Clinical Management Issues 2009; 3(2) ©SEEd Tutti i diritti riservati Clinical Management Issues 59 Andrea Pizzini 1 La continuità nelle cure come strategia per affrontare i problemi del XXI secolo In tutti i Paesi occidentali la continuità assistenziale, intesa come consequenzialità del processo delle cure offerte ai cittadini, è considerata un valore fondamentale per il Servizio Sanitario. La continuità delle cure rappresenta inoltre il cuore dell’assistenza primaria ed è concordemente ritenuta la caratteristica più qualificante della medicina di famiglia, tanto che è spesso uno dei criteri per mi- surare la qualità delle cure nella medicina di base. Con tale espressione, tuttavia, si possono descrivere vari aspetti, anche molto diversi, del processo assistenziale, accomunati solo dalla “dimensione temporale prolungata”: ad esempio il proseguimento di un proto- collo terapeutico a seguito di un ricovero o a procedure di follow-up, l’invariabili- tà dell’operatore di riferimento (medico e non) o del servizio (guardia medica, pronto soccorso), ecc. Dalla continuità di relazione, tipica della medicina di ieri, oggi si va affermando sem- pre di più la necessità di una continuità di processo. L’esame di questi aspetti può es- sere affrontato analizzando due articoli di revisione tratti da due rinomate riviste che si occupano di cure primarie. Una prima analisi, condotta da Saultz e pubblicata sugli Annals of Family Medicine, è stata effettuata selezionando gli articoli pub- blicati su PubMed tra il 1966 e il 2002 che riportassero come parola chiave “continuity of patient care” [1]. La ricerca ha permesso di selezionare 379 articoli originali, rilevando la presenza di ben 21 differenti tecniche per la misurazione della continuità delle cure. Tali metodiche possono tuttavia essere tutte ricondotte a tre principali tipologie: continuità informativa; y continuità longitudinale; y continuità interpersonale. y La continuità informativa implica che chiunque fornisca le cure a un paziente abbia la possibilità, indipendentemente da dov’è situato come postazione, di accedere alle sue informazioni cliniche prima di for- nigli l’assistenza. Da chi non si occupa di studiare la continuità nelle cure spesso non è ben compresa la differenza che intercorre tra “conoscenza del paziente” e “relazione di fiducia con il paziente”: anche chi non ha alcuna relazione continuativa con il malato può invece conoscere la sua storia clinica. La continuità longitudinale (o cronolo- gica) prevede che ogni paziente debba avere una “sede medica” (definita come ambiente accessibile, esperto e organizzato in un team di fornitori) a cui rivolgersi per la maggior parte delle necessità in campo sanitario. Questo team assume la responsabilità del coordinamento delle cure, compresi i servi- zi preventivi; per ogni Sanitario implicato la continuità può essere più o meno lunga nel tempo e può non avvenire per tutti i proble- mi sanitari di quel paziente. La continuità interpersonale indica uno speciale tipo di continuità longitudinale nel quale la relazione medico-paziente è carat- terizzata da una fiducia personale e da una responsabilità reciproca nel rapporto. Lo specifico medico ha la responsabilità perso- nale in campo sanitario generale di quello specifico paziente che riceve da lui tutti i Editoriale 1 Medico di Famiglia, Torino Corresponding author Andrea Pizzini andrea.pizzini@tiscali.it Clinical Management Issues 2009; 3(2) ©SEEd Tutti i diritti riservati 60 Editoriale servizi medico-sanitari di base. Quando il “medico personale” non è disponibile, viene comunque assicurata la continuità longitu- dinale e informativa delle cure attraverso altri Sanitari. La continuità interpersonale rappresenta indubbiamente la caratteristica più importante per la medicina di famiglia, tanto è vero che Saultz, nelle conclusioni dell’articolo, afferma che sarebbero utili ulte- riori studi che permettessero di comprendere meglio la “dimensione interpersonale” nella continuità delle cure. Una seconda revisione sull’argomento è stata pubblicata nel 2003 sul British Medical Journal [2]. Secondo gli Autori, la continuità assistenziale si distingue dagli altri attributi delle cure per due elementi cardine: il focus sul singolo paziente e la necessità di fornire le cure in modo continuativo. In questo arti- colo alle tre tipologie di continuità delle cure individuate dalla precedente revisione se ne aggiunge una quarta di più recente acquisi- zione: la continuità di management. La continuità di management è di pri- maria importanza specialmente per la cor- retta gestione delle patologie croniche, che, essendo in progressivo aumento, debbono prevedere strategie di gestione mirate: si può più semplicemente parlare di cure con- divise o shared care, in cui protocolli, stabiliti congiuntamente tra le varie figure coinvolte, facilitano la definizione delle competenze e dei compiti di ciascuno, integrando e ar- monizzando il lavoro di più figure profes- sionali (inoltre, sempre più frequentemente, il malato è parte integrante e responsabile del team di cura). La flessibilità e l’adat- tabilità alle varie necessità individuali e alle varie circostanze sono un importante aspetto del management continuativo; si tratta infatti di patologie croniche e quindi di scarsa soddisfazione per l’impossibilità della guarigione e perché durano l’intera vita del paziente. Per semplificare e riassumere i concetti fin qui esposti, si possono identificare due di- verse concezioni della continuità delle cure, che per alcuni versi possono essere visti in contrapposizione e che ultimamente sono presi come punti di riferimento per sceglie- re l’orientamento dello sviluppo dei Sistemi Sanitari: la continuità di relazione e la con- tinuità di processo. Nella continuità di relazione l’assistenza sanitaria è vista come fatto prettamente in- terpersonale in quanto conta solo la relazione tra medico e paziente. Vi è la scelta da parte del paziente di un medico unico che abbia una conoscenza approfondita tale da divenire riferimento primario per: il consulto per qualsiasi problema di sa- y lute; la prescrizione e valutazione di accerta- y menti e consulenze; la dispensazione delle cure. y Secondo la continuità di processo si deve prevedere un’articolata sequenza di operatori che permetta il procedere corretto e tempe- stivo di un programma assistenziale anche prolungato con enfatizzazione su: lavoro di équipe; y coordinamento e organizzazione; y rispetto di protocolli procedurali diagno- y stico-terapeutici concordati; raccolta e registrazione standardizzata dei y dati clinici; trasmissione corretta e regolare delle in- y formazioni tra gli operatori. In questo modello si ha una visione dell’as- sistenza sanitaria come fatto rigorosamente scientifico e organizzato. I due approcci sono spesso visti in con- trapposizione: quale delle due forme deve essere privilegiata? Il dibattito teorico sull’organizzazione dei Sistemi Sanitari Nazionali verte su questo, poiché da tale scelta dipendono i modelli organizzativi perseguibili e la conseguente allocazione delle risorse sia professionali sia finanziarie. Di fatto i Paesi occidentali stanno pro- cedendo a una ristrutturazione focalizzata sulla continuità di processo, che viene pro- posta come un modello più moderno ed efficiente, anche in vista della possibilità di un più facile contenimento dei costi attra- verso un’oculata dispensazione dell’assistenza e delle risorse; tuttavia la critica maggiore che si può rivolgere a questo modello è rap- presentata dal pericolo di frammentazione delle responsabilità: manca l’assunzione da parte degli operatori di una responsabilità globale di processo con il rischio di una ge- stione burocratica dei problemi sanitari e la tendenza a rimandare la soluzione dei pro- blemi o a deferirli all’operatore successivo. Dall’altra parte si può ben capire come la continuità di relazione abbia come difetto proprio lo stretto legame che si viene a creare tra medico e paziente: l’amicalità, infatti, al- lontana dal rigore e dalla scientificità. È ben noto come le evidenze scientifiche e le linee guida mal si coniughino con la necessità di gestione del singolo paziente: l’Evidence Clinical Management Issues 2009; 3(2) ©SEEd Tutti i diritti riservati 61 A. Pizzini Based Medicine è in antitesi con la relazione medico-paziente, così come il dato statistico è contro l’individualità. Il medico di famiglia si trova tra questi due poli, in quanto, se da un lato appare chiaro che la continuità di relazione è per lui irri- nunciabile, in quanto essa è il fondamento della medicina di famiglia, è altrettanto evidente che, nell’attuale mondo sanitario e specialmente in quello che si sta delineando per il futuro, da solo egli non può più garan- tire un’adeguata assistenza ai suoi pazienti. Nel medico di famiglia si deve poter fonde- re e dissolvere il contrasto tra continuità di processo e continuità di relazione: in realtà il contrasto può divenire fittizio. Un esempio concreto è la gestione delle patologie croniche o di un rischio che ac- comuna tutta la popolazione come quello cardiovascolare. Nella Figura 1 è illustrata la suddivisione della popolazione maschile italiana in base a 10 classi crescenti di rischio cardiovascolare calcolato applicando il punteggio individuale (sulla base del “Progetto Cuore” dell’Istituto Superiore di Sanità, www.progettocuore.it). La popolazione più numerosa è ovviamente nelle fasce del basso e medio rischio (nu- meri tra parentesi alla base delle colonne); gli eventi cardiovascolari (numeri sopra le colonne) che avvengono nella popolazione che ha un alto rischio cardiovascolare – os- sia, per definizione, ≥ 20% – sono solo il 25% del totale. La linea tratteggiata mostra l’incidenza degli eventi in 10 anni: la linea cresce spostandosi verso destra. Figura 1 Eventi cardiovascolari maggiori (barre) in relazione all ’incidenza a 10 anni (curva tratteggiata) per classi di rischio cardiovascolare negli uomini di età compresa tra 35 e 69 anni, secondo dati del Progetto Cuore dell ’Istituto Superiore di Sanità (www.progettocuore. it) [3] Figura 2 Eventi cardiovascolari maggiori (barre) in relazione all ’incidenza a 10 anni (curva tratteggiata) per classi di rischio cardiovascolare nelle donne di età compresa tra 35 e 69 anni, secondo dati del Progetto Cuore dell ’Istituto Superiore di Sanità (www.progettocuore. it) [3] 0 20 100 160 180 Pr ev al en za (% ) 40 140 80 60 120 0 5 25 40 45 10 35 20 15 30 In ci de nz a in 10 an ni (% ) I (3.433) 112 II (1.659) 153 III (800) 94 IV (439) 76 V (253) 46 VI (161) 33 VII (155) 27 VIII (79) 18 IX (62) 20 X (55) 17 Classi di rischio cardiovascolare in 10 anni (popolazione) 25% degli eventi 75% degli eventi 20 0 20 100 160 180 Pr ev al en za (% ) 40 140 80 60 120 0 5 25 40 45 10 35 20 15 30 In ci de nz a in 10 an ni (% ) I (9.331) 80 II (1.854) 83 III (679) 50 IV (337) 38 V (164) 15 VI (71) 9 VII (55) 7 VIII (35) 7 IX (26) 3 X (22) 6 4% degli eventi 96% degli eventi 20 Classi di rischio cardiovascolare in 10 anni (popolazione) Clinical Management Issues 2009; 3(2) ©SEEd Tutti i diritti riservati 62 Editoriale In genere il medico si preoccupa delle persone ad alto rischio. Nell’ultimo decile su 55 persone 17 si sono ammalate: un caso ogni 3 persone; nel primo decile, invece, su 3.433 persone si sono sviluppati 112 even- ti: un caso ogni 30 persone. Si capisce bene così che, sebbene la probabilità di un even- to sia maggiore nelle classi ad alto rischio, il numero assoluto di eventi si verifica mag- giormente nelle popolazioni a medio e basso rischio (perché sono di più!): gli uomini con un rischio uguale o superiore al 20% gene- rano solo il 25% degli eventi. Nelle donne (Figura 2) il concetto è ancora più forte: solo il 4% degli eventi totali avvie- ne nella popolazione con un alto rischio. Si deve quindi concludere che un basso rischio a cui è esposta tutta la popolazione produce in termini assoluti un danno mag- giore di quello derivato da un rischio eleva- to al quale è esposto un piccolo gruppo di persone. Una buona strategia preventiva non deve preoccuparsi solo degli individui ad alto rischio (su cui si deve comunque interveni- re con tutte le strategie possibili), ma deve combinare l’approccio dell’alto rischio con l’approccio di popolazione mirato anche alle persone a rischio moderato e basso (median- te le modifiche degli stili di vita e una cor- retta alimentazione); ecco che è ben chiaro come solo una strategia che metta in campo una reale continuità nelle cure che parta dalla prevenzione, mediante azioni indirizzate alla popolazione a basso e medio rischio, e giunga all’identificazione delle strategie più adatte per trattare le persone ad alto rischio, può garantire un approccio globale al problema sanitario preso in esempio. La via per la ricerca delle soluzioni viene analizzata dalla scienza che studia la com- plessità delle cure. Si debbono abbandona- re i modelli di interpretazione lineari dei fenomeni sanitari, e adottare sistemi che più si adattano alla crescente complessità della sanità del XXI secolo. In pratica si debbono aumentare le certezze, l’accor- do, le capacità a discapito della semplice competenza. BIBLIograFIa Saultz JW. Defining and measuring interpersonal continuity of care. 1. Ann Fam Med 2003; 1: 134-43 Haggerty JL, Reid RJ, Freeman GK, Starfield BH, Adair CE, McKendry R. Continuity of care: 2. a multidisciplinary review. BMJ 2003; 327: 1219-21 AA.VV. Raccomandazioni operative a conclusione della III Conferenza Nazionale sulla 3. Prevenzione delle Malattie Cardiovascolari. Ital Heart J 2004; 5 (Suppl 8): 122S-135S