrated that mdd and mrd could be powerful tools in paediatric non-hodgkin lymphoma for stratifying patients in different prognostic groups. risk stratification in future clinical trials on non-hodgkin lymphoma based on these newly identified risk categories should be useful to improve therapies in order to increase survival for high-risk patients and decrease toxicity for low-risk patients. keywords: minimal disseminated disease; minimal residual disease; non-hodgkin lymphoma; prognosis could (disseminated and residual) minimal disease be a useful prognostic marker in non-hodgkin paediatric lymphomas? cmi 2014; 8(2): 37-44 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i2.902 gestione clinica corresponding author dott.ssa lara mussolin laboratorio biologia tumori solidi istituto di ricerca pediatrico fondazione città della speranza clinica di oncoematologia pediatrica, azienda ospedaliera-università di padova corso stati uniti, 4 35127 padova tel: 049 821 5565 lara.mussolin@unipd.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo introduzione il progressivo miglioramento delle tecniche di indagine molecolare rappresenta uno dei fattori più importanti che hanno contribuito al raggiungimento dei risultati terapeutici oggi ottenuti in molti tumori dell’età pediatrica. il progredire delle conoscenze sulla biologia dei tumori ha consentito l’identificazione di parametri importanti per la classificazione e la stratificazione dei pazienti e per una terapia sempre più mirata. le leucemie costituiscono un esempio oramai indiscusso di come parametri biologici, e non solo clinici, consentano di identificare gruppi di pazienti con diversa prognosi; tra questi parametri il più importante di tutti è senza dubbio la malattia minima residua (mmr)[1-8]. con il termine “mmr” si definisce la quota di cellule neoplastiche presenti nel midollo osseo o nel torrente circolatorio di un paziente durante le diverse fasi della chemioterapia, che è al di sotto del livello identificabile con le tecniche convenzionali citomorfologiche. la ricaduta della malattia è infatti molto spesso espressione della persistenza di una quota di cellule residue resistenti alla terapia, le cui caratteristiche sono rimaste a lungo sconosciute proprio per la limitata sensibilità delle tecniche di analisi disponibili. la capacità di distinguere cellule maligne residue in una popolazione di cellule normali è strettamente dipendente dalla disponibilità di marcatori specifici per le cellule neoplastiche. la leucemia acuta promielocitica rappresenta un esempio eccellente di applicazione clinica dei risultati ottenuti dalla mmr [9], così come nella leucemia linfoblastica acuta la presenza di mmr > 10-3 al giorno +78 di terapia rappresenta uno dei parametri fondamentali per definire il paziente “ad alto rischio” e quindi per avviarlo a una terapia molto più aggressiva rispetto ai pazienti “a rischio standard” [10]. un altro importante parametro è la malattia minima disseminata, mmd, che si definisce come la quota minima di cellule blastiche presenti nel midollo osseo all’esordio di malattia, quindi prima che il paziente inizi il trattamento chemioterapico. nei linfomi non-hodgkin (lnh), nell’ultima decade, sono stati fatti molti progressi nella caratterizzazione molecolare e nell’utilizzo delle anomalie tumore-associate come target molecolare per il completamento del quadro diagnostico. in particolar modo in questi ultimi anni diversi studi condotti a livello internazionale [11-16] hanno dimostrato che anche nei lnh, la mmr può essere introdotta nella pratica clinica e può giocare un ruolo fondamentale nella stratificazione terapeutica iniziale dei pazienti e nel monitoraggio del follow-up. linfomi non-hodgkin pediatrici stadiazione e prognosi tra i numerosi tipi istologici di lnh che oggi vengono riconosciuti dai patologi, quelli che insorgono nel bambino sono in genere il linfoma di burkitt (lb), il linfoma diffuso a grandi cellule b (dlbcl), il linfoma linfoblastico (ll) e il linfoma anaplastico a grandi cellule (alcl) (tabella i). istologia fenotipo citogenetica localizzazione burkitt; burkitt-like; a grandi cellule b cellule b t(8;14) e varianti addome linfoblastico pre-t molte torace, linfonodi, ossa pre-b molte anaplastico a grandi cellule celllule t o null t(2;5) e varianti linfonodi, cute, organi parenchimatosi, tessuti molli, ossa altri linfomi t-periferici cellule t non note variabile tabella i. classificazione dei lnh in base al sottotipo istologico i distretti anatomici più spesso colpiti sono il mediastino, soprattutto nei ll o dlbcl, e l’addome nel lb. le procedure della stadiazione non differiscono in modo sostanziale da quelle dei linfomi degli adulti. l’unica differenza risiede nel diverso ruolo della chirurgia: infatti i lnh dell’età pediatrica si presentano molto spesso con una grossa massa addominale e/o mediastinica, per cui in molti centri si ricorre alla laparotomia esplorativa e/o alla mediastinoscopia per effettuare prelievi bioptici, soprattutto quando non ci sono linfonodi superficiali da sottoporre a biopsia. alla fine del bilancio esteso (chiamato “stadiazione”) si potrà definire lo stadio della malattia. quello attualmente in uso nei linfomi pediatrici è il sistema di stadiazione adottato dal saint jude children’s research hospital, in cui si distinguono gli stadi i, ii, iii o iv a seconda dell’estensione di malattia [17]. diagnosi di certezza e stadio di malattia sono parti integranti, insieme a selezionati parametri di chimica clinica (valori di lattico deidrogenasi – lad sierica), della categorizzazione di questi pazienti in specifici gruppi di rischio. l’appartenenza a uno specifico gruppo di rischio permette l’assegnazione del bambino a un definito programma terapeutico. il lb era gravato da una prognosi molto grave negli anni ’70, quando la percentuale di guarigione si attestava attorno al 10%. la probabilità di guarigione salì a circa il 35% nei primi anni ’80 per raggiungere valori di 80-90% negli anni ’90, valore che, con qualche oscillazione, si è mantenuto stabile nell’ultimo decennio [18-20]. per quanto riguarda la terapia dell’alcl, da diversi anni i risultati raggiunti si attestano su un event free survival (efs) di circa 70-75% e una overall survival (os) di circa 90%, a 5 anni. ciò è vero indipendentemente dall’uso di una terapia simile a quella utilizzata per la leucemia linfatica acuta, ossia di lunga durata ma di dose-intensità ridotta, oppure di una terapia breve, basata sul concetto di cicli brevi e intensi, come quelli per il linfomi a cellule b [21-23]. anche per il ll sono state utilizzate diverse strategie terapeutiche in questi anni basate sul modello francese lsa2l2 o su quello tedesco bfm (berlin-frankfurt-münster), ottenendo una efs variabile tra il 65% e il 90% [24-26]. entrambi i protocolli sono divisi in varie fasi (induzione, consolidamento, reintensificazione e mantenimento) e includono l’utilizzo di corticosteroidi, vincristina, antracicline, ciclofosfamide e l-asparaginasi, metotrexato, citarabina, 6-mercaptopurina e 6-tioguanina. le principali differenze consistono nell’utilizzo precoce della l-asparaginasi e nell’utilizzo di metotrexato ad alte dosi nel modello bfm. la durata di entrambi i protocolli varia tra 18 e 24 mesi. la fase del mantenimento nel modello francese prevede ancora l’utilizzo di ciclofosfamide e antracicline, mentre nel modello tedesco vengono utilizzati solo 6-mercaptopurina e metotrexato [27]. i miglioramenti più sensibili in termini prognostici si sono avuti grazie agli studi collaborativi internazionali, e questi miglioramenti sono avvenuti nonostante non fossero disponibili farmaci nuovi rispetto a quelli utilizzati negli anni ’80. gli studi di mmd e mmr condotti a livello internazionale hanno dimostrato come oggi l’oncologo pediatra possa usufruire di strumenti importanti (mdd-mrd) per discriminare pazienti con prognosi diversa. approccio tecnologico per lo studio della mmr le tecniche per lo studio di mmd e mmr devono soddisfare criteri di specificità (discriminazione rispetto alle cellule normali), di sensibilità (identificazione di una cellula tumorale su 1.000-100.000 cellule normali), di riproducibilità e di applicabilità, che consentano la standardizzazione e il successivo utilizzo in un numero elevato di pazienti per indirizzare le scelte terapeutiche. nelle leucemie sono stati applicati metodi di immunologia, di citogenetica molecolare e di biologia molecolare che hanno permesso di identificare in modo sempre più specifico e sensibile la quota di mmr. le tecniche di indagine molecolare permettono di rilevare la persistenza di una cellula tumorale su 100.000 cellule normali e ciò rende ragione della straordinaria potenzialità di tali indagini, se si considera che, al contrario, la valutazione morfologica ha una sensibilità inferiore, pari a 1 cellula su 100. diversi sono i geni target che possono essere utilizzati come marcatori clonali specifici per le cellule tumorali. in particolare, i geni coinvolti nelle traslocazioni cromosomiche che si associano alle diverse patologie oncoematologiche sono i bersagli ideali per tale approccio. un approccio alternativo è rappresentato dallo studio dei riarrangiamenti somatici dei geni del recettore t per l’antigene (tcr) o delle catene leggera (igk) e pesante (igh) delle immunoglobuline. analogamente a quanto si verifica nella normale differenziazione dei linfociti t e b, anche le malattie linfoproliferative presentano un riarrangiamento di tali geni, la cui natura clonale rende possibile lo sviluppo di una sonda specifica [28]. lo studio di clonalità, tuttavia, è molto più indaginoso e costoso rispetto allo studio delle traslocazioni cromosomiche (tabella ii). metodo alcl (% dei casi) lb (% dei casi) ll (% dei casi) sensibilità vantaggi svantaggi amplificazione di trascritti di fusione o geni mediante pcr [11,12] ~95% ~75% 10-4-10-6 alta sensibilità velocità di esecuzione basso costo assenza di quantificazione degradazione dell’rna amplificazione delle regioni di giunzione del riarrangiamento ig/tcr mediante pcr [28] ~95% ~95% 10-4-10-5 alta sensibilità quantificazione accurata elevata laboriosità alto costo analisi citofluorimetrica di uno specifico fenotipo [29] ~95% ~95% 10-4 basso costo velocità di esecuzione necessità di elevata esperienza tabella ii. metodi di laboratorio per lo studio di mmd/mmr nei lnh pediatrici. viene riportata la percentuale dei casi in cui è possibile lo studio di mmd e mmr, a seconda del sottotipo istologico e del metodo utilizzato alcl = linfoma anaplastico a grandi cellule; lb = linfoma di burkitt; ll = linfoma linfoblastico; lnh = linfomi non-hodgkin; mmd = malattia minima disseminata; mmr = malattia minima residua; pcr = polymerase chain reaction; tcr = t cell receptor nei lnh pediatrici i risultati più importanti ottenuti in questi ultimi anni, in termini di applicabilità alla pratica clinica, si basano sull’utilizzo delle traslocazioni cromosomiche come marcatori di malattia. a scopo esemplificativo in figura 1 è mostrato il monitoraggio, mediante polymerase chain reaction (pcr), di un caso di linfoma anaplastico a grandi cellule. la ricerca mediante pcr del trascritto chimerico npm-alk, derivante dalla traslocazione cromosomica t(2;5), permette di valutare la presenza di cellule tumorali nel sangue midollare e periferico durante le diverse fasi della terapia, e di dimostrare la persistenza o la ricomparsa di malattia molecolare anticipando la recidiva clinica. il paziente di cui in figura 1 è riportato lo studio di mmd e mmr ha mostrato non solo una positività della mmd all’esordio, ma anche una positività della mmr dopo il primo ciclo di chemioterapia, nonostante il raggiungimento della remissione clinica. questo paziente è recidivato dopo 3 mesi dallo stop terapia e successivamente è stato avviato al trapianto di midollo osseo. figura 1. elettroforesi che illustra lo studio mediante pcr di mmd e mmr in un caso di linfoma anaplastico a grandi cellule per la ricerca del trascritto chimerico npm-alk derivante dalla traslocazione cromosomica t(2;5) a.m. = aspirato midollare; β2-microglobulina = gene housekeeping utilizzato per valutare la qualità del campione e l’efficienza della reazione di retrotrascrizione; ca46 = linea cellulare tumorale di linfoma b usata come controllo negativo; karpas 299 = linea cellulare di alcl usata come controllo positivo; s.p. = sangue periferico; t = biopsia tumorale un aspetto importante che vale la pena sottolineare è che il monitoraggio della mmr richiede che essa sia validata in studi clinici controllati e che le tecniche molecolari utilizzate siano standardizzate [30-32]. grazie agli studi condotti dall’european intergroup for childhood non-hodgkin lymphoma (eicnhl), è stato possibile definire le condizioni più appropriate per l’utilizzo della pcr e per lo studio della mmr in determinati sottotipi istologici di lnh. in particolare, per quanto riguarda l’alcl, l’eicnhl ha stabilito che lo studio di mmr, utilizzando come target la traslocazione t(2;5), deve essere condotto mediante pcr qualitativa e non quantitativa in quanto quest’ultimo saggio risulta poco riproducibile tra i diversi gruppi europei. per quanto riguardo il lb, lo studio deve essere condotto mediante pcr, utilizzando come target la traslocazione t(8;14). la malattia minima come nuovo fattore di prognosi l’identificazione di fattori prognostici deve rappresentare l’obiettivo principale della ricerca in onco-ematologia pediatrica. la stratificazione dei pazienti in gruppi di rischio basati su questi fattori dovrebbe contribuire a migliorare i risultati consentendo di dare a ciascun paziente il minimo della terapia efficace, riducendo così gli effetti collaterali della chemioterapia. a partire dagli anni ’90 sono comparsi i primi studi su casistiche, in seguito sempre più ampie, di nuovi fattori prognostici soprattutto molecolari, nell’ambito delle leucemie [1,33,34]. nell’ambito dei lnh, si è progressivamente cominciato a utilizzare le anomalie tumore-associate come target molecolare per il completamento del quadro diagnostico [35,36]. come detto precedentemente, le anomalie tumore-associate rappresentano ottimi marcatori per gli studi di mmd e mmr. tra i lnh b, i più frequenti, come già menzionato, sono i linfomi a piccole cellule non clivate (burkitt e simil-burkitt) che costituiscono circa il 45% dei lnh pediatrici. l’aberrazione cromosomica più frequente è la traslocazione t(8;14)(q24;q32) che coinvolge il gene myc sul cromosoma 8 e il locus per la catena pesante delle immunoglobuline (igh) sul cromosoma 14. uno studio dell’associazione italiana di emato-oncologia pediatrica (aieop) condotto in un’ampia casistica di lb (134 casi pediatrici) ha dimostrato come la presenza di mmd, basata sulla ricerca della traslocazione t(8;14) tramite pcr nel midollo osseo all’esordio, rappresenti in analisi multivariata un fattore prognostico negativo con un rischio relativo di recidiva pari a 4,7: pertanto i pazienti con mmd positiva all’esordio hanno un rischio di recidivare circa 5 volte maggiore rispetto ai pazienti con mmd negativa [14]. la progression-free survival (pfs) a 3 anni è risultata essere del 68% (±10%) nei pazienti positivi per mmd e del 93% (±5%) per i pazienti negativi (p = 0,03) [14]. sulla base di questo importante risultato lo studio di mmd e mmr è stato introdotto nel nuovo trial internazionale randomizzato per i linfomi non-hodgkin b ad alto rischio e per la leucemia linfoblastica acuta b (inter-b-nhl ritux 2010). gli alcl rappresentano invece circa il 15% dei lnh pediatrici. l’aberrazione cromosomica più frequente è la traslocazione t(2;5)(p23;q35) presente in circa il 95% degli alcl pediatrici [37]. questa traslocazione coinvolge sul cromosoma 5 il gene npm, che codifica per la proteina ubiquitaria nuclefosmina o b23 e il gene alk (anaplastic lymphoma kinase) che si trova sul cromosoma 2. la traslocazione porta alla formazione sul cromosoma derivativo 5 di un gene di fusione npm-alk attivo dal punto di vista trascrizionale, il quale rappresenta un ottimo marcatore molecolare per lo studio di mmd e mmr. il primo lavoro sull’impatto prognostico della mmd è stato condotto in 52 pazienti pediatrici italiani affetti da alcl. in questo studio ben il 61% dei pazienti è risultato positivo per mmd nel midollo osseo alla diagnosi. la pfs a 5 anni è risultata essere del 41% per i pazienti mmd positivi e del 100% per quelli negativi (p = 0,001) [12]. accanto agli studi di mmd e mmr, a partire dalla fine degli anni ’90 sono stati pubblicati alcuni lavori molto interessanti anche per quanto riguarda la risposta immunologica. nel 2000 karen pulford e i suoi collaboratori, mediante un saggio immunocitochimico, hanno dimostrato per la prima volta la presenza di anticorpi anti-alk in 11/11 pazienti adulti affetti da alcl studiati. tuttavia, a causa del numero esiguo di pazienti su cui era stato possibile condurre lo studio, non sono stati in grado di arrivare a nessuna conclusione in merito al significato clinico che questa risposta umorale può avere, sottolineando l’importanza di estendere lo studio a una casistica più ampia [38]. già all’inizio degli anni ’50, gli scienziati avevano dimostrato che era possibile indurre una risposta immune contro tumori sperimentali murini autologhi, suggerendo la presenza sulle cellule tumorali di antigeni riconosciuti come estranei dal sistema immune e definiti quindi “antigeni tumore-associati” (taa). esempi ben noti di taa riconosciuti sia a livello di immunità cellulo-mediata sia umorale sono her-2/neu e ny-eso-1 [39,40]. quando nel 1999 iniziò in italia e negli altri paesi europei l’arruolamento dei pazienti nel nuovo protocollo internazionale alcl-99, si sapeva che il coinvolgimento mediastinico, viscerale e cutaneo rappresentavano dei fattori prognostici negativi, e per questo motivo il trattamento dei pazienti era stato differenziato in base alla presenza o assenza di queste caratteristiche, mancando dati più prettamente biologici che potessero permettere una migliore stratificazione dei pazienti. lo studio di mmd, mmr e gli studi immunologici hanno permesso di far luce su alcuni aspetti biologici di questa neoplasia. grazie a una stretta collaborazione tra il gruppo italiano aieop e il gruppo tedesco bfm, recentemente è stato dimostrato, su una casistica di 128 pazienti, che queste due variabili biologiche possono essere combinate assieme per individuare pazienti con prognosi grave (ossia mmd-positivi e titolo anticorpale anti-alk basso, pfs a 5 anni del 27%±9%) o con prognosi molto buona (ossia mmd-negativi e titolo anticorpale anti-alk alto, pfs a 5 anni del 90%±4%) [15]. lo studio collaborativo aieop-bfm ha inoltre dimostrato il valore prognostico della mmr valutata dopo il primo ciclo di chemioterapia. i pazienti che persistono positivi per mmr hanno un rischio di recidiva circa 6 volte superiore agli altri (l’efs a 5 anni per i pazienti mmr-positivi è del 19%±8%; per i pazienti mmr-negativi ma mmd-positivi è del 69%±9%; infine per quelli mmd-negativi risulta essere dell’82%±5%) [16]. l’alcl pediatrico rappresenta un esempio di eccellente applicazione dell’espressione from bench to bedside; infatti il nuovo protocollo internazionale per il trattamento degli alcl pediatrici baserà la stratificazione iniziale dei pazienti, e quindi il conseguente regime chemioterapico, su questi risultati biologici. infine per quanto riguarda il ll, i risultati ottenuti da coustan-smith e collaboratori su una casistica pediatrica di 99 casi dimostrano che la mmd, analizzata tramite analisi citofluorimetrica, ha un valore prognostico in analisi univariata (efs per pazienti con mmd > 5%: 68%±11%; efs per pazienti con mmd < 5%: 91%±4%). resta tuttavia da confermare il dato in analisi multivariata [41]. l’ultimo aspetto su cui vale la pena fare una riflessione è il tipo di campione biologico. la malattia minima è sempre stata studiata a livello di midollo osseo, tuttavia per quanto riguarda i linfomi, in particolar modo l’alcl, diversi studi hanno dimostrato come anche il prelievo di sangue periferico possa rappresentare un ottimo campione biologico [13,15]. il confronto tra la mmd studiata a livello di aspirato midollare e di sangue periferico ha mostrato un’elevata concordanza; per tale motivo nel nuovo protocollo internazionale che l’eicnhl sta disegnando per il trattamento dell’alcl pediatrico, lo studio di mmd e mmr, fondamentale per la stratificazione dei pazienti, potrà essere eseguito nel campione di aspirato midollare o nel sangue periferico. conclusioni concludendo, sia la mmd sia la mmr rappresentano per i lnh pediatrici degli ottimi marcatori di prognosi. i risultati ottenuti in questi studi hanno dimostrato come il laboratorio sia in grado di fornire una quantità enorme di dati biologici, la conoscenza di molti dei quali è e sarà sempre più importante in futuro per la gestione dei protocolli terapeutici. poiché le caratteristiche biologiche di un tumore sono quelle che ne determinano le manifestazioni cliniche, il laboratorio e la terapia devono essere considerati due entità che cooperano per affrontare lo stesso problema. lo scopo finale è quello di avere il maggior numero di informazioni possibili, costruendo una griglia di dati biologici e clinici che permettano di poter eseguire un trattamento terapico su misura per il paziente. punti chiave con il termine “mmd” (malattia minima disseminata) si definisce la quota minima di cellule blastiche presenti nel midollo osseo all’esordio di malattia, quindi prima che il paziente inizi il trattamento chemioterapico con il termine “mmr” (malattia minima residua) si definisce la quota di cellule neoplastiche presenti nel midollo osseo o nel torrente circolatorio di un paziente durante le diverse fasi della chemioterapia le tecniche per lo studio di mmd e mmr devono soddisfare particolari criteri di specificità, di sensibilità e di riproducibilità; per tali motivi gli studi di mmd e mmr vengono sempre condotti in laboratori specializzati il linfoma di burkitt (lb), il linfoma linfoblastico (ll) e il linfoma anaplastico a grandi cellule (alcl) sono i linfomi non-hodgkin più diffusi in età pediatrica lo studio di mmd e mmr nei linfomi non-hodgkin pediatrici può essere introdotto nella pratica clinica e può giocare un ruolo fondamentale nella stratificazione terapeutica iniziale dei pazienti e nel monitoraggio del follow-up ringraziamenti un ringraziamento particolare al prof. a. rosolen, a colui che è stato il mio maestro per più di dieci anni, che mi ha trasmesso la passione per la ricerca e con cui ho intrapreso il progetto per lo studio della malattia minima residua nei linfomi non-hodgkin. bibliografia 1. van dongen jj, seriu t, panzer-grumayer er, et al. prognostic value of minimal residual disease in acute lymphoblastic leukaemia in childhood. lancet 1998; 352: 1731-8; http://dx.doi.org/10.1016/s0140-6736(98)04058-6 2. szczepanski t, orfao a, van der velden vh, et al. minimal residual disease in leukaemia patients. lancet oncology 2001; 2: 409-7; http://dx.doi.org/10.1016/s1470-2045(00)00418-6 3. gaipa g, basso g, maglia o, et al. drug-induced immunophenotypic modulation in childhood all: implications for minimal residual disease detection. leukemia 2005; 19: 49-56  4. flohr t, schrauder a, cazzaniga g, et al. minimal residual disease-directed risk stratification using real-time quantitative pcr analysis of immunoglobulin and t-cell receptor gene rearrangements in the international 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high-risk patients such as the elderly, immunocompromised patients, etc. we report an unexpected decrease of international normalized ratio (inr) response to warfarin during a first recurrence of clostridium difficile infection (cdi) treated with fidaxomicin. the patient, an old man who has prosthetic heart valves on anticoagulation therapy with warfarin, was treated with an association of vancomycin plus metronidazole for a first episode of cdi. patient remained symptom-free for few days and then he presented with recurrent diarrhea. a retreatment with vancomycin and metronidazole didn’t resolve symptoms of cdi, therefore he underwent fidaxomicin treatment for 10 days, with rapid resolution of diarrhea. in the meantime, warfarin effects diminished, and only with increases of dosage inr therapeutic range was achieved few days after discontinuing fidaxomicin. according to product information, fidaxomicin doesn’t interfere with warfarin. the authors highlight the different plausible mechanisms to explain the association between the unexpected decreased effect of warfarin and factors that could have influenced such event. the frequent update of product information through good pharmacovigilance practices could help clinicians in the management of unexpected events. keywords: clostridium difficile infection; warfarin; fidaxomicin; vitamin k decreased warfarin effects in elder with recurrent clostridium difficile infection during fidaxomicin therapy: a case report cmi 2015; 9(1): 7-12 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i1.953 caso clinico corresponding author dott.ssa maria foggia dipartimento assistenziale integrato di medicina clinica unità operativa complessa di malattie infettive azienda ospedaliera universitaria federico ii – napoli tel. 081-7463166 mariafoggia@alice.it disclosure il presente articolo è stato realizzato con il supporto di astellas pharma s.p.a. perché descriviamo questo caso la progressiva riduzione degli effetti di warfarin in corso di infezione ricorrente da clostridium difficile trattata con fidaxomicina riportata in questo caso si può imputare a più fattori. in situazioni analoghe può risultare utile un monitoraggio più frequente dell’inr in modo da individuare rapidamente una fluttuazione di tale indice con conseguente aumento del rischio di complicanze e prolungamento del periodo di ospedalizzazione introduzione in italia, le infezioni da clostridium difficile (cdi) risultano negli ultimi anni in progressivo aumento [1] e rappresentano la principale causa di diarrea nosocomiale [2], a cui si associa un più elevato rischio di mortalità [3]. è inoltre elevata la frequenza di recidive, anche multiple, dopo il trattamento con vancomicina o metronidazolo, pietra miliare della gestione terapeutica in prima linea delle cdi [4]. i fattori di rischio per la recidiva di cdi sono l’età (> 60 anni), l’uso di terapie antibiotiche protratte o combinate, l’assunzione di inibitori di pompa protonica o l’alimentazione con sondino naso-gastrico, l’ospedalizzazione, l’immunodepressione, il trapianto di midollo osseo e/o di organi solidi e le gravi patologie (fibrosi cistica, neoplasie ematologiche, malattia infiammatoria intestinale cronica, insufficienza renale cronica) [3]. fidaxomicina, un antibiotico macrociclico, ha ricevuto di recente l’approvazione per il trattamento negli adulti delle cdi [5]. in italia è commercializzata con il nome dificlir® [5]. studi registrativi hanno dimostrato per fidaxomicina un’efficacia pari a vancomicina nel trattamento della cdi in termini di guarigione clinica. inoltre è risultata significativamente più efficace nel ridurre le recidive di cdi rispetto a vancomicina [6-8]. fidaxomicina presenta un buon profilo di tollerabilità con minimo assorbimento sistemico [9,10]; come tutti i nuovi principi attivi approvati nell’unione europea dopo il 1° gennaio 2011, risulta attualmente compresa nella lista di medicinali sottoposti a monitoraggio addizionale da parte delle autorità regolatorie dell’agenzia europea per i farmaci (ema), al fine di consentire la rapida identificazione di nuove informazioni relative alla sicurezza e stabilire pertanto il rapporto beneficio/rischio del medicinale. agli operatori sanitari è richiesta la segnalazione di qualsiasi reazione avversa sospetta tramite il sistema nazionale di segnalazione facente capo all’agenzia italiana del farmaco (aifa) [5]. tra le interazioni farmacologiche di fidaxomicina con altri farmaci e altre forme di interazione descritte in scheda tecnica non vi è alcun riferimento ai dicumarolici, quali warfarin [5]. caso clinico il caso clinico di seguito descritto si riferisce a un anziano di 77 anni giunto alla nostra osservazione nel dicembre 2013 per infezione ricorrente da clostridium difficile. tra i dati salienti in anamnesi patologica remota, il paziente riferisce la febbre reumatica, insorta all’età di 20 anni, da cui residuava stenosi valvolare mitralica; una fibrillazione atriale permanente insorta nel 1976; un episodio di trombosi venosa profonda dell’albero vascolare dell’arto inferiore sinistro nel 1989, in occasione del quale veniva sottoposto a un intervento di sostituzione valvolare mitralica e aortica. nel 2012 presentava un leak periprotesico mitralico diagnosticato con ecocardiogramma transesofageo con evoluzione verso lo scompenso cardiaco con versamento pleurico e ricorso a due toracentesi evacuative. più recentemente, nell’ottobre 2013 veniva sottoposto a reintervento di sostituzione valvolare mitralica con protesi meccanica sjm 27 mm e anuloplastica tricuspidale in gore-tex® 7,5 cm, con decorso postoperatorio complicato da versamento pleurico, trattato con toracentesi e sindrome da bassa gittata, trattata con inotropi. veniva quindi trasferito presso un centro per lungodegenti per la riabilitazione cardiopolmonare. nel corso del suddetto ricovero, comparivano diarrea e algie addominali. risultava positiva la ricerca di tossina a/b di clostridium difficile nelle feci, e veniva intrapresa una terapia di combinazione con vancomicina (500 mg × 3/die, per os) e metronidazolo (500 mg × 3/die, e.v.) per 10 giorni con risoluzione della sintomatologia. veniva dimesso a fine novembre 2013. a domicilio proseguiva il trattamento cardiologico con amiodarone 200 mg 1 compressa/die, furosemide 25 mg 1 compressa × 4/die, kanreonato di potassio 100 mg 1 compressa/die, warfarin 5 mg 2,5 mg/die 5 giorni la settimana e 3,75 mg 2 giorni a settimana. dopo circa 7 giorni dalla dimissione, ricomparivano diarrea e algie addominali. il paziente si recava nuovamente presso l’unità di riabilitazione cardiopolmonare il 4 dicembre 2013, ove veniva prescritta nuovamente l’associazione vancomicina (1 fl 500 mg × 3/die, p.o.) e metronidazolo (500 mg × 3/die, e.v.). nonostante il trattamento, si osservava un progressivo peggioramento delle condizioni cliniche, con comparsa di feci muco-sanguinolente. sette giorni dopo viene ricoverato presso la nostra unità operativa complessa di malattie infettive per il persistere della diarrea muco-sanguinolenta con emissione di 6-8 scariche al giorno, in assenza di disturbi quali nausea, vomito, febbre, calo ponderale. all’atto del ricovero, il paziente risulta orientato nel tempo e nello spazio. all’esame obiettivo si riscontrano ipotonia e ipotrofia muscolare con edemi declivi. l’attività cardiaca risulta aritmica con toni rinforzati sul focolaio mitralico e soffio sistolico di intensità 2/6 su focolaio aortico. il murmure vescicolare è aspro su tutto l’ambito polmonare e ridotto in campo medio-basale destro e basale sinistro, ove si rinviene un’area di ottusità alla percussione. all’esame obiettivo dell’addome è presente un meteorismo diffuso con moderata dolorabilità alla palpazione profonda in fossa iliaca sinistra, con peristalsi presente; il fegato risulta palpabile a circa 2 cm dall’arcata costale con milza palpabile all’arco costale. tra gli esami strumentali l’elettrocardiogramma mostra fibrillazione atriale a risposta ventricolare media di 100 battiti/minuto. il radiogramma toracico evidenzia una diffusa velatura verosimilmente pleurogena in medio campo polmonare e in basale destra con obliterazione del seno costofrenico omolaterale, stria di disventilazione parenchimale in medio campo polmonare omolateralmente, nonché esiti di sternotomia mediana con sostituzione valvolare cardiaca e aumento di volume dell’ombra cardiaca. i valori dei principali parametri ematici monitorati nel corso del ricovero sono riassunti nella tabella i. range 11/12 12/12 16/12 19/12 20/12 21/12 22/12 23/12 24/12 25/12 26/12 27/12 28/12 29/12 wbc (n/ml) 4.800-10.800 9.000 11.860 4.860 4.600 4.300 5.400 4.620 7.400 5.300 4.300 rbc (x 106/ml) 4,2-5,6 3,64 3,67 3,31 3,1 3,3 3,07 3,28 3,1 2,88 3 plt (x 103/ml) 130-400 411 433 308 232 217 191 200 163 147 149 hb (g/dl) 12,0-17,5 11,4 11,3 10,7 9,6 10,4 10,3 10,1 10,1 10,1 9,9 neu (%) 40-70 82,5 81,3 71,5 64,2 65,8 64,6 60 74,3 69,5 61,4 alb (g/dl) 3,6-5,2 2,9 3 2,9 3 3 2,9 3,1 pt (%) 70-130 20,8 21,2 17,9 38,7 43,6 43,9 68,2 53,7 45 34,3 31,1 32,6 27 24,1 inr 2,0-3,0* 3,22 3,15 3,69 1,89 1,7 1,69 1,27 1,41 1,65 2,08 2,23 2,16 2,48 2,71 fbr (mg/dl) 160-350 510,7 483,5 495,9 478,8 495,9 434,6 212,9 413 470,1 464,2 524,5 423,7 402,6 tabella i. parametri ematici riscontrati in corso di ricovero. nelle colonne in giallo sono riportati i parametri nel periodo in cui si è osservata la riduzione degli effetti di warfarin. in grassetto i parametri emocoagulativi pt e inr nel periodo di riduzione degli effetti di warfarin alb = albumina; fbr = fibrinogeno; hb = emoglobina; inr = international normalized ratio; neu = neutrofili; plt = piastrine; pt = tempo di protrombina; rbc = eritrociti; wbc = leucociti *valori raccomandati per pazienti in terapia con warfarin una valutazione cardiologica effettuata al ricovero pone indicazione, pur in presenza di diarrea muco-sanguinolenta, a continuare warfarin dato l’alto rischio trombotico connesso al tipo di protesi mitralica. inoltre, amiodarone viene sospeso e sostituito con un digitalico. viene introdotta una dieta a basso contenuto di fibre e priva di legumi. in considerazione dell’inefficacia dell’associazione metronidazolo e vancomicina assunta per 12 giorni, si decide di intraprendere immediatamente il trattamento con fidaxomicina (dificlir®), alla posologia standard di 2 compresse da 200 mg/die per 10 giorni (dal 14/12/13 al 23/12/13). il quadro clinico evolve verso un rapido miglioramento con drastica riduzione delle scariche diarroiche (1/die) e scomparsa dell’ematochezia in 2 giorni, fino allo switch verso uno stato di costipazione (in ottava giornata di trattamento con fidaxomicina si ricorre a clistere evacuativo). contestualmente al miglioramento delle manifestazioni intestinali, si riscontra una progressiva compromissione dello status emocoaugulativo. i controlli seriati di attività protrombinica e inr mostrano un graduale trend in senso ipercoagulativo, da cui la necessità di adeguamento della terapia anticoagulante con incremento del dosaggio di warfarin e, in attesa del raggiungimento di un inr di 3, con l’introduzione di eparina a basso peso molecolare (nadroparina calcica 0,6 mg 1 fl ev) (figura 1). figura 1. dose giornaliera di warfarin e international normalized ratio (inr) alla sospensione del trattamento con fidaxomicina, il monitoraggio dei parametri emocoagulativi rivela un progressivo incremento dei valori di inr sino al raggiungimento dei valori target. vengono ripristinati i dosaggi iniziali di warfarin e sospesa l’eparina. il 30 dicembre 2013 il paziente viene dimesso. nel corso di controlli ambulatoriali nei 3 mesi successivi alla dimissione il paziente non ha segnalato ricomparsa di diarrea né di altro disturbo gastrointestinale; l’inr è risultato nel range terapeutico e il paziente ha proseguito il trattamento con warfarin senza alcuna variazione della posologia. domande da porsi di fronte a questo caso quali sono i possibili fattori che hanno determinato una reversione dell’effetto anticoagulante di warfarin? è possibile correggerli? discussione il caso clinico segnalato, che si riferisce a un paziente con varie comorbilità e in terapia con numerosi farmaci, sembrerebbe a una prima analisi evidenziare un’inattesa relazione causale tra assunzione di fidaxomicina e reversione dell’effetto anticoagulante di warfarin, quest’ultimo assunto dal paziente da mesi con target terapeutico stabilmente mantenuto con i dosaggi prescritti. il fenomeno osservato ha avuto inizio in quarta giornata di terapia con fidaxomicina e si è protratto sino a 4 giorni dalla fine del ciclo di trattamento con tale farmaco, con il ricorso a vari aggiustamenti posologici del dicumarolico e l’introduzione in terapia di nadroparina calcica per 4 giorni. in letteratura e nella scheda tecnica di fidaxomicina non è tuttavia segnalata alcuna interazione tra i due farmaci tale da consentire di ricondurre l’effetto osservato a un’interazione fidaxomicina/dicumarolico. è noto che sono molteplici i fattori che possono influire sull’azione degli anticoagulanti dicumarolici quali warfarin [11]. tra questi giocano un ruolo determinante l’assorbimento e il metabolismo del farmaco, funzione peraltro sia dell’integrità della superficie epiteliale del tratto digerente impegnato nell’assorbimento di warfarin sia dell’assorbimento e sintesi della vitamina k. l’inattesa riduzione degli effetti di warfarin può essere imputabile a un malassorbimento del farmaco, secondario alla concomitante e prolungata infezione intestinale dominata da diarrea profusa. è noto infatti che molte sindromi da malassorbimento (ad es. morbo di crohn, dissenteria, colite ulcerosa) possono accompagnarsi a un ridotto assorbimento del farmaco. il miglioramento clinico osservato dopo introduzione di fidaxomicina può aver determinato una rapida ripresa dell’assorbimento del dicumarolico con raggiungimento in tempi brevi del target terapeutico, dando l’erronea impressione di un effetto collaterale indotto da fidaxomicina e risoltosi dopo la sua sospensione. si può considerare il legame farmacoproteico di warfarin che si lega quasi completamente alle proteine plasmatiche, specialmente all’albumina, distribuendosi rapidamente in un volume equivalente allo spazio dell’albumina. nella tabella i sono riportati i valori di albuminemia, che risultano inferiori al valore minimo normale. tale condizione, verosimilmente secondaria a un periodo di malnutrizione, può aver comportato una più breve emivita del farmaco con riduzione dell’effetto anticoagulante. ciononostante i valori di inr si sono in seguito progressivamente ripristinati nonostante l’albuminemia non abbia subìto variazioni. si può speculare anche su un possibile ruolo dei livelli di vitamina k, di cui warfarin è antagonista, nel fenomeno osservato. la risposta ipoprotrombinemica ai dicumarolici è influenzata dai livelli di vitamina k, in parte proveniente dalla dieta e in parte sintetizzata da batteri intestinali. i pazienti in trattamento con dicumarolici ricevono indicazioni ben precise sui cibi da evitare poiché ricchi di vitamina k. è noto che le principali fonti alimentari di vitamina k sono i vegetali a foglie verdi (broccoli, cavolo, spinaci, verza), che nel caso segnalato non erano previsti nello schema dietetico adottato in corso di ricovero e non erano abitualmente consumati dal paziente. un ulteriore fattore da considerare è il ruolo della microflora batterica intestinale nei meccanismi di produzione della vitamina k. in condizioni di diarrea protratta a eziologia infettiva è frequente un’alterazione della flora batterica intestinale. tale fenomeno è favorito peraltro, come nel caso descritto, dal trattamento prolungato con antibiotici che possono alterare l’equilibrio tra le specie batteriche normali commensali dell’intestino. a supporto di ciò, a distanza di qualche mese dal ricovero del paziente (aprile 2014), è stato pubblicato un caso clinico relativo a un paziente sottoposto a intervento cardiochirugico al quale è stato prescritto un probiotico contenente clostridium butyricum. contemporaneamente all’assunzione del probiotico, il paziente iniziava una terapia con warfarin, senza però ottenere un sufficiente effetto anticoagulante nonostante gli alti dosaggi di dicumarolico, fintanto che non è stato sospeso il probiotico. sempre in ambito speculativo, gli autori concludono che il clostridium potrebbe aver modificato la produzione di vitamina k nella flora batterica intestinale attenuando in tal modo l’effetto anticoagulante di warfarin [12]. tra le possibili interazioni farmacologiche di warfarin, va considerato il trattamento con amiodarone per l’aritmia cardiaca, sospeso circa 2 giorni prima dell’inizio della terapia con fidaxomicina, nonché il trattamento ripetuto con metronidazolo per la diarrea da clostridium. in entrambi i casi si sarebbe dovuto assistere a un potenziamento degli effetti del dicumarolico, come descritto in entrambe le schede tecniche. il caso descritto è stato segnalato al servizio di farmacovigilanza aziendale e, da qui, all’aifa. la rapida acquisizione di notizie relative alla tollerabilità di farmaci di recente introduzione può fornire al clinico gli strumenti necessari a una migliore interpretazione e gestione di eventi inattesi e potenzialmente rischiosi per il paziente. conclusioni essendo molteplici i fattori che hanno potuto concorrere nel determinare la reversione dell’effetto del dicumarolico (diarrea protratta con malassorbimento, terapia antibiotica protratta con alterazione della flora batterica intestinale, alterazione nella produzione di vitamina k, interazioni farmacologiche, etc.), non è possibile ricondurre il fenomeno osservato a un’interazione warfarin/fidaxomicina. poiché il trattamento con dicumarolici può essere di comune riscontro tra i pazienti più a rischio di cdi, quali gli anziani, suggeriamo un monitoraggio più frequente dell’inr in caso di prima infezione o recidiva da clostridium difficile, in modo da individuare rapidamente una fluttuazione di tale indice con conseguente aumento del rischio di complicanze e prolungamento del periodo di ospedalizzazione. punti chiave la riduzione degli effetti di warfarin osservata in concomitanza con il trattamento con fidaxomicina per infezione ricorrente da clostridium difficile è verosimilmente imputabile a più fattori, non essendo note interazioni warfarin/fidaxomicina le interazioni tra clostridium difficile e flora batterica intestinale nonché l’alterazione nell’assorbimento di farmaci in corso di diarrea protratta possono aver concorso nel determinare la reversione dell’effetto del dicumarolico in considerazione del sempre più frequente riscontro di infezioni e recidive da clostridium difficile in soggetti fragili, è auspicabile effettuare un monitoraggio più frequente di inr in pazienti trattati con dicumarolici indipendentemente dal caso descritto e dalle ipotesi formulate, la farmacovigilanza rappresenta un utilissimo strumento per acquisire rapidamente informazioni relative alla sicurezza dei farmaci di recente introduzione l’acquisizione di notizie relative alla tollerabilità di farmaci di recente introduzione può fornire gli strumenti necessari a una migliore gestione di eventi inattesi e potenzialmente rischiosi per il paziente bibliografia 1. di bella s, musso m, cataldo ma, et al. clostridium difficile infection in italian urban hospitals: data from 2006 through 2011. bmc infect dis 2013; 13: 146; http://dx.doi.org/10.1186/1471-2334-13-146 2. bassetti m, villa g, pecori d, et al. epidemiology, diagnosis and treatment of clostridium difficile infection. expert rev anti infect ther 2012; 10: 1405-23; http://dx.doi.org/10.1586/eri.12.135 3. società italiana multidisciplinare per la prevenzione delle infezioni nelle organizzazioni sanitarie. prevenzione e controllo delle infezioni da clostridium difficile. giio vol. 16 (1). gennaio-marzo 2009 4. dupont 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acone 1 1 u.o.c. malattie infettive, a.o.r.n. “s.g. moscati”, avellino abstract toxic megacolon is a severe complication of clostridium difficile infection (cdi) with a high percentage of mortality. the mainstay of treatment is currently represented by medical management, while surgical intervention is indicated in patients not improving after 2-3 days of antibiotic therapy. generally metronidazole and vancomycin are administered as first-line treatment, but recently several cases of refractory c. difficile have made the treatment of this infection more difficult. fidaxomicin is a narrow-spectrum oral macrocyclic antibiotic with excellent in vitro activity against c. difficile strains. we report the case of a woman admitted with a diagnosis of toxic megacolon complicating a c. difficile colitis not responding to standard antibiotic therapy. keywords: toxic megacolon; clostridium difficile; fidaxomicin toxic megacolon associated with clostridium difficile infection recurrence: a case report complicated by multiple bacterial infections and successfully treated with oral fidaxomicin cmi 2014; 8(suppl 1): 17-20 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i1s.957 caso clinico corresponding author dott.ssa addolorata masiello u.o. c. malattie infettive a.o.r.n. “s.g. moscati” avellino tel/fax +390825203967 dora.80@live.it disclosure il presente supplemento è stato realizzato con il supporto di astellas pharma s.p.a. perché descriviamo questo caso questo caso mostra non solo l’infezione da clostridium difficile e le sue recidive nonostante trattamenti antibiotici approvati dalle principali linee guida, ma anche le complicanze d’organo che tale batterio può determinare se non correttamente debellato caso clinico viene descritto il caso clinico di una donna di 78 anni, giunta in pronto soccorso da un’altra residenza sanitaria, dove la paziente era ricoverata per riabilitazione motoria a seguito di intervento ortopedico per posizionamento di protesi al ginocchio destro. in tale sede la paziente, a seguito di un ciclo di antibioticoterapia praticato dopo l’intervento chirurgico, aveva iniziato a presentare diarrea acquosa associata a dolenzia addominale e febbre di tipo continuo-remittente. la ricerca dell’enterotossina di c. difficile mediante test immunoenzimatico (eia) aveva dato esito positivo, pertanto la paziente aveva praticato un ciclo di terapia con metronidazolo orale al dosaggio di 500 mg × 3/die per 14 giorni che non aveva sortito alcun effetto in quanto persisteva la diarrea profusa e la dolenzia addominale. la ricerca di tossine di c. difficile risultava, infatti, ancora positiva; veniva perciò effettuato un nuovo ciclo di terapia con vancomicina per os al dosaggio di 125 mg × 4/die per 14 giorni. a causa della persistenza del quadro clinico, la paziente veniva inviata in pronto soccorso. all’atto del ricovero in unità operativa di malattie infettive, la paziente si presenta lucida e ben orientata nel tempo e nello spazio. all’esame obiettivo l’addome risulta trattabile e lievemente dolente in ipocondrio destro. all’auscultazione del torace si nota la presenza di sibili inspiratori ed espiratori e di rari ronchi alle basi bilateralmente. dal punto di vista cardiologico si rileva un’accentuazione del ii tono sul focolaio di auscultazione aortica. in anamnesi non vengono rilevate patologie degne di nota, eccetto un’ipertensione arteriosa in buon compenso farmacologico e un quadro clinico e radiologico di broncopneumopatia cronica ostruttiva. gli esami ematochimici all’ingresso mostrano una leucocitosi neutrofila e una grave anemia, tale da richiedere emotrasfusioni; si osserva contemporaneamente un incremento degli indici di flogosi (ves e pcr) (tabella i). valore riscontrato valori normali leucociti (n × 103/mm3) 10 5-9 neutrofili (%) 80 39,9-73 hb (g/dl) 6,1 12-15 ves (mm) 80 < 22 pcr (mg/l) 75 < 5 tabella i. risultati degli esami ematochimici della paziente all’ingresso in pronto soccorso hb = emoglobina; pcr = proteina-c reattiva; ves = velocità di eritrosedimentazione a due giorni dall’arrivo in ospedale, viene effettuato un esame tomografico dell’addome, da cui si evidenzia una marcata distensione intestinale con diametro massimo del lume di 7 cm a livello del cieco associata a piccola falda di versamento ascitico; tale reperto all’imaging risulta compatibile con un quadro di megacolon tossico. nonostante sia di norma controindicato per l’ingente distensione del viscere e il conseguente rischio di perforazione, viene praticato un esame colonscopico che conferma il quadro di distensione delle anse coliche, ma rileva la normoelasticità dell’organo senza segni di sofferenza mucosale. viene prontamente avviata una terapia di associazione con metronidazolo e.v. e vancomicina per os, che determina un iniziale miglioramento della sindrome diarroica e un abbassamento della temperatura corporea fino alla completa apiressia. inoltre gli esami ematochimici risultano in via di normalizzazione. la ricerca delle tossine riporta un esito negativo. viene richiesta una valutazione chirurgica del megacolon che consiglia, anche sulla scorta del referto colonscopico, una terapia conservativa (antibiotici e nutrizione parenterale totale) prima di decidere per un’eventuale emicolectomia. a 13 giorni dall’ingresso in ospedale la paziente presenta ripresa febbrile con acme a 39°c, gli esami ematochimici rilevano una leucocitosi neutrofila e un nuovo incremento degli indici di flogosi (tabella ii); all’emocoltura si riscontra la presenza di stafilococcus saprophyticus oxacillino-resistente su tre set emocolturali. valore riscontrato valori normali leucociti (n × 103/mm3) 18 5-9 neutrofili (%) 83 39,9-73 ves (mm) 90 < 22 pcr (mg/l) 136 < 5 tabella ii. risultati degli esami ematochimici della paziente a 13 giorni dall’ingresso in pronto soccorso hb = emoglobina; pcr = proteina-c reattiva; ves = velocità di eritrosedimentazione la paziente viene quindi posta in terapia con teicoplanina e.v. al termine dei 14 giorni di terapia, nonostante un miglioramento clinico generale, la paziente inizia a presentare nuovamente diarrea acquosa, per cui viene ripetuta la ricerca di tossine di c. difficile, che dà esito positivo. si decide pertanto di intraprendere un trattamento con fidaxomicina al dosaggio di 200 mg due volte al giorno, che determina un rapido miglioramento del quadro clinico e laboratoristico (a partire da 6 giorni dopo la somministrazione). al termine dei 10 giorni di terapia, la paziente presenta nuovamente un quadro febbrile, un incremento degli indici di flogosi (ves = 70 mm, pcr = 140 mg/l) e una grave insufficienza respiratoria, tale da richiedere la ventilazione meccanica assistita. alle emocolture si riscontra positività per serratia marcescens sensibile a diverse classi di antibiotici; viene pertanto iniziata una terapia con levofloxacina e.v., che viene proseguita per 7 giorni dopo l’ultima emocoltura negativa. risolto l’episodio di sepsi e in assenza di diarrea, dopo la valutazione colonscopica che conferma l’integrità anatomica del viscere che risulta ridotto di calibro (5,3 cm), viene cautamente reintrodotta l’alimentazione orale, che risulta discretamente tollerata. la paziente viene dimessa dopo 70 giorni di degenza, in buone condizioni generali, apiretica, senza alterazioni dell’alvo, con indici di flogosi in via di normalizzazione (ves = 27 mm, pcr = 16,9 mg/l). la dimissione è avvenuta a 14 giorni dall’ultima emocoltura negativa per serratia marcescens. in seguito la paziente è stata valutata ambulatoriamente e non ha più presentato recidive da clostridium difficile. la tabella iii mostra le risposte cliniche della paziente limitatamente alle terapie utilizzate per l’infezione da clostridium difficile. farmaco usato tempo in terapia risoluzione diarrea prima infezione metronidazolo 14 giorni no vancomicina 14 giorni no metronidazolo + vancomicina 11 giorni iniziale miglioramento, poi di nuovo diarrea recidiva (dopo 14 giorni) fidaxomicina 10 giorni sì, dopo 6 giorni tabella iii. risposte cliniche da parte della paziente rispetto alle terapie utilizzate per l’infezione da clostridium difficile discussione clostridium difficile causa un’enterite attraverso la produzione di due enterotossine, a e b, con sintomi che vanno da una forma lieve e autolimitantesi di diarrea fino a un’enterocolite fulminante e potenzialmente fatale associata a complicanze gravi [1-6]. tra queste, il megacolon tossico si verifica in una percentuale compresa tra 0,4% e 3% dei casi. pare che esso derivi dalle alterazioni infiammatorie che interessano il viscere a tutto spessore spingendosi sino alla lamina propria con conseguente alterata motilità e dilatazione [7-9]. il grado di dilatazione necessario affinché si possa porre diagnosi di megacolon risulta ancora controverso, ma si attesta intorno a valori > 6 cm. la diagnosi risulta essenzialmente strumentale (radiologica) ed endoscopica [10]. quest’ultima metodica diagnostica, rischiosa nei casi di ingente dilatazione dell’organo, viene in genere utilizzata a conferma del quadro tomografico e in alcuni specifici casi (in caso di ripetuta negatività alla ricerca di endotossine ma forte sospetto per enterite da clostridium difficile, in pazienti che non rispondono alla terapia antibiotica praticata o nei casi a presentazione anomala, ad esempio con quadri di addome acuto e leucocitosi neutrofila ma senza diarrea). la prima linea di trattamento antibiotico si è per diversi anni basata esclusivamente su metronidazolo e vancomicina utilizzati singolarmente o in associazione [11-13]. l’esigenza di nuove opzioni terapeutiche è nata dalla maggior incidenza e dalle modalità di presentazione sempre più gravi che si sono registrate nell’ultimo decennio in europa e negli stati uniti. le attuali linee guida europee consigliano nei pazienti con primo episodio, con segni di malattia lieve-moderata l’utilizzo di metronidazolo, mentre nei pazienti con manifestazioni gravi dovrebbe essere somministrata vancomicina [14-16]. fidaxomicina è un nuovo antibiotico disponibile in formulazione orale, appartenente alla classe degli antibatterici macrociclici, raccomandato nei pazienti con enterite grave sia al primo episodio sia nelle recidive in quanto si è mostrato capace di ridurre in maniera significativa l’incidenza di recidive e quella di complicanze che talvolta risultano fatali (megacolon tossico, colite pseudomembranosa) [17-21]. il caso descritto è un esempio di come in presenza di fattori predisponenti a un maggior rischio di recidive di enterite da clostridium difficile (età > 65 anni, patologia iniziale grave, necessità di dover utilizzare antibiotici anche dopo la diagnosi di infezione da clostridium difficile) possa essere consigliabile adoperare la terapia con fidaxomicina ab initio evitando così il ritrattamento con i farmaci tradizionali, che spesso non si mostrano efficaci negli episodi successivi al primo, come osservato in tutte le più recenti linee guida nazionali e internazionali; infatti solo il trattamento finale con fidaxomicina ha evitato ulteriori episodi di recidive e non ha pertanto reso necessario l’intervento di colectomia. la paziente ha presentato, oltre all’infezione di base, gravi quadri di sepsi, di cui l’ultimo è stato senza dubbio il più grave, al punto da richiedere un trattamento subintensivo e l’ausilio di riespansione plasmatica. resta tuttavia da chiedersi se tali gravi complicanze, di certo correlate alla prolungata degenza ospedaliera, alla presenza di cateteri intravascolari, alle manovre diagnostiche su una paziente già defedata, avrebbero potuto essere evitate mediante l’utilizzo di fidaxomicina sin dal primo episodio. punti chiave in casi di enterite da clostridium difficile bisogna effettuare una valutazione della gravità clinica del paziente e dell’eventuale rischio di recidive per effettuare la scelta terapeutica più corretta (v. linee guida escmid [14]) nelle enteriti che non rispondono alla terapia medica e nei casi di megacolon tossico spesso ci si avvale della chirurgia le tecniche endoscopiche, quando utilizzabili, consentono, come nel caso descritto, di valutare l’elasticità e il trofismo del viscere evitando o rimandando metodiche demolitive bibliografia 1. kazanowski m, smolarek s, kinnarney f, et al. clostridium difficile: epidemiology, diagnostic and therapeutic possibilities-a systematic review. tech coloproctol 2014; 18: 223-32; http://dx.doi.org/10.1007/s10151-013-1081-0 2. to kb, napolitano lm. clostridium difficile infection: update on diagnosis, epidemiology, and treatment strategies. surg infect (larchmt) 2014; 15: 490-502; http://dx.doi.org/10.1089/sur.2013.186 3. zhou ff, wu s, klena jd, et al. clinical characteristics of clostridium difficile infection in hospitalized patients with antibiotic-associated diarrhea in a university hospital in china. eur j clin microbiol infect dis 2014; 33: 1773-9; http://dx.doi.org/10.1007/s10096-014-2132-9 4. lee yc, wang jt, chen ac, et al. 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claudio marengo 3 la sincope: determinazione del rischio clinico correlato e gestione terapeutica caso clinico un uomo di 67 anni viene portato in pronto soccorso per un episodio sincopale avvenuto in un locale pubblico, all’uscita dal bagno. i testimoni, interrogati dal personale medico dell’ambulanza, riferiscono che l’uomo aveva iniziato a lamentare malessere e nausea poco prima di perdere coscienza. l’aspetto al momento dello svenimento era caratterizzato da uno spiccato pallore con associata sudorazione. il soggetto era caduto a terra e aveva ripreso coscienza dopo circa 10 secondi senza successivi reliquati o stato confusionale. aveva provato ad alzarsi ma aveva percepito la ricomparsa del malessere per cui era rimasto sdraiato in attesa dei soccorsi. alla raccolta anamnestica in pronto soccorso, il paziente riferisce di aver avuto già da giovane problemi analoghi, soprattutto quando si trovava in luoghi affollati o veniva sottoposto a prelievi ematici, con uguale sensazione di malessere prima della perdiabstract syncope is a frequent symptom characterizing a wide group of pathologies with very different prognosis. by this reason, it is necessary a careful risk stratif ication for a better patient management. for this aim medical history and physical examination are fundamental. diagnostic exams complete and confirm diagnostic suspiciousness formulated by medical history and examination, but rarely give elements for unexpected diagnosis. correct identification of pathological mechanism of syncope and determination of associated clinical risk allow the best patient management avoiding dangerous discharge but also, in relation to increasingly limited resources, inappropriate hospitalizations. keywords: syncope, seizure, dysrhythmias, vasovagal syncope, orthostatic hypotension sincope: clinic risk determination and therapeutic management. cmi 2007; 1(2): 51-62 1 unità di medicina d’urgenza e pronto soccorso, ospedale gradenigo, torino 2 dipartimento di medicina interna, università degli studi di torino, ospedale s. giovanni battista, torino 3 direttore s.c. medicina interna, ospedale santa croce, moncalieri (to) caso clinico corresponding author dott. claudio marengo clamaren@tin.it perché descriviamo questo caso? per imparare a cogliere i dati salienti dell ’anamnesi, i sintomi e segni obiettivi di rilievo del paziente che permettono al medico di definire il rischio clinico associato ad un episodio sincopale e, quindi, di operare una corretta gestione dell ’iter diagnostico e terapeutico attraverso un utilizzo razionale delle risorse disponibili ta di coscienza. afferma di essere già stato sottoposto ad accertamenti con diagnosi di “abbassamenti di pressione correlati allo stare in piedi”. in famiglia non si erano verificati episodi di morte improvvisa o di infarto cardiaco e ictus. riferisce inoltre che, se si eccettuano quei precedenti episodi di svenimento, è sempre stato bene. presenta solo un’ipertensione arteriosa per la quale è in terapia con un ace-inibitore il cui dosaggio quotidiano è stato recentemente clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 52 la sincope: determinazione del rischio clinico correlato e gestione terapeutica incrementato in modo significativo dal medico curante (raddoppiamento della dose) per scarso controllo dei valori pressori. negli ultimi giorni ha iniziato ad avvertire un senso di affaticamento, soprattutto alla stazione eretta, che ha correlato alla variazione di dosaggio del farmaco. le domande da porsi si tratta veramente di una sincope o il paziente esagera nella descrizione? è una sincope da causa cardiaca o da causa non cardiaca? è la prima volta che capita o ci sono stati episodi analoghi in passato? quali sintomi hanno contraddistinto l ’episodio sincopale? quali farmaci assume il paziente, da quali patologie è affetto e quale tipo di anamnesi familiare lo caratterizza? all’esame obiettivo il paziente è pallido e spaventato, tachicardico, lucido e cosciente. non lamenta alcun tipo di dolore o malessere in clinostatismo. la pressione arteriosa da sdraiato è di 120/80 mmhg con una frequenza cardiaca di 100 battiti/min. la saturazione è ottimale e la temperatura corporea è assolutamente nella norma. si registra una lieve tachipnea (18 atti al minuto). il soggetto viene sottoposto a un elettrocardiogramma (ecg) che risulta normale. il restante esame obiettivo è nella norma; non vi sono soffi cardiaci e i toni sono ritmici, come già dimostrato dall’ecg. i polsi ai 4 arti sono presenti e validi (e, come già detto, il paziente non lamenta dolore). si registra un calo pressorio con paos = 90/50 all’assunzione della stazione eretta. il soggetto dichiara di essere svenuto dopo essere andato in bagno per un attacco di diarrea. nega vomito. vengono eseguiti i prelievi ematochimici e, nell’attesa del referto, il soggetto viene sottoposto a terapia infusionale nel sospetto di ipotensione da sovradosaggio di ace-inibitore. ipotesi diagnostiche sincope cardiogenetica: l ’ipotesi è poco probabile, la sincope è stata preceduta da prodromi, non vi è stato angor, il soggetto non presenta in anamnesi cardiopatia e fattori di rischio cardiovascolare, l ’ecg non presenta anomalie       sincope vasodepressoria/ipotensione ortostatica/situazionale: ipotesi più probabile in considerazione dei prodromi vegetativi, della presenza in anamnesi di episodi analoghi, dell ’incremento del dosaggio di ace-inibitore, del riscontro di ipotensione ortostatica in pronto soccorso sincope da causa neurologica o epilessia: non sono presenti alterazioni neurologiche e la dinamica della perdita di coscienza con rapida ripresa della vigilanza non depone affatto per l ’eziologia comiziale dissecazione aortica, tep, pneumotorace iperteso, ecc…: poco probabili per la stabilità del quadro clinico e assenza di sintomi specifici e dolore il medico dovrà indagare le cause che hanno determinato la sincope vasodepressoria: si tratta di un sovradosaggio di antiipertensivo? il soggetto ha presentato un ennesimo episodio di sincope vasovagale? la diarrea può aver determinato una disidratazione relativa con abbassamento della pressione in ortostatismo? mentre il medico attende il risultato degli esami, il paziente, avendo necessità di evacuare per il ripresentarsi dello stimolo, si alza senza avvertire il personale infermieristico e si reca in bagno dove, dopo una nuova scarica di diarrea, è vittima di un ennesimo episodio sincopale. il personale medico accorre in aiuto e nota l’emissione di feci da melena. i risultati degli esami di laboratorio confermano il riscontro: l’emoglobina (hb) è di 6 g/dl con 1.800.000 mm3 di eritrociti e un mcv di 88. le piastrine e i leucociti sono nel range di normalità. non vi sono altre alterazioni a livello ematochimico, in particolare risultano nella norma i test di coagulazione e la glicemia. vengono richieste 4 sacche di emazie concentrate e il paziente viene sottoposto a gastroscopia d’urgenza con riscontro di ulcera gastrica sanguinante forrest 1b, prontamente trattata con infiltrazioni di adrenalina e posizionamento di clips. il paziente riferisce, dopo domande mirate, di aver assunto, in modo autogestito, dei fans per dolori articolari nell’ultimo periodo di tempo. dopo la trasfusione e la terapia infusionale il soggetto presenta hb = 9,6 con totale regressione della sintomatologia sincopale. l’uomo viene trattenuto, al fine di monitorare il quadro clinico, fino alla       clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 53 f. mecca, e. favaro, c. marengo regressione della melena e stabilizzazione dei valori dell’emoglobina. al momento della dimissione viene programmato un controllo gastroscopico a distanza di un mese ed è sconsigliato l’utilizzo di fans per l’artralgia. è inoltre intrapresa terapia con inibitori della pompa protonica. al controllo ambulatoriale successivo il paziente afferma di sentirsi bene e dichiara la totale assenza di nuovi episodi sincopali o lipotimici. discussione con il termine “sincope” si definisce un’improvvisa e transitoria perdita di coscienza, con associato deficit del tono posturale, caratterizzata da un recupero spontaneo e completo delle facoltà cognitive. condizione necessaria aggiuntiva è l’assenza di confusione e sopore prolungati al ripristino della vigilanza. la sincope è un sintomo frequente nella popolazione generale. da studi epidemiologici risulta che dal 10 al 38% dei soggetti con età inferiore ai 40 anni è vittima di almeno un episodio sincopale. di questi la metà ha avuto una sincope prima del termine dell’adolescenza [1,2]. nella popolazione più anziana vi è un tasso di incidenza annuale di sincope del 6% [3,4]. la notevole frequenza spiega l’elevato numero di accessi ai pronto soccorso per sincope e l’ingente numero di ricoveri ospedalieri, con una conseguente importante incidenza sulla spesa sanitaria e sulle risorse disponibili. la sincope non è una patologia ma un sintomo. essa è l’espressione di un’alterazione temporanea della funzione cerebrale con conseguente perdita di coscienza e del tono posturale. qualsiasi condizione morbosa, che causa una riduzione o un’interruzione del flusso sanguigno cerebrale, determina l’insorgenza di una sincope. il cervello, infatti, necessita di un continuo apporto di glucosio e ossigeno per lo svolgimento delle sue funzioni. la diminuzione del flusso ematico sotto una certa soglia critica, con conseguente riduzione dell’ossigeno e glucosio disponibili per i neuroni, determina una perdita di coscienza nell’arco di pochi secondi [5]. altre condizioni esitanti in una sincope sono gli avvelenamenti e le alterazioni metaboliche che interferiscono sulla funzionalità cerebrale. la sincope sarebbe da ricondurre a una disfunzione transitoria dei neuroni che costituiscono la sostanza reticolare ascendente, componente della struttura cerebrale deputata alla vigilanza. pertanto la sincope si configura come la risultante clinica e sintomatologica comune a molte affezioni patologiche che determinano un’alterazione dell’apporto e dell’utilizzo dei metaboliti necessari per la funzionalità dei neuroni cerebrali. si comprende, quindi, la grande eterogeneità delle patologie che presiedono a un episodio di perdita di coscienza e la complessità diagnostica correlata. la difficoltà è ulteriormente incrementata dal fatto che spesso l’episodio sincopale non è da ascrivere a un’unica noxa patogena, ma alla contemporanea e sinergica azione di cause differenti che, singolarmente, non determinerebbero alcuna alterazione sul piano clinico. a fini didattici le cause di sincope possono essere suddivise in sei classi (tabella i): cause cardiache; cause interessanti il sistema nervoso centrale (snc); cause vasodepressorie; cause psichiatriche o da disturbi del comportamento; cause metaboliche e da intossicazione; cause di origine sconosciuta. per semplicità, in considerazione della mortalità associata alle cause cardiache, le sincopi vengono suddivise in due grossi gruppi: le sincopi cardiache e le sincopi non cardiache, gruppo a cui afferiscono tutte le altre classi sopra elencate [6]. pertanto, nella pratica, il medico dovrà innanzi tutto escludere l’origine cardiaca di una sincope, processo che consente di stratificare il rischio fra perdite di coscienza ad alta e a bassa mortalità. infatti, la mortalità a un anno della sincope cardiogenetica è del 18-33% rispetto allo 0-12% delle sincopi da cause non cardiache [7,8]. le sincopi cardiogeniche, a fini nosologici, sono ulteriormente suddivise in sincopi da alterazione meccanica del flusso sanguigno e sincopi da aritmia. entrambi i gruppi sono caratterizzati da una riduzione acuta della portata cardiaca con conseguente diminuzione del flusso cerebrale. le aritmie sono la causa di sincope più comune nei pazienti con patologia cardiaca sottostante quali una coronaropatia, alterazioni strutturali del cuore o un’insufficienza cardiaca congestizia [9]. le aritmie possono essere suddivise in tachicardie e bradicardie. le prime determinano una diminuzione della portata cardiaca per l’insufficiente riempimento ventricolare secondario alla       clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 54 la sincope: determinazione del rischio clinico correlato e gestione terapeutica relativa riduzione del periodo di diastole in condizioni di aumento della frequenza cardiaca. le tachicardie sono di origine sopraventricolare o ventricolare. la stessa tipologia di tachicardia può avere una clinica differente da paziente a paziente, in relazione a comorbilità ed età del soggetto, determinando quadri che vanno dal paucisintomatico fino all’arresto cardiaco [10]. la tachicardia più letale è la fibrillazione ventricolare, caratterizzata da una perdita della contrazione sincronizzata delle miocellule ventricolari. situazioni che predispongono alle tachicardie nelle persone giovani sono quadri di pre-eccitazione, come la sindrome di wolff-parkinson-white o tachicardie da rientro nodale, caratterizzati da presenza di vie accessorie nel sistema cardiaco di conduzione elettrica. nelle persone più anziane, invece, l’aumentata prevalenza di patologie cardiache ischemiche o strutturali predispone all’insorgenza di alterazioni del ritmo. le bradicardie causano la sincope per una riduzione della portata cardiaca conseguente a una diminuzione delle sistoli nell’unità di tempo. le bradicardie sono da ascrivere a patologie e malfunzionamenti delle strutture che costituiscono il sistema cardiaco di conduzione elettrica: il nodo seno-atriale, il nodo atrio-ventricolare e le fibre del fascio di his-purkinje. vi possono essere anche noxe funzionali, quali un’eccessiva stimolazione colinergica o un’inibizione adrenergica da intossicazione di beta-bloccanti. tipiche patologie del sistema di conduzione sono la sick sinus syndrome, caratterizzata da blocchi senoatriali, atrio-ventricolari e pause di asistolia transitori, alternati a periodi di normale battito cardiaco. altra manifestazione clinica di una sofferenza del sistema di conduzione sono i blocchi cardiaci. i blocchi di secondo grado tipo ii e di terzo grado determinano frequentemente delle sincopi. nel caso in cui il ritmo di scappamento ventricolare non determina una portata sufficiente, si verificano sincopi note come attacchi di stokes-adams. in tal caso il paziente necessita dell’impianto di un pacemaker (pm). nei soggetti portatori di pm che sviluppano una sincope è sempre necessario eseguire un controllo dell’apparecchio per escludere un malfunzionamento o dislocazione. vi sono, da ultimo, dei quadri elettrocardiografici rari che presiedono allo sviluppo di aritmie, spesso fatali. essi sono l’espressione, a livello di ecg, di alterazioni genetiche della funzionalità dei canali del na e del k della membrana dei miociti. tali affezioni proaritmiche sono la sindrome da allungamento del qt [11] e la sindrome di brugada [12]. la prima, a trasmissione autonomica sia recessiva che dominante, si caratterizza per l’allungamento del tratto qt nelle varie derivazioni dell’ecg, condizione che predispone all’insorgenza della tachicardia a torsione di punta, una tachicardia ventricause cardiache cause non cardiache 1. da ostruzione al flusso o da malattia vascolare valvulopatia (stenosi aortica, mitralica, polmonare) mixoma atriale cardiomiopatia ipertrofica cardiomiopatia dilatativa scompenso cardiaco severo tamponamento pericardico embolia polmonare ima dissezione aortica furto della succlavia 2. da aritmia tachicardie sopraventricolari, ventricolari sindrome di brugada sindrome da allungamento del qt sindrome di wolff-parkinson-white blocchi atrioventricolari sick sinus syndrome malfunzionamento del pacemaker                  1. vasodepressorie sincopi situazionali (post tosse, minzionali, defecazione, post prandiali) sindrome del seno carotideo ipotensione ortostatica (disidratazione, anemia, sanguinamento) 2. metaboliche e tossiche ipossia ipoglicemia avvelenamento da monossido farmaco-indotte 3. da causa neurologica (in realtà non presentano le caratteristiche della sincope pura per reliquati neurologici) emorragia subaracnoidea emorragia cerebrale stroke ischemico epilessia 4. simulazione per disturbi psichiatrici o sindrome ansioso-despressiva            tabella i cause di sincope clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 55 f. mecca, e. favaro, c. marengo colare polimorfa transitoria che determina la sincope ma che, in caso di persistenza, può degenerare in fibrillazione ventricolare e arresto cardiaco. il valore soglia per diagnosticare un allungamento del qt è di 450 msec negli uomini, 460 msec nei bambini e di 470 msec nelle donne. la lunghezza del qt da prendere in considerazione a fine di diagnosi deve essere quella del qtc (qt corretto), cioè la correzione del qt misurato per la frequenza cardiaca mediante la formula di bazzet (la lunghezza, infatti, aumenta con un ritmo bradicardico e si riduce in corso di tachicardia). l’allungamento del qt può essere non solo congenito ma pure condizione acquisita. un’ipopotassiemia o un’ipomagnesemia possono causare, in seguito a un’alterazione della fase di ripolarizzazione ventricolare, un allungamento del qt e l’insorgenza delle torsioni di punta. farmaci associati ad un qt allungato sono gli antiaritmici di classe ia e iii, gli antidepressivi triciclici, l’aloperidolo, la cisapride e alcuni macrolidi. la sindrome di brugada si caratterizza, invece, per la presenza di uno pseudo-blocco completo di branca destra con un sopraslivellamento del tratto st ad andamento discendente in v1-v3. tale patologia è secondaria ad alterazioni della funzionalità dei canali del na dei cardiomiociti con conseguenti anomalie della depolarizzazione. a livello clinico i soggetti presentano sincopi recidivanti correlate ad aritmie temporanee che possono degenerare fino alla fibrillazione ventricolare con morte improvvisa. la difficoltà diagnostica è incrementata dal fatto che il tipico pattern elettrocardiografico non è sempre presente, pertanto è necessario mantenere un elevato sospetto, soprattutto in quei pazienti con anamnesi familiare positiva per morti improvvise in soggetti giovani. le sincopi cardiache da alterazione meccanica del flusso sono suddivise, come si evince dalla tabella i, in sincopi da causa ostruttiva e in sincopi da malattia vascolare. le cause ostruttive della perdita di coscienza sono da correlare ad alterazioni della meccanica cardiaca secondarie a valvulopatie e a deficit della funzione sistolica e diastolica per patologie del miocardio e del pericardio. le cause di alterazione del flusso sanguigno di natura vascolare sono da ricondurre a quadri patologici che determinano un’ “ostruzione” a livello arterioso, come nel caso dell’embolia, della dissecazione aortica e dell’ipertensione polmonare. tutte le altre cause di sincope rientrano nella categoria delle non cardiache. tra queste, quelle che giungono più facilmente all’osservazione del medico sono quelle vasodepressorie (o vasovagali) e da ipotensione ortostatica. le sincopi vasovagali sono determinate da un relativo aumento dell’attività parasimpatica su quella simpatica con conseguente vasodilatazione e bradicardia e, quindi, calo pressorio. il meccanismo, noto come riflesso di bezold-jarisch, determina una riduzione della pressione con insorgenza di nausea, pallore, vertigini e malessere da parte del soggetto, fino allo sviluppo di una sincope. le sincopi vasovagali si verificano più facilmente in condizioni di stress, quando il soggetto è in luoghi caldi e affollati, e in seguito a stimoli dolorosi. se le sincopi tendono a ripetersi in determinate condizioni, quali la minzione, la defecazione, la tosse e la fase postprandiale, vengono inquadrate come sincopi “situazionali”. esse sono una variante delle sincopi vasovagali in quanto presentano lo stesso meccanismo fisiopatologico. l’ipotensione ortostatica è correlata alla riduzione della pressione arteriosa in seguito alla variazione di posizione dal clinostatismo all’ortostatismo. essa è dovuta a un’insufficiente ritorno venoso per una diminuita venocostrizione, in seguito a una ridotta attività del sistema simpatico correlata all’età avanzata o a neuropatie vegetative. tuttavia, la medesima sintomatologia può insorgere per un deficit volemico, come nel caso di importanti emorragie e disidratazione. è evidente, quindi, che lo stesso meccanismo fisiopatogenetico può sottendere a cause differenti con una diversa prognosi. questo deve spingere il medico alla più accurata identificazione possibile delle cause della sincope. la perdita di coscienza può essere dovuta anche a una diminuzione dei metaboliti necessari per il funzionamento dei neuroni cerebrali. in caso di ipoglicemia, evenienza più frequente nei pazienti con anamnesi positiva per diabete, si verifica un’alterazione della coscienza e confusione fino a un quadro tipo sincope e coma [13]. la causa è spesso da ricondurre a un’eccessiva somministrazione di insulina o di ipoglicemizzanti orali rispetto all’introduzione di glucosio. tuttavia, ipoglicemie possono verificarsi pure in pazienti non diabetici, come nel caso di insulinomi misconosciuti o di insufficienza surrenalica. analogo ruolo fondamentale è svolto dall’ossigeno. l’ipossiemia determina facilclinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 56 la sincope: determinazione del rischio clinico correlato e gestione terapeutica mente sincope e, se non risolta prontamente, causa un danno cerebrale irreversibile con coma anossico. l’ipossiemia è secondaria a un’alterata ventilazione e/o perfusione polmonare, ma può anche essere conseguenza di una ridotta capacità ematica di trasporto dell’ossigeno, come nel caso di anemie severe, emoglobinopatie e intossicazione da monossido di carbonio. la sincope di natura metabolica è anche una conseguenza di agenti tossici che determinano un’alterazione dei processi ossidativi a livello della catena respiratoria mitocondriale. in questo caso vi è un’incapacità di utilizzo dell’ossigeno da parte delle cellule e non un ridotto trasporto sanguigno. l’intossicazione o il sovradosaggio di farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale (snc) o che determinano una riduzione della portata cardiaca e della pressione arteriosa sono evenienze che devono essere sempre considerate, a ulteriore conferma della necessità di una raccolta anamnestica accurata e della valutazione di tutte le informazioni circa le condizioni ambientali in cui si è verificata la sincope (per esempio riscontro di contenitori di farmaci vicino al paziente, ecc...). alcune affezioni neurologiche possono presentare un quadro clinico che ricorda la sincope. spesso l’epilessia viene confusa con la sincope, anche in relazione alle scosse muscolari che si verificano talvolta alla ripresa della coscienza post sincope. tuttavia, sia nel caso della comizialità che nel caso di eventi ischemici ed emorragici cerebrali, permangono delle alterazioni cognitive o deficit neurologici che permettono una diagnosi differenziale dall’episodio squisitamente sincopale. diagnosi da quanto detto risulta chiaro quanto possa essere ardua una diagnosi differenziale fra le diverse cause di sincope. il medico dovrà innanzi tutto escludere l’eziologia cardiaca, correlata a una maggiore mortalità per il paziente. uno strumento particolarmente utile e di facile utilizzo, che consente una stratificazione del rischio prognostico, è l’oesil risk score [14]. esso valuta se il soggetto ha più di 65 anni, se ha una storia clinica di cardiopatia, se ha avuto una sincope senza prodromi e se presenta alterazioni elettrocardiografiche. la coesistenza nello stesso paziente di tutte e quattro le caratteristiche permette una stima di mortalità ad un anno del 57,1% (tabella ii). risulta evidente che tale sistema di punteggio è studiato per determinare la probabilità dell’origine cardiaca di una sincope e, sulla base di esso, il medico può valutare la necessità di ricoverare il paziente per ulteriori accertamenti. è comunque necessario ricordare che il mezzo diagnostico più potente ed efficace nella diagnosi differenziale delle sincopi è l’anamnesi [15]. essa deve appurare la presenza di episodi di morte improvvisa nella famiglia, possibile espressione di cardiopatie congenite degeneranti in aritmie, valutare la presenza dei fattori di rischio cardiovascolare, la frequenza degli episodi sincopali e la tipologia dei farmaci assunti. vi sono, infatti, da un lato terapie che possono causare una perdita di coscienza in modo diretto (diuretici, farmaci anti-ipertensivi, ipoglicemizzanti, ecc…), dall’altro terapie che sono utilizzate per un’affezione o patologia nota per determinare sincope (antiaritmici, antianginosi, ecc…). inoltre, è necessario definire con accuratezza le circostanze e la dinamica dell’episodio sincopale, anche ricorrendo a testimoni. pertanto bisogna appurare la posizione del paziente al momento della sincope, cosa stava facendo e se stava compiendo uno sforzo, la presenza di fattori predisponenti (luogo caldo e affollato, dolore, prolungato ortostatismo, ecc…) e di prodromi (nausea, vomito, sudorazione, sensazione di “testa vuota” e offuscamento della vista, ecc…), come è avvenuto l’episodio e la sua durata ,senza tralasciare i sintomi presenti alla risoluzione della sincope. se l’episodio si è verificato in clinostatismo o dopo uno sforzo, soprattutto se in assenza di prodromi, è probabile l’origine cardiaca della sincope [16]. il sospetto è ulteriormente aumentato dalla presenza in anamnesi di cardiopatia. episodi ricorrenti sincopali preceduti da tabella ii oesil risk score valutare se il paziente presenta le seguenti caratteristiche: età > 65 storia clinica di malattia cardiovascolare sincope senza prodromi ecg anormale     mortalità stimata in relazione al numero di caratteristiche presenti: punteggio = 0 0% di mortalità a 1 anno punteggio = 1 0,8 % di mortalità a 1 anno punteggio = 2 19,6 % di mortalità a 1 anno punteggio = 3 34,7 % di mortalità a 1 anno punteggio = 4 57,1 % di mortalità a 1 anno      clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 57 f. mecca, e. favaro, c. marengo prodromi, quali sudorazione, malessere, pallore e sensazione di “testa vuota”, dovrebbero indirizzare il sospetto diagnostico verso la sincope vasovagale o da ipotensione ortostatica, soprattutto se l’evento è avvenuto con il soggetto in piedi. tale diagnosi è ulteriormente avvalorata da una correlazione tra sincope e specifica situazione scatenante come tosse, minzione e defecazione, fase post-prandiale dopo abbondante assunzione di alimenti. l’ipotensione ortostatica è molto probabile in situazioni contraddistinte da ipovolemia, come una disidratazione o un’emorragia. tuttavia, in caso di patologie note per determinare una neuropatia autonomica, quali per esempio il diabete, il morbo di parkinson e l’atrofia multisistemica cerebrale, si riscontra un quadro di ipotensione ortostatica anche in condizioni di normovolemia, complice la ridotta venocostrizione con conseguente domanda punteggio vi è in anamnesi la presenza di blocchi di conduzione cardiaci, asistolia, tachicardia sopraventricolare o diabete? 5 i testimoni presenti al momento della perdita di coscienza hanno riferito che il paziente era cianotico? 4 la sincope si è manifestata per la prima volta dopo i 35 anni di età? 3 il paziente non ricorda nulla circa il momento della sincope? 2 il soggetto riferisce sensazione di “testa vuota” e mancamento in seguito al mantenimento della posizione ortostatica e seduta per un certo periodo di tempo? 1 il soggetto riferisce sensazione di sudorazione o di calore prima di una perdita di coscienza? 2 il paziente riferisce sensazione di mancamento o pregressi svenimenti in seguito a stimolazione dolorosa o in corso di prelievo endovenoso? 3 il soggetto presenta verosimilmente una sincope vasovagale se il punteggio finale è > 2 tabella iii domande fondamentali per la diagnosi di sincope vasovagale tabella iv diagnosi differenziale tra sincope ed epilessia diminuito ritorno venoso. anche le sincopi correlate a rotazioni del capo e pressioni sul seno carotideo sono da ricollegare a un meccanismo neuromediato. esse vengono etichettate con la denominazione di sindrome del seno carotideo. le sincopi neuromediate si caratterizzano per la presenza di prodromi “vegetativi” (nausea, freddo e sudorazione) e rapida ripresa dello stato cognitivo. questo consente di distinguerle dagli episodi comiziali, contraddistinti spesso da aure non vegetative (allucinazioni visive, olfattive, somatosensoriali, ecc...) e da una lenta ripresa della coscienza, con sonnolenza persistente e confusione protratta. esistono sistemi diagnostici a punteggio che possono essere di ausilio al medico per definire gli episodi da causa vasovagale (tabella iii) o per distinguere le crisi comiziali dalle sincopi (tabella iv ) [17]. domanda punteggio a volte il soggetto riprende coscienza con tagli da morso alla lingua? 2 a volte il paziente prima della perdita di coscienza riferisce una sensazione di déja vu? 1 a volte la perdita di coscienza è associata allo stress emozionale? 1 durante la perdita di coscienza i testimoni presenti hanno riferito torsioni della testa? 1 i testimoni riferiscono una mancanza di risposta agli stimoli, una postura inusuale o movimenti di sobbalzo degli arti in corso di perdita di coscienza? il paziente non ricorda affatto particolari dell’episodio? 1 chi era presente ha riferito una persistenza di uno stato di confusione o sopore dopo la ripresa di coscienza? 1 il paziente ha mai avuto perdite di coscienza con sensazione di “testa vuota” o “leggera” prima dell’episodio? -2 a volte il soggetto presenta una sudorazione prima della perdita di coscienza? -2 la posizione ortostatica protratta favorisce le perdite di coscienza? -2 il soggetto presenta verosimilmente un quadro di epilessia se il punteggio è ≥ 1, sincope se è < 1 clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 58 la sincope: determinazione del rischio clinico correlato e gestione terapeutica bisogna inoltre valutare, in corso di raccolta anamnestica, se la medesima sintomatologia fosse presente in altre persone o se ci fossero dei bruciatori o analoghi dispositivi di combustione nell’ambiente in cui è avvenuto l’episodio sincopale, al fine di escludere un’intossicazione da monossido di carbonio (co). è quindi necessario valutare i parametri vitali del soggetto. la pressione arteriosa deve essere misurata in clinostatismo ad entrambi gli arti superiori. il riscontro di una differenza di pressione sistolica di 20 mmhg tra le due braccia deve suggerire al medico la possibilità di una dissezione dell’arco aortico, soprattutto se vi è un intenso dolore toracico concomitante. la pressione deve essere misurata anche con il paziente in posizione ortostatica per almeno 3 minuti, ricercando un decremento della sistolica di 20 o più mmhg con associata ripresentazione dei sintomi correlati alla sincope [18]. in tale caso è necessario eseguire un’esplorazione rettale al fine di escludere una melena e, quindi, una sincope da emorragia gastrointestinale. se l’ipotensione ortostatica si verifica in un soggetto con cute e mucose asciutte è verosimile ipotizzare di essere di fronte a una sincope da disidratazione. una frequenza respiratoria aumentata deve far sospettare una tromboembolia polmonare, soprattutto se vi è tachicardia e riduzione della saturazione ematica di ossigeno. il soggetto con spiccata tachicardia o bradicardia deve essere valutato mediante ecg allo scopo di escludere un’aritmia cardiaca. è necessario, quindi, un attento esame clinico del soggetto. edemi agli arti inferiori e turgore giugulare sono spesso spia di scompenso cardiaco. questo determina, come già detto, un incremento della mortalità correlata alla sincope. la presenza, all’ascultazione, di soffi cardiaci può essere espressione di una valvulopatia, così come la riduzione dei toni cardiaci di un versamento pericardico. in entrambi i casi il sospetto di una sincope cardiogena è elevato e devono essere eseguiti ulteriori accertamenti diagnostici strumentali. bisogna verificare la presenza di toni aggiunti, caratteristici dello scompenso cardiaco e della cardiomiopatia dilatativa. il medico dovrà valutare la qualità dei polsi ai 4 arti, l’esame obiettivo polmonare e addominale (una massa pulsante con soffio vascolare può essere imputata ad aneurisma dell’aorta addominale) e il quadro neurologico, individuando eventuali deficit o alterazioni che permetterebbero di ricondurre l’episodio sincopale a una lesione o a una patologia del snc. l’attenzione del curante deve pure focalizzarsi nella ricerca di lesioni o fratture dovute al trauma secondario alla caduta a terra seguita alla sincope. l’esame obiettivo deve essere integrato da accertamenti laboratoristici e strumentali. è necessario valutare l’emocromo, la glicemia, gli indici di funzionalità renale ed epatica, gli elettroliti e un’emogasanalisi venosa (dosaggio del co). nelle sincopi con toracalgia e sospetto di ischemia cardiaca si può richiedere il dosaggio degli enzimi cardiaci. in alcuni casi, soprattutto se vi è uno stato confusionale dopo l’episodio sincopale, è utile eseguire un’analisi tossicologica e farmacologica. nelle donne giovani può essere utile eseguire un test di gravidanza, in considerazione delle possibili complicanze connesse alla gestazione. approccio strumentale l’approccio strumentale prevede in primis l’esecuzione di un ecg. esso è diagnostico solamente in una minoranza dei pazienti, a causa della temporaneità delle aritmie responsabili dell’episodio sincopale. gli elementi da ricercare sono pause sinusali maggiori di 3 secondi, bradicardia sinusale sintomatica, fibrillazione striale con intervalli rr maggiori di 3 secondi, blocchi atrioventricolari di iii grado e ii grado tipo 2, alterazioni caratteristiche di sindromi coronariche acute e tachicardie ventricolari e sopraventricolari sintomatiche. l’ecg consente inoltre l’individuazione della sindrome da allungamento del qt, della sindrome di brugada e della presenza di vie di conduzione accessorie. l’assenza di anomalie all’ecg, di dolore toracico e di fattori di rischio cardiovascolare rende improbabile un’eziologia cardiaca della sincope [19]. se si sospetta un’aritmia è comunque utile, anche in caso di ecg nella norma, monitorare il paziente durante la degenza in ps al fine di valutare in tempo reale eventuali alterazioni del ritmo. metodiche analoghe al monitoraggio telemetrico sono l’ecg holter, particolarmente utile nel caso di sincopi frequenti, e il loop recorder, i cui ultimi modelli impiantabili consentono la valutazione del ritmo per un tempo prolungato, rendendo tale esame particolarmente idoneo per sincopi recidivanti infrequenti [20]. se il soggetto è portatore di un pacemaker o di un aicd (automatic implantable cardio defibrillator) è necesclinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 59 f. mecca, e. favaro, c. marengo sario “interrogare” il dispositivo e ricercare eventuali malfunzionamenti. l’ecg da sforzo dovrebbe essere richiesto solo in casi selezionati, soprattutto nei soggetti con sincope dopo attività fisica in cui vi sia, in anamnesi o alla valutazione clinica, il sospetto di una cardiopatia ischemica. lo studio elettrofisiologico è una metodica diagnostica di secondo livello, richiesta in caso di sospetta aritmia. consiste nell’evocare e registrare alterazioni del ritmo che possono essere alla base della perdita di coscienza. risulta particolarmente utile in caso di soggetti con cardiopatia organica nota e sincope da causa non identificata, o in pazienti con sincopi recidivanti, assenza di cardiopatia e tilt test (vedi oltre) negativo. la radiografia del torace svolge un ruolo diagnostico marginale. può essere utile se evidenzia un allargamento del mediastino, segno di possibile dissezione aortica, o in caso di aumento dei diametri cardiaci, espressione di cardiopatia ipocinetica. l’ecocardiogramma dovrebbe essere richiesto se vi è sospetto di una patologia cardiaca. in caso di anamnesi negativa, di assenza di sintomi e segni cardiaci la metodica non risulta essere particolarmente utile a fini diagnostici, anche se nel 5% dei pazienti con sincope può essere riscontrata accidentalmente una causa cardiaca non sospettata attraverso tale esame [21]. l’ecocardiogramma deve comunque essere eseguito al primo episodio sincopale, al fine di escludere patologie cardiache organiche o quadri proaritmici non facilmente identificabili con la sintomatologia o i reperti elettrocardiografici. nei pazienti, soprattutto se di età superiore ai 60 anni, può essere utile, dopo una valutazione iniziale negativa per altre eziologie, eseguire un massaggio del seno carotideo. la manovra deve essere effettuata dopo aver escluso soffi vascolari, al fine di non determinare, con la compressione carotidea, un’ischemia cerebrale. l’esame risulta diagnostico se si regista una pausa sinusale, in corso di massaggio, superiore ai 3 secondi. in tal caso è necessario sottoporre il soggetto a una visita cardiologica, per valutare l’indicazione all’impianto di un pacemaker. l’head-up tilt-table testing è un esame di secondo livello utilizzato nei soggetti con sospetta sincope vasovagale. consiste nel monitoraggio di frequenza cardiaca e pressione arteriosa del paziente che viene mantenuto passivamente in posizione ortostatica. il test risulta diagnostico se vengono evocati i sintomi prodromici e la sincope con contemporanea registrazione di ipotensione e bradicardia. la tc dell’encefalo, l’elettroencefalogramma (eeg) e l’ecodoppler dei tronchi sovra-aortici (doppler tsa) non devono essere richiesti di routine. sono metodiche che devono essere utilizzate quando vi sia il sospetto, sulla base del quadro clinico o dell’anamnesi, di una lesione cerebrale o di comizialità. a fini pratici, quando si valuta un paziente con sincope, lo strumento diagnostico più potente risulta essere l’anamnesi. se la integriamo con un attento esame clinico e l’esecuzione di un ecg possiamo già compiere una prima stratificazione del rischio per il soggetto in esame. a completamento dell’iter diagnostico, soprattutto in caso di primo evento, può essere utile eseguire un ecocardiogramma, particolarmente in caso di soffi cardiaci o sospetto di valvulopatia. il massaggio del seno carotideo si può aggiungere, per la facilità di esecuzione e per il suo basso costo, a questo gruppo di esami di primo livello. le altre procedure presentate precedentemente sono di secondo livello, in quanto devono essere richieste se vi sono dei sospetti specifici e non routinariamente a tutti i pazienti (vedi algoritmo finale per la gestione della sincope). gestione in pronto soccorso rimandando ai specifici testi l’approfondimento della terapia delle diverse cause di sincope, verrà qui discusso il problema della gestione dei soggetti che giungono in pronto soccorso. è necessario, in considerazione dell’impossibilità pratica di ricoverare tutti i pazienti, effettuare una stratificazione del rischio per individuare i gruppi di individui che beneficeranno maggiormente del ricovero. per prima cosa bisogna escludere che la sincope sia correlata a una condizione patologica ad alta mortalità. in questa evenienza è scontato che il ricovero sarà necessario, spesso in unità critiche quale la medicina d’urgenza e l’unità coronarica. il soggetto stabile, invece, dovrà essere stratificato sulla base degli esiti degli accertamenti, dell’anamnesi e dell’oesil risk score per decidere tra il ricovero, una breve osservazione o la dimissione con un programma di approfondimenti diagnostici e follow-up medico (vedi algoritmo finale per la gestione del paziente). naturalmente il soggetto può anche essere tenuto in osserclinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 60 la sincope: determinazione del rischio clinico correlato e gestione terapeutica vazione ed essere ricoverato non per la causa stessa della sincope, ma in conseguenza delle lesioni secondarie al traumatismo correlato alla perdita di coscienza. commento al caso clinico il soggetto giunto in ps aveva una bassa probabilità di presentare una sincope cardiogenetica in considerazione dell’assenza di angor, della presenza di sintomi prodromici, dell’anamnesi familiare e remota negative per arresti cardiaci e cardiopatia e per l’ecg risultato nella norma. se si calcola l’oesil risk score (tabella ii) si ottiene un punteggio di 1: un rischio molto basso di mortalità che consente anche una gestione mediante dimissione e follow-up da parte del medico curante (vedi algoritmo finale). in considerazione del quadro clinico e della dinamica dell’episodio sincopale, entrambi surrogati dal dato anamnestico, risulta altamente probabile la natura vasodepressoria della sincope. anche l’utilizzo del sistema diagnostico a punteggio presentato in tabella iii propende nel fornire un risultato compatibile con la diagnosi di sincope vasovagale. la causa neurologica è decisamente da escludere per l’assenza di alterazioni neurologiche e per la rapida ripresa della coscienza, caratteristica poco compatibile con la natura comiziale. l’ipotensione ortostatica viene confermata dal calo della pressione in corso di misurazione in posizione ortostatica. a questo punto potrebbe essere utile eseguire un’esplorazione rettale per saggiare l’ipotesi del sanguinamento gastrointestinale, ma nella dinamica del caso tale sospetto non viene immediatamente considerato. l’errore è comunque minimo in quanto sono stati richiesti gli esami ematochimici, che segnalano la spiccata anemia, e la melena in corso di recidiva di sincope post defecazione fornisce un ulteriore elemento diagnostico decisamente chiarificatore. bisogna comunque prestare attenzione in quanto un sanguinamento gastrointestinale iperacuto potrebbe non manifestarsi immediatamente con melena e, in un primissimo momento, gli esami del sangue potrebbero non evidenziare anemia. l’unico modo di evidenziare il problema è quello di eseguire un emocromo a distanza di alcune ore dal primo in modo da permettere un’evidenziazione dell’anemia in seguito all’assunzione di liquidi da parte del paziente, con conseguente diluizione dell’emoglobina presente in circolo. nel caso in questione, nonostante l’oesil risk score basso, sarebbe stato consigliabile trattenere il paziente anche se non fossero stati riscontrate anemia e melena, in quanto l’episodio sincopale era recidivato a breve distanza di tempo richiedendo, come si evince dall’algoritmo di seguito riportato, un periodo di osservazione e una dimissione “protetta”. nel caso non vi fosse stata un’emorragia, la causa più probabile sarebbe stata una predisposizione alla sincope vasovagale in associazione a un possibile sovradosaggio di ace-inibitori. il soggetto avrebbe dovuto ridurre la dose del farmaco e sarebbe stato sottoposto a terapia infusionale, in modo da diminuire la tendenza all’ipotensione ortostatica e la predisposizione alla sincope. raccomandazioni e consigli per evitare errori raccogliere un’anamnesi accurata e minuziosa dell ’evento acuto e del paziente escludere, in prima battuta, le cause di sincope potenzialmente fatali, al fine di ricoverare i pazienti ad alto rischio e dimettere con un programma di follow-up quelli a basso rischio ipotizzare e considerare sempre la presenza di cause concomitanti nella genesi della sincope organizzare un programma di follow-up per il paziente dimesso, informare il soggetto circa eventuali comportamenti e provvedimenti che possono ridurre il rischio di recidiva di sincope, consigliare eventuali modifiche dei costumi di vita attenzione ad ogni caratteristica dell ’ecg, considerare e calcolare il qt corretto in corso di osservazione monitorare i soggetti con sincope da sospetta aritmia o da causa ignota       clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 61 f. mecca, e. favaro, c. marengo algoritmo di gestione della sincope algoritmo di gestione del paziente sincope di origine sconosciuta sincope da ipotensione ortostatica o di natura vasovagale eventuale richiesta di tilt test sincope da aritmia o patologia ischemica cardiaca anamnesi, esame obiettivo, ecg, massaggio carotideo sincope ecocardiogramma se patologia valvolare od organica: trattare secondo indicazioni del cardiologo se non nota la causa della sincope approfondire con holter ecg, loop recorder o studio elettrofisiologico se si sospetta meccanismo aritmico. se si sospetta meccanismo ischemico eseguire ecg da sforzo o ecocardiogramma con stimolazione farmacologica o scintigrafia miocardica embolia polmonare emorragia subaracnoidea dissezione aortica infarto miocardio sanguinamento gastrointestinale aritmia ventricolare blocco di conduzione cardiaca avvelenamento da co ricerca di patologie ad alta mortalità se escluse la patologie ad alta mortalità sincope oesil < 2 in assenza di cardiopatia causa vasovagale sincope situazionale non ricorrente oesil 2 cardiopatia nota trauma severo sincope in corso di esercizio fisico  oesil < 2 in assenza di cardiopatia sincope ricorrente trauma lieve dimissione osservazionee dimissione protetta ricovero clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 62 la sincope: determinazione del rischio clinico correlato e gestione terapeutica bibliografia 1. day sc, cook ef, funkenstein h, goldman l. evaluation and outcome of emergency room patients with transient loss of consciousness. am j med 1982; 73: 15-23 2. mcleod ka. syncope in childhood. arch dis child 2003; 88: 350-3 3. kapoor wn. evaluation and management of the patient with syncope. jama 1992; 268: 2553-60 4. kapoor wn. evaluation and outcome of patients with syncope. medicine (baltimore) 1990; 69: 160-75 5. abboud fm. neurocardiogenic syncope. n engl j med 1993; 328: 1117-20 6. elesber a, decker w, smars p et al. evaluation of the safety and cost-effectiveness of the acep clinical policy in regards to admission of the syncopal patients. acad emerg med 2002; 9: 370-1 7. brignole m, alboni p, benditt d et al. task force on syncope, european society of cardiology. guidelines on management (diagnosis and treatment) of syncope. eur heart j 2001; 22: 1256-306 8. kapoor wn, hanusa bh. is syncope a risk factor for poor outcomes? comparison of patients with and without syncope. am j med 1996; 100: 646-55 9. benditt dg, lurie kg, fabian wh. clinical approach to diagnosis of syncope. an overview. cardiol clin 1997; 15: 165-76 10. olshansky b, hahn ea, hartz vl, prater sp, mason jw. clinical significance of syncope in the electrophysiologic study versus electrocardiographic monitoring (esvem) trial. the esvem investigators. am heart j 1999; 137: 878-86 11. moss aj. long qt syndrome. jama 2003; 289: 2041-4 12. wilde aa, antzelevitch c, borggrefe m et al. study group on the molecular basis of arrhythmias of the european society of cardiology. proposed diagnostic criteria for the brugada syndrome. eur heart j 2002; 23: 1648-54 13. pavlovic su, kocovic d, djordjevic m et al. the etiology of syncope in pacemaker patients. pacing clin electrophysiol 1991; 14: 2086-91 14. colivicchi f, ammirati f, melina d et al. development and prospective validation of a risk stratification system for patients with syncope in the emergency department: the oesil risk score. eur heart j 2003; 24: 811-9 15. alboni p, brignole m, menozzi c et al. diagnostic value of history in patients with syncope with or without heart disease. j am coll cardiol 2001; 37: 1921-8 16. calkins h, shyr y, frumin h et al. the value of the clinical history in the differentiation of syncope due to ventricular tachycardia, atrioventricular block, and neurocardiogenic syncope. am j med 1995; 98: 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author corresponding author laura fascio pecetto l.fasciopecetto@edizioniseed.it disclosure il presente supplemento è stato realizzato con il supporto di astellas pharma s.p.a. l’infezione da clostridium difficile il clostridium difficile è un bacillo anaerobio gram positivo in grado di formare spore, la cui ingestione è all’origine dell’insorgenza dell’infezione. oltre ad altri fattori che probabilmente contribuiscono a determinarne la virulenza, c. difficile è in grado di produrre le tossine a e b, che sono le principali responsabili dei sintomi più importanti dell’infezione: infiammazione della mucosa e diarrea [1]. secondo il più recente aggiornamento delle linee guida escmid [2], un episodio di cdi si definisce come «un quadro clinico compatibile con cdi ed evidenza microbiologica di tossine libere e presenza di c. difficile nelle feci senza evidenza ragionevole di un’altra causa di diarrea oppure colite pseudomembranosa diagnosticata durante l’endoscopia, dopo la colectomia o durante l’autopsia». l’incidenza e la mortalità dell’infezione da c. difficile (cdi) sono aumentate in modo considerevole (di 2-4 volte nei paesi occidentali) negli ultimi 20 anni a seguito principalmente della diffusione di ceppi ipervirulenti e della somministrazione impropria di antibiotici. l’infezione viene frequentemente acquisita in contesti ospedalieri ed è grandemente favorita dall’uso di antibiotici e di inibitori di pompa protonica [1]. si tratta di un problema che sta acquisendo una notevole rilevanza sia clinica, sia economica per il servizio sanitario nazionale. fidaxomicina fidaxomicina è un antibiotico battericida appartenente alla nuova classe di antibiotici macrociclici che possiede un’attività specifica diretta contro le rna-polimerasi del clostridium [3]. si tratta della più recente arma di cui gli infettivologi siano stati dotati contro il c. difficile, autorizzata in europa nel 2011 [4]. gli studi registrativi hanno stabilito che fidaxomicina è non inferiore rispetto al trattamento standard con vancomicina, mentre i tassi di ricorrenza di infezione per i due studi sono stati significativamente più bassi per fidaxomicina rispetto a vancomicina. il profilo di tollerabilità è risultato favorevole e i principali eventi avversi rilevati sono stati sintomi gastrointestinali vari, cefalea, vertigini e ipersensibilità [3,4]. panoramica sui casi clinici il presente supplemento, nel tentativo di offrire una panoramica relativa all’esperienza sul campo, riporta un case series e due casi clinici. il case series riporta i risultati clinici dell’uso di fidaxomicina in 11 pazienti, in gran parte con comorbilità multiple, trattati per infezione da c. difficile. tali pazienti non avevano risposto alla terapia con metronidazolo né a quella con vancomicina. la guarigione dall’infezione è avvenuta in 10/11 pazienti, con una percentuale di successo del 91%. il controllo dei sintomi è stato ottenuto in pochi giorni (in 9/11 pazienti media = 5 giorni) e il farmaco ha presentato un ottimo profilo di tollerabilità. il primo caso clinico riporta il decorso clinico di una paziente appartenente alla categoria dei grandi anziani, con comorbilità multiple, che, in seguito a una prima infezione da c. difficile, riporta due recidive a distanza di meno di una settimana l’una dall’altra e una reinfezione dopo 5 mesi. i trattamenti con vancomicina sono riusciti a determinare solo risoluzioni temporanee della diarrea. fidaxomicina ha invece determinato una risoluzione dei sintomi duratura dopo la seconda recidiva e in occasione della reinfezione. a conclusione del supplemento è stato riportato il caso clinico di una donna anziana con infezione da c. difficile che presenta anche una complicanza, il megacolon tossico, che si verifica nello 0,4-3% dei casi di infezione. i trattamenti con metronidazolo e vancomicina, da soli o in associazione, non riescono a sortire effetti, se non temporanei. quando la paziente presenta una recidiva, la somministrazione di fidaxomicina è in grado di far ottenere una risoluzione dei sintomi duratura. il caso è stato complicato da infezioni multiple, in quanto in momenti diversi è stata riscontrata nelle emocolture la presenza di stafilococcus saprophyticus e di serratia marcescens. algoritmo di trattamento come bussola per orientarsi nella comprensione di quanto riportato nei casi clinici descritti nel presente supplemento, riteniamo utile riportare una tabella (tabella i) che riassume le raccomandazioni per il trattamento della cdi riportate nel più recente aggiornamento sulle linee guida escmid [2]. infezione iniziale lieve-moderata metronidazolo 500 mg × 3/die per 10 giorni (a-i) vancomicina 125 mg × 4/die per 10 giorni (b-i) fidaxomicina 200 mg × 2/die per 10 giorni (b-i) infezione grave vancomicina 125 mg × 4/die per 10 giorni (a-i) fidaxomicina 200 mg × 2/die per 10 giorni (b-i) metronidazolo 500 mg × 3/die per 10 giorni (d-i) prima recidiva (o rischio recidive) fidaxomicina 200 mg × 2/die per 10 giorni (b-i) vancomicina 125 mg × 4/die per 10 giorni (b-i) metronidazolo 500 mg × 3/die per 10 giorni (c-i) episodi di recidive successivi al primo fidaxomicina 200 mg × 2/die per 10 giorni (b-ii) vancomicina 125 mg × 4/die per 10 giorni seguito da regime pulsato (b-ii) o a titolazione (b-ii) metronidazolo 500 mg × 3/die per 10 giorni (d-ii) pazienti intolleranti alla terapia orale forme lievi-moderate: metronidazolo ev 500 mg × 3/die per 10 giorni (a-ii) forme gravi: metronidazolo 500 mg × 3/die per 10 giorni (a-ii) combinato con vancomicina intracolica 500 mg in 100 ml di soluzione salina × 4/die oppure combinato con vancomicina intracolica 500 mg × 4/die mediante sondino naso-gastrico per 10 giorni (b-iii) tabella i. raccomandazioni per il trattamento antibiotico dell’infezione da clostridium difficile riportate nel più recente aggiornamento sulle linee guida escmid [2] forza della raccomandazione a = se ne raccomanda fermamente l’utilizzo b = se ne raccomanda moderatamente l’utilizzo c = se ne raccomanda l’utilizzo in maniera marginale d = si raccomanda di non usarlo qualità dell’evidenza i = evidenza derivante da almeno un trial clinico randomizzato, controllato e ben disegnato ii = evidenza derivante da almeno un trial clinico ben disegnato, senza randomizzazione; da studi analitici di coorte o caso-controllo (preferibilmente effettuati in più di un centro); da coorti storiche multiple; o da risultati eclatanti di esperimenti non controllati iii = evidenza derivante da opinioni di autorità riconosciute, basate sull’esperienza clinica, studi descrittivi di casi o report di gruppi di esperti bibliografia 1. goudarzi m, seyedjavadi ss, goudarzi h, et al. clostridium difficile infection: epidemiology, pathogenesis, risk factors, and therapeutic options. scientifica (cairo) 2014; 2014: 916826; http://dx.doi.org/10.1155/2014/916826 2. debast sb, bauer mp, kuijper ej. european society of clinical microbiology and infectious diseases: update of the treatment guidance document for clostridium difficile infection. european society of clinical microbiology and infectious diseases. clin microbiol infect 2014; 20 suppl 2: 1-26; http://dx.doi.org/10.1111/1469-0691.12418 3. ema. committee for medicinal products for human use (chmp) ema/223574/2014. dificlir. scientific conclusions and grounds recommending the variation to the terms of the marketing authorization, 2014. disponibile all’indirizzo http://www.ema.europa.eu/docs/en_gb/document_library/epar_-_scientific_conclusion/human/002087/wc500165688.pdf (ultimo accesso dicembre 2014) 4. dificlir. summary of product characteristics. disponibile all’indirizzo http://www.ema.europa.eu/docs/en_gb/document_library/epar_-_product_information/human/002087/wc500119705.pdf (ultimo accesso dicembre 2014) clinical management issues � ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) francesco cipollini 1 una fastidiosa tosse persistente caso clinico la signora lb di anni 48, professione impiegata, giunge al nostro ambulatorio dipartimentale per una sintomatologia caratterizzata da tosse non produttiva insorta da tre-quattro mesi. all’anamnesi non risultano eventi degni di nota. la paziente è stata in passato modica fumatrice ma da oltre 10 anni ha smesso di fumare. non beve, se non occasionalmente, bevande alcoliche, non esegue con regolarità attività fisica e ha avuto un incremento ponderale di 5-6 kg circa nell’ultimo anno. dalla storia familiare risulta madre diabetica. la paziente riferisce due gravidanze a termine. il ciclo mestruale è tuttora regolare per ritmo, intensità e durata. l’alvo è tendenzialmente stitico e la paziente occasionalmente assume lassativi. abstract chronic cough is a stressful condition and can lead to extensive investigations. we report a case of a 48-year-old woman who had suffered from persistent chronic cough for more than 3 months. she had been treated with cough suppressant. however, her cough was not alleviated by these treatments, and the patient was referred to our hospital. she did not exhibit typical gastroesophageal reflux disease (gerd) symptoms heartburn and regurgitation. esophagoscopy did not disclose reflux esophagitis. the patient was treated with a proton-pump inhibitor, which markedly alleviated her cough. chronic cough due to gerd was diagnosed. although the diagnosis of chronic cough due to gerd is not easy when traditionally symptoms are not present, our case report underscores the importance of this association to the differential diagnosis of chronic cough. in these cases a relatively simple test as high dose proton pump-inhibitors trial may be useful to confirm gerd related cough. keywords: cough, gastroesophageal reflux disease (gerd), esophageal ph monitoring, antireflux therapy, proton pump-inhibitors an annoying persistent cough. cmi 2007; 1(1): 5-12 1 uoc di medicina interna, ospedale amandola (ap) all’età di 38 anni è stata operata di colecistectomia per litiasi multipla colesterinica. la paziente non assume regolarmente farmaci. dal colloquio risulta che la sintomatologia tussigena è particolarmente fastidiosa soprattutto nelle prime ore del pomeriggio; perché descriviamo questo caso? per sensibilizzare il medico internista e di medicina generale a una valutazione tempestiva e multidisciplinare di un sintomo la tosse che altrimenti potrebbe costringere il paziente a inutili e a volte dannosi tentativi terapeutici, oltre al persistere di una sintomatologia che può rivelarsi non solo fastidiosa ma in alcuni casi addirittura invalidante caso clinico � clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati una fastidiosa tosse persistente a volte il sintomo si manifesta anche durante le ore notturne costringendo la paziente a frequenti risvegli. in questo periodo ha assunto, per autoprescrizione prima e su consiglio del farmacista poi, farmaci da banco sedativi della tosse e fluidificanti, purtroppo senza alcun risultato sulla sintomatologia. all’esame clinico generale non emergono elementi di rilievo tranne un moderato sovrappeso (peso = 72 kg; altezza = 165 cm; bmi = 26,5; circonferenza vita = 96 cm). all’esame obiettivo del torace non si evidenziano reperti patologici all’ispezione, palpazione, percussione e ascoltazione; il murmure vescicolare è normalmente trasmesso e non si rilevano rumori di tipo bronco-ostruttivo e/o rumori umidi tipo rantoli. l’attività cardiaca è ritmica e la pressione arteriosa ha valori normali (125/80). l’addome è trattabile e gli organi ipocondriaci sono nei limiti. domande da porre alla paziente la paziente vive o lavora in luoghi con possibilità di inalazione di tossici ambientali (fumo, ecc?) la paziente ha avuto episodi recidivanti di rinite/sinusite soprattutto nei mesi invernali? la paziente ha avuto episodi asmatici in età pediatrica e/o fenomeni di atopia? la paziente assume farmaci potenzialmente tussigeni? in casa e nell’ambiente di lavoro non risulta la presenza di inalanti tossici: in particolare i familiari e i colleghi di lavoro non fumano e la paziente vive e lavora da oltre 20 anni nello stesso luogo. la paziente nega episodi ricorrenti di rinite se non in coincidenza di episodi influenzali. non risultano episodi asmatici in età infantile né tantomeno manifestazioni atopiche. la paziente nega assunzione regolare di farmaci (tranne sporadico uso di lassativi). domande da porsi posso gestire la paziente con terapia exiuvantibus? devo prescrivere un esame rx del torace?       devo richiedere una consulenza otorinolaringoiatrica (orl)? in caso di esito negativo devo eseguire spirometria? fibrobroncoscopia? alla paziente viene prescritto un esame radiologico del torace che risulta normale. viene quindi richiesta la consulenza di un otorinolaringoiatra. quest’ultimo non evidenzia, all’esame clinico e alla laringoscopia indiretta, elementi di rilievo e prescrive a sua volta un esame radiologico per lo studio dei seni paranasali. l’indagine radiologica mostra una normale trasparenza dei seni paranasali ed evidenzia solo una lieve deviazione del setto nasale. a un approfondimento anamnestico, eseguito dopo la negatività delle indagini radiologiche, risulta che la sintomatologia tussigena a volte è preceduta da pirosi retrosternale ed è più insistente nel periodo post-prandiale in corrispondenza di pasti abbondanti. il dato, associato all’incremento ponderale che può slatentizzare o esacerbare un reflusso gastro-esofageo, fa sorgere il sospetto di una sindrome tussigena cronica da malattia da reflusso gastro-esofageo. viene pertanto prescritta una esofagogastroduodenoscopia che mostra una piccola ernia iatale da scivolamento che si estende per 2-3 cm circa senza segni endoscopici associati di esofagite da reflusso (figura 1). si prescrive terapia con rabeprazolo alla dose di 20 mg/bid per 4 settimane. al successivo controllo clinico la paziente riferisce la pressoché completa risoluzione della sintomatologia. discussione la malattia da reflusso gastro-esofageo (mrge) è una patologia molto comune soprattutto nei paesi industrializzati: da uno studio di prevalenza eseguito in una comunità del minnesota [1] è risultato che il 43% dei soggetti presentava rigurgito o pirosi almeno una volta al mese e il 17% con frequenza bisettimanale. in italia non sono disponibili analoghe indagini epidemiologiche; tuttavia estrapolando i risultati dello studio statunitense si può ragionevolmente ipotizzare che 9-10 milioni di italiani abbiano sintomi tipici da reflusso almeno una volta alla settimana.   � ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) f. cipollini molto probabilmente questi dati relativi alla prevalenza risultano sottostimati perché negli ultimi dieci anni sono state sempre più numerose in letteratura le segnalazioni di modalità alternative di presentazioni del reflusso gastro-esofageo (rge), vuoi per le manifestazioni sintomatologiche diverse da quelle tipiche, quali la pirosi e il rigurgito, vuoi per il coinvolgimento di organi/apparati extra-digestivi. sono ormai consolidate le osservazioni di reflusso gastro-esofageo a presentazione “atipica” quale il dolore toracico simil-anginoso così come altrettanto documentate risultano le manifestazioni extra-digestive a carico delle alte e basse vie respiratorie (asma bronchiale, tosse cronica, laringite, ecc…) (tabella i). la definizione diagnostica di queste manifestazioni extra-digestive del reflusso risulta impegnativa per il medico perché la maggioranza di questi pazienti non riferisce i sintomi tipici del reflusso. da una revisione della letteratura [2] è risultato che la pirosi e il rigurgito sono assenti nel 40-75% dei casi di presentazione sintomatologica extra-digestiva. a complicare ulteriormente i problemi diagnostici va tenuta in considerazione la bassa sensibilità dell’indagine endoscopica. infatti, anche quando si sospetti un reflusso gastro-esofageo a manifestazioni extra-digestive, l’esofagoscopia mette in evidenza un quadro di esofagite erosiva solo nel 1020% dei casi [2]. senza i sintomi “classici” di reflusso, quali pirosi e rigurgito, e in assenza dei segni endoscopici di esofagite, l’indagine diagnostica in grado di documentare un reflusso gastroesofageo patologico è rappresentata dal monitoraggio ambulatoriale del ph per 24 ore [3]. questo test rappresenta indubbiamente il gold standard nella definizione del reflusso, ma va ricordato che è un test con una invafigura 1 ernia iatale riscontrata nella paziente tabella i manifestazioni cliniche del reflusso gastroesofageo manifestazioni tipiche manifestazioni atipiche polmonari orl dentarie esofagite erosiva dolore toracico non cardiaco (nccp) asma bronchiale laringite posteriore erosioni dello smalto esofagite non erosiva (nerd) tosse cronica faringite cronica esofago di barrett fibrosi polmonare globo carcinoma esofageo apnea morfeica secchezza granulomi delle corde vocali turbe della fonazione sività, seppur minima, e può presentare dei problemi tecnici legati al posizionamento degli elettrodi e alla standardizzazione dei parametri [4]. oltre a questo non va dimenticato che l’esecuzione e la lettura dell’indagine richiedono un impegno di tempo e una dotazione strumentale che comportano un costo non trascurabile. ed è proprio per queste sue caratteristiche che la ph-metria prolungata non può essere proposta come test di primo impiego nella diagnostica della malattia da reflusso gastro-esofageo cioè di una patologia che proprio per le molteplici manifestazioni interessa un numero elevato e sempre crescente di soggetti. inoltre va sottolineato che questa indagine, in caso di positività, conferma il sospetto diagnostico di reflusso ma non stabilisce una relazione causa-effetto tra reflusso acido e sintomi. una relazione può essere documentata se la sintomatologia recede o migliora significativamente dopo un trattamento medico antisecretivo oppure una terapia chirurgica anti-reflusso. � clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati una fastidiosa tosse persistente è proprio per definire correttamente il rapporto tra reflusso e sintomi che da qualche anno è stato proposto (soprattutto nelle forme non erosive e nelle manifestazioni atipiche o extra-esofagee) un approccio diagnostico che consiste in un trial empirico di terapia antisecretiva a dosi massimali con inibitori di pompa protonica [5]. al soggetto con sospetta sintomatologia correlata al reflusso acido viene prescritta terapia con omeprazolo (40-80 mg/die) o con pantoprazolo (80 mg/die), lansoprazolo (60-90 mg/die), rabeprazolo (40 mg/die), esomeprazolo (40 mg/die) per un periodo di tempo variabile dalle tre alle quattro settimane. questo tipo di approccio diagnostico è sicuramente semplice, economico e bene accettato dal paziente. certamente non può sostituire indagini validate come la ph-metria prolungata, anche perché dai risultati della letteratura [6] le percentuali di sensibilità diagnostica dei trial con inibitori di pompa protonica sono molto variabili (dal 30 al 93%), ma può sicuramente costituire una valida alternativa, quantomeno in fase diagnostica iniziale, a indagini più complesse e costose. è importante sottolineare il fatto che il successo di un trial con farmaci inibitori di pompa protonica per una manifestazione clinica (tipica o atipica) correlata a reflusso gastro-esofageo dipende sia dalla prevalenza del reflusso gastro-esofageo nella popolazione trattata, sia dalla probabilità che il reflusso acido sia la causa del disturbo. nella figura 2 è riportata la prevalenza di reflusso gastroesofageo nelle varie manifestazioni cliniche tipiche e atipiche. se si tiene conto della comune origine embriogenetica e della contiguità anatomica, non deve meravigliare che la malattia figura 2 prevalenza del reflusso gastro-esofageo in diverse manifestazioni cliniche nerd = esofagite non erosiva nccp = dolore toracico non cardiaco orl = otorinolaringoiatrici da reflusso gastro-esofageo interessi diversi segmenti delle vie respiratorie. anzi, in uno studio di el-serag [7] è stato osservato che i pazienti con reflusso gastro-esofageo, documentato dalla presenza di erosioni all’esame endoscopico, presentavano un rischio significativamente superiore (p < 0,0001) rispetto ai controlli di ammalarsi di malattie polmonari quali asma, bronchite cronica, bronchiectasie, polmoniti, fibrosi polmonare e bpco. la tosse cronica rappresenta una tra le manifestazioni “atipiche” della malattia da reflusso gastro-esofageo. una tosse fastidiosa di durata superiore alle tre settimane rappresenta una condizione che può provocare allarme nel paziente sano e che comunque modifica in senso peggiorativo la qualità di vita. tra le cause di tosse cronica la malattia da reflusso gastro-esofageo rappresenta la terza causa in ordine di frequenza (figura 3) dopo la sindrome da post nasal drip (pnd) e l’asma bronchiale [8]. il meccanismo patogenetico ritenuto responsabile, e attraverso il quale si determina l’insorgenza della tosse, è un riflesso tussigeno esofago-bronchiale vago-mediato stimolato dal reflussato acido in esofago [9]. in alternativa sono stati chiamati in causa l’irritazione della mucosa laringea esercitata direttamente dal contatto del reflusso acido oppure la microaspirazione di acido nell’albero tracheo-bronchiale [10]. la tosse correlata al reflusso gastro-esofageo, che spesso è presente da diversi mesi prima di essere correttamente identificata, può essere sia produttiva che non produttiva e si presenta prevalentemente in ortopiù che in clino-statismo. così come risulta per altre manifestazioni atipiche, la tosse rappresenta spesso il solo sintomo del reflusso gastroesofageo: dai dati della letteratura risulta che i pazienti con accertata tosse reflussocorrelata non presentavano le tipiche manifestazioni quali rigurgito e pirosi in misura variabile dal 43 al 75% dei casi [11]. anche l’esame endoscopico è molto spesso negativo e la presenza di erosioni e/o alterazioni infiammatorie all’istologia viene riportata in una minoranza di pazienti. nei casi in cui la microaspirazione gioca un ruolo prevalente è possibile che alla tosse si associno sintomi laringei come secchezza, disfonia e alterazioni mucose alla laringoscopia [12]. è importante sottolineare che qualsiasi tosse cronica da qualunque causa sostenuta � ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) f. cipollini può precipitare – a causa di un aumentato gradiente pressorio addomino-toracico! – un reflusso gastro-esofageo innescando così un circolo vizioso tosse-reflusso-tosse. pertanto la ricerca di reflusso gastro-esofageo, anche come concausa, deve essere effettuata anche quando la tosse è stata inquadrata nell’ambito di una specifica patologia [13]. la diagnosi di tosse cronica da reflusso non è agevole: può essere sospettata quando siano concomitanti sintomi tipici quali pirosi e rigurgito. purtroppo nella maggioranza dei casi manca questa sintomatologia di riferimento e l’ipotesi di un reflusso gastro-esofageo viene presa in considerazione solo dopo che sono state escluse cause più f requenti e/o meglio conosciute di tosse. innanzitutto si dovrà escludere una medicazione con ace-inibitori, abitudine tabagica o esposizioni ad altri irritanti ambientali. se si sospetta una sindrome da post nasal drip può essere utile uno studio radiologico/endoscopico finalizzato alla ricerca di una patologia rinosinusitica associata e, come criterio ex-iuvantibus, la valutazione di efficacia di un ciclo di terapia con anti-istaminici. nell’ipotesi di una patologia bronco-asmatica, oltre alla negatività di un test provocativo alla metacolina, può risultare di aiuto la risposta alla terapia con broncodilatatori. una volta escluse queste cause, per confermare il sospetto di una tosse cronica secondaria a reflusso si può ricorrere o a un monitoraggio prolungato per 24 ore del ph esofageo oppure a un trial empirico con inibitori di pompa protonica. sicuramente la ph-metria rappresenta l’indagine d’elezione nella diagnosi di tosse reflusso-correlata. il test ha un valore predittivo positivo dell’89% e uno predittivo negativo del 100% [8]. a conferma di quest’ultimo dato, ours [14] ha messo in evidenza come nei soggetti con monitoraggio del ph esofageo nei limiti di norma, una terapia acido-soppressiva a dosi massimali non comportava nessun miglioramento della terapia. tuttavia se da un lato una ph-metria normale esclude un ruolo patogenetico del reflusso, dall’altro non tutti i casi di tosse cronica con ph-metria patologica si giovano di una terapia antisecretiva. questo a conferma che il reflusso gastro-esofageo può essere conseguenza di un aumento pressorio addominale indotto da tosse cronica di altra eziologia oppure esserne concausa insieme ad altri fattori. figura 3 cause di tosse cronica pertanto in un paziente con tosse cronica – per confermare o escludere un ruolo causale del reflusso gastro-esofageo – un approccio razionale può essere quello di un trial empirico antisecretivo a dosi massimali per almeno 4 settimane. è un’indagine semplice, economica, ben accettata dal paziente che consente di definire se il reflusso gastroesofageo, qualora presente, sia responsabile della sintomatologia tussigena. l’efficacia di una terapia antisecretiva è stata segnalata in trial clinici non controllati che impiegavano l’h2-inibitore ranitidina [12,15] o inibitori di pompa protonica [16,17]. ours [14] in uno studio randomizzato controllato contro placebo ha documentato l’efficacia del trattamento con omeprazolo alla dose di 40 mg/bid protratta per 12 settimane. kiljander [18] in un altro studio crossover controllato randomizzato vs placebo ha dimostrato un significativo miglioramento della tosse (p < 0,02) in 21 pazienti trattati con inibitori di pompa protonica per 8 settimane. è stata proposta anche la terapia chirurgica per il trattamento della tosse cronica acido-relata. gli studi pubblicati sono per la maggior parte riferiti a intervento di fundoplicatio con percentuali di successo che variano dal 56 all’80 % [19,20]. è importante sottolineare che alcuni pazienti con tosse indotta da reflusso gastro-esofageo, apparentemente non responsivi a un trattamento antisecretivo, si giovano di una terapia chirurgica [21]. sarebbe bene tentare in questi casi un trattamento con farmaci inibitori di pompa protonica a dosi massimali (ad esempio omeprazolo 40 mg/bid) protratto per due-tre mesi prima di inviare il paziente al chirurgo. 10 clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati una fastidiosa tosse persistente conclusioni il reflusso gastro-esofageo si manifesta di solito con sintomi tipici quali la pirosi e il rigurgito. tuttavia numerose evidenze accumulate negli ultimi anni hanno mostrato che i pazienti affetti da reflusso possono presentare sintomi “atipici” riferibili al coinvolgimento di organi extra-esofagei (vie respiratorie principalmente) in associazione o, più frequentemente, in assenza dei cosiddetti segni tipici. pertanto non è raro che il reflusso acido si presenti sotto forma di dolore toracico simil-anginoso, asma, tosse, raucedine, disfonia, bisogno di “schiarirsi” la voce, ecc. senza la contemporanea presenza di pirosi e rigurgito. la ph-metria prolungata per 24 ore ha dimostrato l’elevata associazione di reflusso acido patologico con il dolore toracico non cardiaco (50%), l’asma bronchiale (in alcune casistiche sino all’80%), la laringite posteriore (38-78%), la tosse cronica (25%). quantunque la diagnosi di reflusso gastroesofageo non sia agevole nei soggetti in cui la sintomatologia extra-esofagea rappresenta la sola manifestazione del reflusso, il medico dovrà prendere in considerazione, almeno in seconda ipotesi, una eziologia rge-correlata di fronte a un paziente che accusa dolore toracico aspecifico o secchezza oppure tosse e sintomi bronco-ostruttivi, ecc. anche in assenza dei sintomi tipici quali pirosi e rigurgito. sarà un’accurata e approfondita indagine clinica, corredata dalle indagini laboratoristiche strumentali appropriate, a confermare oppure a escludere, in prima istanza, le cause più frequenti e ben note delle manifestazioni accusate dal paziente. pertanto in caso di dolore toracico dovrà innanzitutto essere presa in considerazione, ed esclusa mediante indagini diagnostiche non invasive, una cardiopatia ischemica. in caso di sintomi quali tosse e broncospasmo andranno ricercate cause ambientali, allergiche o infettive di patologia delle alte e basse vie respiratorie. una volta escluse le cause più frequenti e posto il sospetto di un reflusso gastro-esofageo, dovranno essere eseguiti test diagnostici finalizzati a confermare il ruolo causale del rge. nell’iter diagnostico della malattia da reflusso gastro-esofageo l’approccio diagnostico iniziale è caratterizzato dall’esecuzione di un esame endoscopico delle prime vie digestive. purtroppo l’esofagogastroscopia, nelle manifestazioni atipiche ed extra-digestive del reflusso, è caratterizzata da una bassa sensibilità diagnostica: la presenza di esofagite erosiva (test positivo) risulta evidente in percentuali non superiori al 3040% dei casi. proprio a causa della non elevata sensibilità dell’esame endoscopico l’indagine gold standard è rappresentata dalla ph-metria 24 ore (sensibilità = 96%; specificità = 93%). purtroppo il monitoraggio prolungato del ph esofageo non può essere proposto in tutti i pazienti in cui si ipotizzi un reflusso gastroesofageo, vuoi per le caratteristiche dell’indagine (invasività, anche se minima, difficoltà tecniche, costo), vuoi per l’indisponibilità dell’apparecchiatura in molti centri periferici. in questi casi l’approccio più razionale a conferma di un reflusso gastro-esofageo è rappresentato da un trial empirico con farmaci inibitori di pompa protonica. dalla letteratura sono stati proposti numerosi schemi di terapia acido-suppressiva (ben 11 solo per l’asma rge correlata!) e non tutti omogenei per quanto riguarda la dose e la durata del trattamento. dalla sintesi dei risultati sinora pubblicati si può proporre nel dolore toracico un trial con inibitori di pompa protonica (pantoprazolo 40 mg/bid, omeprazolo 20 mg/bid, rabeprazolo 20 mg/bid, lansoprazolo 30 mg/bid, esomeprazolo 20 mg/bid) per 4-8 settimane. nell’asma bronchiale il trattamento dovrebbe essere prolungato per almeno 3 mesi. nella tosse cronica e nelle manifestazioni laringee la durata del trattamento è variabile da 1 a 3 mesi. qualora la prova risulti inefficace può essere indicato, se persiste il sospetto di reflusso gastro-esofageo, il ricorso al monitoraggio prolungato del ph. nel caso in cui il test risulti positivo deve essere preso in considerazione un aumento della dose e/o della durata del trattamento. se il trial ha successo è indicata una terapia di mantenimento alla dose minima efficace a mantenere il controllo della sintomatologia. 11 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) f. cipollini si no positivonegativo negativopositivo negativo positivo negativopositivo trattamento della patologia specifica pleuro-polmonare rx seni paranasali rinoscopia rx torace tosse cronica rimozione della causa tussigena test broncodilatatori rx seni paranasali rinoscopia sindrome da post nasal drip fumo farmaci (ace-inibitori) esposizione irritanti ambientali terapia specifica asma bronchiale terapia specifica terapia specifica mrge altri test (tc, endoscopia) gli errori nel trattamento di questo caso il monitoraggio del ph esofageo prolungato per 24 ore non è essenziale per la diagnosi di manifestazione atipica di reflusso gastro-esofageo; il trial all ’inibitore di pompa protonica risulta più semplice, economico e molto meglio accettato dal paziente perché non invasivo analogamente non è determinante per la diagnosi eseguire esofagogastroscopia perché spesso (70% casi) nei pazienti con manifestazioni atipiche da reflusso gastro-esofageo cronico l ’indagine endoscopica non mostra erosioni esofagee la terapia delle manifestazioni atipiche del reflusso – quale è la tosse cronica – deve essere di tipo massimale (ad esempio rabeprazolo 20 mg/bid; pantoprazolo 40 mg/bid) e protratta per almeno 6-8 settimane; dosaggi inferiori e periodi di trattamento più brevi potrebbero risultare inefficaci nella sintomatologia tussigena cronica da malattia da reflusso gastro-esofageo il paziente con malattia da reflusso non deve eseguire diete particolarmente restrittive: è giustificata l ’esclusione dalla dieta solo di brodo di carne, menta, cioccolata e superalcolici. sono invece indicati provvedimenti quali il rialzo della testata del letto di almeno 10 cm, un calo ponderale qualora sia presente sovrappeso – come nel caso del caso clinico presentato – e soprattutto l ’abolizione del fumo. devono essere inoltre evitati in questi pazienti farmaci che riducono il tono del les (sfintere esofageo inferiore) quali ad esempio calcioantagonisti, anticolinergici, nitroderivati, ecc     algoritmo diagnostico-terapeutico nel paziente con tosse cronica 12 clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati una fastidiosa tosse persistente bibliografia 1. locke gr, talley nj, fett sl et al. prevalence and clinical spectrum of gastroesophageal reflux: a population based study in olmsted county, minnesota. gastroenterology 1997; 112: 1148-56 2. richter je. extraesophageal presentations of gastroesophageal reflux disease. semin gastroenterol dis 1997; 8: 75-89 3. hewson eg, sinclair jw, dalton cb et al. twenty-four hour esophageal ph monitoring: the most useful test for evaluating non cardiac chest pain. am j med 1991; 90: 576-83 4. vaezi mf, schroeder pl, richter je. riproducibility of proximal ph parameters in 24-hour ambulatory esophageal ph monitoring. am j gastroenterol 1997; 92: 825-9 5. fass r, fennerty mb, ofman jj et al. the clinical and economic value of a short course of omeprazole in patients with non-cardiac chest 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department of health science, university of catanzaro and operative unit of clinical pharmacology and pharmacovigilance, azienda ospedaliera materdomini, catanzaro, italy 2 department of neurology, “annunziata” hospital, cosenza, italy abstract the onset of myalgia is a well-known side effect of cholesterol-lowering statins. recent studies advanced the hypothesis that reduced vitamin d levels may play a role in the onset of myalgia in statin users and potentially a vitamin d supplementation may be useful in these cases, as suggested by the present case report. a 52-year-old man with a history of smoke and successfully controlled hypertension presented with chest pain and asthenia. he was diagnosed with stable angina pectoris and discharged on atorvastatin. due to the onset of myalgia, the dosage of atorvastatin was reduced (from 40 mg daily to 20 mg daily) and then atorvastatin was switched to rosuvastatin without symptoms improvement. switching from rosuvastatin to ezetimibe resulted in pain improvement, but also in plasma lipids increase beyond the normal range. ezetimibe was switched to rosuvastatin + analgesic; in the meanwhile a high-performance liquid chromatography (hplc) analysis showed low levels of 25-hydroxy-vitamin d and 1-25-dihydroxy-vitamin d. therefore, vitamin d3 was added to rosuvastatin, resulting in pain improvement, decrease of plasma lipids and progressive discontinuation of analgesics. during the follow-up, rosuvastatin was switched to atorvastatin + vitamin d3, with a good control of plasma lipid levels and without the onset of myalgia. keywords: myalgia; statin; vitamin d; vitamin supplementation la mialgia durante il trattamento con statine può essere associata a bassi livelli plasmatici di vitamina d e può migliorare dopo supplementazione vitaminica: un caso clinico cmi 2015; 9(1): 21-26 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v9i1.978 case report corresponding author luca gallelli department of health science, university of catanzaro, viale europa, 88100 catanzaro operative unit of clinical pharmacology and pharmacovigilance, azienda ospedaliera materdomini, via campanella 115, catanzaro, italy. tel.: +390961712322 gallelli@unicz.it disclosure the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article why we describe this case myalgia is a well-known side effect of statins. current guidelines suggest to evaluate creatinphosphokinase and transaminases before starting statin treatment, and this case report suggests to evaluate vitamin d levels too. in statin users with low levels of vitamin d, a supplementation may resolve muscle pain introduction treatment guidelines recommend ldl cholesterol lowering with statins as the primary means of cardiovascular risk reduction [1]. however, there is concern about the safety and tolerability of high-dose statin therapy. indeed, adverse effects (aes) on muscle (myopathy and, rarely, rhabdomyolysis) and liver (increased transaminases), while rare at standard doses, vary between statins and increase at higher doses [2]. we report the development of myalgia during statin treatment in a patient with low vitamin d levels, that improved after vitamin d supplementation. case report in december 2012 a 52-year-old man presented with effort chest pain and asthenia. electrocardiography excluded the presence of pathological st tract, and sublingual glyceryl trinitrate improved pain in about 4 minutes. both coronary angiography and echocardiography were performed and did not shown any pathological heart disease. the patient was a smoker (10 cigarettes/day from the age of 22), with a 16-year history of hypertension successfully controlled (135/85 mmhg) with valsartan plus hydrochlorothiazide (80 mg/12.5 mg/day). clinical examinations excluded the presence of a serious cardiac or respiratory disease (e.g. acute pericarditis, pneumonia, aortic dissection, acute coronary syndrome, prinzmetal’s angina) as well as gastroesophageal reflux. blood chemical test performed at the admission and 6 hours later documented normal levels of cardiac troponin-i, troponin-t, creatinphosphokinase (cpk), cpk-myocardial band, thyroid-stimulating hormone and free thyroxine (table i). parameter normal values dec 2012 mar 2013 jun 2013 sep 2013 dec 2014 vas 8 8 3 2 glucose (mg/dl) 70-100 85 84 90 creatinine clearance (ml/min) 85-130 92 94 85 serum creatinine (mg/dl) 0.7-1.2 0.94 1 1.1 potassium (meq/l) 3.6-5 4 4.2 4.1 4 total cholesterol (mg/dl) < 220 452 220 210 280 210 ldl cholesterol (mg/dl) < 130 195 125 123 135 125 hdl cholesterol (mg/dl) 35-39 32 35 36 35 36 triglyceride (mg/dl) 50-150 165 145 145 145 25-hydroxy-vitamin d (ng/ml) 20-100 12 35 1-25-dihydroxy-vitamin d (ng/ml) 25-66 19 42 troponin i (μg/l) < 10 0.25 troponin t (μcg/l) < 0.1 0.06 creatinphosphokinase (iu/l) 33-194 95 350 420 189 188 creatinphosphokinase myocardial band (iu/l) 0-25 18 20 20 19 19 aspartate aminotransferase (iu/l) 8-48 29 29 28 28 28 alanine aminotransferase (iu/l) 7-55 28 28 29 28 28 serum-free thyroxine (ng/dl) 0.7-1.5 0.9 tsh (μiu/ml) 0.1-4.5 2.7 urinary vma (mg/day) 1.8-6.7 3.4 urinary hva (mg/day) 0.5-6.2 3.2 table i. laboratory findings hva = homovanillic acid; tsh = thyroid-stimulating hormone; vas = visual analogue pain score; vma = vanilmandelic acid routine blood assays documented high levels of cholesterol, ldl and triglycerides, whereas hdl cholesterol was low (table i). the evaluation of urinary catecholamines revealed normal values (table i). a diagnosis of stable angina pectoris was postulated and the patient was discharged on atorvastatin 40 mg/day. about 3 months later, during the follow-up, blood chemical tests revealed a decrease in plasma lipids, but the patient referred the onset of myalgia (visual analogue pain score, vas = 8). the clinical history revealed that no other drugs or other substances were taken during this period; moreover, the patient didn’t perform job or physical activity that could be responsible for the muscular pain. physical examination documented a diffuse, reproducible pain with palpation or manipulation of upper and lower extremities without evidence of joint effusion or redness. doppler ultrasound excluded the presence of peripheral vascular diseases, while laboratory findings excluded the presence of hepatic, renal or gastrointestinal diseases. naranjo probability scale [3] documented a possible association between statin and muscular pain, therefore the dosage of atorvastatin was reduced to 20 mg/day. about one week later the patient came back for the persistence of muscular pain (vas = 8), self treated with non-steroidal antinflammatory drugs, and atorvastatin (20 mg/day) was switched to rosuvastatin (10 mg/day). three months later, at the follow-up, biochemical tests revealed high levels of cpk and the patient complained about an intense pain (vas = 8; table i), therefore rosuvastatin was stopped and ezetimibe (10 mg/day) was started. after three additional months, at the follow-up, the patient showed an improvement in muscular pain (vas = 3), but laboratory analysis revealed an increase in plasma lipids (table i). therefore, ezetimibe was stopped and rosuvastatin (20 mg/day) was started; a normalization of biochemical values occurred in three weeks, but with the onset of muscular pain (vas = 5). in order to reduce the pain, a treatment with ibuprofen (600 mg daily) + pregabalin (75 mg daily) was prescribed and plasma vitamin d levels were evaluated. using a reversed phase (c18) high-performance liquid chromatography system (hplc; uv detector 265 nm, limit of detection 1.5 ng/ml; intra-assay and inter-assay coefficients of variation for control: 8%), we documented low levels of 25-hydroxy-vitamin d and of 1-25-dihydroxy-vitamin d (table i). clinical evaluation revealed that low plasma vitamin d levels were related to inadequate vitamin d intake, and a daily treatment with cholecalciferol (vitamin d3, 1600 iu daily) taken during a fat-containing meal was prescribed and after 1 week the patient referred an improvement of muscular pain (vas = 4), ibuprofen was dismissed and the patient was maintained on treatment with vitamin d3 + rosuvastatin + pregabalin. two months later, the patient referred an improvement of pain (vas = 3) and laboratory findings revealed a decrease of plasma lipid levels and an increase in both 25-hydroxy-vitamin d (22 ng/ml) and 1-25-dihydroxy-vitamin d (25 ng/ml). pregabalin was dismissed and 6 months later the patient referred the absence of muscular pain, while laboratory tests revealed a normalization of plasma lipids. rosuvastatin was changed to atorvastatin (20 mg/day) and cholecalciferol dosage was decreased (800 mg daily). six months later (december 2014), during the follow-up, laboratory findings revealed normal levels of both lipids and vitamins d, therefore cholecalciferol dosage was reduced to 400 iu daily. to date, on march 2015, the patient is on atorvastatin therapy (20 mg/day) and on vitamin d supplementation (cholecalciferol 400 iu daily), laboratory findings are in normal range and no side effects are recorded (figure 1). figure 1. time course of drug treatment during the study main questions a doctor should ask him/herself in this situation what is the patient’s job? how is the patient’s diet? are there other drugs that could induce myalgia (e.g. corticosteroids) or statin toxicity (e.g. cyp3a4 or cyp2c9 inhibitors)? have i evaluated the development of myalgia? have i evaluated the values of vitamins d before administering statins? discussion we report the improvement of statin-induced myalgia through vitamin d supplementation. previously, we documented that drug-drug interaction is common during drug treatment [4,5] and settergren et al. [6] during a cross-sectional analysis of nationwide dispensing data documented that calcium blockers and gemfibrozil can induce a drug-drug interaction with statins, with the development of myalgia. in the present case, myalgia appeared during the treatment with either atorvastatin or rosuvastatin, both metabolized by cytochrome p450 (cyp), cyp3a4 and cyp2c9, respectively. our patient did not take any drug able to cause a cyp inhibition, therefore the drug-drug interaction was ruled out. moreover, musculoskeletal pain occurred after the beginning of atorvastatin therapy and increased in a time-dependent manner. the decrease of atorvastatin dosage (from 40 to 20 mg) and then the switch to rosuvastatin (10 mg) did not improve muscular pain. clinical and laboratory assays confirmed the myalgia and excluded the presence of systemic diseases able to induce the development of muscular disease. in agreement with our previous papers [7,8], using the naranjo score, we documented a probable association between statins and clinical symptoms. therefore, following guidelines recommendations [1], rosuvastatin was changed to ezetimibe with a decrease of muscular pain but with an increase in plasma lipids. the re-challenge of rosuvastatin, after the discontinuation of ezetimibe, induced the normalization of lipid levels but the development of myalgia, that was treated with pregabalin and with ibuprofen as needed. recently, an association between myalgia in statin treated patients and low vitamin d plasma levels has been reported [9-12]. in particular, morioka and coworkers [9], using the national health and nutrition examination survey 2001-2004, performed a cross-sectional study on statin users and evidenced that vitamin d plasma concentrations were significantly lower in patients with statin-associated myalgia compared with patients without muscle pain. in agreement, michalska-kasiczak and coworkers [10] evaluating 437 articles from 1987 to 2014 documented an association between low vitamin d levels (mean 28.4 ± 13.80 ng/ml, normal range 34.86 ± 11.63 ng/ml) and myalgia in patients on statin therapy. in contrast, evaluating 10,001 patients with stable coronary heart disease randomized to atorvastatin 80 mg vs 10 mg daily, bittner and coworkers in a poster presentation did not shown any relationship between vitamin d deficiency and myalgia incidence [13]. a recent retrospective study postulated that the correction of 25-hydroxy-vitamin d levels before statin therapy initiation may mitigate the development of statin-related myalgia [14]. accordingly, in the present case we recorded low plasma vitamin d levels, that have probably increased the statin-muscle toxicity. previously, draeger and coworkers [15], using an electron microscope, documented, in skeletal muscle biopsies from statin-treated patients, the presence of a breakdown of the t-tubular system and subsarcolemmal rupture that were not present in muscle biopsies of non-treated-patients. in addition, in an experimental study performed in muscles of vitamin d depleted rabbits, pfeifer and coworkers [16] documented a decrease of atp-dependent calcium uptake of isolated vesicles in the sarcoplasmic reticulum. moreover, they documented that 1,25(oh)2d plays a role in the active transportation of calcium into sarcoplasmic reticulum and increases the intracellular levels of atp and phosphate increasing protein synthesis. taken together, these data suggest that vitamin d is involved in the maintenance of normal muscle physiology and low levels of vitamin d can induce a muscle damage impairing physical symptoms during the treatment with statins. al-said et al. [17] demonstrated reversible electromyographic changes, consistent with a myopathy, that subsequently resolved once the vitamin d deficits (< 20 ng/ml) were resolved. binkley et al. [18], evaluating the effects of daily and once monthly dosing of ergocalciferol or cholecalciferol on circulating 25-hydroxy-vitamin d, documented that the administration of cholecalciferol is able to induce a normalization of plasma vitamin d levels at both daily and one monthly dosage. recently, it has been reported that the usual supplement dose for vitamin d deficiency is 1000 international units (vitamin d3) daily, vitamin d2 supplementation at doses of 50,000 international units can be given for correction [19]. however, in particular for vitamin d2 supplementation, an increased risk of mortality for cardiovascular disease was observed [20]. in our case low levels of vitamin d were related to inadequate intake, therefore vitamin d3 supplementation during a fat meal and the treatment with statin induced the normalization of plasma vitamin d levels and lipid levels without the development of statin-related muscular side effects. in agreement with the indication of italian agency for drug (agenzia italiana del farmaco – aifa), in italy rosuvastatin may be prescribed only when other statins cannot be used (second choice), therefore the absence of pain induced the change of rosuvastatin to atorvastatin 20 mg daily with a good control of blood lipids. in conclusion, in this report we documented the improvement of muscular pain through a supplementation of vitamin d in a patient treated with statins. however, this observation should be corroborated by further studies involving large groups of patients. key points the onset of myalgia is a well-known side effect of statins however a thorough examination should be performed to rule out other causes of myalgia in statin users in the presence of muscle pain, we suggest to check also vitamin d levels in this patient vitamin d supplementation was effective in muscular pain reduction during statin treatment references 1. stone nj, robinson j, lichtenstein ah, et al. 2013 acc/aha guideline on the treatment of blood 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emisferi cerebrali attraverso il corpo calloso, potendo interessare anche il tronco encefalico, gli emisferi cerebellari e il midollo spinale [1]. la gc più frequentemente deriva da cellule di tipo astrocitario, ma può anche avere un’istologia di tipo oligodendrogliale o mista. la gc può presentarsi de novo (gliomatosi primaria) oppure può rappresentare l’evoluzione di un glioma focale (gliomatosi secondaria). il quadro radiologico sulla risonanza magnetica (rm) è caratterizzato da un’alterazione di segnale sulle sequenze flair-t2 senza evidenti assunzioni di mezzo di contrasto (mdc). l’assunzione di mdc sulle sequenze t1 si osserva più frequentemente in fasi avanzate di malattia ed perché descriviamo questo caso il caso descritto, pur avendo come oggetto un paziente con tumore cerebrale raro, ha presentato delle complicanze “internistiche” frequenti da trattamento con bevacizumab, un farmaco che sempre più spesso viene impiegato in oncologia generale e in neuro-oncologia corresponding author dott.ssa elisa trevisan tel.: 0116334904 fax 0116335432 cell. 3406916953 elisa.trevisan73@libero.it caso clinico abstract gliomatosis cerebri is a rare diffuse glioma with a growth pattern consisting of exceptionally extensive infiltration of the cns with involvement of at least three lobes. it may appear de novo (primary gliomatosis) or result from the spreading of a focal glioma (secondary gliomatosis). bevacizumab is a monoclonal antibody anti-vegf active against recurrent high grade gliomas after standard therapy. we report the case of a 41-year-old man with a secondary gliomatosis treated with bevacizumab and temozolomide who responded and the response lasted 17 months. moreover, we focus on the side effects (hypertension, deep vein thrombosis) induced by bevacizumab and their effective treatments. keywords: bevacizumab; gliomatosis; rare brain tumors; hypertension; deep vein thrombosis bevacizumab and temozolomide in secondary gliomatosis from gemistocytic astrocytoma: a case report cmi 2012; 6(2): 43-50 1 unità operativa di neurooncologia, dipartimento di neuroscienze, azienda ospedaliero-universitaria san giovanni battista di torino elisa trevisan 1, michela magistrello 1, roberta rudà 1, riccardo soffietti 1 un caso di gliomatosi secondaria da astrocitoma gemistocitico responsivo al trattamento combinato con bevacizumab e temozolomide 44 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) un caso di gliomatosi secondaria da astrocitoma gemistocitico za di una lesione frontale destra dotata di effetto massa, assumente mdc in modo intenso e disomogeneo e circondata da edema perilesionale. il paziente veniva sottoposto a exeresi macroscopicamente radicale di tale lesione. l’esame istologico deponeva per un astrocitoma gemistocitico (grado ii, secondo who 2007 [1]). il paziente veniva sottoposto a trattamento radioterapico conformazionale (59,4 gy in 33 frazioni) con discreta tolleranza clinica (intensa astenia durante il trattamento). veniva impostata una terapia anticomiziale con acido valproico 500 mg × 3 senza recidive di eventi critici. in considerazione del buon controllo di malattia (assenza di residui di malattia alla rm eseguita dopo l’intervento e dopo il trattamento radioterapico) e dell’assenza di sintomi neurologici, si decideva di proseguire con uno stretto follow-up clinico e radiologico (controlli di rm encefalo con mdc e visita neuro-oncologica ogni 3 mesi). nel 2004, alla luce del buon andamento clinico e dell’assenza di crisi dall’esordio di malattia, si decideva di iniziare una graduale riduzione di acido valproico fino a una completa sospensione. a una rm eseguita a ottobre 2005, durante il periodico follow-up, si osservava la comparsa di un’area di alterato segnale a livello cerebellare sinistro senza evidenza di assunzioni patologiche di mdc, indicativa di una modesta ripresa di malattia a distanza. si proponeva un trattamento chemioterapico che il paziente rifiutava. ai successivi controlli si osservava un progressivo incremento dell’area di alterato segnale nella fossa cranica posteriore con estensione di tale area a livello peritrigonale e paraippocampale omolateralmente (senza evidenza di aree assumenti mdc) configurando un quadro radiologico di gliomatosi secondaria. il paziente continuava a rifiutare l’inizio di un trattamento chemioterapico fino al dicembre 2008, quando compariva una nuova crisi generalizzata. per tale motivo il paziente eseguiva una rm che documentava un’ulteriore progressione di malattia con comparsa di aree assumenti mdc nel contesto del quadro di gliomatosi secondaria. all’esame obiettivo neurologico si osservava la comparsa di un modesto impaccio motorio all’arto superiore destro (slivellamento al mingazzini i, lieve dismetria alla prova indice-naso e impaccio nei movimenti fini delle dita della mano). si dava indicazione a riprendere una terapia anticomiziale (oxcarbazepina 600 mg × 2) e a iniziare un molecolare). la panirradiazione encefalica è stata il trattamento standard nel passato, con percentuali di risposta fino al 50-60% dei pazienti, mentre più recentemente la chemioterapia con agenti alchilanti (temozolomide, pcv, regime – quest’ultimo – costituito da procarbazina, ccnu e vincristina) è stata impiegata sempre più spesso come trattamento iniziale al fine di ritardare la panirradiazione e il conseguente rischio di danni cognitivi in pazienti potenzialmente lungosopravviventi [2,3]. negli ultimi anni è stato crescente l’interesse circa l’utilizzo dei farmaci antiangiogenetici in generale e in particolare di bevacizumab, un anticorpo monoclonale umanizzato anti-vegf (vascular endothelial growth factor) nei gliomi di alto grado recidivi [4-6]. l’impiego di bevacizumab nelle gliomatosi in progressione è limitato dal fatto che studi preclinici hanno segnalato che bevacizumab favorisce il comportamento invasivo dei tumori gliali, attraverso il fenomeno della “cooptazione” vascolare, e quindi una progressione di tipo gliomatosi secondaria [7-9]. la frequenza di progressioni con pattern infiltrativo dopo trattamento antiangiogenetico è stata riportata intorno al 20-30%. in realtà in lavori più recenti questo fenomeno è stato ridimensionato. in particolare in un lavoro di un gruppo tedesco viene riportato che il rischio di progressione a distanza o di progressione gliomatosis-like nei pazienti trattati con bevacizumab non è differente rispetto a pazienti trattati con altri farmaci non antiangiogenetici [10]. tenuto conto della particolare efficacia di bevacizumab in neoplasie gliali in progressione caratterizzate dalla presenza di importante edema perilesionale e di danno della barriera ematoencefalica (assunzione di mdc), sfruttando l’effetto steroid-like dell’antiangiogenetico, abbiamo iniziato a utilizzare tale farmaco anche in casi selezionati di gliomatosi in progressione dopo le terapie standard (radioterapia, almeno una linea di chemioterapia con alchilanti). caso clinico descriviamo il caso di un uomo di 41 anni con diagnosi di astrocitoma gemistocitico frontale destro nel giugno 2001, in seguito alla comparsa di una crisi comiziale generalizzata. per tale motivo eseguiva una rm encefalo con mdc che evidenziava la presen45 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) e. trevisan, m. magistrello, r. rudà, r. soffietti tossicità ematologica (leucopenia, linfopenia, piastrinopenia) e intolleranza clinica (nausea, astenia importante), per cui sospendeva il trattamento con temozolomide, mantenendo solo bevacizumab somministrato ogni 2 settimane, per un totale di 10 mesi (fino ad aprile 2010) con risposta completa sulle immagini t1 con mdc e riduzione della aree in flair (figura 2). durante il trattamento con bevacizumab si osservava un progressivo incremento dei valori pressori con comparsa di cefalea ingravescente. inizialmente il paziente veniva trattato con valsartan 80 mg/die, con progressivi incrementi della posologia fino a 160 mg × 2/die, poi passava a un’associazione di valsartan 160 mg/idroclorotiazide 25 mg × 2/ die, senza ottimale controllo dei valori pressori e dell’associata cefalea, per cui, alla luce dello scarso controllo pressorio e della buona risposta radiologica, in assenza di sintomi, trattamento con temozolomide a dose intensificata (schedula 1 week on-1 week off: 150 mg/m2/die a settimane alterne) [11,12]. dopo 6 cicli di trattamento (cioè 6 mesi) il paziente presentava una sola stabilizzazione del quadro radiologico e la comparsa di una severa linfopenia che controindicava la prosecuzione del trattamento con schedula intensificata. pertanto, alla luce della giovane età, dell’estensione radiologica di malattia (a livello sovra e sotto-tentoriale) con estese aree assumenti mdc (figura 1), della persistenza di crisi comiziali parziali all’arto superiore destro e del deficit brachiale destro si decideva di passare alla schedula standard con dose ridotta (per la persistente linfopenia) di temozolomide (150 mg/m2/ die per 5 giorni ogni 28), e di inserire un trattamento antiangiogenetico con bevacizumab (10 mg/kg ogni 2 settimane). il paziente completava 4 cicli di temozolomide standard, con persistenza di modesta figura 1. immagini di rm encefalo prima di iniziare il trattamento con bevacizumab. nella prima riga sono riportate le immagini trasverse t1 pesate con mdc. nella seconda riga sono riportate le immagini trasverse flair-t2 pesate domande che il medico deve porsi o deve porre al paziente in trattamento con antiangiogenetici y è un paziente a rischio di eventi trombotici (familiarità, malattia oncologica, deficit motori, portatore di catetere venoso centrale, sovrappeso, precedenti eventi trombotici in anamnesi)? y vi sono segni/sintomi indicativi di eventi trombotici? y è ben controllata la pressione arteriosa (anche in un paziente precedentemente normoteso)? y vi sono segni/sintomi suggestivi di un sanguinamento (snc: cefalea improvvisa mai avvertita prima, peggioramento clinico improvviso, epistassi, sanguinamento emorroidario)? n.b. è essenziale programmare eventuali interventi chirurgici, anche banali come l ’estrazione di un dente, il posizionamento di un catetere venoso centrale sottocutaneo come il port, in accordo con l ’oncologo, per definire le tempistiche in relazione alle somministrazioni di bevacizumab 46 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) un caso di gliomatosi secondaria da astrocitoma gemistocitico di emosiderina), un microsanguinamento intralesionale verosimilmente correlato al trattamento anticoagulante. dopo la sospensione di bevacizumab la pressione arteriosa è progressivamente rientrata con la possibilità di ridurre gradualmente la terapia (ora assume valsartan 40 mg/die). i periodici controlli di ecodoppler venoso (ogni 4-6 mesi) dimostrano la persistenza di grossolani residui trombotici a livello della poplitea destra, per cui su consiglio dei consulenti ematologi il paziente prosegue un trattamento con nadroparina calcica a dosi scoagulanti. discussione la gc secondaria è una possibile modalità di progressione di un glioma inizialmente focale. il trattamento non è di facile gestione, poiché, trattandosi di un glioma diffuso, difficilmente vi è ancora spazio per un reintervento, la radioterapia generalmente è già stata praticata e alcune linee di chemioterapia possono essere già state impiegate. in casi selezionati, con quadri di malattia particolarmente aggressivi e in particolare con evidenza alla rm di focolai di malattia con caratteristiche di alta malignità (focolai necrotici, assumenti mdc, edema), è ipotizzabile l’impiego di bevacizumab da solo o in associazione a un chemioterapico per meglio controllare la malattia. nel caso specifico l’utilizzo di un farmaco antiangiogenetico ha permesso un buon controllo della malattia, che si è mantenuto si decideva di sospendere temporaneamente bevacizumab. nelle settimane successive alla sospensione di bevacizumab (3-4 settimane dopo l’ultima somministrazione) comparivano dolore e gonfiore all’arto inferiore destro, in associazione a un rialzo del d-dimero, per cui il paziente veniva sottoposto a un ecodoppler venoso degli arti inferiori con riscontro di una trombosi venosa profonda (tvp) coinvolgente le vene della gamba e della coscia con apice non flottante nella femorale superficiale alla confluenza con la profonda. si impostava quindi un trattamento anticoagulante con nadroparina calcica 15200 ui axa/0,8 ml 1 fl sc/die. alla luce dei due effetti collaterali presentati dal paziente (ipertensione arteriosa difficilmente controllabile con la terapia farmacologica e tvp), si decideva di non riprendere il trattamento con bevacizumab, ma di proseguire con solo follow-up clinico e radiologico. da aprile 2010 il paziente esegue periodici controlli, che ad oggi non hanno evidenziato segni di recidiva di malattia. clinicamente è stabile: non ha più presentato crisi da dicembre 2008 (assume regolarmente oxcarbazepina 600 mg × 2), lamenta la persistenza di episodi di cefalea con caratteristiche tensive che rispondono al trattamento con paracetamolo al bisogno. la rm encefalo con mdc rimane stabile, senza assunzioni patologiche di mdc. alla rm eseguita a settembre 2011 si osservava, come reperto di occasionale riscontro, la comparsa di una piccola lesione emorragica nel contesto del residuo di malattia, con caratteristiche croniche (depositi figura 2. immagini di rm encefalo dopo il trattamento con bevacizumab. nella prima riga sono riportate le immagini trasverse t1 pesate con mdc (scomparsa delle aree assumenti mdc). nella seconda riga sono riportate le immagini trasverse flair-t2 pesate (netta riduzione delle aree di alterato segnale) 47 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) e. trevisan, m. magistrello, r. rudà, r. soffietti anche dopo la sospensione del trattamento, senza evidente progressione di tipo infiltrativo, come ipotizzato dai primi lavori pubblicati sull’impiego di bevacizumab nei gliomi di alto grado. innanzitutto è importante sottolineare che attualmente bevacizumab è registrato negli usa e in svizzera come trattamento delle recidive dei gliomi di alto grado, mentre in italia il suo impiego nei tumori cerebrali è off-label. bevacizumab è un farmaco potenzialmente dotato di numerosi effetti collaterali, per cui i pazienti in trattamento devono essere attentamente monitorati. effetti collaterali frequenza dei controlli gestione ipertensione arteriosa controlli pressori quotidiani al domicilio (diario pressorio) e poi prima e dopo ogni somministrazione di bev in caso di rialzo pressorio prima di iniziare l’infusione: riposo a letto e nuovo controllo dopo 20-30 min. se persistono valori pressori elevati rimandare l’infusione grado 1 diastolica > 20 mmhg o pao > 150/100 mmhg (pz asintomatico, precedentemente normoteso; episodio di durata < 24 ore) prosegue con le infusioni di bev. prosegue il monitoraggio con il diario pressorio al domicilio grado 2 diastolica > 20 mmhg o pao > 150/100 mmhg ricorrente o persistente > 24 ore e/o pz sintomatico inizio terapia antipertensiva (calcioantagonisti, diuretici, ace inibitori). riprende la terapia con bev quando pao < 150/100 mmhg grado 3 necessità di utilizzare più di un antipertensivo o una maggiore terapia rispetto a prima rimandare il trattamento con bev fino ad adeguato controllo della pao grado 4 crisi ipertensive o encefalopatia ipertensiva sospensione del trattamento con bev proteinuria monitoraggio: basale (pre-terapia), poi ogni 2-4 settimane di proteinuria e creatinina proteinuria gr 3 (> 3,5 g/24 ore): sospendere la terapia fino al miglioramento della proteinuria a un gr ≤ 2. proteinuria gr 4 (sindrome nefrosica): stop bev difficoltà di cicatrizzazione delle ferite valutazione clinica della corretta guarigione della ferita chirurgica programmare eventuali interventi chirurgici dopo almeno 3 settimane dall’ultima infusione di bev per la piccola chirurgia (posizionamento di port, estrazioni dentali), dopo 4-6 settimane per interventi chirurgici maggiori. non riprendere bev prima di una corretta guarigione delle ferite chirurgiche (almeno 4 settimane dopo reintervento neurochirurgico) eventi trombotici valutazione clinica (presenza di edemi, dolore agli arti, turbe del respiro) profilassi uso di calze elastiche antitrombo. uso di eparina a basso peso molecolare a dose profilattica nei pazienti ad alto rischio trattamento in caso di sospetto clinico o laboratoristico di tvp effettuare un ecodoppler. se evidente tv: sospendere bev e iniziare terapia con eparina a basso peso molecolare a dosi scoagulanti eventi emorragici valutazione clinica e colloquio con il pz prima di ogni somministrazione in caso di sanguinamenti minori (gr < 2): provare a ridurre la frequenza delle somministrazioni di bev (ogni 3 settimane anziché ogni 2). in caso di emorragie del snc o polmonari di gr > 2 o di emorragie di qualunque tipo di gr > 3: stop bev tabella i. principali effetti collaterali da bevacizumab nel paziente neurooncologico: monitoraggio e gestione bev = bevacizumab; gr = grado; pao = pressione arteriosa omerale; tvp = trombosi venosa profonda uno degli effetti collaterali più frequenti conseguente all’utilizzo degli inibitori del vegf è l’ipertensione arteriosa. il rischio di ipertensione è dose-correlato. non è ancora chiaro il meccanismo patogenetico responsabile di questo effetto collaterale. al momento le ipotesi più accreditate sono tre: 1. riduzione di fattori vasodilatanti (ossido nitrico, prostacicline, endotelina-1), per un blocco diretto o indiretto del vegfr, con conseguente aumento delle resistenze periferiche; 2. danno glomerulare; 48 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) un caso di gliomatosi secondaria da astrocitoma gemistocitico rischio di sviluppare una patologia coronarica è consigliabile l’utilizzo dei calcioantagonisti [22]. un altro potenziale importante effetto collaterale nei pazienti in trattamento antiangiogenetico è l’evento trombotico. è noto che i pazienti oncologici in generale e i pazienti con neoplasia cerebrale in particolare sono ad alto rischio di sviluppare eventi trombotici [23-25]. di fondamentale importanza è la profilassi nei pazienti considerati a maggior rischio (periodo perioperatorio, deficit di mobilizzazione/emiparesi, concomitante trattamento con steroidi ad alte dosi, terapia antiangiogenetica). nel paziente con tumore cerebrale c’è sempre stato ed è tuttora presente il timore di favorire i sanguinamenti a livello encefalico, per cui sia i trattamenti a dosaggio profilattico sia i trattamenti a dose scoagulante sono spesso omessi o utilizzati a dosi non efficaci, e ancor di più se in concomitanza con un trattamento antiangiogenetico. è infatti noto che la terapia antiangiogenetica può favorire gli eventi trombotici, ma può anche favorire eventi emorragici, talora anche fatali [26]. in generale, nei pazienti neuro-oncologici che sviluppano un evento trombotico è consigliabile l’utilizzo di eparina a basso peso molecolare a dosi scoagulanti, che risulta più facilmente maneggiabile e che presenta un minor rischio di sanguinamento rispetto al trattamento anticoagulante orale. non vi sono ancora dati di sicurezza circa l’impiego di anticoagulanti orali a bassi dosaggi. nei pazienti neuro-oncologici ad alto rischio di sanguinamento che sviluppano una trombosi venosa profonda agli arti inferiori, soprattutto quando questa è prossimale ed estesa, è consigliabile il posizionamento di un filtro cavale. un altro effetto collaterale da non sottovalutare sono i difetti di cicatrizzazione conseguenti al blocco dell’angiogenesi [27]. pertanto, in questi pazienti anche piccoli interventi, come l’estrazione di un dente o l’asportazione di un nevo, devono essere attentamente programmati, in modo che l’angiogenesi indispensabile per la corretta guarigione delle ferite non sia ostacolata da una recente somministrazione del farmaco, e prima di riprendere il trattamento occorre valutare che la ferita sia ben rimarginata. la proteinuria di grado lieve è relativamente frequente e tende a comparire dopo alcuni mesi di trattamento, ma difficilmente diventa grave, tale da compromettere la 3. riduzione del numero di vasi sanguigni (fenomeno della rarefazione vascolare). in teoria, se la comparsa dell’ipertensione è conseguente a un’efficace inibizione della via vegf-vegfr, i pazienti che sviluppano ipertensione in corso di trattamento con bevacizumab dovrebbero essere anche quelli che beneficiano maggiormente della terapia. numerosi studi hanno effettivamente dimostrato come lo sviluppo di ipertensione possa essere un indice di risposta al trattamento, del tempo alla progressione e di sopravvivenza in pazienti con neoplasia del polmone (nsclc), della mammella, del colon, del pancreas e del rene [13-17]. vi sono alcune iniziali segnalazioni (dati non ancora pubblicati) che confermerebbero il valore predittivo di risposta dell’ipertensione anche nei tumori cerebrali (asco, padova aino) [18,19]. ad oggi non esistono linee guida che indichino quale sia il farmaco antipertensivo più adatto per il trattamento dell’ipertensione secondaria alla terapia antiangiogenetica, ma le evidenze cliniche dimostrano che l’importante è controllare l’ipertensione, indipendentemente dal farmaco utilizzato [20]. l’ideale sarebbe mantenere un valore pressorio < 140/90 mm/hg (< 130/80 mmhg nei pazienti con altre comorbilità quali diabete mellito, proteinuria, coronaropatia, cardiomiopatia, patologia renale cronica). in relazione al grado di ipertensione vi sono specifiche indicazioni sul monitoraggio pressorio e sulla prosecuzione o sospensione del trattamento con bevacizumab (tabella i). un recente lavoro propone un algoritmo di trattamento [21] in relazione alla gravità dell’ipertensione e alla presenza o meno di comorbilità. in linea generale rimangono valide le indicazioni della joint national committee ( jnc7) sull’utilizzo di un basso dosaggio di un diuretico tiazidico in associazione a un altro antipertensivo (ace-inibitori, bloccanti dei recettori dell’angiotensina, beta-bloccanti, calcioantagonisti) nei pazienti privi di comorbilità. nel caso di una controindicazione all’utilizzo del diuretico o di una sua scarsa efficacia è consigliabile iniziare un trattamento con ace-inibitori o con i calcioantagonisti diidropiridinici. nei pazienti con proteinuria, diabete mellito e/o patologia renale cronica è preferibile utilizzare gli ace-inibitori o in alternativa inibitori del recettore dell’angiotensina; nei pazienti con coronaropatia è preferibile utilizzare i beta-bloccanti o i diuretici tiazidici; nei pazienti con diagnosi di diabete e alto 49 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) e. trevisan, m. magistrello, r. rudà, r. soffietti disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. funzionalità renale e quindi da determinare la sospensione del trattamento [28,29]. sicuramente la funzionalità renale e la proteinuria sono esami da monitorare in corso di trattamento con bevacizumab. bibliografia 1. luois dn, ohgaki h, wiestler od, et al (a cura di). who classification of tumours of the central nervous system 2007 2. soffietti r, rudà r, alabiso o, et al. tumori del sistema nervoso centrale: linee di indirizzo sui profili diagnostico-terapeutici. linee guida della regione piemonte e valle d’aosta; dicembre 2008. disponibile all’indirizzo http://www.reteoncologica.it/images/stories/linee%20guida%20 e%20protocollo/linee_guida_regionali_2008.pdf (ultimo accesso aprile 2012) 3. sanson m, cartalat-carel s, taillibert s, et al; anocef group. initial chemotherapy in gliomatosis cerebri. neurology 2004; 63: 270-5 4. vredenburgh jj, desjardins a, herndon je 2nd, et al. phase ii trial of bevacizumab and irinotecan in recurrent malignant glioma. clin cancer res 2007; 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bevacizumab e temozolomide elisa trevisan 1, michela magistrello 1, roberta rudà 1, riccardo soffietti 1 l’importanza della comunicazione della diagnosi nella sclerosi multipla elena tsantes 1, caterina senesi 1, erica curti 1, franco granella 1 evoluzione della vaccinazione antimeningococco gianni bona 1, carla guidi 1 riabilitazione cognitiva in pazienti neuro-oncologici: tre casi clinici chiara zucchella 1, andrea pace 2, francesco pierelli 1,3, michelangelo bartolo 1 clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 69 mario eandi 1 la prescrizione e l’uso dei farmaci “equivalenti” introduzione vengono descritti tre casi clinici emblematici che serviranno come pretesto per analizzare criticamente i principali aspetti tecnico-scientifici e normativi del mercato italiano dei farmaci “equivalenti”, più comunemente detti “generici”, e soprattutto quale debba essere l’approccio corretto del medico nel prescriverli e nell’utilizzarli [1]. i casi clinici sono immaginari e vengono descritti in modo sintetico evidenziando quasi esclusivamente gli aspetti della storia clinica rilevanti ai fini della prescrizione e dell’uso dei prodotti generici. caso clinico 1 una donna ansiosa con reflusso esofageo donna di 55 anni, sposata con 2 figli, impiegata, sedentaria e in sovrappeso, lamenta da tempo bruciori di stomaco, frequenti rigurgiti acidi dopo i pasti, soprattutto se abbondanti, e talvolta sensazione di diffiabstract three case reports, where an “equivalent” drugs is prescribed, are described: a patient treated with lanzoprazole, a man with acute myocardial infarction and a young man with epilepsy. these reports are emblematic of the doubts and problems that doctors have to afford in the choice of a generic drug instead of a branded drug. the author examines not only clinical, legislative and economical aspects of prescription of generic drugs in the italian context, but also common questions that patients may ask when a generic drug is prescribed. keywords: generic drugs, therapeutic efficacy, drugs prescription prescription and use of “equivalent” drugs. cmi 2007; 1(2): 69-87 1 dipartimento di farmacologia clinica, università di torino coltà a deglutire cibi solidi come il risotto. inoltre saltuariamente soffre di faringodinia e di tosse notturna. il medico curante pone il sospetto diagnostico di esofagite da reflusso e richiede una visita gastroenterologica con eventuale endoscopia. eseguita una esofagogastroduodenoscopia (egds), viene diagnosticata una esofagite da reflusso di grado 2 (moderato) e viene indicato un trattamento con inibitore di pompa, nello specifico lansox (lansoprazolo) 30 mg/die [2-6]. il medico curante inizia il trattamento consigliato dallo specialista e fornisce alla paziente le indicazioni per una corretta alimentazione e per ridurre il comportamento sedentario. dopo circa 2 mesi, essendo nettamente migliorata la sintomatologia, decide di ridurre la dose di lansox da 30 a 15 mg/die con la previsione di attuare un trattamento prolungato. la paziente si dimostra molto disponibile a seguire tutte le indicazioni del medico, si presenta regolarmente ai controlli periodici, riesce a modificare la sua alimentazione, eliminando cibi e bevande che possono favorigestione clinica corresponding author prof. mario eandi mario.eandi@unito.it clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 70 la prescrizione e l’uso dei farmaci “equivalenti” re il reflusso, riesce persino a modificare in qualche misura il suo stile di vita sedentario, obbligandosi a camminare ogni giorno per almeno 15 minuti. i fastidiosi bruciori di stomaco e i rigurgiti sono praticamente scomparsi, la signora non ha più notato difficoltà a deglutire i suoi gustosi risotti, e per lungo tempo non ha più avuto mal di gola e tosse notturna. nell’ottobre 2006 si presenta in ambulatorio dal suo medico curante e riferisce, con un notevole stato d’ansia, che le sono ricomparsi i bruciori di stomaco e i rigurgiti e che durante la notte precedente aveva avuto un accesso di tosse notturna. il medico inizia a svolgere una piccola indagine per capire cosa potesse essere successo: le chiede se avesse cambiato abitudini alimentari, se si fosse lasciata andare a consumare cioccolato o caffè, se ogni giorno avesse assunto la sua dose di lansox. a questo punto la paziente riferisce che, dopo l’ultima prescrizione risalente al mese precedente, il farmacista non le aveva consegnato lansox ma un prodotto diverso denominato lansoprazolo xxx, dicendole che era equivalente a quello prescritto pur essendo meno costoso per il sistema sanitario nazionale (ssn) e che questo era il tipo di prodotto che d’ora in poi le poteva consegnare senza farle pagare una certa differenza di prezzo rispetto a lansox. la donna in un primo tempo si era fidata del farmacista e aveva accettato lo scambio, ma poi, una volta a casa, confrontandosi anche con il marito, aveva incominciato ad avere qualche dubbio, le erano venute alcune paure che il nuovo prodotto non facesse lo stesso effetto, si era anche pentita di non aver sborsato qualche euro di tasca sua per avere lansox cui si era affezionata. «a ben pensarci» riferisce la paziente al suo medico «qualche sera non ho preso la medicina». il medico le chiede se per caso ha con sé la medicina e la paziente prontamente tira fuori dalla borsa una confezione praticamente intatta di lanzoprazolo xxx (mancava solo una compressa). «le avevo prescritto due confezioni di lansox per coprire la cura di un mese, ma, a quanto vedo, lei in poco meno di un mese ne ha consumata una sola» osserva il medico con tono interrogativo. a quel punto la paziente deve ammettere che in effetti talvolta non si era ricordata di prenderlo e altre volte, pur ricordandosi, aveva finito per non assumere questo lanzoprazolo generico nel quale aveva poco fiducia. ora, però, che aveva ripreso ad avere bruciori di stomaco, rigurgito dopo i pasti e anche accessi di tosse notturna, si era spaventata, ricordandosi anche di quanto le aveva detto il medico sui rischi di degenerazione dell’esofagite in tumore dell’esofago. a questo punto il medico curante si rende conto che è opportuno fare qualche accertamento diagnostico per escludere una eventuale evoluzione dell’esofagite (una nuova egds, una phmetria esofagea per 24 ore o una manometria esofagea) e soprattutto che è necessario ripristinare un elevato livello di compliance della paziente nei confronti della terapia antireflusso, rassicurandola sui dubbi che le creano ansia nei confronti dei farmaci generici. per prima cosa il medico si scusa con la sua paziente per non averla avvertita, durante il precedente controllo, che erano stati immessi in commercio prodotti generici di lansoprazolo, equivalenti a quelli con marchio lansox, e che, in base alle attuali normative vigenti in italia, il ssn avrebbe rimborsato solo il prezzo del generico, mentre l’eventuale differenza di prezzo sarebbe stata a carico del paziente. il farmacista si era comportato in modo corretto secondo legge, aveva avvertito la cliente che non poteva consegnare gratuitamente il prodotto prescritto perché ora esisteva un analogo prodotto generico equivalente e che la consegna di lansox poteva essere fatta solo se la paziente accettava di pagare la differenza tra prezzo della specialità di marca e prezzo di riferimento del generico. il farmacista aveva anche rassicurato la cliente che i due prodotti erano equivalenti sia come efficacia sia come tollerabilità e che l’uso di lansoprazolo xxx consentiva di ottenere un sensibile risparmio sulla spesa farmaceutica a carico del ssn. in realtà il medico avrebbe potuto precisare in ricetta che non intendeva accettare il principio di sostituibilità tra lansox che aveva prescritto e lansoprazolo generico che il farmacista era tenuto a consegnare in assenza di una frase tipo “non sostituibile” accompagnata da una seconda firma. d’altra parte lansoprazolo generico era stato immesso in commercio da poco e sulla ricetta del lansox il medico si era già dovuto preoccupare di apporre la sigla “nota 48”. dopo aver esposto alla paziente tutte queste regole previste per la dispensazione e la rimborsabilità dei farmaci equivalenti, il medico la rassicura fornendole alcune spiegazioni tecniche elementari circa questa clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 71 m. eandi categoria di prodotti farmaceutici e nello specifico circa lansoprazolo generico. queste le informazioni che fornisce: «il brevetto che proteggeva il farmaco lansoprazolo è scaduto in italia nel 2006; in altri paesi il brevetto era già scaduto da qualche anno. il titolare del brevetto, in questo caso la ditta farmaceutica che produce il farmaco di marca lansox, terminato il periodo di protezione brevettuale stabilito per legge, non può più rivendicare l’esclusività dello sfruttamento dell’invenzione e altre aziende farmaceutiche possono produrre e commercializzare prodotti a base dello stesso principio attivo (in questo caso lansoprazolo) dopo aver ottenuto l’autorizzazione dalle competenti autorità regolatorie (in europa è l’emea e per l’italia è l’aifa). pertanto, a partire dal 24 febbraio 2006, data della scadenza del brevetto e del certificato protettivo complementare di lansoprazolo, diverse altre ditte farmaceutiche concorrenti, specializzate in prodotti generici, hanno iniziato a commercializzare in italia prodotti considerati equivalenti al lansox o agli altri due identici prodotti distribuiti in co-marketing sotto i marchi zoton e limpidex. i prodotti equivalenti, detti anche generici, sono praticamente riproduzioni o copie del prodotto originatore, sono costituiti dalla medesima composizione quali-quantitativa in principi attivi e da una equivalente forma farmaceutica, hanno superato il test di bioequivalenza realizzato per verificare sperimentalmente che possano produrre risultati terapeutici equivalenti quando somministrati ai pazienti, e pertanto possono rivendicare le stesse indicazioni terapeutiche del prodotto originatore [1]. nel suo caso, lansoprazolo xxx è stato ritenuto equivalente a lansox e pertanto inserito nelle liste di trasparenza predisposte dall’aifa per indicare la sostituibilità del prodotto di marca con il generico. lansoprazolo xxx che il farmacista le ha consegnato in sostituzione di lansox da me prescritto, contiene lo stesso principio attivo (lansoprazolo) e la stessa quantità di 15 o 30 mg per capsula. deve sapere che entrambi i prodotti, originatore e generico, devono essere conformi alle normative di farmacopea che prevedono che, nei controlli entro lotto e tra lotti diversi, siano stabiliti dei valori soglia dai quali il peso reale misurato della quantità di farmaco non si possa discostare. la materia prima lansoprazolo può essere acquistata sui mercati internazionali da diversi produttori i quali, per commercializzarla, devono aver prodotto e depositato un drug master file, un documento tecnico che descrive i processi produttivi di sintesi o estrazione e di purificazione, le caratteristiche chimico-fisiche e chimiche del principio attivo, i residui e le impurezze. il grado di purezza della materia prima non deve essere inferiore ai valori stabiliti dalle farmacopee per ciascun tipo di sostanza. la presenza del drug master file, oltre a essere obbligatoria, è anche soprattutto garanzia che la materia prima corrisponda ai requisiti di qualità prescritti e ai livelli di tossicità stabiliti dagli studi di tossicologia effettuati sul farmaco dalla ditta che lo ha sviluppato. lansoprazolo xxx, come tutti gli altri prodotti equivalenti a base di lansoprazolo, è preparato in forma di capsule rigide gastroresistenti che possono essere considerate analoghe alle capsule rigide di lansox. è importate che lansoprazolo per via orale venga assunto in capsule gastroresistenti da deglutire senza romperle in bocca. infatti, lansoprazolo è una molecola che viene degradata dall’acido cloridrico dello stomaco e perciò deve essere protetto dal succo gastrico, deve poter superare indenne lo stomaco e raggiungere l’intestino tenue dove viene assorbito. le capsule rigide gastroresistenti hanno appunto questa funzione: resistono, cioè non si sciolgono, a contatto dell’acidità dello stomaco e proteggono la molecola dall’essere inattivata prima che venga assorbita. lansox e gli identici prodotti zoton e limpidex sono disponibili anche in una diversa formulazione orale, le compresse orodispersibili, che non le ho mai prescritto perché costano un poco di più e svolgono la stessa funzione delle capsule rigide. si tratta di compresse costituite da tanti piccoli granuli rivestite da una membrana gastroresistente: le compresse devono essere sciolte in bocca o in un bicchiere prima di essere deglutite, e questa caratteristica può facilitarne l’assunzione da parte dei pazienti che hanno difficoltà a deglutire capsule intere; ma lei non ha questo problema. le compresse orodispersibili sono nella stessa lista di trasparenza accanto alle capsule rigide; quindi viene loro riconosciuta la sostituibilità con i prodotti equivalenti, sebbene non abbiano esattamente la stessa forma farmaceutica. ma questo criterio di considerare equivalenti forme orali a rilascio pronto, indipendentemente dal fatto che siano capsule compresse o granulati, oggi è comunemente accettato perché non clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 72 la prescrizione e l’uso dei farmaci “equivalenti” si ritiene possa modificare sensibilmente il risultato terapeutico. per quanto riguarda lansoprazolo, la sua efficacia terapeutica dipende principalmente dalla quantità di farmaco che riesce a raggiungere per via ematica le cellule della mucosa gastrica deputate a secernere acido cloridrico. questo farmaco agisce inibendo irreversibilmente una proteina di membrana (pompa protonica) che trasporta i protoni (h+) dalla cellula parietale alla cavità gastrica. lansoprazolo, via via che arriva a contatto con queste cellule, contrae un legame covalente con le proteine che funzionano da pompa protonica, inattivandole irreversibilmente. pertanto l’inibizione della secrezione acida che ne consegue permane a lungo, anche dopo l’eliminazione del farmaco dall’organismo, finché le cellule non provvedono a sintetizzare altre proteine pompa [2]. questo meccanismo spiega perché l’effetto del lansoprazolo e degli altri analoghi inibitori di pompa protonica (ppi) duri a lungo, molto più del tempo di permanenza del farmaco nell’organismo, ovvero perché sia sufficiente una sola dose al giorno per controllare l’ipersecrezione acida per tutte le 24 ore della giornata, quando tutto il farmaco viene eliminato dall’organismo in meno di 10 ore. deve sapere che, pur usando sempre la stessa dose dello stesso preparato, la quantità di lansoprazolo che raggiunge le cellule dello stomaco, e soprattutto la velocità secondo cui ciò avviene, può variare molto da una somministrazione all’altra, anche nello stesso paziente. ciò è dovuto a diversi fattori che possono incidere sulla velocità di assorbimento e di metabolismo del farmaco, come il tempo di svuotamento dello stomaco, l’ora di assunzione del farmaco o mille altre variabili che non possono esser poste sotto controllo. questo tipo di variabilità è abbastanza elevata per lansoprazolo, ma ciò ha una scarsa rilevanza pratica perché il risultato terapeutico finale è principalmente correlato al grado di inibizione della secrezione acida a sua volta dipendente dalla percentuale di pompe protoniche messe fuori uso dal farmaco. in altri termini, il meccanismo di inibizione irreversibile, tipico dei farmaci ppi, mentre produce un effetto antiacido stabile e prolungato, funziona anche da ammortizzatore delle variabilità dovute ad assorbimento e biodisponibilità del principio attivo. questo fatto è importante da considerare anche in relazione alle eventuali differenze esistenti tra le formulazioni dei prodotti equivalenti e quelle dei prodotti di marca. i prodotti generici non sono infatti identici, ma solo equivalenti a quelli di marca, con i quali possono essere scambiati. ciò significa che, in una popolazione di pazienti, la biodisponibilità di un prodotto generico, ossia la quantità di farmaco che raggiunge il bersaglio e la velocità con cui ciò avviene dopo somministrazione di una dose di generico, può essere mediamente superiore o inferiore a non più del 20% rispetto alla biodisponibilità del prodotto di marca preso come confronto. questo range di variabilità della biodisponibilità tra due prodotti, in base al quale viene stabilita la loro bioequivalenza, può sembrare troppo ampio, ma secondo gli esperti internazionali è ritenuto adeguato per garantire che vi sia mediamente anche una equivalente efficacia terapeutica e una equivalente sicurezza nell’impiego clinico. vorrei che avesse ben capito. quando in un gruppo di pazienti si usa lansoprazolo xxx invece di lansox, dobbiamo attenderci che vi sia mediamente un risultato terapeutico equivalente, anche se la quantità di farmaco che raggiunge la mucosa dello stomaco dopo l’assorbimento del prodotto generico può essere inferiore o superiore anche fino al 20% rispetto a quanto si può verificare con lansox. in altri termini, queste differenze tra le formulazioni sono ritenute ininfluenti sul risultato terapeutico come si può verificare mediamente su una popolazione di pazienti. ciò non esclude che singoli pazienti possano registrare qualche differenza nella risposta terapeutica ai due farmaci, quando il prodotto di marca che viene usato abitualmente sia sostituito con un generico. questo tipo di equivalenza individuale non è garantita dai normali test di bioequivalenza che vengono eseguiti sui generici. tuttavia, spesso alla base della differente risposta terapeutica vi sono fattori che nulla hanno a vedere con le differenze di formulazione tra due prodotti. nel caso specifico di lansoprazolo, poi, è molto improbabile che differenze di comportamento delle formulazioni entro il range consentito dalla bioequivalenza possa modificare il risultato terapeutico nel singolo paziente, risultato che dipende, come le ho spiegato, dalla quantità di pompe protoniche inibite. per garantire il risultato terapeutico è molto più importante la dose assunta giornalmente e la continuità della cura, soprattutto nel caso della sua malattia, l’esofagite, clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 73 m. eandi che dipende in gran parte dal reflusso di succo acido dallo stomaco. la devo rassicurare: può prendere tranquillamente lansoprazolo xxx, perché funziona come lansox. piuttosto non deve mai smettere di prenderlo ogni mattina, come le avevo prescritto. mi chiede perché, se sono equivalenti, non possa continuare a prendere lansox. le rispondo in modo semplice e spero convincente: perché risparmia lei e fa risparmiare il ssn italiano e quindi tutti noi cittadini che contribuiamo a finanziare il ssn. per convincerla le faccio vedere la tabella dove sono elencati tutti i prodotti a base di lanzoprazolo, sia quelli di marca che quelli generici (tabella i). come vede, i prodotti equivalenti non usano normalmente nomi di fantasia, ma sono identificati dalla denominazione comune internazionale (dci) del principio attivo (es. lansoprazolo) o, in mancanza di questa, dalla denominazione scientifica del medicinale, seguita dal nome del titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio (aic) (es. doc, eg, teva, ecc.). in italia, a partire dal 2001, il prezzo dei generici è considerato prezzo di riferimento per il rimborso da parte del ssn e il farmacista, a fronte di una ricetta che prescrive un prodotto di marca, qualora esista un generico, ha l’obbligo di avvisare il cliente e deve confezione denominazione ditta prezzo al pubblico 9/2/07 (€) prezzo riferimento al ssn 15/6/07 (€) differenza a carico del paziente (€) lansoprazolo 14 cpr orodispersibili 15 mg lansox takeda 7,04 4,61 2,43 14 cpr orodispersibili 15 mg limpidex sigma-tau 7,04 4,61 2,43 14 cpr orodispersibili 15 mg zoton wyeth lederle 7,03 4,61 2,42 14 cps rigide 15 mg lansox takeda 6,14 4,61 1,53 14 cps rigide 15 mg limpidex sigma-tau 6,14 4,61 1,53 14 cps rigide 15 mg zoton wyeth lederle 6,14 4,61 1,53 14 cps rigide gastroresistenti 15 mg lansoprazolo doc doc generici 4,61 14 cps rigide gastroresistenti 15 mg lansoprazolo eg eg 4,61 14 cps rigide gastroresistenti 15 mg lansoprazolo hexal hexal 4,61 14 cps rigide gastroresistenti 15 mg lansoprazolo merck merck generics 4,61 14 cps rigide gastroresistenti 15 mg lansoprazolo pliva pliva pharma 4,61 14 cps rigide gastroresistenti 15 mg lansoprazolo ratiopharm ratiopharm 4,61 14 cps rigide gastroresistenti 15 mg lansoprazolo sandoz sandoz 4,61 14 cps rigide gastroresistenti 15 mg lansoprazolo teva teva pharma 4,61 14 cpr orodispersibili 30 mg lansox takeda 12,04 8,54 3,50 14 cpr orodispersibili 30 mg limpidex sigma-tau 12,04 8,54 3,50 14 cpr orodispersibili 30 mg zoton wyeth lederle 12,03 8,54 3,49 14 cps rigide 30 mg lansox takeda 11,13 8,54 2,59 14 cps rigide 30 mg limpidex sigma-tau 11,13 8,54 2,59 14 cps rigide 30 mg zoton wyeth lederle 11,13 8,54 2,59 14 cps rigide gastroresistenti 30 mg lansoprazolo doc doc generici 8,54 14 cps rigide gastroresistenti 30 mg lansoprazolo eg eg 8,54 14 cps rigide gastroresistenti 30 mg lansoprazolo hexal hexal 8,54 14 cps rigide gastroresistenti 30 mg lansoprazolo merck merck generics 8,54 14 cps rigide gastroresistenti 30 mg lansoprazolo pliva pliva pharma 8,54 14 cps rigide gastroresistenti 30 mg lansoprazolo ratiopharm ratiopharm 8,54 14 cps rigide gastroresistenti 30 mg lansoprazolo sandoz sandoz 8,54 14 cps rigide gastroresistenti 30 mg lansoprazolo teva teva pharma 8,54 tabella i prodotti di marca e generici a base di lansoprazolo, prezzo al pubblico, prezzo di riferimento rimborsato dal ssn ed eventuale differenza a carico del paziente. alcune regioni hanno stabilito di non far pagare la differenza al paziente clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 74 la prescrizione e l’uso dei farmaci “equivalenti” procedere alla dispensazione del generico in sostituzione del prodotto di marca, se il paziente non accetta di pagare l’eventuale differenza e se il medico non ha specificato che non intende accettare la sostituzione della sua prescrizione con un equivalente generico. se lei insiste nel volere continuare con lansox, io posso scriverlo in ricetta, ma lei dovrà pagare al farmacista una piccola differenza per ogni confezione. non è una grande cifra, ma non vedo alcun motivo per cui non possa curarsi adeguatamente con lansoprazolo xxx. ora piuttosto le aumento la dose giornaliera e le prescrivo lansoprazolo xxx cps 30 mg. mi prometta però di prenderne una capsula ogni mattina per un mese, poi la voglio ricontrollare. fra un mese, se avrà ancora avuto disturbi, bruciori e tosse notturna, le prescriverò nuovamente lansox, ma vedrà che non ce ne sarà bisogno». caso clinico 2 un paziente con pregresso ima in trattamento con clopidogrel e simvastatina attore di 62 anni, obeso (bmi = 31) e sedentario, con familiarità per cardiopatia coronarica (padre deceduto per infarto all’età confezione denominazione ditta prezzo al ssn 9/2/07(€) prezzo riferimento di classe* 15/6/07 (€) differenza (€) omeprazolo 14 cps 10 mg rm antra astrazeneca 11,15 4,61 6,54 14 cps 10 mg rm losec astrazeneca ab 11,15 4,61 6,54 14 cps 10 mg rm mepral bracco 11,15 4,61 6,54 14 cps 10 mg rm omeprazen malesci 11,15 4,61 6,54 14 cps 20 mg rm antra astrazeneca 23,59 8,54 15,05 14 cps 20 mg rm losec astrazeneca ab 23,59 8,54 15,05 14 cps 20 mg rm mepral bracco 23,59 8,54 15,05 14 cps 20 mg rm omeprazen malesci 23,59 8,54 15,05 esomeprazolo 14 cpr gastroresistenti 20 mg axagon simesa 18,20 4,61 13,59 14 cpr gastroresistenti 20 mg esopral bracco 18,20 4,61 13,59 14 cpr gastroresistenti 20 mg lucen malesci 18,20 4,61 13,59 14 cpr gastroresistenti 20 mg nexium astrazeneca 18,20 4,61 13,59 14 cpr gastroresistenti 40 mg axagon simesa 23,60 8,54 15,06 14 cpr gastroresistenti 40 mg esopral bracco 23,60 8,54 15,06 14 cpr gastroresistenti 40 mg lucen malesci 23,60 8,54 15,06 14 cpr gastroresistenti 40 mg nexium astrazeneca 23,60 8,54 15,06 pantoprazolo 14 cpr gastroresistenti 20 mg pantecta abbott 10,41 4,61 5,80 14 cpr gastroresistenti 20 mg pantopan almirall 10,41 4,61 5,80 14 cpr gastroresistenti 20 mg pantorc altana pharma 10,41 4,61 5,80 14 cpr gastroresistenti 20 mg peptazol recordati 10,41 4,61 5,80 14 cpr gastroresistenti 40 mg pantecta abbott 21,08 8,54 12,54 14 cpr gastroresistenti 40 mg pantopan almirall 21,08 8,54 12,54 14 cpr gastroresistenti 40 mg pantorc altana pharma 21,08 8,54 12,54 14 cpr gastroresistenti 40 mg peptazol recordati 21,08 8,54 12,54 rabeprazolo 14 cpr gastroresistenti 10 mg pariet janssen cilag 9,90 4,61 5,29 14 cpr gastroresistenti 20 mg pariet janssen cilag 18,20 8,54 9,66 tabella ii inibitori di pompa protonica (ppi) disponibili in italia come prodotti di marca, esclusi quelli a base di lansoprazolo (aprile 2007) * il ssn rimborserà il prezzo di riferimento di lanzoprazolo, assunto come valore per l’intera classe dei ppi, fatta eccezione per i pazienti che risultino documentatamene intolleranti o non-responders a lansoprazolo clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 75 m. eandi di 48 anni), iperteso (pa = 150/90 mmhg), presenta un quadro dislipidemico caratterizzato da colesterolo totale = 280 mg/dl, cldl = 165 mg/dl e c-hdl = 32 mg/dl. mediante le carte del progetto cuore viene stimato il suo rischio cardiovascolare a 10 anni che risulta essere > 20% (www.cuore. iss.it/). pertanto il paziente, adeguatamente informato che, oltre alla necessità di modificare dieta e stile di vita, vi sono le indicazioni per una profilassi primaria con statine, viene avviato al trattamento con sinvacor (simvastatina) e, dopo 6 mesi di trattamento a dosi individualizzate, raggiunge il target previsto dalle linee guida atpiii con una dose di mantenimento di 20 mg/die [7-20]. il paziente diminuisce di peso, ma rimane ancora in sovrappeso (bmi = 28), modifica parzialmente le abitudini alimentari e riesce a mantenere i livelli di colesterolo entro i target programmati. dopo circa due anni di terapia, nel gennaio 2007 viene colto da crisi anginosa, ricoverato d’urgenza, sottoposto a cateterismo cardiaco con impianto di due stent coronarici medicati. viene posto in terapia antiaggregante con plavix (clopidogrel) e cardioaspirina (asa). i controlli del quadro lipidico fatti in quell’occasione confermano una sostanziale stabilità e il cardiologo decide di continuare la terapia con sinvacor 20 mg/die [21,22]. il decorso è regolare e senza complicazioni e il paziente può riprendere rapidamente la sua attività. all’inizio di aprile 2007 effettua una visita di controllo che evidenzia un andamento clinico regolare e il mantenimento dei parametri lipidici entro i valori target. pertanto il cardiologo consiglia di continuare la terapia con plavix, cardioaspirina e sinvacor alle dosi di mantenimento. il paziente si presenta quindi al suo medico curante per farsi prescrivere le medicine e questi, nel predisporre l’attuazione del piano terapeutico consigliato dal cardiologo, si pone il problema della prescrizione della statina. infatti, dal 1 aprile 2007 la copertura brevettuale di simvastatina è scaduta anche in italia e diversi prodotti generici sono stati resi disponibili nella rete distributiva. pertanto, in italia a partire dal 1 aprile 2007 i prodotti a base di simvastatina sono dispensati dal farmacista e rimborsati dal ssn secondo le regole stabilite per i farmaci generici; in particolare, il prezzo di simvastatina generica, inferiore di circa il 40% rispetto al prodotto di marca, diventa il prezzo di riferimento per la rimborsabilità e l’eventuale decisione di non accettare la sostituzione di sinvacor con una simvastatina generica potrebbe richiedere il pagamento della differenza di prezzo da parte del paziente. in realtà, il prezzo di sinvacor è stato prontamente allineato a quello del generico e il rischio per il paziente di pagare la differenza di prezzo in questo caso è subito svanito. lo specialista cardiologo non si era posto il problema specifico dell’ingresso sul mercato delle simvastatine generiche, ma semplicemente aveva concluso che il paziente dovesse continuare la terapia precedente. il medico curante, avendo presente le specifiche responsabilità nei confronti del ssn ed essendo stato tempestivamente informato della immissione in commercio di prodotti generici di simvastatina, si è invece posto alcuni problemi aggiuntivi: devo informare il paziente che dal 1 aprile 2007 anche in italia sono commercializzati alcuni prodotti equivalenti di simvastatina: pertanto il farmacista dovrà proporre al paziente la sostituzione di sinvacor con una simvastatina xxx generica. poiché vi sono diverse simvastatine generiche in commercio e altre ancora ne verranno immesse, potrà accadere che il farmacista di volta in volta sostituirà la prescrizione di sinvacor con un diverso generico. questa probabilità aumenterà notevolmente se il paziente si rifornirà da farmacisti diversi e in diverse regioni dell’italia. questa evenienza non è improbabile poiché il paziente è un attore che per lavoro passa lunghi periodi in diverse città sparse per l’italia, dove recita con la sua compagnia teatrale; devo rassicurare il paziente che la sostituzione di sinvacor prescritto con uno dei prodotti equivalenti di simvastatina oggi disponibili non avrà alcuna conseguenza negativa per la sua salute. infatti, tutti i prodotti generici di simvastatina sono stati testati verso il prodotto di riferimento sinvacor e sono risultati bioequivalenti. pertanto si deve ritenere che mediamente la popolazione dei pazienti affetti da ipercolesterolemia debba attendersi un risultato equivalente in termini sia di efficacia che di tollerabilità. d’altra parte la quantità di simvastatina presente in ogni compressa è esattamente uguale nei prodotti di marca e in quelli equivalenti, salvo la tolleranza consentita secondo farmacopea da lotto a lotto. le eventuali diffe1. 2. clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 76 la prescrizione e l’uso dei farmaci “equivalenti” denominazione ditta prezzo al ssn 9/2/07 (€) prezzo riferimento ssn 15/6/07 (€) risparmio per il ssn e pazienti (€) confezione: 10 cpr 20 mg rivestite con film liponorm istituto gentili 12,63 5,48 7,15 medipo mediolanum farmaceutici 12,63 5,48 7,15 sinvacor merck sharp & dohme 12,63 5,48 7,15 sivastin sigma-tau 12,63 5,48 7,15 zocor neopharmed 12,63 5,48 7,15 simvastatina doc doc generici 5,48 5,48 simvastatina eg eg 5,48 5,48 simvastatina merck merck generics 5,48 5,48 simvastatina ranbaxy ranbaxy 5,48 5,48 simvastatina teva teva pharma 5,48 5,48 confezione: 10 cpr 40 mg rivestite con film liponorm istituto gentili 18,07 7,83 10,24 medipo mediolanum farmaceutici 18,07 7,83 10,24 sinvacor merck sharp & dohme 18,07 7,83 10,24 sivastin sigma-tau 18,07 7,83 10,24 zocor neopharmed 18,07 7,83 10,24 simvastatina doc doc generici 7,83 7,83 simvastatina eg eg 7,83 7,83 simvastatina merck merck generics 7,83 7,83 simvastatina ranbaxy ranbaxy 7,83 7,83 simvastatina teva teva pharma 7,83 7,83 confezione: 28 cpr 20 mg rivestite con film liponorm istituto gentili 32,55 14,14 18,41 medipo mediolanum farmaceutici 32,55 14,14 18,41 sinvacor merck sharp & dohme 32,55 14,14 18,41 sivastin sigma-tau 32,55 14,14 18,41 zocor neopharmed 32,55 14,14 18,41 simvastatina doc doc generici 14,14 14,14 simvastatina eg eg 14,14 14,14 simvastatina merck merck generics 14,14 14,14 simvastatina ranbaxy ranbaxy 14,14 14,14 simvastatina teva teva pharma 14,14 14,14 confezione: 28 cpr 40 mg rivestite con film liponorm istituto gentili 46,03 19,97 26,06 medipo mediolanum farmaceutici 46,03 19,97 26,06 sinvacor merck sharp & dohme 46,03 19,97 26,06 sivastin sigma-tau 46,03 19,97 26,06 zocor neopharmed 46,03 19,97 26,06 simvastatina doc doc generici 19,97 19,97 simvastatina eg eg 19,97 19,97 simvastatina merck merck generics 19,97 19,97 simvastatina ranbaxy ranbaxy 19,97 19,97 simvastatina teva teva pharma 19,97 19,97 tabella iii prodotti di marca ed equivalenti generici a base di simvastatina, disponibili in italia dal 1 aprile 2007, loro prezzo di riferimento per il rimborso da parte del ssn, prezzo dei prodotti di marca prima dell ’ingresso dei generici e risparmio per confezione a beneficio del ssn e di eventuali pazienti che usano simvastatina fuori dai criteri della nota aifa n. 13 clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 77 m. eandi renze tra formulazioni del generico e di sinvacor, sebbene possano determinare differenze sensibili nella biodisponibilità del principio attivo, non devono tuttavia preoccupare perché possono influire sul risultato terapeutico molto meno di altre variabili che condizionano i livelli di colesterolo e la prevenzione del rischio cardiovascolare, come il tipo di alimentazione e lo stile di vita. simvastatina riduce i livelli di colesterolo inibendo selettivamente un enzima chiave per la sintesi endogena di colesterolo. l’effetto terapeutico e soprattutto la riduzione del rischio cardiovascolare sono correlati in modo complesso con questa inibizione enzimatica [7-11]. la riduzione del colesterolo e la riduzione del rischio cardiovascolare dipendono soprattutto dalla dose giornaliera di simvastatina, che va individualizzata, e dalla continuità della somministrazione: dimenticarsi di prendere la dose giornaliera o fare solo cicli di alcune settimane riduce moltissimo la possibilità di controllare adeguatamente i livelli di colesterolo (ottenere cioè il target previsto dalle attuali linee guida) e di ridurre il rischio cardiovascolare; perciò rappresenta un inaccettabile spreco di risorse sanitarie; devo accertarmi che il paziente abbia compreso bene e che sia convinto che la sostituzione non avrà conseguenze negative. per tranquillizzare ulteriormente il paziente gli confermo ancora che, nel caso le argomentazioni tecniche non l’abbiano convinto e continui ad avere fiducia solo nel farmaco di marca che 3. prende da oltre due anni, potrò indicare in ricetta che non accetto la sostituzione di sinvacor con un generico. d’altra parte, il prezzo di sinvacor è stato immediatamente allineato a quello dei generici, con un abbattimento del 45% sul prezzo originario, a tutto vantaggio del ssn e di quei pazienti che devono pagare il farmaco di tasca propria perché non rientrano nei parametri della nota 13; devo esser pronto a giustificare l’obbligo della sostituzione, in assenza di una mia precisa disposizione contraria, dal momento che il prezzo di sinvacor è stato allineato a quello del generico e quindi non c’è nessun vantaggio per il ssn nel rimborsare l’uno o l’altro. in realtà, rifletto, se non vi fossero i generici, il prezzo di sinvacor sarebbe rimasto invariato e il ssn non avrebbe avuto l’opportunità di risparmiare il 45%. in italia, l’impatto dei generici è soprattutto dovuto al fatto che i prodotti di marca “genericati” sono costretti ad abbattere i loro prezzi per conservare alte quote di mercato. questo però riduce il mercato dei veri generici che non riescono a fronteggiare facilmente la concorrenza dei prodotti di marca. incentivare l’uso dei generici, dove possibile, significa aiutare questo settore industriale a sopravvivere e a resistere ai molteplici attacchi della concorrenza dei prodotti “genericati”; significa, quindi, rendere possibile significativi risparmi sulla spesa farmaceutica pubblica e privata e con tali risparmi finanziare i farmaci innovativi; 4. tabella iv range di riduzione del livello di c-ldl e relativo costo giornaliero di terapia con le diverse statine disponibili in italia (aprile 2007) * molecole utilizzabili fino a un dosaggio di 80 mg/die; per ogni raddoppio della dose è stimato una ulteriore diminuzione del livello cldl del 6% # molecola utilizzabile fino al dosaggio di 40 mg/die; per ogni raddoppio della dose è stimato una ulteriore diminuzione del livello cldl del 6% ++ prezzo riferito a due compresse/die da 20 mg principio attivo dose/die (mg) riduzione % c-ldl costo giornaliero al ssn (€) simvastatina* 20 38,3 pre-generico: 1,16 post-generico: 0,65 40 43,3 pre-generico: 1,64 post-generico: 0,92 lovastatina* 20 29 0,80 40 37 1,60++ fluvastatina 40 27 0,86 80 33 1,06 pravastatina* 20 26,1 1,19 40 32,3 2,31 atorvastatina* 10 39,8 0,98 20 42,5 1,54 40 48,5 1,54 rosuvastatina# 5 38 0,88 10 44,8 1,01 clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 78 la prescrizione e l’uso dei farmaci “equivalenti” a proposito di farmaci innovativi nel campo delle dislipidemie, non posso evitare di prendere in considerazione proposte alternative a simvastatina e di verificare se sia logico nel caso specifico di questo paziente [21,22]. infatti, simvastatina è stata la prima statina introdotta in terapia in italia, ormai molti anni or sono. in seguito sono state introdotte altre statine, alcune più potenti, che hanno conquistato alte quote di mercato. infine, da poco più di due anni è stato introdotto exetimibe, un farmaco che inibisce selettivamente l’assorbimento intestinale di colesterolo, in associazione fissa con simvastatina. vi sono motivi plausibili per cui dovrei modificare la terapia del mio paziente e sostituire simvastatina con una diversa statina oppure con l’associazione exetimibe/simvastatina? un rapido esame mi convince che non vi sono motivi. infatti, non c’è indicazione a passare ad altra statina perché il mio paziente è a target con 20 mg di simvastatina, ha sempre tollerato bene questa molecola senza manifestare alcuna reazione avversa e non c’è indicazione per passare all’associazione con l’exetimibe, anche perché riesce a controllare adeguatamente l’apporto di colesterolo esogeno mediante la dieta. altre statine o l’associazione con exetimibe comporterebbero un costo aggiuntivo ingiustificato. il paziente è una persona intelligente, sensibile e recettiva, e dopo un lungo colloquio con il suo medico curante si dimostra convinto che simvastatina generica va benissimo nel suo caso e che dovunque si troverà in italia o all’estero non avrà problemi dalla sostituzione di sinvacor con una simvastatina equivalente. caso clinico 3 un paziente con epilessia parziale (nuovo trattamento con gabapentin) giovane di 22 anni, sesso maschile, soffre dall’età di 13 anni di epilessia parziale caratterizzata da crisi di intensa emicrania dx, accompagnata da brevi periodi di vertigine (20-30 sec) e quindi da percezione di lampi di luce e persistenza dell’immagine (circa 1 minuto), cecità (circa 2-3 minuti) nonché cefalea persistente per un giorno. prima dell’inizio del trattamento antiepilettico tale sintomatologia si presentava 5. mediamente ogni 10-15 giorni ed era stata curata con farmaci antiemicranici. dopo due anni dall’esordio delle manifestazioni di emicrania compare una prima tipica crisi tonico-clonica durata circa 30-40 secondi, caratterizzata da deviazione del capo verso sinistra, irrigidimento e scosse agli arti superiore e inferiore sinistri, pallore, sudorazione profusa, bava alla bocca e respiro stertoroso, seguiti da vertigine, cefalea, vomito e disturbi del visus. il paziente viene ricoverato in neurologia, dove, in base alle indagini cliniche e strumentali, viene posta diagnosi di epilessia parziale. il paziente viene quindi avviato a una terapia con tegretol (carbamazepina) e gardenale (fenobarbital) che, dopo ripetuti aggiustamenti, viene fissata alle dosi di mantenimento rispettivamente di 1.400 mg/die e di 150 mg/die. dopo l’inizio della terapia sono state registrate altre tre crisi epilettiche e rari episodi di emicrania con disturbi visivi e vertigini. il paziente, che da circa due anni non presentava manifestazioni cliniche riferibili all’epilessia parziale, viene colto improvvisamente da una nuova crisi emicranica intensa e improvvisa, perdita del visus e alcune scosse agli arti di sinistra. ricoverato per un controllo neurologico, verificato che i livelli ematici di carbamazepina e di fenobarbital erano nel range terapeutico, il neurologo decide di integrare la terapia farmacologica con l’aggiunta di neurontin, una specialità medicinale a base di gabapentin [23-37]. questa decisione avviene pochi mesi dopo l’introduzione in commercio del primo prodotto generico di gabapentin. il neurologo è stato informato dalla farmacia del suo ospedale che per motivi economici la commissione del prontuario terapeutico ospedaliero (pto) aveva deciso di inserire gabapentin teva in sostituzione di neurontin, ma questa decisione l’aveva lasciato perplesso e dubbioso perché aveva alcuni pregiudizi sui farmaci generici e nello specifico temeva che l’uso di gabapentin generico potesse generare risultati terapeutici non altrettanto buoni come quelli che aveva potuto apprezzare con neurontin nei suoi pazienti affetti da epilessia parziale. per cercare di comprendere il motivo della scelta della commissione del pto il neurologo chiede un colloquio con il direttore della farmacia ospedaliera. al termine del colloquio, durante il quale sono stati esaminati tutti gli aspetti critici riferibili clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 79 m. eandi tabella v prodotti generici a base di gabapentin disponibili in italia, loro prezzo di riferimento e risparmio rispetto al prodotto di marca a vantaggio del ssn denominazione ditta prezzo al ssn 9/5/07 (€) prezzo riferimento per il ssn 15/6/07 (€) risparmio per il ssn (€) confezione: 50 cps rigide 100 mg neurontin pfizer 12,01 6,60 5,41 gabapentin abc abc farmaceutici 6,60 6,60 gabapentin allen allen 6,60 6,60 gabapentin doc doc generici 6,60 6,60 gabapentin eg eg 6,60 6,60 gabapentin fidia fidia farmaceutici 6,60 6,60 gabapentin hexal hexal 6,60 6,60 gabapentin merck merck generics 6,60 6,60 gabapentin pliva pliva pharma 6,60 6,60 gabapentin ratiopharm ratiopharm 6,60 6,60 gabapentin sandoz sandoz 6,60 6,60 gabapentin teva teva pharma 6,60 6,60 gabapentin winthrop winthrop pharmaceuticals 6,60 6,60 gabapentin molteni molteni e c. 6,60 6,60 confezione: 50 cps rigide 300 mg neurontin pfizer 37,98 20,88 17,10 gabapentin abc abc farmaceutici 20,88 20,88 gabapentin allen allen 20,88 20,88 gabapentin doc doc generici 20,88 20,88 gabapentin eg eg 20,88 20,88 gabapentin fidia fidia farmaceutici 20,88 20,88 gabapentin hexal hexal 20,88 20,88 gabapentin merck merck generics 20,88 20,88 gabapentin pliva pliva pharma 20,88 20,88 gabapentin ratiopharm ratiopharm 20,88 20,88 gabapentin sandoz sandoz 20,88 20,88 gabapentin teva teva pharma 20,88 20,88 gabapentin winthrop winthrop pharmaceuticals 20,88 20,88 gabapentin molteni molteni e c. 20,88 20,88 confezione: 30 cps rigide 400 mg neurontin pfizer 25,14 13,82 11,32 gabapentin abc abc farmaceutici 13,82 13,82 gabapentin allen allen 13,82 13,82 gabapentin doc doc generici 13,82 13,82 gabapentin eg eg 13,82 13,82 gabapentin fidia fidia farmaceutici 13,82 13,82 gabapentin hexal hexal 13,82 13,82 gabapentin merck merck generics 13,82 13,82 gabapentin pliva pliva pharma 13,82 13,82 gabapentin ratiopharm ratiopharm 13,82 13,82 gabapentin sandoz sandoz 13,82 13,82 gabapentin teva teva pharma 13,82 13,82 gabapentin winthrop winthrop pharmaceuticals 13,82 13,82 gabapentin molteni molteni e c. 13,82 13,82 clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 80 la prescrizione e l’uso dei farmaci “equivalenti” all’introduzione di gabapentin generico, il neurologo si dimostra pienamente soddisfatto e non ha più alcuna riserva a utilizzare gabapentin teva nel caso di questo paziente difficile. egli infatti ha compreso che: il prodotto generico gabapentin teva è una fedele riproduzione del prodotto di marca neurontin, sia per dosaggi disponibili sia per caratteristiche delle formulazioni orali; gabapentin generico è stato giudicato equivalente a neurontin in base a uno studio di bioequivalenza media, dal quale si può dedurre che l’efficacia clinica e la tollerabilità dei due prodotti non dovrebbe essere praticamente differente come risultato medio in una popolazione di pazienti; il test di bioequivalenza media non garantisce che i due prodotti, neurontin e generico, inducano un risultato terapeutico equivalente nello stesso paziente. questo fatto è motivo di preoccupazione quando si tratta di farmaci che appartengono ad alcune categorie terapeutiche, come gli antiepilettici o gli antiaritmici, e la loro zona di maneggevolezza è stretta. in letteratura vi sono segnalazioni di questo tipo [40-45]. è ragionevole porsi il problema se, in corso di trattamento antiepilettico, la sostituzione di neurontin con un equivalente prodotto generico possa comportare qualche problema pratico al paziente, come una variazione sensibile dei livelli plasmatici, la necessità di aggiustare le dosi e anche il rischio di crisi epilettiche; il problema, tuttavia, non si pone quando il prodotto generico viene usato fin dall’inizio. nel caso in esame, gabapentin teva verrebbe usato non in sostituzione di neurontin ma in aggiunta ad altri due antiepilettici, tegretol e gardenale, che sono risultati non più sufficienti a prevenire le crisi epilettiche. la dose di gabapentin deve comunque essere ottimizzata per questo paziente, indipendentemente dall’usare il neurontin o il gabapentin teva; prescrivere gabapentin teva consente di far risparmiare al ssn una somma significativa, corrispondente al 45% del prezzo di neurontin. recentemente è stato introdotto sul mercato pregabalin con il marchio lyrica e il neurologo, sollecitato dalla visita dell’informatore scientifico della ditta produttrice, è 1. 2. 3. 4. 5. tentato di sostituire gabapentin con pregabalin nei suoi pazienti affetti da epilessia parziale e anche nei pazienti affetti da dolore neuropatico [46-57]. la commissione del pto ha inserito pregabalin nella lista dei farmaci disponibili, ma il neurologo desidera approfondire l’argomento e ricerca informazioni autorevoli e indipendenti, prima di assumere qualsiasi decisione. inoltre ha preso coscienza del fatto che il ssn, mentre rimborsa sempre sia gabapentin che pregabalin quando prescritti come antiepilettici, ne limita invece il rimborso ai casi di nevralgia post-herpetica e di neuropatia diabetica, quando prescritti come analgesici, secondo quanto prescritto dalla nota aifa n. 4. discussione la normativa sui cosiddetti farmaci “generici”, oggi indicati anche col termine di “equivalenti”, è stata introdotta in italia da pochi anni. il primo riferimento normativo esplicito risale, infatti, alla legge finanziaria del ’96 (n. 549 del 28/12/1995) e alla successiva legge n. 425 del 8 agosto 1996, con le quali venivano definite le caratteristiche tecniche di questa categoria di prodotti farmaceutici, venivano indicati i criteri di formazione del loro prezzo con la prescrizione di uno sconto minimo del 20% rispetto al prodotto di marca, e veniva introdotto timidamente il criterio della sostituibilità da parte del farmacista. la legge finanziaria ’98 (n. 449 del 27/12/1997) riconfermava la riduzione di almeno il 20% rispetto al prezzo della corrispondente specialità medicinale, come condizione per ottenere la rimborsabilità del generico, e inoltre imponeva una progressiva riduzione del prezzo (20% in 4 anni) per le specialità medicinali a base di principi attivi per i quali sia scaduta la tutela brevettuale, autorizzate anteriormente alla data di entrata in vigore della legge. il mercato dei generici, tuttavia, si è sviluppato progressivamente solo a partire dal 2001, in seguito all’introduzione delle norme previste dalla legge finanziaria 2001 (n. 388 del 23/12/2000) e dalla successiva legge 405 del 16 novembre 2001 che stabilivano che, quando vi fosse un generico, il ssn avrebbe dovuto rimborsare solo il prezzo di riferimento del farmaco più basso tra quelli dei generici disponibili, e obbligava il farmacista a sostituire il prodotto di marca prescritto con un prodotto generico clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 81 m. eandi salvo nei casi di dichiarata insostituibilità sulla ricetta medica e/o di disponibilità del paziente a pagare la differenza di prezzo con il prodotto di marca. nei primi 9 mesi del 2006 il mercato dei farmaci fuori brevetto, ossia della somma degli equivalenti e dei prodotti di marca “genericati”, ha raggiunto la quota del 25% circa in termini di ddd e del 13,1% in termini di spesa farmaceutica, con un incremento dell’8,5% rispetto al 2005 (rapporto osmed gennaio-settembre 2006). questo risultato è dovuto prevalentemente allo scadere del brevetto di importanti molecole, i cui prodotti di marca hanno per lo più allineato il prezzo a quello dei generici per mantenere le alte quote di mercato che detenevano. questa dinamica dei prezzi al ribasso, tuttavia, limita lo sviluppo del settore industriale dei genericisti puri e finisce per favorire la grande industria farmaceutica. in ogni caso, l’introduzione dei generici ha comportato un grande beneficio economico per il ssn e anche per il paziente, nei casi in cui deve pagarsi il farmaco. infatti, la scelta del generico realizza su vasta scala il criterio farmacoeconomico previsto dalla tecnica “minimizzazione dei costi” e consente di realizzare significativi risparmi a parità di risultati: con i risparmi conseguiti in questi anni il ssn ha potuto finanziare, almeno in parte, l’introduzione di farmaci innovativi [1]. l’introduzione dei generici, tuttavia, non è stata senza conseguenze sulla professione medica a causa, soprattutto, della sfiducia diffusa tra i pazienti, e spesso anche tra gli operatori sanitari, nei confronti di questa categoria di prodotti farmaceutici e della mancanza di una adeguata informazione e formazione tecnica su questo argomento. in questo lavoro abbiamo esemplificato alcuni dei problemi che un medico di medicina generale o un medico specialista può trovarsi a dover affrontare quando prescrive un farmaco del quale esistono prodotti equivalenti in commercio. abbiamo scelto tre casi clinici emblematici sia per la storia del paziente sia per le caratteristiche del farmaco da usare. la disponibilità del generico pone al medico problemi nuovi di natura deontologica, etica e sociale: egli, nel prendersi cura del paziente, è sollecitato a privilegiare, quando possibile, la prescrizione e l’uso dei farmaci generici; ma decidere di usare un generico comporta di valutarne i rapporti rischio-beneficio e costo-beneficio e di soddisfare contemporaneamente il criterio di beneficialità per il paziente e quello di equità sociale verso tutti gli altri pazienti che appartengono alla stessa comunità. la descrizione dei tre casi clinici è servita per illustrare come un medico dovrebbe affrontare il problema dei farmaci generici e soprattutto cosa dovrebbe sapere e cosa dovrebbe fare. la prescrizione consapevole e tecnicamente corretta di un generico richiede che il medico abbia completa conoscenza non solo delle norme vigenti ma anche di alcune problematiche tecnico-scientifiche nel campo della biofarmaceutica e della farmacologia clinica. secondo le norme vigenti ogni medico, compresi gli ospedalieri e gli specialisti, è tenuto a prescrivere il generico in tutti i casi in cui questa scelta non comporti un minor beneficio o un maggior rischio per il proprio paziente. attualmente non sono previste sanzioni per il medico che non rispetti questa norma, ma ripetutamente sono state avanzate proposte per rendere obbligatoria la scelta del prodotto generico, sottraendo al medico la sua specifica facoltà di prescrivere liberamente i farmaci. oggi il medico ha ancora la facoltà di impedire che il farmacista sostituisca la prescrizione di un prodotto di marca con un generico, ma deve esprimere questa volontà scrivendo sulla ricetta “insostituibile” con la controfirma. il medico, nel prescrivere un generico, può indicare non solo il nome del farmaco (esempio lansoprazolo cpr 30 mg) ma anche il nome della ditta (es. teva) che detiene l’aic. se il medico, nella sua prescrizione, omette di specificare il titolare dell’aic, il farmacista può dispensare qualsiasi altro generico corrispondente per composizione a quanto prescritto dal medico o richiesto dal paziente. indicare il nome della ditta è importante per la continuità terapeutica con lo stesso prodotto generico. purtroppo, il sistema distributivo italiano (grossisti e farmacie) e i relativi interessi economici non sempre riescono a garantire la continuità terapeutica con lo stesso generico. infatti, spesso alcuni generici di specifiche ditte risultano transitoriamente o territorialmente non disponibili nella catena distributiva e il farmacista dispensa il prodotto che ha nello scaffale o quello che ha acquistato con il maggior sconto. 1. 2. clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 82 la prescrizione e l’uso dei farmaci “equivalenti” i prodotti generici vengono autorizzati dall’agenzia nazionale (aifa) o europea (emea) con procedure abbreviate. infatti per i prodotti generici non sono richieste ulteriori ricerche di tossicologia e di farmacologia preclinica, essendo il prodotto costituito da un principio attivo già definito sotto il profilo farmaco-tossicologico dal detentore del brevetto. il dossier registrativo di un generico contiene invece la documentazione completa inerente lo sviluppo galenico e in particolare le caratteristiche delle materie prime utilizzate come principi attivi e come eccipienti con i relativi drug master files, il processo di produzione, le prove di stabilità e di riproducibilità tra lotti, nonché i test di dissoluzione in vitro per le forme solide orali. per quanto riguarda la documentazione clinica, nessuna prova è richiesta se il prodotto è per uso endovenoso o è sotto forma di una soluzione per uso orale. praticamente in tutti gli altri casi, salvo alcune eccezioni che non possiamo discutere in questa sede, ogni prodotto generico viene sottoposto a un test di bioequivalenza che ha lo scopo di dimostrare che il prodotto generico induce una esposizione sistemica (auc, cmax e tmax) mediamente non inferiore o non superiore del 20% rispetto alla esposizione indotta dal prodotto originatore [1,58]. si noti che questa differenza in più o in meno del 20% non riguarda la dose di principio attivo presente in ogni unità farmaceutica, ma riguarda i parametri con i quali si valuta la biodisponibilità o esposizione sistemica del prodotto in funzione della via di somministrazione. nel caso di alcune tipologie di prodotto (es. patch transcutaneo, compresse colon-delivery per uso topico, colliri, ecc.) può essere necessario ricorrere a confronti clinici diretti, non potendo il test di bioequivalenza fornire l’informazione necessaria per definire l’equivalenza terapeutica tra generico e suo originatore. lo sviluppo complessivo di un dossier registrativo di un prodotto generico richiede tempi e risorse economiche decisamente inferiori rispetto allo sviluppo di un nuovo farmaco. per questo motivo il prodotto generico può e deve avere un prezzo inferiore al prodotto originatore. d’altra parte il prodotto di marca, quando finisce la protezione brevettuale, ha abbondantemente ammortizzato i costi per lo svi3. luppo e realizzato notevoli utili; pertanto la ditta può allineare il prezzo a quello dei generici, neutralizzando in gran parte la concorrenza. le materie prime utilizzate nella formulazione dei generici sono reperibili sul mercato internazionale presso diversi produttori a prezzi sensibilmente differenti, possono avere caratteristiche chimico-fisiche diverse (polimorfismo, granulometria, solubilità) e differenti profili quali-quantitativi dei residui e delle impurezze, ma tutte devono corrispondere a un drug master file depositato e tutte devono rispettare i requisiti minimi previsti dalla farmacopea ufficiale. la farmacopea stabilisce dei limiti stringenti relativi alla variabilità della quantità di principio attivo misurato, sia rispetto al valore nominale dichiarato, sia da lotto a lotto. il test di bioequivalenza, e in genere tutto lo sviluppo di un generico, viene effettuato in confronto con il prodotto originatore che deteneva il brevetto. nessun confronto diretto è richiesto tra i differenti generici di uno stesso originatore, sicché non vi è alcuna garanzia che due o più generici di uno stesso prodotto di marca siano tra loro equivalenti [1]. nonostante ciò la sostituzione tra generici avviene regolarmente, aumentando notevolmente la confusione e il disagio tra i pazienti. il test di bioequivalenza media, in base al quale si valuta in modo surrogato l’equivalenza terapeutica del generico e del prodotto originatore, così come i test di equivalenza terapeutica diretta, per la loro intrinseca struttura tecnica, non possono garantire che il prodotto generico produca effetti terapeutici equivalenti in ogni singolo paziente. per raggiungere questo tipo di conoscenza occorrerebbe realizzare test di bioequivalenza individuale, più indaginosi e costosi, non richiesti dalle attuali normative internazionali [59,60]. questo limite del test di bioequivalenza non ha né può avere alcuna rilevanza pratica quando il generico viene utilizzato come terapia a se stante di breve durata e anche quando viene usato fin dall’inizio in terapie croniche. al contrario può avere qualche impatto negativo quando il generico venga introdotto come sostituzione di un equiva4. 5. 6. 7. clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 83 m. eandi lente prodotto di marca o di un analogo generico, specialmente nel caso in cui il principio attivo presenti una ristretta zona di maneggevolezza e l’uso riguardi indicazioni terapeutiche problematiche come l’insufficienza cardiaca, l’epilessia, le aritmie, le psicosi, ecc. diverse segnalazioni sono state pubblicate in letteratura. per un esame sintetico si consiglia di leggere le rassegne di dighe [61], murphy [62] e meredith [63]. la conoscenza approfondita delle caratteristiche farmacocinetiche, farmacodinamiche e cliniche del farmaco che si intende utilizzare è indispensabile per comprendere gli eventuali problemi correlabili alla variabilità biofarmaceutica introdotta dai prodotti generici. analogamente la conoscenza del profilo di efficacia e di tollerabilità del farmaco è indispensabile per comprendere come scegliere e gestire il prodotto generico in funzione delle caratteristiche fisiopatologiche (età, sesso, patologie, fattori di rischio, ecc.) dei singoli pazienti. nella flow-chart conclusiva è stato riassunto il tema del “cosa fare quando prescrivo un farmaco” nell’ipotesi che di questo farmaco esista un prodotto generico: ci si deve chiedere se esiste un generico e, se non lo si sa, lo si può verificare sulle liste di trasparenza aggiornate periodicamente dall’aifa e disponibili in internet al sito www.agenziafarmaco.it; nel caso si intenda prescrivere un farmaco ancora coperto da brevetto ma appartenente a una classe farmacologica composta da altre molecole con un analogo profilo rischio-beneficio, come gli inibitori di pompa protonica (ppi) o le statine, può essere opportuno e conveniente verificare se tra questi vi siano molecole fuori brevetto e se vi siano generici disponibili. nel caso dei ppi e delle statine questa condizione si verifica, perché rispettivamente lansoprazolo e simvastatina sono disponibili anche come prodotti generici. pertanto, in molti casi il medico potrebbe optare per la prescrizione di lansoprazolo o di simvastatina al posto di uno dei farmaci di marca, ancora protetti dal brevetto e più costosi, elencati 8. 1. 2. rispettivamente nelle tabelle ii e iv. è preciso dovere del medico far risparmiare il ssn e il paziente, ove possibile; bisogna considerare se la prescrizione riguarda l’inizio di una nuova terapia oppure è la continuazione di una terapia già in atto. nel primo caso il prodotto generico non presenta problemi differenti dal prodotto di marca: infatti, anche nel caso si tratti di un farmaco difficile da utilizzare, le strategie da seguire, ad esempio nell’individualizzare la posologia, sono identiche e il farmaco generico offre le stesse garanzie di qualità di un farmaco di marca; nel caso la prescrizione riguardi la continuazione di una terapia bisogna considerare se l’eventuale sostituzione del prodotto di marca con il generico possa causare problemi nella gestione della salute del paziente, modificando anche solo temporaneamente il livello di efficacia o di tollerabilità o riducendo la compliance del paziente; nel caso in cui non vi siano controindicazioni all’uso di un generico, si deve informare il paziente che gli si prescrive un generico ovvero che, pur prescrivendogli un prodotto di marca, il farmacista potrà sostituirlo con un generico, a meno che non sia disponibile a pagare l’eventuale differenza di prezzo. nel contesto è necessario spiegare in modo semplice che cosa sia un prodotto generico e rassicurare il paziente del fatto che non potrà avere alcuna conseguenza negativa dall’uso di un generico; ci si deve accertare che il paziente abbia ben compreso, sia convinto e abbia fiducia nel farmaco generico, non dimostri alcun segno di ansia, non riduca la compliance e dia il suo consenso alla prescrizione del generico. solo al termine di questo percorso il medico ha tutti gli elementi essenziali e indispensabili per attuare una scelta razionale e ponderata tra il prescrivere un generico, un prodotto di marca senza alcuna indicazione oppure un prodotto di marca con l’indicazione “insostituibile”. 3. 4. 5. 6. clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 84 la prescrizione e l’uso dei farmaci “equivalenti” bibliografia 1. eandi m, della pepa c. i farmaci “generici” in italia: opportunità di ricerca e 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sino il farmaco ha una ristretta zona di maneggevolezza? no la sostituzione del prodotto di marca con un generico potrebbe modificare l’efficacia? no continuo la terapia la sostituzione del prodotto di marca con un generico potrebbe modificare la sicurezza? inizio la terapiano si si la sostituzione del prodotto di marca con un generico potrebbe modificare la compliance del paziente? no spiego cos’è un prodotto generico e le normative vigenti. il paziente accetta il generico? no si il paziente è disposto a pagare la differenza per avere il prodotto di marca? dichiaro sulla ricetta “insostituibile” si prescrivo il generico o il prodotto di marca senza altre disposizioni no si si si clinical management issues 2007; 1(2) ©seed tutti i diritti riservati 85 m. eandi 5. freston jw, jackson rl, huang b, ballard ed. lansoprazole for maintenance of remission of erosive oesophagitis. drugs 2002; 62: 1173-84 6. croom kf, scott lj. lansoprazole: in the treatment of gastro-oesophageal reflux disease 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serena pioli di marco 1, francesco guercini 1, chiara busti 1, olivia minelli 2 1 struttura complessa di medicina interna vascolare e stroke unit, azienda ospedaliera di perugia 2 servizio di immunoematologia e trasfusionale, azienda ospedaliera di perugia abstract an 84 year-old female was admitted to our department of vascular internal medicine after a sudden onset of weakness on her right side and aphasia along with signs of myocardial ischemia from electrocardiogram (ekg). clinical and blood exams led to a suspicion of moschcowitz syndrome, which was reinforced by the presence of numerous schistocytes on a peripheral blood smear. due to a rapid deterioration of vital signs as well as alertness, the patient underwent an emergency transfusion and plasmapheresis treatment as recommended by american society of apheresis (asfa) guidelines: one plasma volume was replaced with fresh frozen plasma (ffp) every 24 hours, for the first eight days, in order to reach at least a level of 150,000 platelets/mm3 over three consecutive days accompanied by a decrease in ldh until to 670 ui/l. after this therapy, the clinical picture significantly improved with a complete recovery of consciousness and the disappearance of neurological defects. examinations to determine the etiology made us hypothesize a secondary status of thrombotic thrombocytopenic purpura due to an autoimmune disorder compatible with sjogren’s syndrome. the patient was discharged and prescribed prednisone. currently the patient is in good clinical condition and continues the therapy with prednisone (5 mg/die). keywords: plasmapheresis; thrombotic thrombocytopenic purpura (ttp); emergency plasmaferesi di emergenza in un caso di porpora trombotica trombocitopenica (ttp) cmi 2013; 7(3): 85-89 caso clinico corresponding author dott. francesco guercini, fguercini@libero.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo why we describe this case to highlight the importance of treating suspected cases of ttp even before laboratory confirmation. in fact, various studies in literature3 have confirmed a reduction in 30-day mortality and a significant increase in platelet count after apheretic therapy in combination with corticosteroids and/or immunosuppressive drugs. moreover, mortality associated with thrombotic thrombocytopenic purpura is generally high, if it is not carried out with plasmapheresis. plasma exchange has decreased the overall mortality rate to 10% introduction thrombotic thrombocytopenic purpura (ttp) typically occurs with a pentad of signs: thrombocytopenia, anemia, neurological symptoms, fever and renal involvement. ttp is a rare disease, with an incidence of 5-10 cases per year per million. the incidence is 2-3 times higher in females, though it affects both males and females [1-3]. ttp occurs in two forms: a congenital form and an acquired form. the congenital form is due to mutations in the adamts13 gene (which is located on chromosome 9q34 and codes for the metalloprotease) and it is inherited as an autosomal recessive condition. usually, but not always, it occurs at birth or in childhood [4-6]. furthermore, there are two main types of acquired ttp: immune-mediated forms, due to autoantibodies against adamts13 [7-11], and those probably secondary to massive endothelial stimulation, with consequent release of ulvwf multimers in amounts exceeding the system’s ability to degrade them, despite the presence of normal or only slightly reduced levels of adamts13 [12]. both these pathogenic situations are usually triggered by concomitant factors which cause widespread endothelial activation. the most common physiological or pathological conditions present in the immune-mediated forms, which are often associated with very low or undetectable levels of adamts13 (less than 10% of the normal), are pregnancy, infections, autoimmune diseases, and the use of drugs such as ticlopidine and clopidogrel. in most cases ttp occurs as a single, sporadic acute episode, but there are chronic recurrent forms (2030% of the cases). the chronic recurrent forms may have a genetic basis or be associated with the formation of autoantibodies, whereas the forms associated with malignancy or transplantation present as acute episodes with a low propensity to recur (in part because of the high mortality rate) [13]. plasma exchange with plasma replacement has significantly improved clinical outcome. no other intervention has had such a significant impact on the efficacy of treatment [14]. case report an 84 year-old female was admitted to our department of vascular internal medicine after a sudden onset of weakness on right side of her body and aphasia. the patient reported a medical history including: an abdominal infrarenal aortic aneurysm that required the positioning of an endoprothesis many years before, a slight iron anemia and a chronic erythematous gastritis. over the past few months, the patient had presented an erythematous, edematous, crusted dermatitis at the level of her forearms and trunk, in the absence of pruritus, associated with worsening asthenia. one month prior to admission, she had a bout of diarrhea and fever that lasted for about a week and then regressed spontaneously. at er, a brain ct scan was performed to rule out for the presence of acute ischemic lesions and / or hemorrhagic lesions. an ekg evidenced a sinus tachycardia with signs of myocardial ischemia in the lateral leads. on admission to our department, the patient appeared agitated and disoriented. neurologic examination showed right sided hemineglect and hemiplegia. no relevant signs were detected on physical examination of the chest, abdomen and heart. erythematous papular patches, slightly hypopigmented in the middle, and pink at the edge, were detected on the skin, on both forearms. blood tests resulted: anemia with 9.2 g/dl hb, rbc 3340 x 103/mm3, erythrocyte indices within standard values, thrombocytopenia with 10,000/mm3 confirmed during the control blood sample, ldh 1619 ui/l (n.v.: up to 450 ui/l), total bilirubin 1.60 mg/dl with a value on indirect bilirubin 1.13 mg/dl, reticulocytes 33 ‰, haptoglobin 7 mg/dl (n.v.: 30-200 mg/dl), inr 1.11, a ptt-ratio 1.03, fibrinogen 351 mg/dl, bun 60 mg/dl, creatinine 0.80 mg/dl. during the first hours after admission, the patient developed fever along with an increase in the miocardiolysis index (troponin: 6.33 ng/ml), deterioration of vital signs (pa 90/60 mmhg, rr 30/min, oxygen saturation 88% in air) and alertness (glasgow coma scale 4). a further hb reduction reaching 7.8 g/dl, was also documented, as well as a reduction in platelet levels: 6000/mm3. clinical and laboratory findings suggested ttp (moschcowitz syndrome). furthermore, a coombs’test was performed (resulted negative) and a peripheral blood smear showed the presence of numerous schistocytes per field. for this reason, the patient underwent an emergency transfusion with packed red blood cells and plasmapheresis treatment with cobespectra. specifically, one plasma volume was replaced with fresh frozen plasma (ffp) having a balance of 100%, delivered by an arrow type central venous catheter. according to asfa guidelines [14 ], treatment was administered every 24 hours, for the first eight days, in order to reach at least a level of 150,000 platelets/ mm3 over three consecutive days, accompanied by a decrease in ldh until to 670 ui/l (table i). following this, the clinical picture improved with a recovery of consciousness and a complete disappearance of neurological defects. session hb (g/dl) plateletes (x103/ul) ldh (ui/l) 1 10.6 7 1984 2 10.2 16 1052 3 10.31 39 / 4 10.7 80 711 5 11.6 136 711 6 11.5 166 / 7 11.6 181 671 8 10.9 190 / table i. laboratory trend after plasma exchange (pex) after the therapy, the patient showed the presence of multiple positive predictive factors such as increase of platelet count, decrease in levels of ldh and a survival of nine days after the onset of the disease. this regimen was then performed every day for three weeks, achieving a constant platelet level of around 150,000/mm3, until discharge. during the sessions, adverse effects related to plasmapheresis such as allergic reactions to plasma, systemic infections, catheter obstruction or venous thrombosis were never reported [15]. furthermore, examinations were carried out to determine the etiology: activity assay of adamts13, carried out before plasmapheresis: <6% (range 50-150%); screening for infectious diseases, resulted negative: blood cultures, urine cultures, coprocultures, parassitolological examination of stools, search for antigen enterohaemorrhagic e. coli pathogenic vtec o.157, serology for hepatotropic viruses, toxoplasmosis, rubella, cmv, hsv, coxiella burnetii, adenovirus, mycoplasma; screenings for autoimmunities, resulted positive: ana 194.2 ui/ml (n.v. < 5ui/ml), anti-dna ab negative, confirmed in a further control, anti-ena positive with positivity anti-ssa/ro 52 ab 66.43 ui/l and anti ssa/ro 60 ab 12.28 ui/l (n.v. <7 ui/ml negative; 7-10 ui/ml borderline; >10 ui/ml positive). the patient refused to undergo a sore biopsy. given the above, we hypothesized a secondary status of ttp due to an autoimmune disorder compatible with sjogren’s syndrome. the patient was discharged and was prescribed prednisone at a dosage of 75 mg for the first two weeks, followed by 50 mg for another two weeks. after ten months of progressively decrease in therapy, currently the patient takes prednisone 5 mg/die. currently, the general clinical condition remains good, and she is able to walk alone with minimal support. the platelet level remains steady at around 144,000/mm3 with hb 11.4 g/dl. discussion the acquired form of ttp, secondary to autoimmune disease, accounts for approximately 50% of all cases of ttps, but in many cases their pathophysiology is still uncertain. as well, the recurrence rate of all ttps is above 35% with an excessively high mortality rate. today the only treatment that has proven to be effective in changing the prognosis of these patients is apheresis with plasma exchange. before the plasma exchange (pex) era, only 10% of patients survived [16]: initials report of pex from 1981 to 1991 already described an increase in the survival rates of up to 70-79% [17-19]. according to the proponents of the infusion of plasma, the benefit would be related to the administration of a deficient substance in patients with tpp. on the other side, the proponents of pex argue that the advantage of this therapeutic option consists not only in the administration of a deficient factor, but also in the elimination of toxic substances, which occurs during the procedure pex [19]. this treatment should be promptly taken into consideration also in the only suspect of ttp, even before laboratory confirmations. various studies in literature [20] have confirmed a reduction in 30-day mortality and a significant increase in platelet count after apheretic therapy in combination with corticosteroids and/or immunosuppressive drugs. corticosteroids in combination with plasmapheresis increase the complete remission rate and decrease the relapse rates. this latter result is due to the removal of the unusually large von willebrand factor (ulvwf) and anti adamts 13 antibodies, while steroids reduce antiadamts 13 antibodies production [21]. algorithm for management of ttp patients [15] broken lines represent complications that occur in a minority of patients pex = plasma exchange; cvc = central venous catheter * although rituximab may be appropriate for 3 different situations illustrated in this algorithm, authors have never used more than a single course of rituximab for any patient references 1. tsai hm. advances in the pathogenesis, diagnosis and treatment of thrombotic thrombocytopenic purpura. j am soc nephrol 2003; 14: 1072-81; 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existence date back to the 1980s, and relied upon computed tomography as the imaging method of choice. after the introduction of mri, a more appropriate characterization of these abnormalities was obtained along with the description of their most frequent features: (a) t2 signal hyperintensity in the white matter and, occasionally, (b) reduced apparent diffusion coefficient (adc) and increased signal in dwi sequences. the mri abnormalities induced by epileptic activity pose a broad differential diagnosis including infections, inflammatory autoimmune encephalopathies, neoplasms. it remains a diagnosis of exclusion and requires proper diagnostic iter in order to reduce the risk of misdiagnosis and unnecessary intervention. in this case report, a thorough presentation will be outlined about mri alterations in the left mesial temporal lobe, which resulted completely reversible after a proper antiepileptic therapy. keywords: epilepsy; mri; reversible abnormalities; seizures reversible mri abnormalities in mesial temporal lobe epilepsy: a case report cmi 2013; 7(3): 77-84 caso clinico corresponding author dott.ssa chiara pizzanelli c.pizzanelli@ao-pisa.toscana.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo perché descriviamo questo caso generalmente le indagini di neuroimmagine hanno un ruolo preponderante nel definire la diagnosi eziologica nel paziente con crisi epilettiche. classicamente, la causa dell’epilessia è chiarita dalla presenza di una lesione cerebrale strutturale evidenziata da tc cranio e/o rm encefalo. tuttavia, anomalie rm evidenziate in fase precoce dopo crisi epilettiche possono talora essere la conseguenza dell’epilessia e non la causa. descriviamo questo caso per ricordare al clinico questa seconda evenienza, certamente più rara della prima. da sottolineare inoltre come la diagnosi di anomalie funzionali conseguenti all’epilessia resti una diagnosi di esclusione, che si compie al termine di un iter diagnostico che abbia preso in considerazione le varie patologie neurologiche che possono mimare le alterazioni funzionali crisi-indotte descrizione del caso clinico una donna di 44 anni si è presentata alla nostra attenzione per la prima volta nel novembre 2010, lamentando l’insorgenza di episodi descritti come di “smarrimento” e “vuoto improvviso”, della durata di alcune decine di secondi dall’inizio dell’anno. tali episodi, inizialmente rari, si erano intensificati nel corso dei mesi successivi fino ad interferire significativamente con il funzionamento socio-lavorativo e interpersonale della paziente, inducendola a sottoporsi a visita. da un’accurata anamnesi non risultavano patologie degne di nota; la paziente era nata da gravidanza normodecorsa con parto eutocico e aveva presentato uno sviluppo psicomotorio regolare. aveva familiarità per convulsioni febbrili (una sorella), ma personalmente non aveva mai presentato crisi epilettiche. dalla testimonianza dei familiari, emergevano episodi critici caratterizzati da arresto psicomotorio, automatismi oro-buccali e gestuali e talora oculoversione destra, in assenza di chiari sintomi premonitori da parte della paziente ad eccezione di una vaga e incostante “sensazione di confusione”. tali episodi, iniziati nel febbraio 2010, con frequenza inizialmente rara, si erano poi accentuati nel corso dei mesi divenendo nelle ultime settimane pluriquotidiani. non vi erano state recenti modificazioni della personalità né dello stato cognitivo, non febbre né specifici segni o sintomi clinici indicativi di altre patologie. l’esame obiettivo generale aveva riscontrato esclusivamente la presenza di un angioma venoso cutaneo frontale sinistro. l’esame obiettivo neurologico risultava in ordine. gli esami ematici di routine non mostravano alterazioni significative, gli indici di flogosi erano nella norma. l’elettroencefalogramma (eeg) basale risultava privo di anomalie focali o parossistiche. nel sospetto che si trattasse di crisi epilettiche, la paziente è stata sottoposta ad ulteriori approfondimenti clinico-strumentali con monitoraggio eeg prolungato, eeg dinamico ambulatoriale e rm encefalo con magnete a 1.5 t. il monitoraggio eeg ha registrato un episodio critico parziale complesso, caratterizzato da perdita del contatto con l’ambiente, pallore, tachicardia, ammiccamenti palpebrali ripetuti, basculamento antero-posteriore del tronco e automatismi semplici di strofinamento delle mani sulle cosce e masticatori, con successivo rapido recupero della coscienza. nel contesto di artefatti muscolari e da movimento, il tracciato eeg ha mostrato un ritmo beta-alfa-teta reclutante sulle regioni fronto-temporali sinistre, con successiva diffusione rapida a tutto l’emisfero omolaterale e alle regioni anteriori controlaterali (figura 1). figura 1. monitoraggio eeg: registrazione di una crisi parziale complessa (il tracciato b è la prosecuzione del tracciato a, riportato sotto anziché di seguito per esigenze di spazio). da notare anche la traccia ecg, che conferma l’incremento della frequenza cardiaca durante e dopo la crisi un ulteriore episodio critico, con caratteristiche simili, è stato registrato mediante l’eeg dinamico ambulatoriale. l’esame rm encefalo ha mostrato, nelle immagini t2-flair, un’iperintensità di segnale a carico del complesso nucleare amigdala-testa del nucleo dell’ippocampo a sinistra. le strutture apparivano tumefatte, ma non erano presenti captazioni patologiche di contrasto. concomitavano invece modesti dismorfismi cerebrali congeniti, tra cui un ampliamento del trigono ventricolare sinistro, con aspetto bombato, e una posizione bassa delle amigdale cerebellari (chiari 0). la mappa del coefficiente adc non mostrava anomalie (figura 2). l’esame del liquido cefalo-rachidiano non mostrava alterazioni della cellularità, né delle proteine, né la presenza di sintesi intratecale di ig. le sierologie per sifilide, hiv-1 e hiv-2, hsv-1 e hsv-2, hhv-6, ebv, cmv e borrelia burgdorferi risultavano nella norma. le ricerche dei comuni marcatori tumorali, degli anticorpi onco-neurali (anti-hu, -yo, -ri, -ma2, -cv2, -anfifisina) e degli anticorpi anti-gad risultavano negative. figura 2. rm – 1.5t; (a) scansione t2 – flair coronale, (b) scansione t2 – flair assiale e (c) mappa del coefficiente apparente di diffusione (adc). nelle immagini in t2 – flair si evidenzia un aumento dell’intensità di segnale a carico del complesso nucleare amigdala-testa del nucleo dell’ippocampo a sinistra. tali strutture appaiono tumefatte, ma non presentano captazioni patologiche di contrasto. concomitano modesti dismorfismi cerebrali congeniti, tra cui un ampliamento del trigono ventricolare sinistro, con aspetto bombato, e una posizione bassa delle amigdale cerebellari (chiari 0). dalla mappa adc non appaiono invece anomalie è stata diagnosticata pertanto un’epilessia del lobo temporale e impostata una terapia antiepilettica con oxcarbazepina 900 mg/die a cui la paziente ha presentato un’ottima risposta con riduzione della frequenza degli episodi critici sino alla loro completa scomparsa. persistendo pieno controllo delle crisi, non ha effettuato successivamente un regolare follow up e si è presentata nuovamente alla nostra attenzione nel febbraio 2013, avendo sospeso autonomamente da circa due anni la terapia con oxcarbazepina. successivamente alla sospensione della terapia aveva presentato nuovamente brevi crisi parziali complesse, in media ogni 30-40 giorni. dato che un motivo di sospensione della oxcarbazepina era stata un’eccessiva sonnolenza, come nuova terapia è stato impostato levetiracetam 1500 mg/die e si è ottenuta ancora completa remissione delle crisi. è stato eseguito inoltre controllo rm con magnete a 3t, in cui non sono risultate documentabili chiare alterazioni di segnale a carico delle strutture temporo-mesiali, salvo una residua lieve asimmetria per sinistra < destra; persisteva inoltre l’assenza di anomalie della mappa adc (figura 3). figura 3. rm – 3t di follow-up. (a) scansione t2 – flair (processed images) coronale, (b) t2 – flair assiale (processed images) e (c) mappa adc. alla rm 3t di follow-up sono scomparse le alterazioni di segnale a carico delle strutture temporo-mesiali, salvo una residua lieve asimmetria. permane inoltre l’assenza di anomalie a carico della mappa adc domande che il medico dovrebbe porsi trovandosi di fronte a un caso simile di fronte al reperto di anomalie rm a livello temporo-mesiale dopo crisi epilettiche, le domande che il clinico dovrebbe porsi sono: le anomalie sono causa o conseguenza dell’epilessia? vi sono state modificazioni dello stato cognitivo del paziente? del suo comportamento? disturbi psichiatrici? qual è l’andamento dei sintomi? la loro modalità di presentazione? l’obiettività neurologica mostra segni focali? vi sono segni sistemici di infezione? infiammazione? vi è anamnesi o evidenza attuale di neoplasia? le risposte a queste domande sono quelle di effettivo supporto nell’indirizzare correttamente il sospetto clinico discussione il caso clinico descritto mostra la reversibilità di anomalie rm unilaterali temporo-mesiali in una paziente in cui è stato ottenuto un completo controllo di crisi epilettiche. al termine dell’iter diagnostico-terapeutico seguito, è possibile ritenere che tali anomalie fossero funzionalmente correlate alle crisi epilettiche in precedenza non diagnosticate e non adeguatamente trattate. sono state valutate altre ipotesi diagnostiche mediante appropriate indagini bioumorali e strumentali. in particolare, le principali diagnosi differenziali considerate sono state: a) encefaliti virali; b) encefaliti limbiche autoimmuni; c) tumori gliali; d) miscellanea. sul piano clinico, l’ipotesi di un’encefalite virale sembrava piuttosto improbabile, vista l’assenza di febbre, di alterazioni cognitive e/o psichiatriche, l’assenza di rallentamenti o anomalie eeg intercritiche. da sottolineare, inoltre, il lungo periodo di tempo intercorso tra l’inizio dei sintomi, le crisi – febbraio 2010 – e il momento in cui la paziente si è presentata all’osservazione medica – novembre 2010; è difficile pensare che un’encefalite virale si manifesti con sole crisi epilettiche temporali nell’arco di mesi, restando del tutto asintomatica per il resto. gli esami bioumorali, mostrando assenza di leucocitosi e negatività degli indici di flogosi, e la normalità dell’esame liquorale hanno supportato l’esclusione di questa ipotesi. ulteriore ipotesi diagnostica presa in esame è stata quella di un’encefalite limbica autoimmune, pur considerando che tale patologia si associa in genere ad un coinvolgimento bilaterale delle strutture temporo-mesiali, mentre nel nostro caso il coinvolgimento era unilaterale. anche clinicamente il quadro era scarsamente suggestivo di un’encefalite autoimmune, non essendo presenti alterazioni cognitivo-comportamentali né anomalie eeg. un altro aspetto da considerare è il fatto che le encefaliti limbiche autoimmuni hanno in genere un’origine paraneoplastica, essendo invece rare le forme non paraneoplastiche. in questa paziente, oltre alla negatività dell’esame liquorale, che di per sé non escluderebbe un’encefalite autoimmune, abbiamo riscontrato la negatività dei marker paraneoplastici e degli anticorpi onconeurali. la presenza di una neoplasia della serie gliale, ipotizzabile inizialmente sulla base dell’aspetto tumefatto e iperintenso in t2 delle regioni temporo-mesiali di sinistra, è stata esclusa dal follow-up che ha mostrato completa reversibilità delle anomalie rm. numerose altre patologie possono associarsi ad anomalie rm caratterizzate da incremento di segnale in t2 ed edema; esse comprendono ischemie arteriose in fase acuta, trombosi venose, vasculiti, malattia di creutzfeld-jacob, emicrania complicata, pres (posterior reversible encephalopathy syndrome), encefalopatie metaboliche. nel caso in esame i dati clinici, bioumorali e strumentali non supportavano alcuna di queste ipotesi. il quadro micromalformativo cerebrale congenito della paziente potrebbe essere la causa dell’epilessia e una verosimile bassa soglia epilettogena con familiarità per convulsioni febbrili potrebbe aver favorito il manifestarsi delle crisi. in questo contesto clinico, escluse altre ipotesi diagnostiche, è stata dimostrata la presenza di anomalie rm in concomitanza con una fase “florida” di crisi parziali complesse temporali e la scomparsa di tali anomalie una volta controllate le crisi, a sostegno pertanto di una genesi funzionale delle anomalie descritte. la diagnosi finale di anomalie rm transitorie correlate a crisi epilettiche rimane una diagnosi di esclusione e richiede conoscenza e prontezza da parte del clinico [1]. l’esistenza di anomalie post-critiche transitorie negli esami di neuroimmagine è stata descritta a partire dagli anni ’80 in concomitanza con crisi o stato epilettico [2-4]. per la prima volta studi tc hanno descritto un gruppo di pazienti con crisi epilettiche focali o generalizzate e conseguenti anomalie risoltesi nel follow up dopo adeguata terapia antiepilettica [2]. successivamente, nel corso degli anni ’90, studi rm hanno confermato e definito con maggior dettaglio l’esistenza di tali anomalie reversibili, soprattutto in concomitanza con stato epilettico [5,6]. è stato identificato un ampio spettro di anomalie caratterizzate da aumentato segnale nelle sequenze t2-pesate (più raramente, ridotto segnale in t2), diffusione ristretta, captazione leptomeningea di mdc; sono state descritte localizzazioni unilaterali e bilaterali, corticali e sottocorticali, a livello dei gangli della base, della sostanza bianca, del corpo calloso, del cervelletto [1]. in varie casistiche è risultata preponderante la localizzazione a livello temporo-mesiale e ippocampale, specie dopo stati epilettici parziali complessi o dopo crisi parziali complesse [1, 7]. raccomandazioni tenere ben presente la clinica, l’andamento dei disturbi e dei sintomi, l’anamnesi; questo è ciò che guida maggiormente nell’orientare il sospetto clinico valutare l’obiettività neurologica, lo stato cognitivo, la presenza di eventuali segni di malattia sistemica o di altri organi (febbre, indici di flogosi, etc) in presenza di coinvolgimento delle strutture temporo-mesiali, eseguire un eeg, per la valutazione del ritmo di fondo, di eventuali rallentamenti focali, di anomalie epilettiformi intercritiche e per eventualmente registrare crisi epilettiche in presenza di coinvolgimento delle strutture temporo-mesiali, non esitare ad eseguire rachicentesi per escludere ipotesi infettivo-infiammatorie tenere presente che la diagnosi di anomalie crisi-indotte è una diagnosi di esclusione, che si pone al termine di un iter diagnostico i meccanismi patofisiologici coinvolti nella genesi delle anomalie rm postcritiche potrebbero essere rappresentati da alterazioni transitorie del metabolismo energetico e del trasporto ionico; in particolare, l’alterazione cellulare metabolica indotta dalle crisi o dallo stato epilettico potrebbe determinare alterato passaggio dell’acqua tra i compartimenti intra ed extra-cellulare con conseguente edema. anche se le esatte condizioni determinanti se e quando tali alterazioni cellulari diventino evidenti alla rm non sono assolutamente chiare, si ipotizza che concorrano svariati fenomeni: edema vasogenico, citotossico, aumentata permeabilità, ischemia regionale, eccitotossicità [8]. in conclusione, anche se il rilievo di anomalie rm in pazienti con crisi epilettiche è generalmente considerato la causa dell’epilessia, tuttavia, in alcuni casi, anomalie evidenziate dopo crisi o stati epilettici possono rappresentare la conseguenza dell’attività epilettica critica. il rilievo di tali anomalie pone un’ampia varietà di diagnosi differenziali che devono essere prese attentamente in considerazione per evitare errori diagnostici o interventi non necessari. algoritmo diagnostico-terapeutico nel caso descritto l’algoritmo diagnostico-terapeutico si è composto delle seguenti tre fasi: fase della diagnosi di epilessia, in cui il medico, di fronte a episodi critici di possibile origine epilettica, ha gestito il loro corretto inquadramento; fase della gestione della diagnosi differenziale, in cui il medico, una volta posta diagnosi di epilessia, si è mosso al fine di interpretare correttamente le anomalie mostrate dall’esame rm encefalo; fase terapeutica e follow up, in cui il medico ha somministrato appropriata terapia e seguito la paziente nel tempo. fase a. diagnosi di epilessia [9, 10] anamnesi in qualsiasi ambito medico si operi, l’anamnesi rappresenta sempre il primo passaggio di tutti gli algoritmi diagnostici. nel campo dell’epilettologia un’anamnesi accurata e, possibilmente, l’intervista a un testimone dell’episodio/episodi critici per cui il paziente si sottopone all’osservazione medica è particolarmente importante per supportare o meno il sospetto diagnostico di crisi epilettica. esame obiettivo nel paziente con sospetta prima crisi epilettica l’esame obiettivo neurologico, oltre che la ricerca di segni focali, deve includere: la valutazione dello stato mentale e cognitivo e il rilievo di altri segni che possono essere espressione di un disturbo neurologico di cui le crisi epilettiche sono un sintomo; l’osservazione dell’aspetto fenotipico del soggetto compresa la ricerca di note dismorfiche e discromiche. esami di laboratorio nell’adulto con sospetta prima crisi epilettica, dovrebbero essere eseguiti i seguenti esami di laboratorio: emocromo, glicemia, urea, creatinina, elettroliti, ast, alt, cpk, esame urine, screening tossicologico (quando ritenuto opportuno). esami neurofisiologici in campo epilettologico l’eeg basale ha un’alta specificità, ma una sensibilità piuttosto bassa (25-56%). le prove di attivazione (stimolazione luminosa intermittente, iperpnea, sonno, deprivazione di sonno) aumentano la sensibilità della metodica, portandola fino all’80-90%. pertanto, nel sospetto di prima crisi epilettica, quando l’eeg basale non è informativo, è indicata l’esecuzione di eeg prolungato di sonno e/o dopo deprivazione di sonno. esami di neuroimmagine le metodiche morfologiche che trovano applicazione nei pazienti con epilessia sono la tomografia computerizzata (tc) e la risonanza magnetica (rm). data la velocità d’acquisizione delle immagini, la tc è la metodica di scelta nelle situazioni di urgenza. una tc encefalo urgente è strettamente indicata nel sospetto di grave lesione strutturale (complicanze cerebrali post-traumatiche, emorragia cerebrale, edema cerebrale e altri segni di effetto massa), suggerita dall’instaurarsi di un deficit post-critico e/o alterazione persistente della vigilanza, o quando la causa della crisi non sia stata definita con certezza. la rm encefalo è utilizzata in genere in elezione nel paziente con sospetta prima crisi epilettica. essa è in grado di identificare lesioni strutturali non individuate dalla tc, quali condizioni di sclerosi temporale mesiale, displasia corticale, angiomi cavernosi, gliomi del lobo temporale a basso grado di malignità. fase b. gestione della diagnosi differenziale in presenza di epilessia e anomalie rm probabilmente indotte da crisi epilettiche [1, 5-7,11] la diagnosi di anomalie rm funzionali indotte da crisi epilettiche è una diagnosi di esclusione, che prevede la valutazione di svariate patologie neurologiche. in particolare in presenza di tumefazione e incremento del segnale in t2 a livello temporo-mesiale, le principali diagnosi differenziali sono le seguenti: encefaliti virali; encefaliti limbiche autoimmuni; neoplasie della serie gliale; miscellanea (ischemie arteriose in fase acuta, trombosi venose, vasculiti, malattia di creutzfeld-jacob, emicrania complicata, pres, encefalopatie metaboliche). oltre a un’accurata raccolta anamnestica dall’inizio dei sintomi attraverso l’andamento clinico dei disturbi, al fine di escludere la possibilità di fatti infettivo-infiammatori è essenziale l’esecuzione dell’esame del liquido cefalo-rachidiano, da effettuare comunque in prima istanza nel sospetto di un’encefalite. inoltre, sierologie per sifilide, hiv-1 e hiv-2, hsv-1 e hsv-2, hhv-6, ebv, cmv e borrelia burgdorferi permettono di indagare riguardo alla presenza di condizioni infettive. la ricerca dei comuni marcatori tumorali, degli anticorpi onco-neurali (anti-hu, -yo, -ri, -ma2, -cv2, -anfifisina) e degli anticorpi anti-gad permette di escludere eventuali patologie neoplastiche associate. ulteriori indagini ultraspecialistiche sono da indirizzare in relazione a concreti sospetti clinici (e.g. angiografia cerebrale nel sospetto di vasculite, ricerca della proteina 14.3.3 su liquor nel sospetto di malattia di creutzfeld-jacob etc). fase c. terapia e follow up [9, 12] è indicato che il paziente con diagnosi di epilessia venga posto in terapia antiepilettica; il criterio di scelta del farmaco dipende dal tipo di crisi e di epilessia, anche se una personalizzazione della cura può essere “ritagliata” sulla base delle caratteristiche cliniche del singolo paziente. farmaci di prima scelta nelle epilessie parziali sono carbamazepina, oxcarbazepina, levetiracetam, lamotrigina, topiramato, valproato. nell’ipotesi di anomalie rm indotte da crisi epilettiche, è essenziale il conseguimento dell’obiettivo libertà dalle crisi, al fine di constatare la reversibilità delle anomalie, una volta che, nel corso del follow up, le crisi risultino in effetti controllate. bibliografia 1. cianfoni a, caulo m, cerase a et al. seizure-induced brain lesions: a wide spectrum of variably reversible mri abnormalities. eur j radiol 2013; 82: 1964-72; http://dx.doi.org/10.1016/j.ejrad.2013.05.020 2. sethi pk, kumar br, madan vs et al. appearing and disappearing ct scan abnormalities and seizures. j neurol neurosurg psychiatry 1985; 48: 866-9; http://dx.doi.org/10.1136/jnnp.48.9.866 3. goulatia rk, verma a, mishra nk et al. disappearing ct lesions in epilepsy. epilepsia 1987; 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47 (suppl 5): 2-8; http://dx.doi.org/10.1111/j.1528-1167.2006.00869.x 10. smith sj. eeg in the diagnosis, classification, and management of patients with epilepsy. j neurol neurosurg psychiatry 2005; 76 (s2): 2-7 11. gultekin humayun s, rosenfeld mr, voltz r et al. paraneoplastic limbic encephalitis: neurological symptoms, immunological findings and tumour association in 50 patients. brain 2000; 123: 1481-94; http://dx.doi.org/10.1093/brain/123.7.1481 12. glauser t, ben-menachem e, bourgeois b et al. updated ilae evidence review of antiepileptic drug efficacy and effectiveness as initial monotherapy for epileptic seizures and syndromes. epilepsia 2013; 54 (3): 551-63; http://dx.doi.org/10.1111/epi.12074 cmi 2013;7(1)3-4.html cmi sposa l’open access laura fascio pecetto 1 1 redattrice, seed medical publishers editoriale corresponding author laura fascio pecetto l.fasciopecetto@edizioniseed.it   a 6 anni dalla sua nascita, la rivista clinical management issues decide di sposare l’ideologia dell’open access. l’open access trae le sue origini da un incontro dell’open society institute che avvenne a dicembre del 2001 nella capitale dell’ungheria, a cui seguì la stesura della budapest open access initiative, che definì l’open access come segue: «by “open access” to this literature, we mean its free availability on the public internet, permitting any users to read, download, copy, distribute, print, search, or link to the full texts of these articles, crawl them for indexing, pass them as data to software, or use them for any other lawful purpose, without financial, legal, or technical barriers other than those inseparable from gaining access to the internet itself. the only constraint on reproduction and distribution, and the only role for copyright in this domain, should be to give authors control over the integrity of their work and the right to be properly acknowledged and cited.» il fascino dell’open access, nonché la ragione che ha portato l’editore a operare questa scelta sia per cmi, sia per le altre riviste, ha radici profonde e ramificate. innanzitutto l’open access permette una diffusione della letteratura medica equa e rapida: gli articoli in formato elettronico che sottostanno alla creative commons attribution 3.0 license possono essere diffusi istantaneamente e soprattutto non necessitano di pagamenti per essere letti e scaricati. si abbattono, così, le barriere di tempo, di spazio e di status socio-economico a favore di una cultura medica che possa essere condivisa e partecipata davvero da tutti gli esperti del settore, anche dai paesi in via di sviluppo, anche da realtà di ricerca che non godono di finanziamenti, anche da istituzioni colpite dai tagli di budget che la crisi economica ha imposto. la diffusione ne beneficia immensamente: infatti sono consentiti l’uso, la distribuzione e la riproduzione tramite qualsiasi mezzo purché il lavoro originale sia adeguatamente citato e non venga utilizzato a fini commerciali. una veloce distribuzione della conoscenza sembra essere l’unica risposta ai ritmi di avanzamento ormai vertiginosi della scienza e degli sviluppi tecnologici. gli autori stessi traggono un grande vantaggio dalla modalità open access: i loro articoli acquisiscono una maggiore visibilità e conseguentemente un maggior tasso di citazione dei loro articoli; la circolazione dei loro lavori può essere ulteriormente incrementata con l’uso della lingua inglese, che viene caldamente incoraggiato dalla rivista cmi, come gli scorsi numeri testimoniano. il suo nuovo sito, http://journals.edizioniseed.it/index.php/cmi, è basato su open journal systems journal management ed è accessibile con un link diretto anche tramite la schermata relativa alle riviste da www.edizioniseed.it. per accedere agli articoli o per sottometterne uno all’attenzione della redazione è sufficiente effettuare la registrazione gratuita al sito: tutti gli articoli attualmente in archivio potranno essere letti come pdf e quelli pubblicati in seguito saranno accessibili gratuitamente in formato html. una volta effettuata la registrazione, sarà anche possibile effettuare la submission online e seguire il processo di peer-reviewing e di editing dell’articolo direttamente sulla piattaforma. gli stessi referee potranno seguire la lavorazione dell’articolo a loro assegnato: la piattaforma, infatti, è in grado di mantenere la doppia cecità del referaggio. gli autori potranno caricare online anche le versioni successive dell’articolo, quelle che sono andate incontro alle modifiche suggerite dai referee. l’articolo sarà visibile da tutti gli utenti del sito non appena pubblicato. speriamo sinceramente che i lettori e gli autori abbraccino, come noi, la filosofia dell’open access e si affezionino a questa nuova modalità di gestione della rivista. cmi 2014;8(1)19-23.html very late onset multiple sclerosis associated with restless legs syndrome. a case report isabella righini 1, livia pasquali 1, ilaria calabrese 1, alfonso iudice 1 1 unit of neurology, department of clinical and experimental medicine, university of pisa abstract we report the case of a 83-year-old woman suffering from restless legs syndrome (rls) since 2002 and multiple sclerosis (ms) since 2007, when she was 72 and 77, respectively. she had been diagnosed as rls five years before ms, with the support of a polysomnographic examination. the clinical diagnosis of ms took place at the age of 77, while complaining of walking difficulties and abnormal sensitivity in lower limbs, especially in the evening. associated symptoms included dysesthesias on the left leg and arm and left hemitrunk, visual acuity reduction, blurred vision, and fatigue. the brain magnetic resonance showed multiple lesions in white matter, inconsistent with vascular disease but suggestive for demyelinating disease. she was admitted to the hospital, where the spinal fluid examination and a second magnetic resonance confirmed the diagnosis. since that, the patient regularly performed medical examinations and magnetic resonance controls which didn't show any increase of lesions burden nor pathological enhancement, but highlighted a slow worsening of ambulation. due to the patient’s age, a disease modifying therapy for ms was not established, but only symptomatic agents were administered. keywords: late onset multiple sclerosis; restless legs syndrome; comorbidity un caso di sclerosi multipla ad esordio molto tardivo associata alla sindrome delle gambe senza riposo cmi 2014; 8(1): 19-23 case report corresponding author dott.ssa isabella righini neurology via roma 67 – 56126 pisa isabella.righini@gmail.com disclosure authors declare they have no conflict of interests related to the issues discussed in this paper why we describe this case notwithstanding the high prevalence of restless legs syndrome (rls) in multiple sclerosis (ms), the present case report is interesting for a very late onset of ms and the association with a rls preceding the clinical diagnosis of the demyelinating disease case report p.r. is a 83-year-old woman who presented since 2002 (when she was 72) walking difficulties and abnormal sensitivity in lower limbs, especially in the evening. other symptoms included fatigue and dysesthesias on left limbs and left hemitrunk, visual acuity reduction with blurred vision, visual field reduction on left side. in the past history, she underwent a hip joint prosthesis in 2001, had an arterial hypertension and hypercholesterolaemia since 2004, and surgery for grey cataract in left eye in 2006. the patient referred also increased anxiety and insomnia. in 2002 she performed an electromyography examination and a polysomnographic confirmatory recording. nocturnal sleep showed a longer sleep onset latency, a shorter total sleep time, a lower sleep efficiency, a higher arousal index, and a longer rem sleep latency as compared with healthy laboratory controls. furthermore, the patient’s fragmentation index, the periodic leg movements index and the periodic leg movements-arousal index were all elevated, leading to diagnosis of restless legs syndrome (rls). five essential criteria for the diagnosis of restless legs syndrome [1]: all must be met an urge to move the legs usually but not always accompanied by or felt to be caused by uncomfortable and unpleasant sensations in the legs the urge to move the legs and any accompanying unpleasant sensations begin or worsen during periods of rest or inactivity such as lying down or sitting the urge to move the legs and any accompanying unpleasant sensations are partially or totally relieved by movement, such as walking or stretching, at least as long as the activity continues the urge to move the legs and any accompanying unpleasant sensations during rest or inactivity only occur or are worse in the evening or night than during day the occurrence of the above features are not solely accounted for as symptoms primary to another medical or behavioural conditions (e.g. myalgia, venous stasis, leg oedema, arthritis, legs cramp, positional discomfort, habitual foot tapping) as walking difficulties increased over time, a cranial magnetic resonance (mri) was performed on 2007. the examination showed multiple white matter lesions whose morphology and localisation were strongly suggestive for a demyelinating disease and inconsistent with vascular lesions or other disorders. an ophthalmological examination detected an atrophy of left eye fund, likely related to a demyelinating disease. the neurological examination showed an ataxia with muscular spasticity, especially on the right side, horizontally and vertically limitation of eyes movements and a pathological plantar-cutaneous reflex on the right foot. therefore, she was admitted to the hospital, where the following examinations were performed: doppler ultrasound of cerebro-afferent vessels and transcranial vessels doppler: no abnormal findings were detected; visual evoked potentials (veps): bilateral reduction of amplitude was observed; spinal evoked potential of lower limbs (seps): abnormal conduction of central motor time was found bilaterally; trigeminal-facial reflex: there was the finding of disorder of the pons on the left side and of the bulb bilaterally; lumbar puncture and spinal fluid examination: there was evidence of 11 oligoclonal bands; cranial mri: no new intracranial lesions were detected as compared with the previous imaging nor gadolinium enhancement. the findings allowed a diagnosis of multiple sclerosis (ms) (table i). clinical presentation additional data 2 attacks; objective clinical evidence of 2 lesions or objective clinical evidence of 1 lesion with reasonable historical evidence of a prior attack 2 attacks; objective clinical evidence of 1 lesion dissemination in space, demonstrated by: 1 t2 lesion in at least 2 of 4 ms-typical regions of the cns (periventricular, juxtacortical, infratentorial, or spinal cord); or await a further clinical attack implicating a different cns site 1 attack; objective clinical evidence of 2 lesions dissemination in time, demonstrated by: simultaneous presence of asymptomatic gadolinium-enhancing and nonenhancing lesions at any time; or a new t2 and/or gadolinium-enhancing lesion(s) on follow-up mri, irrespective of its timing with reference to a baseline scan; or await a second clinical attack 1 attack; objective clinical evidence of 1 lesion (clinically isolated syndrome) dissemination in space and time, demonstrated for dis by: 1 t2 lesion in at least 2 of 4 ms-typical regions of the cns (periventricular, juxtacortical, infratentorial, or spinal cord); or await a second clinical attack implicating a different cns site for dit by: simultaneous presence of asymptomatic gadolinium-enhancing and nonenhancing lesions at any time; or a new t2 and/or gadolinium-enhancing lesion(s) on follow-up mri, irrespective of its timing with reference to a baseline scan; or await a second clinical attack insidious neurological progression suggestive of ms (ppms) 1 year of disease progression (retrospectively or prospectively determined) plus 2 out of 3 of the following criteria: evidence for dis in the brain based on 1 t2 lesions in the ms-characteristic (periventricular, juxtacortical, or infratentorial) regions; evidence for dis in the spinal cord based on 2 t2 lesions in the cord; positive csf (isoelectric focusing evidence of oligoclonal bands and/or elevated igg index) table i. diagnostic criteria for multiple sclerosis. modified from [2] cns: central nervous system; csf: cerebrospinal fluid; dis: dissemination in space; dit: dissemination in time; igg: immunoglobulin g; mri: magnetic resonance imaging; ms: multiple sclerosis; ppms: primary progressive multiple sclerosis a high dose intravenous corticosteroid therapy was performed and paresthesias gradually decreased. due to her age, a disease modifying therapy for ms was not initiated. although the diagnosis of ms was made in 2007, the symptoms were in place earlier, at least when she was 72, but were likely attributed to the rls. the evidence of an optic atrophy in the left eye at the ophthalmologic assessment at the time of ms diagnosis supports this assumption. thereby, the diagnosis of a ms was established at the patient’s age of 77, but the disease probably initiated years before. a symptomatic drug treatment was prescribed with pregabalin and zolpidem, although with a low level of patient’s compliance. since then, the patient continues to perform periodical clinical controls and periodical mri examinations, so far showing stabilisation of ms lesion burden. notwithstanding, the patient complains of progressive increase of gait difficulties and paresthesias on left side of the body. main questions a doctor should ask himself in this situation notwithstanding the patient’s age, are neurological symptoms compatible with a demyelinating disease? are mri features really suggestive for a demyelinating disorder? are patient’s clinical disturbances the real onset of ms or some previous symptoms were neglected? what therapeutic strategy the late onset ms deserves? which level of therapeutic adherence we must expect from the patient? discussion multiple sclerosis with onset after 50 years of age is usually described as loms, i.e. late onset multiple sclerosis. although uncommon, with a prevalence calculated between 4% and 9.6%, this form of ms is usually more aggressive than the juvenile form named yoms, i.e. young onset multiple sclerosis. in fact, the time to secondary progression of loms is quite shorter and the primary progressive course is more commonly observed in elderly patients. at its onset, clinical symptoms usually involve motor (90% vs. 67% of juvenile form) and cerebellar system. no differences are detected between loms and yoms cases for sensory disturbances, ataxia, ocular movements alterations, cognitive symptoms, and fatigue [3,4]. a typical loms mri shows supratentorial and infratentorial lesions, but more frequently spinal cord lesions are detectable. even though mri has high sensitivity, specificity is limited because of concomitant presence of age-related microangiopathy in these patients, which limits a precise diagnosis. de seze et al. conducted a clinical study in loms patients evaluating sensitivity and specificity of barkhof mri criteria for ms [5]. study results showed that in this group of patients barkhof criteria are less specific. moreover, gadolinium-enhancing lesions are not frequently detected, likely due to a predominance of a degenerative process instead of inflammation. the authors suggest to perform a spinal fluid examination and veps in loms patients, to add specificity to mri. in fact, oligoclonal bands are present in loms in the same percentage of yoms patients. a relevant issue emerging from clinical studies is a usually delayed diagnosis in loms patients. a differential diagnosis should be always investigated. common differential diagnoses include: cerebral or spinal vascular syndromes; hypertension-related disorders; compressive myelopathies; primary or secondary vasculitis; metabolic diseases; degenerative syndromes; nutritional deficiencies; chronic infections (i.e. syphilis, lyme disease, htlv-1, hiv); paraneoplastic syndromes [6]. another interesting feature of this case, yet described in the literature, is the comorbidity with restless legs syndrome (rls). rls is defined as involuntary movement disorders of legs, with unpleasant sensitivity, starting or worsening during the sleep. disturbances improve with movement [1]. the rls pathophysiology is probably related to a dopaminergic system dysfunction, as current evidence suggests. in 2008, a multicenter study [7] showed a higher rls prevalence in ms patients as compared with healthy controls. in addition, comorbid rls seems to be more frequent in the elderly subjects, in patients with a long history of ms, with relevant disability and an involvement of pyramidal and sensory systems rated by the expanded disability status scale (edss score). another hypothesis emerging from the same study is the existence of a secondary form of rls, due to ms itself. this hypothesis is supported by some evidence, as the association with a major level of disability implies a more aggressive course of ms. the onset of rls usually follows the ms diagnosis (about 5 years later) and symptoms are usually asymmetric. however, in a small subgroup of patients, rls can come prior to ms diagnosis. key points the onset of ms in elderly subjects is unusual and is described as loms (late onset multiple sclerosis) when the onset takes place after the age of 50 loms has some typical clinical and neuroradiological features: prevalence of motor and cerebellar symptoms; low frequency of gadolinium-enhancing lesions. mri typical features are more frequently represented by multiple degenerative lesions than inflammatory areas in these late onset ms patients the differential diagnosis with other diseases of the white matter is essential, i.e. vascular, infective, paraneoplastic, metabolic disorders or nutritional deficiencies, which could delay the correct diagnosis the association between multiple sclerosis and restless legs syndrome is sometimes observed, and has been already reported, especially in old patients therapeutic algorithm in multiple sclerosis clinically isolated syndrome (cis) attending strategy clinical and neuroradiological follow-up first line therapy immunomodulatory drugs: ifnβ1a ifnβ1b copolymer clinically definite multiple sclerosis (cdms) relapsing remitting secondary progressive primary progressive escalating therapy induction therapy immunomodulatory therapy immunosuppressive therapy first line therapy immunomodulatory drugs: ifnβ1a ifnβ1b copolymer immunosuppressive drugs: mitoxantrone natalizumab cyclophosphamide ifnβ1b mitoxantrone second line therapy immunosuppressive drugs: natalizumab fingolimod mithoxantrone others (azathioprine, cyclophosphamide) maintenance therapy: immunomodulatory drugs third line therapy autologous stem cells transplantation references 1. international restless legs study group. irlssg diagnostic criteria for rls (2012). available at www.irlssg.org (last accessed march 2014) 2. polman ch, reingold sc, banwell b, et al. diagnostic criteria for multiple sclerosis: 2010 revisions to the mcdonald criteria. ann neurol 2011; 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y quando la probabilità pre-test di malattia è bassa e la possibilità di un risultato falso positivo è più elevata di un risultato vero positivo: si pensi, ad esempio, a un test da sforzo al cicloergometro, un’indagine con una specificità non elevata e pertanto con quote non trascurabili di falsi positivi. ha un diverso valore la positività in un soggetto di 45 anni asintomatico rispetto a un cinquantenne con dolore da sforzo che si risolve con il riposo: è molto probabile che nel primo caso si tratti di un falso positivo; y il costo reale di un test non comprende soltanto la spesa per il test stesso, ma anche quella per eventuali ulteriori esami che possono essere richiesti successivamente. sempre per rimanere sul test da sforzo, una falsa positività indurrà comunque all’esecuzione di test più specifici (e onerosi), come ad esempio una coronarografia con i relativi costi e rischi connessi senza comprovati benefici. è questo l’esempio di un test apparentemente economico (test 4 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) editoriale al cicloergometro), ma che in alcune circostanze può risultare dispendioso per i costi indotti dagli esami complementari e dal follow-up, oltre a quelli derivanti dalla somministrazione di farmaci. basandosi su questi criteri,è stata proposta una lista di ben 37 test “inappropriati”, cioè non in accordo con le principali linee guida validate dalla letteratura internazionale, ma che tuttavia sono molto spesso utilizzati nella pratica clinica quotidiana. di seguito sono riportati alcuni di questi test: y controlli routinari ripetuti di un ecocardiogramma in pazienti asintomatici con lieve insufficienza mitralica e normale dimensione e funzione ventricolare sinistra; y test di imaging cerebrale (tc e/o rmn) in pazienti con sincope e regolare esame obiettivo neurologico; y test sierologici per la malattia di lyme in assenza di segni/sintomi specifici; y determinazione degli anticorpi antinucleo in soggetti con sintomi non specifici (mialgie, astenia, fibromialgia); y controllo annuale dell’assetto lipidico in pazienti non in terapia ipo-colesterolemizzante, in assenza di possibili cause di modificazione del profilo lipidico; y brain natriuretic peptide nella valutazione iniziale di pazienti con chiari segni/ sintomi e referti di altri esami indicativi di scompenso cardiaco; y valutazione del d-dimero invece di test specifici di imaging (ecografia, tc, rmn, scintigrafia) in soggetti con rischio tromboembolico intermedio-alto; y screening per bpco con spirometria in soggetti senza sintomi respiratori. va dato merito a questa consensus promossa dall’american college of physicians di richiamare i medici, almeno nelle condizioni cliniche più frequenti, a perseguire da un lato l’obiettivo di migliorare (o comunque non peggiorare) la qualità delle cure, e dall’altro di ridurre i costi eliminando quei test diagnostici che non sono necessari e che addirittura in alcune circostanze possono risultare dannosi. sicuramente questa “lista” susciterà consensi e/o disapprovazioni tra i vari attori del pianeta sanità (medici, pazienti, provider); l’auspicio dei promotori dello studio è che da questa discussione scaturisca la consapevolezza di valutare sempre nella pratica clinica quotidiana il rapporto costo/beneficio nell’impiego delle tecnologie biomediche. bibliografia di riferimento y qaseem a, alguire p, dallas p, feinberg le, fitzgerald ft, horwitch c, et al; the american college of physicians and temple university school of medicine, philadelphia, pennsylvania; virginia tech carilion school of medicine and research institute, roanoke, virginia; university of colorado health sciences center, aurora, colorado; university of california, davis, health system, sacramento, california; virginia mason medical center, university of washington, seattle, washington; oregon health & science university, portland, oregon; university of iowa carver college of medicine, iowa city, iowa; and tulane university health sciences center, new orleans, louisiana. appropriate use of screening and diagnostic test to foster high-value, cost-conscious care. ann intern med 2012; 156: 147-9 appropriatezza dei test diagnostici francesco cipollini 1 ipertensione arteriosa e dislipidemia in un paziente hiv-positivo in terapia antiretrovirale alessandro maloberti 1, paolo villa 1, dario dozio 1, francesca citterio 1, giorgia grosso 1, mauro betelli 1, francesca cesana 1,2, cristina giannattasio 2 uno strano caso di perdita di coscienza: quando un cervello epilettico fa rallentare il cuore giovanni assenza 1, federica assenza 1, giovanni pellegrino 1, mario tombini 1 effusione endotimpanica persistente verosimilmente sostenuta da biofilm in un paziente pediatrico affetto da immunodeficienza comune variabile sara torretta 1, lorenzo pignataro 1 aspetti psicologici nella gestione dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa essenziale maria luisa genesia 1, franco rabbia 1, elisa testa 1, silvia totaro 1, elena berra 1, michele covella 1, chiara fulcheri 1, giulia bruno 1, franco veglio 1 ringraziamento dei referee (marzo 2011 – marzo 2012) cmi 2014;8(1)25-25.html ringraziamento dei referee (giugno 2013 – marzo 2014)   la redazione di cmi – clinical management issues desidera ringraziare tutti i referee che, con il loro supporto e con la loro fattiva collaborazione, hanno contribuito a migliorare il rigore scientifico, la precisione e l’accuratezza dei contenuti della rivista. umberto aguglia andrea eugenio cavanna janet dancey antonio del casale marco de santis luisa di costanzo mary ann knovich mauro manconi giovanni mantovani donatella marazziti anna n. miller luigi naldi alessandro naticchia agostino paccagnella micaela pellegrino kuo-ti peng francesco pisani francesco salerno tonya shearin-patterson gaetano zaccara clinical management issues 31 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) paolo ghiringhelli 1, mariagrazia aspesi 1 una febbre complicata caso clinico il caso descritto è quello di una donna di 24 anni che giunse all’osservazione presso il nostro ospedale: da tre settimane erano comparse febbre e faringodinia. domande da porre alla paziente la febbre è preceduta da brividi? se non si usano antitermici, che ritmo circadiano manifesta la febbre? quali altri segni e sintomi sono associati? ha cambiato abitudini di vita o alimentari, ha fatto viaggi? la febbre era di tipo intermittente (con punte massime di 40,5°c), preceduta da     abstract fever of unknown origin is a common problem in medical practice and assemble a broad spectrum of diagnostic possibilities. we report a case of a 24-year-old woman with high-spiking fever. a diagnosis of adult-onset still ’s disease (aosd) was made. this is a rare inflammatory disease with an unknown aetiology. the diagnosis of adult-onset still ’s disease can be very difficult. there are no specific tests and reliance is usually placed on a symptom complex and the well described typical rash seen in most patients. thus, the diagnosis is made by exclusion and with the help of diagnostic criteria. the treatment of this disease has to limit the intensity of the symptoms, and this is usually obtained with nsaids (nonsteroidal anti-inflammatory drugs), and to control the disease evolution, through the use of corticosteroid, methotrexate or ciclosphorine a. in the case here described treatment with corticosteroid met with a good response. keywords: adult-onset still ’s disease (aosd), inflammatory disease, fever of unknown origin a complicated fever. cmi 2007; 1(1): 31-36 1 unità operativa complessa di medicina interna, azienda ospedaliera “ospedale di circolo di busto arsizio”, presidio di tradate (va) brividi, della durata di poche ore. erano associati anoressia, progressiva astenia e calo ponderale di 2 kg. l’esame obiettivo all’ingresso rilevava modesta iperemia della faringe, adenopatie multiple laterocervicali del diametro massimo di 2 cm e splenomegalia. all’ascoltazione cardiaca erano presenti un click e un soffio meso-telesistolico sui focolai d’auscultazione della mitrale. perché descriviamo questo caso? il caso, mostrando le difficoltà che si incontrano nella pratica clinica di fronte a una febbre di origine sconosciuta, fornisce le nozioni di base per riconoscere e trattare la malattia di still dell ’adulto, una rara patologia sistemica a carattere infiammatorio caso clinico 32 clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati una febbre complicata dal lato laboratoristico risultavano presenti: globuli bianchi = 20.000/mm3 azotemia = 92,8% got = 56 u/l gpt = 65 u/l pseudocolinesterasi = 3.480 u/l hb = 8,1 g/100ml (l’anno precedente hb era 11,9 g/100ml) volume corpuscolare medio (mcv ) = 66 fl (l’anno precedente mcv = 65 fl) ves = 67 mm in un’ora pcr = 16 mg/100ml ldh = 550 u/l d-dimero = 2.800 ng/ml l’elettrocardiogramma e la radiografia del torace non erano patologici. venne richiesta un’eco-cuore urgente che mostrava la presenza di un prolasso della mitrale con insufficienza valvolare lieve. l’ecografia dell’addome rilevava una milza con diametro maggiore di 18 cm. l’ecodoppler dei linfonodi mostrava un quadro di adenopatie aspecifiche. la paziente venne sottoposta a emocolture seriate, fu iniziato un trattamento antibiotico con ceftriaxone e dopo 3 giorni, per il persistere della febbre, venne associata amikacina. due emocolture risultarono positive per staphyilococcus epidermidis. per questo venne introdotta nel trattamento la teicoplanina. risultarono negative le sierologie torch (toxoplasma gondii, rosolia, citomegalovirus e herpes simplex), borrelia, clamidia, micoplasmi e widal wright, mentre il titolo antistreptolisina (tas) era di 350 ui. tutto quanto esposto poteva essere compatibile con una sindrome della risposta infiammatoria sistemica (sirs) associata o a una sepsi, o a un’endocardite mitralica, o ancora a un linfoma, o a una febbre reuma           tica oppure all’esordio di un’artrite reumatoide o di una coagulazione intravascolare disseminata (cid). domande da porsi la paziente ha un linfoma? la splenomegalia in parte è secondaria alla quasi certa anemia mediterranea? il d-dimero è espressione di una cid indotta da una sepsi o da altro? sono sufficienti i criteri diagnostici per porre il dubbio di un’endocardite? è sufficiente un tas mosso per porre il dubbio di febbre reumatica? nei giorni successivi comparvero puntate febbrili anche biquotidiane associate alla comparsa di un rash cutaneo evanescente che scompariva alcune ore dopo l’insorgenza (figura 1). si manifestarono artriti dei polsi e vennero rilevati dal lato laboratoristico: leucocitosi neutrofila, ferritinemia elevata (4.890 ng/ ml), depressione della sintesi di colinesterasi, negatività dell’ra test e degli anticorpi antinucleo (ana) e positività di due emocolture per staphylococcus epidermidis eseguite a meno di un’ora di distanza l’una dall’altra. a quest’ultimo proposito sia il tipo di patogeno in questione sia l’esito delle emocolture rendevano poco probabile la loro positività. anche il titolo stabile del tas (380 ui) non rese credibile la sua correlazione con l’esordio di un reumatismo articolare acuto. la tc torace addome rilevò la presenza di alcune adenopatie mediastiniche del diametro massimo di 1,5 cm, non fuse fra di loro, mentre in ambito addominale non erano presenti adenopatie ma veniva confermata la splenomegalia rilevata all’ecografia. tutti questi elementi orientarono verso la diagnosi di una malattia di still dell’adulto. la somministrazione di un corticosteroide 1 mg per kg di peso permise di risolvere la sintomatologia della paziente. successivamente venne associata idrossiclorochina e scalata gradualmente la terapia steroidea. dopo una decina d’anni la paziente si ripresentò con un quadro compatibile con un’artrite reumatoide e venne trattata con successo con metotrexate e una piccola dose di steroide. dopo vari tentativi all’inizio infruttuosi di ridurre la terapia immunosoppressiva la paziente è da 3 anni in remissione clinica senza assumere farmaci.      figura 1 rash cutaneo osservato nella paziente 33 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) p. ghiringhelli, m. aspesi discussione la malattia di still, la forma sistemica dell’artrite cronica giovanile, fu descritta per la prima volta nel bambino nel 1897 [1], ma non fu riconosciuta nell’adulto fino al 1971 [2]. nell’adulto, la malattia di still è piuttosto rara, benché diffusa in tutto il mondo. è caratteristica dei giovani adulti fra i 16 e i 35 anni. la stima minima in francia, nella regione della bretagna e della loira, è di 0,16 ogni 100.000 abitanti. non è stata riportata una diatesi familiare anche se sembra più frequente nei genotipi hla-dr2, dr4 e dr7, b-35. secondo l’enciclopedia statunitense medlineplus negli stati uniti l’incidenza è di 1 nuovo caso ogni 100.000 abitanti [3]. in letteratura vi è tuttora carenza di linee guida e criteri diagnostici validati per il riconoscimento e il trattamento di questa patologia. da un recente studio, condotto da efthimiou e coll. [4], prendendo in esame gli articoli fino ad ora pubblicati su medline sull’argomento con lo scopo di verificare e valutare l’evidenza relativa alla diagnosi ottimale e alla gestione della malattia di still dell’adulto, è emerso che sono stati pubblicati quasi esclusivamente casi clinici o studi retrospettivi effettuati su un limitato numero di pazienti. la diagnosi è quindi essenzialmente di tipo differenziale e si basa sull’esclusione di altre malattie di carattere autoimmune o di patologie neoplastiche. diagnosi le cause della malattia di still non sono chiare. non sembra essere correlata con sicurezza ad antigeni di tipo hla e, nonostante numerosi agenti infettivi siano stati implicati come causa, il preciso ruolo dei microrganismi deve essere ancora stabilito. è probabile che un ruolo possa essere giocato da fattori scatenanti di tipo ambientale, infettivo o immunitario, in individui geneticamente predisposti. la diagnosi della malattia di still si basa essenzialmente sui dati clinici. dato che non esistono marker sierologici o test diagnostici che permettano di diagnosticare con certezza la patologia, è essenziale saper riconoscere i sintomi clinici correlati alla patologia per poterla riconoscere. la febbre è elevata e caratterizzata da picchi che compaiono generalmente la sera presto e ritornano normali almeno una volta nel corso delle 24 ore. la maggior parte dei pazienti ha lamentato mialgia, spesso accompagnata da poliartralgie di solito a ginocchia, dita e polso. il rash cutaneo, che è spesso considerato il sintomo più indicativo della patologia per una corretta diagnosi, è rosa-salmone, maculato o macupapulare ed evanescente, prevalente al tronco e più evidente all’esordio e durante le puntate febbrili. spesso dà prurito che è frequentemente mal interpretato come reazione avversa ai farmaci somministrati. la malattia di still è caratterizzata da un marcato interessamento sistemico con febbre elevata e coinvolgimento di grandi e piccole articolazioni. deve essere inclusa nella diagnosi differenziale delle febbri di origine sconosciuta. i criteri che permettono la diagnosi secondo il klippel [5] sono: febbre maggiore di 39°c, artralgia o artrite, fattore reumatoide ≤ 1:80, ana ≤ 1:100. questi criteri devono essere associati almeno ad altri due dei seguenti criteri minori: leucocitosi maggiore di 15.000 elementi per mm3, eruzione cutanea tipica, pleurite o pericardite, epatomegalia o splenomegalia o adenopatia generalizzata. in tabella i sono riportati i criteri diagnostici. trattamento nel caso di un paziente affetto da questo tipo di patologia il primo approccio deve consistere nel sollievo dal dolore, approccio che dovrebbe essere adottato immediatamente, anche quando la diagnosi della patologia non è ancora stata stabilita con certezza. il controllo del dolore sarà ottenuto con analgesici (es. paracetamolo, acetaminofene) o fans (es. aspirina, indometacina, naprossene, ecc…): essi possono essere usati indistintamente, poiché non ci sono evidenze che una di queste molecole sia migliore di un’altra nel controllo dei sintomi. una volta accertata la patologia sarà necessario intraprendere una terapia vera e propria volta alla regressione dell’infiammazione nonché a limitare i danni articolari. tutti i seguenti: febbre > 39 °c artralgia o artrite fattore reumatoide ≤ 1:80 ana ≤ 1:100     in aggiunta almeno due dei seguenti: conta dei globuli bianchi ≥ 15.000/mm3 eruzione cutanea tipica pleurite o pericardite epatomegalia o splenomegalia o linfoadenopatie     tabella i criteri per la diagnosi di malattia di still dell ’adulto [6] 34 clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati una febbre complicata il trattamento classico della patologia consiste nella somministrazione di anti-infiammatori non steroidei, spesso in combinazione con corticosteroidi a basse dosi. agenti immunosoppressori (solitamente metotrexate, ma anche sali d’oro, azatioprina, ciclosporina a, leflunomide e ciclofosfamide) e gamma globuline ev si sono dimostrati efficaci. in genere l’evoluzione è favorevole; un’artrite cronica può persistere al cessare delle manifestazioni sistemiche. recentemente è stato riportato l’uso di anticitochine anti-tnf-alfa [7], anti-il-1 e anti-il-6 [8] che potenzialmente sembrano poter aprire nuovi orizzonti nel trattamento della patologia. la risposta dei pazienti affetti da malattia di still ai trattamenti è difficile da stimare, in parte a causa della relativa rarità della malattia, che non consente di valutarla attraverso trial clinici controllati e randomizzati, e in parte per la sua natura remittente. tradizionalmente il trattamento di prima linea è stato effettuato con salicilati, o altri fans, ad alte dosi, che però non si è rivelato efficace in molti dei pazienti che hanno richiesto la somministrazione di corticosteroidi per la regressione della malattia. inoltre, anche nei pazienti che rispondono alla terapia con corticosteroidi, è possibile la progressione dell’artrite erosiva con conseguente danno articolare permanente [9]. nonostante la natura spesso cronica di questa patologia, la prognosi nella maggior parte dei casi è positiva, gli attacchi successivi al primo sono di intensità decisamente inferiore a quello iniziale e l’outcome è nella maggior parte dei casi favorevole: circa l’80% dei pazienti sono classificati nella classe i o ii in accordo alla classificazione dell’american rheumatism association [10] . questa accreditata associazione di reumatologi ha redatto una classificazione funzionale dei pazienti in 4 classi: la classe ia è caratterizzata da una conservata capacità funzionale nello svolgimento di tutte le incombenze consuete e classe iva da incapacità funzionale completa o quasi, con paziente allettato o su sedia a rotelle e scarsa o nulla autosufficienza. la classe funzionale è chiaramente correlata al grado di invalidità e ai costi. conclusioni la malattia di still dell’adulto è una patologia rara ma forse è resa più rara dal fatto che alcuni casi clinici meno aggressivi non vengono diagnosticati anche perché clinicamente la malattia va incontro spesso a remissione spontanea dei sintomi. altre volte il decorso può essere complicato da frequenti riacutizzazioni o, come è accaduto nel caso descritto, dal viraggio verso altre forme di malattia reumatica. la diagnosi differenziale deve comprendere soprattutto le patologie granulomatose come sarcoidosi, vasculiti, infezioni virali come l’epatite b, rosolia, parvovirus, coxackie, virus di epstein-barr, cytomegalovirus o hiv, endocardite batterica, meningococcemia cronica, tubercolosi, malattia di lyme, sifilide, febbre reumatica. vanno esclusi anche i linfomi, la linfoadenopatia angioimmunoblastica e altre connettiviti come il lupus eritematoso sistemico (les) e la malattia mista del connettivo. per quanto riguarda l’endocardite, nel caso descritto appariva poco probabile questa diagnosi data la resistenza alla terapia antibiotica somministrata (ceftriaxone, amikacina e teicoplanina) per almeno 15 giorni continuativamente. il linfoma veniva escluso per il modesto movimento delle ldh e la comparsa delle artriti che, associate agli altri rilievi clinici e di laboratorio, rendevano improbabile una malattia linfoproliferativa. la cid venne esclusa perché non erano presenti alterazioni del pt e ptt e neppure piastrinopenia. anche le febbri periodiche ereditarie potevano essere escluse dall’anamnesi e dalla clinica non compatibile con una febbre ricorrente ma conciliabile con l’esordio di una malattia reumatologica acuta. è utile ai fini di chiarire casi clinici come questo valutare gli schemi riassuntivi sotto riportati riguardanti i criteri che permettono di porre diagnosi di endocardite infettiva e la diagnosi differenziale della malattia di still dell’adulto. come si poteva gestire meglio questo caso? è lampante come la falsa positività delle emocolture abbia creato molto disagio nell ’iniziare il trattamento immunosoppressivo. questo errato riscontro è stato provocato da mancata scrupolosa antisepsi nell ’esecuzione delle emocolture per l ’eccessivo carico di lavoro infermieristico, spesso non riconosciuto, nei reparti di medicina interna. 35 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2007; 1(1) p. ghiringhelli, m. aspesi criteri diagnostici per la diagnosi di endocardite infettiva della duke university [11,12] criteri patologici dimostrazione della presenza di microrganismo da coltura o esame istologico di una vegetazione, o di una vegetazione embolizzata, o di un ascesso intracardiaco, oppure presenza di vegetazione o di ascesso intracardiaco, con conferma istologica di processo endocarditico attivo criteri clinici maggiori emocoltura positiva per endocardite: microrganismi tipici per endocardite da 2 emocolture separate (streptococcus viridans, streptococcus bovis, gruppo hacek, staphylococcus aureus, enterococchi) in assenza di un focolaio infettivo in altra sede oppure emocolture persistentemente positive per microrganismi compatibili con infezione endocarditica, rilevati in: emocolture prelevate a distanza di almeno 12 ore l ’una dall ’altra oppure 3 emocolture su 3, o la maggioranza di 4 o più emocolture, con la prima e l ’ultima prelevate a distanza di almeno 1 ora evidenza di interessamento endocardico con ecocardiogramma positivo per endocardite a causa di: presenza di massa oscillante su valvola, apparato sottovalvolare, percorso di jet rigurgitante, materiale protesico, in assenza di spiegazione anatomica alternativa oppure presenza di ascesso oppure deiscenza di protesi valvolare comparsa ex novo di soffio da insufficienza valvolare (non è sufficiente la variazione o aumento di un preesistente soffio) criteri minori fattori cardiaci predisponenti o abuso iv di droghe febbre ≥ 38°c fenomeni vascolari: embolia arteriosa maggiore, aneurisma micotico, infarto polmonare settico, emorragie del sistema nervoso centrale, emorragie congiuntivali, lesioni di janeway (piccole macchie nodulari emorragiche sul palmo della mano e sulla pianta dei piedi) fenomeni immunologici: glomerulonefrite, noduli di osler (grandi come un pisello, molli, bluastri a volte con centro biancastro, a livello dei polpastrelli, delle dita del piede, della pianta del piede, dell ’ipotenar e tenar), macchie di roth (macchie bianche rotonde o ovali sulla superficie retinica), fattore reumatoide evidenze microbiologiche: emocolture positive, ma non secondo i criteri maggiori riportati sopra diagnosi certa con i criteri clinici combinazione dei criteri sotto indicati: 2 criteri maggiori oppure 1 criterio maggiore + 3 criteri minori oppure 5 criteri minori diagnosi possibile reperti compatibili con endocardite infettiva, non rispondenti ai criteri di diagnosi certa, ma nemmeno a quelli di diagnosi rigettata diagnosi rigettata sicura diagnosi alternativa per le manifestazioni sospettate essere da endocardite oppure risoluzione delle manifestazioni sospettate essere da endocardite con terapia antibiotica di 4 giorni o meno oppure assenza di reperti patologici (chirurgici o autoptici) dopo terapia antibiotica di 4 giorni o meno                      36 clinical management issues 2007; 1(1) ©seed tutti i diritti riservati una febbre complicata diagnosi differenziale della malattia di still dell’adulto patologie granulomatose come la sarcoidosi vasculiti infezioni virali come epatite b, rosolia, parvovirus, coxackie, virus di epstein-barr, cytomegalovirus o hiv infezioni batteriche: endocardite batterica, meningococcemia cronica, tubercolosi infezioni da spirochete: malattia di lyme, sifilide febbre reumatica linfomi linfoadenopatia angioimmunoblastica connettiviti: les, malattia mista del connettivo          bibliografia 1. still gf. on a form of chronic joint disease in children. med chir trans 1897; 80: 1-13 (reprinted am j dis child 1978; 132: 195-200) 2. bywaters eg. still’s disease in the adult. ann rheum dis 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to a remote effect as paraneoplastic syndromes, neurotoxic complications of chemotherapy, antibody-mediated or autoimmune mechanisms. we report the case of a 60-year-old woman who presented with a complex peripheral nervous system involvement as initial manifestation of non-hodgkin lymphoma (nhl). this case sheds light on “protean” mechanism of peripheral nerve complications during the course of nhl and related diagnostic dilemma. keywords: neurolymphomatosis; paraneoplastic syndrome; non-hodgkin lymphoma atypical presentation of non-hodgkin lymphoma (nhl): a case report cmi 2014; 8(4): 103-107 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i4.942 caso clinico corresponding author dott. giancarlo fiermonte giancarlo.fiermonte@uniroma1.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo perché descriviamo questo caso il caso è esplicativo del “proteiforme” interessamento del sistema nervoso periferico in corso di linfoma non-hodgkin. l’eterogeneità dei processi fisiopatologici alla base di tale coinvolgimento comporta evidenti difficoltà per un corretto inquadramento clinico, da cui potrebbero derivare potenziali ritardi diagnostici introduzione le disfunzioni del sistema nervoso periferico (snp) associate a patologie neoplastiche riconoscono meccanismi fisiopatologici estremamente eterogenei, rendendo particolarmente impegnativo un corretto inquadramento clinico-diagnostico. i processi mediante i quali una neoplasia è in grado di determinare un danno a carico del snp possono essere ricondotti sia a una diretta infiltrazione della cellule tumorali (primaria o metastatica) sia a una sofferenza secondaria al trattamento (infezioni di patogeni conseguenza della immunodepressione, danni metabolici talvolta con latenza di diversi mesi dall’inizio della terapia). inoltre, la capacità delle cellule neoplastiche di compromettere i naturali processi omeostatici dei diversi sistemi può determinare l’insorgenza di complesse sintomatologie inquadrate nel termine di “sindromi paraneoplastiche”. le sindromi neurologiche paraneoplastiche sono tendenzialmente da ricondurre alla possibilità da parte delle cellule tumorali di presentare un certo grado di mimetismo molecolare con le strutture del sistema nervoso; tale condizione può determinare una risposta immunitaria anticorpo-mediata con conseguente compromissione del sistema nervoso a differenti livelli (motoneuroni del corno ventrale del midollo spinale, gangli sensoriali, radici e plessi nervosi, nervi cranici e periferici, giunzione neuromuscolare) [1]. pertanto, lo specifico processo fisiopatologico così come la precisa distribuzione del danno neuroperiferico possono presentare consistenti difficoltà interpretative; è determinante, in tal senso, la natura primitiva del processo eteroplasico. presentiamo il caso di una paziente in cui una complessa sintomatologia neurologica ha preceduto la diagnosi di linfoma non-hodgkin (nhl). caso clinico anamnesi una paziente di 60 anni giungeva alla nostra osservazione per un disturbo della deambulazione caratterizzato da ingravescente ipostenia a carico degli arti inferiori a cui si associavano disestesie urenti ai 4 arti. l’esordio della sintomatologia risaliva ad alcuni mesi prima, per l’insorgenza di un deficit della dorsiflessione a carico del piede sinistro. il disturbo stenico interessava rapidamente anche l’arto controlaterale, associandosi a sintomatologia algica nei medesimi distretti. a circa un mese dall’insorgenza dei sintomi, la paziente veniva ricoverata presso un altro presidio ospedaliero, dove, effettuati gli accertamenti del caso (valutazione elettroneurografica/elettromiografia, risonanza magnetica lombosacrale, tomografia computerizzata addome inferiore) veniva posta indicazione a intervento neurochirurgico decompressivo l4-l5, senza evidenza agli esami strumentali di alcuna lesione infiltrativa, potenzialmente bioptizzabile. l’intervento chirurgico, seguito da un ciclo di riabilitazione neuromotoria, determinava un transitorio beneficio della sintomatologia. tuttavia, all’iniziale fase di recupero postoperatorio faceva seguito una recrudescenza della sintomatologia motoria con particolare aggravamento del deficit di forza, questa volta a carico anche dei segmenti prossimali. per tale ragione la paziente decideva di rivolgersi presso la nostra struttura per gli accertamenti e le cure del caso. esame obiettivo ed esami strumentali l’esame obiettivo neurologico all’ingresso mostrava un’andatura possibile solo con supporto bilaterale. la paziente presentava inoltre lieve atrofia associata a ipotonia nei distretti distali degli arti inferiori e un marcato deficit di forza negli arti inferiori (con forza residua di grado 0/5 alla flesso-estensione del piede sinistro e all’estensione dorsale del piede destro, 2/5 alla flessione plantare del piede destro, 3/5 alla flessione della coscia sul bacino a sinistra e 4/5 a destra). vi era inoltre una marcata ipoestesia associata a disestesie urenti nella distribuzione dermatomerica l5-s1-s2 bilateralmente e un’ipoestesia distale con parestesie a tipo formicolio all’estremità degli arti superiori. i riflessi osteotendinei risultavano aboliti agli arti inferiori e ridotti (distalmente > prossimalmente) agli arti superiori. durante la degenza presso la nostra unità la paziente veniva sottoposta a un esame elettroneurografico/elettromiografico che documentava l’assenza di risposte sensitive agli arti inferiori, l’inevocabilità di potenziali motori a carico dei nervi peroneo comune di sinistra e tibiale bilateralmente, depressione dell’ampiezza dei potenziali d’azione motoria con riduzione delle velocità di conduzione del nervo peroneo comune di destra. veniva inoltre documentata una riduzione simmetrica dei potenziali sensitivi esplorati agli arti superiori (nervo ulnare). l’esame ad ago mostrava diffusi segni di sofferenza neurogena cronica con elementi di denervazione in atto a carico dei segmenti degli arti inferiori. le indagini neurofisiologiche venivano integrate con potenziali evocati laser, che documentavano la non riproducibilità delle risposte corticali per stimolazione sia degli arti inferiori sia superiori. gli esami ematochimici (routine con screening autoanticorpale e ricerca di anticorpi onconeurali) e l’esame liquorale che non evidenziava una cellularità aumentata, né atipie cellulari, risultavano negativi eccetto che per un minimo aumento dell’anti-cardiolipina igm (33,62 mpl/ml) e dell’anti-ß2 gpi (glicosilfosfatidilinositolo) igm (23:48 ua/ml). si decideva pertanto di effettuare un’ulteriore valutazione di neuroimaging, documentando, mediante rm del tratto lombosacrale, la presenza di un tessuto di alterato segnale diffusamente localizzato a livello della regione sacrococcigea più evidente nelle regioni anteriori e che si estendeva ai tessuti paravertebrali e contiguo con lo spazio retrorettale (figura 1). figura 1. risonanza magnetica del tratto lombosacrale. a: sequenze stir. b: t1 sagittale precontrasto. c: t1 sagittale postcontrasto. è evidente un’estesa alterazione morfostrutturale con presenza di tessuto di alterato segnale, maggiormente evidente nelle sequenze stir, che presenta irregolare e disomogeneo potenziamento nelle sequenze t1 pesate dopo somministrazione ev di gadolinio, diffusamente localizzato a livello della regione sacro-coccigea con prevalente evidenza a destra e con estrinsecazione anteriore, a livello dei tessuti molli paravertebrali, in contiguità con lo spazio adiposo retrorettale figura 2. tc senza mezzo di contrasto che mostra l’infiltrazione del sacro si rendeva pertanto necessario proseguire l’iter diagnostico presso ambiente specialistico internistico-ematologico. le figure 1-4 mostrano le immagini della regione sacrale e del mesoretto ottenute mediante rm e tc. i dati nel loro complesso erano compatibili con la diagnosi di linfoma non-hodgkin. la paziente, instaurato il trattamento chemioterapico, decedeva a poche settimane dalla diagnosi per l’insorgenza di complicanze respiratorie (polmonite da aspergillosi). la rapida evolutività del quadro clinico non ha permesso un’accurata stadiazione e gli ulteriori approfondimenti clinico-diagnostici che il caso avrebbe meritato. figura 3. rm assiale t1 precontrasto (a) e rm assiale t1 postcontrasto (b) che mostrano l’invasione del mesoretto figura 4. a e b. tc senza mezzo di contrasto che pongono in evidenza l’invasione del mesoretto discussione il caso in esame evidenzia le “proteiformi” manifestazioni neurologiche in corso di nhl a cui concorrono diversi meccanismi fisiopatologici [2]. infatti, se possiamo attribuire sintomi clinici degli arti inferiori a una plessopatia bilaterale causata da un diretto danno infiltrante, la sofferenza del sistema nervoso periferico agli arti superiori rimane di non unica interpretazione. di fatto, in presenza di un quadro clinico caratterizzato da un progressivo deficit motorio associato a una importante sintomatologia sensitiva con caratteristiche tipicamente neuropatiche, deve essere escluso un possibile interessamento delle strutture del snp da parte di un processo di tipo infiltrativo. inoltre, l’assenza di potenziali sensitivi agli arti inferiori all’esame elettroneurografico rappresentava un ulteriore indice di possibile sofferenza postgangliare. la condizione pertanto configurerebbe il quadro di neurolinfomatosi, intesa come la diretta infiltrazione di cellule eteroplasiche della linea ematica, caratterizzate da spiccato neurotrofismo, nelle strutture nervose. sebbene la precisa incidenza del disturbo non sia stata ancora caratterizzata, si stima che circa lo 0,2% dei pazienti con nhl ne possa essere affetto. la sintomatologia, estremamente eterogenea, sarebbe dipendente dalla struttura nervosa interessata. tipicamente si osserva nelle forme disseminate di patologia, sebbene vengano riportati casi aneddotici in cui la neurolinfomatosi rappresenta il sintomo d’esordio della neoplasia. più impegnativo risulta il corretto inquadramento per i sintomi manifestati dalla paziente agli arti superiori. la simmetria delle manifestazioni cliniche, la natura prevalentemente sensitiva e l’interessamento delle fibre di piccolo calibro (assenza di potenziali corticali registrabili dopo stimolo laser) potrebbero deporre per un quadro di polineuropatia sensitiva [3,4]. tuttavia le neuropatie associate a nhl presentano più frequentemente caratteristiche similari a quelle osservabili nelle neuropatie di natura demielinizzante/infiammatoria (con riduzione delle velocità di conduzione) [5,6], con una minore probabilità di presentare le caratteristiche di una neuropatia assonale sensitiva o una neuronopatia (danno a carico del ganglio sensitivo) [5,6]. l’alternativa di una più estesa diffusione del processo neoplastico (esordio di un coinvolgimento del processo neurolinfomatosico al plesso brachiale [7] o una multineuropatia), scarsamente rilevabile mediante le indagini strumentali effettuate, è un meccanismo fisiopatologico ragionevolmente ipotizzabile. la rapida precipitazione del quadro clinico generale con exitus non ha permesso valutazioni neurofisiologiche longitudinali o l’approfondimento mediante più indicate metodiche di imaging (la pet-tc sembrerebbe l’indagine più sensibile nell’individuare un’eventuale neurolinfomatosi) rendendo improbabile un definitivo inquadramento della sintomatologia. non esiste uno specifico trattamento delle manifestazioni neurologiche periferiche associate a nhl. risultano piuttosto inconsistenti i dati in letteratura in merito ai regimi terapeutici da applicare in tali condizioni. generalmente il trattamento è limitato alla terapia del processo neoplastico di base, limitando altre opzioni terapeutiche (radioterapia, somministrazioni chemioterapiche intratecali) a casi selezionati. sono incompleti anche i dati in letteratura sull’utilizzo di terapia immunomodulante (immunoglobuline, plasmaferesi, corticosteroidi) nelle forme paraneoplastiche che riconoscerebbero un meccanismo su base disimmune [8]. i dati sul significato prognostico di un interessamento del snp in corso di nhl sono ugualmente inadeguati, sebbene i casi di neurolinfomatosi sembrerebbero associarsi a una prognosi peggiore con una sopravvivenza mediana di circa 10 mesi. conclusioni l’eterogeneità dei processi fisiopatologici alla base delle disfunzioni a carico del snp in pazienti affetti da nhl comporta evidenti difficoltà per un corretto inquadramento clinico, in particolare se si considera che tali processi potrebbero teoricamente coesistere nel singolo individuo. inoltre il caso in esame, per quanto tendenzialmente atipico come manifestazione d’esordio di una patologia linfoproliferativa, sottolinea la necessità di sospettare una sottostante lesione di natura neoplastica nei pazienti con manifestazioni a carico del snp dalle caratteristiche atipiche. un’attenta analisi di sintomi clinici potenzialmente riconducibili a un danno infiltrativo (in particolare quando è evidente una sintomatologia algica con spiccati aspetti “neuropatici” e caratteristica distribuzione) o il riconoscimento di manifestazioni cliniche ascrivibili a sindromi paraneoplastiche, corroborati da una mirata valutazione strumentale, potrebbero ottimizzare i processi diagnostici (unico aspetto con comprovato impatto prognostico). sarebbe tra l’altro indicato che pazienti con definite sindromi neoplastiche venissero periodicamente valutati per un eventuale coinvolgimento del sistema nervoso; di fatto la corretta caratterizzazione di determinate manifestazioni cliniche in questa popolazione di pazienti diverrebbe cruciale nell’adeguata definizione dei processi fisiopatologici alla base di tali disfunzioni, contribuendo all’individuazione delle strategie terapeutiche più appropriate [9]. bibliografia 1. antoine jc, camdessanché jp. peripheral nervous system involvement in patients with cancer. lancet 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secondary headache disorders, that have a known cause. this is an overview addressed to general practitioners to help making a first-line headache diagnosis basing on the most common types of headache listed in the 2013 international classification of headache disorder 3rd edition (beta version). although headache diagnosis and treatment have made substantial gains in the last decade, the disease is still underdiagnosed and undertreated: improvements in several areas are required, especially in general medicine. keywords: primary headache; secondary headache; migraine; new classification of headache headaches: new classification, clinical and diagnostic criteria in general medicine cmi 2014; 8(3): 67-74 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i3.899 gestione clinica corresponding author dott.ssa linda iurato via vincenzo di marco 1/e 90143 palermo cell.: 3318474301; tel.: 091300826 lindaiurato@yahoo.it disclosure l’autrice dichiara di non avere alcun conflitto di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo introduzione il termine “cefalea” identifica un sintomo, non una diagnosi. poiché sono noti più di 200 tipi diversi di cefalee, è utile classificarle e organizzarle in maniera razionale. la prima distinzione fondamentale è quella tra le cefalee primarie e secondarie. per cefalea primaria (o primitiva o essenziale o idiopatica) si intende una cefalea ricorrente che non è dovuta a una patologia organica, ma è essa stessa la malattia. per cefalea secondaria (o sintomatica) si intende una cefalea che costituisce il sintomo, il segnale di una patologia sottostante, che va attentamente ricercata e individuata. grazie al trattamento specifico della patologia, si potrà ottenere la risoluzione del mal di testa. il primo tentativo di catalogare la complessa nomenclatura delle cefalee risale al 1962. tuttavia la prima classificazione sistematica è del 1988 [1]; nel 2004 è stata pubblicata la seconda edizione [2]. la versione attualmente in vigore è la terza, che è stata però pubblicata in versione beta, cioè è provvisoria [3]. infatti rimarrà in vigore per circa due anni e potrà essere modificata in base ai dati scientifici che chiunque potrà segnalare; infine sarà sostituita dalla versione definitiva alfa. le cefalee sono divise in 217 forme: le più frequenti sono le primarie, ma anche le cefalee secondarie sono numerosissime. il primo passo per il medico di medicina generale (mmg) è decidere a quale gruppo diagnostico appartiene il paziente che riferisce cefalea durante la visita medica. utilità della nuova classificazione delle cefalee in medicina generale la nuova classificazione delle cefalee è l’occasione per un miglioramento dell’accuratezza diagnostica da parte dei medici di medicina generale. si tratta di una classificazione molto dettagliata che comprende tutte le possibili formulazioni diagnostiche. una sua implementazione in medicina generale richiede innanzitutto la definizione del ruolo e dei compiti del mmg nell’approccio al paziente con cefalea [4]. il mmg deve sostanzialmente essere in grado di: valutare in modo mirato anamnesi e obiettività clinica; riconoscere le principali cefalee primarie; sospettare le cefalee secondarie; inviare a consulenza specialistica i casi dubbi o che richiedono una diagnosi di livello più avanzato (cefalee primarie a bassa prevalenza e rare, presenza di complicanze). principali caratteristiche cliniche della nuova classificazione la terza edizione della classificazione internazionale delle cefalee è frutto del lavoro, durato circa tre anni, delle diverse commissioni istituite dalla international headache society (ihs). si tratta di uno strumento, indispensabile sia per il clinico sia per il ricercatore, strutturato con un’impostazione gerarchica che si estende sino a cinque livelli, consentendo così di effettuare inizialmente una diagnosi più generica (cefalea primaria, secondaria o altro), e successivamente individuare lo specifico sottotipo di cefalea, potendo così procedere all’impostazione di una terapia più adeguata: ad esempio l’emicrania emiplegica familiare di tipo i (diagnosi di quinto livello) appartiene alla categoria delle emicranie emiplegiche familiari, un sottotipo di emicranie emiplegiche, che a loro volta fanno parte delle emicranie con aura, un sottotipo di emicrania, patologia classificabile come cefalea primaria. l’utilizzo di questa classificazione è importante per il medico di medicina generale, soprattutto nel caso in cui il paziente soffra di più di un tipo di cefalea: ad esempio il paziente può presentare attacchi di emicrania con aura ed episodi di emicrania senz’aura, unitamente a una cefalea da uso eccessivo di farmaci. i criteri diagnostici formulati nella classificazione permettono al mmg di effettuare una diagnosi di primo e secondo livello, utili soprattutto per rispondere alla domanda più importante in medicina generale: è una cefalea primaria o secondaria? gli strumenti a disposizione del medico per la valutazione clinica delle cefalee primarie sono l’anamnesi, la visita medica con l’esame neurologico e l’uso del diario [5,6]. è bene puntualizzare che quando un paziente presenta per la prima volta cefalea in stretta relazione temporale a una patologia che notoriamente causa cefalea, la cefalea in questione è definita secondaria e attribuita alla principale patologia clinica responsabile della cefalea. tale definizione clinica rimane vera perfino quando la cefalea di nuova insorgenza ha le caratteristiche cliniche delle cefalee primarie. si può presentare anche il caso di una cefalea primaria preesistente che si cronicizza in seguito a una patologia clinica riconosciuta come causa di cefalea. in quest’ultimo caso coesistono le due diagnosi: il paziente è affetto sia da cefalea primaria sia da cefalea secondaria. è bene ricordare che la sintomatologia clinica delle patologie cefalalgiche di alcuni pazienti non soddisfa tutti i criteri diagnostici riportati dalla classificazione in oggetto; questo aspetto può essere dovuto al fatto che gli attacchi vengono trattati farmacologicamente oppure al fatto che il paziente ha difficoltà a ricordare l’esatta sintomatologia degli attacchi e le condizioni scatenanti. a questo proposito è stato introdotto il termine “probabile” per le cefalee primarie, già dal 2004, per indicare la non completa adesione a tutti i criteri diagnostici elencati nella classificazione in esame. la compilazione di un diario da parte del paziente è utile per ottimizzare l’utilizzo corretto dei criteri diagnostici della classificazione e, in seguito, per la gestione della patologia. nel diario il paziente deve annotare: le caratteristiche cliniche degli attacchi di cefalea, i fattori scatenanti e attenuanti, i farmaci assunti, l’alimentazione e lo stile di vita. la nuova classificazione ihs 2013 [3] risulta uno strumento utile allo scopo di uniformare i criteri diagnostici e ridurre, così, la variabilità diagnostica tra i neurologi. è importante che il medico di medicina generale conosca il primo e il secondo livello diagnostico della classificazione. nel primo livello diagnostico sono elencati 14 gruppi: i primi 4 riguardano le cefalee primarie, i gruppi dal 5 al 12 riguardano le cefalee secondarie, il gruppo 13 è formato dalle nevralgie craniche e dalle algie facciali centrali, e infine il gruppo 14 comprende le forme di cefalee e nevralgie non classificabili. le cefalee primarie le cefalee primarie a maggior prevalenza di interesse in medicina generale sono: l’emicrania senz’aura, l’emicrania con aura, le sindromi episodiche dell’infanzia possibili precursori di emicrania (vomito ciclico, emicrania addominale, vertigine parossistica), l’emicrania cronica, la cefalea di tipo tensivo e la cefalea a grappolo. rispetto alla classificazione del 2004, nella classificazione ihs 2013 delle cefalee primarie è rimasto invariato il settore delle complicanze dell’emicrania che comprende: lo stato di male emicranico (cefalea > 72 ore), l’aura persistente senza infarto (durata superiore a 7 giorni), l’infarto emicranico e le crisi epilettiche indotte dall’aura emicranica. la cefalea di tipo tensivo è stata suddivisa, nella classificazione 2013, in tre sottotipi: cefalea di tipo tensivo episodica infrequente, cefalea di tipo tensivo episodica frequente, cefalea di tipo tensivo episodica cronica. fanno parte delle tac (trigeminal autonomic cephalalgias – cefalee autonomico-trigeminali): la cefalea a grappolo, l’emicrania parossistica, l’emicrania continua e sunct e suna. la sunct (short lasting unilateral neuralgiform headache with conjuntival injection and tearing) è caratterizzata da attacchi di dolore di durata minore rispetto alla cefalea a grappolo (10-120 secondi), di maggiore frequenza (3-200 al giorno) e di minore intensità, mentre la suna (short lasting unilateral neuralgiform headache attacks with cranial autonomic symptoms), introdotta nello stesso gruppo nella classificazione 2013, presenta sintomi autonomici di minore entità rispetto alla sunct. l’emicrania è una cefalea primaria molto comune in italia: ha un’alta prevalenza e un notevole impatto socioeconomico nella società di oggi [7]. è di due tipi fondamentali: l’emicrania senz’aura e l’emicrania con aura. l’emicrania senz’aura esordisce generalmente in età adolescenziale o nell’età giovanile adulta, ma può insorgere anche nell’infanzia, mentre è poco probabile un esordio dopo i 40-50 anni. è una cefalea ricorrente in cui spesso è presente familiarità. nella pratica clinica gli elementi utili per la diagnosi dell’emicrania senz’aura sono: familiarità positiva; età d’esordio giovanile; insorgenza delle crisi al risveglio; ricorrenza perimestruale e nel fine settimana; ulteriori sintomi associati (osmofobia, senso di freddo, brividi, pallore); fattori scatenanti (v. oltre); fattori allevianti (compressione e applicazione di freddo in corrispondenza della zona dolente); miglioramento in gravidanza; risposta ai triptani. tali elementi non sono criteri diagnostici ufficiali, ma dati clinici di ausilio alla diagnosi assieme ai criteri diagnostici notoriamente accreditati. durante gli attacchi, i soggetti emicranici tendono a stare a letto, preferibilmente al buio e istintivamente cercano di comprimere e raffreddare la parte dolente. i fattori che più spesso sono responsabili dello scatenamento di una crisi di emicrania senz’aura sono: fattori psicologici (emozionali nel 67% dei casi, situazioni conflittuali nel 58%), cambiamenti di routine, fattori alimentari (cioccolato, aspartame, vino rosso, sodio monoglutammato, digiuno), fattori ambientali (fumo, cambiamenti di tempo), fattori farmacologici, sostanze chimiche e ambiente di lavoro (piombo, monossido di carbonio, nitrocomposti, derivati aromatici degli idrocarburi, diluenti e solventi, rumori, vibrazioni), fattori ormonali. neurologiche epilessia ictus psichiatriche depressione ansia disturbo di attacco di panico mania altro ipertensione arteriosa angina/infarto miocardico sindrome di raynaud asma allergie ulcera colite mastopatia fibrocistica cisti ovariche tabella i. possibili comorbilità dell’emicrania senz’aura meritano un cenno specifico le fluttuazioni ormonali mensili, fisiologiche dell’età riproduttiva femminile [8], per cui gli attacchi si manifestano più facilmente nei giorni perimestruali e nel giorno dell’ovulazione. in alcune donne i contraccettivi orali possono provocare un’accentuazione della gravità degli attacchi perimestruali [9]. la gravidanza nel 70% dei casi comporta una netta attenuazione o una scomparsa dell’emicrania senz’aura, che si ripresenterà dopo il parto o al termine del periodo di allattamento [10]. nella storia naturale dell’emicrania senz’aura si assiste a un netto miglioramento delle crisi dopo i 50-55 anni di età. una minoranza di pazienti, invece, va incontro a un peggioramento delle crisi, che può comportare la trasformazione dell’emicrania in una “cefalea cronica quotidiana” [11]. le possibili comorbilità dell’emicrania sono elencate nella tabella i: la più studiata in letteratura è la depressione [12]. gli studi epidemiologici hanno dimostrato che l’influenza tra emicrania senz’aura e depressione è bidirezionale, in quanto gli emicranici originariamente non depressi e i depressi originariamente non emicranici hanno nel corso della vita un rischio triplo, rispetto ai controlli, non emicranici e non depressi, di sviluppare rispettivamente depressione ed emicrania. l’emicrania con aura, invece, interessa circa il 3-5% della popolazione generale, con un rapporto femmine:maschi pari a circa 2:1 [13]. in quasi il 90% dei casi esordisce entro i 30 anni d’età. l’elemento distintivo è appunto l’aura, che usualmente precede la cefalea: infatti l’aura emicranica raramente inizia assieme alla cefalea, ed è costituita da una serie di sintomi neurologici, dovuti a disfunzione focale encefalica. i sintomi che costituiscono l’aura sono: sintomi visivi, sensoriali, motori, retinici, alterazioni della parola e del linguaggio, sintomi di disfunzione del tronco encefalico. la più frequente è l’aura visiva, che consiste in sintomi visivi positivi e negativi, che hanno la tendenza a ingrandirsi e spostarsi, usualmente nel giro di 20-30 minuti, da una parte all’altra del campo visivo. in alcuni casi l’aura visiva assume un aspetto che ricorda un arco luminoso o un lampo o un arcobaleno, che fothergill alla fine del xviii secolo, chiamò “spettro di fortificazione” [14]. fanno parte dell’aura visiva gli scotomi scintillanti, cioè punti o cerchi o semicerchi luminosi o scintillanti che il paziente vede nel proprio campo visivo. al termine della fase dell’aura (che usualmente dura circa 20 minuti, mai meno di 5 minuti e in genere non supera l’ora), compare la fase algica dell’emicrania. in alcuni pazienti la cefalea può mancare del tutto, si avrà allora “un’aura emicranica senza cefalea”. è evidente che per porre diagnosi di aura emicranica si deve escludere clinicamente l’attacco ischemico transitorio e la crisi epilettica [15]. in una certa percentuale di pazienti al termine di un attacco di emicrania con aura vi è una fase post-critica, della durata di ore o di qualche giorno, in cui il paziente accusa difficoltà di attenzione e concentrazione. un’attenzione nosografica a se stante ha avuto, nella classificazione, l’emicrania emiplegica, in cui la fisiopatologia dell’emiparesi transitoria è totalmente diversa dalla cortical spreading depression dell’aura emicranica: nell’aura emicranica la cortical spreading depression è un’onda di depolarizzazione che si propaga di solito nella corteccia visiva. l’emicrania emiplegica, invece, oggi è considerata una canalopatia, una patologia dovuta a una disfunzione di particolari canali di membrana presenti nei neuroni [16,17]. i pazienti possono presentare attacchi sia di emicrania senz’aura sia di emicrania con aura. a differenza dell’emicrania senz’aura, l’emicrania con aura risente molto poco del ciclo mestruale. al contrario l’assunzione di contraccettivi orali tende a peggiorare la frequenza e la durata degli attacchi [18]. la gravidanza, a differenza dell’emicrania senz’aura, non comporta alcuna riduzione della frequenza delle crisi. le comorbilità dell’emicrania con aura sono: i disturbi d’ansia (in particolare gli attacchi di panico), la pervietà del forame ovale, l’ictus (che è oggi ancora oggetto di dibattito) [19]. l’emicrania cronica è dovuta a una trasformazione dell’emicrania senz’aura da una forma accessuale, con alternanza di attacchi e giorni liberi, a una forma di tipo cronico, con rarità o mancanza di giorni liberi da cefalea. l’ipertensione arteriosa e la depressione sono due patologie che contribuiscono a cronicizzare l’emicrania. nella maggior parte dei casi le cefalee croniche sono dovute a uso eccessivo di farmaci, che si definisce come l’utilizzo per almeno tre mesi, e per circa 15 giorni/mese di un singolo fans (farmaci antinfiammatori non steroidei), o per 10 giorni/mese di analgesici, ergotaminici, triptani, oppioidi o loro prodotti di combinazione. l’uso quotidiano o quasi quotidiano per vari mesi consecutivi di alcuni dei farmaci utilizzati per bloccare gli attacchi di emicrania è in grado di innescare un circolo vizioso che porta a una cefalea continua [20]. spesso coesistono nello stesso paziente la diagnosi di cefalea cronica e la diagnosi di cefalea da uso eccessivo di farmaci. la cefalea di tipo tensivo può essere infrequente, frequente o cronica. è senza dubbio la forma di cefalea di più comune riscontro nella popolazione generale. possono essere colpite tutte le fasce d’età; il rapporto maschi:femmine è pari a 1:2 circa. i fattori psicologici e fisici sembrano svolgere un ruolo non secondario e “un accumulo di tensione psico-fisica” è quasi costantemente presente. gli elementi utili nella pratica clinica nella valutazione della cefalea di tipo tensivo sono: modalità d’esordio; andamento periodico; distribuzione del dolore (a cappa, a casco); ruolo di stress, postura, sedentarietà, attenzione, studio; ulteriori sintomi associati (senso di testa confusa, senso di instabilità); profilo psicologico. quelli sopra riportati non sono criteri diagnostici ufficiali, ma elementi clinici di ausilio nella valutazione specifica della diagnosi. fanno parte del gruppo delle cefalee autonomiche trigeminali: la cefalea a grappolo, l’emicrania parossistica, l’emicrania continua, la sunct e la suna. la cefalea a grappolo deve il suo nome alla particolare modalità di ricorrenza degli attacchi, che tendono a raggrupparsi in periodi delimitati di tempo. questo tipo di cefalea interessa 2-3 persone su 1.000, colpisce più gli uomini che le donne e interessa soprattutto l’età adulta media [21]. una caratteristica distintiva se non addirittura diagnostica è il comportamento durante l’attacco: contrariamente all’emicranico, che durante la crisi tipicamente si corica al buio e rimane immobile, il paziente con cefalea a grappolo sembra nell’impossibilità di mantenere una posizione fissa, è in continuo movimento e si presenta agitato e irritabile. le altre cefalee primarie, presenti nella classificazione, costituiscono un gruppo eterogeneo e spesso all’esordio sono valutate in pronto soccorso, pertanto è necessario escludere sempre patologie secondarie importanti, tramite le neuroimmagini. queste ulteriori cefalee primarie possono essere raggruppate in 4 categorie: cefalee associate a trazione fisica (che include la cefalea da tosse, la cefalea da esercizio fisico, la cefalea da attività sessuale, la cefalea a rombo di tuono), cefalee attribuite a stimoli fisici diretti (in questo gruppo sono incluse la cefalea da freddo, la cefalea da pressione esterna), cefalee epicraniche (ne fanno parte la cefalea a stilettata e la cefalea nummulare) e infine l’ultimo gruppo comprende cefalea indotta dal sonno e cefalea persistente di nuova insorgenza. le cefalee secondarie si parla di cefalee secondarie quando la causa del dolore cefalalgico è riconducibile a una particolare patologia, di conseguenza è necessario uno stretto rapporto temporale e causale tra la patologia in oggetto e la cefalea, che si riduce o guarisce in seguito all’opportuno trattamento terapeutico della patologia responsabile. alcuni pazienti che soffrono di cefalee primarie possono presentare cefalee secondarie. in quest’ultimo caso la cefalea primaria viene trasformata o modificata da un preciso evento o malattia. i sintomi di allarme per le cefalee da cause gravi sono: l’insorgenza dopo i 50 anni, l’esordio improvviso, l’intensità notevole (il paziente descrive il mal di testa come il peggiore mai provato), l’improvviso e sostanziale aumento della frequenza degli attacchi, l’improvviso cambiamento delle caratteristiche della cefalea, l’associazione con lo sforzo fisico (colpi di tosse, sternuti), l’aura sempre dallo stesso lato, la durata dell’aura molto breve (< 5 minuti) oppure molto lunga (> 60 minuti), la cefalea di recente insorgenza in pazienti con patologia neoplastica già diagnosticata o affetti da hiv [22]. i sintomi di allarme appena descritti si riscontrano nelle forme paucisintomatiche o atipiche. il cambiamento improvviso delle caratteristiche di una cefalea ricorrente richiede sempre un’attenta valutazione da parte del medico. infatti le lesioni endocraniche (tumori, emorragia subaracnoidea, infezioni) di solito danno origine a sintomi e storie cliniche tali da indurre nel medico il sospetto diagnostico [23]. la più frequente causa di errore nella diagnosi di patologie gravi è la non completa stesura dell’anamnesi. l’anamnesi deve essere specifica e strutturata su domande inerenti i parametri temporali, le caratteristiche, i fattori scatenanti la cefalea, la qualità di vita del paziente e lo stato di salute tra gli attacchi cefalalgici. gli strumenti a disposizione del medico di medicina generale per la valutazione delle cefalee secondarie sono: l’anamnesi, l’esame neurologico, l’uso del diario e la conoscenza delle poche patologie gravi responsabili di cefalea. nelle cefalee acute di nuova insorgenza la probabilità di individuare una causa potenzialmente grave è considerevolmente più elevata rispetto alla cefalea ricorrente. in pronto soccorso nelle situazioni di emergenza, circa il 5% dei pazienti con cefalea presenta una grave malattia neurologica di base [24]. l’esame obiettivo neurologico rappresenta il primo passo essenziale nella valutazione del paziente: qualunque anomalia neurologica dovrebbe portare all’esecuzione di una tac o di una rm encefalo. la valutazione medica generale comprende: valutazione dello status cardiovascolare e renale, mediante misurazione della pressione arteriosa ed esame delle urine, esame del fundus oculi (importante nelle sindromi da ipertensione endocranica), misurazione della pressione intraoculare e della rifrazione. dopo la visita medica generale sono importanti gli esami di laboratorio e la diagnostica per immagini. nel sospetto di un’arterite temporale è fondamentale la ricerca di un ispessimento delle arterie craniche mediante palpazione, mentre nel sospetto di un eventuale meningismo è importante la valutazione della mobilizzazione passiva del collo. naturalmente è prioritario distinguere le eziologie gravi da quelle benigne attraverso l’attenta valutazione di qualità, sede, durata, decorso temporale della cefalea e condizioni che esacerbano o mitigano la sintomatologia cefalalgica [25]. quindi la raccolta dell’anamnesi risulta, in medicina generale, l’aspetto fondamentale per la costruzione dell’ipotesi diagnostica. la tabella ii elenca le domande che occorre formulare per la raccolta dell’anamnesi. domande sui parametri temporali della cefalea perché una consulenza adesso? a quando risale l’insorgenza dell’attacco? qual è la durata? quali sono la frequenza e il profilo temporale dell’attacco? domande sulle caratteristiche della cefalea intensità del dolore tipo di dolore sede di insorgenza e diffusione sintomi associati domande sulle cause della cefalea storia familiare di cefalea simile fattori predisponenti e/o scatenanti fattori che aggravano e/o migliorano l’attacco domande sulle reazioni del paziente in che misura la sua attività è limitata o impedita? come si comporta durante l’attacco? quali farmaci sta usando o ha usato e in che modo? domande sullo stato di salute tra gli attacchi risoluzione completa, sintomi residui ansia, paura di attacchi ricorrenti tabella ii. domande per la raccolta dell’anamnesi un primo importante orientamento diagnostico consiste nell’accertare se l’episodio di “dolore alla testa” che porta il paziente all’osservazione del medico sia una situazione acuta, completamente nuova per il paziente, completamente diversa da eventuali cefalee precedenti, e quindi potenzialmente sintomatica di una precisa situazione patologica (ad esempio un’emorragia subaracnoidea o un tumore cerebrale) oppure sia una cefalea di cui il paziente ha sofferto in precedenza, in forma episodica, ricorrente o continua. a questo proposito è utile l’analisi dell’andamento nel tempo del dolore: la cefalea da lesione occupante spazio ha una sua massima intensità al risveglio e generalmente ha un andamento progressivo [26]. un altro elemento diagnostico importante è determinare come è iniziato il dolore (traumi, coito, sforzi fisici) e ricercare segni e sintomi di accompagnamento quali segni meningei, compromissione dello stato di coscienza, vomito, febbre o grave ipertensione arteriosa. la presenza di segni neurologici a focolaio deve sempre far sospettare una causa primitiva, di cui la cefalea è sintomo secondario [27]. le cefalee secondarie possono essere distinte in cefalee attribuite a traumi cranici e del collo, cefalee attribuite a patologie vascolari, cefalee attribuite a tossici esogeni, cefalee attribuite a malattie non vascolari intracraniche, cefalee da uso eccessivo di farmaci, cefalee attribuite a malattie infettive, cefalee attribuite ad alterazione dell’omeostasi e infine cefalee attribuite a cause locali e cefalee attribuite a malattie psichiatriche. la cefalea attribuita a trauma cranico è frequentemente accompagnata da un corteo sintomatologico noto come sindrome post-traumatica, identificata da: incertezza posturale, difficoltà a concentrarsi, nervosismo, alterazioni dell’umore, insonnia. questo tipo di cefalea in circa l’80% dei casi è di tipo tensivo. un ruolo importante è giocato dai meccanismi legati all’indennizzo: nei paesi dove l’indennizzo non esiste la frequenza della cefalea post-traumatica è minore. la cefalea attribuita a malattie vascolari del cranio e del collo ha il suo esordio in coincidenza temporale con un evento vascolare, quale uno ictus (o ischemico o emorragico), un attacco ischemico transitorio, un’emorragia subaracnoidea, o in seguito al riscontro anatomico alle neuroimmagini di una malformazione vascolare (come un’aneurisma, una malformazione artero-venosa, una fistola artero-venosa, un angioma cavernoso) o in seguito a una patologia delle arterie (come un’arterite a cellule giganti, un’angite), a una trombosi delle vene o dei seni venosi cerebrali o in seguito a una sindrome complessa quale il cadasil (cerebral autosomal dominant arteriopathy with subcortical infarcts and leucoencephalopathy) [28] o la melas (mitochondrial encephalopathy, lactic acidosis and stroke-like episodes) [29]. un cenno particolare merita la dissecazione dei vasi sopra-aortici, che spesso si manifesta con un dolore al collo come sintomo di esordio; il dolore può precedere di diverse ore l’insorgenza del deficit neurologico. le cefalee attribuite a malattie non vascolari intracraniche originano da modificazioni della pressione intracranica, che può aumentare (come nell’idrocefalo idiopatico, secondario e nell’ipertensione endocranica benigna) o diminuire (come nella sottrazione di liquor in seguito a puntura lombare o nell’ipotensione liquorale idiopatica). le cefalee attribuite a tossici esogeni possono presentarsi sia per l’uso o l’esposizione a determinate sostanze, sia per la sospensione della loro assunzione. una forma caratteristica è la cefalea da ossido nitrico (no), indotta da molte sostanze donatrici di no, in particolare la nitroglicerina, capace di indurre cefalea sia in soggetti emicranici sia in non emicranici, ma anche dipiridamolo e sildenafil (viagra®), ad esempio, possono indurre cefalea. una forma molto frequente e di notevole importanza socio-sanitaria è la cefalea da uso eccessivo di farmaci, nei casi in cui il paziente assuma farmaci sintomatici per più di 10-15 giorni al mese [30]. le cefalee attribuite a malattie infettive sono molto comuni: la cefalea si associa di solito sia alla banale influenza sia alle forme gravi di sepsi generalizzata. nelle forme infettive intracraniche la cefalea è in genere il sintomo più precoce e più frequente. le cefalee attribuite a un’alterazione dell’omeostasi comprendono ad esempio: le cefalee indotte dall’altitudine elevata, dall’esercizio di attività subacquee, dalle apnee da sonno, dal trattamento dialitico, dall’ipertensione arteriosa, dall’encefalopatia ipertensiva, dal feocromocitoma, dal digiuno. infine ci sono le cefalee attribuite a cause locali indotte, ad esempio dal glaucoma, dalle pulpiti, dalle sinusiti, ecc. conclusioni la nuova classificazione ihs 2013 può essere l’occasione per migliorare l’accuratezza della diagnosi dei mmg. il primo compito del medico è quello di escludere le cefalee secondarie a cause gravi. gli errori diagnostici possono essere evitati con una procedura standard centrata sull’anamnesi strutturata specificatamente, accompagnata da un completo esame obiettivo. nell’ambito della medicina generale dovrebbero essere gestite le cefalee più frequenti con sintomatologia tipica, soprattutto emicrania e cefalea di tipo tensivo. inoltre è possibile migliorare l’implementazione della nuova classificazione ridefinendo i compiti specifici del medico generico nella gestione delle cefalee. bibliografia 1. classification and diagnostic criteria for headache disorders, cranial neuralgias and facial pain. headache classification committee of the international headache society. cephalalgia 1988; 8 (supp7): 1-96 2. headache classification subcommitte of the international headache society. the international classification of headache disorders. cephalalgia 2004; 24 (suppl.1): 9-160 3. headache classification committee of the international headache society (ihs). the international classification of headache disorders, 3rd edition (beta version). cephalalgia 2013; 33: 629-808 4. surace ma, fumagalli e, mazzoleni f. criticità nella gestione delle cefalee in medicina generale. rivista simg 2008; 1: 11-5 5. bianco a, parente mm, de caro e, et al. evidence-based medicine and headache patient management by general practitioners in italy. cephalalgia 2005; 25: 767-75; http://dx.doi.org/10.1111/j.1468-2982.2005.00972.x 6. harrison tr, fauci 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correction can be associated with serious complications, such as the osmotic demyelination syndrome. here, we report the case of a 79-year-old woman with hyponatremia admitted to the emergency department of the university hospital in florence. after an accurate diagnostic work-up a diagnosis of syndrome of inappropriate antidiuresis (siad), probably related to pneumonia, was made. hyponatremia was initially treated with hypertonic saline infusion and then with fluid restriction. in consideration of the poor response to fluid restriction, treatment with tolvaptan was started. sodium levels normalized within a few days and the patient was discharged from the hospital soon after. keywords: hyponatremia; siad; fluid restriction; vaptans hyponatremia: a case report of siad cmi 2013; 7(2): 41-52 caso clinico corresponding author dott. gabriele parenti gabrieleparenti@libero.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. perché descriviamo questo caso? l’iponatremia è un disordine elettrolitico di frequente riscontro nella pratica clinica ed è associato a un’elevata morbilità e mortalità soprattutto in pazienti con patologie coesistenti. anche forme lievi di iponatrema, tradizionalmente considerate asintomatiche, possono in realtà associarsi ad incertezza nell'andatura, maggior rischio di cadute, perdita di massa ossea e incremento del rischio di fratture. nonostante ciò, l’inquadramento diagnostico e la terapia sono spesso approssimativi e talvolta, soprattutto nei casi lievi, tralasciati. una più approfondita conoscenza dei meccanismi fisiopatologici alla base delle diverse forme di iponatremia può permettere un’ottimizzazione dell’approccio diagnostico-terapeutico descrizione del caso una donna di 79 anni giunge in pronto soccorso (ps) per stato confusionale e andatura incerta associati a febbricola e tosse persistente ormai da circa 10 giorni. in anamnesi patologica remota si segnala la presenza di ipotiroidismo primitivo autoimmune in terapia sostitutiva con l-tiroxina, ipertensione arteriosa in trattamento farmacologico con beta-bloccante e antagonista recettoriale dell’angiotensina ii e osteoporosi in terapia con alendronato. al ps la paziente viene sottoposta a tc cranio che rileva un quadro di sofferenza sottocorticale diffusa su base vascolare-degenerativa, un rx torace da cui emerge un modesto versamento pleurico a destra ed esami ematochimici che rilevano la presenza di grave iposodiemia (110 meq/l). viene quindi trasferita nel reparto di medicina interna per la prosecuzione degli accertamenti e delle cure. all’esame obiettivo la paziente appare vigile ma con evidente rallentamento ideo-motorio; riferita presenza di cefalea; mucose normoidratate; assenza di edemi declivi; peso corporeo 60 kg; pa 160/80 mmhg; fc 50 battiti/minuto; temperatura 37,5°c; al torace presenza di crepitii bibasilari; negativa l’obiettività addominale. gli esami di laboratorio (riportati nella tabella i) confermano la presenza di iposodiemia. parametri valori della paziente range di normalità emoglobina 11 g/dl 12-16 ematocrito 31,4 % 36-46 glicemia 82 mg/dl 65-110 creatinina 0,37 mg/dl 0,48-1,03 proteine totali 5,6 g/l 6-8,6 urea 15 mg/dl 10-50 sodio 111 meq/l 136-145 potassio 4,0 meq/l 3,5-5,3 acido urico 2,2 mg/dl 3,5-6,5 got 46 u/l 5-40 gpt 38 u/l 5-40 gamma-gt 45 u/l 10-40 colesterolo totale 219 mg/dl 160-220 ldl 117 mg/dl 60-190 hdl 91 mg/dl > 35 trigliceridi 54 mg/dl 50-170 tabella i. esami ematochimici di “primo livello” della paziente parametri valori della paziente range di normalità tsh 6,06 mu/l 0,35-3,5 ft4 15,7 pmol/l 10,3-19,4 cortisolo plasmatico ore 8 732 nmol/l 160-690 osmolalità plasmatica 237 mosm/kg 285-295 osmolalità urinaria 410 mosm/kg 300-1100 sodio urinario 152 meq/l potassio urinario 25 meq/l tabella ii. esami biochimici di “secondo livello” della paziente viene intrapresa terapia con soluzione salina ipertonica al 3% (alla velocità di 35 ml/h), furosemide e.v. e levofloxacina. i valori di sodiemia vengono strettamente monitorati nel corso dell’infusione e dopo 36 ore, al raggiungimento di valori di 123 meq/l, l’infusione di salina ipertonica viene sospesa. la paziente viene sottoposta a ulteriori esami biochimici (tabella ii) e a una tc torace/addome che rileva la presenza di sfumati addensamenti a livello del segmento apicale del lobo superiore destro. sulla base di questi ulteriori dati viene posta diagnosi di siad (sindrome da inappropriata antidiuresi). sospesa l’infusione di soluzione salina ipertonica, la paziente inizia restrizione idrica (800 ml nelle 24 ore), ma dopo 6 giorni la sodiemia risulta essere ancora 125 meq/l. per tale motivo viene deciso di iniziare terapia con tolvaptan alla dose di 15 mg/die, successivamente incrementata a 30 mg/die a causa della insufficiente risposta. nella figura 1 è riportato l’andamento della sodiemia nel corso di tutto il periodo di trattamento, mentre nella figura 2 sono riportate in modo più specifico le variazioni della sodiemia nelle prime 72 ore di terapia con tolvaptan. i valori di sodio si normalizzano dopo circa 3 giorni dall’inizio del tolvaptan (136 meq/l). figura 1. andamento della sodiemia nel corso di tutto il periodo di trattamento figura 2. andamento della sodiemia nelle prime ore dall’inizio della terapia con tolvaptan la terapia con tolvaptan viene pertanto ridotta a 15 mg/die e successivamente a 15 mg a giorni alterni. nella figura 3 vengono riportate le variazioni della creatininemia e l’andamento della diuresi nel corso della prima settimana di terapia con tolvaptan. contestualmente al miglioramento dei parametri biochimici nel corso della degenza si assiste a significativo miglioramento del quadro clinico, in particolare dello stato cognitivo e della stabilità posturale durante deambulazione. la paziente viene pertanto dimessa. dopo alcuni giorni dalla dimissione, data la persistenza di normali valori di natremia, tolvaptan viene sospeso e il successivo follow-up biochimico conferma il mantenimento di valori nei limiti, senza specifiche limitazioni all’apporto idrico (a tre mesi dalla dimissione sodiemia 136 meq/l). un successivo controllo tc torace rileva regressione degli addensamenti polmonari e del versamento pleurico. figura 3. andamento della creatininemia e della diuresi/24 ore nel corso della prima settimana di terapia con tolvaptan discussione introduzione l’iponatremia, definita come una riduzione dei livelli di sodio plasmatico al di sotto di 136 meq/l, rappresenta uno dei disordini elettrolitici di più frequente riscontro nella pratica clinica. si stima che in ambito ospedaliero circa il 15-30% dei pazienti presenti forme lievi di iponatremia (sodiemia compresa tra 130 e 135 meq/l), mentre quadri più rilevanti (<130 meq/l) siano riscontrabili in circa il 7% dei pazienti [1]. l’iponatremia costituisce un rilevante problema clinico poiché si associa a un’aumentata morbilità e mortalità. forme severe e acute di questo disordine elettrolitico rappresentano una vera e propria emergenza clinica che può esitare anche verso l’exitus se non prontamente riconosciute e trattate. ma anche forme più lievi di iponatremia, generalmente considerate “asintomatiche”, possono in realtà associarsi a quadri di instabilità durante deambulazione, a disturbi dell’attenzione [2], ad incremento del rischio di cadute, nonché a perdita di massa ossea e a fratture da fragilità [3-6]. classificazione e fisiopatologia una prima classificazione dell’iponatremia si basa sulla valutazione dell’osmolalità plasmatica: considerando infatti questo parametro le iponatremie possono essere suddivise in forme ipotoniche (osmolalità plasmatica ridotta) e forme non ipotoniche (osmolalità plasmatica normale/aumentata) [7]. la formula utilizzata per il calcolo dell’osmolalità plasmatica è la seguente: sodiemia espressa in meq/l urea espressa in mg/dl glicemia espressa in mg/dl   considerando tale formula, possiamo ben comprendere come tutte le condizioni che si associano a una reale riduzione delle concentrazioni plasmatiche di questo elettrolita debbano inevitabilmente determinare uno stato di “ipotonicità”. sulla base di tale presupposto, solo le forme di iponatremia ipotonica devono essere considerate “vere”, mentre quelle non ipotoniche sono espressione di altre problematiche che determinano una “falsa” riduzione della sodiemia. le iponatremie non ipotoniche comprendono: iponatremie ipertoniche: si caratterizzano per la presenza nell’ambiente extracellulare di soluti osmoticamente attivi che, richiamando acqua dal compartimento intracellulare, determinano una diluizione delle concentrazioni di sodio plasmatico (es. stati di grave iperglicemia o forme iatrogene indotte dall’utilizzo di mezzi di contrasto o mannitolo); iponatremie isotoniche: legate al riassorbimento nel compartimento extracellulare di liquidi sodio-privi, come ad esempio quelli utilizzati nel corso di interventi di resezione prostatica trans uretrale; pseudoiponatremie: espressione di un artefatto di laboratorio che si verifica in condizioni patologiche caratterizzate da un incremento della fase solida del plasma (gravi dislipidemie o iperprotidemie). in tali circostanze l’utilizzo di metodiche di potenziometria indiretta per il dosaggio della sodiemia comporta una sottostima dei livelli plasmatici. l’utilizzo invece di potenziometri diretti, come quelli presenti ad esempio negli emogasanalizzatori, permette di ovviare a tale inconveniente fornendo una misura reale della sodiemia. le iponatremie ipotoniche (“vere”) sono invece sempre espressione di un eccesso di acqua rispetto al contenuto corporeo di sodio che può essere diminuito, normale o addirittura aumentato [7]. tale squilibrio può verificarsi per un eccessivo introito di liquidi o, assai più frequentemente, per un’alterata capacità escretoria renale di acqua. il primo meccanismo di per sé difficilmente è causa di iponatremia, in quanto un rene normalmente funzionante è in grado di eliminare un notevole carico idrico (fino a circa 15 l/die). pertanto i soggetti polidipsici e iponatremici spesso presentano altri fattori associati in grado di interferire sulla capacità del rene di eliminare acqua libera. l’esempio prototipico è costituito da condizioni di malnutrizione (in particolare proteica) che, riducendo il carico osmotico tubulare renale, impediscono anche una normale eliminazione di acqua libera. le iponatremie ipotoniche vengono suddivise sulla base dello stato del volume extracellulare in forme euvolemiche, ipovolemiche e ipervolemiche (tabella iii) [8]. tipologie di iponatremie ipotoniche maggiori cause di iponatremia forme ipovolemiche perdite gastrointestinali gravi ustioni diuretici nefropatie sodio-disperdenti malattia di addison sindrome da perdita cerebrale di sodio forme ipervolemiche cirrosi epatica scompenso cardiaco congestizio insufficienza renale sindrome nefrosica forme euvolemiche siad ipocortisolismo ipotiroidismo tabella iii. le cause più importanti di iponatremia suddivise sulla base dello stato del volume extracellulare le forme ipovolemiche si caratterizzano per una riduzione del volume extracellulare conseguente a una perdita di sodio (cutanea, gastrointestinale o renale) in eccesso rispetto all’acqua. la riduzione della volemia e della pressione arteriosa determina uno stimolo alla secrezione di ormone antidiuretico (adh) che, riducendo l’escrezione renale di acqua libera, favorisce lo sviluppo di iponatremia. i diuretici tiazidici sono una frequente causa di iponatremia in particolare nei pazienti anziani: fattori diuretico-dipendenti (aumentata escrezione renale di sodio, stimolo sulla secrezione di adh), associati a fattori legati al paziente (alterata capacità età-correlata di eliminazione di acqua libera, eccessivo intake di acqua) rappresentano verosimilmente una spiegazione alla patogenesi di queste forme di iponatremia [9]. le forme ipervolemiche si caratterizzano invece per un incremento del volume extracellulare conseguente a una ritenzione di acqua in eccesso rispetto al sodio, il cui contenuto corporeo è comunque incrementato. le patologie che determinano questi stati si associano a una riduzione della volemia “efficace” con conseguente stimolo alla secrezione di adh e all’attivazione del sistema renina-angiotensina. infine le forme euvolemiche si caratterizzano per un lieve eccesso di acqua rispetto al contenuto corporeo di sodio (che risulta normale). tali forme sono espressione di una inappropriata (per i valori di osmolalità plasmatica) secrezione di adh. accanto alla siad, sono compresi nel contesto delle forme euvolemiche anche l’ipocortisolismo e l’ipotiroidismo. l’ipocortisolismo determina una sindrome siad-like sia per un aumento della produzione di adh secondario alla perdita del tono inibitorio esercitato dal cortisolo sulla produzione di adh, sia per un incremento dell’espressione dell’aquaporina 2 (aqp-2) ossia dell’effettore finale dell’azione dell’adh a livello dei dotti collettori renali [10]. l’ipotiroidismo è molto raramente causa di iponatremia: il deficit di ormoni tiroidei stimola la secrezione di adh tramite una riduzione della volemia efficace e della gittata cardiaca. manifestazioni cliniche le manifestazioni cliniche dell’iponatremia sono principalmente neurologiche e dipendono in particolar modo dalla severità dell’iponatremia e dalla rapidità di insorgenza del disturbo elettrolitico. i neuroni sono molto sensibili alla riduzione della tonicità plasmatica e al conseguente edema cellulare che ne deriva. in tali situazioni si assiste a un aumento della pressione intracranica che può esitare in un vero e proprio danno strutturale cerebrale. pazienti con iponatremia lieve (130-135 meq/l) e cronica (> 48 ore) in linea generale sono considerati “asintomatici” pur potendo presentare, come precedentemente riportato, andatura incerta, disturbi dell’attenzione e un maggior rischio di cadute. astenia, malessere generale, anoressia e nausea sono spesso le prime manifestazioni rilevabili quando di livelli di sodiemia raggiungono valori compresi tra 120 e 130 meq/l. la disgeusia è un segno raro di iponatremia, ma riportato in letteratura [11]. in condizioni di grave iposodiemia (< 120 meq/l) si associano cefalea, letargia e disorientamento. quando livelli molto bassi di sodiemia vengono raggiunti in modo acuto (< 48 ore) possono comparire convulsioni, coma, erniazioni cerebrali e si può arrivare all’arresto respiratorio e alla morte [12]. è proprio la rapidità con cui si instaura l’iponatremia a rivestire un ruolo determinante; non è infrequente riscontrare nella pratica clinica soggetti che, pur presentando forme gravi ma croniche di iposodiemia, appaiono scarsamente sintomatici. ciò dipende dalla capacità di “adattamento” delle cellule cerebrali a situazioni di cronica riduzione della tonicità plasmatica. in tali circostanze infatti i neuroni sono in grado di dismettere nell’ambiente extracellulare soluti osmoticamente attivi (inizialmente elettroliti, quindi soluti organici), limitando così l’ingresso di acqua al loro interno [13]. la conoscenza di tale aspetto è fondamentale nel momento in cui ci si appresta a correggere l’iponatremia. infatti una troppo rapida correzione del disturbo elettrolitico può determinare un gradiente osmotico inverso cui segue grave disidratazione cellulare. questo è il presupposto alla base dei processi di mielinolisi pontina ed extrapontina, che rappresentano gravi e talvolta fatali complicanze di una non idonea correzione di una iponatremia [14]. sindrome da inappropriata antidiuresi (siad) iponatremia ipotonica (< 275 mosm/kg) osmolalità urinaria > 100 mosm/kg sodio urinario > 30 meq/l con normale apporto di sodio e acqua normale funzione renale, surrenalica, tiroidea non utilizzo di diuretici condizione clinica di euvolemia tabella iv. criteri diagnostici principali di siad una citazione a parte merita la siad, che è alla base di circa il 40% delle forme di iponatremia ipotonica. si tratta di un disordine dell’omeostasi idrosalina caratterizzata da una “inappropriata” (in relazione ai livelli di tonicità plasmatica) secrezione di adh [15-16]. il termine siad è stato di recente proposto come alternativa al più conosciuto siadh (sindrome da inappropriata secrezione di adh), in seguito alla dimostrazione di rare forme di tale patologia conseguenti a mutazioni attivanti del recettore dell’adh e pertanto caratterizzate da livelli indosabili di adh [17]. nella tabella iv sono riportati i criteri diagnostici principali di questa affezione, mentre nella tabella v sono riportate le cause che più frequentemente determinano siad. sono stati identificati quattro diversi pattern secretori di adh nei pazienti affetti da questa patologia. il pattern di tipo a (40-70% dei casi) si caratterizza per una secrezione di adh totalmente casuale e completamente svincolata da ogni meccanismo di regolazione (tipica delle forme paraneoplastiche). nel pattern di tipo b (20-30% dei casi), invece, viene mantenuta una relazione tra osmolalità plasmatica e secrezione di adh, ma a un livello più basso. in altre parole in tali pazienti vengono percepiti come “normali” valori di sodiemia compresi tra 125-130 meq/l e pertanto risulta impossibile raggiungere una condizione di normosodiemia (condizioni ad esempio riscontrabili in pazienti anziani affetti da patologie degenerative cerebrali). il pattern di tipo c (raro) si caratterizza per una normale osmoregolazione della secrezione di adh cui però si associa un’incapacità a inibire la secrezione in situazioni di ipotonicità (ad esempio riscontrabile in patologie del sistema nervoso centrale che possono danneggiare neuroni inibitori osmoregolatori). infine il pattern di tipo d (assai raro) tipico delle già citate mutazioni attivanti del recettore dell’adh, si caratterizza appunto per la presenza di valori bassi/indosabili di adh. neoplasie (secrezione ectopica di adh) polmonari (microcitoma) gastro-intestinali pancreatiche genito-urinarie ematologiche (linfomi, leucemie) patologie polmonari infezioni (polmoniti, tubercolosi, ascessi) pneumotorace vasculiti ventilazione a pressione positiva patologie del sistema nervoso centrale neoplasie infezioni vasculiti emorragie (ematomi subdurali, emorragia subaracnoidea) traumi cranici farmaci inibitori re-uptake serotonina oppioidi anticonvulsivanti (carbamazepina, levetiracetam) neurolettici antidepressivi triciclici antiblastici (vincristina, ciclofosfamide) desmopressina miscellanea dolore nausea idiopatica infezioni in generale aids tabella v. cause di siad diagnosi l’approccio al paziente iponatremico deve iniziare dalla raccolta di un’accurata anamnesi: in primis è importante valutare l’eventuale assunzione di farmaci (con particolare riferimento a diuretici tiazidici e a farmaci in grado di determinare siad, come ad esempio inibitori del re-uptake della serotonina, carbamazepina, ecc.), quindi ricercare la presenza di patologie eventualmente in grado di associarsi a iponatremia (neoplasie, patologie del snc, polmonari, renali, del tratto gastrointestinale, infezioni, scompenso cardiaco, cirrosi, ipotiroidismo, iposurrenalismo). l’esame obiettivo è importante per acquisire informazioni sullo stato del volume extracellulare. la valutazione della pressione arteriosa (insieme alla ricerca di ipotensione ortostatica), della frequenza cardiaca, del tempo di riempimento capillare, il grado di idratazione delle mucose, lo stato delle vene giugulari, la presenza o meno di edemi (diffusi o localizzati) sono aspetti di fondamentale importanza in quest’ottica. nonostante ciò può essere difficile la distinzione tra condizioni di euvolemia e situazioni di moderata ipovolemia. il calcolo della pressione venosa centrale sarebbe in tali circostanze fondamentale, ma non sempre è disponibile nella pratica clinica. il successivo passo nell’inquadramento diagnostico è rappresentato dagli accertamenti biochimici. oltre agli esami di “routine” quali glicemia, assetto lipidico, proteine totali (per escludere cause di iponatremia non ipotonica), creatininemia, urea, transaminasi, gamma-gt, potassiemia, uricemia, è importante effettuare il dosaggio dell’osmolalità urinaria, degli elettroliti urinari, nonché eseguire valutazione della funzionalità tiroidea (tsh, ft4) e surrenalica (cortisolo plasmatico ore 8). terapia tradizionale delle iponatremie ipotoniche un aspetto estremamente importante nell’approccio terapeutico al paziente iponatremico è rappresentato dalla velocità con cui correggere il disordine elettrolitico. abbiamo infatti visto come le cellule cerebrali siano da un lato molto sensibili al danno derivante dall’edema cellulare, dall’altro possano andare incontro a danni irreversibili qualora una condizione di cronica ipotonicità venga troppo rapidamente corretta. in linea generale in situazioni di iponatremia asintomatica e cronica (> 48 ore) è suggeribile incrementare la sodiemia di 0,5 meq/l/h non oltrepassando comunque gli 8 meq nelle 24 ore [7]. nelle forme di iponatremia acuta (< 48 ore), ma soprattutto sintomatica, un incremento fino a 2 meq/l/h nelle prime fasi è invece suggeribile [12]. è evidente pertanto l’importanza di ricercare in tutti i pazienti i segni e sintomi di sofferenza neurologica, presupposto che permetterà di differenziare l’approccio terapeutico delle iponatremie sintomatiche da quello delle forme asintomatiche. altra premessa importante è quella di attuare fin da subito, e quando possibile, una terapia eziologica: pertanto la sospensione (se possibile) di farmaci “iposodiemizzanti” così come l’immediato inizio di terapia sostitutiva in pazienti ipotiroidei o iposurrenalici rappresentano aspetti da considerare sempre. terapia delle forme “asintomatiche” di iponatremia euvolemica/ipervolemica la restrizione idrica rappresenta l’approccio di primo livello in questi pazienti. inizialmente è consigliabile una riduzione dell’apporto di liquidi sia per os sia endovena, a 800-1000 cc/die, ma nei giorni successivi, in particolare nei pazienti ospedalizzati, l’entità della restrizione potrà essere calcolata sulla base della diuresi (diuresi/24h 500 cc) [18]. la formula per il calcolo dell’escrezione renale di acqua libera è la seguente: cal = clearance dell'acqua libera v= volume urinario/24 ore naur=sodio urinario (meq/l) kur= potassio urinario (meq/l) napl= sodio plasmatico (meq/l)   appare evidente come in condizioni in cui il rapporto tra elettroliti urinari (sodio, potassio) e la sodiemia è superiore a 1, il rene non è in grado di eliminare acqua libera. la valutazione di questo rapporto è pertanto utile nella pratica clinica per avere un’idea della risposta del singolo paziente alla restrizione idrica [19]. infatti, come emerge dalla tabella vi, nei soggetti con valori del rapporto > 1, ogni minimo apporto di liquidi sarà comunque da considerarsi “eccessivo” ai fini della correzione dell’iponatremia. valore del rapporto [(sodiuria+potassiuria)/sodiemia] perspiratio insensibilis (ml) perdita di acqua prevista (ml) consumo di acqua raccomandato (ml) > 1,0 800 800 0 0,5 – 1,0 800 800-1.300 fino a 500 < 0,5 800 1.300-1.500 fino a 1.000 tabella vi. restrizione idrica suggerita sulla base del rapporto tra elettroliti urinari e sodiemia. modificato da [19] nei soggetti euvolemici, se non controindicato, potrà essere incrementato anche l’apporto di sodio con la dieta, mentre nei soggetti ipervolemici è indicato l’utilizzo di diuretici dell’ansa, che sono in grado di indurre una diuresi a basso contenuto di sodio. oltre al fatto di non essere sempre efficace, la restrizione idrica è spesso anche mal tollerata dal paziente nel lungo termine. per tale motivo negli anni sono stati considerati approcci alternativi: tra questi ricordiamo la demeclociclina, derivato delle tetracicline (peraltro non più in commercio in italia), in grado di determinare diabete insipido nefrogenico in una buona percentuale di pazienti; il litio, capace di ridurre l’espressione adh-mediata di aqp-2 a livello dei dotti collettori renali, o la fenitoina capace di ridurre la secrezione di adh. tuttavia gli effetti collaterali (in particolare nefrotossicità per demeclociclina e litio), la variabilità della risposta clinica nonché la latenza della stessa (circa una settimana per la demeclociclina), hanno sempre limitato l’utilizzo di questi farmaci. anche l’urea al dosaggio di 30 g/die, è in grado di correggere l’iponatremia incrementando l’escrezione di acqua libera e riducendo l’escrezione di sodio a livello renale. tuttavia la scarsa palatabilità, gli effetti collaterali gastrointestinali e il rischio di sviluppare uremia alle alte dosi, ne hanno limitato l’impiego clinico. terapia delle forme “sintomatiche” di iponatremia euvolemica/ipervolemica il trattamento di prima scelta in questi pazienti è rappresentato dall’infusione di soluzione salina ipertonica al 3% [18]. tale infusione può associarsi, e nel caso delle forme ipervolemiche deve essere anticipata, dalla somministrazione di diuretici dell’ansa e.v., allo scopo di limitare l’espansione del volume circolante. la velocità di infusione della soluzione salina al 3% può essere calcolata con l’utilizzo di una specifica formula: vsa = variazione della sodiemia attesa dopo 1 litro di salina ipertonica al 3% sodio infuso = 513 meq/l acqua corporea totale = frazione del peso corporeo (la frazione è rispettivamente 0,6 e 0,5 per uomini e donne adulte; 0,5 e 0,45 per uomini e donne in età avanzata)   i parametri clinici e biochimici del paziente devono essere strettamente monitorati nel corso dell’infusione: in tali circostanze è infatti raccomandabile un controllo della sodiemia ogni 2-4 ore (aiutandosi anche con strumenti a “rapida” risposta come l’emogasanalizzatore). ciò permetterà di modificare la velocità di infusione della salina ipertonica con l’obiettivo di rispettare i già citati limiti di incremento della sodiemia. l’infusione di ipertonica potrà essere interrotta al raggiungimento di valori di sodiemia > 120 meq/l, quando il paziente diviene asintomatico o quando si raggiunge un incremento globale ³ 20 meq/l. la novità terapeutica: i vaptani i vaptani, antagonisti non peptidici del recettore v2 dell’adh, rappresentano la nuova frontiera terapeutica delle iponatremie eue ipervolemiche [16]. bloccando il recettore v2 espresso sulle cellule dei dotti collettori renali, questi farmaci impediscono la traslocazione di aqp-2 sulla membrana luminale delle stesse cellule favorendo così l’eliminazione di acqua libera da soluti. questo effetto definito “acquaretico” è pertanto differente da quello ottenibile con l’utilizzo dei diuretici. nel contesto di questa famiglia di farmaci sono compresi antagonisti selettivi del recettore v2 come tolvaptan, lixivaptan, satavaptan e un antagonista misto in grado di agire sui recettori v2 e v1a, conivaptan. quest’ultimo, proprio grazie al blocco di v1a, è anche in grado di ridurre le resistenze vascolari periferiche e incrementare la gittata cardiaca, presupposti che sono alla base del suo utilizzo nei pazienti affetti da scompenso cardiaco congestizio [20]. in italia nel 2009 la commissione europea del farmaco ha approvato l’utilizzo di tolvaptan per il trattamento dell’iponatremia secondaria a siad. ad oggi tolvaptan è l’unico vaptano approvato in europa. l’efficacia e la sicurezza clinica di tolvaptan sono state confermate nell’ambito di specifici trial clinici [21-24]. il farmaco, disponibile in compresse da 15 e 30 mg, deve essere inizialmente somministrato in regime di ricovero ospedaliero, per la necessità nei primi giorni di monitorare strettamente la sodiemia e titolare in modo adeguato il dosaggio. considerando l’effetto farmacologico, è importante che di norma il paziente non abbia nel corso del trattamento limitazione all’apporto di liquidi e ciò deve essere in particolare ricordato a quei soggetti precedentemente trattati con restrizione idrica. gli effetti collaterali più frequenti sono rappresentati dalla sete, dalla secchezza delle mucose e dall’incremento della diuresi, effetti peraltro in accordo con quella che è l’azione specifica del farmaco. raramente si assiste a un incremento della sodiemia che superi i limiti consentiti di correzione. deve essere aggiunto che nei pazienti con iponatremia grave e sintomatica, il gold standard terapeutico rimane l’infusione salina ipertonica al 3%, mentre tolvaptan trova indicazione nelle forme di siad caratterizzate da iponatremia moderata in alternativa alla salina ipertonica o nelle forme lievi, pauci-sintomatiche o asintomatiche, quando la restrizione idrica non fornisce una risposta adeguata e/o è scarsamente tollerata dal paziente. terapia delle iponatremie ipovolemiche in questi pazienti la terapia è basata sulla correzione della patologia primitiva responsabile e sulla re-idratazione con soluzione fisiologica allo 0,9%. in tal caso la presenza o meno di sintomatologia neurologica, influenzerà esclusivamente la velocità con cui correggere la disionia. analisi del caso clinico prime domande da porsi di fronte a un paziente con iponatremia si tratta di una iponatremia ipotonica? il paziente presenta patologie o assume farmaci in grado di spiegare la presenza di iponatremia? qual è lo stato del volume extracellullare? è una forma acuta o cronica? è presente sintomatologia neurologica? nel caso clinico precedentemente descritto la paziente accede al ps con un quadro di grave iponatremia. non assume farmaci potenzialmente in grado di giustificare o contribuire al disordine elettrolitico e i valori di osmolalità plasmatica “calcolata” confermano trattarsi di una iponatremia ipotonica. l’esame obiettivo è suggestivo di una forma euvolemica e gli stessi esami ematochimici di “routine” (ridotti livelli creatininemia, urea al limite inferiore della norma, ipouricemia) sono in accordo con un quadro di “modesto eccesso” di acqua. la paziente presenta un ipotiroidismo primitivo che seppur in non ottimale compenso con la terapia sostitutiva in atto (vedi valori di tsh) non è ovviamente in grado di giustificare la disionia. i livelli di cortisolo plasmatico ore 8 permettono invece di escludere la presenza di un ipocortisolismo. sulla base di ciò, e considerando i valori di osmolalità urinaria e sodiuria, è pertanto possibile porre diagnosi di siad. vengono quindi effettuati ulteriori accertamenti che permettono di identificare la presenza di affezioni in grado di determinare la comparsa di siad, in particolar modo la presenza di una patologia polmonare acuta (vedi il processo bronco-pneumonico). come fattore di rischio aggiuntivo per lo sviluppo di siad può essere considerata anche la presenza di una patologia cerebrale cronica (“sofferenza sottocorticale diffusa su base vascolare-degenerativa”). i bassi livelli di sodiemia, ma soprattutto la presenza di “sintomi” (cefalea, confusione mentale, disequilibrio), suggeriscono nell’approccio terapeutico iniziale l’utilizzo di soluzione salina ipertonica. ovviamente importante è anche il precoce inizio di terapia antibiotica ad ampio spettro. la sodiemia viene incrementata rispettando i criteri suggeriti e la salina ipertonica viene sospesa al raggiungimento di valori di sodiemia di almeno 120 meq/l. la successiva risposta alla restrizione idrica non è adeguata, fatto questo che peraltro poteva essere già ipotizzato vista la presenza di un rapporto [(sodiuria+potassiuria)/sodiemia] > 1. per tale motivo appare giustificato il ricorso all’utilizzo di tolvaptan. la normalizzazione della sodiemia permette un significativo miglioramento clinico con particolare riferimento al quadro cognitivo, permettendo così la successiva dimissione della paziente. da non sottovalutare ovviamente l’importanza della risoluzione del processo infettivo polmonare nel successivo mantenimento, una volta sospeso il vaptano, di normali valori di sodiemia, il che evidentemente conferma l’eziologia della siad, come ipotizzato. conclusioni l’iponatremia costituisce un rilevante problema clinico sia perché si associa a un elevato rischio di morbilità e mortalità, sia per le problematiche diagnostiche e terapeutiche a essa correlate, che rappresentano sempre una sfida per il medico. una scrupolosa raccolta dei dati anamnestici, un attento esame obiettivo e la richiesta di adeguati accertamenti biochimico-strumentali rappresentano la base per un corretto inquadramento diagnostico delle iponatremie. tutto ciò, associato alla conoscenza dei processi fisiopatologici che caratterizzano le condizioni di ipotonicità, permetterà di guidare l’approccio terapeutico, limitando il rischio di complicanze. in tale ottica la presenza o meno di segni di sofferenza neurologica, espressione di gravità e soprattutto rapidità d’insorgenza dell’iponatremia, riveste un ruolo fondamentale per stabilire la velocità con cui correggere il disordine elettrolitico. la soluzione fisiologica allo 0,9% rappresenta il trattamento di elezione di tutte le forme di iponatremia ipovolemica, mentre la salina ipertonica al 3% rimane il gold standard nel trattamento delle iponatremie eu-ipervolemiche gravemente sintomatiche. nella gestione invece delle forme euvolemiche secondarie a siad, da asintomatiche a moderatamente sintomatiche (nausea, alterazioni dell’equilibrio), è da considerare l’utilizzo di tolvaptan, il cui uso è autorizzato ad oggi in europa con queste indicazioni specifiche. punti chiave confermare la presenza di iponatremia ipotonica raccogliere un’accurata anamnesi farmacologica e patologica fare uno scrupoloso esame obiettivo e ricercare eventuali segni di sofferenza neurologica richiedere gli opportuni accertamenti biochimici ed eventualmente strumentali intraprendere, se possibile, una terapia eziologica usare soluzione fisiologica 0,9% nelle forme di iponatremia ipovolemica ricorrere alla soluzione salina ipertonica 3% nelle forme di iponatremia eu-ipervolemica gravemente sintomatica ricorrere alla restrizione idrica o alla salina ipertonica al 3% nelle forme di iponatremia eu-ipervolemica asintomatica o moderatamente sintomatica, rispettivamente nelle forme di siad con iponatremia asintomatica o moderatamente sintomatica può essere utilizzato tolvaptan rispettare i limiti suggeriti di incremento della sodiemia flowchart diagnostica dell’iponatremia ipotonica flowchart terapeutica dell’iponatremia ipotonica bibliografia 1. hoorn ej, lindemans j, zietse r. development of severe hyponatremia in hospitalized patients: treatment-related risk factors and inadequate management. nephrol dial transplant 2006; 21: 70-6. http://dx.doi.org/10.1093/ndt/gfi082 2. renneboog b, musch w, vandemergel x, et al. mild chronic hyponatremia is associated with falls, unsteadiness and attention deficits. am j med 2006; 119: 71. http://dx.doi.org/10.1016/j.amjmed.2005.09.026 3. gankam kf, andres c, sattar l, et al. mild hyponatremia and 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fisica, inadeguata introduzione di frutta, verdura e potassio nel regime alimentare, eccessivo uso di alcolici [1,2]. al fine di prevenire l’innalzamento dei livelli pressori, è importante introdurre delle misure di prevenzione primaria per ridurre o minimizzare questi fattori di rischio nella popolazione, in particolare negli individui con pre-ipertensione. un approccio di natura preventiva deve inoltre tenere in debita considerazione l’influenza dei fattori psicologici che possono intervenire nell’eziologia della sindrome ipertensiva o che possono interferire con un’ottimale gestione clinica dell’ia. il ruolo degli aspetti psicologici e di personalità, come l’ansia, la depressione, la personalità di tipo a o d e introduzione l’ipertensione arteriosa (ia) è considerata secondo l’organizzazione mondiale della sanità (oms) il principale fattore di rischio per l’insorgenza di malattie cardiovascolari, in quanto presente in circa il 25% della popolazione adulta. si stima che circa 12 milioni di italiani siano affetti da ia, dei quali solo il 30-35% è a conoscenza della condizione clinica e segue una terapia (farmacologica o non) in modo corretto. l’ia è la più frequente causa di mortalità e morbilità nei paesi occidentali, risultando più comune dei tumori e delle malattie polmonari. la prevenzione e la gestione dell’ia, pertanto, rappresentano una delle maggiori sfide della sanità pubblica. sono stati individuati molti fattori di rischio per l’insorgenza della corresponding author dott. franco rabbia franco.rabbia@libero.it gestione clinica abstract the hypertensive patient is the most stable phenotype in psychosomatic medicine. hypertensive patients represent a vulnerable population that deserves special attention from health care providers and systems, and psychosomatic medicine may be an important tool in the management of high blood pressure. depression, anxiety disorders and personality features are often associated with elevated blood pressure (bp) and they may have a role in the development of mild highrenin essential hypertension. besides, “white coat” hypertension and “masked ” hypertension demonstrate how clinic blood pressure could be strongly related to trait anxiety. hypertension is largely asymptomatic, and patients often have little understanding of the importance of achieving bp control. medication adverse effects may become an important factor in poor adherence to the treatment and the antidepressant use increases the risk of hypertension. so, the challenge in the management of hypertensive patients is the adherence to non-pharmacological and behavioural treatments for hypertension. keywords: psychological aspects; essential hypertension; white coat hypertension; stress; allostasis psychological aspects in the management of patients with essential hypertension cmi 2012; 6(1): 27-35 1 dipartimento di medicina e oncologia sperimentale, centro ipertensione, università di torino, ospedale “san giovanni battista”, torino maria luisa genesia 1, franco rabbia 1, elisa testa 1, silvia totaro 1, elena berra 1, michele covella 1, chiara fulcheri 1, giulia bruno 1, franco veglio 1 aspetti psicologici nella gestione dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa essenziale 28 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) aspetti psicologici nella gestione dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa essenziale l’alessitimia è ampiamente supportato dalla letteratura e da studi epidemiologici e il costrutto di “personalità ipertensiva” è uno dei più stabili nella medicina psicosomatica [3] (tabella i). aspetti psicologici e psicopatologici dell’ipertensione arteriosa gli aspetti psicopatologici della depressione e dell’ansia sono quelli che caratterizzano la popolazione di pazienti ipertesi, secondo quanto riportato in letteratura [5,6]. mentre la depressione pare essere maggiormente rappresentativa dei soggetti con scarsa aderenza alle terapie, di tipo farmacologico raccomandazioni per la gestione dell’ipertensione arteriosa intervento psicologico valutazione diagnostica y misurazione della pressione arteriosa y anamnesi familiare e clinica y esame obiettivo y analisi genetica y valutazione del danno d’organo y cuore y vasi arteriosi y rene y fundus oculi y encefalo assessment psicologico di screening y colloquio psicologico y somministrazione di scale e/o questionari psicologici e psicopatologici y valutazione della qualità della vita e dello stato di salute percepito y batteria neuropsicologica per la valutazione del danno encefalico (screening) strategie terapeutiche y modifiche dello stile di vita y abolizione del fumo y moderato consumo di bevande alcoliche y riduzione dell’apporto di sodio con la dieta y altri interventi dietetici y calo ponderale y esercizio fisico y trattamento farmacologico strategie terapeutiche y interventi di tipo psico-educazionale per migliorare l’aderenza ai trattamenti farmacologici e non y interventi di supporto psicologico e/o psicoterapeutico in pazienti con problematiche di natura psicologica che interferiscono con l’efficacia del trattamento interventi terapeutici in specifiche condizioni cliniche y paziente anziano y diabete mellito y patologie cerebrovascolari y malattia coronarica e scompenso cardiaco y fibrillazione atriale y nefropatia non diabetica y ipertensione nella donna y sindrome metabolica y ipertensione resistente al trattamento interventi terapeutici in specifiche condizioni cliniche y assessment psicodiagnostico di approfondimento y batteria neuropsicologica estesa per la valutazione del danno encefalico y interventi di supporto psicologico e/o psicoterapeutico y intervento riabilitativo (cognitivo e/o comportamentale) follow up follow up tabella i. raccomandazioni cliniche e psicologiche per la gestione del paziente affetto da ipertensione arteriosa [4] e non [7], l’ansia nei vari studi sembra essere maggiormente correlata al concetto di stress [8-10] e sembra costituire un elemento predittore dell’insorgenza di ipertensione arteriosa. nel 1997 alexopoulos [11] propose che la patologia cerebrovascolare, soprattutto quella cronica, legata ad alterazioni dei piccoli vasi cerebrali, potesse predisporre, precipitare o perpetuare una specifica forma di depressione a insorgenza nella terza e quarta età e ipotizzò che il meccanismo patogenetico principale consistesse nel suo impatto sui circuiti fronto-sottocorticali. l’ipotesi di una “depressione vascolare” come sottotipo nosologico autonomo, a 10 anni di distanza dalla sua formulazione, appare supportata da diverse linee guida di evidenza e ha trovato conferma in recenti revisioni sistematiche in termini di validità interna, descrittiva, di costrutto e predittiva [12]. per quanto riguarda la componente ansiosa della popolazione, si può far riferimento al concetto di “carico allostatico” introdotto da mcewen [13], che indaga l’effetto a lungo termine della fisiologica risposta allo stress. attraverso l’allostasi (capacità di raggiungere o conservare stabilità attraverso dei cambiamenti), il sistema nervoso autonomo, l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, il sistema cardiovascolare, metabolico e il sistema immunitario proteggono il corpo rispondendo agli stress interni ed esterni. sia gli stress acuti sia gli stress cronici, cioè l’accumulo di carichi quotidiani di minore intensità, possono avere conseguenze a lungo termine. soprattutto due fattori determinano la risposta individuale a situazioni potenzialmente stressanti: il modo di percepire una situazione e lo stato generale di salute, determinato non solo da fattori genetici ma anche dalle scelte comportamentali e dallo stile di vita. la risposta fisica a una variazione, una situazione di pericolo fisico o psicologico, è bifasica: inizia con una risposta allostatica che introduce i cambiamenti adattativi e termina eliminando questa risposta quando il pericolo è cessato. la risposta più comune coinvolge il sistema nervoso simpatico e l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con l’attivazione del rilascio delle catecolamine, la secrezione di corticotropina dall’ipofisi e il successivo rilascio di cortisolo. l’inattivazione successiva del sistema riporta il tutto ai livelli basali. a volte però l’inattivazione può essere inefficiente, per cui c’è una sovraesposizione agli ormoni dello stress che si mantiene nel tempo per cui si determina un carico allostatico con conseguenze fisiopatologiche. 29 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) m. l. genesia, f. rabbia, e. testa, s. totaro, e. berra, m. covella, et al diverse situazioni si accompagnano al carico allostatico, ma la più frequente è costituita dagli stress frequenti: ripetuti aumenti dei valori pressori accelerano il processo aterosclerotico aumentando il rischio cardiovascolare. i sistemi allostatici più studiati sono quelli del sistema cardiovascolare con le sue connessioni con il sovrappeso e l’ipertensione [14]. anche il sistema nervoso centrale, soprattutto le strutture dell’ippocampo, che hanno un’alta concentrazione di recettori per il cortisolo, risulta danneggiato dallo stress, sia per l’aumento della secrezione di cortisolo nello stress acuto, con soppressione dei meccanismi che nell’ippocampo e nel lobo temporale regolano la memoria a breve termine, sia per l’atrofia dei neuroni piramidali a causa di un meccanismo coinvolgente i glucocorticoidi e i neurotrasmettitori eccitatori rilasciati durante e dopo lo stress; questa atrofia è reversibile se lo stress è di breve durata, ma stress prolungati nel tempo possono uccidere le cellule dell’ippocampo [15]. la rmn ha dimostrato che situazioni stressanti, quali ad esempio episodi depressivi ricorrenti e patologie post-traumatiche, possono essere associate ad atrofia dell’ippocampo [16]. occorre tuttavia sottolineare che, nei vari studi relativi all’associazione tra pressione arteriosa e aspetti psicopatologici, i risultati ottenuti non sempre sono concordanti, in particolare per quanto concerne i disturbi dell’umore e quelli depressivi. la maggior parte della letteratura evidenzia una correlazione tra ipertensione e disturbi dell’umore, depressione e ansia e, in particolare, si rilevano elevate percentuali di pazienti che manifestano aspetti di natura ansiosa [17,18] e frequentemente tali aspetti sono maggiormente associati a uno scarso controllo della pressione arteriosa [19]. un esiguo numero di studi, tuttavia, ha rilevato l’assenza di correlazione significativa tra i livelli di valori pressori e disturbi dell’umore e d’ansia nei soggetti ipertesi [20]. uno studio recente ha confrontato i valori di pressione arteriosa in soggetti con disturbi d’ansia e di depressione con un gruppo di soggetti di controllo. licht e collaboratori [21] hanno rilevato una più alta pressione arteriosa diastolica in soggetti con disturbi d’ansia, sebbene il grado di ansia non raggiungesse un livello tale da essere considerato un fattore di rischio per l’insorgenza della ia. i soggetti, invece, con tono dell’umore depresso (in corso o in fase di remissione) manifestavano una più bassa pressione arteriosa diastolica e sviluppavano con minore probabilità una pressione sistolica isolata rispetto ai soggetti di controllo. in particolare, gli autori hanno osservato che l’uso di antidepressivi triciclici era maggiormente associato a valori medi pressori più elevati e con maggiore probabilità i soggetti in trattamento con tali farmaci avevano un grado di ia in stadio 1 o 2. i pazienti in terapia con farmaci antidepressivi di tipo noradrenergico o serotoninergico, invece, avevano una maggiore probabilità di sviluppare una ia di grado 1. pertanto, gli aspetti depressivi, secondo quanto rilevato dagli autori, sembrerebbero associati a valori pressori più bassi, mentre l’uso di alcuni farmaci antidepressivi sembrerebbe associato ad aumentati livelli di pressione sanguigna sistolica e diastolica. un altro aspetto da considerare e che può essere presente nella popolazione di pazienti ipertesi è il cosiddetto fenomeno “etichettamento”: in altre parole, il fatto di conoscere la diagnosi di ia influenza la prevalenza di sintomi riportati, di assenteismo sul lavoro e di benessere generale. dopo avere ricevuto la diagnosi, quindi, il paziente può sviluppare una sorta di “sindrome funzionale somatica” caratterizzata dalla forte convinzione di avere una grave malattia, dall’aspettativa che la propria condizione possa probabilmente peggiorare, per cui si configura una condizione catastrofica e disabilitante, che influenza in modo negativo la qualità della vita legata alla salute del paziente [22,23]. caratteristiche di personalità del paziente iperteso sin dagli esordi della medicina psicosomatica, è stata studiata l’associazione tra ipertensione arteriosa e aspetti emozionali. alexander fu uno dei primi a definire l’ia come uno dei disturbi psicosomatici [24], differente dal concetto di disturbo conversivo o di nevrosi e la mise in relazione con la presenza di alcuni profili di personalità e fattori di regolazione delle emozioni, sostenendo la necessità di valutare l’individuo nella sua globalità senza separare le funzioni psicologiche da quelle somatiche. secondo l’autore, l’ia, così come altre forme di disturbo cardiovascolare, può essere spiegata sulla base di un meccanismo di attivazione neurovegetativa che viene mantenuto poiché le emozioni profonde vengono inibite e non si esauriscono in un’azione efficace. 30 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) aspetti psicologici nella gestione dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa essenziale l’organismo, pertanto, rimane in uno stato di preparazione alla lotta o fuga, dove la costante attivazione del sistema simpatico sollecita le reazioni fisiologiche necessarie in uno stato di emergenza, quali, appunto, aumento della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca, e nel soggetto che inibisce l’espressione della propria aggressività tali risposte psicofisiologiche si cronicizzano. dunbar [25] propose invece un profilo di personalità caratteristico del soggetto iperteso, definito dalla studiosa stessa “personalità cardiopatica” e caratterizzato da ambizione, dedizione al lavoro, determinato nel raggiungimento degli obiettivi, con elevata immagine di sé e con tendenza alla soppressione delle emozioni. secondo l’autrice, la struttura di personalità si sviluppa nell’infanzia e si consolida condizionando le difese corporee, predisponendo così l’individuo allo sviluppo di determinate patologie. l’obiezione principale alla teoria formulata dalla dunbar risiede nel fatto che le sue osservazioni corrispondono a correlazioni secondarie, poiché si potrebbe presupporre che alcuni individui più che altri tendano ad assumere ruoli di responsabilità e adottare pertanto stili di vita che comportano risposte corporee che predispongono a danno progressivo del sistema cardiocircolatorio. sulla linea di questo filone di ricerca, i due cardiologi statunitensi meyer friedman e ray rosenman, alla fine degli anni ’50 [26], hanno identificato un tipo di personalità definito di tipo a (simile al profilo di personalità coronaropatica della dunbar) come fattore predisponente a disturbi di tipo cardiovascolare, avanzando l’ipotesi che tale stile comportamentale sia maggiormente associato a un aumento della colesterolemia, del tempo di coagulazione e a un rischio elevato di sviluppo di malattia coronarica. secondo gli autori, il tipo a non va inteso come tratto di personalità che si costituisce sulla base di conflitti inconsci (in senso psicoanalitico), ma come risposta comportamentale del soggetto in risposta a eventi esterni di natura stressante. il tipo a viene così descritto dagli autori sulla base delle seguenti caratteristiche: y intensa e prolungata spinta a raggiungere gli obiettivi; y profonda inclinazione e brama di competere; y persistente desiderio di riconoscimento e avanzamento di ruolo; y esagerata ambizione, precisione, puntualità e aggressività; y costante paura di non avere abbastanza tempo a disposizione. la correlazione tra il pattern comportamentale di tipo a e il rischio di insorgenza di patologie cardiovascolari è stata confermata da numerosi studi negli anni ’70, cosicché il national heart, lung and blood institute ha riconosciuto ufficialmente il tipo a come un fattore di rischio indipendente nelle patologie coronariche [27]. uno studio condotto su pazienti con infarto miocardico [28] ha dimostrato che il pattern di tipo a è un importante predittore di rischio a sei mesi dall’evento acuto tra i pazienti con le migliori condizioni cliniche. fava e rafanelli [29] hanno inserito i criteri diagnostici per il pattern comportamentale di tipo a all’interno dei diagnostic criteria for use in psychosomatic research (dcpr), che comprendono peraltro demoralizzazione, ansia per la salute, umore irritabile, comportamento di tipo a e negazione di malattia. in uno studio condotto da rafanelli e colleghi [30] su un campione di 61 pazienti che hanno avuto un recente infarto del miocardio, è stato osservato che circa il 30% di essi presentava un pattern di tipo a. una recente metanalisi [31] riguardante i trattamenti psicologici nei pazienti affetti da patologie cardiovascolari ha sottolineato che il fatto di porre come scopo dell’intervento stesso il trattamento del pattern di tipo a si rivela più efficace rispetto ad altri tipi di trattamento con obiettivi diversi. recentemente è stato proposto un nuovo costrutto di personalità, definito tipo d (distressed personality), ed è stata osservata una prevalenza di soggetti con tale pattern comportamentale pari a circa il 53% [32]. il soggetto con personalità di tipo d è caratterizzato da una tendenza a esperire emozioni negative e a inibire le emozioni evitando il contatto sociale con gli altri. la frequente comorbilità tra pazienti con questo tipo di personalità e l’aumentato fattore di rischio cardiovascolare sottolinea l’importanza di esaminare sia gli stati psicopatologici acuti (per esempio la presenza di depressione maggiore) sia quelli cronici (per esempio la presenza di determinate caratteristiche di personalità) nei pazienti particolarmente a rischio di eventi vascolari. entrambe le dimensioni che caratterizzano la personalità di tipo d (affettività negativa e inibizione sociale) sono associate a un più elevato livello di cortisolo, che potrebbe altresì spiegare l’associazione tra questo tipo di costrutto e il rischio cardiovascolare [33,34]. 31 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) m. l. genesia, f. rabbia, e. testa, s. totaro, e. berra, m. covella, et al recentemente hausteiner e collaboratori (2010) [35] hanno indagato la presenza dei tratti caratteristici della personalità di tipo d nella popolazione generale e le relazioni con i fattori di rischio cardiovascolari, compresi quelli di natura psicopatologica, e hanno identificato il tipo d come un fattore di rischio prognostico in diverse condizioni cardiovascolari. gli autori hanno osservato una prevalenza del 23,4% di pattern d nelle donne e del 26,9% negli uomini. un pattern di personalità di tipo d è quindi presente in circa un quarto della popolazione generale, dato comparabile con i classici fattori di rischio cardiovascolari e rappresenta, secondo gli autori, un rilevante e indipendente marker di rischio nella comunità, ragion per cui dovrebbe ricevere la giusta attenzione da parte dei clinici. numerose evidenze indicano che i pazienti affetti da patologie cardiovascolari con personalità di tipo d hanno un maggiore rischio di morbilità e mortalità legata a eventi vascolari. i pazienti con questo stile comportamentale presentano inoltre una maggiore vulnerabilità psicologica, caratterizzata da un aumento dei rischi psicosociali e ridotta qualità della vita e sembrano beneficiare in maniera ridotta dei trattamenti medici [36]. jula e colleghi [37] hanno preso in considerazione vari aspetti psicologici al fine di valutare l’eventuale associazione con l’ipertensione. nello studio venivano valutati vari aspetti, quali l’espressione della collera, l’ansia, l’ostilità, la depressione e l’alessitimia, e si è visto che solo quest’ultima condizione sembrava correlata all’ipertensione e poteva differenziare il gruppo di osservazione rispetto ai controlli. in realtà gli altri sintomi di disturbo psichico possono fluttuare con il tempo e le circostanze, mentre l’alessitimia, cioè la difficoltà nell’esprimere e identificare le emozioni e nel distinguere gli affetti dalle sensazioni corporee [38], è generalmente considerata una caratteristica stabile della personalità, spesso associata al sesso maschile, al basso livello culturale, al basso livello socio-economico, e debolmente associata all’avanzare dell’età. diverse sono le teorie psicologiche al riguardo, e vi sono anche teorie neurobiologiche che suggeriscono che questa condizione possa essere correlata all’interruzione della comunicazione limbica-neocorticale, o che possa risultare da un deficit nella comunicazione interemisferica o da una disfunzione dell’emisfero destro. recenti indagini di imaging funzionale hanno confermato che le strutture della corteccia cingolata mediofrontale e anteriore erano meno attivate da stimoli intensi negli individui alessitimici rispetto a quelli non alessitimici, particolarmente quando venivano impiegati stimoli sperimentali negativi [39,40]. indipendentemente dalle cause, l’alessitimia riflette un deficit nel processo cognitivo e nella regolazione delle emozioni, ragion per cui la scarsa capacità di prendere consapevolezza delle emozioni e di farvi fronte renderebbe gli individui alessitimici vulnerabili agli stress continui. studi recenti hanno evidenziato un’elevata frequenza di alessitimia in soggetti con nuova diagnosi di ia [41]. todarello e collaboratori [42] nel loro studio hanno trovato una percentuale pari a circa il 55,3% di soggetti ipertesi (n = 114) alessitimici, contro il 16,3% dei pazienti non ipertesi (n = 130). i risultati ottenuti dallo studio supportano l’ipotesi che si possa riscontrare una prevalenza di alessitimia in pazienti con patologie che un tempo venivano caratterizzate come disturbi “psicosomatici classici”. gli autori, inoltre, ipotizzano che il deficit di processamento cognitivo e di modulazione dell’affettività sia caratteristico del paziente alessitimico e predisponga il soggetto a una maggiore attivazione simpatica, che condurrebbe a sua volta allo sviluppo di ia. ipertensione da “camice bianco”: il ruolo della componente psicologica la white-coat hypertension (ipertensione da camice bianco) fornisce un’ulteriore prova di come la pressione arteriosa possa essere legata agli aspetti psicologici. si definisce white coat hypertension o “ipertensione clinica isolata” la presenza di valori pressori persistentemente elevati nell’ambulatorio medico, ma normali in altre occasioni [4,43]. ogedegbe e colleghi hanno descritto il processo di condizionamento ipotizzato che potrebbe condurre all’innalzamento dei livelli pressori nell’ambito della situazione clinica [44]. le teorie psicologiche che spiegano il fenomeno dell’ipertensione da camice bianco sono principalmente due. la prima, la teoria dell’ansia generalizzata, afferma che un individuo che presenta un’ansia di tratto (ansia come elemento stabile della personalità) ha la tendenza con maggiore probabilità a ricevere una diagnosi di ipertensione da camice bianco. parecchi 32 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) aspetti psicologici nella gestione dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa essenziale studi, tuttavia, hanno fallito nel trovare delle correlazioni tra la misura dell’ansia di tratto e il valore della pressione arteriosa ambulatoriale [45]. la seconda teoria, riconducibile al modello del condizionamento classico, fornisce un’utile alternativa alla comprensione della causa dell’innalzamento dei valori pressori e del possibile rischio di una diagnosi errata. tale teoria suggerisce che i soggetti con ipertensione da camice bianco sono stati precedentemente esposti a stimoli spiacevoli, come una diagnosi medica indesiderata e/o procedure mediche dolorose (stimoli incondizionati), in una o più situazioni mediche, che possono aver condotto a un’ansia transitoria e a un innalzamento della pressione arteriosa (risposta incondizionata). in seguito a ripetute esposizioni, i segnali associati allo stimolo incondizionato, per esempio il camice bianco del clinico o la struttura della sala medica, sono potenziali stimoli condizionati che hanno il potere loro stessi di suscitare risposte di ansia e di elevazione dei livelli pressori [46]. tale teoria permette anche di spiegare meglio il fatto che i valori pressori tendano a modificarsi rapidamente in relazione al cambiamento dello stimolo, mentre la teoria relativa all’ansia generalizzata non permette di spiegare questo aspetto [47]. conclusioni e prospettive i pazienti ipertesi rappresentano una popolazione vulnerabile, che merita un’attenzione speciale da parte della sanità pubblica e la medicina psicosomatica potrebbe rivestire un ruolo importante nella gestione clinica di questi pazienti. l’ia è spesso asintomatica e i pazienti hanno scarsa consapevolezza rispetto all’importanza dell’ottimale controllo dei valori pressori, data la possibile presenza di spiacevoli effetti collaterali dei farmaci ipertensivi, con conseguente ricaduta sull’aderenza ai trattamenti proposti. i fattori psicologici e di personalità giocano un ruolo chiave nella presa in carico del paziente, poiché attraverso la comprensione di tali aspetti il clinico può instaurare con il paziente l’alleanza terapeutica necessaria per un’adeguata gestione della patologia. sarebbe pertanto importante una valutazione degli aspetti psicologici e di personalità dei pazienti, condotta da specialisti nel settore, attraverso colloqui clinici, interviste, scale di valutazione e tecniche di osservazione [48,49]. attraverso un’accurata valutazione del paziente iperteso è possibile eventualmente impostare dei percorsi di cura e di trattamento individualizzato che tengano in considerazione le caratteristiche specifiche del paziente stesso. la sfida nella gestione del paziente iperteso e nella prevenzione del danno cardiovascolare consiste proprio nel miglioramento dell’aderenza ai trattamenti farmacologici e non farmacologici e, allo stesso tempo, nell’ottica della salutogenesi, nell’identificazione e potenziamento dei fattori protettivi a livello individuale, sociale ed economico per prevenire il disagio psicologico determinato da una condizione di malattia cronica. secondo la classificazione di meichenbaum e turk [50], le variabili associate alla minor aderenza terapeutica sono molteplici: variabili relative al paziente, alla malattia, al trattamento, all’interazione medico-paziente. in particolar modo, soffermandoci sulla prima classe di variabili, quelle cioè relative alla persona, si osserva una maggiore vulnerabilità nei pazienti con ia che presentano problematiche relative a scarso supporto sociale, disturbi psichiatrici, depressione e ansia e in quelli che presentano maggiori difficoltà nel riconoscimento della condizione di malato o nella necessità di trattamento (evidente soprattutto nei soggetti ipertesi ma asintomatici) [51]. numerosi studi hanno dimostrato che il trattamento psicologico determina un aumento del 50% dell’aderenza dei pazienti alla terapia [52]. la visione di malattia proposta, pertanto, è volta a superare il dualismo tra psiche e soma e, secondo il modello biopsicosozazione di sé ed esplorazione del nuovo [53] (figura 1). disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. fattori sociali e ambientali • fumo/alcol • stress • comportamento alimentare alterato (quantitativamente e /o qualitativamente) • stile di vita sedentario fattori psicologici • ansia • depressione • rabbia • alessitimia • pattern comportamentale di tipo a • pattern comportamentale di tipo d fattori biomedici • danno vascolare • aumento del tono simpatico • sensibilità dei barocettori • variabilità pressoria innalzamento della pressione arteriosa figura 1. l’ipertensione arteriosa nel modello biopsicosociale. modificata da [54] 33 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) m. l. genesia, f. rabbia, e. testa, s. totaro, e. berra, m. covella, et al ciale, la malattia è intesa come interazione dinamica di fattori multipli (biologici, psicologici e sociali) che devono essere tenuti in considerazione nel processo di diagnosi medica. si tratta pertanto di un modello integrativo che si orienta verso la salute globale della persona nel suo ambiente, con un’enfasi particolare sulla promozione della salute, intesa come realizzazione di sé ed esplorazione del nuovo [53] (figura 1). disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. fattori sociali e ambientali • fumo/alcol • stress • comportamento alimentare alterato (quantitativamente e /o qualitativamente) • stile di vita sedentario fattori psicologici • ansia • depressione • rabbia • alessitimia • pattern comportamentale di tipo a • pattern comportamentale di tipo d fattori biomedici • danno vascolare • aumento del tono simpatico • sensibilità dei barocettori • variabilità pressoria innalzamento della pressione arteriosa figura 1. l’ipertensione arteriosa nel modello biopsicosociale. modificata da [54] bibliografia 1. whelton pk, he j, appel lj, cutler ja, havas s, kotchen ta, et al. primary prevention of hypertension: clinical and public health advisory from the national high blood pressure education program. jama 2002; 288: 1882-8 2. franklin ss, larson mg, khan sa, wong nd, leip ep, kannel wb, et al. does the relation of blood 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nella gestione dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa essenziale maria luisa genesia 1, franco rabbia 1, elisa testa 1, silvia totaro 1, elena berra 1, michele covella 1, chiara fulcheri 1, giulia bruno 1, franco veglio 1 ringraziamento dei referee (marzo 2011 – marzo 2012) 51 clinical management issues per una parte variabile della propria vita. è proprio per questo motivo che la comunicazione della diagnosi di una malattia come la sclerosi multipla rappresenta un momento delicato e cruciale, che, oltre a incidere sullo stato di salute del paziente, influenza profondamente la relazione tra il malato e il medico e costituisce la base per l’alleanza terapeutica, dando un’impronta marcata al grado di collaborazione futura del paziente stesso nell’ambito del “patto terapeutico”. in effetti, sebbene i pazienti riportino spesso modalità e caratteristiche estremamente variabili per quanto riguarda il momento stesso della comunicazione, essi sono tutti concordi nell’identificarla come uno dei ricordi più vividi nella propria memoria e come una delle esperienze a più elevata carica emotiva della propria vita [2]. con il presente articolo ci proponiamo di offrire una panoramica sulle problematiche aperte da questo tema così complesso introduzione nonostante i miglioramenti compiuti recentemente nell’ambito del rapporto medico-paziente, oltre che di fatto in ogni aspetto della sclerosi multipla (dalle conoscenze patogenetiche all’aggiornamento delle modalità diagnostiche alle conquiste terapeutiche), purtroppo sono ancora molte le testimonianze di persone che lamentano insoddisfazione a proposito del colloquio con il medico al momento della comunicazione della diagnosi [1]. in realtà, anche se attualmente i progressi fatti nell’ambito terapeutico hanno radicalmente mutato le prospettive prognostiche dei pazienti, è pur vero che ricevere una diagnosi di sclerosi multipla significa tutt’ora doversi confrontare con una patologia dal decorso cronico e imprevedibile, che esordisce in giovane età e che quindi può comportare un certo grado di disabilità corresponding author dott. franco granella franco.granella@unipr.it gestione clinica abstract the recent improvements in multiple sclerosis therapy have lead to consequent improvements in its prognosis: however, it still remains a chronic and unpredictable disease. the moment of the diagnosis is the starting point of a durable relationship between the physician and the patient, but, most of all, it is often referred to as the most traumatic experience in patients’ life. patients’ compliance to prescribed therapies, so important in the course of every chronic condition, particularly hangs on the psychological approach used by the doctor in communicating and explaining the diagnosis for the first time, in addition to the patient’s personality. a brief overview on the main types of physicians’ and patients’ behaviours and communications styles is provided in this article. keywords: multiple sclerosis; communicating diagnosis; physician’s psychological approach; obstacles to diagnosis communication the importance of communication in the diagnosis of multiple sclerosis cmi 2012; 6(2): 51-57 1 dipartimento di neuroscienze, università di parma elena tsantes 1, caterina senesi 1, erica curti 1, franco granella 1 l’importanza della comunicazione della diagnosi nella sclerosi multipla 52 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) l’importanza della comunicazione della diagnosi nella sclerosi multipla che tocca trasversalmente diversi aspetti, da quelli professionali e clinici a quelli medicolegali e deontologici a quelli più propriamente legati all’etica e alla personalità dei soggetti in causa. modelli comunicativi e stili relazionali esistono diversi possibili modelli comunicativi che il medico può seguire nell’approccio al paziente [3] e che riflettono differenti stili relazionali, legati a due tipi fondamentali di metodo clinico: da un lato un modello biomedico, basato sulla malattia vista come insieme di sintomi, senza lasciare molto spazio alla soggettività del paziente, e che porta inevitabilmente verso uno stile paternalistico di relazione. in questo caso l’atto decisionale viene a essere totalmente di competenza del medico, il quale, con l’unico obiettivo di curare la patologia e conoscendo ciò che è meglio per il malato, può permettersi anche di omettere alcune informazioni nell’interesse e per il bene di quest’ultimo. si tratta, infatti, di uno stile anche definito della “non rivelazione”, dettato da un atteggiamento tendenzialmente protettivo da parte del medico, il quale ha la convinzione che il paziente non sia in grado di reggere il trauma provocato dalla notizia ma allo stesso tempo si comporta in modo potenzialmente diseducativo, negando al malato la possibilità di affrontare il dolore e di reagire ad esso. dall’altro lato abbiamo invece un modello di tipo bio-psico-sociale, focalizzato sul paziente, verso il quale il medico si pone empaticamente, cercando di raccogliere informazioni relative non solo ai suoi sintomi, ma anche ai suoi sentimenti, ammettendo che una stessa patologia dia luogo a esperienze differenti in soggetti diversi. da questo modello deriva uno stile relazionale che informa approfonditamente il paziente sulla sua malattia e che può a sua volta evolvere verso un modello “deliberativo”, tale per cui il medico è un “tecnico” che informa il paziente ma che non entra minimamente nelle decisioni di quest’ultimo, oppure verso un modello “di decisioni condivise”, in cui il malato è coinvolto attivamente nella scelta decisionale, la quale diventa frutto di una collaborazione tra i due. in quest’ultimo prototipo di relazione entrambi i soggetti sono degli “esperti”, in grado di insegnare l’uno all’altro che cosa significhi avere la sclerosi multipla: il medico illustra le caratteristiche della patologia in termini di entità clinicopatologica, vista da una prospettiva razionale e scientifica e dotata di specifiche peculiarità eziologiche, sintomatologiche, prognostiche e terapeutiche. il paziente, invece, è il miglior conoscitore della malattia da un punto di vista emotivo, come esperienza invalidante, a valenza fortemente soggettiva e personale, in grado di mutare profondamente la vita di chi ne è affetto. si è visto che quest’ultimo modello è quello più spesso auspicato dai malati [4], ma anche quello che offre i migliori risultati in termini di qualità e compliance del paziente, comprensione e memorizzazione delle informazioni sulla malattia, oltre che di outcome clinico [5]. uno studio condotto in italia [6], volto a comprendere meglio le preferenze dei pazienti affetti da sclerosi multipla relativamente al tipo di coinvolgimento nelle decisioni mediche, ha messo in evidenza come diversi siano i fattori capaci di influenzare questa attitudine soggettiva: differenze culturali, livello di istruzione e durata del periodo di follow-up trascorso dalla diagnosi sono tutti in grado di influire sulle risposte date. quest’indagine è stata condotta mediante la traduzione e l’adattamento in italiano della versione originale in inglese della control preference scale (cps, una scala progettata per valutare il grado di controllo che i pazienti vorrebbero avere sulle scelte riguardanti la propria salute) e ha dimostrato che la maggioranza dei pazienti preferisce condividere le decisioni con il proprio medico, piuttosto che lasciare il compito interamente a lui. possibili ostacoli alla comunicazione della diagnosi diversi sono i possibili ostacoli alla comunicazione della diagnosi, che possono incidere negativamente sulla comprensione e sulla collaborazione a lungo termine del paziente: fretta, distrazione, interruzioni, tipo di linguaggio utilizzato, livello culturale del paziente e grado d’informazione dello stesso sulla malattia sono tutti elementi apparentemente banali, ma che meritano in realtà un’attenzione particolare e che vengono spesso trascurati. da questo deriva l’importanza del setting, di un luogo adeguato per la comunicazione, di tempo sufficiente per il dialogo, di una preliminare presa di coscienza su ciò che il paziente sa della propria ma53 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) e. tsantes, c. senesi, e. curti, f. granella lattia e dell’uso di un linguaggio non tecnico e facilmente comprensibile, eventualmente corredato di esempi pratici, semplici, e arricchito di mezzi d’informazione telematici [7]. il problema dei massmedia rappresenta sempre più, soprattutto al giorno d’oggi, un aspetto con il quale il medico si trova spesso a doversi confrontare, trattandosi di una fonte d’informazioni facilmente accessibile e scritta in un gergo semplice, ma potenzialmente pericolosa perché non sempre imparziale e completa e perché a elevato rischio di generare false speranze e perdita di fiducia nei confronti del medico (che spesso appare paradossalmente meno aggiornato sul tipo di articoli consultati dal paziente). si tratta di un tipo d’informazione, inoltre, che spesso enfatizza soprattutto gli aspetti più drammatici e gravi della malattia, magari con lo scopo lodevole di raccogliere fondi per la ricerca, ma che in ogni caso non fornisce una visione del tutto realistica delle cose e che spesso contribuisce a generare ancora più ansia e preoccupazione. nonostante questo, i soggetti che fanno ricorso a mezzi d’informazione alternativi e aggiuntivi rispetto a quelli forniti dal neurologo sono sempre più numerosi e solo una minoranza di essi considera il contenuto del colloquio come il maggiore aiuto fornito nella comprensione della malattia [1,8]. un altro elemento potenzialmente in grado di inficiare l’esito del colloquio è rappresentato dai disturbi cognitivi, solo di recente emersi chiaramente come parte integrante dello spettro clinico della sclerosi multipla e che impongono a maggior ragione un linguaggio semplice, il ricorso al feedback e la conoscenza del pattern del disturbo del paziente stesso. è importante tuttavia precisare come lo studio di questo tipo di disturbi sia tutt’altro che semplice: notevoli possono risultare le difficoltà nel proporre l’esecuzione di test cognitivi, quali la “batteria di rao”, a questi pazienti, che spesso non ammettono di avere deficit attentivi, di concentrazione, di memoria, di comprensione, ma che, allo stesso tempo, si imbarazzano a chiedere spiegazioni e informazioni al medico che hanno di fronte, fingendo di aver capito il linguaggio dell’interlocutore. nonostante si sia tradizionalmente prestata una maggiore attenzione alle disabilità fisiche del paziente, i deficit cognitivi rappresentano in realtà un fattore in grado di influire in misura considerevole sulla qualità di vita dei pazienti, oltre che un disturbo frequente nei pazienti con sclerosi multipla (coinvolgendo una percentuale di essi variabile tra il 40% e il 65%), anche nelle fasi più precoci della patologia, nelle forme “benigne” di malattia e addirittura nelle forme di sindrome clinicamente isolata (cis), indipendentemente dal grado di disabilità fisica [9,10]. si è osservato [11] come questi disturbi cognitivi, pur contraddistinti da un’estrema variabilità interindividuale, interessino però preferenzialmente alcuni ambiti neuropsicologici ben precisi: la velocità di processazione delle informazioni, la memoria a lungo termine (in particolare quella episodica), e la cosiddetta working-memory a breve termine, ma anche l’attenzione, le capacità di ragionamento astratto e di risoluzione dei problemi, la fluenza verbale e le abilità visuo-spaziali. si tratta peraltro di deficit che, laddove presenti nelle fasi iniziali della malattia, tendono a progredire sia per numero di domini cognitivi coinvolti, sia per entità e che costituiscono un fattore prognostico sfavorevole in termini di conversione da cis a sclerosi multipla clinicamente definita. appare fondamentale, quindi, che il medico tenga conto di questi aspetti al momento della comunicazione della diagnosi e che cerchi di comprendere le possibili difficoltà avvertite dal paziente, non solo in termini di accettazione emotiva, ma anche di concreta comprensione delle informazioni fornite. dalla parte del paziente la comunicazione della diagnosi di sclerosi multipla, ma anche di altre patologie croniche, innesca nel paziente una serie di reazioni, nel loro insieme identificabili come coping, differenti in relazione al tipo di personalità del paziente stesso, alle sue aspettative per il futuro e al momento del ciclo di vita in cui egli si trova. tale risposta, che rispecchia spesso i diversi stili caratteriali degli individui, può essere adattativa o meno nei confronti della situazione da affrontare, influenzando, di conseguenza, anche l’aderenza alla terapia nel lungo termine. quanto più il soggetto presenta una struttura personologica flessibile e disponibile al cambiamento e quindi più funzionale alla gestione di momenti di crisi e di frattura, tanto più egli sarà in grado di mettere in atto processi adattativi nei confronti della patologia stessa. viceversa, per quei pazienti che possiedono un’organizzazione caratteriale rigida e inflessibile, sarà 54 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) l’importanza della comunicazione della diagnosi nella sclerosi multipla più difficile accettare la malattia: questo li espone, al momento della comunicazione, a fratture nette rispetto al passato, insanabili nella propria mente e talvolta a vere e proprie manifestazioni disfunzionali. possiamo schematicamente individuare quattro principali categorie di pazienti: innanzitutto quelli che si pongono nei conf ronti della malattia con atteggiamento combattivo, convinti della possibilità di un controllo su di essa e per questo spesso aderenti alle cure e fiduciosi nei confronti del medico. in secondo luogo ricordiamo quei malati, peraltro numerosi, che affrontano la diagnosi con totale sfiducia, con la sensazione che le cose andranno male nonostante le terapie e che quindi non mettono in atto alcuna strategia cognitiva volta all’accettazione e all’adattamento. dobbiamo inoltre menzionare quei pazienti che sostanzialmente non reagiscono, rispondendo con una condotta di negazione-evitamento, per cui tendono a minimizzare i propri sintomi e sono anche poco propensi a cercare informazioni sulla loro patologia, e infine quei casi in cui si osserva più che altro una stoica accettazione della malattia, vista come un evento fatalistico occorso, e difficilmente controvertibile. pur tenendo conto delle differenze interindividuali che caratterizzano i singoli pazienti, è spesso possibile considerare indicativamente una comune reazione immediata, presente nella maggioranza dei soggetti subito dopo la comunicazione della diagnosi: una sorta di processo emotivo, che trascina il paziente in un susseguirsi complesso di stati d’animo anche contrastanti tra loro. inizialmente la notizia scatena nel paziente un vero e proprio shock acuto, una reazione per cui si avverte un senso di frattura rispetto al passato e si ha il presentimento che niente sarà più come prima: la nuova diagnosi è vista come un dramma che causa paura, rabbia, angoscia. in un secondo tempo il soggetto spesso tende invece a mettere in atto un meccanismo difensivo di negazione-evitamento nei confronti della notizia stessa, come una sorta di distacco, di rifiuto, che porta il paziente a ritardare e allontanare il confronto con la realtà. dopo i primi momenti, egli cerca di rielaborare e di dare un senso a quello che gli è successo, riconsiderando tutte le sue scelte e la propria vita in base a questo evento, per arrivare quindi a una fase finale di accomodamento/ patteggiamento, che si impone attraverso le terapie mediche. dalla parte del medico è evidente come la diagnosi di questo tipo di malattia determini un cambiamento notevole nel paziente che la riceve, e come sia la sua sfera di esperienze personali quella più direttamente sconvolta dalla notizia, tuttavia non bisogna dimenticare gli effetti di un tale evento anche sulla figura del medico. quest’ultimo è comunque un essere umano e, in quanto tale, esposto a sentimenti di solidarietà verso il paziente stesso, ma anche di senso di colpa, in quanto messaggero di sofferenza, e di frustrazione in caso di fallimento delle terapie. alcune ricerche fatte in questo ambito hanno messo in evidenza come molti clinici trovino piuttosto difficile, oltre che emotivamente impegnativa, la comunicazione di “cattive notizie” [12]; non bisogna inoltre dimenticare che il fatto di essere un ottimo clinico non necessariamente implica la capacità di comunicare in modo chiaro, comprensivo e sensibile [13]. pur essendo fondamentale approcciarsi al paziente con disponibilità, empatia e solidarietà, è tuttavia necessario che il medico sia in grado di mantenere un atteggiamento il più possibile professionale, guidando il malato verso scelte che non siano dettate da sentimenti del momento, ma piuttosto da conoscenze scientifiche accertate e da un’esperienza e una pratica clinica consolidate. è importante quindi che egli sia in grado di conciliare capacità relazionali personali e competenze scientifiche professionali. modalità e tempistica della comunicazione  nel colloquio è fondamentale instaurare un rapporto costruttivo col paziente, grazie al dialogo e all’interazione, ma anche a elementi di comunicazione non verbale, preoccupandosi che aspetti come la posizione del proprio corpo, il tono della voce e lo sguardo siano sempre coerenti con le proprie parole. è possibile affermare che la modalità con cui avviene la comunicazione si rivela d’importanza quasi comparabile al contenuto stesso del colloquio. alcune norme comportamentali e organizzative basilari osservate dal medico possono aiutare a rendere, per quanto possibile, meno traumatica la ricezione della notizia e questo rende ragione del fatto che solo specialisti esperti siano in grado di affrontare 55 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) e. tsantes, c. senesi, e. curti, f. granella questo momento nel modo migliore. all’inizio del colloquio è sempre importante avere in mente un’idea precisa di come procedere, non dando mai al paziente l’impressione d’insicurezza, ma allo stesso tempo dimostrandosi sempre disponibile empaticamente ad accogliere i suoi dubbi e le sue emozioni. bisogna esplorare a fondo il problema, con onestà e sincerità per evitare aspettative illusorie, ma cercando di offrire contemporaneamente speranze realistiche, ricapitolando le possibilità terapeutiche concrete e pianificando insieme futuri obiettivi e azioni. il paziente deve essere messo a proprio agio, incoraggiato a parlare e a esprimere i propri dubbi e sentimenti, deve essere ascoltato attivamente e facilitato nella comprensione grazie a ripetuti riepiloghi e riformulazioni. queste indicazioni generali non devono comunque mai condurre a un eccessivo schematismo, che rischia di scontrarsi con un principio estremamente importante, ossia quello della personalizzazione della diagnosi, nella convinzione che il colloquio debba comunque essere adattato alle caratteristiche dell’individuo che si ha di fronte [2]. uno degli aspetti sul quale esistono ancora oggi opinioni largamente contrastanti non solo tra medici e pazienti, ma anche all’interno degli stessi neurologi è rappresentato dal grado di completezza e chiarezza delle informazioni da fornire ai malati: mentre in alcuni studi [1,2] buona parte degli specialisti (anche oltre il 70%) concorda nel voler utilizzare direttamente il termine “sclerosi multipla”, in un recente studio greco [14], solo una minoranza (42%) dei neurologi dichiarava di utilizzare la denominazione precisa della malattia, mentre gli altri parlavano genericamente di “malattia demielinizzante” o di “infiammazione” del sistema nervoso. anche il timing della comunicazione della diagnosi è dibattuto: in uno studio di heesen e collaboratori di alcuni anni fa [1], la maggioranza dei pazienti ma solo il 24% dei neurologi riteneva doveroso comunicare la diagnosi anche quando questa non fosse certa durante l’iter diagnostico. le principali motivazioni del desiderio dei pazienti di essere informati il più presto possibile vanno ricercate nella situazione d’incertezza e quindi di ansia legata alla diagnosi non tempestiva, nella mancanza di comprensione da parte della famiglia (che, in mancanza di una diagnosi di malattia organica può scambiare alcuni sintomi denunciati dal paziente per manifestazioni d’ipocondria) e nella perduta occasione di trattamento precoce. si è inoltre rilevata l’utilità di fissare ulteriori appuntamenti tra medico e paziente dopo il primo colloquio, per discutere nuovamente della patologia [2]: questo aiuta il paziente a raccogliere e memorizzare più informazioni sulla malattia (soprattutto se si considera che, a causa del trauma provocato dalla comunicazione della diagnosi, molti pazienti riferiscono di aver dimenticato gran parte delle notizie date dal medico dopo quel momento) e a sviluppare quesiti che verranno poi soddisfatti di volta in volta, oltre che a garantire da subito quella continuità assistenziale di cui un malato con sclerosi multipla ha senz’altro bisogno. conclusioni la scelta di affrontare questo argomento è derivata dall’evidenza di come la comunicazione della diagnosi rappresenti il punto di partenza di un lungo percorso di collaborazione tra medico e paziente e possieda una notevole influenza sulla compliance dei pazienti, sulla loro conoscenza della propria condizione e sulla fiducia verso il medico. si tratta di una tematica estremamente attuale, nei confronti della quale l’attenzione è cresciuta molto, soprattutto di recente, conducendo a studi qualitativi volti a valutare il grado di soddisfazione dei pazienti per quanto riguarda le modalità di comunicazione [7] e a individuare strumenti atti a migliorare la loro comprensione della propria patologia [8]. l’importanza della tematica è inoltre andata crescendo negli anni parallelamente ai progressi compiuti in ambito diagnostico e terapeutico. da un lato, infatti, l’approvazione di nuovi criteri diagnostici [15] ha reso possibile una diagnosi certa di sclerosi multipla più precocemente rispetto al passato, evento che ha radicalmente mutato le caratteristiche del rapporto tra medico e paziente al momento dell’insorgenza di un episodio iniziale di disfunzione neurologica. dall’altro lato abbiamo l’acquisizione di maggiori dati circa l’utilità di iniziare precocemente una terapia, in modo tale da ridurre il processo di disseminazione spaziale e temporale della malattia [16-19]. si tratta di elementi che pongono ancor di più l’accento sull’importanza della comunicazione della diagnosi e quindi sulla necessità che essa sia affrontata esclusivamente da parte di neurologi esperti nella 56 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) l’importanza della comunicazione della diagnosi nella sclerosi multipla materia, consapevoli dell’impatto che tale momento provoca sui pazienti e quindi dei requisiti professionali e umani indispensabili per affrontarlo. fortunatamente, proprio i progressi in ambito terapeutico hanno notevolmente migliorato le prospettive prognostiche dei pazienti con sclerosi multipla: i farmaci di più recente approvazione, come natalizumab e fingolimod, utilizzati in italia come terapie di seconda linea, hanno mostrato profili di efficacia elevati e superiori a quelli delle tradizionali terapie di primo livello, come interferone β e glatiramer acetato. in uno studio randomizzato in doppio cieco vs placebo (studio affirm) [20], natalizumab si è dimostrato in grado di ridurre il rischio di progressione sostenuta della disabilità del 42% in due anni e ha ridotto l’incidenza di recidive cliniche a un anno del 68%, con una diminuzione dell’83% per quanto riguarda l’accumulo di nuove o più estese lesioni iperintense alle immagini pesate in t2 alla risonanza magnetica. per quanto riguarda fingolimod, primo farmaco orale per il trattamento della sm, i risultati degli studi clinici hanno messo in evidenza una riduzione del tasso annuale di ricadute del 54% e una significativa riduzione della progressione della disabilità (studio freedoms) [21] rispetto al placebo. il farmaco ha inoltre dimostrato un’efficacia maggiore rispetto a interferone β1a per quanto riguarda il tasso annuale di ricadute (0,16 per fingolimod contro 0,33 per interferone β1a; p < 0,001) e la progressione della malattia alla risonanza magnetica (studio transforms) [22]. la disponibilità di farmaci altamente efficaci, che hanno veramente cambiato la storia naturale della malattia, assieme alle molte altre molecole che si renderanno presto fruibili, ci offre fortunatamente la possibilità di temperare con elementi di ottimismo e di speranza un momento, quello della comunicazione della diagnosi di sclerosi multipla, che rimane pur sempre drammatico e che segna una frattura netta nella vita di chi ne è colpito. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. bibliografia 1. heesen c, kolbeck j, gold sm, et al. delivering the diagnosis of ms-results of a survey among patients and neurologists. acta neurol scand 2003; 107: 363-8 2. solari a, acquarone n, pucci e, et al. communicating the diagnosis of multiple sclerosis – a qualitative study. mult scler 2007; 13: 763-9 3. charles c, gafni a, whelan t. shared decision-making in the medical encounter: what does it mean? soc sci med 1997; 44: 681-92 4. arora nk, mc horney ca. patient preferences for medical decision making: who really wants to participate? med care 2000; 38: 335-41 5. nease rf, brooks wb. patient desire for information and decision making in health care decisions: the autonomy preference index and the health opinion survey. j gen intern med 1995; 10: 593-600 6. 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amato mp, portaccio e, goretti b, et al. cognitive impairment in early stages of multiple sclerosis. neurol sci 2010; 31 (suppl 2): s211-s114 57 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(2) e. tsantes, c. senesi, e. curti, f. granella 12. back al. communicating bad news. west j med 2002; 176: 177-80 13. lee sj, back al, block sd, et al. enhancing physician-patient communication. haematology 2002; 1: 464-83 14. papathanasopoulos p, messinis l, lyros e, et al. communicating the diagnosis of multiple sclerosisresults of a survey among greek neurologists. j neurol 2008; 255: 1963-9 15. polman ch, reingold sc, banwell b, et al. diagnostic criteria for multiple sclerosis: 2010 revisions to the mcdonald criteria. ann neurol 2011; 69: 292-302 16. jacobs ld, beck rw, simon jh, et al. intramuscular interferon beta-1a therapy initiated during a first demyelinating event in multiple sclerosis. champs study group. n engl j med 2000; 343: 898-904 17. kappos l, freedman ms, 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farmaci francesca pizzo 1, arianna dilaghi 2, anna maria romoli 1, silvia pradella 1, andrea la licata 1, barbara chiocchetti 1, alessandra pistelli 2, marco paganini 1 1 centro di riferimento regionale diagnosi e cura delle epilessie, neurologia ii, aou careggi, firenze 2 centro di riferimento regionale tossicologia perinatale, aou careggi, firenze abstract treating women affected by epilepsy during pregnancy is challenging. clinicians have to consider both the teratogenic effects of antiepileptic drugs (aeds) and the risk of seizure recurrence. pharmacokinetic changes during pregnancy are rapid and conspicuous, so that the serum concentration of drugs can be modified and the effectiveness of aeds cannot be guaranteed. the aim of this study is to evaluate the risk of major congenital malformation (mcm) associated with aeds treatment during the first trimester of pregnancy. we collected data from 338 patients who contacted the teratology information services of florence university hospital and we found that only the variable monotherapy vs. politherapy had statistical significance for mcm. more studies are needed to assess the efficacy and safety of newer aeds. keywords: epilepsy; pregnancy; antiepileptic drugs; teratogenic effects pregnancy in epileptic patients: comparison between well-established therapeutic strategies and opportunities coming from new drugs cmi 2013; 7(3): 91-98 gestione clinica corresponding author francesca pizzo neurofarba department neuroscience section university of florence azienda ospedalierouniversitaria careggi largo brambilla 3, italy phone: +390557947636 fax: +3905579477769 francescapizzo@gmail.com disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo introduzione l’utilizzo di farmaci durante la gravidanza e la valutazione dei loro potenziali effetti teratogeni continua a essere un problema attuale, soprattutto per quanto riguarda le donne affette da patologie croniche, come l’epilessia, che necessitano di un trattamento a lungo termine. farmacocinetica in gravidanza nel corso della gravidanza la donna va incontro a diverse modificazioni fisiologiche che possono determinare una serie di cambiamenti nella farmacocinetica delle molecole assunte. l’assorbimento di un farmaco può essere infatti alterato dal ritardato svuotamento gastrico e dal rallentato transito intestinale, mentre il progressivo aumento dei liquidi corporei con la creazione di nuovi compartimenti (placenta, liquido amniotico) associato alla riduzione dell’albumina plasmatica può modificarne la distribuzione. l’aumento della volemia e della filtrazione glomerulare incrementano inoltre l’escrezione renale. l’insieme di questi fattori può alterare l’effetto dei farmaci e rendere necessari aggiustamenti terapeutici in corso di trattamenti cronici [1]. principi di teratogenesi le malformazioni congenite comprendono un insieme eterogeneo di difetti caratterizzati da un’anomalia, per lo più macroscopica, della forma o della struttura di un organo determinatasi prima della nascita [2]. in italia la prevalenza feto-infantile dei difetti congeniti strutturali maggiori è stimata intorno al 2-3%. se vengono inclusi difetti di minore gravità si arriva al 5% circa [2]. la classificazione delle anomalie congenite e la loro distinzione in maggiori e minori ha prevalentemente significato prognostico, non eziopatogenetico: i difetti congeniti strutturali, infatti, possono alterare o non alterare lo stato di salute del soggetto che ne è portatore [3,4]. gli agenti teratogeni comprendono: agenti biologici, agenti fisici e agenti chimici tra cui i farmaci (che peraltro rappresentano solo il 2% delle cause di malformazioni congenite) e i meccanismi con cui agiscono sono spesso multipli e non completamente chiariti [5]. la risposta all’agente teratogeno è infatti largamente dipendente dal genotipo dell’embrione, varia con il variare dello stato di sviluppo raggiunto dal prodotto del concepimento ed è anche dipendente dalla dose di agente nocivo, dalla durata dell’esposizione, dalla quantità di sostanza che raggiunge l’embrione e dalla concomitante interazione di più cause. per quanto riguarda i farmaci, la dose e la modalità di somministrazione (soprattutto se nella madre sono mantenuti livelli ematici costanti nel tempo e in presenza di più farmaci associati) possono influenzare il passaggio transplacentare della molecola e quindi la sua azione sul feto. inoltre, nell’80% dei casi, i difetti congeniti sono riconducibili all’interazione tra fattori esogeni e fattori genetici, con complessi meccanismi multifattoriali. classificazione dei farmaci in gravidanza dal 1980 la fda (food and drug administration) classifica i farmaci di nuova immissione in commercio in base alla loro sicurezza in gravidanza. nella pratica clinica trova ampio utilizzo anche la classificazione adec (australian drug evaluation committee) che definisce, oltre alle 5 classi principali (a, b, c, d, x), un’ulteriore suddivisione della classe di rischio b sulla base della disponibilità di dati sperimentali sugli animali [6]. come si può osservare dalla tabella i, i principali farmaci antiepilettici attualmente utilizzati sono ritenuti responsabili dell’aumento dell’incidenza di disordini dello sviluppo nell’uomo. per quanto riguarda alcuni farmaci di nuovo impiego quali lacosamide, retigabina, eslicarbazepina e perampanel, ad oggi non sono disponibili dati sufficienti per inserirli in questa classificazione e il loro rischio riproduttivo per il momento è difficilmente valutabile. descrizione molecole classe a farmaci che sono stati usati da un gran numero di donne in gravidanza e per i quali non sono noti effetti dannosi né per il corso della gravidanza né per la salute del nascituro o del neonato classe b farmaci per i quali non sono disponibili sufficienti dati sulla gravidanza umana per poterne valutare l’innocuità per il corso della gravidanza e per la salute del nascituro e del neonato levetiracetam classe b1 gli studi sperimentali sugli animali non mostrano effetti pericolosi diretti e indiretti sulla riproduzione, la gestazione, l’embrione, il feto e lo sviluppo perie post-natale gabapentin classe b2 gli studi sperimentali sono insufficienti per stabilire l’innocuità classe b3 gli studi sperimentali sugli animali hanno mostrato tossicità riproduttiva topiramato classe c farmaci che non aumentano la spontanea incidenza di disordini dello sviluppo umano, ma hanno effetti farmacologici sul decorso della gravidanza e sulla salute del nascituro e del neonato clonazepam classe d farmaci che sono sospettati di aumentare la spontanea incidenza di disordini dello sviluppo umano e/o di avere effetti sulla gravidanza, sul nascituro o sul neonato zonisamide carbamazepina fenobarbital acido valproico fenitoina lamotrigina primidone oxcarbazepina etosuccimide classe x farmaci che notoriamente causano disordini dello sviluppo umano e/o hanno effetto sulla gravidanza, sul nascituro o sul neonato tabella i. principali farmaci antiepilettici per classe di rischio [6] acido folico molti studi hanno dimostrato che elevati livelli di folatemia mantenuti dal momento della formazione dello zigote per tutta la durata dell’organogenesi sono in grado di ridurre l’incidenza di malformazioni congenite e in particolare dei difetti del tubo neurale quali spina bifida e anencefalia. risultano significativamente ridotti anche i casi di malformazioni cardiache, labiopalatoschisi e difetti degli arti [7,8]. la riduzione del rischio relativo è stimata intorno al 36% se si assumono almeno 0,4 mg/die di acido folico. per questo motivo a tutte le donne in età fertile che programmano una gravidanza è raccomandata, oltre a un’alimentazione ricca di folati, un’integrazione di acido folico a dosaggi compresi tra 0,4 e 5 mg/die da intraprendere almeno tre mesi prima del concepimento. riguardo alla dose efficace, alcuni dati in letteratura suggeriscono una correlazione dose-dipendente tra folatemia e riduzione dei difetti del tubo neurale [9]. alla luce di questo, alle pazienti in terapia con farmaci antiepilettici è opportuno raccomandare un’integrazione di acido folico di almeno 5 mg/die. epilessia e gravidanza l’epilessia è uno dei disturbi neurologici più frequenti e interessa lo 0,5-0,7% della popolazione generale nei paesi occidentali [10]. si stima che il 25% dei pazienti epilettici sia rappresentato da donne in età fertile [11]. l’approccio farmacologico a queste pazienti non può prescindere dal considerare le possibili interazioni e gli effetti avversi della terapia antiepilettica durante un’eventuale gravidanza e le conseguenze che la ricorrenza delle crisi può avere sul feto e sulla madre. non sono ad oggi disponibili studi clinici basati su grandi numeri di pazienti che dimostrino gli effetti delle crisi, convulsive e non, in gravidanza. i dati riportati nel registro eurap descrivono un unico caso di morte intrauterina fetale su 36 stati di male (di cui 12 convulsivi) in gravidanza [12]. sono riportati inoltre casi di bradicardia fetale durante stato di male epilettico [13]. il danno fetale durante il recidivare di eventi critici, in particolare convulsivi, potrebbe essere legato a un insulto ipossico o secondario a traumatismi; inoltre le crisi potrebbero determinare gravi conseguenze anche alla salute della madre. la scelta del farmaco non è quindi semplice; si devono infatti considerare il tipo di epilessia, la risposta individuale ai farmaci, la compliance farmacologica e le interazioni con eventuali altre terapie. dagli anni ‘90 ad oggi il numero di farmaci antiepilettici (fae) è molto aumentato e le molecole di nuova generazione hanno generalmente un profilo farmacocinetico e farmacodinamico di più facile gestione, oltre a minori interazioni con altre terapie. ma, mentre le conseguenze dell’utilizzo in gravidanza dei fae di vecchia generazione sono ormai note, le conoscenze sui nuovi farmaci sono ancora incomplete, poiché gli studi riportati in letteratura si basano spesso su un ridotto numero di pazienti, che non raggiungono la significatività statistica. nei figli di madri epilettiche è stata ampiamente dimostrata una maggior frequenza di malformazioni. quanto questo rischio sia dovuto ai farmaci anticonvulsivanti (singoli o in associazione) oppure alle caratteristiche dell’epilessia non è ancora stato completamente chiarito. mentre il ruolo teratogenetico dei fae è largamente riconosciuto nel mondo scientifico, lo stesso non si può dire relativamente alle conseguenze dell’epilessia sulla gravidanza e sullo sviluppo del prodotto del concepimento. tenendo conto che nessun farmaco antiepilettico si è dimostrato totalmente scevro di rischi e con un profilo di sicurezza di classe a, il trattamento ottimale dell’epilessia in gravidanza risulta essere particolarmente impegnativo. per i farmaci di vecchia generazione sappiamo che il rischio di malformazioni congenite maggiori (mcm) aumenta fino a 2-3 volte rispetto a quello della popolazione generale (4-10% vs 2-5%) quando la terapia è assunta nel primo trimestre di gravidanza [14]. il potenziale effetto teratogeno della fenitoina (pht) è infatti noto fin dagli anni ‘60 e già nel 1975 hanson descrisse una “sindrome fetale idantoinica” caratterizzata dall’associazione di malformazioni congenite (dismorfismi facciali, anomalie delle falangi distali, difetti cardiaci) e alterazioni dello sviluppo motorio e cognitivo nel 10% dei bambini esposti al farmaco in utero. anche l’esposizione a carbamazepina (cbz) nel primo trimestre è stata associata a un aumentato rischio di malformazioni del tubo neurale e del massiccio facciale. è inoltre noto da tempo un aumentato rischio di mcm, in particolare di spina bifida e altri difetti del tubo neurale, associato alla terapia con acido valproico (vpa) specialmente per dosaggi superiori a 800-1.000 mg/die [15] e per le pazienti trattate con più di un fae rispetto alla monoterapia [16]. levetiracetam (lev), indicato nel trattamento delle epilessie idiopatiche generalizzate, risulta particolarmente interessante in quanto potrebbe rappresentare una valida alternativa al vpa in gravidanza, mentre alcuni studi hanno recentemente ridimensionato la sicurezza di lamotrigina (ltg). effetti a lungo termine sullo sviluppo neurocognitivo sono stati dimostrati in bambini esposti ad alte dosi di vpa mentre, ad oggi, l’esposizione a lev non sembra essere correlata a tali effetti [17]. uno studio di mølgaard-nielsen [18] si è concentrato sugli effetti dei nuovi fae in gravidanza, senza riscontrare un aumentato rischio di mcm nelle pazienti esposte nel primo trimestre, quindi sottolineandone la sicurezza. da tutto questo nasce l’esigenza di studiare più approfonditamente gli effetti dei nuovi fae in gravidanza, confrontandoli con altri fattori di rischio/confondenti che interessano la gestante. obiettivo dello studio obiettivo dello studio è valutare il rischio di mcm in relazione ai fae utilizzati nel primo trimestre di gravidanza e ad altre variabili concomitanti, valutando anche le opportunità offerte dai nuovi farmaci. materiali e metodi nell’ambito della popolazione afferente ai centri di riferimento regionali di tossicologia perinatale e di diagnosi e cura delle epilessie dell’azienda ospedaliero-universitaria careggi dal 2000 al 2012, è stato studiato un campione di 338 pazienti con epilessia in gravidanza in trattamento con fae. la donna che si rivolge al servizio di tossicologia perinatale viene intervistata telefonicamente con lo scopo di indagare l’anamnesi patologica di entrambi i genitori (compresi i casi di malattie e/o malformazioni congenite nelle rispettive famiglie di origine), l’anamnesi tossicologica ambientale, con particolare attenzione all’eventuale esposizione professionale a sostanze tossiche, l’anamnesi farmaco-tossicologica con valutazione del tipo di molecola/e assunto/e, l’epoca e la durata dell’assunzione, la dose giornaliera e gli eventuali aggiustamenti terapeutici e infine le abitudini voluttuarie della paziente (consumo di alcol, caffè, fumo di sigaretta e/o sostanze stupefacenti). tre mesi dopo la data presunta del parto la paziente viene ricontattata telefonicamente per indagare l’esito della gravidanza (parto, aborto spontaneo, interruzione volontaria o terapeutica di gravidanza, morte fetale intrauterina), l’età gestazionale al momento del parto o aborto, i parametri auxologici neonatali (peso, lunghezza e circonferenza cranica), l’indice di apgar, le eventuali complicanze perinatali e la presenza di malformazioni congenite. le pazienti vengono contemporaneamente indirizzate al centro di riferimento regionale per la diagnosi e la cura delle epilessie per poter essere seguite con visite seriate in base alle esigenze del caso. per la definizione delle anomalie congenite abbiamo fatto riferimento alla classificazione icd-9-cm (international classification of diseases – 9th revision clinical modification). abbiamo considerato come politerapia le pazienti esposte ad almeno due farmaci antiepilettici durante le prime 12 settimane di gravidanza. è stata eseguita un’analisi descrittiva sul campione in particolare per le variabili: assunzione di uno o più fae, abitudine al fumo di sigaretta, consumo di alcol e trattamento con acido folico. abbiamo analizzato il numero di mcm e la percentuale di aborti spontanei in relazione alla variabile mono/politerapia, stratificando per le variabili di controllo (fumo, alcol, acido folico ed età). la percentuale di mcm è stata calcolata sulla somma del totale di nati vivi, delle interruzioni terapeutiche di gravidanza (itg) e delle morti intrauterine fetali (mif), escludendo gli aborti spontanei (abs) e le interruzioni volontarie di gravidanza (ivg). abbiamo diviso le classi di fae in sottogruppi in base al loro impiego nella popolazione in oggetto e in base alla classificazione in “vecchi” e “nuovi” farmaci, identificando 6 sottoclassi di fae: cbz, pb (fenobarbital), vpa, ltg, nuovi fae – comprensivo di tpm (topiramato), oxc (oxcarbazepina), lev, gaba (gabapentin) – e residuali – comprensivo di pht, bsb (barbesaclone), pri (primidone), cln (clonazepam), clb (clobazam) ed etx (etosuccimide). abbiamo quindi compiuto un’analisi descrittiva sulla frequenza di mcm nelle pazienti in monoterapia divise per singole sottoclassi di fae. è stata inoltre eseguita un’analisi di regressione logistica calcolando il rischio di mcm per ciascuna variabile (fumo, alcol, acido folico, monoo politerapia). l’analisi statistica è stata condotta con l’utilizzo del software ibm spss statistics 20. risultati nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2000 e il 31 dicembre 2012 si sono rivolte al centro di riferimento regionale di tossicologia perinatale dell’aou careggi 338 donne in gravidanza affette da epilessia e in trattamento con fae. l’età media delle pazienti è 32,12 anni, con ds = 5,09 (età massima 49, età minima 17), mentre la mediana è 33 anni. le pazienti fumatrici sono 63 (18,6%) e le pazienti che assumono alcol 30 (8,8%) (tabella ii). fattori di rischio sì no fumo 18,6% 81,4% alcol 8,8% 91,2% tabella ii. distribuzione dei fattori di rischio nella popolazione l’acido folico è stato utilizzato in 291 pazienti (86%). il totale dei nati vivi è 287, gli abs sono 35, le ivg 11, i drop out 3, inoltre ci sono 1 itg e 1 mif. le pazienti in monoterapia sono 270 (79,9%), quelle in politerapia sono 66 (19,8%), due pazienti sono state escluse in quanto non sono state esposte a fae nelle prime 12 settimane. l’esposizione ai singoli farmaci nella popolazione è riassunta nella figura 1. figura 1. utilizzo dei farmaci antiepilettici (fae) nella popolazione (monoe politerapie) le mcm riscontrate nella nostra popolazione associate ai farmaci assunti sono sintetizzate nelle tabelle iii (monoterapie) e iv (politerapie). tipo di mcm fae mg/die ipoplasia cuore sinistro carbamazepina 800 difetto interventricolare con shunt destro-sinistro carbamazepina 400 palatoschisi levetiracetam 2.000 agenesia renale fenobarbital 175 agenesia renale carbamazepina 1.200 pervietà del forame ovale clonazepam 2 gocce arco aortico destroposto fenobarbital 150 ipospadia acido valproico 1.000 tabella iii. monoterapia: malformazioni congenite maggiori (mcm) associate ai farmaci antiepilettici (fae) tipo di mcm fae mg/die labiopalatoschisi oxcarbazepina 1.200 + topiramato 600 + fenobarbital 150 labioschisi lamotrigina 100 + clonazepam 25 stenosi ipertrofica del piloro fenobarbital 100 + carbamazepina 1.000 dotto arterioso pervio oxcarbazepina 1.200 + fenobarbital 150 tiroide ectopica ipoplasica acido valproico 300 + carbamazepina 600 dotto di botallo pervio fenobarbital 150 + clobazam 10 restringimento dell’aorta oxcarbazepina 600 + clobazam 10 difetto della 1° falange della mano destra carbamazepina 800 + levetiracetam 1.000 ipoplasia del 3° dito del piede carbamazepina 500 + fenobarbital 150 tabella iv. politerapia: malformazioni congenite maggiori (mcm) associate ai farmaci antiepilettici (fae) il totale degli abs è 35 (10,3%), 30 nelle pazienti in monoterapia (11,1%) e 5 nelle pazienti in politerapia (7,4%). non è stata riscontrata alcuna relazione tra abs e numero di farmaci assunti. la valutazione delle mcm per singole classi di fae non ha condotto a conclusioni significative (tabella v). sottoclassi di fae malformazioni aborti assenza di malformazioni presenza di malformazioni politerapia 5 52 9 carbamazepina 8 81 3 fenobarbital 5 60 2 acido valproico 6 20 1 lamotrigina 3 31 0 nuovi fae 6 27 1 residuali 2 13 1 tabella v. distribuzione delle malformazioni congenite maggiori (mcm) per classe di farmaci antiepilettici (fae) l’analisi di regressione logistica vs il rischio di mcm eseguita per le variabili fumo, alcol, acido folico, monoo politerapia ha mostrato che solo la variabile mono/politerapia raggiungeva la significatività statistica (p < 0,01) (tabella vi, figura 2, tabella vii). mcm/totale nati 287 + 1 itg + 1 mif mcm in monoterapia mcm in politerapia 17/289 8 (3,5%) 9 (15,25%) tabella vi. rischio di malformazioni congenite maggiori (mcm) correlato a monoe politerapia figura 2. distribuzione della probabilità media di sviluppare malformazioni congenite maggiori (mcm) nel gruppo in monoterapia rispetto al gruppo in politerapia variabile coefficiente di variabilità (b) errore standard di b statistica di wald livelli di significatività rapporto odd stimato alcol sì/no -0,101 0,828 0,015 0,903 0,904 fumo sì/no 18,455 5400,846 0,000 0,997 103516366,239 acido folico sì/no 0,375 0,811 0,213 0,644 1,454 età 0,041 0,060 0,457 0,499 1,042 mono/politerapia 3 mesi 1,596 0,521 9,368 0,002 4,933 codice farmaci 0,030 0,035 0,743 0,389 1,030 costante -24,598 5400,847 0,000 0,996 0,000 tabella vii. analisi di regressione logistica relativa alla probabilità media di sviluppare malformazioni congenite maggiori (mcm) nel gruppo in monoterapia rispetto al gruppo in politerapia discussione la nostra analisi evidenzia un aumento significativo del rischio di mcm solo nella popolazione esposta a più di un fae nelle prime 12 settimane di gravidanza (p < 0,01), come peraltro già descritto in letteratura [16]. questo dato è stato valutato considerando anche i fattori di rischio concomitanti (fumo e alcol) e la terapia con acido folico. a questo proposito è necessario specificare che le pazienti che assumono più di un fae e/o dosaggi più elevati hanno solitamente un tipo di epilessia di più difficile controllo e quindi definibile, almeno parzialmente, farmaco-resistente. pertanto la variabile politerapia potrebbe includere questa caratteristica riferibile al tipo di epilessia piuttosto che all’associazione dei farmaci, rappresentando un ulteriore fattore confondente nel determinare la reale causa dell’aumentato rischio di mcm in questo sottogruppo di pazienti. ad oggi il meccanismo della farmaco-resistenza non è del tutto chiarito, pertanto non è facilmente discernibile dalle altre componenti. la percentuale di abs nel nostro campione risulta sovrapponibile a quella della popolazione generale [19]. la valutazione delle mcm per singole classi di fae non ha evidenziato correlazioni significative, in particolare per quanto riguarda differenze tra “vecchi” e “nuovi” farmaci. non è stato possibile eseguire un’analisi dettagliata delle singole molecole con tutti gli altri fattori interferenti (es. età, fumo, alcol) a causa dell’esiguità del campione. nel nostro campione l’unica mcm riscontrata nelle pazienti in monoterapia con nuovi fae è un caso di labiopalatoschisi in un feto esposto a lev 2.000 mg mentre nello studio di mølgaard-nielsen [18] la sottopopolazione di pazienti in terapia con lev è composta da 58 pazienti e non sono state osservate mcm. per quanto riguarda il riscontro di mcm in corso di politerapia, risultano coinvolti anche lamotrigina e topiramato (tabella iv). è ampiamente descritto in letteratura che il rischio di mcm associato al vpa è concentrazione-dipendente [15], motivo per cui nella nostra analisi abbiamo considerato separatamente le pazienti in terapia con vpa a dosaggio > di 800 mg/die. è stato riscontrato un solo caso di ipospadia in seguito all’esposizione a 1.000 mg/die di vpa. il principale limite del nostro studio è rappresentato dalle ridotte dimensioni del campione, che non ha consentito di svolgere sottoanalisi per i singoli farmaci. un altro limite è la mancanza di un gruppo di controllo omogeneo caratterizzato da pazienti con epilessia non in trattamento con fae; tale gruppo è evidentemente di difficile reperibilità vista l’indicazione clinica a trattare questa categoria di pazienti durante la gravidanza. ulteriori studi sarebbero peraltro di fondamentale importanza soprattutto per quanto riguarda le molecole di nuova generazione dotate di maggiore maneggevolezza e minori effetti indesiderati. inoltre la mancanza di un follow-up a distanza dei bambini nati da donne affette da epilessia ed esposte a fae durante la gravidanza non ci ha consentito di indagare le possibili alterazioni dello sviluppo cognitivo. conclusioni e indicazioni cliniche il nostro studio, volto a valutare la relazione tra esposizione a farmaci antiepilettici nelle prime 12 settimane di gravidanza e rischio di mcm, ha evidenziato un significativo aumento di mcm solo tra le pazienti esposte a più di un fae. nella pratica clinica è fondamentale un’appropriata preparazione degli operatori sanitari per poter fornire alle pazienti corrette indicazioni sulla gestione della gravidanza già al momento della diagnosi di epilessia. la donna affetta da epilessia deve infatti essere a conoscenza degli effetti che i fae e la ricorrenza delle crisi possono avere sul feto, oltre che dell’importanza di un’adeguata compliance farmacologica una volta stabilita la terapia più adatta. è auspicabile che queste pazienti programmino con largo anticipo la gravidanza, per poter iniziare il trattamento con acido folico e per permettere eventuali modifiche della terapia in atto. sulla base delle informazioni disponibili in letteratura il clinico sceglierà la terapia più adatta e al dosaggio più basso efficace per evitare il ricorrere degli eventi critici e per minimizzare gli effetti avversi della terapia antiepilettica in gravidanza. il neurologo deve ricordare che alcuni farmaci, in particolar modo quelli escreti a livello renale (ltg, lev, oxc), durante la gravidanza possono andare incontro a variazioni dei livelli plasmatici con conseguente riduzione della loro efficacia, ragion per cui è opportuno eseguire dosaggi ematici seriati [20]. comportamenti da adottare di fronte a una paziente affetta da epilessia in gravidanza (o intenzionata a pianificarne una) indirizzare la paziente a un centro specializzato in epilessia oltre che a un centro di tossicologia perinatale per la valutazione del rischio associato ai farmaci spiegare alla paziente i rischi connessi con i fae in gravidanza ed enfatizzare la necessità di una programmazione anticipata della stessa (ottimizzazione della terapia, inizio integrazione con acido folico) monitorare costantemente i livelli plasmatici di fae in gravidanza e adeguarne conseguentemente i dosaggi inviare la paziente a un centro di riferimento per le gravidanze a rischio per eseguire le valutazioni ostetrico-ginecologiche del caso informare che l’epilessia di per sé non è indicazione al parto cesareo, che deve essere considerato solo in caso di crisi convulsive non controllate [21] l’allattamento non è sempre controindicato e deve essere rivalutato solo in presenza di segni di sedazione nel bambino [21] bibliografia 1. koren g. pharmacokinetics in pregnancy; clinical significance. presentato a “clinically relevant pharmacokinetic changes in pregnancy”, may 27, 2011, montréal, quebec 2. regione toscana. rtdc. registro toscano difetti congeniti. http://www.rtdc.it/registro_malformazioni.htm (ultimo accesso dicembre 2013) 3. carter co. 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prognostic value in predicting evolution in severe ocd. materials and methods: patients with a main diagnosis of ocd were recruited according to dsm-iv criteria. socio-demographic and clinical features were assessed by mean of a semi-structured interview and clinical rating scales (y-bocs, ham-a, ham-d and scid-ii). two subgroups were compared according to the severity of symptoms (severe vs mild-moderate). results: the total sample was made up of 450 ocd subjects aged 34.5±12.1, with a mean age of onset 22.3±9.1; 215 subjects (47.8%) were females. patients with severe ocd (y-bocs ≥ 32) showed a more insidious onset and a more chronic course compared to patients with mild-moderate symptoms. other predictors of increased ocd severity were washing and hoarding compulsions. lastly, the severity of the obsessive-compulsive condition was higher when it was associated either with mood disorders or with axis ii disorders (particularly cluster a). discussion: our study shows a correlation between severe ocd and severity predictors such as functional impairment and mood disorders. furthermore washing and hoarding symptoms, lifetime comorbity with mood disorders and cluster a personality disorders seem to predict ocd severity. keywords: obsessive-compulsive disorder; severity; comorbidity; symptomatology; subtype severe obsessive-compulsive disorder (ocd): socio-demographic and clinical features cmi 2013; 7(2): 53-61 clinical management corresponding author prof. g. maina via cherasco 11, 10126 torino tel. 011.6335425 fax 011.673473 giuseppe.maina@unito.it disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. introduzione il disturbo ossessivo-compulsivo (doc) è una patologia psichiatrica che comprende spesso quadri clinici cronici e talvolta anche seriamente invalidanti. la prevalenza lifetime nella popolazione generale è compresa tra l’1% e il 3% [1-2] con tassi compresi tra 0,9% e 3,4% nelle donne e tra 0,5% e 2,5% negli uomini [3]. nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (dsm-iv) [4] il doc è compreso tra i disturbi d’ansia, ma nella proposta del dsm-v si collocherebbe come entità nosologica autonoma insieme agli altri disturbi a esso correlati [5]. la gravità clinica del disturbo ossessivo-compulsivo è determinata da un insieme di elementi che sono in parte correlati tra loro, ma non del tutto sovrapponibili: l’intensità dei sintomi ossessivo-compulsivi, il grado di impairment funzionale, la cronicizzazione nel tempo, la resistenza ai trattamenti. gli studi sui fattori predittivi di gravità si sono generalmente occupati di cercare le correlazioni di vari fattori biologici o clinici con il decorso clinico e/o con la risposta alle terapie. gli studi focalizzati sulla grave intensità sintomatologica e/o sull’impairment funzionale sono invece in numero minore e non molto approfonditi. per quanto concerne in particolare le forme ad elevata intensità sintomatologica, sono state messe in evidenza alcune caratteristiche cliniche del disturbo che si associano significativamente a tali quadri [6-13]: l’esordio precoce del disturbo, la comorbidità con disturbo depressivo maggiore o con disturbo bipolare e infine la sintomatologia hoarder, definita come una sindrome caratterizzata dall’accumulo eccessivo e dall’incapacità di disfarsi di oggetti di scarso valore personale o affettivo, che porta ingombro degli spazi vitali, significativo disagio e compromissione del funzionamento [14]. nei casi gravi l’ingombro impedisce il normale uso degli spazi deputati alle attività di vita basilari, risultando una condizione pericolosa per la salute dei pazienti e determinando un alto rischio di incendi domestici, cadute e scarsa igiene [15-17]. altre correlazioni tra intensità grave dei sintomi ossessivo-compulsivi e caratteristiche socio-demografiche e cliniche non hanno trovato conferme significative oppure non sono state esplorate completamente. l’obiettivo del presente studio è quello di valutare le caratteristiche socio-demografiche e cliniche correlate alla severità della sintomatologia ossessivo-compulsiva in un ampio campione di pazienti affetti da doc. materiali e metodi pazienti sono stati reclutati soggetti con una diagnosi principale di doc, afferiti consecutivamente tra il gennaio 1995 e il gennaio 2012, presso il servizio per i disturbi depressivi e d’ansia, dipartimento di neuroscienze, università degli studi di torino. il servizio è situato all’interno dell’azienda ospedaliera “città della salute e della scienza di torino – presidio molinette” e rappresenta un centro di riferimento di terzo livello con un bacino di utenza di pazienti provenienti principalmente dal piemonte e dalla valle d’aosta. i pazienti sono principalmente inviati dal medico di base oppure da specialisti psichiatri, dopo aver effettuato una diagnosi di disturbo d’ansia o dell’umore, per richiedere un approfondimento diagnostico-terapeutico; in una minoranza di casi i pazienti si rivolgono al nostro centro spontaneamente. sono stati considerati i seguenti criteri di inclusione: (a) pazienti con età superiore ai 18 anni; (b) diagnosi principale di doc; (c) un punteggio totale alla 10-item yale-brown obsessive-compulsive scale (y-bocs) ≥ 16 [18-19]; (d) consenso informato per la partecipazione allo studio. strumenti di valutazione la diagnosi è stata posta in accordo con i criteri diagnostici previsti dal dsm-iv mediante la somministrazione della structured clinical interview for the dsm-iv axis i disorders (scid-i) [20]. le caratteristiche socio-demografiche e cliniche del campione sono state indagate mediante la somministrazione di un’intervista semi-strutturata, sviluppata presso il nostro centro e utilizzata nei nostri precedenti studi [21-25]: dati socio-demografici: età, genere, stato civile, scolarità in anni, situazione lavorativa; esordio dei sintomi ossessivo-compulsivi: definito dalla prima manifestazione dei sintomi, riconosciuti come tali dal paziente, ma che non interferiscono con il funzionamento complessivo; esordio del doc: definito dalla presenza, da almeno un mese, di sintomi ossessivo-compulsivi interferenti significativamente con una o più aree del funzionamento quotidiano del paziente; nei casi in cui non è stato possibile datare con esattezza l’esordio, è stato intervistato un familiare stretto con il consenso del paziente. inoltre è stato considerato un esordio improvviso quando i sintomi raggiungevano una severità clinicamente significativa entro una settimana dall’esordio, in caso contrario l’esordio era classificato come subdolo; decorso del doc: è stato definito episodico quando il paziente aveva presentato nella propria storia clinica un periodo libero da sintomi di almeno 6 mesi; tutti gli altri tipi di decorso sono stati considerati cronici; sintomatologia ossessivo-compulsiva: la severità dei sintomi ossessivo-compulsivi è stata valutata e misurata mediante la y-bocs mentre la presenza attuale e lifetime delle principali ossessioni e compulsioni per ciascun individuo è stata indagata utilizzando la yale-brown obsessive-compulsive scale-symptoms check-list (y-bocs sc). in aggiunta sono stati valutati sia i sintomi depressivi mediante la somministrazione della 17-item hamilton rating scale for depression (ham-d) [26] sia i sintomi ansiosi mediante la hamilton rating scale for anxiety (ham-a) [27]. infine, attraverso la somministrazione della scid-i [20], è stata valutata la presenza di comorbidità lifetime con altri disturbi di asse i e, mediante la structured clinical interview for the dsm-iv axis ii disorders (scid-ii) [28], la presenza di disturbi di asse ii in comorbidità. i trattamenti psico-farmacologici assunti dai pazienti arruolati non sono stati sistematicamente raccolti nel corso dell’osservazione. analisi statistica il campione è stato suddiviso in due sottogruppi in relazione alla gravità dei sintomi ossessivo-compulsivi: da un lato pazienti affetti da doc con sintomatologia lieve-moderata (y-bocs < 32) e dall’altro pazienti con doc e sintomatologia grave (y-bocs ≥ 32). sulla base di tale distinzione sono state comparate le caratteristiche socio-demografiche, cliniche e di comorbidità del campione in esame. tutte le analisi statistiche sono state effettuate utilizzando il programma spss versione 18.0 (spss inc., chicago) e il valore di significatività statistica è stato fissato a p<.05. l’analisi statistica, in relazione alla severità sintomatologica, è stata condotta con il t-test di student per campioni indipendenti per le variabili continue e il test di pearson (chi-quadro, χ2) per le variabili categoriali. gli autori dichiarano che lo studio presentato è stato realizzato in accordo con gli standard etici stabiliti nella dichiarazione di helsinki. gravi (n = 67) lievi-moderati (n = 383) x2/t-test df p genere, n (%) maschile 38 (56,7) 197 (51,4) 0,637 1 0,425 femminile 29 (43,3) 186 (48,6) età, media in anni (±ds) 33,81 (±10,97) 34,73 (±12,30) 0,444 448 0,567 stato civile, n (%): celibe/nubile 44 (65,6) 215 (56,1) 3,763 3 0,288 scolarità, media in anni (±ds) 11,10 (±3,50) 12,56 (±4,00) 2,806 448 0,005 no lavoro, n (%) 52 (77,6) 185 (48,3) 19,650 1 <0,001 età d’esordio, media in anni (±ds) sintomi 15,96 (±8,37) 17,54 (±8,93) 1,355 448 0,176 disturbo 20,88 (±8,78) 22,55 (±9,18) 1,380 448 0,168 modalità d’esordio, n (%) improvviso 12 (17,9) 124 (32,4) 5,658 1 0,017 insidioso 55 (82,1) 259 (67,6) modalità di decorso, n (%) cronico 64 (95,5) 310 (80,9) 8,639 1 0,003 episodico 3 (4,5) 73 (19,1) modalità di decorso, n (%) episodico 3 (4,5) 73 (19,1) 56,501 3 <0,001 cronico stabile 14 (20,9) 68 (17,8) cronico oscillante 30 (44,8) 226 (59,0) cronico deteriorante 20 (29,9) 16 (4,2) y-bocs, media (±ds) punteggio totale 34,39 (±2,03) 23,17 (±5,12) -17,687 448 <0,001 punteggio sottoscala ossessioni 17,18 (±1,38) 12,27 (±3,01) -13,122 448 <0,001 punteggio sottoscala compulsioni 17,21 (±1,32) 10,90 (±3,60) -14,151 448 <0,001 ham-d, media (±ds) 12,55 (±6,52) 10,99 (±6,27) -1,871 448 0,062 ham-a, media (±ds) 14,18 (±6,08) 11,82 (±6,62) -2,718 448 0,007 tabella i. caratteristiche socio-demografiche e cliniche di un campione di 450 pazienti con doc: differenze legate alla gravità sintomatologica (in grassetto i valori significativi) risultati gravi (n = 67) lievi-moderati (n = 383) x2 df p sintomi ossessivi n (%) aggressività 35 (52,2) 217 (56,7) 0,452 1 0,501 contaminazione 45 (67,2) 196 (51,2) 5,861 1 0,015 sessuali 12 (17,9) 76 (19,8) 0,135 1 0,713 religiose 12 (17,9) 90 (23,5) 1.016 1 0,313 somatiche 24 (35,8) 116 (30,3) 0,815 1 0,367 simmetria/precisione 46 (68,7) 169 (44,1) 13,754 1 <0,001 accumulo/risparmio 18 (26,9) 57 (14,9) 5,896 1 0,015 sintomi compulsivi n (%) controllo 47 (70,1) 255 (66,6) 0,329 1 0,329 pulizia/lavaggio 49 (73,1) 194 (50,7) 11,603 1 0,001 rituali ripetitivi 45 (67,2) 184 (48,0) 8,343 1 0,004 ordinare/rassettare 24 (35,8) 100 (26,1) 2,694 1 0,101 conteggio 22 (32,8) 68 (17,8) 8,106 1 0,004 accumulare/collezionare 16 (23,9) 51 (13,3) 5,023 1 0,025 tabella ii. profilo sintomatologico alla yale-brown obsessive-compulsive scale symptom checklist (y-bocs sc) in un campione di 450 pazienti con doc: differenze legate alla gravità sintomatologica (in grassetto i valori significativi) sono stati presi in considerazione 450 pazienti con diagnosi principale di doc; 215 (47,8%) soggetti erano di sesso femminile, mentre 235 (52,2%) erano di sesso maschile. il campione totale presentava un’età media di 34,6±12,1, una scolarità di 12,3±4,0 anni e un tasso di occupazione del 47,3%. l’età d’esordio del disturbo risultava di 22,3±9,1 anni e il punteggio medio di gravità alla y-bocs era pari a 24,8±6,2. considerando la gravità sintomatologica secondo il punteggio y-bocs, 67 soggetti (14,9%) presentavano una sintomatologia ossessivo-compulsiva di intensità massima (doc grave: y-bocs ≥ 32). mettendo a confronto questo sottogruppo di soggetti con la maggioranza restante di 383 pazienti (con doc ad intensità sintomatologica lieve-moderata) sono risultate alcune differenza statisticamente significative (tabella i). i pazienti ossessivo-compulsivi con punteggio y-bocs ≥ 32 manifestavano un livello scolastico (11,1±3,5 vs 12,6±4,0) e un funzionamento lavorativo (77,6% vs 48,3%) significativamente peggiori rispetto al sottogruppo di pazienti con sintomatologia ossessivo-compulsiva di entità lieve-moderata. per quanto riguarda le caratteristiche cliniche del doc, una modalità d’esordio più insidiosa e un decorso caratterizzato da cronicità con deterioramento erano maggiormente predominanti nei soggetti con una sintomatologia ossessivo-compulsiva grave. inoltre, la sintomatologia ossessivo-compulsiva ad elevata intensità si associava ad una sintomatologia ansiosa più intensa (misurata secondo la ham-a), mentre la sintomatologia depressiva concomitante ai sintomi ossessivo-compulsivi non variava con il variare dell’intensità dei sintomi specifici. le differenze correlate alla severità sintomatologica in termini di presenza lifetime di specifici sintomi ossessivo-compulsivi, indagati con la y-bocs sc, sono riportate in tabella ii. i soggetti con doc grave riportavano più sintomatologia di tipo washing (ossessioni di contaminazione 67,2% vs 51,2%; compulsioni di pulizia/lavaggio 73,1% vs 50,7%) e di tipo hoarding (ossessioni di accumulo/risparmio 26,9% vs 14,9%; compulsioni di accumulare/collezionare 23,9% vs 13,3%). per quanto riguarda la presenza di comorbidità di asse i, come riportato in tabella iii, emerge che i pazienti con sintomatologia ossessivo-compulsiva grave manifestano nella loro storia clinica almeno un disturbo dell’umore lifetime (73,1% vs 61,1%). inoltre, la comorbidità con disturbo di panico appare significativamente meno associata al doc grave (1,5% vs 13,6%). il doc con sintomatologia severa è significativamente complicato dalla presenza di almeno un disturbo di personalità; in particolare emerge che il cluster a è quello che, in maniera statisticamente significativa, si associa ai soggetti che riportano un punteggio alla y-bocs ≥ 32 (25,9% vs 11,5%): all’interno di questi, i disturbi di personalità schizoide e schizotipico sono quelli maggiormente rappresentati. infine, all’interno dei disturbi di personalità di cluster b, si mette in evidenza come il disturbo borderline di personalità caratterizzi significativamente la gravità del quadro clinico di pazienti con doc (15,5% vs 6,4%). i dati riguardanti la presenza di comorbidità con disturbi psichiatrici di asse ii sono illustrati in tabella iv. gravi (n = 67) lievi-moderati (n = 383) x2 df p almeno un disturbo d’ansia n (%) 15 (22,4) 101 (26,4) 0,473 1 0,492 disturbo di panico 1 (1,5) 52 (13,6) 8,014 1 0,005 fobia sociale 5 (7,5) 21 (5,5) 0,411 1 0,522 fobia specifica 7 (10,4) 32 (8,4) 0,315 1 0,574 disturbo d’ansia generalizzato 6 (9,0) 23 (6,0) 0,823 1 0,364 almeno un disturbo dell’umore n (%) 49 (73,1) 234 (61,1) 3,541 1 0,050 depressione maggiore 19 (28,4) 103 (26,9) 0,062 1 0,803 disturbo distimico 4 (6,0) 9 (2,3) 2,664 1 0,103 depressione minore 17 (25,4) 69 (18,0) 1,997 1 0,158 disturbo bipolare i 4 (6,0) 17 (4,4) 0,301 1 0,583 disturbo bipolare ii 6 (9,0) 41 (10,7) 0,187 1 0,666 disturbo bipolare 10 (14,9) 58 (15,1) 0,002 1 0,963 abuso e/o dipendenza n (%) 15 (6,9) 12 (6,1) 0,124 1 0,725 almeno un disturbo alimentare n (%) 3 (4,5) 22 (5,7) 0,174 1 0,676 anoressia nervosa 1 (1,5) 10 (2,6) 0,299 1 0,584 bulimia nervosa 0 (0,0) 6 (1,6) 1,064 1 0,302 disturbo alimentare nas 2 (3,0) 6 (1,6) 0,002 1 0,962 tabella iii. comorbidità lifetime con disturbi di asse i in un campione di 450 pazienti con doc: differenze legate alla gravità sintomatologica (in grassetto i valori significativi) gravi lievi-moderati x2 df p (n = 67) (n = 383) ritardo mentale, n (%) 7 (10,4) 3 (0,8) 24,513 1 <0,001 (n = 58) (n= 312) almeno un disturbo di personalità, n (%) 42 (72,4) 164 (52,6) 7,809 1 0,005 cluster a 15 (25,9) 36 (11,5) 8,444 1 0,004 paranoide 2 (3,4) 11 (3,5) 0,001 1 0,977 schizoide 6 (10,3) 10 (3,2) 6,026 1 0,014 schizotipico 10 (17,2) 18 (5,8) 9,202 1 0,002 cluster b 13 (22,4) 50 (16,0) 1,413 1 0,235 istrionico 4 (6,9) 14 (4,5) 0,613 1 0,433 narcisistico 4 (6,9) 22 (7,1) 0,002 1 0,961 borderline 9 (15,5) 20 (6,4) 5,615 1 0,018 antisociale 2 (3,4) 8 (2,6) 0,145 1 0,703 cluster c 26 (44,8) 110 (35,3) 1,927 1 0,165 dipendente 4 (6,9) 34 (10,9) 0,850 1 0,357 evitante 12 (20,7) 38 (12,2) 3,031 1 0,082 ossessivo-compulsivo 18 (31,0) 64 (20,5) 3,139 1 0,076 tabella iv. comorbidità con disturbi di asse ii in un campione di 450 pazienti con doc: differenze legate alla gravità sintomatologica (in grassetto i valori significativi) discussione scopo del presente studio è stato identificare le caratteristiche socio-demografiche e cliniche che si associano a sintomatologia ossessivo-compulsiva di grave intensità. l’indagine è stata condotta su un ampio campione (n = 450) di pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo che dal punto di vista socio-demografico e clinico risulta sostanzialmente rappresentativo della popolazione generale di soggetti affetti da doc: l’uguale distribuzione tra generi, l’età di esordio, la frequenza dei tipi di decorso e la tipologia dei sintomi confermano quanto riportato dalla letteratura nel corso degli ultimi decenni [2, 29-31]. nel nostro campione, i quadri clinici di doc a grave intensità sintomatologica (intesa come y-bocs ≥ 32) rappresentano quasi il 15% dei pazienti: tale percentuale, che è maggiore rispetto a quella riportata da altri studi, riflette la natura del nostro servizio, che è un centro specialistico di ii livello cui afferiscono pazienti con più elevato grado di complessità. l’elevata intensità sintomatologica si associa ad altri indicatori di severità, con particolare riferimento ai parametri di compromissione funzionale in ambito lavorativo: i pazienti con punteggio y-bocs ≥ 32 presentano un livello scolare più basso e un funzionamento lavorativo peggiore, sia in termini di tassi di occupazione sia per quanto concerne il tipo di impiego. questo è un risultato atteso, comprensibile e in accordo con altri studi [32]. i parametri correlabili al funzionamento sociale non indicano invece che i pazienti con doc ad elevata intensità sintomatologica siano maggiormente compromessi. lo stato civile non segnala una condizione di isolamento più significativo. è verosimile che il funzionamento sociale e relazionale sia condizionato più dal tipo di sintomatologia ossessivo-compulsiva che dalla sua gravità. sul piano clinico, il doc ad elevata intensità sintomatologica si caratterizza per una modalità d’esordio più insidiosa e, nel corso della storia clinica, per un decorso tendente alla cronicità; in particolare i soggetti che manifestano una sintomatologia ossessivo-compulsiva grave presentano una modalità di decorso cronico con deterioramento. un indicatore di severità si evince invece dall’analisi delle comorbidità: dal nostro lavoro risulta come nei pazienti affetti da doc grave la comorbidità con disturbi dell’umore lifetime sia al limite della soglia della significatività statistica. tale rilievo andrebbe a confermare quanto emerso dal lavoro di altri autori che si sono focalizzati sull’impatto della comorbidità tra disturbi affettivi e doc, rilevando globalmente una maggiore severità dei sintomi ossessivo-compulsivi quando associati a disturbi dell’umore. l’associazione tra doc e disturbi dell’umore è oggetto di studio approfondito negli ultimi anni, in particolare per quanto riguarda il disturbo bipolare, dati il rilevante peso epidemiologico e l’impatto clinico e terapeutico. se la compresenza di un disturbo affettivo unipolare complica più genericamente la prognosi del paziente ossessivo-compulsivo, l’associazione con disturbo bipolare comporta una attenta valutazione terapeutica e modifica completamente l’approccio farmacologico, che si avvarrà in primis di stabilizzatori dell’umore. inoltre le caratteristiche cliniche del doc associato a disturbo bipolare non si limitano alla maggior severità, bensì sono specifiche e peculiari e hanno portato a ipotizzare una comune radice eziopatogenetica per i due disturbi [6, 9-13, 33]. per quanto concerne i punteggi alle scale psicometriche, si assiste ad un trend di significatività per la scala ham-d mentre i pazienti con sintomatologia ossessivo-compulsiva di intensità severa sono maggiormente associati con punteggi medi più elevati alla scala ham-a. è interessante notare come, al contrario, la presenza di disturbo di panico associato sia statisticamente più frequente nei pazienti con intensità sintomatologica da lieve a moderata. sotto il profilo della sintomatologia ossessivo-compulsiva, il doc grave si associa con frequenza significativamente maggiore alle dimensioni sintomatologiche washer e hoarder, dato questo già riportato in letteratura e probabilmente correlato ad una specificità di tali dimensioni, che, sempre più – in particolare in riferimento all’hoarding – vengono descritte come entità nosografiche distinte con caratteristiche cliniche e prognostiche peculiari [34-38]. a tale proposito è importante menzionare il dibattito in atto sull’hoarding in seno alla letteratura scientifica, che sembra indirizzarsi verso una separazione dell’hoarding disorder dal doc, rispetto al quale non si tratterebbe più soltanto di una sottocategoria sintomatologica, bensì di una vera e propria sindrome autonoma. tale visione ha assunto un rilievo tale da essere proposta per la redazione del dsm-v [39]. emerge inoltre dai nostri dati l’associazione tra il doc grave e la presenza di ossessioni di contaminazione e di simmetria e precisione, nonché di compulsioni di ripetizione e conteggio. infine risulta di grande interesse l’emergere di una correlazione tra l’elevata intensità sintomatologica e la distribuzione dei disturbi di asse ii, finora indagata in pochi studi e con limiti metodologici o di numerosità campionaria [40-44]. i disturbi di personalità vengono globalmente descritti in letteratura come comorbidità frequenti nel doc, sebbene non vi sia accordo pieno rispetto ai cluster più rappresentati: da alcuni lavori emerge una prevalenza del cluster c, in altri campioni è il cluster a ad essere di maggior rilievo. i disturbi di personalità risultano dai nostri dati nel complesso più frequenti e, nello specifico, è il cluster a ad essere maggiormente rappresentato nei pazienti gravi. andando a identificare i singoli disturbi, risultano significativamente associati sia il disturbo schizoide sia, con maggior peso statistico, il disturbo schizotipico di personalità. questa ultima associazione è nota da tempo [45] e risulta a nostro parere di notevole importanza la conferma della stessa e l’identificazione di un nesso con la severità del doc, in quanto permette di ipotizzare in essa un valore predittivo. alcuni tratti personologici tipici dei pazienti schizotipici, quali la tendenza alla criticità nelle relazioni interpersonali, il distacco emotivo, le distorsioni cognitive e la scarsa tolleranza alla frustrazione, presentano aree di sovrapposizione con il disturbo ossessivo-compulsivo grave. un altro aspetto clinico di grande importanza in cui il doc e la personalità schizotipica possono andare a sfumare l’uno dell’altra è quello dello scarso insight: i pazienti con tratti schizotipici o con disturbo di personalità vero e proprio andrebbero più facilmente incontro a perdita della critica rispetto al contenuto ossessivo, connotandosi pertanto per una maggior severità. dal nostro campione emerge inoltre una più frequente comorbidità con disturbo borderline di personalità, che risulta di più difficile interpretazione e potrebbe forse trovare spiegazione nella natura del nostro centro, come già precedentemente discusso. non abbiamo invece rilevato una differenza di frequenza di disturbo ossessivo-compulsivo di personalità in funzione dell’intensità sintomatologica del doc, contrariamente ad altri autori [42, 46]. conclusioni l’intensità sintomatologica grave si accompagna significativamente ad una maggiore compromissione del funzionamento lavorativo, ma non a compromissione maggiore del funzionamento sociale. sul piano clinico, il doc a grave intensità sintomatologica si associa significativamente a sintomi washing e hoarding, a comorbidità lifetime con disturbi dell’umore e a presenza di disturbi di personalità del cluster a (in particolare schizotipico). a limitare parzialmente la riproducibilità dei nostri risultati va considerato il tipo di pazienti afferenti al nostro servizio che, come precedentemente evidenziato, presentano una severità ed una complessità di malattia che può risultare superiore rispetto alla popolazione generale di pazienti doc. un ulteriore limite è rappresentato dalla mancanza di dati sistematici sui trattamenti psicofarmacologici assunti dai pazienti. inoltre, considerato il fatto che il nostro studio si è focalizzato sulle caratteristiche di severità di soggetti affetti da doc, non è stato previsto un campione di controllo di soggetti sani. la ampia numerosità campionaria è invece un punto di forza dello studio. bibliografia karno m, golding jm, sorenson sb, et al. the epidemiology of obsessive-compulsive disorder in five us communities. arch gen psychiatry 1988; 45: 1094-9. http://dx.doi.org/10.1001/archpsyc.1988.01800360042006 ruscio am, stein dj, chiu wt, et al. the epidemiology of obsessive-compulsive disorder in the national comorbidity survey replication. mol psychiatry 2010; 15: 53-63. http://dx.doi.org/10.1038/mp.2008.94 weissman mm, bland rc, canino gj, et al. the cross national epidemiology of obsessive-compulsive disorder. j clin psychiatry 1994; 55: 5-10 american psychiatric association. diagnostic and statistical manual of mental disorders. 4th ed. washington (dc): american psychiatric association; 1994 maina g. il disturbo ossessivo-compulsivo nel dsm-v. 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http://dx.doi.org/10.1016/j.jad.2012.07.004 ravizza l, barzega g, bellino s, et al. predictors of drug treatment response in obsessive-compulsive disorder. j clin psychiatry 1995; 56: 368-73 samuels j, nestadt g, bienvenu oj, et al. personality disorders and normal personality dimensions in obsessive-compulsive disorder. br j psychiatry 2000; 177: 457-62. http://dx.doi.org/10.1192/bjp.177.5.457 cmi 2014;8(4)97-101.html diagnosis and treatment of headache probably attributed to cerebral venous sinus thrombosis rosario iannacchero 1, amerigo costa 1, antonio sergi 2, aida squillace 3, giuseppe vescio 4, umberto cannistrà 1 1 centre for headache and adaptive disorders, unit of neurology, pugliese-ciaccio hospital, catanzaro, italy 2 unit of diagnostic radiology, pugliese-ciaccio hospital, catanzaro, italy 3 chair of pharmacology, school of medicine and surgery, magna graecia university of catanzaro, italy 4 chair of neurosurgery, school of medicine and surgery, magna graecia university of catanzaro, italy abstract cerebral venous sinus thrombosis (cvst) is a rare condition whose most common and sometimes only symptom is headache. alas, diagnosis and treatment of cvst is often delayed or overlooked because of its high clinical variability. using guidelines advices in detecting warning signs or symptoms of secondary headaches might ease the diagnosis of cvst. the article presents the case of a woman who is in treatment for chronic migraine and assessed for secondary headache in a multidisciplinary outpatient headache program. alert symptoms like sudden worsening headache presentation, along with anamnestic cues, prompted neuroimaging that detected left transverse sinus thrombosis whose onset was difficult to date. keywords: primary headache; secondary headache; chronic migraine; cerebral venous sinus thrombosis diagnosi e terapia di una cefalea probabilmente derivante da trombosi dei seni venosi cerebrali cmi 2014; 8(4): 97-101 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i4.966 case report corresponding author dr. rosario iannacchero presidio ospedaliero “pugliese” viale pio x 88100 catanzaro, italy tel./fax: (+39) 0961 883083 centrocefaleeaopc@gmail.com disclosure the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article why we describe this case this case provides an example of a situation where is needed to understand that a secondary headache might be in place in a patient with a history of treated chronic migraine, even when acute neuroimaging markers are not detectable anymore. a multidisciplinary headache assessment and management in a hospital outpatient program proved effective in this case introduction cerebral venous sinus thrombosis (cvst), a rare condition whose incidence is 3-4 cases per 1 million people (75% of cases are women) and up to 7 cases to 1 million among children, is the presence of a blood clot in the dural venous sinuses draining dehoxygenated blood from the brain [1]. the most common and sometimes only symptom of cvst is headache (80-90% of patients), while visual symptoms, stroke symptoms, seizures and depressed level of consciousness can be present as well [1,2]. the diagnosis may be suspected on the basis of symptoms, for example the combination of headache, signs of raised intracranial pressure, and focal neurological abnormalities [1,2]. the diagnosis is confirmed by neuroimaging showing thrombus obstructing the venous sinuses [1,2,3]. cvst risk factors include: thrombophilia, chronic inflammatory diseases, blood disorders, use of estrogen-containing contraceptives, meningitis, injury to the venous sinuses, medical procedures in the head and neck area, sickle cell anemia, dehydration, homocystinuria [1]. therapy options are anticoagulants and rarely thrombolysis along with therapy for the underlying cause. in case of complication by raised intracranial pressure, surgical placement of a shunt can be performed. symptoms like headache are also treated [4,5,6]. alas, the diagnosis and treatment of cvst is often delayed or overlooked because of its high clinical variability [7]. the rate of missed diagnoses and treatment can be reduced using a diagnostic and therapeutic path able to detect symptoms and signs of the cvst presentations and orientate the most appropriate care. case presentation we present the case of m. l., a 35-year-old italian woman living in calabria. following a neurological consult in january 2014, she was referred to the headache center at the pugliese-ciaccio hospital in catanzaro to continue receiving the botulinum toxin type a (btxa) treatment for chronic migraine previously received in a hospital located in another region of italy. the referral aimed to eliminate the need for long travels to receive therapy. the patient came to the headache center in catanzaro in march 2014. at a first medical examination, where a headache diary was given to the patient, emerged that the patient was not previously assessed for secondary migraine before or after receiving chronic primary headache treatment. therefore, mrs. l. was admitted to a chronic migraine outpatient program aimed to perform a complete headache assessment and subsequent therapeutic prescriptions. the program, that is multidisciplinary (it includes neurological examination, psychological evaluation, disability evaluation, pharmacological assessment, neuroimaging exams, on a need-basis specialist consults and pharmacological and non-pharmacological prescriptions) is designed to be adaptable to the patient presentation, needs, and preferences. as a first step in the program (t1), a medical history assessment, a neurological examination and a psychological evaluation were scheduled and performed in march 2014. medical history wise, blood hypertension was present in the familiar medical history in both maternal and paternal sides. mrs. l. was married, had no kids, holded a university degree in economics and worked as an accountant; she had no history of any substance use or abuse; her personal medical history included: common exanthems in childhood; hyperomocisteinemia treated with daily intake of calcium mefolinate; endometriosis treated with two surgical procedures in 2005; ovarian dysfunction treated with daily oral contraceptives; mrs. l. was in treatment since 2009 for chronic migraine with btxa and used diclofenac pills to manage acute episodes of migraine since 1998. botulinum therapy had initially reduced the frequency of headache days from 25 days/month to 6 days/month. general physical examination did not show anything to report. neurological examination showed cranial hypoesthesia; mrs l. reported suffering of prolonged and repeated fronto-temporal pulsating headache attacks lasting up to one week whose pain intensity increased over the days. attack treatment with non-steroidal anti-inflammatory drugs was not effective. reportedly, gait instability and recurrent vomiting had developed. pain intensity classified by numeric rating scale (nrs) was 8 out of 10. headache days had rised to a value of 15 per month. psychological evaluation consisted in a clinical interview and the administration of self-report questionnaires to measure anxiety and depression level and to detect pathological anxiety or mood state, the zung anxiety self report scale (zung-anx) and the zung depression self report scale (zung-dep). each of those tests consists of 20 affirmations. the subject had to express her degree of agreement on a 4-point scale (from 1 = never to 4 = always). psychological assessment showed no occurrence of pathological anxiety or mood state, nor any pathological personality trait (zung-anx = 33; zung-dep = 37). migraine disability assessment (midas) was administered in order to evaluate quality of life impact of the headache in the patient. midas score (108) showed high level of disability experienced by the patient in work, social, and familiar life. a pharmacological use assessment remarked continuous use of diclofenac tablets (150 mg) as attack treatment since the chronic migraine onset but excluded medications overuse. following medical and psychological evaluations, considering the presence of a secondary headache risk factor (usage of oral contraceptives) along with a possible alert symptom (sudden change and refractory worsening of the headache presentation), neuroimaging examinations were prescribed and performed, in order to investigate secondary forms of headache: nuclear magnetic resonance imaging (mri) and venous magnetic resonance angiography (vmra). the mri showed altered signal around the pineal gland without fluid-attenuated inversion recovery (flair) signal suppression. the signal was judged possibly indicating a pineal cystis. also, it showed alteration of the signal of the maxillary sinuses and turbinates of possibly inflammatory nature. the vmra showed absence of the signal within the left transverse sinus and hypoplasia of sigmoid sinus and gulfs of the ipsilateral jugular (figure 1). figure 1. left transverse sinus absence shown by venous magnetic resonance angiography (vmra) considering the vmra result, a hematological consult to perform a genetic trombophilic investigation was requested and a prothrombin mutation (g20210a) was detected. as a diagnostic conclusion, a secondary headache, headache probably attributed to consequences of cerebral venous thrombosis along with primary chronic migraine, was diagnosed in march 2014 [5]. at the same time, the prescribed therapy was therefore adjusted in light of the recent diagnostic change: thrombolysis and/or oral anticoagulant were not prescribed to the patient because it was not possible to temporally date the cvst onset; in facts, signal hyper-intensity, acute venous thrombosis marker, was not evident in the mri t1 sequence. therefore, the vmra finding was judged as a probably old dated thrombosis outcome. after a consultation with the local hospital hematology and thrombosis center, costs-benefits ratio wise, the anticoagulant therapy was considered inappropriate, since it was a long but undefined time ago dated thrombosis outcome. topiramate (25 mg/day) was prescribed as a prophylactic therapy, while eletriptan (40 mg) was used as a once a need treatment. moreover, the patient continued receiving btxa (200 units per session) treatment every three months, being the next injection scheduled in april 2014. a follow-up program every three months after each injection session was planned. in june 2014, at the first follow-up examination (t2), the prolonged and pain increasing headache episodes were reduced to 2 episodes/month lasting one day. pain intensity (nrs = 6) and degree of disability (midas = 49) were also reduced. in september 2014, at the second follow-up examination (t3), headache frequency had reduced to 1 episode/month. pain intensity was higher at onset (nrs = 8) and reduced in duration; degree of disability, while still high (midas = 28), was also reduced (figure 2, figure 3). the patient will continue the btxa treatment and the follow-up program at the headache center in catanzaro. monitoring time wise, the patient is adviced to undergo a yearly neuroradiological (vmra) follow-up for 5 years, to monitor the venous obliteration state. figure 2. headache frequency in days per month since therapy initiation t1 = march 2014; t2 = june 2014; t3 = september 2014 figure 3. degree of disability measured by midas since therapy initiation t1 = march 2014; t2 = june 2014; t3 = september 2014 discussion it is often difficult to differentiate between primary and secondary forms of chronic headache, because there are many similarities shared by the various forms and there is a lack of headache-specific diagnostic exams. thus, differentiate between primary and secondary forms of chronic headache is often matter of application of guidelines in the clinical practice [8]. secondary chronic headache wise, the primary condition might be unknown and not detectable by the diagnostic tools commonly used. then, it is important for the clinician to know and detect those medical history cues, signs and symptoms that might be suggestive of a secondary condition and prompt the request for specific examinations. in the case discussed above, a type of primary headache that suddenly became worse to the point of seeming a different type of headache raised concerns that a secondary headache might have been in place. neuroimaging findings validated that hypothesis by detecting a cerebral venous sinus thrombosis whose onset was, nonetheless, difficult to temporally date. a genetic investigation made sure about the presence of a thrombophilic mutation anyways. remission of the new type of headache by cvst appropriate treatment might confirm the diagnosis of headache attributed to cerebral venous thrombosis along with a pre-existing and treated primary chronic migraine. given that there are no headache-specific diagnostic tools aside of the clinical method, it is essential to conform one’s clinical work to the most appropriate headache management guidelines and assess carefully medical history, headache presentation and its changes, medications usage: that will prompt the examination needed to specify the headache form and its possible primary condition. the patient admission to a comprehensive and multidisciplinary outpatient headache program whose practices adhere to the most updated headache care guidelines, made easier for the clinicians to detect the secondary form of headache, its primary cause and promptly adjust the planned treatment. when to suspect a secondary headache? certain warning signs or symptoms may suggest a secondary headache, prompting additional examination (blood tests, brain scans, lumbar puncture) and/or referral to a specialist. these include: neurological symptoms during or between headaches; positive neurological examination; new or unusual type of headache; sudden or worst headache of one’s life; headaches unresponsive to treatment and/or steadily worsening; older age; immunocompromission; fever. in the presented case, a sudden and refractory change in headache presentation, neurological signs along with a continuous contraceptive usage in medical history as a risk factor, prompted magnetic resonance and venous magnetic resonance angiography as additional examinations: neuroimaging detected cerebral venous sinus thrombosis as probably the underlying cause of a secondary headache. nonetheless, there are no visible previous acute neuroimaging markers for a thrombosis that has probably happened a significant time before the examination. references 1. stam j. thrombosis of the cerebral veins and sinuses. n engl j med 2005; 352: 1791-8; http://dx.doi.org/10.1056/nejmra042354 2. cumurciuc r, crassard i, sarov m, et al. headache as the only neurological sign of cerebral venous thrombosis: a series of 17 cases. j neuro neurosurg psychiatr 2005; 76: 1084-7; 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cephalalgia 2013; 33: 629-808 cmi 2014;8(1)3-4.html le linee guida in italia alfonso mele 1 1 responsabile del programma nazionale linee guida dell'istituto superiore di sanità fino al 31 maggio 2013 editoriale corresponding author dott. alfonso mele alfonso.mele2013@gmail.com disclosure l’autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo   nel 1979 ha avuto inizio in italia un programma pilota di produzione di linee guida con l’obiettivo di fornire ai medici strumenti conoscitivi di miglioramento dell’appropriatezza nell’offerta delle cure. in uno scenario di rapido avanzamento della ricerca scientifica in campo biomedico e di ampia offerta di opportunità terapeutiche, avere la disponibilità di documenti che sintetizzano le migliori conoscenze disponibili è di grande utilità per il clinico che ha la necessità di fornire al paziente le cure più adatte. va subito però precisato un punto di primaria importanza: nella pratica clinica un paziente, soprattutto se anziano, è una persona che può avere più di una patologia e prendere più farmaci. inoltre vanno tenute presenti la preferenza personale alle possibili terapie e, non ultime, le concrete opportunità assistenziali offerte dalla rete dei servizi. la linea guida va quindi contestualizzata e adattata al caso specifico: in questa traslazione è di fondamentale importanza l’esperienza clinica del medico. l’esperienza italiana di produzione delle linee guida [1] è nata sulla scia di quanto alcuni anni prima era già stato realizzato in altri paesi quali gli stati uniti e l’inghilterra. le fasi principali di sviluppo di una linea guida sono: individuazione di quesiti clinico-assistenziali specifici; ricerca strutturata della letteratura scientifica sull’argomento in questione; valutazione delle qualità delle informazioni derivanti dalla bibliografia mediante criteri definiti e standardizzati; sintesi dei risultati ottenuti; formulazione delle raccomandazioni cliniche relative alla migliore offerta assistenziale. tutte queste fasi sopra descritte sono guidate e condivise da un panel di esperti provenienti da tutte le discipline interessate all’argomento oggetto della linea guida. il panel multidisciplinare consente un confronto tra i punti di vista delle diverse professionalità. rappresentanti di associazioni di pazienti e di familiari partecipano al panel in qualità di figure non tecniche al fine di dare contributi sull’aspetto non secondario dell’accettabilità degli interventi sanitari. la costituzione del panel multidisciplinare insieme alla trasparenza di tutte le operazioni che accompagnano lo sviluppo di una linea guida sono elementi cruciali per la valutazione del prodotto finale. la produzione delle linee guide è altamente esposta a conflitto di interessi di natura sia economica sia professionale. i partecipanti a un panel sono chiamati a dichiarare eventuali legami economici con un particolare oggetto della linea guida in quanto avere legami diretti con aziende produttrici di farmaci o dispositivi medici è motivo di esclusione. i conflitti di interessi non economici riguardano le singole istituzioni e le diverse professionalità coinvolte in una linea guida e hanno origine dagli eventuali tentativi di promuovere la loro immagine o attività. la composizione multidisciplinare del panel e un’attenta mediazione di un ente terzo, quale una struttura pubblica come ad esempio l’istituto superiore di sanità, sono gli strumenti per una mediazione ottimale tra i diversi interessi. l’esempio delle linee guida italiane sulla psoriasi la linea guida sulla psoriasi [2], malattia che con livelli diversi di gravità interessa il 3% della popolazione italiana, è stata promossa dall’associazione dermatologi italiana (adoi) e coordinata dall’istituto superiore di sanità. le attività sono state seguite da un panel in cui erano presenti tutte le discipline interessate, cioè: farmacologia; dermatologia; neurologia; medicina interna; reumatologia; diabetologia. l’argomento della psoriasi nell’adulto è stato articolato in cinque quesiti specifici che hanno riguardato trattamenti sia topici sia sistemici, tradizionali e biotecnologici, elencati qui di seguito. nei pazienti con psoriasi esistono evidenze che un trattamento topico sia migliore rispetto a un altro in termini di efficacia, sicurezza, accettabilità e compliance del paziente? nei pazienti con psoriasi, quali sono i rischi e i benefici (in termini di efficacia, sicurezza, accettabilità e compliance del paziente) associati alla fototerapia/fotochemioterapia? nei pazienti con psoriasi esistono evidenze che un trattamento sistemico tradizionale sia migliore rispetto a un altro in termini di efficacia, sicurezza, accettabilità e compliance del paziente? nei pazienti con psoriasi esistono evidenze che un trattamento con farmaci biotecnologici sia migliore rispetto a un altro in termini di efficacia, sicurezza, accettabilità e compliance del paziente? nei pazienti con psoriasi esistono evidenze che una terapia di associazione sistemica sia migliore rispetto a un’altra in termini di efficacia, sicurezza e compliance del paziente? farmaci tradizionali sistemici in associazione uno/più farmaci tradizionali sistemici in associazione a un farmaco biotecnologico. la sintesi delle conoscenze per ciascun quesito si conclude con raccomandazioni cliniche specifiche e, dove è stata evidenziata una carenza di conoscenze, il panel ha formulato raccomandazioni circostanziate per ulteriori ricerche. l’esperienza pilota di produzione di linee guida di questi anni da un lato ha mostrato un grande interesse per l’argomento da parte di società scientifiche, organizzazioni di pazienti e strutture del servizio sanitario nazionale e dall’altro ha creato una rete di soggetti e istituzioni disponibili alla collaborazione per un programma nazionale di linee guida coordinato da una struttura pubblica terza. una precisa volontà politica e un finanziamento congruo e costante saranno decisivi perché anche in italia venga creata un’attività permanente di produzione di linee guida per il miglioramento della qualità dell’assistenza. affinché le raccomandazioni formulate nelle linee guida vengano utilizzate nella pratica clinica, è necessario un processo di disseminazione e implementazione promosso e coordinato dalla conferenza stato regioni e dalle varie aziende sanitarie. bibliografia 1. sistema nazionale per le linee guida (snlg). consultabile all’indirizzo http://www.snlg-iss.it (ultimo accesso marzo 2014) 2. sistema nazionale per le linee guida (snlg). il trattamento della psoriasi nell’adulto. maggio 2013. disponibile all’indirizzo: http://www.snlg-iss.it/lgn_psoriasi (ultimo accesso marzo 2014) cmi 2014;8(3)83-90.html pain control in the continuity of care boaz gedaliahu samolsky dekel 1,2, silvia varani 3, robert adir samolsky dekel 3, gianfranco di nino 1,2, rita maria melotti 1,2 1 university of bologna, department of medical and surgery sciences, bologna 2 azienda ospedaliera-universitaria di bologna, policlinico s. orsola-malpighi, bologna 3 ant italia onlus foundation, psycho-oncology unit, bologna abstract as cancer is earlier diagnosed and its treatments improve, palliative care is increasingly playing a vital role in the oncology population. the concept and the timing of application of palliative care have evolved in the last decades. the who pain ladder and the greater understanding of appropriate multimodal pain control treatments have dramatically improved the management of cancer pain. integration of palliative care, which appears crucial for a proper management of patients, can be defined as the provision of palliative care both during curative cancer treatment and after curative treatment has ceased. clinical assistance should be delivered by specialised physicians in different fields, psychologists and nurses, and should include all aspects of advanced-cancer care, from diagnosis to the treatment of symptoms. a further aspect of integration of palliative care concerns the role of the continuity of care in acute or emergency contexts both for outand inpatients. further improvements in the management of cancer pain are needed. first, the who ladder should be modified with further steps, like those of interventional pain control procedures and techniques, with the aim of being effective also for the small proportion of nonresponsive patients. second, more research is needed to find out which interventions aiming to improve continuity of care of cancer patients are beneficial to improve patient, provider and process of care outcomes and to identify which outcomes are the most sensitive to change. of crucial importance would be the development of a standardised instrument to measure the continuity of care in cancer patients. this article is a brief overview on the management of cancer pain, from the pharmacological treatments reported by who ladder, to the need for integration and continuity of care. keywords: palliative care; continuity of care; pain; hospital care; opioid; interventional procedures controllo del dolore e continuità nelle cure cmi 2014; 8(3): 83-90 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i3.930 clinical management corresponding author dott. boaz gedaliahu samolsky dekel department of medical and surgery sciences, university of bologna, via massarenti 9, 40138, bologna phone: 0039 051 6363087 fax: 0039 051 6364439 boaz.samolskydekel@unibo.it disclosure authors declare no competing financial interests introduction each year 10 million people are diagnosed with cancer, of whom 70% will die of the disease and 60% will experience significant pain [1,2]. as barriers to alleviate suffering associated with cancer are numerous, it became internationally imperative to declare access to pain and palliative care a human right [3]. the world health organization (who) has recommended that all countries implement comprehensive palliative care programs to provide patients with pain and symptom control and psychosocial and spiritual support, and to ensure that national guidelines are adopted by all levels of care and that high coverage of patients is ensured through several options, including home care [4]. on march 2010 the italian republic approved a state law (38/2010) according to which all citizens in need should have free access to palliative care or pain therapy facilities. this law foresees the design of a nationwide network of three types of pain therapy facilities with increasingly composite proficiencies from the primary care physician to intermediate (“spoke”) and high (“hub”) proficiency pain centres. this approach coincides with the concept of “stratified medicine”, which seeks to target therapy and make the best clinical decisions for groups of similar patients [5,6]. moreover, “good policies” are needed for an effective health care system and society. in this context good policies are needed to facilitate the implementation of palliative care programs in order to provide care for all people in need of these services, ensuring impartial access to medications and therapies. thus, good policies are needed to provide satisfactory answers to cancer patients’ needs, including also accessibility to palliative care. palliative care should be incorporated as a priority within all aspects of a national health plan. accordingly, policies addressing essential medicines, for example, should include adequacy and availability of all palliative care medications throughout the country, so that they are made attainable wherever patients live (especially opioids for pain control) [7]. care for cancer patients is provided by a variety of clinicians, including family physicians, oncologists, pain and palliative care specialists, and many others. in order to receive adequate access to palliative and end-of-life care, continuity of care between care providers and care settings is essential. this is why more integration of palliative care into cancer treatment, throughout the disease course, is seen in major cancer centres [8]. this article provides an overview on pain management in cancer care, starting from the most adopted pharmacological treatment strategies, as reported in who pain ladder, and analysing in particular the importance of integration and continuity of care by health practitioners. palliative care the concept and the timing of application of palliative care have evolved in the last decades. in 1990, the who defined palliative care as «the active total care of patients whose disease is not responsive to curative treatments» [9]. indeed, palliative care was initially regarded as a specialty to care for end-stage and dying cancer patients. nonetheless clinicians were conscious that «many aspects of palliative care are also applicable earlier in the course of the illness» [10]. in recent years, along with the longer survival of cancer patients and congruent progression of their needs, the conversion, through treatment advances, of many cancers into chronic diseases, and the recognition that palliative treatments cannot be based on life expectancy, the definition and role of palliative care has progressed. in 2012, palliative care has been defined as specialised medical care for people with serious illnesses. this type of care is focused on providing patients and families with relief from the symptoms, pain, stress, and to improve their quality of life whatever the diagnosis. thus, palliative care is appropriate at any age and at any stage in a serious illness, and can be provided together with curative treatment [11]. “palliative care” includes not only pain and symptom management, but also psychosocial support for patients and families, that may be provided concurrently with cancer treatment or after cancer treatment has ended. palliative care, including pain therapy, may be (or, better, should be) provided at any point during the disease course, from diagnosis to death [12]. successful management of cancer pain begins with an adequate and full assessment of the pain pathophysiology, qualitative, quantitative, and temporal aspects. a comprehensive knowledge of the underlying pathophysiology of pain is essential for effective management. with effective assessment and a systematic approach to the choice of analgesics, over 80% of cancer pain can be controlled with the use of inexpensive drugs that can be self-administered by mouth at regular intervals. consideration must always be given to treating the underlying cause of the pain by means of surgery, radiotherapy, chemotherapy, or other appropriate measures of analgesia techniques. due to the high number of physicians who may visit a patient in as many different health care settings, the responsibility for the overall management of the patient’s pain may be unclear. further fragmentation can occur due to lack of communication between the hospital and the community care setting, a problem exacerbated by incomplete and inconsistent documentation of pain. in the region of emilia romagna, italy, a pain diary has been developed as a follow up instrument [13]. patients self report on this personal diary their daily pain scores and therapy and ideally they may make it available anytime they interact with health care providers. such instrument is of extreme importance for a fluent continuity of care, even when a patient is taken care of by different specialists at different times and at different settings. the who pain ladder the who pain ladder [14] is a practical conceptual paradigm introduced almost 30 years ago to describe guidelines for the use of analgesic drugs in the management of pain. it was originally thought to be used in the management of cancer pain, but is now widely used by professionals for the management of pain also in non-cancer patients. the who pain ladder implies the use of a limited number of relatively inexpensive medications in a stepwise approach. it helped legitimise the use of opioids for treatment of cancer pain and stimulated multiple educational campaigns worldwide on the use, benefits, and side effects of drugs in the treatment of pain. this paradigm is part of 5 simple recommendations for the correct use of analgesics to make the prescribed treatments effective. these recommendations include prescription of analgesics by mouth, by the clock, by the ladder, for the individual and with attention to details. in particular, when possible, oral analgesics should be privileged; they should be given at regular intervals; should be prescribed according to pain intensity as evaluated by a scale of pain intensity; the dosing of analgesics should be tailored to the individual; and any effort should be made so that the patients, their family, and caregivers will all have the necessary information about when and how to administer the medications. the 1986 version of the who analgesic ladder asserts that treatment of pain, based on its intensity, should begin with a nonopioid medication. if the pain is still not controlled, then a weak opioid should be introduced; if even these medications are insufficient, strong opioids should be started. further, nonopioid medications can be added at each of the ladder steps; two analgesics of the same category should not be used simultaneously. the analgesic ladder also includes the possibility of adding adjuvant treatments for neuropathic pain or for symptoms associated with cancer and with ongoing treatments. the literature on this approach effectiveness asserts that this paradigm offers inexpensive treatment and adequate relief for 70% to 90% of cancer patients with pain [15]; however, these proportions have been questioned, and the range is now thought to be 70% to 80% [16,17]. interventional procedures and techniques the who pain ladder and the greater understanding of appropriate multimodal pain control treatments have dramatically improved the management of cancer pain. however, while the who method is effective in most patients, a consistent proportion do not have their pain controlled adequately, even with optimised systemic therapy: some pains, like bone, neuropathic and visceral pain, are resistant to opioid treatments. this has led to the suggestion that the who ladder should be modified with a fourth (or fifth) step, that of interventional procedures and techniques [18-21]. the specialty of pain medicine evolved to increased experience and skills in pharmacological management of pain and in implant and infusion techniques. the uk nice guidance on supportive and palliative care in cancer advocates that each local palliative care multidisciplinary team should have access to pain specialists with expertise in nerve blocking and neuro-modulation techniques [18]. there is a wide range of potential interventional procedures, including: neuraxial delivery of analgesic drugs, and destruction of spinal and radicular nerve pathways. interruption of pain pathways travelling via the sympathetic nervous system, local anaesthetic and destructive techniques directed to peripheral nerves. other procedures, including minimally invasive treatments directed at bony metastases and other pain sources. among these, there are those known as neuro-ablation techniques and those known as neuro-modulation techniques, which may be further subdivided in electrical and pharmacological. in patients with pain that is controlled by opioids but who experience intolerable side effects during systemic administration, an epidural or intrathecal administration may be more tolerable, as smaller doses of opioid are required to get the same analgesic effect [11,18,20,22,23]. these methods are typically performed in high proficiency pain centres and hospitals. nevertheless, interventional techniques remain an important and frequently underused part of the multimodal management of cancer pain. the indications for administration of strong opioids by intrathecal or epidural routes remain controversial. it has been suggested that 8-11% of carefully selected cancer patients could benefit from interventional procedures [10,18,22]. continuity of care continuity is the extent to which a chain of distinct care interventions is experienced as coherent, connected, and consistent with the patient’s medical needs and personal context; it encompasses two main elements: long-term and patient-centred care [24]. there are three types of care continuity: informational, where individual information on past events and personal status are used to make care appropriate. management, where an appropriate approach is tailored to the patient’s changing needs. relational, where a persistent curative association is held between a patient and his/her providers. type and setting of care influence the operating type of continuity [24]. for the cancer patient, continuity of care means continuity between treatments (cancer and palliative care) or between different care providers. care shift may occur at any point along the disease course. it is coordinated fluent transition between primary care providers and oncologists or between care in a cancer centres and home care, community or hospital. thus, the use of care coordination mechanisms and expert support is required. the literature indicates that family physicians and community-based care providers are willing to provide palliative care if they are adequately supported by expert advice and enabled to increase their skills and confidence in providing such care. such integration may result successful if palliative care is integrated immediately after the disease is diagnosed and if the palliative care services occupy a significant place in the cancer centre [8]. palliative care is necessarily multidisciplinary. it is unlikely to expect single clinician to have the expertise to formulate the necessary assessment, perform the necessary interventions, and to deliver constant monitoring [25]. from the practical point of view “collaborative care” might be a better way to describe the fluent transition of care. combination of palliative care and cancer treatment is the synchronised involvement of palliative and curative care throughout the disease course. synchronisation and communication between palliative care and cancer treatment clinicians and programs are imperative. such approach is often seen within a cancer treatment centre; however, as care is often also provided in hospital settings both for acute crisis and on outpatient consultation basis [8], synchronisation and communication are needed there as well. continuity of care and integration of care in cancer palliative care, continuity of care is the transition of the responsibility for care from the curative cancer treatment providers to a palliative care provider (a primary care physician, a home care team, or a hospice team) [26]. integration of palliative care into curative cancer treatment can be defined as the provision of palliative care both during curative cancer treatment and after curative treatment has ceased. integration is often an indicator that continuity of care will also occur. it has been reported that care is improved by introducing palliative care upstream through integration in existing clinical care settings [27]. palliative care may be introduced downstream or upstream. in terms of continuity of care, best practices refers to those that introduce palliative care upstream during cancer treatment (as opposed to downstream, where palliative care is provided mainly at the end-of-life stage of the disease) and that involve the primary care physician. introducing palliative care downstream undermines the fluent continuity of care. the best provision of continuity of care is by primary care physicians and community-based care when adequate home and community care is provided and is linked to hospitals and treatment centres. in some cases, cancer centres provide their own home or continuing care service. it is crucial to underline that while facilities and availability of home and community care may favour the continuity of care, adequate, honest and open communication with patients and families are evenly essential [28]. during each step of the disease, clinicians have to provide individualised patient-centred communications to outline treatment options in a shared decision-making process which may guarantee a tailored continuity of care. in this way, the transition from curative cancer treatment to palliative care can occur in a shared, awarded and non-traumatic way [29]. the literature on integration of palliative care and curative cancer treatment generally describes programs developed within tertiary care hospitals and cancer treatment centres or in close association with them. integration of palliative and curative care is a growing trend that facilitates access to palliative care upstream, rather than downstream, allows better pain and symptoms control, psychosocial support, public health benefits, and quality of life [1,2,4]. integrated programs in cancer centres typically include clinical and psychosocial inpatient services (often a palliative care unit), day or outpatient clinics, link to community-based end-of-life care services such as hospice, education and research [2,27,30]. among others, one example may be the national cancer institute in milan, italy (www.istitutotumori.mi.it). this institute provides research, palliative care, pain therapy, and rehabilitation programs for both inand outpatients [8,31]. another example is the ant italia onlus foundation in bologna, italy (http://www.ant.it). the latter is a non-profit foundation which guarantees social and clinical assistance to cancer patients and their families in 9 regions of italy. clinical assistance, delivered by specialised physicians, psychologists, and nurses, includes all aspects of advanced-cancer patient home-care from diagnosis to the treatment of symptoms. this foundation has strong research and clinical collaboration link with the bologna university-teaching-hospital pain centre, italy [32]. the hospital setting a further aspect of integration of palliative care into other medical milieu concerns the role of palliative care in acute or emergency contexts both for outand inpatients. many cancer patients will be admitted to hospital during the disease or late in life and die in acute care. they may be undergoing curative treatment or not, and they might have been at home but unable to remain there for a variety of reasons. the hospital may become a crucial point in the continuity and integration of palliative care both in the acute settings and as support to palliation in particularly difficult cases. pain management is one of the pillars of palliative care integration in the hospital. in a cross-sectional survey conducted in a teaching hospital to gather benchmark data regarding pain prevalence and predictors among the entire inpatient population, moderate to severe pain was reported by 25% of the patients [33]. interestingly high pain prevalence was found in the cancer-radiotherapy ward (63.3%) while lower, yet significant, pain prevalence was found in the oncology ward (32.3%). in this study, protracted hospitalisation and prolonged pain duration were associated with major pain severity, while predictor analysis suggested that attention should be paid to pain management in young adults, socially vulnerable patients and those with protracted hospitalisation and pain, like cancer patients. hospital pain clinics are now made available all over italy. they deliver pain management both for inpatients and outpatients. among the main elements that a tertiary-teaching-hospital pain clinic may offer to the palliative care network are: pain management follow-up for outpatients and inpatients. pain management consultation and expert support to primary care physicians and to community or home-care cancer facilities. interventional procedures and techniques in pain management. innovative pain management trials. pain management research and education. communication and psychological factors continuity of care is achieved by bridging single care interventions in the care pathway as well as by supporting aspects such as patients’ values and patient beliefs, sustained relationships, and care plans. for most patients, physical pain is only one of the symptoms experienced during the disease. relief of pain should therefore be seen as part of a comprehensive pattern of care which may include the physical, psychological, social, and spiritual aspects of suffering. these components should be addressed simultaneously. in many cases of resistant pain, psychological factors play a central role in the experience of pain. although emotional aspects don’t cause pain directly, they contribute to a person’s perception of pain and its effects, and they can influence the response to pain and treatment [34]. in order to improve the quality of life of these patients, literature suggests to associate cognitive-behavioural interventions to pharmacological pain treatment. these psychoeducational interventions are usually utilised to treat symptom clusters, like pain, fatigue and sleep disturbance [35]. for continuity to exist, care must be experienced as persistent and linked. the experience of continuity may differ for patients and providers. among patients and their families, the perception of continuity is achieved when providers are aware of past medical events, different providers concur with the care plan, and the acquainted caregiver will provide care also in the future. for providers, the perception of continuity is achieved when they have adequate information regarding the patient to best apply their expertise and the assurance that their professional decisions will be accepted by other providers. while continuity may vary in different care contexts, continuity can contribute to ameliorate quality of care. an efficient communication to patients and families should consider their very own concept of continuity of care by understanding the patient’s current beliefs, his/her needs for information and role preferences in decision-making involvement. individualised approach instead of a “one-size-fits-all approach” to communication grants the quality of clinicians-patient communication [36]. conclusions and final considerations the essential components of palliative care are effective control of symptoms and effective communication with patients, their families, and whoever is involved in their care process. while opioids are the main stem of cancer pain therapy, some pains are resistant to opioid treatments. adjuvant drugs, radiotherapy, and anaesthetic block techniques may be considered in such cases. as the disease progresses, continuity of care becomes more and more important: coordination between care providers is imperative, and information must flow punctually and efficiently between professionals in all care contexts and also towards patients and their caregivers. more research is needed to find out which interventions aiming to improve continuity of care in the follow-up of cancer patients are the most beneficial to improve patient, provider and process of care outcomes and to identify which outcomes are the most sensitive to change and the most meaningful regarding continuity of care. of crucial importance would be the development of a standardised instrument to measure the continuity of care in cancer patients. key points in italy, free access to pain management in cancer and non-cancer patients is now considered a human right palliative care is based on the stepwise approach reported in the who pain ladder; after the last step, a further step could be included in the ladder for those whose pain is resistant even to strong opioids: interventional procedures and techniques pain management should be introduced upstream during cancer treatment, at the time of diagnosis, instead of being provided just at the end-of-life stage continuity of care among health care professionals, wards and hospitals and communication with patients and their caregivers are pillars of a correct management of cancer pain references 1. callaway m, ferris fd. advancing palliative care: the public health perspective. j pain symptom manage 2007; 33: 483-5; http://dx.doi.org/10.1016/j.jpainsymman.2007.02.030 2. stjernsward j, foley km, ferris fd. the public health strategy for palliative care. j pain symptom manage 2007; 33: 486-93; http://dx.doi.org/10.1016/j.jpainsymman.2007.02.016 3. brennan f. palliative care as an international human right. j pain symptom manage 2007; 33: 494-9; http://dx.doi.org/10.1016/j.jpainsymman.2007.02.022 4. sepulveda c, marlin a, yoshida t, et al. palliative care: the world health organization’s global perspective. j pain symptom manage 2002; 24: 91-6; http://dx.doi.org/10.1016/s0885-3924(02)00440-2 5. rothwell pm. treating 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2013;7(1)5-16.html gestione multidisciplinare nel tumore del polmone non a piccole cellule (nsclc) in stadio iii: descrizione di un caso clinico. raccomandazioni e stato dell’arte simona carnio 1, giulia courthod 1, simonetta grazia rapetti 1, tiziana vavalà 1, matteo giaj levra 1, enrica capelletto 1, silvia novello 1 1 s.c.d.u. malattie dell’apparato respiratorio ad indirizzo oncologico, auo san luigi, orbassano (to) abstract lung cancer is the leading cause of cancer death in industrialised countries, with progressive increase of its mortality rate. non small cell lung cancer (nsclc) represents 80-85% of all lung cancers, being adenocarcinoma and squamous cell carcinoma the most common histologies. at the time of diagnosis, nsclc occurs in about 25% as stage iii. the majority of the patients with clinical stage iii presents a mediastinal lymph node involvement described with computed tomography (ct) and/or positron emission tomography (pet). the current and correct approach for this subgroup of patients is multidisciplinary, both for staging and for the therapeutic strategy definition. the diagnostic algorithm is often enriched with minimal invasive (or invasive) techniques able to clearly define the mediastinal involvement. updated international and national guidelines and recommendations can provide valuable support to the clinician. the case described concerns the accidental detection of a stage iii lung tumour in a 58-year-old man, without major comorbidities. the treatments agreed by a multidisciplinary approach are cisplatin and docetaxel, the surgical resection and the radiotherapy. the initial follow-up (three months after the end of combined treatment) is still negative, with no signs of disease relapse. keywords: non small cell lung cancer; multidisciplinary management; stage iii disease; therapy multidisciplinary management of non small cell lung cancer (nsclc) in stage iii: clinical case description. recommendations and state of the art cmi 2013; 7(1): 5-16 caso clinico corresponding author silvia novello auo san luigi regione gonzole 10 10043 orbassano (to) silvia.novello@unito.it disclosure gli autori dichiarano di non avere alcun conflitto d’interessi di natura finanziaria perché descriviamo questo caso? lo scopo di questo articolo è analizzare le diverse tappe diagnostiche e di trattamento nella gestione di un paziente affetto da tumore polmonare non a piccole cellule in stadio iii, sottolineando la necessità dell’approccio multidisciplinare, che garantisce il più adeguato inquadramento stadiativo e un corretto trattamento medico-chirurgico con la finalità di ottenere un miglioramento della prognosi introduzione il tumore del polmone rappresenta la prima causa di morte per neoplasia nei paesi industrializzati [1]. l’età media dei pazienti all’atto diagnostico è pari a 60 anni e oltre un terzo di nuovi casi continua a essere riscontrato in soggetti di età superiore a 70 anni, sebbene nuovi casi in pazienti giovani siano in aumento [2]. nei paesi industrializzati, sia in europa sia negli stati uniti, l’incidenza del tumore del polmone è in diminuzione nel sesso maschile, mentre ha raggiunto un plateau nel sesso femminile. per il 2012, nell’unione europea era previsto un aumento del tasso di mortalità per tumore del polmone nelle donne pari al 7% [3,4]. i tassi di incidenza variano in rapporto alle diverse aree geografiche, essendo in italia pari a 58/100.000 abitanti per gli uomini e 10,7/100.000 per le donne [5]. tra i fattori di rischio noti e convalidati vanno sicuramente annoverati il fumo di sigaretta, l’esposizione ad asbesto, arsenico, radon, cromo, berillio, cloruro di vinile e idrocarburi aromatici policiclici. il tumore polmonare non a piccole cellule (non small cell lung cancer, nsclc secondo la dicitura anglosassone) rappresenta circa l’80-85% di tutti i tumori polmonari. a sua volta, il nsclc si suddivide in altri tipi istologici quali l’adenocarcinoma, il carcinoma squamocellulare, il tumore a grandi cellule e il carcinoma adenosquamoso. il sistema stadiativo universalmente accettato per il carcinoma polmonare segue il sistema tnm, che assume un valore prognostico, oltre ad avere un importante ruolo nella scelta terapeutica. il sistema tnm si avvale di tre parametri, quali l’estensione del tumore primario e i suoi rapporti con le strutture circostanti (fattore t), il coinvolgimento linfonodale (fattore n) e le metastasi a distanza (fattore m) (tabelle i e ii). classificazione descrizione t tumore primitivo tx il tumore primitivo non può essere definito, oppure ne è provata l’esistenza per la presenza di cellule tumorali nell’escreato o nel liquido di lavaggio bronchiale, ma non è visualizzato con le tecniche di imaging o con la broncoscopia t0 assenza di evidenza del tumore primitivo tis carcinoma in situ t1 tumore di 3 cm o meno nella sua dimensione massima, circondato da polmone o da pleura viscerale; alla broncoscopia non si rilevano segni di invasione prossimalmente al bronco lobare (bronco principale non interessato da malattia) t1a tumore non superiore a 2 cm nel diametro maggiore t1b tumore superiore a 2 cm, ma non superiore a 3 cm nel diametro maggiore t2 tumore superiore a 3 centimetri, ma non superiore a 7 cm nel diametro maggiore o tumore con una qualunque delle seguenti caratteristiche: interessamento del bronco principale a 2 cm o più distale rispetto alla carina; invasione della pleura viscerale; associato ad atelettasia o polmonite ostruttiva che si estende alla regione ilare, ma non interessa il polmone in toto t2a tumore superiore a 3 cm, ma non superiore a 5 cm nel diametro maggiore t2b tumore superiore a 5 cm, ma non superiore a 7 cm nel diametro maggiore t3 tumore superiore a 7 cm nel diametro maggiore o che invade direttamente alcune delle seguenti strutture: parete toracica (inclusi i tumori del solco superiore), diaframma, nervo frenico, pleura mediastinica, pericardio parietale; o tumore del bronco principale a meno di 2 cm distalmente alla carina, ma senza interessamento della carina stessa; o associato ad atelettasia o polmonite ostruttiva del polmone in toto, o nodulo separato nel medesimo lobo del tumore primitivo. t4 tumore di qualunque dimensione, che invade direttamente alcune delle seguenti strutture: mediastino, cuore, grandi vasi, trachea, nervo laringeo ricorrente, esofago, corpo vertebrale, carina; nodulo/i separato/i in un lobo ipsilaterale, ma differente rispetto al lobo del tumore primitivo n linfonodi regionali nx i linfonodi regionali non possono essere valutati n0 assenza di metastasi nei linfonodi regionali n1 metastasi nei linfonodi peribronchiali e/o ilari ipsilaterali e intrapolmonari, incluso il coinvolgimento per estensione diretta n2 metastasi nei linfonodi mediastinici e/o sottocarenali ipsilaterali n3 metastasi nei linfonodi mediastinici controlaterali, ilari controlaterali, scaleni ipsio contro-laterali, sovraclaveari m metastasi a distanza m0 assenza di metastasi a distanza m1 presenza di metastasi a distanza m1a noduli tumorali in un lobo controlaterale rispetto al tumore primitivo; tumore con noduli pleurici o versamento pleurico e/o pericardico di natura neoplastica m1b metastasi a distanza tabella i. classificazione per il carcinoma polmonare, tnm 7a edizione [6] stadi t n m carcinoma occulto tx n0 m0 stadio 0 tis n0 m0 stadio ia t1a, b n0 m0 stadio ib t2a n0 m0 stadio iia t2b n0 m0 t1a, b n1 m0 t2a n1 m0 stadio iib t2b n1 m0 t3 n0 m0 stadio iiia t1a, b, t2a, b n2 m0 t3 n1, n2 m0 t4 n0, n1 m0 stadio iiib t4 n2 m0 qualunque t n3 m0 stadio iv qualunque t qualunque n m1 tabella ii. raggruppamento in stadi del tumore al polmone la distribuzione epidemiologica secondo la stadiazione clinica all’atto della diagnosi è la seguente: 25% stadi i e ii, 10% stadio iiia, 15% stadio iiib e 50% stadio iv (o metastatico) (tabelle iii e iv). 1 anno (%) 5 anni (%) confronto hr p value n1 77 38 vs pn0 1,63 < 0,0001 n2 69 22 vs pn1 1,51 < 0,0001 n3 49 6 vs pn2 1,81 < 0,0001 tabella iii. correlazione tra sopravvivenza e stato linfonodale dopo trattamento chirurgico radicale nello stadio iii [7] numero di linfonodi coinvolti 5 anni (%) p value singolo linfonodo nella zona n1 48% multipli linfonodi nella zona n1 35% < 0,0090 singolo linfonodo nella zona n2 34% 0,7137 multipli linfonodi nella zona n2 20% < 0,0001 tabella iv. correlazione tra sopravvivenza e numero di linfonodi coinvolti dopo trattamento chirurgico radicale nello stadio iii [7] la maggior parte dei pazienti in stadio clinico iiia presenta un interessamento linfonodale mediastinico (n2), che viene descritto dalla tomografia computerizzata (tc) del torace come un aumento del diametro dell’asse minore in misura maggiore o uguale a 1 cm e/o dalla tomografia a emissione di positroni (pet) come accumulo del radio composto in tali sedi. i pazienti affetti da nsclc in stadio iiia possono beneficiare di un approccio chirurgico associato o meno a trattamenti chemioe/o radioterapici. al contrario, i pazienti in stadio iiib sono esclusi dal trattamento chirurgico radicale. la prognosi dei pazienti affetti da nsclc in stadio iiia operati radicalmente è strettamente correlata allo stato linfonodale e al numero dei linfonodi coinvolti secondo la descrizione chirurgica [7]. caso clinico anamnesi a.t. è un uomo di 58 anni in buone condizioni generali, privo di comorbilità rilevanti. dall’anamnesi si evince esclusivamente un’ipertensione arteriosa diagnosticata cinque anni prima, in trattamento e in buon compenso farmacologico con ace-inibitori e un pregresso intervento di colecistectomia per colelitiasi all’età di 43 anni. è inoltre un moderato fumatore di circa 10 sigarette/die da 35 anni (ossia 17,5 pack/year), con un’esposizione lavorativa da circa 10 anni, e tuttora attiva, a polveri sottili e solventi per vernici. durante gli accertamenti diagnostici effettuati in previsione di un intervento ortopedico di meniscectomia, esegue una radiografia del torace con riscontro di un addensamento polmonare tondeggiante a livello del campo medio apicale destro. all’esame obiettivo, come unico reperto si segnala la riduzione del murmure vescicolare ai campi medio e superiore del polmone di destra, in assenza di rumori polmonari aggiunti; nei restanti ambiti si rileva respiro aspro, ma presente. all’esame obiettivo cardiaco e addominale non vi sono elementi di rilievo. i parametri vitali basali rilevati sono pressione arteriosa omerale (pao) = 130/85 mmhg, saturazione ossigeno = 96% in aria ambiente, frequenza cardiaca = 70 battiti al minuto (ritmica) e frequenza respiratoria = 13 atti al minuto. iter diagnostico figura 1. valutazione strumentale alla diagnosi con tc del torace con mezzo di contrasto: neoformazione in sede peri-ilare destra sospetta per lesione eteroproduttiva il paziente, su indicazione dello stesso ortopedico, esegue una visita pneumologica, durante la quale viene posta indicazione a eseguire tomografia computerizzata (tc) del torace con mezzo di contrasto, che evidenzia una lesione in sede peri-ilare destra di circa 65 × 50 mm, a margini irregolari, intrascissurale, di sospetta natura evolutiva, con adenopatie di diametro moderatamente incrementato in sede ilare, paratracheale destra e sottocarenale (diametro compreso tra 12 e 20 mm) sospette per coinvolgimento neoplastico (figura 1). in corso di esecuzione dell’esame tc del torace il collega radiologo, visionata la suddetta lesione polmonare, consulta telefonicamente il medico pneumologo di riferimento e viene concordato di estendere le scansioni anche al cranio e all’addome superiore. l’esame tc dell’addome e del cranio non evidenziano secondarietà e, per una migliore definizione del quadro mediastinico, il medico pneumologo pone indicazione a una tomografia a emissione di positroni pet-tc. quest’ultima conferma l’anomala fissazione di radiofarmaco a livello del lobo polmonare superiore destro con suv (standardized uptake value) pari a 8,5, in assenza di anomale captazioni a livello dei linfonodi ilo-mediastinici e delle altre regioni corporee esaminate, comprese le strutture ossee. in considerazione della centralità della lesione viene effettuato esame fibrobroncoscopico (fbs) a scopo diagnostico: macroscopicamente il sistema bronchiale appare pervio, in assenza di alterazioni della mucosa o lesioni vegetanti. viene praticata tbna (trans-bronchial needle aspiration) a livello del linfonodo sottocarenale: l’esame citologico non evidenzia la presenza di cellule neoplastiche. l’iconografia fornisce pertanto le seguenti stadiazioni cliniche: ct2b cn2 cm0 (stadio iiia) mediante l’esame tc, ct2b cn0 cm0 (stadio iia) secondo l’esame pet (peraltro supportato dalla tbna sopra riportata). in corso di riunione multidisciplinare, nella quale sono presenti il medico pneumologo (che in questo caso fa parte di una divisione di oncologia toracica), il chirurgo toracico e il radioterapista si discute il caso alla luce dei dati tac, pet e broncoscopici e si pone indicazione a eseguire mediastinoscopia. tale procedura ha permesso la campionatura di 5 linfonodi totali, 3 in sede pretracheale destra e 2 in sede paratracheale destra, risultati all’esame istologico sede di metastasi di adenocarcinoma scarsamente differenziato in 4 casi su 5 (figura 2). la malattia risulta quindi inquadrabile come ct2b yn2 cm0, stadio iiia, secondo la 7a stadiazione tnm [6]. figura 2. esame istologico della stazione linfonodale iter terapeutico alla luce del dato diagnostico ottenuto, il caso viene quindi discusso per definire il miglior approccio terapeutico e viene posta collegialmente indicazione al trattamento chemioterapico con intento neoadiuvante secondo lo schema cisplatino e docetaxel, con rivalutazione di malattia dopo 3 cicli, che il paziente ha eseguito in assenza di effetti collaterali di grado moderato-severo, esclusa l’alopecia completa e fatta eccezione per la neutropenia di grado 3 (870 neutrofili/mm3 totali) al nadir del secondo ciclo, non febbrile, che non ha richiesto alcuna terapia profilattica domiciliare. il paziente ha inoltre segnalato nausea di grado 1 nei due giorni successivi alla somministrazione dei farmaci del primo ciclo e una progressiva astenia a decorrere dal secondo ciclo di trattamento sino a un massimo di grado 2, protrattasi poi fino al termine del terzo ciclo. l’esame tc torace, addome superiore e cranio con mezzo di contrasto di rivalutazione ha evidenziato una risposta parziale al trattamento (secondo i criteri recist 1.1) (figura 3) [8], conseguendo una riduzione dimensionale delle linfoadenopatie ilo-mediastiniche e della lesione primitiva in misura superiore al 30%. figura 3. ristadiazione mediante tc dopo 3 cicli di trattamento neoadiuvante la ridiscussione collegiale del caso ha messo i colleghi chirurghi toracici nella condizione di porre indicazione a resezione radicale. il paziente viene quindi sottoposto, previa valutazione funzionale cardio-respiratoria, a intervento di bilobectomia destra e linfadenectomia sistematica. tale procedura è stata eseguita con successo, in assenza di complicanze maggiori (si segnala unicamente la comparsa in seconda giornata di fibrillazione atriale ad alta penetranza, risoltasi dopo terapia endovenosa con amiodarone), con una buona ripresa globale e respiratoria da parte del paziente. l’esame istologico definitivo ha documentato la presenza all’interno del lobo polmonare di un adenocarcinoma moderatamente differenziato (g2), diametro massimo di 30 mm, margini di resezione indenni (r0), caratterizzato da focolai di invasione vascolare, 4 linfonodi positivi su 19 totali asportati, di cui 1 paratracheale inferiore, 1 pretracheale e 2 sottocarenali. la malattia è stata pertanto inquadrata come stadio pt1b pn2 pm0, stadio iiia. da valutazione multidisciplinare postoperatoria emerge l’indicazione a trattamento radiante con intento adiuvante. sono stati quindi somministrati 50 gy totali con frazionamento convenzionale (2 gy/die) mediante tecnica conformazionale a un volume bersaglio rappresentato dalle stazioni ilo-mediastiniche coinvolte dalla malattia e da quelle più prossime per contiguità. dopo un mese dal termine del trattamento radioterapico il paziente segnala tosse e un peggioramento della dispnea e la radiografia del torace in due proiezioni segnala la presenza di polmonite post-attinica, per la quale si è impostata terapia steroidea ad alto dosaggio. dopo 20 giorni avviene un netto miglioramento del quadro clinico con progressiva scomparsa della sintomatologia respiratoria. decorso clinico per a.t. iniziavano quindi controlli di follow-up che prevedono una visita clinica ed esecuzione di tc con cadenza trimestrale e una valutazione ossea con scintigrafia ossea total body una volta all’anno per i primi due anni. successivamente i controlli potranno essere dilazionati in assenza di segni e sintomi di recidiva locale e/o a distanza. a distanza di 3 mesi dal termine della terapia il paziente sta bene, le prove di funzionalità respiratoria post-chirurgia non hanno posto in evidenza alterazioni significative rispetto al quadro iniziale, l’esame tc total body con mdc non documenta segni di recidiva locale o secondarismi a distanza; l’unico reperto da segnalare è la presenza di esiti di terapia attinica. il paziente riferisce di essere tornato a lavorare, di non aver dolore e di eseguire le sue normali attività quotidiane senza limitazioni. considerazioni diagnostiche e terapeutiche nel caso descritto la valutazione discordante sul coinvolgimento linfonodale mediastinico tra quadro iconografico (tc, immagini pet) e negatività derivante dall’agobiopsia in corso di fibrobroncoscopia ha portato, dopo valutazione interdisciplinare, alla scelta di eseguire ulteriori accertamenti. la miglior tecnica mini-invasiva disponibile presso il nostro centro è la mediastinoscopia, non avendo il personale operante presso l’endoscopia bronchiale esperienza specifica nell’impiego dell’endobronchial ultrasound (ebus). la mediastinoscopia ha permesso di classificare la malattia linfonodale come n2 e una corretta definizione dell’impegno mediastinico è fondamentale per un buon inquadramento prognostico e terapeutico. per lo studio della stadiazione ossea si è ritenuto sufficiente il quadro di negatività pet (già disponibile per questo paziente) sulla base della sua miglior specificità e sensibilità rispetto alla scintigrafia total body. quindi inizialmente il paziente è stato classificato come yt2b n2 ym0. a.t. ha beneficiato di un trattamento chemioterapico neoadiuvante conseguendo una buona risposta sulle dimensioni del t (risposta parziale secondo criteri recist 1.1), tuttavia non ha mostrato un downstaging effettivo. alla rivalutazione dopo 3 cicli il chirurgo toracico ha posto indicazione a un intervento di bilobectomia con linfoadenectomia sistemica. l’esito istologico conferma la diagnosi di adenocarcinoma, grado g2 e lo stadio risulta essere iiia, pt1b pn2 pm0. tra le complicanze perie postoperatorie va unicamente segnalata la comparsa di fibrillazione atriale, risoltasi con terapia medica. la radioterapia adiuvante è stata effettuata sulla base della stadiazione linfonodale definitiva e con l’intento di conseguire un miglior controllo regionale della malattia. domande che il medico dovrebbe porsi trovandosi di fronte a questo caso in base alle caratteristiche cliniche del paziente e agli esami strumentali disponibili qual è il miglior approccio diagnostico per questo paziente? in un paziente con stadiazione iconografica linfonodale controversa, qual è il ruolo della mediastinoscopia? quale vantaggio rispetto alle altre metodiche stadiative per l’“n” (ebus, pet-tc)? qual è il ruolo della chemioterapia neoadiuvante nel trattamento del nsclc iiia n+? la radioterapia adiuvante ha un razionale nello stadio iiia n2? discussione il 25% dei pazienti affetti da nsclc viene diagnosticato in stadio iii. lo stadio iii comprende una serie eterogenea di patologie e la prognosi di questi pazienti è strettamente correlata allo stato linfonodale di malattia. tale coinvolgimento varia dalla sua negatività (n0), alla presenza di metastasi ai linfonodi peribronchiali e/o ilari ipsilaterali (n1), alla positività dei linfonodi mediastinici omolaterali e/o controlaterali (n2) sino al coinvolgimento dei linfonodi ilari o mediastinici controlaterali, scalenici ipsio controlaterali e sopraclaveari (n3). la terapia dei pazienti in stadio iii si basa sul coinvolgimento linfonodale e in particolare alle stazioni positive (peribronchiali versus mediastinici) e al numero di linfonodi positivi. nello stadio ciiia n0-1 la chemioterapia neoadiuvante non è raccomandata se non nell’ambito di studi clinici, l’indicazione primaria è quella dell’intervento chirurgico. la prognosi e l’approccio terapeutico dei pazienti affetti da nsclc allo stadio iiia n2 variano significativamente a seconda dell’interessamento linfonodale mediastinico: i pazienti con linfonodi clinicamente negativi, ma positivi al solo esame istologico (pn2, 20% circa) dopo chirurgia hanno una sopravvivenza a 5 anni pari al 20-25%, mentre i pazienti con esteso interessamento mediastinico (cn2, n2 multistazionale e/o bulky), che sono l’80% circa della casistica, hanno una sopravvivenza a 5 anni pari al 3-9% dopo resezione radicale. tale dati sottolineano la necessità di un approccio terapeutico da definirsi caso per caso attraverso la condivisione fra chirurgo, pneumoncologo e radioterapista. nei pazienti in stadio cn2 minimo (dove per cn2 minimo si definisce una malattia linfonodale limitata o con coinvolgimento microscopico o di monostazione e/o con diffusione intracapsulare), è fortemente raccomandato un approccio standard con induzione chemioterapica con doppietta a base di platino, seguita da una resezione radicale. qualora le condizioni cliniche o funzionali cardiorespiratorie del paziente o la situazione di malattia dopo induzione non consentano l’intervento chirurgico, viene allora discussa l’opzione radioterapica, che dovrebbe avere un intento curativo. nei pazienti in stadio cn2 bulky, la chemioradioterapia deve rappresentare lo standard terapeutico [9-15]. la modalità di somministrazione dovrebbe avvenire in concomitanza, sebbene in alcuni casi si persegua un approccio sequenziale (per motivi logistico-organizzativi oppure in presenza di voluminosi campi di irradiazione o ancora in caso di condizioni cliniche che controindichino la modalità concomitante, come nello stadio iiib) [16]. come descritto precedentemente, nei casi di malattia operabile in stadio iii (ciiia) un quarto dei pazienti per i quali la stadiazione linfonodale preoperatoria risulti negativa presentano poi una positività all’atto dell’intervento [17]. per tale motivo nasce l’esigenza di una corretta stadiazione a livello linfonodale, soprattutto per quei casi in cui vi sia discordanza fra le tecniche strumentali impiegate (tc, pet, fbs). qualora vi sia il sospetto di una classificazione n2 è indispensabile accertare il coinvolgimento linfonodale per fornire una corretta indicazione prognostica e per pianificare la miglior strategia terapeutica: a tal fine vi sono diverse procedure utilizzabili. negli ultimi anni la tbna ha subìto un ulteriore importante progresso, grazie all’introduzione dell’ecobroncoscopio. si tratta di un broncoscopio flessibile dotato alla sua punta di una sonda ecografica lineare che consente la visualizzazione ultrasonografica dei linfonodi peritracheobronchiali e permette di osservare in tempo reale l’ago nel momento in cui penetra nel bersaglio. fin dai primi studi la tbna sotto guida ecoendoscopica (ebus-tbna) ha mostrato una sensibilità superiore al 90% che, al contrario della tbna tradizionale, non diminuisce per linfonodi di piccole dimensioni. un limite dell’ebus-tbna è quello di non poter campionare i linfonodi non adiacenti alle vie aeree. al fine di ovviare a questa limitazione e per completare le possibilità di studio endoscopico del mediastino, è stato proposto l’impiego dell’approccio transesofageo che consente di campionare linfonodi delle stazioni mediastiniche sinistre, sottocarinali, periesofagee e del ligamento polmonare. l’approccio transesofageo ai linfonodi mediastinici può essere effettuato con l’utilizzo di ecoesofagoscopi (eus-fna) o anche utilizzando l’ecobroncoscopio introdotto in esofago. tale metodica si sta progressivamente diffondendo tra gli pneumologi interventistici, ma non tutti i centri hanno la possibilità di utilizzarla [15]. la mediastinoscopia è una tecnica chirurgica mini-invasiva che prevede una breve ospedalizzazione. tale metodica permette di raggiungere le stazioni linfonodali paratracheali superiori e inferiori, sottocarenali e pretracheali (box). obiettivi della mediastinoscopia nella gestione del nsclc [18] valutazione e/o conferma istologica delle lesioni mediastiniche valutazione biomolecolare delle lesioni neoplastiche completamento della stadiazione nello studio delle stazioni linfonodali coadiuvante nell’approccio multidisciplinare nel trattamento successivo valutazione della risposta obiettiva dopo trattamento di induzione le stazioni para-aortiche e della finestra aorto-polmonare sono invece accessibili mediante video-toracoscopia (vats) o mediastinotomia anteriore sinistra. vats e altre metodiche endoscopiche possono raggiungere i linfonodi paraesofagei e quelli del territorio del ligamento polmonare inferiore. la mediastinoscopia presenta nella stadiazione mediastinica una sensibilità del 78% (che diventa pari al 90% in caso di video-mediastinoscopia) e una specificità del 100% con tassi di morbilità e mortalità decisamente bassi, pari a 2% e 0,08%, rispettivamente [19-21]. tale metodica può quindi essere presa in considerazione e valutata collegialmente in caso di pazienti con stato linfonodale dubbio, per garantire loro una migliore indicazione prognostica e una terapia appropriata. i farmaci utilizzati nel trattamento neoadiuvante nel tumore del polmone con indicazione citoriduttiva sono doppiette a base di derivati del platino unitamente a un farmaco di terza generazione, quale vinorelbina, gemcitabina, docetaxel o paclitaxel [22]. la scelta del tipo di resezione chirurgica dipende dalla sede e dalle dimensioni della neoplasia e dalla riserva respiratoria del paziente. viene eseguita una valutazione cardiorespiratoria al fine di escludere i soggetti che presentano un rischio operatorio eccessivo o che si prevede non risulteranno autonomi dal punto di vista respiratorio. esistono a tal proposito in letteratura linee guida di riferimento a cui si rimanda, trattandosi di argomenti squisitamente di natura chirurgica e funzionale (respiratoria e cardiaca) [23-25]. la mortalità e la morbilità della chirurgia polmonare sono correlate alle condizioni generali del paziente, alla sua età, alle comorbilità, all’entità della resezione e a eventuali trattamenti neoadiuvanti effettuati [26]. tuttavia, negli ultimi anni, diversi studi clinici hanno evidenziato una riduzione dei tassi di mortalità e morbilità della chirurgia polmonare, attualmente l’1-2% per le lobectomie e meno del 6% per le pneumonectomie [27-29]. nei pazienti inquadrati come n2 e sottoposti a chemioterapia di induzione, il trattamento chirurgico dovrebbe essere rappresentato dalla lobectomia al fine di ridurne le possibili complicanze [30,31] (box). possibili complicanze post-operatorie nel nsclc dopo trattamento di induzione (incidenza decrescente) [32,33] sindrome da distress respiratorio acuto (ards) polmonite fistola bronco-pleurica (bpf) empiema sanguinamenti aritmie perdite aeree prolungate atelettasia nel caso clinico discusso in questo articolo (stadio iiia n2 bulky) l’indicazione secondo le linee guida nazionali e internazionali [15,34] sarebbe stata quello di un trattamento chemio-radioterapico con intento neoadiuvante, tuttavia l’approccio multidisciplinare e il giudizio da parte del chirurgo toracico del possibile intervento di bilobectomia (in ragione della posizione anatomica della lesione primitiva) dopo induzione hanno condotto in questo caso all’esclusione del trattamento radioterapico, con l’intento di ridurre i rischi di mortalità operatoria e perioperatoria, atteggiamento condiviso da dati di letteratura [35,36]. negli stati localmente avanzati ove non sia stato effettuato un trattamento neoadiuvante (stadio iii n0-1), la chemioterapia adiuvante offre un vantaggio in termini di tempo libero da progressione e di sopravvivenza globale, con beneficio assoluto a 5 anni che varia dal 2% al 4,5%, a seconda degli studi. le principali linee guida internazionali concordano nel suggerire che una chemioterapia contenente cisplatino somministrata per 4 cicli di trattamento debba essere proposta a pazienti con nsclc operati radicalmente e risultanti come stadi pii e piii, in buone condizioni generali, con performance status di 0-1, senza significative comorbilità e che abbiano altresì avuto una buona ripresa fisica dopo l’invento chirurgico [15,37,38]. per quanto riguarda la radioterapia adiuvante nei pazienti affetti da nsclc allo stadio iiia n2 radicalmente operati, non è possibile formulare una raccomandazione specifica, anche se diversi lavori suggeriscono un possibile effetto positivo della radioterapia adiuvante nello stadio iii anche dopo trattamento chemioterapico adiuvante [39-42]. ad oggi, pur non essendo disponibili evidenze solide in tal senso, nella pratica clinica è frequentemente applicato il suo uso, mediante la somministrazione di una dose totale compresa fra 50-54 gy, con frazionamento convenzionale (1,8-2 gy/die) mediante tecnica conformazionale. l’impiego di tecniche radioterapiche conformazionali consente di minimizzare il rischio di complicanze e sequele tardive, soprattutto in pazienti con funzionalità spesso già compromessa. studi attualmente in corso definiranno meglio il suo ruolo in questo specifico setting di pazienti. più complicata è la valutazione della radioterapia dopo chemioterapia neoadiuvante, con mancanza di dati definitivi sull’efficacia sulle sue indicazioni [43,44]. in ogni caso, un ruolo decisivo nelle scelte rimane la valutazione multidisciplinare del singolo paziente, il suo performance status, il numero di linfonodi positivi, l’età e le sue comorbilità. nella malattia localmente avanzata iiib, pazienti con buon performance status e con minima perdita di peso (meno del 5% nei tre mesi precedenti la diagnosi di neoplasia polmonare) e assenza di metastasi sopraclaveari beneficiano di una sopravvivenza superiore se sottoposti a un trattamento combinato chemio-radioterapico e vanno quindi accuratamente valutati per questo tipo di approccio terapeutico. il trattamento chemio-radioterapico può essere concomitante o sequenziale; ove fattibile, il trattamento concomitante risulta essere superiore al trattamento sequenziale. il trattamento combinato di chemio-radioterapia, con una dose minima di 60 gy in frazionamento convenzionale, va pertanto considerato il trattamento standard del nsclc in stadio localmente avanzato, seppure non esista un parere unanime in merito al miglior schema chemioterapico da impiegare (combinazione, dosaggi, numero di cicli) e alla modalità di integrazione delle due metodiche (inizio della radioterapia sin dal 1° ciclo o dopo 1-2 cicli) [45]. tuttavia, i profili di tossicità derivanti dall’approccio concomitante ne limitano fortemente l’impiego routinario, imponendo un’accurata selezione clinica dei pazienti da sottoporre a questa tipologia di trattamento, anche in termini di volumi tumorali da irradiare, di vincoli di dose radioterapica da rispettare per gli organi a rischio (polmone sano in particolare) e di prove di funzionalità respiratoria. pazienti non idonei al trattamento chemio-radioterapico possono essere valutati per il solo trattamento radiante a dosi radicali [15]. lo schema chemioterapico maggiormente utilizzato nel trattamento concomitante, indipendentemente dall’istologia, è quello a base di cisplatino ed etoposide [46]. gli studi condotti in questo stadio di malattia che valutavano l’impiego di farmaci biologici (quali gefitinib e cetuximab) così come l’impiego di nuovi farmaci in aggiunta al platino, concomitanti alla radioterapia, hanno portato a risultati discordanti in termini di efficacia ed elevati tassi di tossicità locale [47-49]. ad oggi, il trattamento del nsclc in stadio iii deve sicuramente avvalersi di un approccio multidisciplinare: ogni caso va valutato accuratamente per pianificare al meglio l’algoritmo terapeutico, che può prevedere l’integrazione di chirurgia, chemioterapia e radioterapia. attualmente le linee guida e le raccomandazione delle società internazionali e nazionali di ricerca (nccn guidelines [34], esmo guidelines [38], nuove linee guida aiom [15]) possono fornire un valido sostegno al clinico. punti chiave il 25% dei carcinomi polmonari non a piccole cellule (nsclc) viene diagnosticato in stadio iii nello stadio iii la stadiazione linfonodale ha un ruolo determinante nella prognosi e nella scelta dei trattamenti la gestione diagnostica e terapeutica del nsclc deve essere multidisciplinare: chirurgo, oncologo clinico (o pneumoncologo) e radioterapista dovrebbero valutare insieme i singoli casi mediante l’attivazione di gruppi interdisciplinari algoritmo diagnostico nel tumore del polmone in stadio iii [15] algoritmo terapeutico nel tumore del polmone in stadio iii [15] c = stadio clinico; n = stazioni linfonodali regionali; nslsc = non small cell lung cancer; pet = tomografia a emissione di positroni; rmn = risonanza magnetica nucleare; sclc = small cell lung cancer; sotb = scintigrafia ossea total body; t = tumore primitivo; tc = tomografia computerizzata stadio i: t1a, b n0 m0; t2a n0 m0 stadio ii: t2b n0 m0; t1a, b n1 m0; t2a n1 m0; t2b n1 m0; t3 n0 m0 stadio iii: t1a, b o t2a, b n2 m0; t3 n1-2 m0; t4 n0-1 m0; t4 n2 m0; qualunque t n3 m0 bibliografia jemal a, bray f, center mm, et al. 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causa di tale disturbo impone una diagnostica differenziale molto ampia, che sinteticamente potrebbe ridur­ si al discernimento tra “episodio di natura sincopale” ed “episodio di natura non sin­ copale” [2]. la sincope è una perdita di coscienza tran­ sitoria dovuta a un’ipoperfusione cerebrale globale, caratterizzata da rapida insorgenza, breve durata, recupero completo e spontaneo, causata prevalentemente da disturbi cardiaci e/o disautonomici (ipotensione ortostatica, perché descriviamo questo caso l’elevata prevalenza degli episodi di perdita di coscienza transitoria nella popolazione generale impone al medico un’approfondita conoscenza delle problematiche a essa connesse, in particolare dell ’esistenza di casi più rari, come quello dell ’asistolia ictale presentata nel nostro articolo, che si manifestano con una semeiologia clinica molto complessa ma celano disturbi fisiopatologici di assoluta gravità. il riconoscimento di tale sindrome è fondamentale per un corretto approccio diagnostico e terapeutico al paziente corresponding author dott. giovanni assenza g.assenza@unicampus.it caso clinico abstract the differential diagnosis of an episode of transient loss of consciousness can be sometimes very tricking, in particular when symptoms peculiar of syncope are mixed with focal neurological symptoms. we report the case of a 54-year-old woman who suddenly claimed, during a polygraphic recording (electroencephalography/electrocardiogram), a feeling of fear and tachycardia followed by loss of consciousness and then a tonic posturing of the left limbs. polygraphic recording showed a critical electroencephalographic pattern starting from left temporo-zygomatic channels followed after few seconds by a sudden slowing of cortical background activity associated with an episode of asystole, as witnessed simultaneously by electrocardiogram. muscular activity covered electroencephalographic activity of following minutes. this case provides an opportunity to highlight the existence of rare conditions such as ictal arrhythmias which should be considered in the differential diagnosis of episodes of transient loss of consciousness in particular when dysautonomic and neurological symptoms are intermingled. autonomic symptoms (vomiting, tachycardia, cyanosis, bradycardia and asystole) may be also more frequent in idiopathic (more rarely symptomatic) epilepsies of childhood (panayiotopoulos syndrome). keywords: epilepsy; asystole; sudep; transient loss of consciousness; syncope an unusual case of loss of consciousness: when an epileptic brain let the heart slow down cmi 2012; 6(1): 15-19 1 neurologia clinica, università campus biomedico di roma giovanni assenza 1, federica assenza 1, giovanni pellegrino 1, mario tombini 1 uno strano caso di perdita di coscienza: quando un cervello epilettico fa rallentare il cuore 16 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) uno strano caso di perdita di coscienza: quando un cervello epilettico fa rallentare il cuore sincopali, invece, sono rappresentati da di­ sturbi cerebrali transitori causati dalle più disparate eziologie e di cui le crisi epilettiche rappresentano la causa più frequente nella popolazione generale. la corretta categorizzazione dell’episodio permette di effettuare un iter diagnostico più mirato e dunque di giungere alla diagnosi più rapidamente. il primo strumento fonda­ mentale è un’accurata anamnesi che indaghi sulle patologie concomitanti del paziente, le circostanze in cui è avvenuto l’evento, i sintomi prodromici e i fattori scatenanti, la durata della perdita di coscienza, la descri­ zione – non sempre possibile – da parte di testimoni circa l’evento, la presenza o meno di cianosi, clonie degli arti, trisma o rilascio sfinterico e l’eventuale stereotipia degli even­ ti. comunemente ci indirizziamo facilmente verso una sincope nel caso di episodi non ste­ reotipati, con sintomi prodromici caratteriz­ zati da sensazione di capogiro, offuscamento del visus, sudorazione algida, seguiti da ca­ duta a terra con rilascio del tono muscolare di breve durata, pronta ripresa dello stato di coscienza, che riconoscono quali fattori scatenanti pasti abbondanti, ambienti caldi, posizione ortostatica prolungata; viceversa di fronte a una sintomatologia altamente ste­ reotipata, con sintomi prodromici a carattere neurologico focale, seguita da caduta a terra con irrigidimento degli arti, scosse tonico­ cloniche, rilascio sfinterico, revulsione dei globi oculari e lenta ripresa dello stato di coscienza ci orientiamo verso una diagnosi di epilessia (tabella i). i pochi studi condotti sulla diagnosi dif­ ferenziale tra sincope e crisi epilettiche han­ no mostrato che, a causa dell’assenza di un presidio diagnostico che rappresenti il gold standard nella diagnosi delle perdite di co­ scienza, un’errata diagnosi di epilessia viene posta nel 20­30% dei pazienti con perdita di coscienza transitoria dovuta a sincope e, viceversa, una misdiagnosi di sincope si ve­ rifica nel 5% di pazienti con epilessia [3]. il discorso diviene ancor più complicato se si considera che nella pratica clinica spesso c’è il riscontro di una coesistenza dei due di­ sturbi nello stesso paziente, che entrambi possono fungere da concause nello stesso episodio e che esistono sindromi rare in cui durante le crisi epilettiche si producono arit­ mie che causano una perdita di coscienza transitoria. queste condizioni vengono spes­ so sottodiagnosticate sia perché il medico non sempre considera queste complesse in­ terconnessioni fisiopatologiche sia perché una registrazione dell’attività elettrica cere­ brale non viene routinariamente eseguita in poligrafia con rilevazione dell’elettrocardio­ gramma (ecg). descrizione del caso clinico qui di seguito illustriamo il caso di a.d. una donna di 54 anni che, recatasi presso il nostro ambulatorio di neurologia per effet­ tuare un elettroencefalogramma (eeg) di controllo presentava, durante iperventilazio­ ne, improvvisa sensazione di paura, poi di peso a livello epigastrico, e ancora di cardio­ palmo seguiti, dopo alcuni secondi, da im­ provvisa perdita di coscienza associata a deviazione del capo verso il basso e irrigidi­ mento tonico ai quattro arti della durata di alcuni secondi, seguiti da rilasciamento im­ provviso del tono muscolare e nuovamente da irrigidimento tonico degli arti di destra. l’episodio durava in totale 60 secondi, dopo i quali la paziente presentava repentina ri­ presa dello stato di coscienza e avvertiva unicamente una sensazione di lieve stordi­ mento. l’analisi della co­registrazione eeg­ ecg rivelava in concomitanza della sensa­ zione di paura la presenza di attività elettri­ ca di tipo critico a partenza dalle regioni temporo­zigomatiche di sinistra, tendente poi alla diffusione sulle regioni omologhe controlaterali; seguiva un rallentamento im­ provviso e diffuso dell’attività cerebrale, suc­ cessivamente rimpiazzato per alcuni secon­ di da attività artefattuale di tipo muscolare. al cessare dell’attività artefattuale, si eviden­ sincope crisi epilettica fattori scatenanti emozioni, manovra di valsalva, ambienti caldi, posizione ortostatica prolungata deprivazione di sonno, alcol, stimolazione luminosa intermittente (sli) prodromi pallore, sudorazione, amaurosi, nausea, stanchezza, cardiopalmo nessuno/aura epilettica postura all’esordio generalmente posizione ortostatica variabile caduta a terra rilasciamento muscolare irrigidimento muscolare tonico stereotipia no sì durata della perdita di coscienza secondi minuti volto pallore cianosi ripresa di coscienza rapida (< 5 minuti) graduale (minuti-ore) dolori muscolari variabili comuni tabella i. diagnosi differenziale della sincope vs crisi epilettica su base anamnestica 17 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) g. assenza, f. assenza, g. pellegrino, m. tombini di intraprendere terapia con bromazepam, che la paziente avrebbe assunto per circa un mese senza alcun beneficio. la paziente non aveva storia di epilessia o di patologie cardiologiche o metaboliche di rilievo, ove si eccettuino una malattia da reflusso gastroe­ sofageo trattata ciclicamente con inibitori di pompa protonica, un’insonnia e una sindro­ me ansioso­depressiva reattiva da circa un anno, non trattate. dall’anamnesi fisiologica si apprendeva che la paziente, nata da parto eutocico a termine, non aveva storia di con­ vulsioni febbrili in età infantile o di traumi cranici di rilievo, e aveva avuto una normale acquisizione delle tappe motorie e cogniti­ ve. in anamnesi familiare non era presente alcuna malattia neurologica di rilievo, e in particolare non epilessia. l’esame obiettivo neurologico era nella norma. durante la degenza la paziente veni­ va sottoposta, tra gli altri accertamenti, a monitoraggio elettroencefalografico delle 24 ore mostrante «anomalie epilettiformi intercritiche sulle sedi centro­temporo­ zigomatiche bilaterali con netta prevalenza sinistra, tendenti alla diffusione, attivate in corso di sonno nrem», videat cardiologico che consigliava impianto di pacemaker de­ finitivo e veniva sottoposta a una copertura benzodiazepinica oltre che a una rapida ti­ tolazione di carbamazepina fino a 600 mg/ die, non presentando più episodi assimilabili a quelli precedentemente descritti. veniva dunque dimessa con diagnosi di «epilessia focale criptogenica. arresto cardiaco di ori­ gine epilettica» e con l’indicazione ad assu­ mere carbamazepina. discussione l’episodio descritto riporta un caso di “asi­ stolia ictale”, ossia di una perdita di coscienza ziava un appiattimento diffuso del tracciato eeg per circa 15 secondi, al termine del quale riprendeva l’attività muscolare, preva­ lente sugli elettrodi di destra e, solo gradual­ mente, un ritmo cerebrale di fondo di tipo fisiologico. la presenza della contestuale registrazione del segnale elettrocardiografi­ co permetteva di rilevare che, in corrispon­ denza dell’improvviso rallentamento dell’at­ tività cerebrale, durante l’attività elettrica di tipo critico, si verificava una prolungata asi­ stolia (figura 1). la paziente veniva sottoposta nella stes­ sa mattinata a tilt­test con co­registrazione eeg, che non induceva alcun sintomo ma mostrava unicamente delle anomalie elettri­ che cerebrali di tipo irritativo in ambito tem­ poro­zigomatico bilaterale con prevalenza sinistra. per tale episodio la paziente veniva ricoverata presso il nostro dipartimento per ulteriori accertamenti e per la cura del caso. la raccolta anamnestica permetteva di evidenziare che la paziente presentava, da circa un anno, episodi di perdita di coscienza della durata di pochi secondi, sempre pre­ ceduti da sensazione di paura, stato ansioso, cardiopalmo e capogiro, seguiti da improvvi­ sa e rovinosa caduta a terra durante la quale riportava traumi contusivi in varie regioni del corpo. nei casi in cui tali episodi avve­ nivano in presenza di testimoni, venivano descritti una deviazione dello sguardo ver­ so l’alto e un irrigidimento tonico degli arti superiori, talvolta accompagnati a perdita di urine o di feci. al termine dell’episodio la paziente presentava una rapida ripresa di coscienza. la frequenza degli episodi era stata ingravescente fino a verificarsi circa tre volte al mese. la paziente si era sottoposta ad alcuni accertamenti, tra cui una risonan­ za magnetica dell’encefalo, un eeg e il do­ saggio degli ormoni tiroidei, che risultava­ no tutti nella norma. le veniva consigliato figura 1. registrazione poligrafica durante l ’episodio. sono rappresentati 20 secondi di registrazione poligrafica con 23 tracce elettroencefalografiche (eeg), una traccia per l ’oculogramma (eog nella figura) e una traccia elettrocardiografica (ecg nella figura). si noti come si abbia una corrispondenza tra l ’inizio della sintomatologia della paziente (paura e cardiopalmo) e l ’attività cerebrale di tipo critico a partenza dalla regioni temporozigomatiche di sinistra e il rapporto temporale tra il rallentamento e poi la scomparsa dell ’attività cardiaca, il rallentamento del tracciato eeg, la perdita di coscienza 18 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) uno strano caso di perdita di coscienza: quando un cervello epilettico fa rallentare il cuore di natura sincopale generata da un’asistolia prolungata indotta primariamente da attività cerebrale di tipo critico. non di rado si pos­ sono verificare aritmie cardiache nel corso di crisi epilettiche. nella maggior parte dei casi descritti in letteratura si tratta di ta­ chiaritmie che ricorrono nel 64­100% delle epilessie del lobo temporale [4­6]; si possono tuttavia verificare degli episodi di bradicardia (ictal bradycardia) o addirittura di asistolia (ictal asystole), come nel caso qui descritto. questa rara sindrome, che si presenta nello 0,3% dei casi di epilessia [7], dovrebbe essere presa maggiormente in considerazione nella diagnostica differenziale delle perdite di co­ scienza transitorie, in quanto può rappresen­ tare – insieme alle apnee centrali e all’edema polmonare neurogenico – un’importante causa di sudep (sudden unexpected death in epilepsy), ossia una morte inaspettata che avviene in pazienti affetti da epilessia in cui non venga trovata alcuna causa certa. si tratta di una complicanza che coinvolge un paziente epilettico su 1.000 [8]. molti interrogativi sul substrato fisiopatologico di questi fenomeni rimangono irrisolti, giacché ancora non ci sono evidenze sufficienti per affermare se, nello specifico alla base dell’ar­ resto ictale, ci sia prevalentemente un’attiva­ zione vagale diretta sul sistema di conduzio­ ne cardiaco, oppure si tratti di un problema di modulazione del sistema autonomico [9]. un’acquisizione certa e non troppo recente è sicuramente quella di un coinvolgimento del sistema nervoso autonomo in casi di epilessia che coinvolge prevalentemente il lobo tem­ porale mesiale (amigdala, giro del cingolo), la corteccia dell’insula o le regioni fronto­ polari e fronto­orbitarie [8], che sono le aree cerebrali deputate al controllo emozionale e che pertanto presentano massive connessioni con il sistema autonomico viscerale, in parti­ colare quello cardiovascolare, e sono in grado di influenzarlo con la propria attività. si pen­ sa dunque che l’abnorme attività di tipo cri­ tico di tali aree cerebrali possa perturbare il fisiologico controllo corticale di tale sistema autonomico fino a indurre gravi aritmie o ad­ dirittura la momentanea cessazione dell’at­ tività cardiaca. nello specifico, alcuni studi di stimolazione cerebrale meno recenti [10], confermati clinicamente da lavori scientifi­ ci degli ultimi anni [8], hanno evidenziato che una stimolazione dell’emisfero sinistro produce effetti depressori sulla funzione cardiaca (bradicardia e abbassamento della pressione arteriosa), mentre la tachicardia e l’ipertensione si verificano più comunemente nel caso di stimolazioni dell’emisfero destro. questo dato risulta confermato anche nel caso da noi descritto in quanto nella nostra paziente, che presentava episodi di asistolia, le aree temporali di sinistra erano quelle da cui sembravano originare le crisi epilettiche. la possibilità di una genesi epilettica di disturbi autonomici parossistici deve essere ancor più considerata in età pediatrica, ove esistono alcune forme di epilessia idiopatica (la più comune delle quali è la sindrome di panayiotopoulos), e più raramente epiles­ sie sintomatiche, che presentano una co­ stellazione di sintomi autonomici (cianosi, nausea, vomito, cefalea [11,12]) anche di natura cardiaca, tali da poter indurre bra­ dicardia fino all’asistolia [13]. nella pratica clinica bisogna inoltre considerare che in età pediatrica, più frequentemente che in età adulta, una sintomatologia autonomica può essere l’unica manifestazione clinica di una crisi epilettica. il caso da noi descritto è emblematico del­ la difficoltà diagnostica che si può riscontrare nel confrontarsi con tale sindrome, in quan­ to risulta pressoché impossibile giungere a diagnosi certa in assenza di registrazioni poligrafiche delle crisi, che già di per sé sono molto rare. tali difficoltà diagnostiche, inol­ tre, rendono conto del fatto che nell’arco di un secolo sono stati descritti e documentati meno di un centinaio di casi di bradiarit­ mie [14] e ancor meno di asistolia ictale. la nostra paziente presentava, inoltre, durante l’asistolia, una sintomatologia motoria con caratteristiche focali, indotta unicamente dall’ipoperfusione cerebrale, rendendo il cor­ teo sintomatologico ancor più ingannevole, tale da impedire di giungere a una diagnosi accurata in circa un anno di accertamenti. la presenza di una sintomatologia prodromica di carattere psichico (paura e cardiopalmo) aveva, infatti, indotto i curanti a trattare tali sintomi con ansiolitici, ma allo stesso tempo la presenza di segni convulsivi indirizzava a una diagnosi di sindrome epilettica, priva però di correlato strumentale di tipo spe­ cifico negli accertamenti eseguiti fino a che la paziente è giunta alla nostra attenzione. di fronte a una semeiologia degli episodi così complessa, fatta di una sovrapposizio­ ne di sintomi sincopali e non sincopali, solo un esperto epilettologo, a conoscenza delle possibili alterazioni disautonomiche che possono verificarsi in corso di crisi epilet­ tiche, avrebbe potuto sospettare la presenza di una tale sindrome e dunque ricercarla attivamente mediante apposite registrazioni poligrafiche. nel nostro laboratorio la regi­ strazione poligrafica dell’attività elettroence­ 19 ©seed tutti i diritti riservati clinical management issues 2012; 6(1) g. assenza, f. assenza, g. pellegrino, m. tombini falografica, elettrocardiografica e muscolare è eseguita routinariamente in tutti gli esami ambulatoriali e l’occorrenza dell’episodio proprio durante la registrazione ci ha per­ messo un’agevole diagnosi. conclusioni la diagnostica differenziale dell’episodio di perdita di coscienza transitoria richiede nei casi meno standard un approccio da parte di personale esperto che – sulla base di un’accurata ricostruzione clinico­anam­ nestica – possa indirizzare al meglio l’iter diagnostico, che talora necessita di assoluta risolutezza visti i gravi quadri fisiopatologici che essa può celare. l’asistolia ictale, sebbe­ ne ne rappresenti solo una rara causa, deve essere tenuta ben presente nella diagnosi differenziale degli episodi di perdita di co­ scienza soprattutto quando un corteo sin­ tomatologico di chiara origine sincopale si mescola a segni neurologici focali di sospetto significato critico, e ancor di più quando una sintomatologia emozionale importante ma altamente stereotipata, come la sensazione di paura nella nostra paziente, precede l’e­ pisodio. il nostro caso, inoltre, sollecita tutti i colleghi specialisti a considerare la regi­ strazione elettroencefalografica con traccia elettrocardiografica un obbligo perlomeno in tutti i pazienti che, come la nostra, pre­ sentano episodi di perdita di coscienza con caratteristiche poco definite. disclosure gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo. bibliografia 1. reeves al, nollet ke, klass dw, sharbrough fw, so el. the ictal bradycardia syndrome. epilepsia 1996; 37: 983­7 2. moya a, sutton r, ammirati f, blanc jj, brignole m, dahm jb, et al. guidelines for the diagnosis and management of syncope of the european society of cardiology (esc). eur heart j 2009; 30: 2631­71 3. pescini f, ceccofiglio a, rafanelli m, mussi c, abete p, tava g, et al. syncope and epilepsy often coexist: preliminary results of oesys study (overlapping between epilepsy and syncope study). neurol sci 2011; 32: s17 4. marshall dw, westmoreland bf, sharbrough fw. ictal tachycardia during temporal lobe seizures. mayo clin proc 1983; 58: 443­6 5. blumhardt ld, smith pe, owen l. electrocardiographic accompaniments of temporal lobe epileptic seizures. lancet 1986; 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rallentare il cuore giovanni assenza 1, federica assenza 1, giovanni pellegrino 1, mario tombini 1 effusione endotimpanica persistente verosimilmente sostenuta da biofilm in un paziente pediatrico affetto da immunodeficienza comune variabile sara torretta 1, lorenzo pignataro 1 aspetti psicologici nella gestione dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa essenziale maria luisa genesia 1, franco rabbia 1, elisa testa 1, silvia totaro 1, elena berra 1, michele covella 1, chiara fulcheri 1, giulia bruno 1, franco veglio 1 ringraziamento dei referee (marzo 2011 – marzo 2012) cmi 2014;8(suppl 1)13-16.html colite ricorrente da clostridium difficile in un grande anziano: il ruolo di fidaxomicina francesco artom 1, valerio del bono 1 1 clinica malattie infettive, irccs san martino ist, genova abstract clostridium difficile colitis is a substantial cause of in-hospital morbidity. since the mortality attributable may be as high as 10%, a prompt and effective treatment is advisable. fidaxomicin is a well-documented effective drug for the treatment of c. difficile colitis and it is particularly effective in the treatment of recurrences. we report a case of a 92-year-old woman with prolonged hospitalization and recurrent episodes (three in a three-month period) of c. difficile diarrhea. each episode initially responded to vancomycin. however, after the third episode fidaxomicin was given, with a sustained response (5 months without further episodes). in this patient fidaxomicin was safe and effective in treating recurrence of c. difficile colitis. the use of fidaxomicin as a therapy of first episode of c. difficile colitis should be considered for those patients with a predictable high risk of recurrent c. difficile colitis. keywords: clostridium; vancomycin; fidaxomicin; recurrence; colitis recurrent clostridium difficile colitis in elderly: the role of fidaxomicin cmi 2014; 8(suppl 1): 13-16 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i1s.954 caso clinico corresponding author dottor francesco artom francesco.artom@gmail.com disclosure il presente supplemento è stato realizzato con il supporto di astellas pharma s.p.a. perché descriviamo questo caso questo caso riguarda una situazione clinica ormai molto frequente, che occorre saper gestire correttamente, dal momento che è anche gravata da un notevole carico assistenziale: un grande anziano affetto da colite da clostridium ricorrente introduzione il clostridium difficile è un batterio sporigeno anaerobio gram positivo presente nella flora batterica del colon di circa il 3% degli adulti sani. di interesse clinico risultano i ceppi produttori di enterotossina “a” e citotossina “b”. l’infezione da clostridium difficile si trasmette per via oro-fecale ed è tipicamente correlata all’assistenza clinica in quanto rientra tra le infezioni nosocomiali [1]. la sintomatologia può variare da una sindrome diarroica lieve sino a forme più gravi come la colite pseudomembranosa (caratterizzata da necrosi epiteliale, ulcerazioni della parete intestinale e formazione di “pseudomembrane”) o la colite fulminante con megacolon tossico e perforazione (rappresentanti circa 1-3% dei pazienti con infezione sintomatica). lo sviluppo di patologie da clostridium difficile può essere influenzato da fattori predisponenti, quali: l’alterazione della flora batterica intestinale a seguito della terapia antibiotica; l’esposizione a clostridium difficile e la colonizzazione (ad esempio nei pazienti adulti dopo la degenza ospedaliera e la terapia antibiotica); l’assenza di un’efficace risposta immune da parte dell’organismo colonizzato. la corretta gestione dell’uso degli antibiotici rappresenta il cardine della prevenzione delle infezioni da clostridium difficile (cdi). in caso di infezione, la terapia consiste, se possibile, nella sospensione della terapia antibiotica in corso e nel trattamento con antibiotici attivi nei confronti del clostridium difficile. le linee guida sul trattamento delle infezioni da clostridium difficile concordano nel raccomandare metronidazolo (500 mg × 3vv/die per 10-14 giorni) come farmaco di prima scelta nelle infezioni lievi-moderate e vancomicina nelle forme più gravi (125 mg × 4vv/die per 10-14 giorni) o complicate (500 mg 4vv/die) [2]. nel 20-30% dei casi il paziente presenta delle recidive, che in genere si verificano entro un mese dal termine della terapia specifica [3]. le recidive devono essere trattate analogamente a quanto fatto per il primo episodio, tenendo conto della loro gravità. metronidazolo non deve essere usato oltre la prima recidiva (tossicità); quando si utilizza vancomicina, dopo il secondo trattamento è da preferire un regime a titolazione e/o pulsato. fidaxomicina è un antibiotico appartenente alla famiglia degli antibatterici macrociclici. inibisce la sintesi dell’rna da parte di una rna-polimerasi batterica e la sporulazione in vitro di c. difficile. si tratta di una molecola ad azione locale che non può essere utilizzata per trattare infezioni sistemiche e che presenta un’azione battericida e tempo-dipendente (almeno in vitro). inoltre, numerosi studi hanno dimostrato che il trattamento con fidaxomicina non altera le concentrazioni di bacteroides o degli altri maggiori componenti dell’ambiente microbico nelle feci di pazienti affetti da cdi. caso clinico descriviamo il caso di una donna di 92 anni ricoverata presso la nostra unità operativa per la sua seconda recidiva di colite da clostridium difficile. dall’anamnesi emerge la presenza di comorbilità multiple: diabete mellito di tipo 2, insufficienza renale cronica, scompenso cardiaco cronico con valvulopatia mitro-aortica, allettamento cronico, diverticolosi del sigma. a novembre del 2013 veniva ricoverata per sindrome coronarica acuta e polmonite. la degenza si complicava a causa di un episodio di colite da clostridium difficile (diagnosticata con riscontro della tossina su materiale fecale), che veniva trattata con vancomicina per os (500 mg × 4) per 10 giorni, con risoluzione del quadro flogistico e della sindrome diarroica. dopo 7 giorni si verificava la prima recidiva di colite da clostridium difficile (nuovo riscontro di positività della ricerca della tossina su feci) e veniva effettuato un nuovo ciclo di terapia con vancomicina per 10 giorni, a cui seguiva la risoluzione del quadro clinico. figura 1. andamento della diarrea della paziente nella sua seconda recidiva da clostridium difficile rispetto alle terapie somministrate il giorno seguente la dimissione, la paziente ripresentava, sin da subito, a 4 giorni dalla risoluzione dei sintomi, alvo diarroico (10 scariche di feci liquide al giorno), febbre e meteorismo addominale. all’ingresso in reparto viene impostata una terapia reidratante, monitorando il bilancio idrico, e viene eseguita una nuova ricerca della tossina del clostridium difficile: per il riscontro di positività, si comincia inizialmente una terapia con vancomicina per os 500 mg ogni 6 ore. dopo 6 giorni, date la storia clinica della paziente (seconda recidiva e presenza di plurime comorbilità) e l’indicazione all’utilizzo, viene quindi iniziata una terapia con fidaxomicina 200 mg ogni 12 ore per 10 giorni, con risoluzione completa dalla sintomatologia diarroica dopo 4 giorni di impiego (figura 1). è da sottolineare come la paziente durante il ciclo di terapia con fidaxomicina debba eseguire una terapia concomitante con meropenem e.v. a causa di una polmonite nosocomiale. la terapia viene ben tollerata e non si riscontrano effetti collaterali o tossicità. la paziente rimane degente in reparto per ulteriori 40 giorni, per ragioni indipendenti dalla colite da clostridium. nonostante ciò, non presenta alcuna ricorrenza di diarrea. anche dopo la dimissione, sino a maggio 2014 la paziente non ha più presentato recidive di infezione da clostridium difficile. in data 27 maggio, dopo essere stata sottoposta a terapia con ciprofloxacina per infezione urinaria, la paziente presenta nuovamente sindrome diarroica per cui viene ricoverata presso un reparto di medicina interna del nostro ospedale. la tossina del clostridium risulta positiva e inizia una terapia con vancomicina 500 mg qid. dopo 6 giorni la sintomatologia non recede e quindi viene deciso di iniziare un nuovo ciclo di terapia con fidaxomicina per 10 giorni, con rapida risposta clinica a 4 giorni dall’inizio della somministrazione. la paziente risulta degente sino ad agosto, senza evidenza di recidiva diarroica. il 27 agosto la paziente decede per cause non correlate alla pregressa colite da clostridium (scompenso cardiaco). domande da porsi di fronte a questo caso dal momento che la paziente aveva presentato già tre episodi di colite da clostridium in meno di tre mesi, sarebbe stato più opportuno insistere con le terapie tradizionali (metronidazolo, vancomicina) oppure effettuare uno shift a un altro farmaco? un regime con vancomicina pulsata avrebbe potuto avere efficacia clinica? nella tabella i è stato riportato schematicamente il decorso clinico della paziente, unitamente alle terapie utilizzate. farmaco usato tempo in terapia risoluzione diarrea prima infezione vancomicina 10 giorni sì, dopo 2-3 giorni prima recidiva (dopo 6-7 giorni) vancomicina 10 giorni sì, dopo 4 giorni seconda recidiva (dopo 4 giorni) vancomicina 6 giorni no fidaxomicina 10 giorni sì, dopo 4 giorni reinfezione (dopo 5 mesi) vancomicina 6 giorni no fidaxomicina 10 giorni sì, dopo 4-5 giorni tabella i. riassunto schematico delle risposte cliniche della paziente alle terapie somministrate discussione il caso descritto rappresenta un’evenienza piuttosto frequente nei reparti ospedalieri: un paziente grande anziano con diarrea da clostridium ricorrente. tale evenienza comporta, non considerando la mortalità, sicuramente un notevole allungamento dei tempi di degenza, determinando un incremento della spesa sanitaria. fidaxomicina è stata valutata nell’ambito di studi registrativi di fase iii multicentrici, in doppio cieco, di non inferiorità versus vancomicina. i risultati hanno dimostrato la non inferiorità di fidaxomicina rispetto a vancomicina. inoltre, ha determinato, a livello di percentuale, una riduzione delle recidive e un aumento delle guarigioni durature (intese come risoluzione della diarrea e assenza di recidive) [4,5]. la paziente in questione ha presentato 3 episodi ricorrenti di diarrea con risposta progressivamente minore a vancomicina. fidaxomicina ha rappresentato, in questo caso, una terapia efficace e duratura (5 mesi senza altri episodi). l’ultimo episodio (maggio 2014) è da considerare una reinfezione e non una recidiva; la paziente ha quindi manifestato i sintomi di una nuova infezione, dipendente presumibilmente da un diverso ceppo di c. difficile. anche nell’ultimo episodio fidaxomicina ha mostrato maggior efficacia rispetto a vancomicina, consentendo una risoluzione completa e, anche in questo caso sostenuta, del quadro clinico. la paziente nel corso dei due ricoveri non ha presentato alcuna colonizzazione intestinale da patogeni multidrug-resistant (mdr), evidenziando la minore propensione di fidaxomicina ad alterare il microbioma intestinale. infatti vi sono segnalazioni di gravi infezioni sistemiche da klebisella mdr o candida spp successivi a un episodio di colite da c. difficile trattato con vancomicina o metronidazolo [6,7]. la terapia con fidaxomicina è stata ben tollerata e avrebbe consentito, qualora non fossero state presenti altre patologie concomitanti, la dimissione precoce della paziente. l’efficacia di fidaxomicina è anche amplificata dal fatto che durante il primo ciclo terapeutico la paziente era sottoposta a terapia con antibiotici sistemici. il maggior costo di fidaxomicina è stato sicuramente compensato dall’assenza di ricorrenza di colite da clostridium. solo la presenza di fattori estranei alla patologia di base (fattori prevalentemente socio-familiari) ha impedito una dimissione più precoce. la tipologia della paziente (età, ospedalizzazione, comorbilità) poteva già indicare ab initio la rilevante probabilità di ricorrenze di diarrea da clostridium. in questo senso avrebbe potuto essere iniziata la terapia con fidaxomicina già a partire dal primo episodio, così come suggerito recentemente [8] e indicato nelle linee guida escmid [2]. la terapia con fidaxomicina ha dimostrato nel caso in questione un’eccellente attività antibatterica e un’ottima tollerabilità. è degno di nota il fatto che la paziente, nonostante una lunga degenza, non abbia manifestato malattie invasive da patogeni intestinali né colonizzazioni intestinali da batteri mdr, confermando quindi il verosimile limitato effetto di fidaxomicina sulla flora batterica intestinale. conclusioni in situazioni del genere è fondamentale preservare per quanto possibile la flora intestinale, evitando, qualora ve ne fosse lo spazio, terapie antibiotiche concomitanti o, in alternativa, utilizzare un farmaco anti-clostridium con ridotta attività sul microbioma. questo tipo di patologia rimane la più comune causa di diarrea associata all’utilizzo di terapie antibiotiche (in regime di ricovero) causando aumento di mortalità, morbilità e costi relativi alla degenza [9]. il paziente grande anziano risulta estremamente fragile e particolarmente esposto alla patologia da c. difficile, in particolare se sottoposto a terapie antibiotiche concomitanti [10]. punti chiave occorre individuare i pazienti a rischio per ricorrenza da clostridium difficile (es. grande anziano, terapia antibiotica sistemica prolungata, patologie intestinali di base, ecc.) è necessario assicurare a tali pazienti la terapia più efficace e con minor rischio di ricorrenza fidaxomicina ha un minor effetto sulla flora intestinale (in quanto non è attivo su bacteroides), consentendo una minor alterazione del microbioma fidaxomicina comporta minor rischio di patologie infettive da patogeni multi-resistenti (ad esempio enterococcus vancomicina-resistenti – vre, k. pneumoniae resistenti ai carbapenemi – kpc) fidaxomicina può ridurre il numero e la durata delle ospedalizzazioni bibliografia 1. to kb, napolitano lm. clostridium difficile infection: update on diagnosis, epidemiology, and treatment strategy. surg infect (larchmt) 2014; 15: 490-502; http://dx.doi.org/10.1089/sur.2013.186 2. debast sb, bauer mp, kuijper ej. european society of clinical microbiology and infectious diseases: update of the treatment guidance document for clostridium difficile infection. european society of clinical microbiology and infectious diseases. clin microbiol infect 2014; 20 suppl 2: 1-26; http://dx.doi.org/10.1111/1469-0691.12418 3. eyre dw, walker as, wyllie d, et al; infections in oxfordshire research database. predictors of first recurrence of clostridium difficile infection: implications of initial management. clin infect dis 2012; 55 suppl 2: s77-s87; http://dx.doi.org/10.1093/cid/cis356 4. louie tj, miller ma, mullane km, et al; opt-80-003 clinical study group. 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renal tumours are resistant to virtually all of the currently available chemotherapeutics, being only partially sensitive to immunological agents. during the last decade, knowledge of genetic basis of cancer has grown considerably. this has lead to an authentic revolution in the clinical management of renal tumours: the introduction of targeted therapies. novel agents address angiogenic signalling pathways through inhibition of the vascular endothelial growth factor (vegf) or the mammalian target of rapamycin (mtor). however, there is still no great evidence favouring one drug over the others. this underlines the need for decision-making tools in renal cell cancer treatment, in order to rationalise the choice of appropriate targeted agents and to enable individualised clinical management. this is a brief overview on the state of the art of the treatment of metastatic renal tumour. keywords: renal carcinoma; oncology; antiangiogenic therapy; tyrosin kinase inhibitors advanced kidney carcinoma: decision paths and therapeutic perspectives cmi 2014; 8(3): 75-81 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i3.916 gestione clinica corresponding author dott. giuseppe procopio giuseppe.procopio@istitutotumori.mi.it disclosure giuseppe procopio dichiara di aver effettuato delle consulenze per: astellas, bayer, bristol, gsk, janssen, novartis, pfizer. gli altri autori non hanno conflitti di interesse potenziali da dichiarare in relazione a questa pubblicazione introduzione il tumore renale rappresenta una delle patologie di più complesso inquadramento nella pratica clinica oncologica. esso, infatti, è contraddistinto da una notevole eterogeneità di caratteristiche, per quanto concerne non solo l’aspetto biologico-molecolare, ma anche l’andamento clinico della malattia: si osservano forme indolenti, a basso potenziale di malignità e lento accrescimento, e forme di sorprendente aggressività, con precoce disseminazione metastatica e prognosi infausta a breve termine. la gestione terapeutica del cancro renale è complicata dalla pressoché totale resistenza ai trattamenti chemioterapici standard, con tassi di risposta intorno al 5-6% per i comuni farmaci citotossici [1]. ciò dipende dalla peculiare capacità delle cellule tumorali di espellere i chemioterapici, ereditata dai tubuli renali da cui il carcinoma origina, i quali sono normalmente deputati all’estromissione delle sostanze tossiche dall’organismo e alla detossificazione [2,3]. ciò rappresenta un problema non di poco conto, se consideriamo che il tumore renale costituisce il 3-4% di tutte le neoplasie maligne, con circa 10.600 nuove diagnosi stimate nell’ultimo anno in italia, 7.000 tra gli uomini e 3.600 tra le donne [4]. circa i tre quarti delle nuove diagnosi riguardano neoplasie localizzate, passibili di trattamenti chirurgici a scopo curativo quali la nefrectomia radicale o, in alternativa, metodiche conservative nephron sparing; per queste ultime vi sono evidenze di beneficio in termini di sopravvivenza e qualità di vita, soprattutto nel caso di neoplasie di ridotte dimensioni [5,6]. ad oggi non sono disponibili trattamenti adiuvanti o neoadiuvanti di sicura efficacia, sebbene alcuni farmaci siano in corso di sperimentazione clinica. la ricaduta di malattia dopo intervento chirurgico si verifica nel 50% circa dei pazienti [7]. in casi selezionati, con buon performance status e possibilità di exeresi radicale, è valutabile la possibilità di resezione della recidiva o delle metastasi; tuttavia, un terzo dei pazienti operati va incontro a ricadute di malattia a distanza, non aggredibili chirurgicamente. inoltre, un paziente su tre si presenta alla diagnosi iniziale con malattia in stadio avanzato: la chirurgia deve costituire l’approccio terapeutico preferenziale nei casi in cui la sede, il numero delle metastasi e il performance status del paziente lo consentano; negli altri pazienti, vi è indicazione ad avviare un trattamento medico sistemico [8]. la gestione terapeutica del paziente con carcinoma renale metastatico sino alla metà degli anni duemila, la terapia farmacologica del tumore renale si è basata su un limitato numero di farmaci di scarsa efficacia e tollerabilità. in particolare, i migliori risultati si sono ottenuti con citochine quali l’interferone alfa 2a (ifnα-2a) e l’interleuchina 2 (il-2), in grado di controllare la crescita tumorale mediante un’azione modulatrice sul sistema immunitario. tuttavia, tali farmaci hanno dimostrato efficacia complessivamente bassa, con tassi di risposta globale intorno al 12% circa e scarsa tollerabilità [9]. questo desolante quadro è stato stravolto dall’avvento delle cosiddette terapie “a bersaglio molecolare”: nel caso del carcinoma renale, per molti anni orfano di trattamenti efficaci, la rivoluzione terapeutica ha coinciso con la scoperta del gene oncosoppressore vhl (von hippel lindau), frequentemente mutato nelle forme di neoplasia renale ereditaria e sporadica. il gene vhl è responsabile dell’iperproduzione di fattori angiogenetici mediata dal gene regolatore hif1α (hypoxia inducible factor 1α) [10]. l’identificazione di tali fattori molecolari ha aperto la strada alla ricerca sulle terapie anti-angiogenetiche, con sorprendenti risultati nel campo delle neoplasie renali. negli ultimi anni, numerosi agenti biologici sono stati introdotti per la terapia del carcinoma del rene in stadio avanzato o metastatico [11]. sette farmaci sono attualmente approvati per l’uso clinico; essi intervengono a vario livello su vie di segnalazione cellulare che presiedono all’angiogenesi, e appartengono a tre principali classi: anticorpi diretti contro il vegf circolante: bevacizumab; inibitori orali del recettore del vascular endothelial growth factor (vegf) e di altre chinasi implicate nei processi angiogenetici (es. pdgfr – platelet-derived growth factor receptor, kit, flt-3 – fms-like tyrosine kinase 3): sunitinib, sorafenib, pazopanib e axitinib; inibitori orali del mammalian target of rapamycin (mtor), coinvolti in molteplici processi cellulari tra cui l’angiogenesi: everolimus e temsirolimus. bevacizumab, impiegato in associazione a interferone alfa (ifnα), raggiunge tassi di risposta di circa il 26-30%, con durata media intorno a 8-10 mesi, a spese però di non trascurabili effetti collaterali quali astenia, anoressia, ipertensione e proteinuria [12]. per tali ragioni, gli inibitori chinasici sono attualmente preferiti a bevacizumab; tuttavia l’associazione bevacizumab + ifn è ancora indicata come opzione nel trattamento in prima linea del carcinoma a cellule chiare. studi clinici di fase iii nel tumore renale metastatico hanno dimostrato un tasso di risposta intorno al 30% per sunitinib e pazopanib, con sopravvivenza libera da progressione intorno agli 11 mesi in pazienti non pretrattati, e 9 mesi in pazienti già sottoposti a terapia con citochine [13,14]. le principali tossicità comuni ai due farmaci sono stomatite, diarrea, astenia, fatigue, manifestazioni ematologiche e ipertensione; sunitinib causa inoltre sindrome mani-piedi e tossicità cardiovascolari o tiroidee, mentre pazopanib può provocare innalzamento delle transaminasi [15]. sorafenib è anch’esso un inibitore di chinasi angiogenetiche (vegfr e pdgfr), ma è attivo anche sulla chinasi raf-1, implicata nella proliferazione cellulare ras-mediata. sebbene studi iniziali ne abbiano dimostrato un beneficio rispetto all’interferone in seconda linea di trattamento, con una sopravvivenza libera da progressione di 5,5 mesi e un tasso di risposta del 10%, trial successivi ne hanno scoraggiato l’impiego in pazienti non pretrattati [16-18]. le principali tossicità, simili a quelle di sunitinib, risultano ben tollerate anche nella popolazione anziana [19]. al contrario, axitinib appartiene alla seconda generazione di inibitori di vegfr, dotati di potenza relativa sino a 50 volte superiore rispetto ai farmaci di prima generazione. lo studio randomizzato di fase iii axis ha riscontrato un tasso di risposta del 23-44%, con durata media della risposta di più di 8 mesi e tossicità ben tollerate, prevalentemente a livello cutaneo [20,21]. temsirolimus, anch’esso impiegato per via endovenosa, si è rivelato maggiormente efficace in sottogruppi di pazienti a cattiva prognosi, ottenendo tassi di risposta inferiori al 10% con sopravvivenza libera da progressione di quasi 6 mesi in pazienti refrattari ad altri trattamenti, e di poco meno di 4 mesi in pazienti non pretrattati [22]. oltre a iperglicemia e iperlipidemia, i principali effetti collaterali del farmaco sono anemia, astenia, dispnea, infezioni, tossicità cutanea ed edemi periferici [23]. a differenza del precedente, everolimus è un agente somministrato per via orale. il suo ruolo è stato indagato in pazienti trattati in prima linea con sunitinib e/o sorafenib, documentando risposte parziali nell’1% dei casi e stabilità di malattia in più del 60% dei casi, con sopravvivenza libera da progressione di circa 5 mesi [24]. il farmaco è ben tollerato: i principali effetti avversi sono stomatite, rash cutanei, astenia, diarrea e ipertensione. ad oggi, non esistono chiare evidenze in favore di una o più molecole rispetto alle altre: in effetti non è ancora stata stabilita la miglior modalità di associazione delle terapie biologiche, né la loro miglior sequenza di utilizzo. i dati a disposizione sono condizionati dalla relativa brevità del follow-up degli studi clinici svolti: infatti, il fiorire della terapia a bersaglio molecolare a metà degli anni duemila ha dato origine a molteplici trial avviati negli ultimi anni, con risultati non ancora sufficientemente maturi per fornire indicazioni univoche. inoltre, le metodiche, i criteri di selezione dei pazienti e i trattamenti nei diversi trial sono spesso eterogenei, rendendo difficoltosa un’analisi comparativa. di volta in volta vengono analizzati diversi parametri per orientare la scelta terapeutica, in riferimento alle caratteristiche sia del tumore sia del paziente, con differenti sistemi di stratificazione del rischio e parziale sovrapposizione o interdipendenza delle variabili considerate. di conseguenza, i parametri su cui basare la scelta terapeutica non sono definiti in modo univoco, ma necessitano di essere inseriti in un quadro generale al fine di meglio orientare il processo decisionale. ferme restando le limitazioni sopra esposte, possono essere formulate con cautela alcune raccomandazioni per la gestione terapeutica del paziente con carcinoma renale metastatico. innanzitutto, è fondamentale l’analisi di tre classi di variabili influenzanti la scelta della terapia: l’istologia del tumore, la categoria di rischio e la linea di trattamento raggiunta. l’istotipo più frequente di carcinoma renale è il tumore a cellule chiare, che rappresenta il 70-80% delle neoplasie di tale distretto corporeo; di più rara osservazione sono il carcinoma papillare e il cromofobo, rispettivamente presenti nel 10-15% e 5% dei casi [25,26]. la classificazione istologica ha grande importanza clinica: la prognosi delle istologie non a cellule chiare è complessivamente più favorevole rispetto all’istologia a cellule chiare. la situazione si ribalta nel contesto della neoplasia metastastica a causa della minore responsività delle istologie non a cellule chiare agli attuali trattamenti biologici e alla maggiore disponibilità di trattamenti di comprovata efficacia per le neoplasie a cellule chiare [27]. alcuni studi sembrano tuttavia suggerire che lo stadio di malattia e il grading tumorale secondo fuhrman rivestano importanza maggiore rispetto al solo aspetto istologico [28]. la stratificazione del rischio nel paziente con carcinoma renale può fare riferimento a diversi modelli di classificazione prognostica. tra i più affidabili si ricorda il sistema sviluppato da motzer al memorial sloan kettering cancer center (mskcc), basato su criteri clinici e laboratoristici pre-trattamento: basso performance status, elevati livelli di lattato deidrogenasi, bassi tassi di emoglobina, alti livelli di calcio sierico corretto e breve tempo trascorso tra diagnosi iniziale e terapia (tabella i). in base a questo sistema classificativo, i pazienti vengono considerati a basso, intermedio o alto rischio rispettivamente in presenza di nessuno, uno-due o più di tre fattori di rischio (tabella ii). parametro valore performance status karnofsky < 80% emoglobinemia < limite inferiore della normalità lattato deidrogenasi sierica > 1,5 volte il limite superiore della normalità calcemia corretta > 10 mg/dl tempo intercorso tra diagnosi e trattamento < 1 anno tabella i. criteri prognostici del memorial sloan kettering cancer center. fattori pre-trattamento correlati a prognosi sfavorevole nel carcinoma renale metastatico [22] classe di rischio numero di fattori prognostici negativi basso 0 intermedio 1-2 alto 3-5 tabella ii. criteri prognostici del memorial sloan kettering cancer center. stratificazione in classi di rischio basata sulla presenza di fattori pre-trattamento con significato prognostico negativo [22] tale modello è stato sottoposto negli anni a modifiche e perfezionamenti, ma questi criteri rimangono un importante indirizzo per il clinico nell’inquadramento del paziente con carcinoma renale [22]. in particolare è stato validato e risulta ormai molto diffuso l’international metastatic renal cell carcinoma database consortium (imdc) prognostic score [29], che aggiunge ai criteri mskcc anche la valutazione di neutrofilia e trombocitosi. sono inoltre in corso di identificazione possibili marcatori molecolari con significato prognostico o predittivo. in ultimo, la decisione terapeutica dipende necessariamente dalla linea di trattamento cui il paziente si accinge a essere sottoposto, e di conseguenza dalle terapie già ricevute in passato. occorre infine considerare che alcuni farmaci disponibili sono approvati per l’utilizzo clinico solo in particolari setting terapeutici: mentre sunitinib è rimborsabile in ogni indicazione, sorafenib è approvato per l’utilizzo solo nei pazienti unfit per citochine, o dopo fallimento di precedenti terapie con citochine o altri angiogenetici; inoltre, everolimus può essere impiegato solo dopo la prima linea di trattamento. viceversa, le norme dell’agenzia italiana del farmaco prevedono che pazopanib sia rimborsabile solo in prima linea o dopo trattamento con citochine; analogamente, axitinib è approvato solo in seconda linea dopo sunitinib o citochine. in ultimo, temsirolimus è registrato solo per casi ad alto rischio in pazienti non pretrattati. tali fattori debbono essere valutati globalmente al fine di orientare la scelta del trattamento. in base alle evidenze disponibili in letteratura, sono stati suggeriti alcuni algoritmi terapeutici, tra cui quelli della european association of urology (eau) [30]. qui di seguito, invece, sono illustrati gli algoritmi per il trattamento del carcinoma renale metastatico proposti dagli autori di questo articolo. nell’ambito della prima linea di trattamento, al momento sono approvate per il carcinoma renale metastatico cinque opzioni terapeutiche: sunitinib, pazopanib, bevacizumab in associazione a ifnα, temsirolimus e sorafenib. la scelta del trattamento più idoneo dipende principalmente dall’istologia tumorale e dalla classe di rischio prognostico, come riassunto nell’algoritmo in figura 1. figura 1. algoritmo proposto dagli autori per il trattamento di prima linea del carcinoma renale metastatico. la scelta della prima linea di trattamento dipende principalmente dall’istologia tumorale e dalla classe di rischio prognostico il-2 hd = interleuchina 2 high dose; ifnα = interferone alfa in pazienti con categoria di rischio basso o intermedio e istologia a cellule chiare, vi sono evidenze che dimostrano un beneficio in sopravvivenza per terapie di prima linea con sunitinib, pazopanib o bevacizumab associato a ifnα. tutte e tre le opzioni hanno lo stesso grado di raccomandazione. in generale, la scelta può propendere verso sunitinib nel caso di caratteristiche sarcomatoidi, nei pazienti con interessamento cerebrale metastatico e nei casi con tumore primitivo in sede [26,31,32]. al contrario, pazopanib può essere favorito per il suo profilo di tossicità: lo studio comparz ha recentemente rilevato, a fronte di un’efficacia comparabile tra i due farmaci, una minore incidenza di effetti collaterali quali astenia, sindrome mani-piedi e trombocitopenia nei pazienti trattati con pazopanib rispetto a sunitinib, e una conseguente migliore qualità di vita nel primo gruppo [33]. recentemente, tali evidenze hanno trovato conferma nello studio pisces, che ha documentato un maggiore apprezzamento dei pazienti per pazopanib rispetto a sunitinib, seppur con tempistiche non omogenee nella registrazione delle valutazioni [34]. in casi selezionati, vi è l’indicazione a impiegare in prima linea sorafenib o preferire una fase di osservazione procrastinando il trattamento. un’ulteriore opzione, ad oggi quasi totalmente abbandonata in europa, è l’utilizzo di interleuchina 2 (il-2) ad alte dosi. la somministrazione di citochine a dosi standard ha dimostrato tassi di risposta del 12% circa con tossicità anche gravi [9]; tuttavia, alcuni studi hanno documentato una seppur bassa percentuale di risposte complete e durature con il-2 ad alte dosi, al costo di tossicità spesso invalidanti e mal valutabili come fatigue, astenia e malessere generale [35,36]. nel caso di pazienti con profilo di rischio elevato o istologia non a cellule chiare è possibile procedere in prima linea con terapia a base di temsirolimus o sunitinib; tuttavia, vi sono scarse evidenze sperimentali nei pazienti con istologie rare. in particolare, un unico studio prospettico ha dimostrato un vantaggio in sopravvivenza con temsirolimus, soprattutto in pazienti con elevati valori di ldh pre-trattamento, con multipli siti metastatici e nei casi non nefrectomizzati [23,37]. l’efficacia di sunitinib è emersa esclusivamente negli studi di accesso allargato, in quanto lo studio registrativo del farmaco escludeva dalla sperimentazione le neoplasie non a cellule chiare; tra i benefici si annovera il miglioramento nella qualità di vita dei pazienti sintomatici [38]. una volta accertata clinicamente o strumentalmente la progressione dopo il trattamento di prima linea, l’impostazione della terapia successiva dipende strettamente dal tipo di farmaci impiegati, come schematizzato in figura 2. figura 2. algoritmo proposto dagli autori per il trattamento di seconda linea del carcinoma renale metastatico. i trattamenti successivi alla prima linea (figura 1) devono essere determinati in base alle terapie somministrate in precedenza infα = interferone alfa in pazienti pretrattati con sunitinib, vi sono evidenze circa l’utilizzo di axitinib, sorafenib ed everolimus. la scelta dipende essenzialmente dal grado di tolleranza alla terapia registrato in prima linea e dalle comorbidità del paziente. nel caso di pazienti trattati con pazopanib, è razionale l’utilizzo in seconda linea di sunitinib, sorafenib o everolimus. tali farmaci sembrano apportare un beneficio in sopravvivenza anche quando impiegati come terza linea di trattamento. viceversa, pazienti sottoposti a trattamento con sorafenib o temsirolimus possono beneficiare in seconda linea di sunitinib e, nel primo caso, anche di everolimus. conclusioni in definitiva, è indispensabile che il clinico operi una valutazione individualizzata del paziente per scegliere, in base anche al profilo di tossicità, il farmaco più idoneo: le linee guida e gli algoritmi di trattamento vanno intesi in questo senso come indirizzo orientativo, da considerare nell’ottica di una medicina che sia “su misura” non solo rispetto al bersaglio molecolare, ma anche per quanto riguarda le caratteristiche individuali del paziente. bibliografia 1. motzer rj, russo p. systemic therapy for renal cell carcinoma. j urol 2000; 163: 408-17; 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da clostridium difficile: risultati preliminari francesco cortese 1,2, marcello meledandri 3, milva ballardini 3, anna ferrari 2,4 1 u.o.c. di chirurgia d’urgenza (dir f.f. ugo alonzo), a.c.o. san filippo neri, roma 2 team infettivologico aziendale, a.c.o. san filippo neri, roma 3 u.o.c. di microbiologia e virologia clinica (dir. m. meledandri), a.c.o. san filippo neri, roma 4 u.o.s.d. terapia intensiva post-operatoria (dir. carlo monaco), a.c.o. san filippo neri, roma abstract the incidence of clostridium difficile infections (cdi) and clostridium difficile-associated diarrhea (cdad) is increasing in canada, usa, and europe and represents a considerable clinical problem. both naïve and hypervirulent strains can be considered as opportunistic bacteria affecting immunocompromised, antibiotic-treated, critical, or subcritical patients with a microbiota disruption. cdi arising is strictly related to antibiotic, single or combined, and/or proton pump inhibitor treatment. cdi can cause a syndrome with systemic involvement and complex treatment, sometimes requiring surgical interventions (e.g. colectomy in fulminant colitis). antibiotic treatment with metronidazole by mouth is the first choice and generally vancomycin is administered in case of lack of effectiveness. fidaxomicin is a new macrocyclic antibiotic for c. difficile with microflora-sparing properties. this paper reports our initial experience in 11 patients with non-responder or relapsing cdis. fidaxomicin was effective in 10 cases (91%). only one patient with an active ulcerative colitis did not respond and was treated with fecal-microbiota transplantation. in two patients diarrhea persisted, but just the ulcerative colitis one was c. difficile-related. no adverse events were experienced. keywords: clostridium difficile; fidaxomicin; microbiota; diarrhea; nosocomial infections fidaxomicin in the treatment of colitis due to clostridium difficile: preliminary results cmi 2014; 8(suppl 1): 5-12 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i1s.956 case series corresponding author francesco cortese u.o.c. di chirurgia d’urgenza a.c.o. san filippo neri via g. martinotti 20 00135 roma tel +39 06 33062218-2270-2593 fax +39 06 33062487 f.cortese@sanfilipponeri.roma.it disclosure il presente supplemento è stato realizzato con il supporto di astellas pharma s.p.a.. introduzione clostridium difficile è un bacillo gram-positivo, anaerobio e sporigeno. la sua azione patogena si esplica nel 99% dei casi nella colite [1], che configura la clostridium difficile infection (cdi) [2-4]. questa condizione rappresenta una vera e propria sindrome in costante e importante incremento in tutto il mondo occidentale [5-9]. le cdi sono: nella stragrande maggioranza dei casi infezioni nosocomiali di pazienti complessi nei quali aumentano morbilità e mortalità [10-15]; causa di sindromi differenti con coefficienti di gravità diversi [16-20]; sostenute, anche nello stesso ambito ospedaliero, da ceppi batterici differenti anche con diversa virulenza [21-25]; complicanze di percorsi clinici intensivi, chirurgici, internistici spesso combinati tra loro [26-32]; caratterizzate dalla necessità di intraprendere misure ospedaliere logistiche articolate come l’isolamento dei pazienti [33,34]; causa di incremento dei costi di ricovero [35,36]. la cdi non è quasi mai un’infezione de novo, ma colpisce soggetti con patologie attive o nel decorso di procedure diagnostico-operative spesso articolate. sono stati individuati numerosi fattori di rischio quali età [37,38], impegno clinico [2,4,10,38,39], durata del ricovero [40,41], assetto nutrizionale e soprattutto terapia antibiotica [42-46], impiego degli inibitori di pompa protonica [47-50] (proton pump inhibitors – ppi), ricovero in strutture sanitarie riabilitative o per lungodegenti [51]. la storia naturale dell’infezione intestinale da c. difficile è ben conosciuta [52-54]. c. difficile sotto forma di spore è saprofita umano, diventa virulento in condizioni particolari (riduzione delle difese immunitarie, patologie attive, traumi) con la trasformazione delle spore in forme batteriche attive che producono tossine capaci di determinare il quadro clinico, determinato da: status immunitario del paziente [55,56]; microbiota intestinale del paziente [2,4,14,57]. i pazienti portatori anche di forma attiva del c. difficile con assetto immunitario competente e normale microbiota intestinale non sviluppano la malattia, ma rimangono nello stato di colonizzati [31,38,39]. malgrado la conoscenza di tale percorso fisiopatologico, le cdi rappresentano oggi un’infezione emergente sia per frequenza sia per gravità insieme a enterobacteriaceae, staphylococcus aureus, klebsiella pneumoniae, acinetobacter baumannii, pseudomonas aeruginosa ed enterococcus faecium. peterson [58] suggerisce quindi di modificare il celebre acronimo eskape, creato da boucher e collaboratori nel 2009 [59], in escape. il trattamento della cdi è complesso e strettamente correlato al quadro clinico. l’infezione “semplice” nel paziente immunocompetente si avvale di una terapia “semplice” con metronidazolo. le cdi sono però caratterizzate da quadri clinici articolati e differenti [54,60] in rapporto a fattori quali la primitività o meno dell’infezione, le condizioni fisiche e cliniche del paziente, il tipo di ceppo batterico. ogni paziente quindi presenta una propria sindrome [60-69] per la quale esiste un trattamento che può consistere in: modifica e/o reiterazione delle terapie mediche antibatteriche [60-69]; immunoglobuline; trapianto di feci [70,71]; opzioni chirurgiche [67,68]. ultima nata, inserita nella farmacopea italiana nel novembre 2013, fidaxomicina [61,72-78] rappresenta la molecola antibatterica oggi più avanzata e moderna. la sua farmacodinamica è caratterizzata da un’azione diretta e mirata sul c. difficile con un ridotto impianto sul resto del microbiota intestinale, che pertanto ne risulta risparmiato e protetto. questa azione rappresenta un grande vantaggio rispetto a metronidazolo e a vancomicina [61], che invece presentano una farmacodinamica più aggressiva nei confronti del microbiota intestinale, importantissimo sistema del nostro organismo, vero momento biologico fondamentale per una corretta omeostasi nell’uomo in generale e nel paziente in particolare. metodologia e risultati nel periodo gennaio/settembre 2014 presso l’azienda complesso ospedaliero san filippo neri (presidio ospedale san filippo neri per acuti, presidio riabilitativo salus infirmorum) abbiamo trattato con fidaxomicina secondo lo schema classico 200 mg bis/die per os per 10 giorni 11 pazienti (6 m/5 f) (tabella i), pari al 9,73% di tutti (n = 113) quelli trattati per un’infezione da c. difficile. id pz sesso età (anni) reparto comorbilità persistenza/ripresa stop diarrea (giorni) guarigione 1 m 67 u morbo di parkinson p 3 sì 2* m 71 cr bpco, malnutrizione, pmk, dmnid p 5 sì/exitus 3 m 63 rnm amputazione della coscia r 5 sì 4* f 83 cu infezione intestinale, dmid, cardiopatia p no sì/exitus 5 m 71 g miocardiopatia p 3 sì 6 f 65 mi polivasculopatia, cardiopatia p 5 sì 7 m 88 mi polivasculopatia, cardiopatia r 6 sì 8* m 29 g rcu p 4 no 9 f 74 mu fac, pmk r 4 sì 10 f 92 rnm anemia, chirurgia ortopedica p 6 sì 11* f 86 rnm cardiopatia, fac, chirurgia ortopedica p 10 sì tabella i. caratteristiche dei pazienti trattati con fidaxomicina per infezione da c. difficile bpco = broncopneumopatia cronica ostruttiva; cr = centro di rianimazione; cu = chirurgia d’urgenza; dmid = diabete mellito insulino-dipendente; dmnid = diabete mellito non insulino-dipendente; fac = fibrillazione atriale cronica; g = gastroenterologia; mi = medicina interna; mu = medicina d’urgenza; p = persistenza; pmk = pacemaker; r = ripresa; rcu = rettocolite ulcerosa; rnm = riabilitazione neuromotoria; u = urologia *per questi pazienti l’infezione è stata considerata più grave e quindi il dosaggio di vancomicina somministrato, anziché di 125 mg per 4 volte al giorno, è stato di 250 mg per 4 volte al giorno l’età media è risultata di 79,3 anni, 64,8 per gli uomini, 80 anni per le donne. il paziente tracheostomizzato (paziente 2) ha assunto la terapia previa chiusura della cannula. la classificazione delle infezioni nel nostro ospedale è stata attuata secondo il seguente schema: primitiva: infezione de novo da c. difficile con diarrea (bristol stool grade 7-5); persistenza: nessuna soluzione di continuità sintomatologica, né clinica, né microbiologica; ripresa o riattivazione: ripresa della sintomatologia e della positività dopo soluzione di continuità nelle otto settimane seguenti alla diagnosi primitiva; recidiva: ripresa della sintomatologia e della positività microbiologica dopo otto settimane dalla guarigione. la nostra indicazione al trattamento con fidaxomicina è stata persistenza della malattia in 8 pazienti (72,7%) e ripresa in 3 (27,3%). non abbiamo trattato pazienti con recidiva perché non giunti alla nostra osservazione. le infezioni da clostridium difficile sono state trattate con i seguenti antibiotici in successione: metronidazolo 500 mg per os ter/die per 10 giorni per le infezioni primitive; vancomicina per altri 10 giorni, dal momento che in nessuno di questi pazienti il trattamento con metronidazolo è stato efficace per persistenza o ripresa di malattia; vancomicina è stata somministrata al dosaggio di 125 mg per os/quater/die nelle infezioni lievi e 250 mg per os/quater/die nelle forme cliniche più gravi (nei 4 pazienti contrassegnati dall’asterisco nella tabella i); fidaxomicina 200 mg bis/die per ulteriori 10 giorni, poiché in nessuno di questi pazienti vancomicina ha avuto successo (a causa sempre di persistenza o ripresa di malattia). i reparti di provenienza sono stati nella maggior parte dei casi la riabilitazione neuromotoria, la medicina interna e la gastroenterologia (tabella i). sei pazienti (54,5%) erano stati sottoposti a interventi chirurgici (1 paziente è stata sottoposta a 2 interventi addominali, 2 pazienti hanno subìto l’amputazione della coscia, 1 paziente la resezione endoscopica vescicale e 2 pazienti l’impianto della protesi d’anca) nei trenta giorni precedenti l’insorgenza della cdi. solo in tre pazienti è stato ricercato il ribotipo ipervirulento 027, con risultato negativo. tutti i pazienti nei 45 giorni precedenti l’insorgenza de novo della cdi erano stati in trattamento antinfettivo, antibatterico e/o antifungino; in particolare erano stati utilizzati: amoxicillina clavulanato (6 pazienti), tigeciclina (1 paziente), fluconazolo (5 pazienti), chinolonici (6 pazienti), piperacillina-tazobactam (6 pazienti), aminoglicoside (2 pazienti). tutti i pazienti erano in trattamento continuato da > 35 giorni con inibitori di pompa protonica. la guarigione dall’infezione è avvenuta in 10 pazienti, cioè nel 91% dei soggetti in esame. la diarrea è stata controllata in 9 casi su 11 (81,8%) in 5,1 giorni (range = 3-10 giorni). dei due pazienti con diarrea persistente al termine del ciclo standard di terapia (10 giorni) una è risultata comunque negativa per c. difficile. l’altro, affetto da rettocolite ulcerosa in fase attiva in trattamento steroideo e successivamente con infliximab, ha sviluppato l’infezione dopo 4 giorni dalla fine di tale terapia. trattato con doppio ciclo di terapia a dosaggio pieno (10 gg + 10 gg) non ha risposto ed è stato pertanto avviato a un centro specializzato in trapianto di feci, dove è stato trattato con successo e riavviato al trattamento biologico. questo paziente è stato anche valutato, visto il trattamento biologico, per hiv, hcv, hbv e tubercolosi con risultati negativi. è risultata anche negativa la ricerca del ribotipo 027. si sono verificati due decessi (18,2%). la paziente 4 è deceduta per sindrome da insufficienza multiorgano a 25 giorni dalla risoluzione dell’infezione, mentre il paziente 2, affetto da broncopneumopatia cronica ostruttiva, diabete mellito non insulino-dipendente, gravemente malnutrito, tracheostomizzato e con insufficienza cardiaca cronica è andato incontro a exitus a sei giorni dalla risoluzione della diarrea. nessuno dei due pazienti è deceduto per cause correlabili alla cdi o all’impiego del farmaco. discussione la colite da c. difficile nei vari quadri clinici [79-82] costituisce, insieme alla colecistite acuta e all’ischemia intestinale acuta, una vera catastrofe addominale [5,7,83] nel paziente critico. la sua insorgenza in qualsiasi forma o gravità è in ogni caso un problema clinico cui prestare la massima attenzione per la potenziale evoluzione. costituisce un danno per il paziente, spesso critico prima dell’insorgenza della cdi, nel quale incrementa morbilità e mortalità. rappresenta un problema clinico per la struttura di ricovero, che deve occuparsi della gestione di spazi e dell’ubicazione di un paziente complesso. infine è di fatto anche un problema economico per l’incremento dei costi e per il protrarsi del periodo di ricovero. la letteratura è univoca nel considerare le cdi sequele del trattamento antibiotico [2,4,10,38,39,42-46,52-54] e antisecretivo gastrico [47-50,52-54], singoli o associati, e dello status nutrizionale-immunologico del paziente [55,56]. per quanto concerne l’antibioticoterapia, il problema mondiale delle resistenze agli antibiotici ha spinto l’organizzazione mondiale della sanità e la stessa casa bianca a pubblicare due documenti [84,85] di avvertimento e quantificazione del problema. tale problema si evidenzia in due dati: il 50% delle terapie antibiotiche non ha indicazione clinica [86] e circa il 40% delle stesse terapie nelle aree critiche è inadeguato [87]. queste percentuali originano dalle prescrizioni di terapie con più di un antibiotico, con molecole “non routinarie”, per periodi prolungati e quasi sempre associate agli inibitori di pompa protonica. la metanalisi di kwok e collaboratori [47] quantifica un odds ratio di 1,98 per cdi nel paziente trattato con soli ppi a fronte di un odds ratio di 3,87 in caso di associazione di ppi e antibiotici. le cdi sono infezioni nosocomiali a evoluzione non univoca. possono rispondere subito alla terapia specifica oppure possono persistere, riprendere o recidivare. possono passare da forme lievi a forme moderate fino ai quadri più gravi, dove può persino essere necessario ricorrere a un intervento chirurgico demolitivo come la colectomia totale. in questa patologia c’è un’assoluta necessità di trattare i pazienti in tempi rapidi e nella maniera adeguata per evitare la progressione clinica: si consideri la pericolosità della sindrome diarroica da c. difficile nei pazienti in aree intensive con device esterni quali drenaggi, stabilizzatori ossei esterni, cateteri endovascolari, ecc. sono quindi importanti, oltre alle terapie mediche, quelle igieniche (diversore fecale, informazione del paziente e dei familiari, attuazione delle procedure medico-infermieristiche previste dalle linee guida) finalizzate alla delimitazione dell’area di contagio da disseminazione delle spore presenti nelle feci, il veicolo dell’infezione. in quest’ottica l’introduzione nella pratica clinica di fidaxomicina rappresenta un’interessante novità per il trattamento nei casi di mancata risposta alla terapia iniziale con metronidazolo e/o vancomicina. nella nostra esperienza, pur limitata e preliminare, fidaxomicina ha risolto il problema di cdi che non hanno risposto alla terapia con metronidazolo e vancomicina nel 91% dei casi. l’unico caso di non risoluzione si è verificato in un paziente caratterizzato da una rettocolite ulcerosa in fase attiva trattato con metronidazolo e vancomicina subito dopo infliximab. rappresenta quindi un “modello biologico” del tutto particolare con un microbiota coinvolto in una patologia cronica completamente sovvertito e sofferente per una sovrapposizione di patologia acuta. fidaxomicina costituisce un’importante opzione terapeutica anche alla luce della sua farmacodinamica molto meno impattante sul microbiota rispetto alle molecole standard. è stata ben accettata dai pazienti, in rapporto al dosaggio e alla somministrazione, in modo decisamente migliore rispetto a metronidazolo e vancomicina. non abbiamo avuto in nessun caso nausea o eruttazioni. sarà necessario valutarne la possibilità e l’impatto via sondino nasogastrico per quei pazienti in aree intensive o comunque non in grado di deglutire. fidaxomicina rappresenta oggi un’opzione terapeutica di assoluta importanza anche in termini economici. a fronte di un costo in assoluto non ridotto permette comunque un grande risparmio perché è in grado di risolvere quelle cdi che altrimenti porrebbero indicazioni terapeutiche molto più complesse, traumatizzanti e costose sia in termini economici sia sociali, come il trapianto di feci o una chirurgia aggressiva con esiti anatomici e funzionali talvolta definitivi e di difficilissima gestione. punti chiave l’infezione da clostridium difficile (cdi) causa principalmente colite ed è in aumento nei paesi occidentali nella maggior parte dei casi la cdi si acquisisce in ospedale e colpisce pazienti critici, aumentandone morbilità e mortalità l’uso di antibiotici e di inibitori di pompa protonica costituisce un fattore di rischio per l’insorgenza della cdi la cdi si cura con: antibiotici; immunoglobuline; trapianto di feci; opzioni chirurgiche l’antibiotico di più recente introduzione sul mercato è fidaxomicina, che agisce su c. difficile preservando il microbiota intestinale in misura maggiore rispetto a metronidazolo e vancomicina fidaxomicina in questo caso si è rivelata utile in pazienti che non avevano risposto al trattamento iniziale con metronidazolo e vancomicina bibliografia 1. mattila e, akkila p, mattila ps, et al. extraintestinal clostridium difficile infections. clin infect dis 2013; 57: e148-e153 2. johnson s. recurrent clostridium difficile infection: a review of risk factors, treatments, and outcomes. j infect 2009; 58: 403-10; 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maria lucia tardio 2 1 department of medical and surgical sciences, “alma mater studiorum” university of bologna, s. orsola-malpighi hospital, bologna, italy 2 department of specialistic, experimental, and diagnostic medicine, “alma mater studiorum” university of bologna, s. orsola-malpighi hospital, bologna, italy abstract we aim to describe a patient with an already advanced hiv infection disclosed for the first time during a complex diagnostic workup, which detected a gross abdominal mass attributable to a poorly differentiated mesenchymal cancer with sarcomatoid features which rapidly led our patient to death, in absence of other potential hiv-associated opportunistic diseases. although extremely rare and rapidly lethal, our case report underscores the need of all caregivers who follow hiv-infected patients also in the cart era to maintain an elevated attention toward infrequent, unexpected, and clinically atypical solid tumors, in order to ensure a timely diagnosis and management when possible. keywords: rare solid tumors; sarcomatoid features; newly diagnosed hiv infection; case report; differential diagnosis tumore addominale con caratteristiche sarcomatoidi come esordio di malattia in un paziente con nuova diagnosi di infezione da hiv e nessun disturbo correlato all’aids. caso clinico, caratteristiche cliniche e diagnostiche e discussione della letteratura cmi 2014; 8(4): 115-120 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i4.961 case report corresponding author prof. roberto manfredi, md infectious diseases, “alma mater studiorum” university of bologna c/o s. orsola-malpighi hospital via massarenti 11 i-40138 bologna, italy telephone: +39-051-6363355 telefax: +39-051-343500 roberto.manfredi@unibo.it disclosure the authors declare they have no competing financial interests why we describe this case this case underlines the importance of a careful monitoring of hiv patients, because, even in the cart era, they may present with rare and rapidly lethal solid tumors introduction even at the time of extensive availability of fully effective combination antiretroviral therapies (cart), missed or delayed diagnosis of hiv infection or full-blown aids remains proportionally frequent, as well as hiv disease presentations with multiple, concurrent opportunistic diseases [1-5], including both aids-defining and non-aids-defining disorders, which often make more and more difficult a prompt recognition and management by complicating the differential diagnostic workup. in particular, due to the dysregulation of cancer controlling immune-mediated mechanisms persisting in hiv-infected subjects also despite a completely controlled hiv replication achieved by cart, both aids-related and aids-unrelated neoplasms remain frequent during recent years, as also noticed in the recent experience of our reference centre [1,6], in both adults and children. despite the virological and immunological effectiveness of cart, malignancies on the whole continue to involve patients living with hiv due to their increased life expectancy, the continued exposure to many factors supporting cancer development, including environmental and life style co-factors, as well as several co-infections often accompanying hiv infection itself (i.e. hbv, hcv, hpv, hsv, hhv-8, and ebv infections, among others), and a persisting immune system functional imbalance favoring the onset of tumors, in comparison with an epidemiologically matched sample of general population, which is not harboring hiv infection [2-5,7]. in particular, malignancies which are frequent in the general population often present with a clinical pathomorphism in our patient population, as in a case of atypical prostate cancer [8], and in some anecdotal presentations of merkel cell carcinoma [9], and bladder and gastric cancer, respectively [10,11]. very frequent associations with opportunistic and non-opportunistic disorders complicate even considerably the differential diagnostic pathway in multiple described case reports [1,2,6,7,12], in particular two cases of nasopharyngeal and rhinopharyngeal carcinoma [12]. aim of our report is to describe a patient with an already advanced hiv infection disclosed for the first time during a complex diagnostic workup, which finally pointed out a gross abdominal mass attributable to a poorly differentiated neoplasia with sarcomatoid features which rapidly led our patient to death, in absence of other potential hiv-associated opportunistic infections and diseases. case report a 36-year-old homosexual man with a medical history including only surgery for a pilonidal cyst 6 year before, and serological anti-hbv markers demonstrating a prior hepatitis b infection, during the last 6 months suffered from increasing anorexia and weight loss, followed by an irregular, mild fever not responsive to empiric broad-spectrum antibiotic treatments. when hospitalized in a general hospital of our metropolitan area, the early instrumental examinations disclosed a parenchymal thickening of the lower left pulmonary lobe associated with a bilateral pleural effusion. other imaging studies showed an enlarged spleen volume, diffuse lymphadenopathies along the main abdominal vessels, and a moderate peritoneal effusion, while no relevant abnormalities were detected with regard to liver and biliary tract. posed on an empirical therapy with piperacillin-tazobactam, the patient was referred to our inpatient centre. upon admission, the laboratory examinations showed a marked leukopenia (total white blood cells =  1,570/µl), anemia (due to an hemoglobin level = 8.9 g/dl), low serum iron levels (26 µg/dl) with elevated serum ferritin (1,456 ng/ml), and especially a very advanced t-cell immunodeficiency, as sustained by a total cd4+ count of only 19 cells/µl (3% of overall t cell subset). all other blood laboratory examinations and urinalysis tested within normal limits, save an increased c-reactive protein (pcr) value (4.07 mg/dl). microbiological studies pointed out an elevated hiv viremia (112,181 hiv-rna copies/ml of a wild-type hiv-1 virus), in absence of other active infections, which were carefully ruled out. in particular, repeated blood cultures for bacteria, fungi, and mycobacteria tested negative, as well as serum parvovirus b19, cytomegalovirus, and epstein-barr virus dna search (only isolated anti-ebv igg antibodies were present). leishmania and toxoplasma gondii serologies proved negative, as well as clostridium difficile and cryptosporidium search in the stools, stool cultures for other bacterial pathogens, urine antigens of streptococcus pneumoniae and legionella spp., and serum cryptococcal antigenemia and culture. with regard to major hepatitis viruses, hcv serology proved negative, while positive anti-hbs and anti-hbc antibodies represented the expected remnant of the previous documented hbv infection, in absence of dosable hbsag serum levels. ultrasonographic examination of the neck disclosed multiple, further lymphadenopathies of reactive origin. during our hospitalization, the empiric antibiotic therapy was initially simplified with ceftriaxone plus clarithromycin, and the day after admission a potent antiretroviral combination therapy was immediately introduced (emtricitabine-tenofovir, plus darunavir 1200 mg/day plus ritonavir 200 mg/day), which proved well tolerated by our patient. after a 9-day hospitalization characterized by substantially stable general conditions and isolated mild fever and diarrhea (probably attributable to the recently discovered hiv infection and the severe underlying immunodeficiency), our patient was discharged, with treatment implemented with a chemoprophylaxis against pneumocystis jiroveci and toxoplasma gondii (performed with atovaquone), fungi (with fluconazole), and atypical mycobacteria (with clarithromycin, maintained after the previous, empiric administration for the presumed respiratory infection). because of the re-appearance of irregular fever and an increased, bilateral pleural effusion, our patient was hospitalized again after a couple of weeks. an ultrasonography-guided thoracentesis of around 1000 ml of fluid neither allowed a diagnosis (all microbiological, mycobacterial, and neoplastic cell searches tested negative), nor a stabilization of the massive effusion, and was associated with increasing dyspnea, respiratory insufficiency, chest pain, diffuse peripheral edema, persisting anemia (requiring red blood cell transfusion), a worsening cachexia, and a rapid deterioration of general clinical conditions. as a consequence, our patient was moved to the pulmonary division, in order to try a surgical approach to the prominent pleural effusion. a left trans-thoracic parietal pleural biopsy (with positioning a of trans-thoracic drainage), allowed to detect a first-degree empyema, in absence of isolated microorganisms at microscopy, culture, and molecular testing. due to the concurrent, elevated fever, and increased serum esr (erythrocyte sedimentation rate) and serum c-reactive protein levels, an empiric antibiotic therapy with piperacillin-tazobactam was introduced, associated to an empiric treatment against atypical mycobacteria, all showing no significant effects against irregular fever and the rapidly deteriorating general status. quantiferon test proved negative. subsequently, an elevated plasma hhv-8 viremia (64,000 viral copies/ml), required a treatment with full-dose intravenous acyclovir. a bone marrow and a liver biopsy were also performed, which allowed to exclude hematological malignancies and eventual, other opportunistic infections and disease localizations. a positron-emission tomography (pet) showed multiple hypercaptation sites at both lungs and pleura, a right axillary adenopathy, and a diffuse but non-specific abdominal hypercaptation. figure 1. microscopic examination of the abdominal mass: histology highlights a poorly differentiated neoplasia with sarcomatoid features. further characterization of the neoplasm was not technically feasible a further worsening of respiratory and general conditions occurred in the next few days, with appearance of obnubilation, letargy, blurred vision, hypotension, abdominal distension, tendency to intestinal sub-occlusion, and a persisting, diffuse edema. all these complications rapidly led to death despite an intensive supportive care performed in an intensive care unit of our hospital, the adjunct of meropenem and linezolid (among antimicrobial agents), and the prosecution of antiretroviral therapy and that of the empiric anti-mycobacterial treament. the necropsy assessment showed the following macroscopic findings: a moderate edema at lower limbs, an abundant pleural effusion, a mild pericardic effusion, and a diffuse abdominal effusion (characterized by a clear, yellowish fluid). the respiratory tract showed an hyperemic and edematous laryngeal-tracheal-bronchial mucosa. both lungs had a diffuse, increased consistency, a red-greysh color, and contained a frankly increased amount of foamy fluid. when examining the abdominal tract, the attention was immediately drawn on a voluminous grey-yellowish mass of myxoid appearance, which incorporated the intestinal loops and the entire colonic tract, with an extensive and infiltrating behavior. the liver showed a significantly increased size. the remaining major abdominal organs (including pancreas, kidneys, adrenal glands, and spleen) did not show relevant abnormalities, as well as all the main deep lymph node stations. at microscopic examination, the abdominal mass was constituted by a poorly differentiated neoplasia with sarcomatoid features (figure 1). a further typization with all the available histopathological technique was not feasible at our centre, thus confirming the extremely non-differentiated features of this neoplasm. the concurrent, massive, irregular lobular necrosis of the liver was referrable to a terminal, vascular compression due to the above-mentioned intrabdominal mass, which rapidly enlarged during the last days of life of our patient. discussion when approaching the differential diagnosis of rapidly growing abdominal masses in hiv-infected patients, tuberculosis and atypical mycobacteriosis in their broad spectrum of possible presentations remain the most frequent etiologies, starting from the pre-cart era until now [2,13]. but this diagnosis is neither obvious nor rapid; in our recent experience, an expansive abdominal mass leading to intestinal obstruction required a very cumbersome and prolonged workup in order to exclude all possible infectious and neoplastic ethiologies, and was finally diagnosed and specifically treated with a 5-month delay after its clinical appearance, since only a positive culture for mycobacterium avium-intracellulare became positive from a biopsy specimen, when all other clinical, microbiological, molecular biology, imaging, and histopathologic studies did not allow a disease identification in the meantime. to add complication, a deep hiv-related immunodeficiency may led to the first recognition of opportunistic infestations, including that due to a newly recognized cestode, which was initially responsible for a rapidly enlarging abdominal mass in a 1996 report [14]. on the other hand, the cart-related immune reconstitution syndrome has been also described as the supporting cause of a pseudo-tumoral abdominal mesenteric granulomatous mass, caused by an underlying mycobacterial infection plus inflammation and edema [15]. when focusing our attention on malignancies, aids-related ones remain frequent occurrences also in the cart era, with kaposi’s sarcoma as the leading cancer with mesenchymal origin [3-5,16-18]. however, among hiv-infected children, kaposi’s sarcoma and non-hodgkin’s lymphoma declined in their frequency during the cart era in a more significant way, compared with the same aids-associated malignancies observed in adults. in a recent review of case reports of sarcomas other than kaposi’s sarcoma in the immunocompromised host (as a whole), bhatia and coworkers identified 176 non-kaposi’s sarcomas, 75 of them occurring in people with aids [18]. leiomyosarcomas were the most frequently reported sarcomas according to histopathological assessments (101 cases), followed by angiosarcomas (23 episodes), and fibrohystiocytic tumors (17 cases). as already observed since the pre-cart era [19], and during the cart era too [3,5,17-20], smooth cell muscle neoplasms like leiomyosarcomas linked with immunodeficiency and a concurrent epstein-barr (ebv) infection, and often interested unusual body sites [19-21]; leiomyomas were also reported with increased frequency among hiv-infected patients, once again in conjunction with ebv infection [20]. only one case of liposarcoma of the mediastinum has been reported in the international literature: in the year 1988 a 27-year-old man with a newly diagnosed hiv infection, who still had preserved peripheral t-cell subsets (with an absolute cd4+ count of 660 cells/µl) [22]. histopathologic studies performed on the unresectable chest mass demonstrated a well differentiated liposarcoma of the de-differentiated subtype [22]. the authors underlined the unusual localization and the young age at presentation of this liposarcoma, which were deemed to be supported by the concurrent hiv disease [22]. finally, only sparse cases of undifferentiated sarcomas have been anecdotally reported concurrently with hiv infection, as the patient described by kotrashetti and coworkers in 2012 [23], who suffered from an intraosseous maxillary fibrosarcoma. at our knowledge, such a poorly differentiated, gross and rapidly progressive sarcomatoid abdominal mass has not been reported in patients with hiv and aids, especially in patients who were still unaware of their underlying retroviral infection. although extremely rare and clinically untreatable, our case report underlines the need of health care personnel who follow hiv-infected patients also in the cart era, to maintain an elevated attention level toward infrequent, unexpected, and clinically atypical solid tumors, in order to ensure a timely diagnosis, and make possible a more detailed workup, and management when possible. key points nowadays, despite a completely controlled hiv replication achieved by cart, both aids-related and aids-unrelated neoplasms remain frequently diagnosed particular attention should be deserved to patients with a low cd4+ lymphocyte nadir, or a persistently impaired immune recovery, even during the cart era malignancies with high frequency in the general population often present with a clinical pathomorphism in hiv-infected patients starting from the pre-cart era until now, tuberculosis and atypical mycobacteriosis remain the most frequent etiologies when dealing with the differential diagnosis of rapidly growing abdominal masses in hiv-infected patients, but several other etiologies have been reported in the literature in this patient population it is mandatory to maintain an elevated attention level toward infrequent, unexpected, and clinically atypical solid tumors, in order to ensure a timely diagnosis, and make possible a more detailed workup, and management when feasible references 1. manfredi r, calza l, chiodo f. three to seven concurrent aids-defining disorders at first hospitalization of aids presenters as an unexpected emerging feature during the era of highly active antiretroviral therapy. aids 2002; 16: 2356-8; http://dx.doi.org/10.1097/00002030-200211220-00025 2. eacs, european aids clinical society. guidelines version 7.1 november 2014. available at http://www.eacsociety.org/portals/0/guidelines/english%20pdf%20-%20version%207.1.pdf (last accessed december 2014) 3. pantanowitz l, schlecht hp, dezube bj. the growing problem of non-aids-defining malignancies in hiv. curr opin oncol 2006; 18: 469-78; http://dx.doi.org/10.1097/01.cco.0000239886.13537.ed 4. 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catanzaro, italy abstract adefovir dipivoxil is a nucleotide analog reverse transcriptase inhibitor used to treat adult patients affected by hbeag-positive and hbeag-negative chronic hepatitis b and with clinical evidence of lamivudine-resistant hepatitis b virus (hbv). adefovir administered at a dosage of 10 mg/day is generally well tolerated, even if renal toxicity, type fanconi syndrome, was reported during long-term treatments. we report a case of osteomalacia with fanconi syndrome and pathologic fracture of the femur related to long-time (67 months) adefovir treatment (10 mg/day) in a patient with compensated hepatitis b virus (hbv) cirrhosis (child 5a) and with a previous normal renal function (estimated glomerular filtration rate before adefovir = 78.26 ml/min/1.73 m2; during adefovir treatment = 57.38 ml/min/1.73 m2). the patient was switched to entecavir at a dose of 1 mg/day, with both suppression of viremia and improvement of osteomalacia and fanconi syndrome; the patient’s follow-up is still ongoing after 22 months. keywords: adefovir dipivoxil; osteomalacia; fanconi syndrome; hbv; cirrhosis sviluppo di osteomalacia e di sindrome di fanconi durante il trattamento con adefovir in un paziente affetto da cirrosi epatica hbv-correlata cmi 2014; 8(4): 109-114 http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v8i4.969 case report corresponding author luca gallelli department of health science, university of catanzaro, viale europa, 88100 catanzaro and operative unit of clinical pharmacology and pharmacovigilance, azienda ospedaliera materdomini, via t campanella 115, catanzaro, italy. tel +390961712322; gallelli@unicz.it disclosure the authors declare they have no competing financial interests concerning the topics of this article why we describe this case notwithstanding adefovir is considered safe at the dosage of 10 mg/day, renal function must be carefully evaluated in order to prevent systemic disease and bone fracture. this case report could be useful in order to perform an appropriate prescription in hbv patients treated with adefovir and a risk of kidney or bone disease (e.g. patients taking non steroidal antinflammatory drugs, aminoglycosides, corticosteroids or menopausal women) case report a 55-year-old man (height = 175 cm, weight = 68 kg, body mass index = 22.2 kg/m2) came to our observation in december 2012 due to the onset of bone pain, muscle cramps, and asthenia. past history revealed that about 24 years before (1988) a chronic hepatitis b (anti-hbe positive) infection was diagnosed and 15 years later (2003) liver biopsy and endoscopy documented the presence of cirrhosis (child 5a) with esophageal varices, respectively. on 2005, a treatment with pegylated interferon (180 µg/week subcutaneously) was started (hbv-dna = 10,000,000 iu/ml), but 18 months later (february 2007) for the persistence of high hbv-dna levels (hbv-dna = 352,000 iu/ml), pegylated-interferon was stopped and lamivudine (100 mg/day) was administered. during the follow-up, three months later (may 2007), the persistence of serum hbv-dna levels (1025 iu/ml) was recorded, therefore adefovir (10 mg/day) was added, thus attaining a virological suppression in about 2 months (hbv-dna < 200 iu/ml). on february 2008, during the follow-up, an increase in serum hbv-dna levels was detected (3770 iu/ml), lamivudine was stopped and entecavir (1 mg/day) was added with a complete suppression in three months (hbv-dna undetectable). the history of hbv infection and the related treatments are reported in table i, while figure 1 shows the correlation between hbv-dna levels and drug treatments. time test diagnosis or treatment 1988 microbiology hbv infection (anti-hbe positive) 2003 liver biopsy and endoscopy cirrhosis (child 5a) with esophageal varices f1 2005 hbv-dna = 10,000,000 iu/ml pegylated interferon (180 µg/week) february 2007 hbv-dna = 352,000 iu/ml lamivudine (100 mg/day) may 2007 hbv-dna = 1025 iu/ml lamivudine (100 mg/day) + adefovir dipivoxil (10 mg/day) july 2007 hbv-dna < 200 iu/ml lamivudine (100 mg/day) + adefovir dipivoxil (10 mg/day) february 2008 hbv-dna = 3770 iu/ml entecavir (1 mg/day) + adefovir dipivoxil (10 mg/day) may 2008 hbv-dna undetectable entecavir (1 mg/day) + adefovir dipivoxil (10 mg/day) table i. history of hbv infection and the related treatments figure 1. timetable of hbv-dna levels during drug treatments on december 2010, biochemical evaluations revealed hypophosphoremia and glycosuria, without hyperglycemia (table ii). on march 2011, the patient lamented muscular pain with walking difficulties and lower sensitivity in lower limbs and on february 2012, after an accidental fall occurred by sudden cramping pain of the left gastrocnemius, he reported a femoral neck fracture treated with arthroplasty. one week later, due to continuous muscular pain, he came to our observation as consultants. clinical examination revealed an intense foot pain (visual analog pain scale, vas = 8) with difficulty to extend the lower limbs and hyper-excitability of tendon reflexes. at the time of this observation, the patient used no other drugs, while pain was treated with local patch of fentanyl. somesthetic potential, electromyography, computer tomography and magnetic resonance image of spin and hip failed to show any muscular or skeletal disease. cervical, dorsal and lumbosacral spine x-ray showed extensive demineralization of the bones; dual-energy x-ray absorptiometry (dxa) at all sites confirmed a low bone max density (l1-l4 = 0.702 g/cm2, t-score = -4.2, z-score = -3.3; left total hip = 0.423 g/cm2, t-score = -4.2, z-score = -3.3). normal range december 2010 february 2012 december 2014 blood tests phosphorus 2.7-4.5 mg/dl 2.1 0.9 3.2 calcium 8.5-10.5 mg/dl 9.5 9.2 9.3 glucose 70-100 mg/dl 92 90 90 anion gap 8-16 meq/l 11 11 11 serum albumin 38-47 g/dl 41 42 42 ph 7.38-7.42 7.4 7.27 7.4 po2 80-100 mmhg 98 98 98 pco2 35-45 mmhg 40 20 40 creatinine clearance 85-130 ml/min 95 62 95 egfr > 90 ml/min/1.73 m2 78.26 57.38 87.08 serum creatinine 0.7-1.2 mg/dl 1 1.3 0.9 potassium 3.6-5 meq/l 4 3.32 4.2 phosphate 35-104 iu/l 98 202 99 alkaline phosphatase 115-359 iu/l 340 1594 280 25-hydroxy-vitamin d 20-100 ng/ml 55 12 72 1-25-dihydroxy-vitamin d 25-66 ng/ml 48 19 52 parathyroid hormone level 10-65 pg/ml 40 72 38 serum-free t4 0.7-1.5 ng/dl 1 0.95 0.96 tsh 0.1-4.5 µiu/ml 2.35 2.37 2.36 urinalysis proteins < 150 mg/24h 0 4520 110 phosphate 400-1300 mg/24h 795 1450 760 uric acid 250-750 mg/24h 520 512 511 calcium 93-248 mg/24h 120 375 115 glucose 0 g/l 1 8.4 0 potassium 30-120 meq/24h 50 132 55 table ii. laboratory findings egfr = estimated glomerular filtration rate, using the modification of diet in renal disease study group formula; pco2 = partial pressure of carbon dioxide; po2 = partial pressure of oxygen; tsh = thyroid-stimulating hormone arterial blood gas showed metabolic acidosis, while blood chemical evaluation revealed high levels of serum creatinine, phosphate, alkaline phosphatase and parathyroid hormone level, and low levels of creatinine clearance, phosphorus and potassium. moreover, using a reversed phase (c18) high-performance liquid chromatography system (hplc; uv detector 265 nm, limit of detection 1,5 ng/ml; intra-assay and inter-assay coefficients of variation for control = 8%), low levels of 25-hydroxy-vitamin d and of 1-25-dihydroxy-vitamin d were detected. anion gap, serum albumin, serum-free t4 and tsh were within the normal ranges, while urinalysis showed high levels of proteins, glucose, potassium, calcium, and phosphate (see table ii). the kidney biopsy showed diffuse and severe tubulointerstitial nephritis with dense lymphoplasmocyte infiltrates. the absence of nausea, diarrhea, abnormal stools, weight loss, and gas, after 1 week of diet with standard food, as well as immunoglobulin a anti-tissue transglutaminase antibody evaluation (for celiac disease) and hydrogen breath test (for lactose intolerance) excluded a malabsorption syndrome. a diagnosis of fanconi syndrome with hypophosphatemic osteomalacia was postulated and using the naranjo probability scale [1] we documented a possible association between adefovir and proximal tubulopathy (score = 7). adefovir was dismissed (hbv-dna < 200 iu/ml), bicarbonates (12 meq/day) and vitamin d (100,000 ui/day for 7 days and then 800 ui/day) were added with an improvement of muscular pain in two months (vas = 2); the inability to walk disappeared in about six months, with normalization of laboratory text. on october 2014, the patient was in entecavir monotherapy, microbiology assay documented a suppression of hbv-dna (< 200 iu/ml) and no side effects were recorded. a new follow-up performed on december 2014 revealed a significant improvement of both bone max density (dxa l1-l4 = 1.532 g/cm2, t-score = 1.6, z-score = 2.3; and left hip = 0.758 g/cm2, t-score = -2.3, z-score = -1.7) and biochemical assays (table ii). main questions a doctor should ask himself in this situation can the patient take this drug? are there other drugs that could impair renal (e.g. non steroidal antinflammatory drugs, aminoglycosides) or bone function (e.g. corticosteroids)? have i evaluated the development of muscular pain? have i evaluated the kidney function and the values of vitamin d? can i change adefovir with entecavir alone? discussion adefovir dipivoxil is a nucleotide analog reverse transcriptase inhibitor used to treat adult patients affected by hbeag-positive and hbeag-negative chronic hepatitis b and with clinical evidence of lamivudine-resistant hepatitis b virus (hbv) [2,3]. we report the development of tubules renal toxicity with osteomalacia and fanconi syndrome during adefovir treatment. renal toxicity during the treatment with adefovir at the dosage of 30-120 mg/day is uncommon; and some papers revealed that adefovir administered at common dosage of 10 mg/day is well tolerated and does not cause alterations in creatinine clearance compared to placebo [4,5]. however, a long-time treatment can result in an increase in serum creatinine in about 6-8% of patients [6,7], or in the development of renal toxicity [8-15]. kim and colleagues [16], evaluating retrospectively 687 chronic hepatitis b patients treated with adefovir alone (18.2%) or in combination with lamivudine (81.8%) for long-time periods (> 12 months) documented that about 10% developed renal toxicity after 27 months, which was mild in 77.8% of patients, moderate in 20.8%, and severe in one patient. in agreement, li et al. [17] reported a case of a patient that developed fanconi syndrome and hypophosphatemic osteomalacia associated with muscular weakness 4 years after the beginning of adefovir. in our case, renal disease became symptomatic 67 months after the beginning of adefovir, with the development of musculoskeletal pain and difficulty in walking. the nephrotoxicity of adefovir is characterized by a decrease in serum phosphate levels with a modest increase in serum creatinine, related to proximal renal tubules dysfunction, as documented through laboratory texts. respect to other papers [8-17] that reported the association between adefovir and renal-toxicity, in the present case, using hplc, we documented low plasma levels of vitamin d responsible of femoral fractures after an accidental fall related to muscle cramps. previously, tanaka and colleagues [18] reported a 62-year-old man that developed pathological femoral fractures due to osteomalacia after 5 years from the beginning of adefovir, without deficiency of vitamin d. moreover, the development of hypophosphatemic osteomalacia associated with tenofovir has been also reported [19-21] and its features are similar to those of hypophosphatemic osteomalacia documented in our patient. some authors documented that proximal renal tubules dysfunction, reducing the absorption of amino acids, glucose, bicarbonate, and phosphate, and the synthesis of 1,25-diidroxy-vitamin d3, induces the development of hypophosphatemic osteomalacia and fanconi syndrome. low levels of vitamin d increase the risk of bone loss, muscle aches, cramps, and fatigue [22,23]. the dismission of adefovir and the treatment with vitamin d induced the improvement of symptoms with the normalization of laboratory findings. in agreement with our previous paper [24-26], using the naranjo score, we documented a probable association between adefovir and clinical symptoms. treatment with entecavir in monotherapy maintained the viremic suppression without the development of side effects. in conclusion, in patients with chronic hepatitis b treated with adefovir, blood and urinary analysis should be carefully evaluated in order to prevent the development of serious adverse drug reaction. moreover, as well reported by de socio et al. [21] for tenofovir, in presence of osteomalacia-related to adefovir a multidisciplinary approach is important in order to perform a rapid diagnosis and a timely treatment. key points adefovir is effective and generally well tolerated at the dosage of 10 mg/day even if unusual, the onset of renal toxicity may occur in presence of muscle pain, it is necessary to check the renal function and the level of vitamin d renal function and vitamin d value must be carefully evaluated during the follow-up in the suspect of adefovir toxicity, it is advisable to replace it with another antiviral drug in agreement with guidelines references 1. naranjo ca, busto u, sellers em, et al. a method for estimating the probability of adverse drug reactions. clin pharmacol ther 1981; 30: 239-45; http://dx.doi.org/10.1038/clpt.1981.154 2. peters mg, hann hh, martin p, et al. adefovir dipivoxil alone or in combination with lamivudine in patients with lamivudine-resistant chronic hepatitis b. gastroenterology 2004; 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