©SEEd Tutti i diritti riservati Clinical Management Issues 2010; 4(3) 87 Clinical Management Issues migliore la malattia (di qualunque natura essa sia) e tutto l’iter terapeutico. Inoltre lo sviluppo di una notevole quan- tità di materiale informativo – esterno al medico, facilmente reperibile, meno “emoti- vamente selezionato” e quindi più oggettivo – ha sviluppato e alimentato negli addetti ai lavori un interesse crescente per la relazione medico-paziente e il bisogno di informazio- ne di quest’ultimo. Questo interesse ha prodotto diversi lavori scientifici che hanno analizzato vari aspetti della relazione-medico paziente, soprattutto in ambito oncologico: le abilità comunicative che il medico deve y possedere, dalla conoscenza delle regole base della comunicazione allo sviluppo di tecniche facilitanti precisi momenti, per esempio la gestione delle cattive no- tizie [2]; il bisogno reale (punto di vista del pazien- y te) o presunto (punto di vista del medico) di informazione del paziente, studiandolo in tutte le fasi della malattia (dalla diagno- si alla terminalità) e prestando particolare attenzione al processo di presa di decisione terapeutica [3]; le fonti di informazione preferite dai pa- y zienti e dai familiari [4]; il ruolo dell’informazione nella gestio- y ne del distress (ansia e depressione) e dell’adattamento alla malattia oncologica (stile di coping) [5]; il ruolo e i bisogni dei familiari all’interno y della relazione medico-paziente [6]; la problematica del diritto del paziente y all’informazione, ma anche alla non in- Annalisa Giacalone 1 Dire e sapere: il dilemma medico-paziente La base di ogni relazione soddisfacente è una buona comunicazione tra i soggetti coinvolti, siano essi docente-discente, ma- rito e moglie o, nel nostro caso specifico, medico e paziente. «Ogni processo comunicativo tra esseri umani possiede due dimensioni distinte: da un lato il contenuto, ciò che le parole dico- no, dall’altro la relazione, ovvero quello che i parlanti lasciano intendere, a livello verbale e più spesso non verbale, sulla qualità della relazione che intercorre tra loro» (P. Wat- zlawick) [1]. Due dimensioni: contenuto e relazione. Due modalità espressive: verbale (che attiene alla parola, scritta e orale) e non verbale (il linguaggio del corpo, ma anche le modalità espressive che accompagnano l’elo- quio – tono, velocità, timbro, ecc.). Quindi, esprimere e soddisfare il biso- gno di informazione sono due momenti importanti che definiscono la qualità della relazione tra medico e paziente – sbilan- ciata, paternalistica, autoritaria, condivisa o consumistica, per citare alcuni modelli – e, allo stesso tempo, ne definiscono anche i contenuti. Se, da un lato, lo spostamento di accento da “dire la verità” a “fornire l’informazio- ne” ha comportato in questi ultimi decen- ni l’assunzione da parte del medico di una posizione più paritaria nei confronti del paziente, una relazione meno paternalistica e una comunicazione più oggettiva, meno influenzabile dall’emotività, dall’altro lato si è visto che un paziente correttamente infor- mato può sviluppare maggior autonomia e autodeterminazione, può affrontare in modo Editoriale 1 Psicologa, Psicoterapeuta. Oncologia Medica A, Centro di Riferimento Oncologico IRCCS, Aviano (PN) Corresponding author Dott.ssa Annalisa Giacalone agiacalone@cro.it ©SEEd Tutti i diritti riservati Clinical Management Issues 2010; 4(3)88 Editoriale formazione (artt. 30 e 31 del Codice di Deontologia Medica, 2006 e Legge n. 675/96 sulla privacy). Nonostante la maggioranza dei medici si orienti internazionalmente per un atteggia- mento che promuova una comunicazione efficace, sincera ed esaustiva, prevale ancora al giorno d’oggi un diffuso comportamento di emarginazione del paziente anziano ri- guardo alla comunicazione della diagnosi che, invece, viene detta ai familiari. Grassi, ad esempio, in un’indagine condot- ta su 675 medici italiani ha riscontrato che se il 45% si dichiarava d’accordo con l’assunto che il paziente deve essere completamente informato sia riguardo alla diagnosi sia ri- guardo alla prognosi, nella pratica clinica solo il 25% di essi comunicava la diagnosi al proprio paziente [7]. Più spesso di quanto non si creda la rela- zione medico-paziente viene ostacolata dagli atteggiamenti negativi del clinico verso l’an- zianità. Adelman ha dimostrato che i medici tendono a passare meno tempo con i pazienti anziani rispetto a quelli giovani e prestano minor attenzione ai loro bisogni inespressi e alle loro preferenze. I pazienti anziani, da parte loro, possono soffrire di deficit senso- riali, deficit funzionali e di deterioramento cognitivo che richiedono di conseguenza una maggiore attenzione da parte dei sanitari durante i colloqui [8]. Un altro punto cruciale nella relazione medico-paziente è il desiderio di conoscenza di quest’ultimo. A Leydon si deve il rico- noscimento dell’importanza che il diniego – un meccanismo di difesa frequentemente usato dai pazienti per far fronte all’impatto emotivo che malattie gravi e potenzialmente mortali suscitano – ha nell’adattamento alla malattia oncologica: può indurre i malati a limitare il dialogo con i medici [9]. Atteg- giamento, questo, che sembra caratterizzare la maggioranza dei pazienti anziani italiani. Uno studio, condotto su 122 soggetti onco- logici anziani in attesa di sottoporsi al primo ciclo di chemioterapia, ha dimostrato che preferivano ricevere un’informazione parzia- le, adeguata ma non esaustiva; desideravano limitare sia la quantità di informazioni che potevano ricevere durante il colloquio con i medici, sia la ricerca di ulteriori informa- zioni presso altre fonti (umane e/o cartacee). In particolare, un terzo dei pazienti preferiva delegare al proprio medico oncologo tutte le decisioni inerenti alla malattia, in quan- to voleva evitare di ricevere le informazioni negative attese [10]. Ultimo, ma non di minore importanza, è il ruolo che i familiari possono assumere all’in- terno di questa delicata relazione: facilitatori o ostacolo alla comunicazione? È indubbio che i familiari svolgano un importante e gra- voso lavoro assistenziale. La disponibilità di schemi di trattamento più agevoli, la riduzio- ne dei tempi di ricovero e il maggior utilizzo del day hospital hanno comportato in questi ultimi anni il passaggio delle richieste di as- sistenza da professionali a informali, queste ultime a carico dei membri della famiglia. Questo aiuto, inteso come supporto socia- le costante, copre tre dimensioni: informa- le, strumentale ed emozionale. Il sostegno strumentale è correlato ai compiti. Fornire questo tipo di sostegno significa ad esempio occuparsi di trasportare in auto il paziente all’appuntamento con il medico, cucinare i pasti, pulire la casa. Il sostegno emoziona- le è direttamente collegato alla capacità di affrontare la paura e ciò che non si conosce. Fornire questo tipo di sostegno aiuta il pa- ziente a sentirsi stimato, desiderato e amato. Il sostegno informale riguarda la condivisione delle conoscenze su un dato problema o argo- mento. Fornire questo tipo di sostegno aiuta il paziente ad avere accesso a e ad elaborare l’informazione ricevuta sulla sua malattia. Ma i familiari, che molto spesso si pon- gono nei confronti del medico come unici interlocutori, conoscono il bisogno informa- tivo dei loro cari ammalati? Dalla mia esperienza con il paziente on- cologico anziano, maturata presso il CRO Istituto Nazionale Tumori di Aviano (PN), emerge un giudizio negativo sui caregiver come interlocutori privilegiati del medico [6]. I nostri dati (studio condotto su 112 ca- regiver, di cui il 41% costituito da coniugi e il 45% da figli) dimostrano che anche quando i familiari sono in grado di riconoscere qual è il livello di conoscenza della diagnosi e dei trattamenti che i pazienti anziani in generale desiderano ricevere, non sono in realtà capaci di riconoscere i veri bisogni informativi del proprio caro. Questa difficoltà sembra sia dovuta sia all’atteggiamento protettivo verso proprio caro ammalato nei confronti di tutto quanto può essere per lui fonte di angoscia, sia alla tendenza del caregiver a sostituire i propri bisogni e le proprie paure a quelli del paziente stesso. Sottolineare con il medico che il paziente non deve sapere, che per il suo bene deve ignorarare la diagnosi, per- mette ai familiari di sentirsi utili, di sentire di aver assolto il loro compito di protezione del malato anche da notizie che non può ©SEEd Tutti i diritti riservati Clinical Management Issues 2010; 4(3) 89 A. Giacalone capire («Non ha studiato», «Non sa nulla di medicina», per fare degli esempi); ma soprat- tutto permette ai caregiver di proteggersi da un coinvolgimento emotivo più profondo nelle angosce del proprio paziente, nelle sue preoccupazioni e aspettative. La comunicazione caregiver-paziente è certamente difficile a causa delle importanti implicazione emotive che gli stretti legami di parentela comportano, e lo è tanto più quan- to la malattia progredisce [11]. È importante aiutare i familiari che assolvono alla funzione di caregiver e di interlocutore preferenziale dei medici a rompere il silenzio che circonda la malattia cancro. Qual è allora il compito che il medico è chiamato ad assolvere? Il cambiamento culturale che internet ha provocato sta lentamente portando a un cambiamento anche nella relazione medico-paziente-familiare: informazione e consenso obbligano i medici a considerare maggiormente i bisogni conoscitivi dei pro- pri pazienti riguardo a diagnosi, prognosi e trattamenti proposti. Il medico oggi non può più permettersi di basarsi solo sulla sua espe- rienza, sui suoi valori personali o sul suo stato emotivo quando deve decidere se, quanto e in che modo rivelare la diagnosi al paziente anziano. Addestrarsi a migliorare le proprie abilità comunicative deve essere uno tra gli obiettivi formativi principali dei medici per evitare di scivolare nella collusione con la famiglia e negare l’informazione al paziente, ma anche per porsi all’interno della relazione come facilitatori della comunicazione tra pa- zienti e familiari. Infatti, un paziente anziano informato è un paziente più collaborante, più soddisfatto della relazione con il proprio me- dico e certamente meno sospettoso. Lo psicologo, nelle realtà che ne prevedono la figura in équipe, può essere una valida risorsa per tutte le figure coinvolte nella comunica- zione (personale sanitario, paziente, familia- ri) ma non deve diventare il delegato di una relazione vissuta come difficile, disturbante o ostacolante. Lo psicologo può aiutare i pazien- ti anziani a esprimere ansie, dubbi, domande non formulate ai loro caregiver e ai medici, così come può aiutare i familiari a esplorare i bisogni informativi dei loro cari ammalati per poter offrire un sostegno ancor più sollecito e attento. Ma la relazione principale è e deve restare quella medico-paziente. BIBlIografIa Watzlawick P, Beavin JH, Jackson DD. Pragmatics of human communication. New York: WW 1. Norton, 1967 Back AL, Arnold RM, Baile WF, Tulsky JA, Fryer-Edwards K. Approaching difficult 2. communication tasks in oncology. CA Cancer J Clin 2005; 55: 164-77 Paul CL, Clinton-McHarg T, Sanson-Fisher RW, Douglas H, Webb G. Are we there yet? The 3. state of the evidence base for guidelines on breaking bad news to cancer patients. Eur J Cancer 2009; 45: 2960-6 De Lorenzo F, Ballatori E, Di Costanzo F, Giacalone A, Ruggeri B, Tirelli U. Improving 4. information to Italian cancer patients: results of a randomized study. 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