Clinical Management Issues 2008; 2(3) ©SEEd Tutti i diritti riservati Clinical Management Issues 135 erano già disponibili. Ricordo invece, al- meno fino all’inizio della mia esperienza di psichiatria, di aver sempre sentito parlare, ovunque, compreso l’ambiente medico, del- la tossicodipendenza da eroina come di una condizione dagli esiti incerti che poteva ec- cezionalmente guarire ma per ragioni non chiare. Tutt’oggi, trovo sconcertante come l’approccio a una malattia che ha causato migliaia di morti, decimando generazioni di giovani e rovinando migliaia di famiglie, oscilli spesso in maniera inconcludente tra Matteo Pacini 1 IntroduzIone Il caso che vado ad illustrarvi è uno dei tanti esempi, pur nella sua particolarità, di una malattia molto chiacchierata ma poco compresa in termini scientifici, quasi che la sua riduzione a parametri e stereotipi fosse un modo miope e rinunciatario e non una tecnica per gestirla più prontamente e con maggiori garanzie. La malattia in questio- ne è la dipendenza da eroina, che nel nostro Paese ha attraversato un periodo epidemico negli anni ’70 per poi divenire endemica, cioè stabile, da anni. Tutt’oggi, oltre i due terzi dei casi gestiti dai Servizi per le Tossicodi- pendenze riguardano l’eroina, e la tendenza rivela una nuova fase di crescita dei nuovi casi per anno. Dopo anni di attività clinica in questo settore, la cosa più atroce e tragica di que- sta condizione mi appare sempre la stessa: quando in Italia il problema esplodeva, in ritardo di oltre un decennio rispetto per esempio agli Stati Uniti, le terapie efficaci un caso di tossicodipendenza Abstract Methadone maintenance is one of the well-known harm reduction strategies for public health intervention in heroin addiction. The significance of methadone treatment in preventing needle sharing, which in turn reduces the risk of HIV and HCV transmission among injectors, has been demonstrated. Methadone maintenance is also considered gathering site where heroin addicts can effectively acquire knowledge on harm reduction and drug rehabilitation. We report a case of a 34-years-old patient with a history of heroin abuse. Therapy with methadone was essential for an adequate management of the case. The article describe difficulties and complexities of heroin abuse management and the therapeutic role of methadone. Keywords: heroin, drug abuse, methadone A case of drug abuse CMI 2008; 2(3): 135-141 1 Psichiatra, Istituto di Scienze del Comportamento G. De Lisio. Università di Pisa Corresponding author Dott. Matteo Pacini paciland@virgilio.it Perché descriviamo questo caso Per fornire al medico indicazioni circa la gestione della dipendenza da eroina, patologia spesso poco approfondita e com- presa. Al contrario, oggi vi sono criteri diagnostici, di trattamento e di gestione standardizzati, che, se seguiti in modo corretto, rendono più rapide e probabili le remissioni Caso clinico Clinical Management Issues 2008; 2(3) ©SEEd Tutti i diritti riservati 136 Un caso di tossicodipendenza il dramma e il semplicismo dell’idea che “basta dire no”, e che uno slogan spiritoso e sdrammatizzante (tipo “o ci sei, o ti fai”) possa sbloccare la coscienza dei tossicomani. Tra dramma e spiritosaggini continuano ad ammalarsi, a rovinarsi e a morire ogni anno nuove persone. CAso ClInICo Quando il paziente si presentò alla no- stra osservazione, a 34 anni compiuti, era sposato e padre di un bambino ed era redu- ce dall’ultima esperienza che dovrebbe “far aprire gli occhi”, in questo caso il carcere, e da un ricovero per disintossicazione. Sia da solo che insieme alla moglie aveva tentato in tutto una quindicina di volte, per non contare i tentativi autogestiti, di porre fine al problema con l’eroina. In poche parole, questo comportamento si riproponeva, e si imponeva al centro della sua vita, e ogni volta creava i presupposti per far crollare quel che di buono i due riuscivano a ricostruire. Vivere con l’eroina era come avere un mutuo da pagare con rate quotidiane, a volte più di una rata al giorno, senza sapere quando si sarebbe estinto e fino a dove sa- rebbe aumentato il tasso. I tentativi, poi, erano per lo più soluzioni per arginare l’uso pesante, quotidiano e non più soddisfacente di eroina e riprovare ad usarla in maniera “controllata”, a dosi mi- nori, con minor spesa e sentendola meglio. La morte era passata vicina per ragioni non direttamente connesse alla droga. Una pro- mettente carriera con prospettive di guada- gno ottime era stata invece “bruciata” anche a causa della droga. Dagli altri il paziente era presentato come un individuo aggressivo, già dalla prima ado- lescenza, facile alla rissa o all’aggressione per futili motivi, brillante sotto certi aspet- ti ma socialmente pericoloso e soprattutto impulsivo, avventato, anche a suo rischio e pericolo. Dopo un’apparente richiesta di trattamen- to, il paziente manifesta un atteggiamento direttivo. Egli chiarisce di volere una terapia “diversa” da quelle precedenti, imperniata su un suo impegno a star lontano dall’eroina; indica egli stesso la via: usare al meglio gli psicofarmaci, in particolare gli antidepressi- vi, per tenerlo lontano dal desiderio di usare droghe, e come misura immediata disintos- sicarsi dal metadone che durante il ricovero aveva assunto fino alla dose di 40 mg/die. Posto di fronte alle diverse alternative tera- peutiche, dimostrava assoluta avversione nei riguardi di cure che «creavano dipendenza, sostituivano una dipendenza con un’altra e non gli impedivano di usare eroina». Affer- mava che il farmaco ideale per lui, tra quelli specificamente indicati nella dipendenza da eroina, era naltrexone (antagonista), poiché, non permettendogli di ottenere l’effetto pia- cevole dell’eroina, gli avrebbe consentito di non assumerla più. Di fronte alla proposta di utilizzare metadone secondo un program- ma di mantenimento, e a dose superiore a quella fino ad allora assunta, obiettava che il metadone non poteva fare la differenza, perché “se voleva farsi lo avrebbe potuto fare” e che se mai avesse smesso di farsi sarebbe stato per sua decisione, perché è una cosa “di testa”, specialmente nel suo caso. Ripeteva che la sua personalità lo rendeva diverso da altri tossicomani, e che nel suo caso biso- gnava trovare soltanto il momento giusto: dato che era morto recentemente il padre, e che lui aveva giurato sulla sua tomba che sarebbe guarito “senza niente” e “una volta per tutte”, sentiva che il momento giusto era arrivato. Al commento che questo tentativo era già stato fatto innumerevoli altre volte, con esito fallimentare, ribatteva che “proprio perché ci ho provato dieci volte, e qualcuna ero quasi sul punto di riuscirci, l’undicesima sarà la volta buona”. La proposta fu un programma standard per la dipendenza da eroina, che prevedeva la fase di induzione (aumento farmacologica- mente guidato) della tolleranza agli oppiacei tramite metadone a dose crescente, seguito da una fase di mantenimento. L’obiettivo sarebbe stato quello di portare ad estinzione l’impulso a cercare la droga, secondo quel- lo che il paziente stesso voleva ottenere. La reazione fu negativa: il paziente si riteneva “non capito”, e che non vi fosse alcuna ne- cessità di “cronicizzare” la dipendenza con una cura lunga. Per quanto concerne la di- sintossicazione, il paziente ripeteva che il metadone doveva essere tolto rapidamente, perché più a lungo lo avesse preso, più dif- ficile sarebbe stato “levarselo”, e che aveva effetti devastanti sul fisico nel lungo termi- ne, specialmente a dosi alte (cioè, secondo il paziente, sopra i 40 mg/die). A tal propo- sito chiedeva la possibilità di essere inviato a un centro di disintossicazione ultrarapida, perché una disintossicazione rapida era il miglior modo di “troncare” con la dipen- denza, e iniziare l’astinenza supportato nella maniera migliore dagli altri, dall’ambiente, Clinical Management Issues 2008; 2(3) ©SEEd Tutti i diritti riservati 137 M. Pacini dalle circostanze e soprattutto dalla propria forza di volontà. Dopo quindici giorni di terapia con me- tadone a dose crescente (50 mg la prima settimana e 60 mg la seconda settimana), il paziente non si presentò all’appuntamento. Colleghi del Day Hospital dello stesso Di- partimento lo riaccompagnarono a qualche giorno di distanza presso l’ambulatorio, rife- rendo che il paziente si era rivolto al Servizio richiedendo una disintossicazione rapida o l’invio in un centro che la praticasse, ma i colleghi avevano ritenuto precario l’equi- librio psichico e non congrua la richiesta rispetto alla prognosi e alle aspettative. Nel colloquio si ribadì la strategia terapeutica, che prevedeva il raggiungimento di una dose efficace, con un periodo di mantenimento non definibile a priori, durante il quale si sarebbe svolta la riabilitazione. Il paziente, di fronte alla fermezza con cui da una parte si affermavano i dati di efficacia della terapia proposta, dall’altra si giudicavano pericolosi, oltre che inutili, progetti di rapida disintos- sicazione, si animò e si dimostrò scettico. La moglie dimostrò invece di essere convinta, ma temeva di contraddirlo e di dissociarsi dalla sua linea. Un altro medico, che ascol- tava la conversazione, scuoteva la testa come per dire che «non c’è niente da fare, non c’è modo di farlo ragionare». Sentendosi in qualche modo messo “in minoranza”, il pa- ziente chiese, come fosse una provocazione, una previsione precisa circa la dose di far- maco che sarebbe servita per ottenere il ri- sultato che gli si prospettava, il tempo entro cui, secondo noi, non si sarebbe più drogato. La risposta, che lo sorprende perché non se ne aspetta una, è «la dose media è 100 mg al giorno, ma visto che hai un disturbo del- l’umore associato probabilmente sarà sui 150 mg, e ci vorranno più o meno sei mesi». Il paziente, incredulo, ripete: «Tra sei mesi quindi lei mi dice che non mi drogo più?». Alla conferma di questa previsione, il com- mento è: «Allora dottore prendo 150 mg e aspetto il tempo che mi ha detto, ma se non funziona e mi continuo a drogare la vengo a cercare... Se per lei va bene...» Il programma riprende, la dose di meta- done è aumentata gradualmente fino a 150 mg (circa in 3 mesi), segue una fase con dose stabile. Le urine sono inizialmente positive, la percentuale delle positività su campioni settimanali è del 100% nei primi due mesi, del 75% nel terzo e quarto mese, nel quinto mese vi è una sola positività. Le urine successive rimarranno negative. Ogni settimana, il colloquio di aggiornamento è una specie di riproposizione dello stesso dibattito: il paziente ripete le “sue” soluzio- ni, ma mantiene l’impegno di proseguire la terapia concordata. Quando la dose arriva intorno ai 100 mg, il colloquio è più breve, il paziente ribadisce ancora le sue posizioni e il suo scetticismo, ma in maniera meno agguerrita e più sommaria. La settimana successiva vi è solo un accenno di confronto sul metodo terapeutico, e il paziente sembra non tenerci molto, per la prima volta, a so- stenere le sue posizioni su forza di volontà, disintossicazione, dipendenza dai farmaci, ecc. Nell’uscire dall’ambulatorio il pazien- te si ferma sulla soglia, si volta un attimo e con un mezzo sorriso dice: «Sa una cosa dottore? Più metadone prendo, e più la pen- so come lei». La settimana successiva sarà la prima senza eroina. dIsCussIone Questo caso è un caso di tossicodipenden- za. La tossicodipendenza non è una malattia complessa, ma difficile. La differenza che passa tra complesso e difficile è una questione di rapporto medico-paziente: tecnicamente, è possibile prevedere la risposta in maniera standardizzata, con riferimenti precisi in ter- mini di dosaggio del farmaco (in questo caso metadone) e di tempi di risposta. Esiste un decorso standard che può es- sere previsto e quindi corrispondere a una “prognosi”, il che consente di “stare a vede- re” come evolve la situazione e di dare per scontata la ricaduta se non si interviene. Esi- ste un decorso terapeutico che prevede una effetti a breve termine effetti a lungo termine Euforia, amplificazione e distorsione dei sensi, riduzione dell’ansia Distacco dalla realtà, deficit della capacità critica e riduzione dello stato di coscienza Rash Depressione respiratoria Nausea e vomito Sedazione e analgesia Ipotensione Inibizione della peristalsi Miosi Prurito Inibizione dell’eiaculazione            Dipendenza (addiction) Maggiore incidenza infezioni, es. infezioni batteriche, HIV, epatite (nel caso di uso ev) Collasso venoso (insufficienza venosa periferica) Ascessi Artriti e patologie reumatologiche (nel caso di uso ev) Tolleranza, assuefazione Ridotta tolleranza al dolore Disforia Odontopatia con carie del colletto Disregolazione ormonale nella donna           tabella I Effetti dell ’uso di eroina Clinical Management Issues 2008; 2(3) ©SEEd Tutti i diritti riservati 138 Un caso di tossicodipendenza latenza prima della comparsa della risposta, che di solito è graduale. Tutto questo però non semplifica la situa- zione: il 90% dello sforzo per arrivare a una soluzione è teso a far collaborare il paziente per il tempo necessario a permettere al far- maco di agire, o meglio per permettere al soggetto di agire avendo assunto il farmaco, ovviamente alla dose corretta. La supposta complessità della tossicodipendenza è un grosso fraintendimento: i fattori, innume- revoli, che possono essere descritti nelle vite dei tossicodipendenti, condizionano l’uso delle droghe, ma per definizione stessa della malattia “tossicodipendenza” non hanno più un peso significativo quando il “drogato” è divenuto “tossicomane”. Riconoscere un tos- sicomane distinguendolo da una persona che si droga, con problemi annessi e connessi, è il primo passo per poter dare una risposta terapeutica sensata. Un drogato “non patologico”, cioè pro- blematico ma non dipendente, non neces- sariamente ha bisogno di un trattamento di fondo, e può rispondere alle più svariate forme di intervento, dalla residenza protetta alla disintossicazione, o anche spontanea- mente smettere di drogarsi, con la piena li- bertà di scelta sul fatto di rimanere o meno astinente. Un tossicomane non ha questa libertà, e non la riavrà da solo. La diagnosi di tossicodipendenza si fa accertando sem- plicemente il seguente disturbo: la persona cerca di astenersi da un comportamento che continua a mettere comunque in atto, contro le proprie intenzioni ma secondo un istinto non evidentemente non controllabile. Quando il progetto prevede il restare lonta- no dall’eroina, ma il “movimento in avanti” non può che passare attraverso l’eroina, si è dentro una tossicodipendenza. Ogni ra- gione e intenzione si scontra con un istinto che rema in senso contrario, e per sua natu- ra biologica è più forte, più rapido. La parte superiore del cervello è superata in parten- za dalla parte istintuale, che guida senza un senso, ma secondo una smania (craving) il comportamento. Una volta posta la diagnosi, si apre auto- maticamente un ventaglio di opzioni tera- peutiche; attualmente per la dipendenza da eroina si può affermare quanto segue: i trattamenti di provata efficacia compren- dono trattamenti farmacologici a base di antagonisti (naltrexone) e agonisti (meta- done, buprenorfina) [1]; i trattamenti di provata efficacia prevedo- no una fase lunga di mantenimento, du-   rante la quale e grazie alla quale si svolge la riabilitazione del paziente; i trattamenti a breve termine, come la di- sintossicazione, non hanno alcun impatto sul rischio di ricaduta, che è per defini- zione scontato nella tossicodipendenza. Nell’impostazione di un trattamento ef- ficace, la disintossicazione non è un pas- saggio necessario, e, quando praticato in ambiente protetto (carcere, ospedale) con successivo ritorno del paziente all’am- biente naturale, può aumentare il rischio di overdose. Il trattamento con metadone Dei trattamenti sopraelencati, il mante- nimento con metadone è il più studiato, e quello di efficacia maggiore [2,3]. I primi parametri da tener presenti sono: la probabilità che un paziente abbia un beneficio immediato; la probabilità che rimanga in trattamen- to; la probabilità che, quindi, grazie al tratta- mento, risolva il problema. Il trattamento metadonico di manteni- mento è il regime più affidabile, qualunque sia la tipologia di paziente tossicodipenden- te. I pazienti meno gravi sono da avviare co- munque al trattamento più affidabile. L’affidabilità del trattamento metadonico è relativa a due fattori: la dose e la durata del trattamento. Per capire i principi di funzionamento di questo metodo, è utile raccontarne le origini. A metà anni ’60 negli Stati Uniti i tossico- mani erano un problema di ordine pubblico, e sembravano ingestibili a livello carcerario. Su uno “zoccolo duro” di tossicomani cri- minali fu provato un programma pilota di terapia metadonica, basato sulla cosiddetta teoria metabolica di Dole e Nyswander [4]: la tossicomania, anche dopo l’assenza pro- lungata dell’eroina, era comunque contras- segnata da uno squilibrio nel metabolismo cerebrale, e dal persistere di alcuni sintomi di “deficit oppiaceo”, da cui il concetto di “asti- nenza protratta”, o “astinenza post-astinen- ziale”. Associato a questo deficit oppiaceo era il rischio di ricaduta e la smania ricorrente di riassumere narcotici (il “recividismo”). L’esposizione all’eroina aveva in un certo senso abituato irreversibilmente il cervello a non tollerare l’assenza prolungata di eroi- na, non per un malessere attuale e vivo, ma come la privazione di un benessere assoluto.     Clinical Management Issues 2008; 2(3) ©SEEd Tutti i diritti riservati 139 M. Pacini Se così era, un apporto esterno di sostanza con lo stesso tropismo (cioè che si attaccava agli stessi “punti cerebrali”), ma privo del suo effetto “euforizzante”, avrebbe potuto “saziare” il cervello fino a spengere la voglia di eroina, e nel contempo ripianare la carenza di funzione oppiacea. La conferma di questa teoria negli anni successivi è alla base della diffusione del trattamento metadonico. Prima ancora che questo effetto anti-cra- ving (anti-desiderio) fosse dimostrato, il metodo elaborato da Dole e Nyswander si basava su un’idea pratica, cioè il “blocco nar- cotico”. Somministrando metadone a dosi crescenti, si sarebbe indotta una progressiva assuefazione, superiore a quella inducibi- le con l’eroina, cosicché i tossicomani non avrebbero potuto più “sentire” l’eroina, anche a dosi elevate. Il “blocco” si può ottenere anche, e più rapidamente, usando un antagonista (nal- trexone), ma il blocco ottenuto mediante il metadone aveva una marcia in più: il tos- sicomane che ha ancora smania, ma non riesce più a sentire l’eroina, se e appena può abbandona il trattamento e ritorna all’eroina. Questo è facile con naltrexone, che può esse- re sospeso senza conseguenze. In chi è invece assuefatto a 100 mg o più di metadone, la sospensione brusca è seguita da un’astinenza lunga e intensa; in più, il paziente reso tolle- rante a 100 mg o più che non assuma la sua dose giornaliera e usi eroina, non ha molte probabilità di sentire qualcosa, e dovrebbe attendere di essere nel mezzo dell’astinenza da metadone per poter ancora usare eroina con piacere. Il paziente quindi rimane “legato” al programma il tempo sufficiente perché si sviluppi piano piano l’azione anti-deside- rio. Il desiderio, durante il trattamento con metadone, tende ad estinguersi in maniera dose-dipendente, mentre per chi rimane in trattamento con naltrexone il desiderio si riduce ma in maniera indiretta, per un “man- cato effetto dell’eroina” e non per un effetto “anti-desiderio”, e può comunque rimanere una smania significativa, con maggior rischio di ricorso a surrogati (ansiolitici e alcol). Le dosi utilizzate nel trattamento me- tadonico corrispondono a ben oltre quelle sufficienti a coprire l’astinenza. Del resto, il danno in termini di “legame” con la sostanza è il primo a strutturarsi, seguìto anche dal- l’assuefazione somatica, per cui è naturale che serva più stimolo oppiaceo per estingue- re il desiderio che non per estinguere l’asti- nenza. Nel trattamento metadonico, quel qualcosa di più “oppiaceo” che passa per il cervello del paziente non serve a coprire un buco, ma a controbilanciare quel “qualcosa di più” di desiderio che si è sviluppato, come in una bilancia a due piatti. Il piatto della voglia ritorna a posto quando il piatto dell’oppio si appesantisce. Il trucco del gioco sta nel fatto che l’oppio “terapeutico” non induce esso stesso tossicomania, ma semplicemen- te inganna il cervello con un falso messag- gio equivalente alla presenza stabile di una quantità elevata di oppiaceo. Le dosi medie efficaci corrispondono a livelli circolanti, e anche i soggetti che per os necessitano di dosi molti più alte (fino a oltre 1.000 mg) o per cui bastano poche decine di mg (più rari) hanno in realtà livelli di metadone circolante uguali. La dose per os, come per altri farmaci, è solo una variabile farmacocinetica ma non l’unica. La necessità di raggiungere le dosi efficaci spingendo in alto la tolleranza del paziente impone una grande cautela, poiché gli oppiacei in sovradosaggio sono poten- zialmente letali, compresi quelli terapeutici, e quindi la procedura richiede settimane di graduali aumenti. Nel frattempo, il paziente risulta sempre più protetto da overdose con eroina, per lo stesso meccanismo del “bloc- co narcotico” e perché il metadone presente occupa i siti recettoriali dell’eroina, scher- mandone l’azione. Le affermazioni dei pazienti rispetto a questa realtà sono sintomatiche della ten- denza a seguire la smania per l’eroina, op- pure della scarsa consapevolezza di avere una malattia (cioè una prognosi). Il paziente che ricerca una soluzione rapida, 99 volte su 100 ha in mente di riprendere fiato per poi ritornare a usare eroina da una posizione più agevole, cosa che comunque non durerà che pochi giorni: la ricaduta non è un nuovo episodio, ma una ripresa di un meccanismo che non si è azzerato, ma è rimasto pronto a ripartire da dove lo si era lasciato. L’idea che “basta dire no” o che è sufficien- te la “forza di volontà” sono erronee: avere speranza è utile se spinge a tener duro e a cercare una soluzione, mentre è deleterio se distoglie da una soluzione concreta e dà in pasto a una certezza di ricaduta. Il rifiuto della “dipendenza” dai farmaci è un rifiuto più o meno consapevole dell’esistenza della malattia. Una terapia non può indurre, mantenere o spostare su un altro oggetto la tossicomania, altrimenti non sarebbe terapeutica ma dan- nosa, o comunque inutile. Infatti, la terapia è lo strumento irrinunciabile per interrom- Clinical Management Issues 2008; 2(3) ©SEEd Tutti i diritti riservati 140 Un caso di tossicodipendenza pere il corso naturale della tossicomania, e se evidentemente la soluzione del problema dipende dall’efficacia della terapia, il malato curato dipende dalla terapia finché la malat- tia non si è spenta. Le malattie croniche si concludono soltanto con la morte del mala- to, o tardivamente dopo aver prodotto danni estesi e irreversibili. Il gioco di parole tra “dipendenza” come “tossicodipendenza” e “dipendenza” da una terapia efficace è fumo negli occhi: la di- pendenza “tossica” è una malattia psichica proprio perché non si riesce a evitare la fonte della propria distruzione, mentre la “dipendenza” terapeutica è un appoggio su cui poter contare per tenere a bada una ma- lattia che da sola altrimenti non se ne va. In tutti e due i casi, la dipendenza è data dalla malattia, e mai dalla terapia. La preoccupazione dei pazienti di rima- nere legati al farmaco se assunto “a lungo” e a dose “elevata” è fasulla, accade di solito il contrario per chi segue un regime di mante- nimento a dose efficace. Invece, a rimanere legati alle terapie inutili sono proprio coloro che, per il rifiuto di un regime a lungo termi- ne, passano anni a ripetere disintossicazioni, trattamenti a breve termine, “scalaggi” più o meno rapidi del farmaco, ecc. I pazienti di solito pensano che la soluzio- ne migliore sia qualcosa che blocca o interfe- risce con l’effetto dell’eroina (naltrexone, ma anche per esempio, disulfiram negli alcoli- sti). Questo pensiero è assurdo se si pensa che la prima e decisiva interferenza con un comportamento, in situazioni normali, do- vrebbe essere l’intenzione di non metterlo in atto. Il danno, lo sconforto e la distruzione portate dalla dipendenza dovrebbero esse- re un motivo più che valido per astenersi, se le cose fossero sotto controllo. Anziché riconoscere che il problema viene “da den- tro” come rottura dell’equilibrio tra istinto e intenzione, il tossicomane medio continua a spostare l’attenzione “sull’esterno”, come se ogni volta fosse la sostanza a decidere se farsi o non farsi usare. La terapia deve invece puntare sul con- trollo del comportamento e non sull’effetto della droga. Quando il tossicomane sta me- glio, non è più disperato e la visione delle cose cambia radicalmente, purtroppo sbilan- ciandosi sul versante opposto: insorge cioè il pensiero che la soluzione possa venire “da dentro”, spontaneamente e senza un inter- vento esterno. L’intervento medico, per con- vincere il paziente a lasciare che un fattore esterno (il farmaco) agisca gradualmente sul nucleo “interno” del problema è oltremodo difficoltoso: il paziente ragiona pensando «il problema è fuori, la soluzione è dentro»: invece è la malattia ad essere dentro al sog- getto, mentre la terapia proviene dall’esterno e deve essere introdotta tante volte prima di poter funzionare appieno. In tutto questo, anche il paziente vive questa contraddizione in maniera coscien- te, e quando parla della propria dipendenza, senza dover decidere sulla terapia, è di solito chiarissimo: anzi, ascoltarlo è indispensabile per porre diagnosi, perché sono le sue con- traddizioni e la sua perdita della libertà che definiscono la malattia tossicomanica. Che va diagnosticata sempre rispetto all’individuo, mai rispetto alla sostanza in sé (quantità, li- ceità) o alla società (condotte problematiche, problemi legali, status socioeconomico). Per fortuna la terapia stessa sterza il pen- siero del tossicomane verso quello del me- dico, e gli consente di entrare in possesso della visione corretta per proteggersi dalla recidiva, continuando la terapia e compren- dendone lo scopo. Purtroppo, i ritardi nel trattamento sono legati anche a una pratica medica non uni- forme sul territorio e a volte platealmente errata. Gli errori da parte medica sono fon- damentalmente due: il primo è quello di scambiare il trattamento di mantenimento come una “scuola di pensiero”. La scuola di pensiero può identificarsi con una teoria o un’interpretazione, ma i dati di efficacia restano e vanno conosciuti. Sostituire alla “scuola di pensiero” un’altra “scuola di pen- siero” senza però prospettive di affidabilità non è una dimostrazione di democrazia, ma un torto che si fa ai pazienti. Ritenersi sod- disfatti perché con il metodo X “qualcuno” ce l’ha fatta è un comportamento irrespon- sabile, perché applicando invece il metodo scientificamente efficace potevano farcela, oltre che quel qualcuno, anche centinaia di altri. Il secondo errore è quello di rimanere “bloccati” nella gestione delle terapie per l’idea che ogni caso è un caso a sé, e che quin- di il problema sia e rimanga multifattoriale, non riducibile a uno schema terapeutico o a un insieme di criteri diagnostici. Questo atteggiamento non è lungimirante, ma è presbite, perché è la negazione del concetto di malattia, che, ricordiamo, è la codifica di una storia decennale di malattie di singoli individui. La standardizzazione del trattamento è il mezzo per permettere ad ogni storia parti- colare di liberarsi dalla prigione, uguale per tutti, in cui la malattia costringe a stare. Clinical Management Issues 2008; 2(3) ©SEEd Tutti i diritti riservati 141 M. Pacini Poter diagnosticare la tossicomania con un criterio preciso è una conquista, perché con- sente di adattare il trattamento alla prognosi. Sapere che data una diagnosi e una progno- si il trattamento può essere standardizzato è una conquista terapeutica che rende più rapidi e probabili le remissioni. Si tratta quindi di una malattia difficile, ma non complessa per la quale esiste una cura tra le più studiate della storia della medicina, efficace, salvavita, disponibile da quarant’anni. Sconsigliarla è qualcosa di più che ignoranza. Intraprenderla è qualcosa di più che una speranza. trAttAMento Con MetAdone dellA dIpendenzA dA oppIoIdI BIBlIogrAfIA 1. Van den Brink W, Haasen C. Evidenced-based treatment of opioid-dependent patients. Can J Psychiatry 2006; 51: 635-46 2. Mattick RP, Breen C, Kimber J, Davoli M. Methadone maintenance therapy versus no opioid replacement therapy for opioid dependence. Cochrane Database Syst Rev 2003; 2: CD002209 3. Mattick RP, Kimber J, Breen C, Davoli M. Buprenorphine maintenance versus placebo or methadone maintenance for opioid dependence. Cochrane Database Syst Rev 2008; 16: CD002207 4. Dole VP, Nyswander ME. Heroin addiction. A metabolic disease. Arch Intern Med 1967; 120: 19-24 formulazione della diagnosi di tossicodipendenza Valutazione dell’adeguatezza del trattamento con metadone nel singolo paziente: controindicazioni, soggetti particolari Ottenimento consenso informato disimpegno dalla terapia (lungo termine) e follow-up Prescrizione Definizione dose target e piano terapeutico Stabilizzazione e mantenimento Aggiustamento dose Verifica effetti collaterali Verifica compliance paziente Esecuzione test diagnostici (es. urine) Raggiungimento della tolleranza Induzione