Clinical Management Issues 2008; 2(1) ©SEEd Tutti i diritti riservati Clinical Management Issues � Adriano Pessina 1 La relazione con il paziente terminale Nella medicina contemporanea sono stati molto valorizzati i temi della comunicazione con il paziente, della corretta informazione, del rispetto della sua autonomia decisionale, anche se tutto ciò si è spesso risolto in ter- mini puramente procedurali, dando vita a moduli di consenso informato, più o meno standardizzati, che, con il tempo, si sono mostrati per quello che sono: una forma di delega di responsabilità che tutela giuridi- camente il medico e lo mette al riparo – in parte – da quei contenziosi che derivano dal- l’aumentata pratica di una medicina pensata in termini eminentemente contrattualistici. Non tutte le informazioni si possono fornire con un pezzo di carta e ci sono notizie che i medici amano dare di persona: sono quelle che sanciscono un risultato sperato. Ma ci sono notizie che sono difficili da comunicare: sono quelle che riguardano il fallimento di un intervento, o che annunciano la possibi- lità di una morte più o meno imminente. Il dovere di dire la verità al paziente sembra, in questi casi, incontrare molti ostacoli, che si materializzano in vari interrogativi: a chi tocca parlare, come lo si deve fare, quando lo si deve fare. E anche se esistono vari sug- gerimenti psicologici che possono aiutare il medico ad attuare una corretta comunica- zione, il problema resta. Se, infatti, osservia- mo attentamente la situazione, ci rendiamo facilmente conto di come queste domande abbiano, spesso, sullo sfondo, una incon- fessata finalità: “liberarsi” al più presto da un’incombenza sgradevole. Fare bene, certo, ma soprattutto fare presto per rimuovere una situazione che di fatto grava esistenzialmen- te, psicologicamente e professionalmente sul medico. In effetti, quando si introduce l’ar- gomento della morte non solo come possibi- lità statistica, ma come evento prossimo che qualcuno che ci sta di fronte dovrà affronta- re, muta il senso stesso della relazione. Nes- suna relazione professionale in quanto tale può farsi carico della questione esistenziale del morire. Le competenze scientifiche sono azzerate di fronte a qualcosa che riguarda la condizione umana e ne determina un aspetto tanto singolare quanto universale. Il dobbia- mo morire è diverso dal sapere che colui con il quale sto parlando, a cui stringerò la mano per salutarlo, sta per morire. Ciò che più si teme è il rischio di diventare permeabili alla sofferenza, di dover soppor- tare qualcosa a cui, in fondo, spesso, non si è preparati, non tanto in termini psicologici o procedurali, ma in termini esistenziali. Si pensa, in effetti, che soltanto mantenendo una giusta distanza con le sofferenze e i disa- gi esistenziali altrui si possa esercitare la pro- fessione medica: questa convinzione ha una parte di verità, ma non deve farci dimenticare che non è rimuovendo o nascondendo la fa- tica dell’esistere che la si può affrontare nelle sue differenti forme. Nella relazione con il paziente terminale ci sono due soggettività che si possono incontrare soltanto se en- trambe sono disponibili alla cosa più difficile: all’ascolto e, a volte, al silenzio come potente mezzo di comunicazione. Molte volte si tra- scura questo aspetto della relazione, e cioè il momento dell’ascolto e dell’accoglienza della paura, a volte della disperazione, della perso- na che deve affrontare la consapevolezza del morire e a cui dobbiamo offrire la possibilità di parlare della propria imminente morte. Editoriale 1 Professore Straordinario di Filosofia Morale, Direttore del Centro di Ateneo di Bioetica Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Corresponding author Prof. Adriano Pessina adriano.pessina@unicatt.it Clinical Management Issues 2008; 2(1) ©SEEd Tutti i diritti riservati � Editoriale Con chi, infatti, potrà sfogare le proprie angosce, con chi potrà esprimere i propri timori, con chi potrà condividere i propri bilanci esistenziali e le proprie delusioni? La risposta che siamo soliti dare è che si tratta di una questione personale, che deve trova- re la sua collocazione nell’alveo famigliare, o all’interno di eventuali strutture di aiuto e di conforto. Nel migliore dei casi, inoltre, il paziente può essere indirizzato a qualche psicologo o, se religioso, a qualche sacerdote. Del resto, si osserva, non è possibile fare di più. La professione del medico è, in fondo, un mestiere altamente specializzato, che non contempla anche una preparazione di ordi- ne psicologico, né si possono chiedere virtù eroiche a chi la esercita, né si può ipotizza- re un impiego del tempo (già così scarso, si suole dire) che sottragga il medico alle sue attività di ricerca, alla sua prassi clinica. Sono tutte osservazioni ineccepibili. Se restiamo all’interno della logica dei di- ritti e dei doveri, è sufficiente una comuni- cazione veritiera, corretta, aperta, capace di non togliere la speranza al paziente (come insegna anche il codice deontologico, senza però spiegare come si possa fare), per as- solvere all’ingrato compito di dare brutte notizie. Ma se cambiamo la prospettiva, se cerchia- mo di pensare nei termini della condizione umana del nostro paziente (un nostro che indica qualcosa di più di un legame profes- sionale?), allora comprendiamo che è possi- bile fare qualcosa di più: offrire un’autentica disponibilità all’ascolto. Comunicare sul posto di lavoro, che è lo studio medico, qualcosa che riguarda la dimensione più intima del- la persona umana, cioè la sua fine, significa esporla esistenzialmente in un ambiente in cui incombe, per sua natura, l’impersonalità e l’estraneità. Per il paziente, soffrire in un letto d’ospe- dale, che è diventato il suo mondo esisten- ziale, significa soffrire in un ambiente che è anche il posto di lavoro di altri: significa interferire con le dinamiche e i tempi di la- vori di altri. Venire a conoscenza della pro- pria morte, più o meno imminente, dentro questi ambienti significa scoprire la propria radicale solitudine, perché fuori da quegli spazi la vita continua e il tempo altrui di- venta un tempo estraneo quando il proprio tempo si fa breve. Di fronte a questa situazione occorre crea- re uno spazio umano alla comunicazione infausta e questo avviene, mi sembra, lad- dove si crei una reale possibilità di ascolto. Ascoltare: una delle più difficili attività uma- ne. Perché noi siamo soliti udire le parole, sentire i suoni, percepire i rumori: ascoltare significa pazientare, cioè adeguarsi ai tempi della comunicazione altrui e non imporre i nostri tempi a chi sa che il proprio tempo è divenuto breve, troppo breve. Ora, questo ascolto mi sembra particolarmente doveroso quando ci si deve occupare di giovani pazien- ti, di bambini, di ragazzi, di adolescenti. Ciò che dico non deriva da alcuna espe- rienza specifica, e questo parrà, a molti, un limite, perché spesso si pensa che si possa parlare soltanto a partire da qualche espe- rienza: quello che intendo dire deriva da una riflessione di ordine filosofico. Altri potran- no dare suggerimenti concreti: ciò che, qui, vorrei però sottolineare è un altro aspetto, che potrei definire esistenziale. Noi uomini siamo disarmati di fronte alla morte, perché della morte non si ha alcuna esperienza: molti hanno esperienza del mo- rire altrui, o del decesso altrui, ma mai del- la morte. La morte depotenzia, in qualche modo, la sicurezza della nostra competenza, della nostra maturità umana. Il pensiero del morire, infatti, ci consegna a una condizio- ne di esposizione e di fragilità che ci rende, sotto certi aspetti, compagni di avventura di chi ci precederà attraversando un’esperien- za in prima persona che non è delegabile a nessuno. Ascoltare, in questi casi, significa condividere uno spazio e un tempo, nel quale le relazioni umane si intrecciano con le ir- ripetibili differenze che fanno di ognuno di noi un unico io. Il fatto che il medico, colui che possie- de l’arte della guarigione, sappia prendersi cura del proprio paziente nell’ascolto delle sue paure e delle sue tristezze è un compito, mi sembra, fondamentale, che appartiene alla struttura di chi, per usare un facile gio- co di parole, è un medico e non soltanto fa il medico. Tutto ciò è distante sia dall’immagine di una medicina paternalistica, in cui il medico pretende di sostituirsi ad altre figure signi- ficative per l’esistenza del proprio paziente, sia da quella strettamente contrattualistica, che confina l’arte medica alla diagnostica, alla clinica, alla prestazione d ’opera. Tutto ciò, piuttosto, ha a che fare con la responsabilità personale del medico di fronte alla sua stessa personalità umana. Infatti, saper ascoltare si- gnifica saper intrattenere relazioni personali che hanno a che fare con la costruzione della propria identità umana. Chi sa accogliere con serenità la propria condizione umana sa Clinical Management Issues 2008; 2(1) ©SEEd Tutti i diritti riservati � A. Pessina anche consegnare serenità a chi lo precede sulla via della morte. Il medico non può e non deve sostituirsi a nessuno, ma non deve nemmeno farsi sostituire nel suo compito, e la medicina, che è un’arte che si avvale di molte conoscenze scientifiche, richiede un’attenzione alla condizione umana che non si esaurisce in nessun approccio naturalistico, perché l’uomo è sempre di più di una com- plessa macchina organica. Tutto ciò, ripeto, diventa particolarmente rilevante laddove si ha a che fare con i giovani, con i ragazzi, con i bambini, con coloro che hanno il diritto di incontrare non soltanto un esperto, un tecni- co altamente specializzato, ma un uomo, una persona umana. Ci sono mestieri che non si imparano, se non si impara a essere uomini. Il tempo per ascoltare, il tempo per pensare, il tempo per condividere, il tempo per parlare del morire è l’unico tempo che non possiamo sacrificare laddove il tempo si è fatto breve. Un tempo che, un giorno, sarà anche il nostro. Ci sono limiti che il medico, nella sua professione, non può valicare, ma questa capacità di non sostituirsi ad altri, questa consapevolezza che dopo un paziente ce ne sarà un altro, che a una visita ne seguirà un’al- tra, non può diventare un alibi per sottrarci al compito, professionale perché umano, di ascoltare e, a volte, di ascoltarci nelle parole e nelle paure altrui.