Clinical Management Issues 2008; 2(3) ©SEEd Tutti i diritti riservati Clinical Management Issues 127 cipali cause di morte, dopo la cardiopatia ischemica, con una prevalenza del 9,5% mentre le malattie cerebrovascolari si collo- cano al settimo posto tra le principali cause di invalidità secondo il World Health Report 1999 dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). Negli Stati Uniti ogni anno si verificano 700.000 nuovi casi di ictus [3]. Eugenio Roberto Cosentino 1, Elisa Rebecca Rinaldi 1, Claudio Borghi 1 IntroduzIone L’ipertensione arteriosa rappresenta uno dei principali fattori di rischio per lo svi- luppo di ictus, infarto miocardico e insuffi- cienza renale [1]. Viceversa, la riduzione dei valori pressori risulta in grado di prevenire lo sviluppo di una considerevole percentuale di tali complicanze, soprattutto di quelle di natura cerebrovascolare, nei cui confronti l’ipertensione arteriosa rappresenta il fattore di rischio preponderante. I dati disponibili negli USA individuano nell’ictus la terza causa di morte in assoluto, responsabile di 150.000 decessi ogni anno; essi suggeri- scono inoltre che un adeguato trattamento preventivo può tradursi in una significativa riduzione degli eventi. Tale riduzione è sta- ta stimata nell’ordine del 2% all’anno prima del 1972 e di circa il 6% all’anno nel periodo compreso tra il 1972 e il 1991, con una acce- lerazione del decremento che ha riguardato in eguale misura tutte le categorie di età ed entrambi i sessi [2]. Sulla base di stime generali, l’ictus cere- brale si colloca al secondo posto tra le prin- La gestione integrata del rischio cardiovascolare Abstract Cardiovascular disease (CVD) is a leading cause of mortality and is responsible for one-third of all global deaths. Regrettably, surveys of physician’s clinical practice patterns indicate that the recommendations made in the guidelines are sometimes not implemented and the predefined goals of therapy for patients with cardiovascular diseases are not achieved. CVD prevention and management can only be improved through an integrated approach that addresses overall cardiovascular risk and that involve general practitioners as well as specialists. Keywords: cardiovascular disease, cardiovascular risk, integrated management Integrated management of cardiovascular risk CMI 2008; 2(3): 127-134 1 U.O. di Medicina Interna (direttore Prof. C. Borghi). Dipartimento di Medicina Clinica e Biotecnologie Applicate “D. Campanacci”. Policlinico S. Orsola Malpighi, Bologna Corresponding author Dott. Eugenio Roberto Cosentino U.O. di Medicina Interna (direttore Prof. C. Borghi). Dipartimento di Medicina Clinica e Biotecnologie Applicate “D. Campanacci”. Policlinico S. Orsola Malpighi Via Massarenti, 9 40138 Bologna ambscomp@med.unibo.it Gestione clinica Incidenza dell’ictus [3] Ogni anno negli USA si verificano circa 700.000 ictus Circa 500.000 sono primi eventi e 200.000 sono recidive Di tutti gli ictus, l ’88% è di origine ischemica, il 9% è secondario a emorra- gie intracerebrali e il 3% è secondario a emorragie subaracnoidee L’aumento della vita media della po- polazione dei Paesi industrializzati determina un aumento dell ’incidenza di ictus     Clinical Management Issues 2008; 2(3) ©SEEd Tutti i diritti riservati 128 La gestione integrata del rischio cardiovascolare La mortalità per malattie cerebrovascolari si è ridotta progressivamente dal 1965 fino al 1998, con un decremento del 62% nei ma- schi e del 58,8% nelle femmine, al quale ha fatto tuttavia seguito un arresto seguito da un lieve incremento dell’incidenza di eventi negli anni più recenti. I dati del World Health Report indicano che, nel 2004, sono morte per malattia cerebrovascolare 5,5 milioni di persone: questa patologia rappresenta quindi la seconda causa di morte nel mondo. Inoltre il 40% dei pazienti colpiti da ictus richiede una riabilitazione attiva e il costo per pazien- te è stimato in 100.000 dollari [4]. Secondo stime pubblicate dal Ministero della Salute, complessivamente, nel nostro Paese, l’ictus è responsabile di 191.000 rico- veri per acuti/anno (2% del totale, a cui corri- spondono 2.000.000 giorni di degenza/anno, ossia il 82,9% del totale) con una spesa totale di 645.000.000 euro/anno, che i ricercatori hanno descritto come un enorme impegno in termini clinici ed economici. L’ipertensione arteriosa rappresenta inoltre un importante fattore di rischio coronarico nei cui confronti, tuttavia, gli elevati valori pressori esplicano un ruolo meno esclusivo rispetto a quello espresso nei confronti della vasculopatia cerebrale [2]. Tutto ciò dipen- de strettamente dalla multifattorialità della malattia coronarica, che riserva un ruolo di co-fattore, peraltro primario, all’ipertensione arteriosa [5]. In aggiunta a quanto riportato, l’iperten- sione arteriosa determina un incremento significativo dell’incidenza di scompenso cardiaco e di arteriopatia periferica. Un ulte- riore e rilevante aspetto, emerso più recente- mente, è quello rappresentato dalla relazione tra elevati valori pressori e compromissione della funzionalità renale. Infatti, in accordo con i dati proposti dall’United States Renal Data System (USRDS), la proporzione di pa- zienti ipertesi che va incontro a insufficienza renale terminale risulta progressivamente crescente, in netta controtendenza rispetto al trend delle complicanze cardiovascolari maggiori [7,8]. L’aumento dell’incidenza e della preva- lenza di insufficienza renale (IR) emerge anche dai dati relativi agli Stati Uniti dove i pazienti in dialisi e trapianto erano più di 320.000 nel 1998 e si prevede possano rag- giungere i 650.000 nel 2010. Dato il costo del trattamento dialitico, ciò comporterà un preoccupante aumento della spesa sanitaria (Figura 1) [8]. La situazione in Europa è allarmante. In- fatti l’insufficienza renale lieve ha una pre- valenza anche più elevata che negli USA, attestandosi al 42%, mentre i gradi moderati, severi e avanzati sono altrettanto frequenti in Europa e nella popolazione americana (Fi- gura 2). I dati dell’EDTA (European Dialysis and Trasplant Association) riportano una cifra di oltre 13.000 nuovi pazienti in dialisi nel 2002, di cui 4.000 nella fascia di età 61-74 anni e una prevalenza di oltre 5.000 pazienti tra i 65 e i 75 anni. Se stimiamo la situazione in Italia (ove mancano rilevazioni dirette), nel nostro Paese dovrebbero esserci circa 25 milioni di individui con insufficienza renale lieve o moderata e la prevalenza degli stadi precoci dell’IR è ancora più elevata. L’insufficienza renale cronica (IRC) si associa a un rischio elevato di danno car- diovascolare, l’ipertensione arteriosa gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo di complicanze renali. Il rapporto tra la pre- senza di ipertensione e il danno renale è ben noto: i dati del MRFIT (The Multiple Risk Factor Intervention Trial) dimostrano che i pazienti con pressione arteriosa più eleva- Figura 1 Stima del costo della dialisi nei prossimi dieci anni: circa 1,1 trilioni di dollari [8] 0 200 400 600 800 1.200 2001-20101991-20001981-1990 1.000 Co st o de lla di al is ip er de ce nn io (m ili ar di di do lla ri) Anno Conseguenze dell’ictus [5,6] Seconda causa di morte nel mondo (oltre 5 milioni di morti/anno) Il 40% dei pazienti colpiti da ictus ri- chiede una riabilitazione attiva Il costo per paziente è stimato in 100.000 dollari I problemi cor relati comprendono: l ’handicap fisico, la depressione, la di- sfunzione cognitiva     Clinical Management Issues 2008; 2(3) ©SEEd Tutti i diritti riservati 129 E. R. Cosentino, E. R. Rinaldi, C. Borghi ta hanno maggiori probabilità di finire in dialisi (Figura 3) [10]. A sua volta questo è gravato da una elevata mortalità, 10-30 vol- te superiore nei pazienti in dialisi che nella popolazione generale. La sindrome metabolica (SM) è, per de- finizione, una situazione clinica in cui sono presenti vari fattori di rischio. In effetti quando tali fattori sono associati, come ap- punto in questo caso, il rischio aumenta con il crescere dei fattori presenti. Si crea quindi un circolo vizioso in cui la sindrome meta- bolica può causare insufficienza renale che può a sua volta aggravare la SM. L’aumento del numero di pazienti che necessitano di dialisi è dovuto a due pato- logie: la nefropatia vascolare e la nefropatia diabetica. È stabile il numero delle restanti nefropatie. Tra la popolazione di pazienti a rischio cardiovascolare, una posizione di assoluto rilievo spetta certamente ai pazienti diabe- tici che presentano, in media, un’incidenza di complicanze renali largamente superiori a quelle che si osservano nella popolazione non diabetica. Il profilo di rischio risulta poi particolarmente complicato quando il dia- bete si associa alla presenza di ipertensione arteriosa la quale, peraltro, rende più com- plesso il quadro clinico in una percentuale di pazienti diabetici superiore al 60% (80% in presenza di proteinuria). 0 10 20 30 40 50 Lieve 90-60 ml/min Moderata Severa Avanzata Dati europei Dati USA Pr ev al en za (% ) 31% 42% 4,3% 4,9% 0,2% (400.000) 0,1% 0,2% (400.000) 0,1% Figura 2 Prevalenza dell ’insufficienza renale nella popolazione generale [9] 0 1,0 2,0 3,0 4,0 In ci de nz a m al at tia re na le te rm in al e (% ) 1,5 2,5 3,5 Ipertensione stadio II Ipertensione stadio III Ipertensione stadio IV Ipertensione stadio I PAB normale ma non ottimale PAB normale elevata PAB ottimale 0,5 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 1817 Anni dallo screening Figura 3 Incidenza di insufficienza renale terminale nel follow-up in rapporto ai valori pressori: studio MRFIT [10] PAB = Pressione arteriosa basale Clinical Management Issues 2008; 2(3) ©SEEd Tutti i diritti riservati 130 La gestione integrata del rischio cardiovascolare La malattia diabetica rappresenta una delle cause principali di insufficienza renale. La nefropatia diabetica non è l’unica forma di nefropatia che si riscontra in un paziente diabetico: in tali soggetti, infatti, sono fre- quenti le nefropatie vascolari e non infre- quenti altre glomerulopatie che richiedono spesso una valutazione bioptica. La malattia cardiovascolare è infatti la principale causa di morte nei soggetti affetti da IRC. La grande prevalenza e incidenza delle malattie cardiovascolari in corso di IRC è la conseguenza della presenza con- centrata, in questi soggetti, di un elevato numero di fattori di rischio cardiovascolare sia tradizionali (età avanzata, ipertensione arteriosa, dislipidemia, iperglicemia, fumo di tabacco, sedentarietà e menopausa), che non tradizionali o propri della condizione di nefropatico come l’anemia cronica, l’ipe- romocistinemia, la trombofilia e le anomalie del metabolismo fosfo-calcico. Inoltre, anche la semplice elevazione della creatinina sierica come tale contribuisce ad aumentare sia il rischio globale di morte che quello di svilup- po di malattie cardiovascolari, suggerendo come l’identificazione precoce dei soggetti che presentano alterazioni della funzionalità renale rappresenti un aspetto essenziale della prevenzione cardiovascolare ad ampio spet- tro. Tutto ciò determina il fatto che i pazienti che presentano tali alterazioni si collochino in un ambito di rischio cardiovascolare com- preso tra il livello elevato e molto elevato, il che corrisponde strettamente alle evidenze epidemiologiche. PerCezIone deL rIsChIo CArdIovAsCoLAre Il concetto di globalità del rischio car- diovascolare (CV ) ha ricevuto nel corso di questi ultimi anni una grande attenzione derivante soprattutto da una maggiore per- cezione del fatto che una sua valutazione mediante strumenti relativamente semplici possa tradursi in un enorme vantaggio pre- ventivo attraverso l’identificazione probabi- listica di quei pazienti che, nell’ambito della popolazione generale, presentano una mag- giore probabilità di sviluppare complicanze cardiovascolari [11]. Secondo una definizione operativa, il rischio cardiovascolare globale che carat- terizza ciascuno soggetto è «la probabilità complessiva che quel soggetto sviluppi un determinato evento CV in un dato inter- vallo di tempo». Ad esempio, affermare che un soggetto ha un rischio del 20% a 10 anni significa che quell’individuo, nei 10 anni successivi alla data della valutazione del suo profilo di rischio, ha 20 probabilità su 100 di sviluppare una complicanza car- diovascolare. In altre parole significa che, se noi consideriamo tutta la popolazione che è caratterizzata dal profilo di rischio analogo a quello identificato come sopra, possiamo essere ragionevolmente certi che 1/5 di tali soggetti svilupperà un evento cardiovascolare nell’intervallo di tempo previsto. Tale aspetto riveste, come ovvio, una ri- levanza sostanziale e attribuisce al concetto di rischio CV la potenzialità di stratificare i soggetti nell’ambito della popolazione ge- nerale, identificando ragionevolmente quelli che necessitano di strategie di prevenzione più aggressive e nei cui confronti è doveroso proporre un maggiore impegno delle risorse disponibili. Fra i fattori che condizionano la stima del rischio CV vanno annoverate le caratteri- stiche intrinseche del soggetto rappresen- tate soprattutto da età, sesso e familiarità per malattie CV (e probabilmente profilo genetico), che condizionano significativa- mente il profilo di rischio globale, ma nei cui confronti le possibilità di intervento sono, attualmente, pressoché nulle. Ciononostante per il medico di medicina generale la valuta- zione di tali determinanti del rischio riveste un ruolo essenziale, in quanto esse agiscono come moltiplicatori del potenziale di rischio correlato ad altri fattori modificabili nei cui confronti l’aggressività del trattamento può risultare, quindi, significativamente diversa in concomitanza con il diverso livello cui si collocano i fattori intrinseci. In altre parole lo stesso livello di pressione o di colesterolemia plasmatica può tradursi in un diverso profilo di rischio globale a seconda che il paziente sia più o meno anziano, sia maschio o fem- mina o presenti o meno una familiarità per le malattie cardiovascolari. Un secondo fattore di grande rilevanza nella stima del rischio è rappresentato dal- l’intervallo di osservazione che si decide di adottare, il quale può variare significati- vamente condizionando il significato della previsione clinica. Nonostante nella grande maggioranza dei casi il rischio CV venga stimato su un intervallo di 10 anni è tuttavia indispensa- bile che tale aspetto venga opportunamen- te specificato quando si definisce l’ambito di rischio, in quanto, a parità di condizioni Clinical Management Issues 2008; 2(3) ©SEEd Tutti i diritti riservati 131 E. R. Cosentino, E. R. Rinaldi, C. Borghi di rischio intrinseco, qualsiasi modifica in senso riduttivo o estensivo dell’intervallo di osservazione è ovviamente destinata a tra- dursi in un incremento o in una riduzione della probabilità di un evento CV. In parti- colare, se immaginiamo una relazione linea- re tra tempo e rischio di eventi quale quella che spesso caratterizza le complicanze CV, possiamo osservare come la probabilità di un evento, e quindi il rischio CV del soggetto sia direttamente proporzionale alla durata del periodo di osservazione (ad esempio un rischio di infarto miocardico acuto, IMA, del 5% a 5 anni e un rischio di ictus del 10% a 10 anni sono esattamente identici e anche se una lettura indipendente dal tempo rischie- rebbe di attribuire all’ictus un potenziale patologico più rilevante). Conseguentemente, l’intervallo di osser- vazione per il medico di medicina generale deve sempre essere specificato nella tradu- zione pratica dell’algoritmo di rischio, per ottenere una stima efficace dell’intervallo di tempo in cui è possibile applicare con suc- cesso le strategie di prevenzione. Il terzo elemento essenziale per la defi- nizione più accurata possibile del rischio CV è rappresentato dall’identificazione dei determinanti del rischio impiegati per fornire una stima globale dello stesso, che possono essere significativamente diversi tra le diverse metodologie impiegate e con- seguentemente condurre a interpretazioni non univoche del profilo di rischio anche nello stesso soggetto. Un esempio rilevante è certamente rappre- sentato dalla carta del rischio SCORE [12] adottata dalla Società Europea di Cardiolo- gia che non annovera tra i determinanti del rischio CV la presenza di diabete e propone pertanto una stima del rischio CV del sog- getto che manca di un importante elemento il cui ruolo viene valutato, in sede di defini- zione del rischio globale, incrementando la stima conservativa che emerge dal calcolo attraverso la moltiplicazione della stessa per un coefficiente fisso che rappresenta empiri- camente l’eccesso di rischio conseguente alla presenza di malattia diabetica. Tutto ciò permette di comprendere chia- ramente come la scelta dei determinanti del rischio da considerare rappresenti un momento essenziale in grado di collocare lo stesso paziente in una condizione di rischio teorico significativamente diversa. Per tutti questi motivi, la gestione del ri- schio cardiovascolare e dei provvedimenti ad essa correlati da parte del medico di me- dicina generale non può essere lasciata ad un’interpretazione arbitraria e soggettiva, ma deve necessariamente trarre spunto da una visione globale del paziente e delle sue caratteristiche e da una conoscenza e appli- cazione obiettiva delle strategie di intervento applicabili quali emergono dai risultati de- gli studi clinici controllati e della disciplina delle evidenze. La soluzione più efficace e immediata del problema è pertanto rap- presentata dalla stesura di opportune linee guida che, a partire da una base di evidenze obiettive, siano in grado di sviluppare stra- tegie di intervento terapeutico e preventivo nelle quali riconoscere quei criteri di ampia applicazione che contraddistinguono l’in- tervento clinico efficace nei confronti di una fenomenologia come quella del rischio cardiovascolare caratterizzata da dimensioni epidemiche. Complessivamente, pertanto, l’identifi- cazione del profilo di rischio di un soggetto ha grande rilevanza clinica per il medico di medicina generale, ma anche estrema importanza in termini economici e di ge- stione razionale delle risorse disponibili per la prevenzione, in quanto permette di indirizzare una quota maggiore delle stesse per attuare una prevenzione efficace in quei soggetti che ne possono trarre un maggiore beneficio. Le dIMensIonI deL ProbLeMA Per un’integrazione sinergica tra profes- sionisti coinvolti nella gestione del rischio CV, al medico di medicina generale spetta il compito della prima diagnosi e della pri- ma impostazione della terapia, oltre che la verifica dell’efficacia, tollerabilità e aderenza al trattamento (Tabella I). Il ruolo dello specialista invece prevede il supporto diagnostico alla prima diagnosi, il controllo dei fattori di rischio di diffici- le sorveglianza e la gestione delle eventuali complicanze. Nella gestione dei fattori di rischio car- diovascolare, il passaggio dalla semplice prescrizione al coinvolgimento del paziente nel problema costituisce una delle maggio- ri peculiarità e novità del ruolo del medico generalista. John Murtagh, saggio medico australiano, fornisce alcune possibili risposte in merito a cosa possa essere utile, nella pratica, a stimo- lare e mantenere l’attenzione del paziente sul problema dell’ipertensione [13]: Clinical Management Issues 2008; 2(3) ©SEEd Tutti i diritti riservati 132 La gestione integrata del rischio cardiovascolare Ruolo del medico di medicina generale Prima diagnosi e prima impostazione della terapia Verifica dell’efficacia, tollerabilità e aderenza al trattamento Specificità del ruolo: dalla semplice prescrizione al coinvolgimento    Ruolo dello specialista Supporto diagnostico alla prima diagnosi Ipertensione secondaria/in gravidanza Ipertensione di difficile controllo Crisi ipertensiva     fare uso di tessere, diari o tabelle in cui riportare i valori misurati a domicilio e/o in ambulatorio; distribuire opuscoli, dépliant, handout con materiale educativo; elaborare schemi posologici chiari, sem- plici e comprensibili, tenendo conto del “sovraffollamento terapeutico” dei sog- getti anziani; effettuare una programmazione adeguata dei controlli sia domiciliari sia ambula- toriali.     tabella I Ambiti di competenza della medicina territoriale e di quella ospedaliera/specialistica. Si tratta di una ipotesi di lavoro che, se rispettata, consentirebbe una gestione integrata senza confusione di ruoli Da parte del medico di medicina generale Cenni sulla storia clinica Motivo della richiesta Quesiti o dubbi diagnostici e/o terapeutici    Da parte dello specialista Risposte ai quesiti Motivazioni alla base delle risposte Prescrizione di ulteriori indagini Proposta di successivi controlli     tabella II Scheda di flusso informativo tra medico di medicina generale e specialista La letteratura conferma l’importanza del- l’intervento del medico nel rendere concreti e utili le indicazioni relative a un adegua- to stile di vita. Lo studio DEW-IT (Diet, Exercise, and Weight Loss Intervention) ha evidenziato come soggetti sottoposti a stile di vita corretto (alimentazione, perdita di peso e attività fisica), dopo un anno di ad- destramento, mostravano una significativa riduzione della pressione arteriosa, rispetto al basale (Figura 4 A e B), mentre il gruppo di controllo (Figura 4 C e D) non presenta- va alcuna modificazione. Questa riduzione, misurata con il monitoraggio ambulatorio della pressione delle 24 ore, era significativa sia per la sistolica (Figura 4 A e C) che per la diastolica (Figura 4 B e D) [14]. Trasformare le indicazioni in merito al cor- retto stile di vita in un reale cambiamento di abitudini da parte del paziente non è sempli- ce. Ad esempio è facile dire ai soggetti iper- tesi ad alto rischio CV di eseguire maggiore attività fisica: è però compito del medico di medicina generale contestualizzare questo messaggio traducendolo in un tragitto reale che consenta agli ipertesi ad alto rischio di camminare per 30-60 minuti al giorno. Un altro aspetto dell’attività del MMG riguarda la durata della visita. Alcune visi- te si possono risolvere in pochi minuti nel caso della compilazione di una ricetta o per una prescrizione routinaria di esami clinici. A fronte di queste, altre possono richiede- re invece 20-30 minuti. Altre variabili che condizionano la durata della visita sono l’eventuale presenza di nuove problematiche cliniche, che richiedono un tempo maggiore per essere esaminate, e la presenza di pazienti anziani, che presentano maggiori problemi aperti. Nel tempo di una visita il MMG deve ascoltare, prevenire, diagnosticare, prescrive- re, decidere e consigliare. Frequente è inoltre la necessità da parte del MMG di richiedere un consulto a uno specialista. Vanno distinte due situazioni: quella del paziente inviato allo specialista per il problema ipertensione e quella del paziente inviato per una patologia conco- mitante, nella quale l’ipertensione arteriosa si presenta come un problema trasversale. In ogni caso, il medico di medicina generale dovrebbe inviare una specie di check-list allo specialista; il documento dovrebbe riportare il dosaggio dei farmaci, le misurazioni della pressione arteriosa, l’aderenza alla terapia, le indagini diagnostiche e le eventuali notizie sullo stile di vita. Dall’altra parte lo spe- cialista dovrebbe indicare se vi sono state discrepanze fra le misurazioni cliniche am- bulatoriali ed extra ambulatoriali, se vi sono stati messaggi contraddittori sul significato dell’ipertensione arteriosa, provenienti da ambienti non professionali, se l’accesso al- l’ambulatorio specialistico è stato agevole e il tempo disponibile per il paziente adeguato. Un buona comunicazione è alla base di una corretta e serena integrazione professionale (Tabella II). Una possibile, ma determinante, risoluzio- ne verso una corretta integrazione tra ospe- dale e territorio nella gestione del soggetto ad elevato rischio CV è quella di migliorare l’organizzazione dell’assistenza. La moderna organizzazione di lavoro deve prevedere una medicina di gruppo, di rete o in associazione, un ambulatorio adatto per le patologie più complicate, servizi di telemedicina e servizi di telecomunicazione avanzati. Clinical Management Issues 2008; 2(3) ©SEEd Tutti i diritti riservati 133 E. R. Cosentino, E. R. Rinaldi, C. Borghi Accertamenti diagnostici di II livello Procedure concordate di gestione: flussi informativi adeguati messaggi sempre univoci definizione degli ambiti    Paziente condiviso Scelta adeguata (motivo della condivisione) Espletamento procedure burocratiche (esenzioni) Coordinamento fra più specialisti PuntI ChIAve deLL’InteGrAzIone osPedALe-terrItorIo: IL PAzIente CondIvIso Figura 4 Risultati dello studio DEW-IT [14] 110 120 130 140 150 Pr es si on e ar te rio sa si st ol ic a (m m Hg ) Ore 46 8 10 12 14 16 18 20 22 0 2 Gruppo stile di vita 60 70 80 90 100 Pr es si on e ar te rio sa di as to lic a (m m Hg ) Ore 46 8 10 12 14 16 18 20 22 0 2 Gruppo stile di vita Basale Follow-up 110 120 130 140 150 Pr es si on e ar te rio sa si st ol ic a (m m Hg ) Ore 46 8 10 12 14 16 18 20 22 0 2 Controlli 60 70 80 90 100 Pr es si on e ar te rio sa di as to lic a (m m Hg ) Ore 46 8 10 12 14 16 18 20 22 0 2 Controlli A b C d Clinical Management Issues 2008; 2(3) ©SEEd Tutti i diritti riservati 134 La gestione integrata del rischio cardiovascolare bIbLIoGrAFIA 1. 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