ecj 4 2009:ecj 4 2009.qxd Materiale protetto da copyright. Non fotocopiare o distribuire elettronicamente senza l’autorizzazione scritta dell’editore. 4 em er ge nc y ca re jo ur na l - o rg an iz za zi on e, c lin ic a, r ic er ca • A nn o V n um er o IV • A go st o 2 00 9 • w w w .e cj .it editoriale emergency care journal Gli americani “so forti”! La patria della medicina d’e- mergenza, avanti di almeno quattro decenni rispetto al- la nostra realtà, è sicuramente un bacino di esperienza e cultura da cui attingere. A ragione si può affermare che per noi gli Stati Uniti possono essere esempi e maestri. Il sistema sanitario statunitense, però, non è tutto rose e fiori. Sicuramente discutibile è, ad esempio, l’eccessiva dipendenza che esiste tra portafoglio e “diritto alle cu- re”. Esistono persone che non possono permettersi un medico di famiglia e che non si rivolgono a una struttu- ra sanitaria fino a che una complicanza non li conduce in un Dipartimento d’Emergenza, altre che ricevono dia- gnosi di patologie severe ma non vengono assistite ne- gli ospedali perché senza assicurazione o perché quella che hanno non “copre” quello specifico problema o te- rapia. Tutti guardano alla riforma della sanità come un passo indispensabile per una nazione che si propone co- me modello di civiltà. E, ancora, la medicina difensiva, che nel nostro Paese ha preso il largo negli ultimi anni, negli Stati Uniti ha già condotto a pratiche e protocolli routinari per non mancare le diagnosi (come l’esecuzio- ne di TC con mezzo di contrasto per l’appendicite) che sembrano veramente esagerati e che stanno creando una generazione d’irradiati con conseguenze che solo fra qualche decennio riusciremo a comprendere fino in fon- do. Non tutto, quindi, va in un’unica direzione. Ci sono co- se da copiare e cose da scartare. La lettura di un articolo comparso sul numero di Luglio degli Annals of Emergency Medicine* mi ha offerto un punto di riflessio- ne su una delle tante iniziative che forse dovremmo in qualche modo fare nostra. L’articolo ricordava che negli Stati Uniti le visite annuali in Pronto Soccorso per dolore toracico acuto sono circa 6 milioni e che i medici d’emergenza sono responsabili di riconoscere precocemente i soggetti con sindrome co- ronarica acuta e iniziare il trattamento più appropriato. Più appropriato ai giorni nostri significa evidence-based e, allora, l’evidenza noi dove la troviamo? La risposta sa- rebbe in realtà molto più complessa di quello che sem- plicisticamente sto per affermare, ma si può ben dire in generale che le notizie EBM si trovano riassunte nelle Linee guida e, nel caso specifico, in quelle che l’American College of Cardiology e l’American Heart Association regolarmente aggiornano e pubblicano (fi- nalmente in collaborazione con le società americane di medicina d’emergenza). Per quanto riguarda queste Linee guida viene raccomandata, sinteticamente, una stratificazione del rischio tramite anamnesi, esame obiet- tivo ed elettrocardiogramma. Se la diagnosi iniziale non è raggiunta si procede (secondo tempi e modi determi- nati sulla base dell’evidenza) all’esecuzione seriata di ECG e biomarker di necrosi miocardica. Questo proces- so ci consente di classificare i pazienti in STEMI, NSTE- MI, angina instabile, o dolore toracico non-cardiaco e scegliere l’approccio terapeutico più appropriato. Tornando all’articolo degli Annals, leggevo di questo gruppo di ricercatori statunitensi che aveva condotto un’analisi secondaria dei dati di 344 ospedali per valuta- re se una certa “iniziativa”, di cui ignoravo l’esistenza, fosse stata in grado aumentare l’applicazione da parte dei medici delle raccomandazioni esistenti in materia di management delle sindromi coronariche acute. Incuriosita, non tanto del risultato dello studio quanto di questa “misteriosa” iniziativa, sono andata avanti nel- la lettura trovando un’interessante analisi di un proble- ma che con facilità riconoscevo anche come italiano. Nonostante la diffusione delle Linee guida del - l’AHA/ACC, infatti, alcune indagini dimostrano che l’a- derenza alle indicazioni evidence-based è molto variabile nella pratica clinica. Per questo. qualche tempo fa è na- ta una collaborazione tra un organismo americano noto come Society of Chest Pain Center (SCPC) e la CRUSA- DE iniziative (delle due società cardiologiche america- ne) con l’obiettivo di implementare negli ospedali la per- centuale di aderenza alle raccomandazioni sulla gestio- Gemma C. Morabito U.O.C. Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso. Azienda Ospedaliera Sant’Andrea di Roma Iniziative negli Stati Uniti: non sempre tutte condivisibili, ma in certi casi … esempi da seguire! *Abhinav Chandra et al. Analysis of the Association of Society of Chest Pain Centers Accreditation to American College of Cardiology/American Heart Association Non–ST-Segment Elevation Myocardial Infarction Guideline Adherence. Ann Emerg Med 2009; 54: 17-25. Materiale protetto da copyright. Non fotocopiare o distribuire elettronicamente senza l’autorizzazione scritta dell’editore. 5 em er ge nc y ca re jo ur na l - o rg an iz za zi on e, c lin ic a, r ic er ca • A nn o V n um er o IV • A go st o 2 00 9 • w w w .e cj .it editoriale ne delle sindromi coronariche acute. In seguito, nel 2003, la SCPC ha avviato anche un programma di accre- ditamento per gli ospedali che prevedeva la valutazione dei processi di triage e di diagnosi tramite otto punti chiave individuati come “critici”. Cinque di questi pun- ti erano misure del processo di gestione in acuto che le Linee guida dell’ACC/AHA designano come di Classe I (utili ed efficaci): 1. ECG entro 10 minuti dall’arrivo; somministrazione entro 24 ore di; 2. aspirina; 3. β-bloccanti; 4. eparina non frazionata o a basso PM; 5. inibitori glicoproteine IIb/IIIa. Lo studio aveva coinvolto oltre 33 mila pazienti trattati in 21 ospedali accreditati e 323 ospedali “normali”. Anche se ai fini di questo editoriale hanno poca rilevan- za, per dovere di completezza vi riporto i risultati della ricerca. I pazienti dei centri “SCPC-certified”, rispetto a quelli gestiti nei centri “non-accreditati”, avevano mag- giore probabilità di ricevere aspirina e β-bloccanti nelle prime 24 ore ma, per quanto riguarda i rimanenti punti analizzati (esecuzione di ECG in tempo, somministra- zione dei GPI IIb/IIIa, somministrazione di eparina, mor- talità aggiustata per il rischio), i risultati erano sovrap- ponibili. Sebbene questa analisi non dimostri differenze negli out- comes (morte, infarto miocardico acuto, shock cardio- geno, scompenso cardiaco e sanguinamenti maggiori) e lo studio non possa essere considerato conclusivo, gli autori invitano alla prudenza sottolineando come in let- teratura studi più ampi dimostrino chiaramente che una migliore aderenza alle raccomandazioni delle Linee gui- da si associa a tassi inferiori di mortalità. Nonostante l’apparente inutilità di questa ricerca (soprat- tutto alla luce della mentalità corrente che spinge alla pubblicazione dei soli studi con esito positivo), lo stesso editore degli Annals of Emer gency Medicine sottolinea l’im- portanza che questo lavoro ha nel chiarire i potenziali vantaggi di un processo di accreditamento come quello messo in atto dalla SCPC. L’esempio, scrive, potrebbe es- sere un ausilio per aumentare iniziative di questo tipo. È proprio quello che pensavo! – mi sono detta, felice di aver fatto una riflessione intelligente. In un Paese come il nostro, l’Italia, in cui molto è lasciato all’iniziativa in- dividuale, è mia opinione personale che qualcosa di più si debba fare per aumentare la valutazione di quello che le strutture e gli operatori sanitari fanno. Non si tratta di “controllare” ma di “verificare”. Non posso entrare nel merito di altre discipline e reparti cui non apparten- go e conosco superficialmente. Credo, però, che in me- dia noi medici d’emergenza, insieme a pochi altri, siamo tra quelli che più si interrogano sulla cosa giusta da fare e sono più attenti alle novità in tema di raccomandazio- ni e Linee guida. Abbiamo la mente elastica e siamo pronti all’autocritica (d’altro canto, come potremmo al- trimenti fare questo lavoro?). Tutto, però, è lasciato al- l’iniziativa personale, richiede tempo per l’aggiornamen- to (che spesso a chi lavora in emergenza non viene dato, a meno di avere un primario “illuminato”) e impone, se- condo l’attuale ignobile stile diffusosi nel nostro Paese, uno sforzo economico non indifferente per partecipare a Congressi ed eventi nei quali (con le dovute eccezio- ni) se ti va bene impari in tre giorni ciò che avresti po- tuto apprendere con due ore di buona biblioteca in com- pagnia di una tazza di caffè. La nostra formazione è un problema di tutti: delle nostre Amministrazioni, delle nostre Direzioni sanitarie e, in ul- tima analisi, della nostra società. Un medico aggiornato e ben preparato, soprattutto se lavora nell’emergenza, è una risorsa per tutti. La medicina d’emergenza, ricorda- no le definizioni statunitensi, oltre ad avere un ruolo in- sostituibile nelle emergenze cliniche ha, fra gli altri, un ruolo determinante in materia di salute pubblica. Dove se non nei nostri Dipartimenti d’Emergenza si svolge quel fondamentale ruolo sociale che è la gestione di pazienti che non hanno accesso alla sanità pubblica (o che mo- strano alle volte un semplice disagio sociale), la sorve- glianza delle malattie infettive, delle violenze sui minori o sulle donne, degli incidenti sul lavoro, degli interventi preventivi in tema di assunzione di sostanze d’abuso, e così via? Molti di quelli che contano e che oggi possono fare la differenza (nelle organizzazioni, negli investimen- ti per le risorse e, soprattutto, nella formazione) si di- menticano di essere i “pazienti” del futuro. Un giorno tro- veranno a curarli i medici che loro stessi hanno prepara- to. Sarebbe una cosa molto buona se si potesse uscire da questa fase in cui l’unica cosa che si attua è il tono inqui- sitorio e punitivo nel caso di eventi avversi, e si comin- ciasse a fare un pò di programmazione investendo i no- stri soldi per aiutare i medici a rimanere aggiornati e met- tere in pratica la nuova evidenza. La revisione dell’utiliz- zazione dei farmaci, dell’impiego della diagnostica, del- l’aderenza alle Linee guida, dell’impatto della mancanza di posto letto sulla prognosi dei nostri pazienti, e così via, possono essere cose che vanno a nostro vantaggio e che possono aiutarci a crescere. Concludendo, ci tengo anche a dire che proprio iniziative come questa della SCPC (o altre che in diversi Paesi si conducono da molto tempo) dovrebbero essere tra gli obiettivi principali delle Società scientifiche della nostra nascente medicina d’emergenza italiana. Sono anni che siamo avanti a tutti! Abbiamo lavorato e ci siamo formati (e ancora lo facciamo) da soli! Lo abbiamo fatto sulle no- stre forze, con le nostre iniziative e, quasi sempre, con i nostri soldi. Anche se non avevamo a disposizione una preparazione formale che ci aiutasse, la nostra disciplina si è imposta come una necessità. Come negli altri Paesi del mondo in cui la storia dell’affermazione della speciali- tà è ormai cosa passata, la medicina d’emergenza non na- sce da progettazioni o idee, ma per rispondere a persone in difficoltà che si ammalano e che devono essere aiutate e curate, bene e adesso…, non fra qualche anno, quando le cose cambieranno. E allora, visto che siamo “abituati”,